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Così Sofocle contestò la maggioranza iniqua
Quando la conta dei voti sancisce un abuso
Può sembrare semplificatoria l' osservazione, spesso ripetuta, secondo cui «quando parliamo dei
Greci, allo stesso tempo parliamo dell' oggi». Non è retorica. Poche epoche del passato si
presentano a noi con una tale maturità di pensiero (filosofico, etico, giudirico, politico), con una
tale avanzatissima elaborazione stilistica e tecnica dell' oratoria pubblica, per non parlare di altri
aspetti sconcertanti quali la perfezione dell' esametro omerico. Al centro dell' attività artistica
destinata alle masse, praticata ad Atene con il sostegno dello Stato, c' è il teatro. Ed è lì che il
pubblico vedeva - attraverso il filtro delle trame relative a figure più o meno mitiche -
scontrarsi idee, concezioni della vita, della morte, del destino dell' uomo, del vivere
sociale, della politica. Davide Susanetti ha appena pubblicato un volume sui sette drammi
superstiti della vastissima produzione drammaturgica di Sofocle, il «beniamino» (si usa dire) del
pubblico ateniese. (E per «pubblico», non dimentichiamolo, bisogna intendere migliaia e migliaia
di persone, più numerose spesso di quello dell' assemblea popolare). Il titolo può sembrare
troppo duro ma è, in fondo, appropriato: Catastrofi politiche (Carocci, pp. 236, 18). Qui
«politicità» è intesa nel senso più ampio, come è chiaro dal sottotitolo (Sofocle e la tragedia del
vivere insieme). E del resto in senso ampio va intesa la stessa parola greca politeia, che,
soprattutto nel V secolo a.C., indicava non soltanto il «sistema politico», ma anche lo stile della
conduzione politica della città: non soltanto, per dirla coi giuristi, la costituzione scritta e gli
ordinamenti, ma anche la «costituzione materiale». Del mutamento che convive con la
tendenziale fissità degli ordinamenti si occupa un altro libro appena pubblicato, dovuto ad un
nostro notevole storico, Giorgio Camassa: Scrittura e mutamento delle leggi nel mondo antico (L'
Erma di Bretschneider, pp. 202, 80). Da storico formatosi - tra l' altro - alla scuola di Giovanni
Pugliese Carratelli, Camassa affronta non solo il mondo greco e romano, ma anche quello
«orientale», dalla Mesopotamia all' Israele biblico. Ma certamente il cuore dell' autore batte
soprattutto in Grecia. Ed è importante l' attenzione che egli ha dedicato, nel finale, alla riflessione
teorica antica sul «mutamento delle leggi», che è quanto dire il modo in cui la costituzione
materiale, consolidandosi, diviene col tempo, a sua volta, nuova costituzione formale o codificata.
È quel processo descritto in modo geniale da Platone, nelle Leggi, là dove parla del «mutamento»
come del «legame» (desmós) tra la costituzione esistente e quella che si viene formando, per l'
appunto nel mutamento. Il tema è peraltro strettamente legato alla distinzione, vivissima
nella riflessione filosofica-giuridica greca, tra legge scritta e legge non scritta la cui
violazione - dice Pericle nell' «epitafio» - reca «vergogna universalmente riconosciuta».
Una formula precorritrice, che storicamente ha condotto all' intuizione di un diritto
«naturale»: fondamento etico profondo dell' agire morale, svincolato dalle singole
confessioni o precettistiche religiose. Questo è un tema, come ben si sa, particolarmente
sofocleo, legato alla figura e alla «disobbedienza civile» di Antigone nell' omonima tragedia.
Susanetti studia, nel suo volume, questa tragedia soprattutto dal punto di vista del potere
(«Rovine e miraggi della sovranità» è il titolo di questo capitolo), e propone una lettura
innovativa della vicenda: «Anche la norma posta da Creonte (il «tiranno», l' antagonista di
Antigone) è orale tanto quanto le leggi degli dei. Il richiamo alle norme che vivono da sempre è
semmai una mossa retorica di delegittimazione di un Creonte che si è appena insediato al
governo». Ma è forse sull' Aiace che l' autore porta il miglior contributo. Egli dedica attenzione
soprattutto alla parte finale della tragedia, quella in cui si svolge un serrato scontro dialettico tra
Teucro, fratello di Aiace, che pretende sepoltura per l' eroe suicida, e la coppia Agamennone-
Menelao, che tale sepoltura intende impedire in ragione della colpa (il massacro delle greggi) di
cui Aiace si è macchiato. Il paragrafo s' intitola «Voti truccati e principio di maggioranza».
Infatti al centro della serrata disputa che Sofocle mette in scena viene appunto affrontata
la questione delle questioni: la fondatezza o meno del principio di maggioranza. Aiace era
stato soccombente: una «maggioranza» aveva decretato che le armi di Achille toccassero a
Odisseo, non ad Aiace. Contro questo verdetto - nella sostanza iniquo ma nella forma
ineccepibile se si assume il principio di maggioranza come risolutivo e irresistibile - Aiace
è insorto. Ma la dea sua persecutrice, Atena, lo ha reso folle ed egli ha infierito nottetempo sugli
armenti, non sugli Achei addormentati nelle loro tende. «Chi è stato sconfitto in base al criterio di
maggioranza non ha diritto ad alcuna rivendicazione. Deve sottomettersi». Questo pretendono
due figure «negative» del dramma, gli Atridi. E la risoluzione del dramma viene dalla
lungimirante intelligenza di Odisseo, che comunque favorisce la sepoltura del rivale suicida,
meritandosi parole di dissenso da parte degli Atridi. Sofocle, che peraltro, da probulo, aveva
agevolato la nascita dell' oligarchia nell' anno 411, ha posto sotto gli occhi del pubblico l'
angoscioso problema in termini lucidi e dilemmatici. La «maggioranza» non ha
necessariamente ragione. Anche se costituisce (o dovrebbe costituire) uno strumento del
convivere civile, il principio di maggioranza - come bene spiegò Edoardo Ruffini in un
fondamentale libretto ristampato da Adelphi negli anni Settanta - non ha alcun fondamento né
logico né razionale. RIPRODUZIONE RISERVATA
Canfora Luciano
Se Prometeo indica il futuro
La tragedia di Eschilo tradotta e riletta da Edoardo Boncinelli Il tema Sofocle lo
reinterpretò in modo problematico: per lui la «techne» può prendere la via del
bene o quella del male, dipende dall' uomo
P rometeo, figlio del Titano Giapeto, apparteneva a una stirpe divina. Ma amava
molto gli esseri umani, ai quali un giorno, dopo averlo rubato agli dèi, fece dono
del fuoco: lo strumento che consentì loro di intraprendere la strada del
progresso, accorciando la distanza che li separava dagli immortali. Per punirlo,
Zeus lo fece incatenare a una roccia agli estremi confini del mondo,
immobilizzato da catene di ferro che lo serravano agli arti e al torace,
condannato a subire atroci, infiniti tormenti. Così il Titano ribelle veniva
rappresentato sulla scena ateniese. Così venne rappresentato, più precisamente,
quando Eschilo, attorno al 470 a.C., mise sulla scena il Prometeo incatenato
(parte di una trilogia per il resto andata perduta, che comprendeva,
rispettivamente prima e dopo quello «incatenato», un Prometeo portatore di
fuoco e un Prometeo liberato). Dei dubbi sulla autenticità della tragedia non
parleremo, non solo perché questione filologica impossibile da affrontare in
questa sede, ma anche e soprattutto perché quel che qui interessa, oggi, è
soprattutto il contenuto dell' opera. Rispettando la regola della «distanza
tragica», secondo la quale quel che veniva portato sulla scena doveva distaccarsi
dalla particolarità, dalla specificità del presente, la storia di Prometeo induceva
gli ateniesi a riflettere su un tema molto importante nella Atene che, nel V secolo
a.C., aveva raggiunto il massimo del suo splendore: l' incivilimento del genere
umano e le conquiste del progresso, di cui gli ateniesi andavano giustamente
fieri. E che oggi, a distanza di duemilacinquecento anni, è importante come forse
non è stato mai. In una bella prefazione alla nuova traduzione di Edoardo
Boncinelli, (Eschilo, Prometeo incatenato. L' uomo dal mito alla vita artificiale,
Editrice San Raffaele, pp. 118 euro 14), Luca Ronconi (al quale si deve una
splendida messa in scena del Prometeo nel teatro greco di Siracusa, nel 2002, e
successivamente al Piccolo Teatro di Milano) osserva, giustamente, che «un filo
percorre tutta la tragedia: che cosa accadrà domani»? E prosegue: «Se mai un'
epoca si è chiesta cosa accadrà domani, questa è la nostra. Senza per ciò cercare
in questa o in altre opere del passato un rapporto diretto. Sarebbe chiudere gli
occhi sulla nostra contemporaneità. No, dobbiamo guardare ai grandi testi del
passato come alla luce di stelle che non ci sono più. Quello che conta è l' energia
originaria. Questo il loro fascino. La sola attualità è nei nostri occhi di lettori
critici». E come tali appunto, sulla scorta delle parole di Ronconi, eccoci dunque
a rileggere la storia del figlio di Giapeto. Personaggio ambiguo, astuto,
preveggente (come dice il suo nome «colui che sa, che vede prima») Prometeo, lo
abbiamo detto, era amico dei mortali che aveva difeso a cominciare dal momento
in cui Zeus, conquistato il potere, aveva preso a distribuire doni e prerogative a
tutti, senza tenere alcun conto della stirpe degli umani, che voleva addirittura
sterminare mandandoli nell' Ade, per sostituirli con una nuova stirpe. Donando
loro il fuoco, Prometeo non li aveva solo salvati dalla distruzione, aveva
consentito loro di intraprendere il camino della civiltà: prima, essi «non
conoscevano case di mattoni alla luce del sole, abitavano invece come minute
formiche nei recessi oscuri delle caverne»; non conoscevano l' agricoltura, né le
stelle, né i numeri e i segni dell' alfabeto; non sapevano aggiogare gli animali
selvatici, interpretare i sogni, solcare i mari con le navi. Non conoscevano la
medicina, non sapevano come contrastare le malattie... È Prometeo stesso a fare
l' elenco delle benemerenze conquistate nei confronti dell' umanità, che si
conclude con una orgogliosa rivendicazione: «Tutte le arti (technai) dei mortali
vengono da Prometeo» (vv. 442-471; 476-506). A dimostrare l' importanza del
tema, nella Atene dell' epoca, sta il suo ritorno, di lì a poco, nello splendido,
primo stasimo dell' Antigone di Sofocle (vv.332-375). Ma attenzione: anche se
erano passati meno di trent' anni (Antigone andò in scena nel 442 a.C.), la
prospettiva di Sofocle era diversa. In Eschilo, Prometeo è un eroe
benefattore senza ombre. La visione eschilea del progresso è
fondamentalmente ottimistica, alle origini di esso il poeta riconosce il
dono di un dio: un ribelle, certo, ma pur sempre un dio. In Sofocle,
invece, il rapporto tra l' essere umano e il progresso è visto in termini
problematici: l' umanità ha trovato rimedio a tutto, tranne che alla
morte, e «possiede, oltre ogni speranza, l' inventiva della techne, che è
saggezza». Ma può prendere sia la via del bene, sia quella del male, può
rivolgere la techne in due direzioni: può farne un uso giusto, ma se il suo
coraggio diventa arroganza può farne un cattivo uso (vv.364-371). La
civiltà e il progresso sono il frutto dell' ingegno umano. L' uomo, «la più
mirabile tra quante cose mirabili esistono» (vv.333-363) guarda con
orgoglio alle sue conquiste: ma sa che queste tengono in sé un pericolo.
Il valore morale del progresso dipende dall' uso che l' essere umano ne
fa. Il dio è scomparso. È un' etica laica, quella che Sofocle esorta i suoi
concittadini a discutere, con questi versi. Un' etica che pone l' uomo
davanti alla sua responsabilità. Non è un caso, certamente, che a proporci
questa nuova, bella traduzione della storia di Prometeo sia uno scienziato (oltre
che appassionato grecista) come Edoardo Boncinelli. RIPRODUZIONE
RISERVATA **** Protagonisti In alto, Edoardo Boncinelli. Sopra, una scena del
«Prometeo incatenato» messo in scena da Luca Ronconi al Teatro greco di
Siracusa foto Omega / Ragonese
Cantarella Eva
LA CULTURA NON È COMMESTIBILE TAGLI ALLA CULTURA
IL TEATRO DELLA VITA
Il teatro della vita (e della politica)
Fa una certa impressione, e non solo agli appassionati, pensare che, anche solo
per un giorno, in tutta l' Italia il teatro taccia, sia chiuso. Non è solo una
preoccupazione culturale in senso stretto; quei palcoscenici - grandi o piccoli,
sacri templi dello spettacolo o ardite e fugaci messinscene di gruppi avventurosi,
opere classiche o provocatoriamente dissacranti - fanno parte del paesaggio d'
Italia, del paesaggio della nostra vita. Attori o cantanti che entrano o escono
dalla scena, parole immortali o amabili battute scacciapensieri che vivono sul
palcoscenico e restano nell' aria, sono - anche a prescindere dalla grandezza di
alcuni capolavori - uno sfondo della nostra esistenza come il mare o la collina
della città natale. Anche quando non si va a teatro o al cinema, fa piacere sapere
che comunque ci sono. Naturalmente si può benissimo vivere anche senza teatro
e ci sono beni immediatamente più necessari e indispensabili, dal pane alle cure
mediche. Il teatro sciopera per protesta contro i tagli ai finanziamenti senza i
quali non può sopravvivere. Non ho alcuna competenza per valutare se e fino a
qual punto quei tagli siano inevitabili, in che misura potrebbero essere mitigati,
con quale giustizia o ingiustizia colpiscano l' una o l' altra istituzione, quali altri
spese invece inutili potrebbero essere limitate a beneficio del teatro e dello
spettacolo in generale. Spesso, inoltre, quando si parla di cultura la si identifica
arbitrariamente con alcuni suoi settori - la letteratura, l' arte, la musica, il teatro,
il cinema - come se il diritto, l' economia, la medicina, la matematica e la fisica e
tante altre attività umane non fossero altrettanto «cultura» e non richiedessero
quindi creatività, spirito critico, capacità di osservazione e di analisi quanto il
romanzo. Il teatro, tuttavia, ha da millenni un ruolo fondante non solo nell' arte,
ma anche nella vita comune della Polis, ossia, nel senso più alto del termine,
della politica. È un' arte in cui l' irripetibile e insostituibile creatività individuale
(dell' autore, del regista, dell' attore, dello scenografo e via dicendo) si fonde in
una coralità che, senza mortificarla, va al di là di essa e ne fa un' opera
sovraindividuale, un' espressione insieme personale e collettiva o meglio corale.
Quest' ultima, a sua volta, instaura un dialogo non solo con ogni singolo
individuo, ma con la società e la civiltà da cui essa nasce e che essa interpreta,
per celebrarle o per criticarle. Dalle origini rituali e religiose alle sacre
rappresentazioni, al teatro totale wagneriano, a quello epico brechtiano a ogni
forma - anche la più iconoclasta e lacerata, o l' esperimento più solitario e ribelle
- il teatro è un evento pubblico ed è un fondamento della comune vita civile. Il
teatro classico contribuisce in misura determinante a fondare la democrazia
della Polis greca, a sua volta fondamento della civiltà occidentale. Le «leggi non
scritte degli dèi» di Antigone, ossia i princìpi universali che nessuna legge
positiva può violare, essenza dell' umanità, nascono non a caso sulle scene di
Atene, con la tragedia di Sofocle, e traggono la loro forza anche da quest'
origine. Quando, nella tragedia di Eschilo, Oreste, il matricida, viene assolto - sia
pure con formula dubitativa - si afferma il luminoso principio di valori laici
superiori ai tribali legami di sangue ed è ancora il teatro dinanzi al pubblico di
Atene a fondare questo universale-umano. Non occorre essere Sofocle o Eschilo
per essere riconosciuti nella dignità del lavoro teatrale che, come ogni lavoro,
nasce non solo dai geni ma dall' opera, più o meno nota o oscura, di tutti coloro
che vi contribuiscono. Certo, è meglio vivere senza teatro che senza pane. Ma la
vita sarebbe triste senza il teatro e siamo nati non solo per sopravvivere, ma
anche per capire qualcosa della vita e, se possibile, pure per goderla.
RIPRODUZIONE RISERVATA
Magris Claudio
SALISBURGO IL REGISTA E IL SUO ATTORE-FETICCIO AL FESTIVAL
Stein torna ai classici: Karl Maria Brandauer un Edipo sconvolgente
Sofocle come un' esperienza «religiosa»
SALISBURGO - A un anno di distanza dal suo folgorante Dostoevskij, da I
demoni, Peter Stein torna agli amati greci, al mondo classico. Come sempre qui il
teatro è una seria occasione di socialità, e una cosa seria in sé: il pubblico è
straripante e le tre ore dell' Edipo a Colono di Sofocle (lo si percepisce
fisicamente) sono vissute col fiato sospeso, nel più religioso silenzio. Del resto il
secondo Edipo, come lo chiama il suo maggior interprete, Karl Reinhardt, non è
tanto una tragedia quanto un rito, qualcosa che pertiene a un ordine «cultuale».
Nell' argomentata e notevole edizione di Martone, questo aspetto di fondo non si
coglieva. Vi prevaleva l' azione, dominavano il colore e la natura dei singoli
personaggi, ovvero dei singoli interpreti, da Gianfranco Varetto a Elena Bucci, a
Valerio Binasco. Nello spettacolo di Peter Stein l' interprete di punta è Karl Maria
Brandauer, il protagonista, che avevamo lasciato a Berlino come Wallenstein.
Verrà applaudito in modo speciale anche Jürgen Holtz, Creonte, un attore a noi
sconosciuto; ma anche tutti gli altri, eccellenti proprio per la loro disponibilità a
sottrarsi, a non voler mai mettersi in luce come singole personalità. L' aspetto
sociale e, lo ripeto, «cultuale» del testo è perseguito dal regista in modo
puntiglioso, nulla viene lasciato al caso. La scena è una vasta, desolata pianura in
cui spicca un bosco di «allori, viti e ulivi»; la musica di Arturo Annecchino
consiste di pochi, remoti suoni; qualche dubbio lo lasciano i costumi: non quelli
del Coro di Colonesi, assolutamente realistici, ma quelli dei soldati di Teseo e di
Creonte: bianco-immacolati e verde-ramarro-militare, entrambi fanno pensare,
un poco, a Star Trek, quasi che il regista avesse voluto così recare un contributo
a un futuro pop (qui parliamo non solo del passato ma di ogni tempo, anche di
quello che verrà), ovvero al mito, all' intemporale. E l' «intemporale» domina la
scena. Vi si narra di un ritorno alle origini, di un' espiazione ormai al culmine, e
di ciò che Reinhardt definisce «il prodigio del rapimento»: Edipo non è più Edipo,
ma uno di noi; egli, il vecchio che si era punito di una colpa involontaria e che
più duramente era stato castigato dai due figli maschi, bramosi di potere, segna
il limite sia della forza (altrui) che della sofferenza (la propria). La sua morte
equivale a una sparizione, come ogni morte, cattiva o buona che sia: prima quell'
uomo c' era, poi di colpo non c' è più. Eroicizzazione e metamorfosi. Edipo a
Colono è in Sofocle ciò che Eumenidi è in Eschilo, una specie di Paradiso: non più
la tragedia che (ancora) si profila all' orizzonte ma un appuntamento con il
destino. Voglio però sottolineare un aspetto, quello del permanente conflitto (tra
Ateniesi e Tebani, tra Teseo e Creonte, tra Creonte ed Edipo) quale si manifesta
come dissidio tra parola e azione in ben quattro momenti. Dirà Edipo: «Ma a che
serve la gloria? (...) prima mi fate alzare, e dopo mi scacciate solo per la paura
del mio nome?». Dirà Teseo: «Non è con le parole che cerchiamo di dare luce alla
vita, ma con i fatti». Dirà Polinice (del fratello): «Eteocle, che pure era il minore,
mi ha scacciato da Tebe e questo senza avermi vinto con degli argomenti o
essere venuto a un duello o a un qualche cimento tra noi due. Egli ha solo
persuaso la città». Dirà il Nunzio: «Dura pena, lo so, figlia; ma basta una parola
per cancellare ogni fatica: amore». E insomma: tutti nemici di tutti; ma tutti
accomunati da una stessa consapevolezza di errore e di possibile riscatto, qui
formulato nei termini, quasi precristiani, di un' ascensione, quella del vecchio
Edipo. RIPRODUZIONE RISERVATA **** Lo spettacolo Il cast La tragedia di
Sofocle «Edipo a Colono» è a Salisburgo nella versione del regista Peter Stein.
Karl Maria Brandauer ha il ruolo del protagonista, Katharina Susewind è
Antigone, Anna Graenzer fa Ismene, Christian Nickel dà volto e voce a Teseo,
Jürgen Holtz interpreta Creonte. La musica è di Arturo Annecchino
Cordelli Franco
ELZEVIRO RACCOLTE LE MEDITAZIONI DI ZAGREBELSKY
UNA CERTA IDEA DEL DIRITTO
Uno «ius» estraneo a potere legislativo e razionalità naturale
C' è un' idea di fondo, alla base dell' ultimo libro di Gustavo Zagrebelsky da poco
in libreria. È l' idea del diritto come «dimensione del vivere comune», che non si
lascia «ridurre alla volontà di un qualunque legislatore», e nemmeno si lascia
«dedurre da un qualche principio semplice di razionalità naturale o giustizia
astratta». Non a caso, del resto, su questa «idea comune» insiste il sottotitolo del
volume (Intorno alla legge, Einaudi, pagine 410, Euro 22), nel quale insieme ad
alcuni capitoli inediti sono raccolti e rielaborati diversi saggi scritti dall' autore
lungo oltre un ventennio. Dunque prima, durante e dopo la sua esperienza di
giudice, e poi anche di presidente, della Corte costituzionale. Sebbene non siano
stati concepiti in funzione di un progetto preordinato (lo dimostra la loro
eterogenea provenienza, per altro ricordata dallo stesso autore), questi testi
rivelano tuttavia il pregio di una intima coerenza complessiva, risultando tra loro
collegati da un ideale filo conduttore, come all' interno di un disegno unitario. Un
disegno evidentemente preesistente alla loro stesura, e corrispondente a una
delle principali aree di interesse del pensiero sviluppato da Zagrebelsky, in
qualità di costituzionalista e di teorico del diritto. Il tema centrale è quello del
rapporto tra legge e diritto (dunque tra lex e ius), visto nella particolare
prospettiva di ciò che ruota «intorno» alla legge, essendo essa immersa in una
«rete di interrelazioni e di tensioni» che rappresentano il contesto giuridico,
nella cui cornice la stessa legge si colloca. Un contesto definito, nell' odierno
«Stato costituzionale», dalle istituzioni del diritto, nonché dai connessi principi di
convivenza e di solidarietà sociale, secondo la logica del pluralismo, al cui
interno la legge è destinata a operare. Almeno «finché la società sarà questa»
(emerge qui, da parte dell' autore, una venatura amara di incertezza sul futuro),
cioè finché reggano gli equilibri istituzionali, e non si realizzi il pericolo di una
volontà legislativa imposta «unilateralmente usando il diritto come strumento di
forza e di potere, cioè di arbitrio di una parte sulle altre». A questo tema si
raccordano i diciassette capitoli del volume, divisi in cinque parti, secondo una
progressione che muove dagli argomenti più generali e filosofici (cominciando,
ad esempio, dal famoso quesito attribuito da Senofonte ad Alcibiade: «Dimmi,
Pericle, cosa è la legge?») per giungere ai sempre più attuali nodi relativi al
funzionamento delle istituzioni e alle ventilate riforme costituzionali. Si passa
così, nell' arco di oltre quattrocento pagine ricchissime di riferimenti anche
storici e letterari, dal confronto concettuale tra il piano della legge e quello del
diritto (simboleggiato dal conflitto tra le opposte concezioni di Creonte e di
Antigone nella tragedia di Sofocle) ai più delicati problemi posti dalle società di
oggi, in cui lo Stato si è ormai trasformato in una «macchina legislativa» volta
alla produzione continua di leggi, spesso legate a situazioni contingenti e come
tali mutevoli nel tempo. Senonché, in tal modo, si rischia di perdere di vista il
vero rapporto tra legge e diritto, tra «legalità» e «legittimità». A maggior
ragione, allora, occorre richiamarsi ai valori morali di fondo delle moderne civiltà
di democrazia liberale, e ai principi che li traducono nel tessuto delle carte
costituzionali. E questo vale anche per la nostra Costituzione, intesa come luogo
di affermazione e di equilibrato bilanciamento di valori essenziali per la vita delle
istituzioni e della stessa società civile, oltre che come baluardo di legittimità
rispetto a eventuali abusi da parte del legislatore. RIPRODUZIONE RISERVATA
Grevi Vittorio
DIALOGHI LO SCRITTORE E LO PSICOLOGO DISCUTONO A LONDRA (SU POSIZIONI
DIVERSE) DEL TEMA CHE APRIRÀ IL FESTIVAL DI GENOVA
McEwan e Humphrey, la coscienza supera la scienza
LONDRA - Tutti vediamo il rosso in modo diverso, ma importa sapere
esattamente come lo vedono gli altri? Ovvero, ha un senso interpretare la mappa
di attività neurologica innescata in ogni cervello da un dato colore, verbo o
gesto? È questo il tema con il quale il Festival della Scienza, che avrà luogo a
Genova dal 23 ottobre al 4 novembre, è stato presentato a Londra nella
prestigiosa sede della Wellcome Collection: un dibattito tra due menti illustri,
una scientifica, l' altra artistica. Da una parte Nicholas Humphrey, psicologo
della London School of Economics, autore di Rosso: il momento denso della
coscienza, così come di La mente fatta carne e Storia della mente. Dall' altra Ian
McEwan, uno scrittore i cui romanzi sono sempre stati trasportati da un forte
interesse per il funzionamento della materia grigia, sino ad arrivare a Sabato e
alle avventure del protagonista neurochirurgo. L' argomento dell' incontro non è
casuale: è la diversità, e per l' esattezza sei tipi di diversità, a formare il percorso
principale del Festival di Genova ed è sull' individualità, e l' impossibilità di
comprenderla, che i due luminari non hanno trovato l' accordo in quella che, a
detta di McEwan, è una conversazione aperta germinata «in un ristorante di
Londra di fronte a un' ottima bottiglia di vino». «Nella mia opinione non c' è
niente di più reale e concreto della coscienza», ha dichiarato lo scrittore.
Codificarla in termini scientifici, però, non è necessario, perché è lì il bello della
letteratura, nonché dell' arte in generale: «Riuscire per un istante a essere
trasportati nelle esperienze altrui. La parola, quella macchina incredibile che non
è che una pompa d' aria, è il tramite perfetto». McEwan è tornato indietro nei
ricordi per isolare il primo momento in cui entrò, attraverso la letteratura, nella
coscienza di un altro essere umano, un poeta vissuto due secoli prima, William
Wordsworth. Fu leggendo il suo Preludio e la descrizione della sensazione
provata una sera d' inverno pattinando su un lago ghiacciato che iniziò «una
storia d' amore che dura tutt' ora». Ecco poi Amleto e i suoi soliloquii, «un uomo
di grande intelligenza che ci mostra come si comporta di fronte a un dilemma,
come esita, come arriva a pensare al suicidio prima di decidere». O lo strazio di
Ulisse davanti a una Penelope che non lo riconosce e gli crede solo quando si
ricorda come è fatto il loro letto matrimoniale. «E allora l' Antigone di Sofocle?»,
gli ha chiesto Humphrey, che, come ha sottolineato McEwan, è sì uno scienziato,
ma uno che ha letto tutto. «È Antigone la prima manifestazione letteraria della
coscienza individuale di fronte alla coscienza collettiva». Ammirazione reciproca
anche di fronte a punti di vista diversi. Perché se per Humphrey la differenza tra
le varie letture neurologiche di una semplice tela rossa importa, eccome, «non si
può negare l' importanza di comprendere il punto di vista di un' altra persona. Se
siamo qui, oggi, è perché la nostra società è basata su questo». Paola De Carolis
Confronti Ian McEwan (in alto) e Nicholas Humphrey
De Carolis Paola
IL CASO LA VERSIONE CINEMATOGRAFICA DEL LIBRO DI PANSA COME UN THRILLER
L' EROE È UN COMMISSARIO FASCISTA
Il sangue dei vinti
Un giallo tra le vendette partigiane Placido: film rifiutato da tanti attori
ROMA - 19 luglio 1943. Pochi minuti dopo le 11, quattro gruppi di B17 e cinque
gruppi di B24 bombardano lo scalo ferroviario di San Lorenzo. Tra gli edifici che
crollano sotto le bombe degli Alleati, c' è un palazzo popolare dove vive un
commissario di polizia (interpretato da Michele Placido) e dove è stato appena
scoperto il cadavere di una giovane prostituta. Parte l' indagine dell'
investigatore che, parallelamente, intraprende un doloroso viaggio attraverso l'
Italia allo sbaraglio, dove la guerra civile mieterà anche molte vittime innocenti.
Sono alcune scene del film ispirato a Il sangue dei vinti, libro-inchiesta di
Giampaolo Pansa, in cui si dà voce agli sconfitti, raccontando le vendette dei
partigiani contro i fascisti o considerati tali; un caso letterario che, sin dalla sua
pubblicazione nel 2003, ha venduto migliaia di copie, suscitato altrettante
polemiche e critiche di revisionismo. Prodotto da Alessandro Fracassi (Media
One Spa) per Rai Fiction e diretto da Michele Soavi, sarà prima proposto nelle
sale, nella prossima primavera, poi trasmesso su Raiuno in due puntate nel 2009.
Nove milioni di euro d' investimento e quattro anni e mezzo di travagliata
gestazione: un film difficile, che in molti si sono rifiutati di fare. Racconta
Fracassi: «Appena ho letto il libro, sono stato folgorato dalla visione inedita
proposta dall' autore sui tragici fatti avvenuti tra la fine del regime fascista e la
liberazione: mostra l' altra faccia della medaglia e ci fa capire da dove veniamo.
Ho subito comprato i diritti, ma da quel momento è iniziato un calvario,
ostruzionismi di ogni genere». Basti ricordare la prima reazione di Sandro Curzi
(all' epoca presidente reggente della Rai e tuttora consigliere): «Una fiction dal
libro di Pansa? Allora è meglio da Bocca». Riprende il produttore: «Lo stesso
Pansa non voleva scrivere il soggetto, perché non è il suo mestiere, e mi avvertì:
"In che guai ti sei andato a cacciare!". Infatti, è stato complicato allestire il cast:
alcuni attori e registi si sono tirati indietro e ancora non ho trovato un
distributore per le sale... una sorta di censura preventiva». Conferma Placido, nel
ruolo del commissario Dogliani: «Uno dei colleghi che hanno rifiutato di
partecipare è stato Carlo Cecchi. Mi disse: "Non condivido il libro
ideologicamente". Rispetto questa posizione: c' è gente che è stata educata a
interpretare la storia in una certa direzione. Ma io, che da sempre voto a sinistra,
sono contento di mostrare al pubblico un' angolatura, un punto di vista diverso:
se un comunista, in passato, si è comportato come un nazista, è un nazista. Pansa
ha avuto il coraggio di mettersi in discussione e di smuovere le coscienze. Io,
forse, ho avuto più coraggio di altri colleghi ad accettare il ruolo, anche se -
aggiunge - quando ho dovuto indossare la camicia nera ho avuto un moto di
ripulsa». Liberamente ispirato al bestseller, è stato complesso anche scrivere il
copione: la trama, infatti, è molto diversa da quella originale. Spiegano gli
sceneggiatori Massimo Sebastiani e Dardano Sacchetti: «Il primo problema era
di adattare un libro storico alle ragioni di un racconto filmico. Non potevamo
restare aderenti solo alla cronaca degli eventi accaduti dopo il 25 aprile 1945,
così come sono puntigliosamente riportati nell' indagine di Pansa. Dovevamo
costruire una storia adatta al grande pubblico, restando fedeli però allo spirito
dell' autore». Dunque nella versione cinematografica Il sangue dei vinti è anche
un giallo. «Per questo abbiamo inventato il personaggio di Dogliani, un onesto
servitore dello Stato, un investigatore che, sullo sfondo di un Paese dilaniato
dalla guerra civile, intreccia l' indagine poliziesca alla sua tragedia personale:
vedrà morire i suoi due fratelli su opposte fazioni, Ettore partigiano, Lucia
repubblichina, senza poterli salvare e, alla fine, senza nemmeno poter dare
degna sepoltura a Lucia, morta per la "causa sbagliata"». Sottolinea Placido: «Il
tema centrale del libro e del film è proprio quello dell' "Antigone" di Sofocle:
perché due fratelli non possono essere sepolti con la stessa dignità, anche se di
fazioni opposte? Non si possono discriminare anche i morti. Dopo 60 anni,
sarebbe ora di chiudere le ferite, seppellire i morti e pensare al futuro. Ha fatto
revisionismo persino la Chiesa cattolica, ammettendo gli errori commessi. Perché
non può farlo la "chiesa" comunista?». Numerose le location e un cast prezioso:
tra gli altri, Alessandro Preziosi interpreta Ettore Dogliani, fratello del
commissario, che sacrificherà la vita nella lotta partigiana. Barbora Bobulova è la
donna al centro dell' intrigo thriller, ruoli importanti anche per Stefano Dionisi,
Alina Nedelea, Giovanna Ralli e Philippe Leroy. Dopo aver girato la maggior
parte delle scene in Piemonte, ora il set è a Roma, in una fabbrica in disuso sulla
via Prenestina, dove è ambientato il bombardamento di San Lorenzo. Un set
condizionato anche dalle polemiche che ci sono state e da quelle che potrebbe
ancora sollevare. Ammettono gli sceneggiatori: «Abbiamo calibrato ogni battuta,
perché non apparisse di destra o di sinistra». Aggiunge il regista: «Ho cercato di
non farmi contaminare dalle polemiche e di essere credibile». Conclude Placido:
«Per essere equidistante, ho misurato ogni gesto: non devo piacere né agli uni né
agli altri, ma solo al personaggio. E non credo che da questo film uscirò
fascista».
Costantini Emilia
VITE PARALLELE COME LEGGERE LE BIOGRAFIE DEI «PERSONAGGI MINORI» ALL'
INTERNO DELLE FAMIGLIE CELEBRI
Maledizione all' ombra dei fratelli
Alcuni anni fa, a Trieste, a una festa di nozze, c' era fra gli ospiti il fratello di Che
Guevara, Ramón. Per essere più precisi, anche a costo di usare una parola dal
suono antipatico, fratellastro, in quanto figlio dello stesso padre, ma di altra
madre. Ma soprattutto nato dopo la morte del leggendario Che e inevitabilmente
imbarazzato di essere, per tutti, essenzialmente il fratello di un mito e per di più
da lui mai conosciuto. Che cosa poteva significare, per lui, quella parentela
strettissima e astratta, quel morto così vivo, che rischiava di ridurlo solo alla sua
ombra? Pure lui avrebbe potuto dire, come Serse Coppi quando gli si
avvicinavano i tifosi del campionissimo Fausto, «sono solo il fratello». Quella
festa triestina potrebbe essere uno dei brevi, fulminei capitoli di un bellissimo
libro che lascia il segno, scritto da Franco Bungaro e Vincenzo Jacomuzzi, Lei
non sa chi è mio fratello!, che raccoglie - come dice il sottotitolo - storie di sorelle
e fratelli, da Alighieri a Hitler. Anche quella frase di Serse Coppi si trova, in
questo libro che ha la malinconia borgesiana dell' erudizione e dell' ombra e
insieme una freschezza epica pervasa di humour, una simbiosi di riso e
malinconia alla Spoon River. Il rapporto tra fratelli è di per sé una fondamentale
e contraddittoria modalità dell' esistenza; l' Antigone di Sofocle - insieme al
Vangelo lo scavo forse più profondo nell' abisso dell' umano - comincia con una
parola, inventata dal poeta, che indica l' essere sorella, la «sorellanza» quale
relazione radicale. Fratello è il termine cristiano per eccellenza che esprime l'
amore e la solidarietà del destino, ma la storia sacra e quella civile del mondo
cominciano con un fratricidio, Caino e Abele, Romolo e Remo. Saba, nel
momento più fervido della sua lettura di Freud, considerava un brutto segno per
gli italiani il fatto che la loro origine mitica fosse un autodistruttivo fratricidio e
non la liberatoria uccisione del padre ma si sbagliava, perché il fratricidio,
letterale e metaforico, è più universale del parricidio e gli uomini devono ancora
imparare la fraternità. La «fratellitudine» e la «sorellitudine» sono sempre
complesse e, come scrivono i due autori, comprendono «a volte affetti tenaci,
altre rancori profondi, talvolta indifferenze totali». Le cose possono farsi
complicate quando subentrano grandi differenze di successo, di genialità, di
ruolo; quando si ha un fratello che si chiama Napoleone Bonaparte oppure
Ludwig van Beethoven, Al Capone, Luigi XIV, Adolf Hitler, Marcel Proust; quando
la conflittualità immanente a ogni rapporto umano (e nel caso dei fratelli
addomesticata, ma anche potenziata dal groviglio famigliare) viene acuita da una
reale o pretesa ma comunque sbandierata superiorità dell' uno sull' altro, come
scriveva Stanislaus Joyce, peraltro così malamente ricompensato nella sua
generosità da James: «È terribile avere un fratello maggiore più intelligente,
raramente mi viene riconosciuta un po' di originalità». È a questo rapporto
impari - e spesso infero, perché, come dice la terribile frase della Scrittura, «a
chi ha sarà dato e a chi non ha sarà tolto anche quel poco che ha» - che Bungaro
e Jacomuzzi dedicano il loro libro lieve e profondo, conciso ed epico come una
serie di lapidi. In quel concentrato dell' umano che è il rapporto tra fratelli
emergono tutte le diversità e le contraddizioni dell' umanità. La cattiveria di
Beethoven, la solidarietà di Sydney e Charlie Chaplin, la totale oscurità in cui
resta Jean-Nicolas Frédérick Rimbaud rispetto ad Arthur; la freddezza pur alla
fine complice tra Franco e suo fratello Ramón inizialmente anticlericale e di
sinistra; le scelte opposte di Gramsci comunista e di suo fratello fascista o di
Giovanni Pirelli che si rivolta contro il sistema capitalista; Albert Göring, fratello
del gerarca nazista e forse figlio di un ebreo; la frequente prevaricazione dei
famosi sugli oscuri, spesso esasperata sino alla crudeltà o al delitto quando è in
gioco il denaro o il potere politico, come rivela tanta letteratura; anche se invece
il rapporto fra Benito e Arnaldo Mussolini è uno di quelli realmente fraterni e
Arnaldo esprime apertamente il dubbio, dopo l' assassinio di Matteotti, che la
coscienza di suo fratello, il mandante, sia pura. La famiglia può essere vera casa
natale o un livido inferno. I «fratelli nemici» sono un tema ricorrente nella
letteratura, da Eteocle e Polinice o Atreo e Tieste allo Sturm und Drang ai Due
fratelli di Luca Doninelli alle sorelle nel romanzo Di buona famiglia di Isabella
Bossi Fedrigotti, per citare solo alcuni esempi di un filone che si accresce di
continuo, sino a Giovanna Ioli col suo A giro. Tra i fratelli anonimi, c' è chi
soggiace alla prevaricazione oggettiva della disparità, chi ne soffre, chi si
consuma nel rancore, chi dimostra un' incredibile generosità e insieme una totale
libertà da ogni complesso, come Mathieu Dreyfus, instancabile nell' aiutare il
fratello perseguitato e robustamente autonomo nella sua vita affettiva e
professionale. La figura più infame è quella del religiosissimo Paul Claudel (e
della sua cattolica famiglia): una incredibile crudeltà moralistica nei confronti
della sorella Camille, geniale scultrice, amante di Rodin, di una dolorosa fragilità
esistenziale, brutalmente reclusa in manicomio dall' illustre e devoto fratello e
dalla sua famiglia, per occultare il suo comportamente disdicevole. Quando sono
in gioco le sorelle, il rapporto si complica ulteriormente in virtù della tradizionale
subalternità della donna, tema affrontato da Rita Calabrese ed Eleonora
Chiavetta in un altro stimolante libro uscito qualche anno fa, Della stessa madre,
dello stesso padre, dedicato al destino di «tredici sorelle di geni». Anche in
questo caso la casistica è varia, come risulta dal libro di Bungaro e Jacomuzzi: il
rapporto affettuoso e complice di Catherine Deneuve con la sorella Françoise, di
Kafka con Ottla o di Rita Levi Montalcini con Paola; quello stretto fra Leopardi e
Paolina e quello troppo stretto fra Pascoli e Maria; il vero e proprio eros fra Lord
Byron e Augusta Mary. Talvolta la situazione si rovescia: è la rozza sorella
Elisabeth Nietzsche a prevaricare su un genio come il fratello. In generale
tuttavia sono le sorelle a soccombere, come rivela pure il libro di Calabrese e
Chiavetta: espropriate pure della loro creatività dai fratelli, come Dorothy
Wordsworth o Fanny Mendelssohn, immalinconite alla loro ombra come Cornelia
Goethe o Ulrike von Kleist, cui il fratello nega il diritto di non sposarsi che invece
riserva a se stesso. Al «sesso che per sua natura occupa il secondo posto nella
serie delle creature», come dice Kleist a Ulrike, ovvero alle donne e dunque alle
sorelle, si chiede un' amicizia «piladica» come quella di Pilade, l' amico che è
solo spalla di Oreste. Toccante, nella sua sempre appartata e mai compromessa
autonomia, è Paula Hitler quando dice di Adolf: «Cercate di capirmi: in fondo era
pur sempre mio fratello». Il libro di Bungaro e Jacomuzzi è un vivaio di potenziali
romanzi, i cui personaggi sono talora sbalzati con epica e picaresca evidenza,
come Frank James, fratello di Jesse e bandito come lui, che finisce portiere
addetto a far pagare l' entrata ai visitatori della fattoria di famiglia («Staccò
biglietti fino alla morte, il 18 febbraio 1915») o Alois jr Hitler, che alla fine
vivacchiava firmando a pagamento cartoline col ritratto del defunto Adolf. Anche
Ramón Guevara, quella sera, avrebbe potuto dire «Lei non sa chi è mio fratello»,
anche se non aveva affatto l' aria di volerlo dire. Ma una ragione più profonda di
dire queste parole l' avrebbe avuta Elvis Presley, il re del rock, pensando al
gemello Jesse Garon, nato e morto nello stesso giorno e sepolto sotto una stele
senza nome. Il più misterioso, il più grande, quello di cui vorremmo sapere cosa
è stato nella sua vita brevissima ma non meno degna della più longeva è quel
fratello sconosciuto a tutti e in qualche modo fratello di tutti. Questi sono i miei
fratelli e le mie sorelle, dice Gesù, indicando persone a lui legate da amicizia e
affinità spirituale, non da vincoli di sangue. * * * Uomini e donne nelle pieghe
della Storia * * * Letteratura e arte Chi c' è dietro un grande uomo? Si usa dire
una grande donna, ma spesso è un fratello. A loro, i fratelli (o le sorelle) ombra di
uomini che, nel bene o nel male, hanno fatto la storia, è dedicato il libro di
Franco Bungaro e Vincenzo Jacomuzzi «Lei non sa chi è mio fratello!», appena
uscito da Sei (pp. 201, 13) mentre, qualche anno fa, Rita Calabrese ed Eleonora
Chiavetta dedicarono al destino di «tredici sorelle di geni» il loro «Della stessa
madre, dello stesso padre» (Tufani). Un tema, quello della fratellanza/sorellanza,
che ha fecondato la letteratura fin dai tempi di «Antigone» e che ha trovato
rappresentazione anche nell' arte: qui accanto, il «Ritratto dei fratelli Pickford»,
opera di Joseph Wright of Derby (1777 circa).
Magris Claudio
ANTEPRIMA IL CRITICO RIFLETTE SULLA TECNICA, IL RAPPORTO CON LA REALTÀ,
LA CAPACITÀ UMANA DI PENSARE LA MORTE E LA TRASCENDENZA
La grande sconfitta
Religione, filosofia e scienza hanno fallito L' enigma della vita e di Dio resta lo
stesso
Il nuovo saggio Le riflessioni malinconiche in libreria per Garzanti Il brano che
pubblichiamo in questa pagina è tratto dall' ultimo capitolo di Dieci (possibili)
ragioni della tristezza del pensiero, il nuovo saggio di George Steiner. Il volume è
da oggi in libreria per l' editore Garzanti (traduzione di Stefano Velotti, pagine
90, euro 11) I «numeri primi» di cui tratta il pensiero sono costanti che
circoscrivono la nostra umanità. Sono, o dovrebbero essere, di un' ovvietà
suprema. Che cosa è «essere»? «Pensare l' essere» non è forse, come insiste
Heidegger, il compito essenziale del pensiero? Discriminare tra le esistenze
fenomeniche e la fatticità delle cose, da un lato, e il nucleo nascosto dell' essenza
dell' essere (Sein) stesso, dall' altro. Perché non c' è il nulla? Questa celebre
domanda di Leibniz dovrebbe costituire, per gli atti di pensiero, una
preoccupazione tanto primordiale e originale - che sorge, cioè, dalle nostre
origini - quanto la stessa vita umana. Possiamo, contra Parmenide, pensare,
concettualizzare il nulla? Può darsi che ogni tentativo di «pensare la morte» - un'
espressione che suona disdicevolmente goffa in inglese -, pensare alla morte in
maniera consequenziale, sia una variante dell' enigma del niente. Innumerevoli
credenze, mitologie, fantasie di trascendenza sono elaborazioni di esperimenti
mentali che vertono sulla morte. Lo zero, la riduzione del nostro essere a un
vuoto sono per la maggior parte di noi «impensabili», sia nel senso emotivo sia in
quello logico della parola. Da qui procede la complessa architettura del mito e
della metafora (molte metafore sono concentrati di mito). Sempre in attività e in
moto perpetuo, il pensiero umano sembra aborrire il vuoto. Genera
archetipicamente finzioni di sopravvivenza più o meno consolatorie. Come un
bambino spaventato fischia o urla nel buio, noi peniamo per evitare il buco nero
del nulla. E lo facciamo anche quando gli scenari che ne risultano sono
offensivamente puerili o semplicemente kitsch (quei campi elisi e quei cori
celesti, quelle settantadue vergini che attendono i martiri per l' Islam...).
Entrambe le sfere del pensiero, quella dell' essere e quella della morte, sono
state interpretate come sottospecie degli sforzi senza fine dell' intelletto umano,
della coscienza mortale, di pensare a, di «pensare» Dio. Di associare a questo
bisillabo un' intelligibilità credibile. È plausibile che l' homo sia divenuto sapiens,
e che i processi cerebrali siano evoluti al di là del riflesso e del mero istinto,
quando sorse la questione di Dio. Quando i mezzi linguistici permisero la
formulazione di quella domanda. È concepibile che le forme superiori di vita
animale si avvicinino alla consapevolezza, al mistero della propria morte. La
questione di Dio sembra essere propria della sola specie umana. Noi siamo le
creature abilitate ad affermare o negare l' esistenza di Dio. Noi abbiamo avuto i
nostri inizi spirituali «nella Parola». Il credente fervente e l' ateo categorico
condividono una comprensione del problema. L' agnostico esitante non nega la
questione. La semplice pretesa di non aver mai sentito parlare di Dio sarebbe
sentita come assurda. L' esistenza e la morte, in quanto pertengono a «Dio»,
sono gli oggetti perenni del pensiero umano, laddove questo pensiero non è
indifferente all' identità umana, alla nostra presenza in un certo mondo. Siamo -
il famoso ergo sum - nella misura in cui ci sforziamo di «pensare l' essere», il
«non essere» (la morte) e la relazione di queste polarità con la presenza o l'
assenza, con la vita o la morte - espressione antropomorfica - di Dio. La parziale
cancellazione di questa preoccupazione dagli affari pubblici e privati nelle
tecnocrazie avanzate dell' Occidente, una cancellazione antagonistica alle
rabbiose maree montanti del fondamentalismo, pervade la nostra attuale
situazione politica e ideologica. Un agnosticismo tollerante richiede maturità
ironiche, «capacità negative» (come le definiva Keats), che non è facile chiamare
a raccolta. Le semplificazioni selvagge del fondamentalismo, sia esso degli
islamisti o dei battisti del Sud degli Stati Uniti, sono in marcia. Ma resta un fatto,
schiacciante: quale che sia la sua statura, la sua concentrazione, il suo slancio al
di sopra dei crepacci dell' ignoto, quale che sia il suo genio esecutivo della
comunicazione e della messa in atto simbolica, il pensiero non si avvicina
maggiormente all' apprensione dei suoi oggetti primari. Rispetto a Parmenide o a
Platone, noi non ci siamo avvicinati di un centimetro a una qualsiasi soluzione
verificabile dell' enigma della natura - o dello scopo, se ce n' è uno - della nostra
esistenza in questo universo probabilmente multiplo, alla determinazione della
definitività o meno della morte e alla possibile presenza o assenza di Dio.
Potremmo anche essercene allontanati. I tentativi di «pensare», di «pensare fino
in fondo» questi problemi per mettere al riparo una risoluzione giustificativa o
esplicativa hanno prodotto la nostra storia religiosa, filosofica, letteraria,
artistica e, in una certa misura, scientifica. Questi tentativi hanno impegnato i
migliori intelletti e le migliori sensibilità creative del genere umano - un Platone,
un sant' Agostino, un Dante, uno Spinoza, un Galileo, un Marx, un Nietzsche o un
Freud. Hanno generato sistemi teologici e metafisici affascinanti, per la loro
sottigliezza, e suggestivi, per la loro forza propositiva. Le nostre dottrine, la
poesia, l' arte e la scienza sono state attraversate, prima della modernità, da
domande pressanti sull' esistenza, la mortalità e il divino. Astenersi da questo
domandare, censurarlo, sarebbe cancellare la specifica condizione e dignitas
della nostra umanità. È la vertigine del domandare che attiva una vita esaminata.
In ultima analisi, comunque, non andiamo da nessuna parte. Per quanto
possiamo essere ispirati, «pensare l' essere», «pensare la morte», «pensare Dio»
sfocia in immagini più o meno ingegnose, di portata o di ricchezza semantica più
o meno grande: in «verbosità», si potrebbe anche dire. Per quanto riguarda il
loro risultato concreto, la danza aborigena intorno al totem e la summa di
Tommaso, il voodoo e Plotino sulle emanazioni, mettono in atto, comunicano miti
che condividono analogie più che accidentali. Non producono alcuna prova. A
dire il vero, la storia degli sforzi che si sono succeduti per provare l' immortalità
o l' esistenza di Dio costituiscono una delle cronache più imbarazzanti della
condizione umana. L' agilità del pensiero, la sua inesauribile propensione alla
narrativa, conduce alla conclusione umiliante, quasi esasperante, che «qualsiasi
cosa va bene». Per milioni di persone, Dio si pettina la sua barba bianca ed Elvis
Presley è risorto. Nessuna confutazione è assiomaticamente possibile. La
verificabilità, la falsificabilità delle scienze, il loro progresso trionfante dall'
ipotesi all' applicazione, costituiscono il prestigio e il crescente dominio che
esercitano nella nostra cultura. Ma in un altro senso, ciò costituisce anche la loro
sovrana trivialità. La scienza non può dare alcuna risposta alle questioni
quintessenziali che ossessionano o che dovrebbero ossessionare lo spirito umano.
Wittgenstein lo ha sottolineato con insistenza. La scienza può soltanto negarne la
legittimità. Indagare sul nanosecondo che ha preceduto il Big Bang è - ci viene
assicurato ex cathedra - un' assurdità. Tuttavia siamo creati in modo tale che
indaghiamo comunque, e potremmo trovare molto più persuasiva la congettura
di sant' Agostino che quella della teoria delle stringhe. È immensamente difficile
immaginare a che cosa assomiglierebbero le mappe della mente e le totalità che
essa abita, che cosa sarebbe il nostro alfabeto di riconoscimenti se il problema di
Dio venisse a perdere il suo significato. Nessuna retorica della «morte di Dio»,
nessuna erosione della religione nei supermarket dell' Occidente si avvicina a un'
eclissi della possibilità di Dio nel senso stesso della nostra coscienza. Fino a oggi,
l' ateismo si è impegnato impetuosamente con Dio. Se anche questo impegno
negativo recedesse da ogni seria consapevolezza, le scienze pure e applicate
potrebbero, presumibilmente, continuare la loro avanzata. Se le scienze umane,
nel senso più lato, possano fare lo stesso, non è altrettanto chiaro (il genio di
Beckett ha trovato l' espressione allegorica precisamente per questa incertezza).
Intanto, non è l' argomentazione filosofica o teologica che spinge il pensiero ai
limiti estremi dei suoi indispensabili «vicoli ciechi», sempre nuovamente
percorsi. Credo che a farlo sia la musica, questo tormentoso medium dell'
intuizione rivelata al di là delle parole, al di là del bene e del male, in cui il ruolo
del pensiero, per quanto possiamo afferrarlo, resta profondamente elusivo.
Pensieri troppo profondi non tanto per le lacrime, ma per il pensiero stesso. Può
darsi che Sofocle abbia detto tutto nell' ode corale sull' uomo dell' Antigone. La
padronanza del pensiero, della velocità perturbante del pensiero esalta l' uomo al
di sopra di tutti gli altri esseri viventi. Ma lo lascia straniero a sé stesso e all'
enormità del mondo. (Traduzione di Stefano Velotti) © George Steiner * * * L'
autore George Steiner (Parigi 1929) ha studiato fisica a Chicago prima di
dedicarsi a studi umanistici. Ha insegnato letteratura in varie università, tra cui
Oxford e Ginevra * * * Le opere George Steiner è autore di numerosi libri, tra cui
«Tolstoj o Dostoevskij», «Le Antigoni», «Nessuna passione spenta», «La lezione
dei maestri», tutti editi da Garzanti * * *
Steiner George
Antigone fa la filosofa
Cacciari traduce Sofocle, Walter Le Moli registaUn progetto stabile che propone
testi classici o contemporanei rivisti da scrittori *** Seguirà Beaumarchais nella
versione di Valerio Magrelli: «Un ingranaggio magico»
Un teatro di repertorio. Un gruppo stabile di 12 attori che lavora, con modalità
internazionali e con registi diversi, a un unico progetto: mettere in scena testi
classici e anche contemporanei, tradotti da scrittori italiani. L' idea è del regista
Walter Le Moli, realizzata da Fondazione del Teatro Stabile di Torino, Fondazione
Teatro Due di Parma e Teatro di Roma. Il primo appuntamento, stasera e domani
(poi dal 10 al 15 aprile), nella Capitale è al teatro India con «Antigone» di
Sofocle, tradotta da Massimo Cacciari e realizzata dallo stesso Le Moli. Poi, sullo
stesso palcoscenico, toccherà dal 17 al 22 aprile, a «La folle giornata o il
matrimonio di Figaro» di Beaumarchais, con la traduzione di Valerio Magrelli e la
regia di Claudio Longhi. In seguito, «The Changeling» (Gli incostanti») di
Thomas Middleton e William Rowley, traduzione di Luca Fontana, regia di Karina
Arutyunyan e Le Moli; «A voi che mi ascoltate» del greco Lula Anaghnostaki,
traduzione di Nicola Crocetti, regia di Victor Arditti; e infine «Dossier Ifigenia»
da Euripide, traduzione di Edoardo Sanguineti, regia di Elie Malka. Spiega l'
ideatore del progetto: «L' idea è molto semplice, anche se poco praticata in
Italia, mentre molto realizzata all' estero: un teatro Stabile deve avere un
repertorio, con un gruppo di attori stabili, su una serie di titoli sempre pronti
anche all' esportazione. In Italia, viviamo alla giornata, lasciamo più o meno tutto
all' improvvisazione. Tanto che, quando veniamo invitati da importanti istituzioni
straniere, allestiamo la compagnia e lo spettacolo all' impronta. Ecco il perché
dell' importanza di un repertorio su cui poter contare in ogni occasione. Insomma
- aggiunge - il progetto si ispira alle modalità produttive europee e alla necessità
di uniformarsi alle caratteristiche dei principali teatri aderenti all' Unione dei
Teatri d' Europa». Perché l' «Antigone» e perché Cacciari. Risponde il regista:
«Scritta da Sofocle nel 442 a.C., è il paradigma del contrasto fra le leggi dell'
oikos, intesa come casa in senso allargato e cioè in riferimento a valori come i
legami familiari e il culto dei morti, e della polis, ovvero la città. Ora l' "Antigone"
- continua Le Moli - la puoi tirare come una coperta, a seconda del momento
storico, sociale e politico in cui si vive. Il filosofo e scrittore Cacciari ne ha un'
idea, cui mi sento molto vicino: Antigone e il re Creonte rappresentano due
sistemi autonomi e talmente inconciliabili, che lo scontro tra loro non porta a
nessuna soluzione e alla morte di entrambi i contendenti. E nella nostra realtà
attuale, nei confronti del potere tutti ci mascheriamo da Antigone, ma poi ci
comportiamo come Creonte». Se Antigone rappresenta la pietas, Creonte incarna
invece la ragion di Stato. Insiste Le Moli: «Tutto l' Occidente è Creonte, secondo
cui non può esistere una città senza governo». A Valerio Magrelli, il compito di
attualizzare Beaumarchais. Dice lo scrittore: «Quest' opera ha avuto numerose
traduzioni, anche soltanto nel ' 900. Ho lavorato in una prospettiva di resa
teatrale, cercando quindi di rendere l' incisività, la scansione, il ritmo del dialogo
che è tuttavia intatto, a distanza di più di duecento anni. È formidabile la
reattività delle battute, è quasi magica la facilità di scambio, la circolazione della
parola all' interno dell' opera originale: un' immediatezza studiatissima, molto
difficile da rendere. Mi sono anche divertito - continua - a ricostruire certe
situazioni, per restituire i giochi di parole. "Il matrimonio di Figaro" è un' opera
che continua a funzionare, per il suo straordinario ingranaggio, un meccanismo
perfetto. Io, da un lato, sono rimasto fedele all' originale, ma dall' altro me ne
sono allontanato, nei momenti in cui era necessaria una resa diversa». Date le
numerose traduzioni già esistenti, Magrelli si è confrontato con i predecessori?
Ribatte: «Assolutamente sì. A differenza di altri traduttori, che non amano, non
sono interessati ai confronti con chi li ha preceduti, io invece, appena finito il mio
lavoro, sono andato proprio a misurarmi con i testi preesistenti, trovandone
almeno un paio ancora molto validi oggi. Il problema della traduzione - precisa -
è la sua scadenza: si deteriora, mentre l' originale resta intatto. E l' importanza
del progetto di Le Moli, dal mio punto di vista, sta proprio nel fatto che,
ciclicamente, c' è bisogno di togliere da queste opere la patina del tempo, per
esporle a una nuova luce linguistica. È l' unico modo per riattivare i grandi
classici delle letterature straniere, per renderli contemporanei». TEATRO INDIA,
lungotevere dei Papareschi, da stasera alle ore 21, tel. 06.684000346 * * *
TRAGEDIA TRAGEDIA Una scena di «Antigone»; a destra, i protagonisti Elia
Schilton, nel ruolo di Creonte, e Paola De Crescenzo in quello di Antigone
Costantini Emilia
L' Antigone di Sofocle secondo Cacciari
Il primo verso dell' Antigone di Sofocle è composto da cinque parole di
complesso se non oscuro significato. Ma ciò che colpisce nella traduzione che
Massimo Cacciari ha consegnato allo Stabile di Torino (edita da Einaudi) è la
seconda parte di questo verso. Il testo originale dice «Ismenes kara», «testa di
Ismene». Cacciari traduce (primo verso e oltre): «O volto di Ismene, sorella,
sangue mio, sai se vi è un male tra quelli della stirpe di Edipo che Zeus debba
ancora infliggerci in vita?». È una traduzione letterale. Cacciari avrà avuto le sue
ragioni. Per noi lettori (o spettatori) vanno perdute. Peggio. Ci troviamo con ogni
evidenza di fronte a un cattivo italiano. Leggendo le versioni di Ettore
Romagnoli, di Enzio Cetrangolo, di Camillo Sbarbaro, di Filippo Maria Pontani, di
Elena Bono, di Ezio Savino, di Angelo Tonelli, di Guido Paduano e di Maria Grazia
Ciani, non ve n' è una che si senta in obbligo di rispettare la lettera, cioè di
tradurre quel termine, kara, di connotazione epico-tragica (in greco) e di
ridondante, fastidiosa presenza (in italiano). Perché nessuno traduce kara?
Perché, almeno in italiano, non rivolgiamo domande ad una testa, né da una
testa, da un volto, ci aspettiamo risposte, ma da una persona. Né è da dire che
«testa» qui abbia la funzione di una vera e propria sineddoche, dal momento che
Ismene è lì, intera e in carne e ossa. Cacciari ha voluto essere fedele. Ma nello
stesso tempo ha voluto essere originale, distinguersi in ubbidienza. Bella cosa l'
ubbidienza (se del caso), pessima la volontà di distinzione.
Cordelli Franco
La legge morale ha un prezzo
Stampa e Servizi. L' imperativo morale ha un prezzo E chi viola la legge deve
pagare
I giornalisti hanno molto potere. Se poi irrompono come protagonisti in una
vicenda di spie impegnate a sequestrare un sospetto terrorista, ai loro molteplici
poteri si aggiunge fatalmente quello di regalare a una torbida storia di beghe nei
servizi di sicurezza i contorni avventurosi dell' epica alla Graham Greene o alla
Le Carré (anche se Evelyn Waugh, nel suo «Inviato speciale», ha sarcasticamente
dipinto le peripezie dei giornalisti coinvolti con le tinte del grottesco e del
patetico). Ma, con la lunga confessione di Renato Farina su Libero, l' allusione
letteraria diventa ancora più sofisticata per arrivare nientemeno che all'
Antigone di Sofocle, all' eterno conflitto tra la legge morale e quella scritta negli
ordinamenti degli Stati. Farina-Antigone, vicedirettore di Libero e agente
«Betulla» secondo gli inquirenti milanesi, ha infatti pubblicamente scritto al suo
direttore Vittorio Feltri e, per suo tramite, ai lettori per rivendicare la superiorità
sulle leggi ordinarie dell' imperativo morale che lo ha condotto ad arruolarsi con
gli uomini del Sismi. Questa è la «quarta guerra mondiale» scrive Farina. E
ancora: in questa guerra «ho cercato di fare di tutto e di più per difendere questo
nostro Paese e la sua civiltà cattolica». E, avendo scelto di «schierarmi dalla
parte dell' Occidente e di chi opera per tutelarlo», non vale il richiamo alla
deontologia professionale, argomento ben più miserabile di quanto non sia il
clangore dello scontro di civiltà, non vale il codice di pace, la legge di tutti i
giorni, le norme che forse sono buone per regolare il giornalismo di routine e di
scrivania, ma certo non per liberarci dalle briglie asfissianti che ci impediscono
di combattere nel conflitto totale cominciato l' 11 settembre. Ogni scelta è
giustificata, se ci si consacra a questa battaglia: anche il sostegno attivo alle
operazioni dei servizi segreti, anche contrastare con il depistaggio e l' abuso
bellico dei giornali chi intende indebolire la parte in guerra che abbiamo deciso
di appoggiare. La legge di Antigone, appunto, la quale, nel nome della
supremazia della legge umana che alberga nella coscienza di ciascuno
anteriormente all' ordinamento giuridico che ogni collettività organizzata si dà, si
dispone a violare la legge dello Stato, del re, del potere costituito. Con un
dettaglio decisivo, però: che, sfidando le leggi dello Stato, Antigone è
perfettamente cosciente di infrangere una norma e, sia pur nel nome di una
morale superiore alle norme infrante, di dover pagare un prezzo elevatissimo,
persino la morte. Ecco il pezzo mancante nella pur coraggiosa autodifesa di
Farina: le leggi dello Stato, deliberatamente violate in virtù di un imperativo
categorico supremo, legittimano chi ne tutela l' integrità a sanzionare la
violazione. È una lezione che nella storia del Novecento si è incarnata nella
missione di Gandhi, la cui azione non violenta postulava il riconoscimento della
legittimità persino della rappresaglia repressiva nei confronti di chi violava una
legge, sebbene considerata ingiusta. In Italia questa cultura ha invece attecchito
con grande difficoltà. Fanno eccezione i radicali di Marco Pannella, per i quali la
«disobbedienza civile» è una sfida alla legge, ma non una pretesa di immunità, e
la deliberata, plateale, provocatoria inosservanza di una legge «ingiusta»
contiene in sé (e non è un paradosso) il richiamo a intervenire rivolto a chi ne è
istituzionalmente preposto alla tutela: Pannella ha forse protestato quando un
difensore della legge è venuto a impedirgli la pubblica distribuzione di
marijuana? Ma nella guerra al terrorismo internazionale, ha sostenuto con molti
e convincenti argomenti Magdi Allam su questo giornale nel solco di una
discussione innescata da Sergio Romano, le regole sono inadeguate. Se è così,
allora si provveda a cambiarle. Se rimangono queste, tuttavia, è necessario che si
rispettino. Oppure, come lascia intuire Farina, le si infranga. Ma non
protestando, questo è il punto, se chi è chiamato a difendere la legge decide di
perseguire chi decide di stracciarla, anche ispirato dai più nobili princìpi. È d'
accordo, Renato Farina, che il soldato della quarta guerra mondiale, il crociato
della guerra santa dell' Occidente cristiano contro il terrorismo jihadista venga
perseguito dalle leggi ordinarie dello Stato senza perciò gridare alla
persecuzione e atteggiarsi a vittima della repressione? A giudicare dalle sue
parole, non si direbbe. E meno che mai Farina, c' è da supporre, sottoscriverebbe
la massima di Giovanni Bianconi nella discussione sul Corriere: «anche l'
illegalità deve avere le sue regole». Eppure è così, è l' archetipo di Antigone che
contiene questo insegnamento. Ed è anche curioso che Farina, nella sua
autodifesa, ometta totalmente il dettaglio della ricevuta che attesterebbe il
pagamento che i servizi segreti avrebbero elargito all' agente «Betulla». Può
darsi che il silenzio sia motivato dall' entità esigua della ricompensa finora
accertata. E può darsi che Farina, per tutelare esigenze di segretezza, non voglia
diffondersi in particolari sull' eventuale destinazione di quei fondi finiti nella
disponibilità di altri destinatari. Può darsi, ma in quel dettaglio dei soldi si cela
un aspetto cruciale della vicenda. Sul quale sorvolare con macroscopiche
omissioni appare davvero stravagante. In difesa di Farina, Giuliano Ferrara,
nemico di ogni ubbia moralistica, difende anche quei soldi, equivalente (del resto
il denaro, marxianamente, questo è: «equivalente universale») del
riconoscimento di un lavoro. È una posizione comprensibile. Ma quella di Renato
Farina qual è? Lo comprende il vicedirettore di Libero che è difficile, molto
difficile accettare che l' ideale sia remunerativo e che è comune immaginazione
che la guerra contro i nemici della civiltà sia animata da motivazioni non
esattamente identiche al diritto alla «giusta mercede»? E un' altra domanda, a
Ferrara e a Farina. Se per pura ipotesi, tanto per dire, un giorno si dovesse
accertare un qualche rapporto di remunerazione tra Marco Travaglio, a Ferrara
e Farina assai inviso, e la Procura antimafia, Ferrara e Farina difenderebbero
quel passaggio di denaro nel nome della «superiore» lotta alla mafia? E se,
sempre per paradosso, anche Giuseppe D' Avanzo venisse scoperto a percepire
una «giusta mercede» dal capo della Polizia nella guerra al crimine, Libero e il
Foglio sparerebbero a zero, oppure farebbero mostra di comprendere quanto
penosa e irta di contraddizioni sia la sfida alla malavita che ha visto arruolarsi il
loro giornalista-nemico? C' è da dubitare della seconda ipotesi. Resta la validità
di due paradossi per sottolineare che l' omissione di Farina non funziona. E che
ancora c' è da spiegare, per puro amore della verità, cosa ha esattamente portato
un giornalista a trasformarsi nell' «agente Betulla».
Battista Pierluigi
ELZEVIRO ALLE ORIGINI DELL' ETICA
il dilemma legge e natura
«Dimmi, Pericle, mi sapresti spiegare cos' è la legge?» chiese un giorno il
giovane Alcibiade a Pericle. «È quello che il popolo decide in assemblea e mette
per iscritto, stabilendo quel che si può fare e quel che non si può fare» rispose
Pericle. Ma Alcibiade non si accontentò della risposta: «E se non si riunisce in
assemblea il popolo, ma solo una minoranza, quel che decide si chiama sempre
legge?». Con domande sempre più provocatorie, Alcibiade impegna Pericle in un
dibattito che, si può ben dire, non ha mai avuto fine: quando una decisione non è
più legge, ma prevaricazione? In Occidente, la discussione sul fondamento della
legge ebbe inizio in Grecia. I romani, poi, fecero del diritto una scienza, un
sistema articolato di principi estratti dalle varie norme che regolavano la loro
vita sociale. Ma furono i greci i primi a riflettere sul rapporto tra legge, diritto,
natura, morale, giustizia, politica Ciascuno nelle sue forme, ciascuno nella sua
prospettiva, poeti, filosofi, storici, retori si posero i problemi che vengono oggi
richiamati alla nostra attenzione in un volume, intitolato - da un celebre
frammento di Pindaro - «Legge sovrana. Nomos basileus» (Rizzoli, pp.160, 8,20).
Dopo un' introduzione di Ivano Dionigi («Aporie della legge»), il libro contiene
saggi di Gustavo Zagrebelsky, Luciano Canfora, Gianfranco Ravasi e Massimo
Cacciari, cui fa seguito, come in tutti i volumi di questa collana, un florilegio («I
volti della legge»), in questo caso tratto da testi greci, latini e giudaico cristiani.
Difficile, nello spazio consentito, rendere conto di tanti temi e problemi. Il primo,
forse il più celebre di essi, è il conflitto tra leggi scritte e non scritte. Nell'
omonima tragedia di Sofocle, Antigone - violando un bando del sovrano Creonte -
dà sepoltura al fratello Polinice, caduto combattendo contro la patria. Alle «leggi
scritte» di Creonte, in un celeberrimo dialogo, contrappone le «leggi non
scritte», che impongono di dare sepoltura ai familiari; e quindi - condannata a
morte - si suicida. Da che parte sta la ragione? Secondo la lettura tradizionale,
Antigone è l' eroina che resiste all' arbitrio; in una lettura che parte da Hegel,
invece né Antigone né Creonte hanno ragione, nessuno dei due ha torto:
Antigone dichiara la sua fedeltà ai principi etici sentiti dall' individuo come
imprescindibili; Creonte alle regole dettate dal potere politico. Ma ambedue i
sistemi giuridici hanno un fondamento: qui sta il dilemma tragico. Inevitabile che
la tragedia termini con l' annientamento di ambedue: Emone, figlio di Creonte, si
uccide sul cadavere di Antigone, sua fidanzata; appresa la morte del figlio, si
suicida Euridice, moglie di Creonte. Anche se fisicamente sopravvissuto, Creonte
è un uomo finito. Ma il testo di Sofocle, osserva Zagrebelsky («Il diritto di
Antigone e la legge di Creonte»), sembra fatto apposta per invitare a
trovare una soluzione che dia sbocco al conflitto tra le due leggi,
trasferendo il problema della loro legittima coesistenza sul terreno
politico: le parti devono mettersi a confronto, in un dialogo che realizzi la
saggezza pratica indispensabile per agire nella vita di relazione. Nel
secondo saggio («La legge o la natura?»), Canfora affronta un non meno
importante problema. Nata a difesa dei più deboli, affermatasi come
strumento democratico e vista da Pericle (in Tucidide) come baluardo
della libertà individuale, la legge scritta - dopo che la Sofistica aveva
denunziato la sua natura di «convenzione» - venne a essere contrapposta
alla natura. Ma qual era la legge di natura? Come il mondo animale dimostrava,
era forse la legge del più forte? E nella politica? Nella democrazia radicale,
scrive Canfora, si produce una svolta, legata anch' essa ai rapporti di forza: nella
città nasce l' idea che il popolo sia esso stesso al di sopra della legge.
Impossibile, qui, seguire le considerazioni da lui svolte sulla dialettica legge-
popolo. Chi le leggerà ne capirà l' interesse. Seguono, infine, due saggi sulla
tradizione giudaico-cristiana. Nella Torah - ricorda monsignor Ravasi («Le tavole
della Legge e del cuore») - coesistono la legge mosaica divina e quella umana,
che traduce il decalogo del Sinai in minuziose prescrizioni, nelle quali «si
consolida la visione di un impero della legge che nello Stato ebraico nato dalle
ceneri dell' esilio babilonese (VI secolo a.C.) acquista connotati teocratici e rivela
un formalismo eccessivo, contro il quale reagiranno i Profeti, e in seguito Gesù».
Nel «Discorso della Montagna», infatti, Gesù estrae dal groviglio delle regole
etico-sociali una prospettiva globale, che supera ogni legalismo; tra i 613
precetti che la tradizione rabbinica ha catalogato nella Torah egli individua come
primario il comandamento dell' amore: «Amerai il Signore Dio tuo amerai il
prossimo tuo come te stesso». E dal «Discorso della Montagna» parte Cacciari
(«Il nomos dell' amore»), per chiedersi «come si può comandare di amare?»
Amare l' amico, certo, ma anche il nemico; essere perfetti, come il Padre. «Non
sono venuto a sciogliere la legge - dice Cristo - ma a completarla». Siamo di
fronte a una svolta radicale. Con la guida di Paolo, Matteo, Agostino, Cacciari ne
spiega il senso: la legge va osservata, è giusta e santa, ma non basta a vincere il
peccato. È l' angoscia per il limite della legge che consente di raggiungere lo
stato sub gratia
Cantarella Eva
CARCANO / DOMANI IN PRIMA NAZIONALE LA TRAGEDIA DI SOFOCLE TRADOTTA
DAL POETA GIOVANNI RABONI
Bosetti: «La mia Antigone talebana»
Il regista e attore: «Un palco nudo per mettere in rilievo il potere della parola»
Dipinto tutto di nero, pareti e palcoscenico, il Teatro Carcano sembra una
immensa lavagna su cui potrebbero essere scritte cose terribili. Fa anche
pensare alla misteriosa «scatola» che viene interrogata per conoscere i fatti
avvenuti prima di una recente tragedia aerea... «Di una tragedia di 2500 fa,
invece, si tratta: quella di Antigone, sorta di terrorista ante litteram pronta a
tutto per difendere i propri valori - dice Giulio Bosetti, che mette in scena lo
straordinario testo di Sofocle -. Reclama, rischiando la morte, la dignità della
sepoltura del fratello Polinice, che il capo del governo di Tebe, Creonte,
considera un nemico, un talebano, e forse ha tutte le ragioni». Lei, Bosetti, in
una tregua dall' amato Pirandello, fa Creonte. Nel ruolo protagonista la giovane
Sandra Franzo. Chi di voi due è nel giusto? «La domanda resta ancora aperta,
anzi si ripropone ogni volta che la ragion di Stato o l' ideologia si scontra con la
pietà umana. Mi pare che abbiamo esempi ogni giorno nel mondo...». Una lettura
contemporanea? «Sofocle lo è già. Nella splendida traduzione dell' amico e poeta
Giovanni Raboni il linguaggio si è avvicinato al nostro, al suo ritmo. Non ho
invece ritenuto necessario inserire filmati di guerra o moderne divise militari
come si vede spesso sui palcoscenici». Rari in stagione, i classici sono
appannaggio delle rassegne estive, più tradizionali... «Questa "Antigone"
debuttò, infatti, nel 2000 a Siracusa, ma tra cori e scenografie imponenti fu
proprio la grande poesia di Sofocle a perdersi nella vastità. Con questa "nuova"
rappresentazione diamo spazio alla parola, come suono e pensiero. Il palco è
nudo, accennate le musiche di Chiaramello, determinanti le luci di Pasquale Mari
(che lavora per Bellocchio, ndr)». All' inizio dello spettacolo il coro avanza verso
il pubblico. Come alle origini del teatro, da lì nascono i personaggi? «Si staccano
per vivere la loro storia, ma tutti noi siamo coro». La sentenza finale? «Più che
gli déi tragici che condannano Creonte, pentito della sua crudeltà solo alla
notizia dei suicidi del figlio Emone, fidanzato di Antigone, e della moglie Euridice
interpretata da Marina Bonfigli, saranno gli spettatori i veri giudici». Giulio
Bosetti, 75 anni, nel ruolo di Creonte per l' «Antigone» (interpretata da Sandra
Franzo) da lui diretta. «Ragion di Stato e ideologia si scontrano oggi come nell'
antichità», dice
Provvedini Claudia
LA LETTURA SIN DALLE ORIGINI DELLA CIVILTÀ, ALLE LEGGI POSITIVE SI
CONTRAPPONE L' UNIVERSALITÀ DEI VALORI UMANITARI. PER QUESTO L' ETICA HA
BISOGNO DELLA POESIA
Letteratura e diritto Una battaglia tra due libertà
«Se la sbrighi ciascuno col suo peccato - dice don Chisciotte vedendo la fila dei
galeotti in catene; non è bene che gli uomini onesti si facciano carnefici di altri
uomini». Sotto i più diversi cieli e nelle più diverse epoche, la letteratura
sembra pervasa da un rifiuto del diritto e della legge, che essa respinge
spesso confondendo e identificando i due termini e le realtà diverse che
sottendono. Novalis, il romantico tedesco che si propone di poetizzare ossia di
riscattare poeticamente il Tutto, scrive in uno dei suoi frammenti: «Io sono un
uomo completamente illegale; non ho il senso né il bisogno del diritto» (...). L'
avversione della poesia al diritto ha verosimilmente un' altra ragione profonda.
La legge instaura il suo impero e rivela la sua necessità là dove c' è o è possibile
un conflitto; il regno del diritto è la realtà dei conflitti e della necessità di
mediarli (...). Il diritto appare dunque legato alla barbarie del conflitto;
necessario, ma come lo è un' amputazione in una malattia o una difesa armata da
un attacco armato. Nella poesia - anche la più sofisticata e trasgressiva - c' è
quasi sempre, evidente o nascosto, il sogno - nostalgia rivolta al passato o
profezia proiettata nel futuro - dell' età dell' oro, dell' innocenza di ogni pulsione,
del lupo e dell' agnello che si abbeverano amichevolmente alla stessa fonte.
Questa redenzione poetica di ogni pulsione, che Novalis e forse anche Rimbaud
ritenevano possibile, tinge del proprio colore di fiore azzurro perfino certi
movimenti rivoluzionari protesi a creare politicamente ed esistenzialmente l'
uomo nuovo; durante la Comune di Parigi, i comunardi sparavano agli orologi per
simboleggiare la fine del tempo storico e giuridico dell' ingiustizia e l' avvento di
un tempo nuovo, messianico. La rivoluzione come orgasmo, predicata nel
Sessantotto, è l' ennesima, stantia ripetizione di questo sogno di abolire la legge,
legata all' esistenza di rapporti di violenza. «Il dominio del diritto - dice un altro
frammento di Novalis, angelico precursore delle assemblee pulsionali - cesserà
insieme con la barbarie». Il rifiuto della legge avvicina la poesia alla fede.
Nessuno ha messo sotto accusa la legge come San Paolo e la teologia, specie
protestante, che deriva da lui. «La legge provoca la collera di Dio», sta scritto
nella Lettera ai Romani; è essa che fa prendere vita al peccato e lo fa
sovrabbondare, si dice ancora, e Lutero incalza: «Prima ero libero e andavo nella
notte senza lanterna; ora, dopo la legge, ho una coscienza e prendo una lanterna
nella notte. Dunque la legge di Dio non è nulla, se non l' inizio della cattiva
coscienza». La risposta dell' uomo religioso all' orrore della legge è il salto nella
grazia, l' abbandono alla fede, che salva al di là del giudizio perché non si basa
sull' esame delle azioni, meritorie o delittuose, bensì sull' unione totale in Dio,
indipendentemente da ogni valutazione morale: «Abramo si salva», scrive Karl
Barth, non per quello che fa, bensì perché «crede in colui che dichiara giusto l'
empio» (...). Nella letteratura tale violenza religiosa si laicizza, conservando
tuttavia la propria radicalità: all' abbandono in Dio si sostituisce spesso l'
abbandono alla totalità della vita, l' armonia col suo fluire al di là del bene e del
male. Per Kafka, la legge pone l' individuo fuori dalla vita - fuori del territorio
dell' amore, scrive all' amica Milena (...). Ma questa consapevolezza lo induce a
un peccato secondo Kafka ancora più grave ossia a pretendere di non mescolarsi
al buio e all' impuro della vita, di essere puro, orgogliosamente scevro di ogni
colpa e della stessa colpa di vivere. Tale superba pretesa di non essere sporcato
dal fango della vita è la sua colpa, che lo estrania agli uomini e lo condanna a
restare sempre davanti alle porte della legge, come nella famosa parabola, a non
entrare nella vita, a «difendersi sino alla fine», come dice nel Processo Josef K.,
colpevole proprio per tale ossessione di difesa legalistica. Con questa ansia di
perfetta innocenza e purezza è impossibile non violare alcun codicillo: «Sempre
si trasgredisce la legge», dice Fischerle nell' Auto da fé di Canetti (...). In
Michael Kolhaas - il più grande racconto che sia mai stato scritto sulla lettera e
lo spirito della legge, la sua violazione e la sete di giustizia - Kleist mostra la
tragica violenza immanente alla sacrosanta esigenza di ottenere e farsi giustizia.
La poesia - come la vita, come l' amore - vorrebbe la grazia, non la legge; essa
racconta l' esistenza piuttosto che giudicarla, come nel detto evangelico: «Nolite
judicare» (...). La letteratura rivela così la sua profonda e contraddittoria essenza
morale; nemica della legge astratta e disincarnata, essa è un' incarnazione della
legge. I fondatori di religioni e i creatori di etica hanno bisogno della letteratura;
raccontano parabole, in cui un' astratta verità morale, che altrimenti morirebbe
subito di inedia, diviene vita concreta, epico racconto della vita. Il commento alla
Legge per eccellenza, la Torah, diviene la grande narrazione talmudica. Questa
epicità, che è inizialmente accettazione dell' esistenza intera al di là del bene e
del male, contiene il giudizio, pure il castigo che deve seguire il delitto;
Raskolnikov accetta intimamente - pur giustamente convinto dell' irripetibile
diversità del suo cuore, irriducibile a ogni comma giuridico - la pena e la Siberia.
Sin dalle origini fondanti della nostra civiltà, al diritto codificato ossia alla legge
viene contrapposta l' universalità di valori umani che nessuna norma positiva può
negare: all' iniqua legge dello Stato promulgata da Creonte, che nega
universali sentimenti e valori umani, Antigone contrappone le «non
scritte leggi degli dèi», i comandamenti e i principi assoluti che nessuna
autorità può violare. Il capolavoro di Sofocle è una tragica espressione
del conflitto tra l' umano e la legge, che è pure conflitto tra il diritto e la
legge. Il decreto iniquo di Creonte è una legge positiva, con un suo
contenuto specifico. Ad essa Antigone contrappone un diritto non
codificato, potremmo dire consuetudinario, tramandato dalla pietas e
dall' auctoritas della tradizione, che si presenta quale depositario stesso
dell' universale, un diritto al di sopra della legge positiva. In questo caso,
esso corrisponde a imperativi categorici assoluti; Antigone è il simbolo
intramontabile della resistenza alle leggi ingiuste, alla tirannide, al male:
veneriamo come eroi e martiri i fratelli Scholl o il teologo Bonhoeffer
che, come Antigone, si sono ribellati alla legge di uno Stato - quello
nazista - che calpestava l' umanità, sacrificando in questa ribellione la
loro vita. Ma Antigone è una tragedia ossia non è solo una nitida
contrapposizione di pura innocenza e truce colpa, ma è un conflitto nel
quale non è possibile assumere una posizione che non comporti
inevitabilmente, per tutti i contendenti, anche i più nobili, pure una
colpa. Sofocle, genialmente, non raffigura Creonte quale un mostruoso
tiranno; questi non è un Hitler, ma è un governante le cui responsabilità
di governo, di tutela della città, possono chiedere di tener conto - in
nome dell' etica della responsabilità, per citare Max Weber - delle
conseguenze, sulla vita di tutti, di una disobbedienza alle leggi positive e
di un possibile caos che ne segua. A seconda della costellazione storico-
sociale, la libertà e la democrazia si difendono appellandosi al diritto non scritto,
depositario di tutta una tradizione culturale, o alla legge positiva. Durante la
Repubblica di Weimar, i democratici si appellavano alle leggi positive che
punivano le dilaganti violenze antisemite, mentre giuristi e intellettuali filonazisti
sostenevano che quelle leggi non corrispondevano al radicato sentire del popolo
tedesco e dunque al suo diritto profondo ed erano perciò astratte; durante il
nazismo, ad appellarsi alle «non scritte leggi degli dèi», contro le positive leggi
razziali e liberticide del regime, erano gli oppositori del nazismo (...). Legge e
diritto sanciscono questo peccato originale, questa impossibilità dell' innocenza
dell' esistere. Ed è questo che, pur contrapponendo poesia e diritto, anche li
avvicina, perché - scrive Salvatore Satta in un passo del Giorno del Giudizio sul
quale ha richiamato l' attenzione Giovanni Gabrielli - «il diritto è terribile come la
vita» e la letteratura, chiamata a raccontare la nuda verità della vita senza
remore moralistiche, non può non avvertire una pericolosa vicinanza a quella
terribilità e a quella malinconia. (...) È soprattutto in Germania che si è
verificata, specialmente in età romantica, una singolare alleanza, quasi una
simbiosi tra poesia e diritto - inteso quale diritto consuetudinario e non quale lex
positiva. I fratelli Grimm, grandi filologi e letterati, erano giuristi. Raccogliendo
le loro celebri fiabe, intendevano salvare il grande patrimonio del «buon vecchio
diritto» ossia delle consuetudini, tradizioni, usi locali del popolo tedesco nella
sua coralità; patrimonio che nei secoli era stato conservato nella letteratura
popolare. Nella stessa epoca, come sottolinea Maria Carolina Foi, scoppia in
Germania un' interessantissima polemica giuridica fra Thibaut, che propugna per
la Germania, sul modello napoleonico, un codice civile unitario e unificante - atto
a rendere tutti i cittadini uguali davanti alla legge e a spazzare via i privilegi
feudali - e Savigny, che vuole invece difendere la varietà, le diversità locali, le
differenze e disuguaglianze dell' antico diritto comune consuetudinario,
espressione del Sacro Romano Impero, vedendo invece nel codice unico uno
strumento di livellamento autoritario. Naturalmente, a seconda delle circostanze,
è l' una o l' altra delle posizioni a difendere concretamente la libertà degli
uomini: il modello unificante potrà essere appiattimento tirannico staliniano delle
diversità o tutela democratica dei diritti di tutti gli uomini, come la sentenza che
più di quarant' anni fa impose a un' università del Sud degli Stati Uniti di
accogliere uno studente nero, facendo giustamente violenza alla diversità della
cultura bianca e del suo razzismo stratificato nei secoli (...). Nella cultura
tedesca, l' affinità fra diritto e letteratura si trasforma in pochi anni da armonioso
idillio a comune lacerazione. La rivoluzione che investe - a partire dal fin de
siècle, ma con dei preludi già in età romantica - la letteratura moderna e
contemporanea, sconvolgendo radicalmente forme strutture e valori, distrugge
anzitutto l' idea di totalità e di centralità e di ogni compatta unità, sia dell' Io sia
del mondo; priva la realtà - e la sua rappresentazione - di un centro, fa di ogni
individuo un uomo senza qualità ossia un insieme di qualità prive di un centro
unificatore e organizzatore. A questa eclissi di un valore centrale e di un
soggetto capace di costruire una gerarchia armoniosa del reale corrisponde in
sede giuridica, ha scritto Natalino Irti, l' eclissi del codice unitario, sopraffatto da
una centrifuga selva di leggi particolari avulse da ogni totalità: anch' esse una
mera «anarchia di atomi»; come Nietzsche (e con lui Musil, ma prima di lui già
Bourget) definiva quello che un tempo era Sua Maestà l' Io. Ed è lo stesso
Nietzsche che - nell' aforisma 449 di Umano, troppo umano, analizzato sotto
questo profilo da Irti - constata che «il diritto non è più tradizione» e dunque,
vista la sua necessità alla vita sociale, può e deve essere solo imposto, cogente e
arbitrario, non fondato su nulla. Nell' età contemporanea ogni fondamento,
secondo Nietzsche, si è dissolto; il diritto si è sciolto da ogni tradizione fondante,
religiosa o culturale, e poggia sul nulla, come l' arte, la filosofia, l' uomo stesso
(...). Nonostante tutto questo, il sentire comune contrappone volentieri la
passione della poesia alla razionalità non tanto del diritto, quanto della legge. È
soprattutto il formalismo di quest' ultima ad apparire cavilloso, arido, negatore
della calda umanità. Ma - come ha sottolineato Ascarelli - Shakespeare, nel
Mercante di Venezia, ci mostra genialmente come l' umanità, la giustizia, la
passione, la vita, vengano salvate da Porzia travestita da sottilissimo e capzioso
avvocato, grazie al formalismo giuridico più sofistico, che autorizza sì Shylock a
prendere una libbra di carne dal corpo di Antonio, ma senza versare neanche una
goccia di sangue. Non è il caldo appello all' umanità, ai sentimenti, alla giustizia
a salvare la vita di Antonio, bensì il freddo richiamo avvocatesco alla lettera
formale della legge. Questa freddezza logica salva i valori caldi: non solo la vita
di Antonio, ma anche l' amicizia di Antonio e Bassanio e soprattutto l' amore di
Porzia e Bassanio, prima turbato dall' angoscia di quest' ultimo per la sorte dell'
amico: «Voi non giacerete accanto a Porzia con l' animo inquieto», dice la donna
all' amato, decidendo allora di liberarlo da quell' inquietudine che offusca l' eros
e di salvare dunque, con i cavilli legali, Antonio. Tanta letteratura ha guardato
con astio al diritto, considerandolo arido e prosaico rispetto alla poesia e alla
morale (...). A differenza di chi declama le profonde ragioni del cuore pensando
in realtà che esista solo il suo cuore, la legge parte da una conoscenza più
profonda del cuore umano, perché sa che esistono tanti cuori, ognuno con i suoi
insondabili misteri e le sue appassionate tenebre, e che proprio per questo solo
delle norme precise, che tutelano ognuno, permettono al singolo individuo di
vivere la sua irripetibile vita, di coltivare i suoi dèi e i suoi demoni, senza essere
impedito né oppresso dalla violenza di altri individui, come lui preda di
inestricabili complicazioni del cuore, ma più forti di lui, come i galeotti liberati di
don Chisciotte sono più forti di lui e lo malmenano brutalmente (...). La ragione e
la legge hanno spesso più fantasia del cuore, capace solo di sentire le proprie
inestricabili complicazioni e incapace di immaginare che esistano pure quelle
altrui. Il cuore, diceva Manzoni, sa assai poco, appena un po' di ciò che gli è stato
raccontato; spesso è tutta una gran confusione, scrive Stefano Jacomuzzi.
Qualificare l' omicidio o il furto come reati non basta per capire i diversi motivi
per i quali diverse persone li compiono, ma chi si appella a ineffabili motivazioni
dell' animo per sfuocare la gravità di quei reati capisce ancor meno le persone
che li commettono. Il legislatore che punisce la corruzione negli appalti pubblici
è un artista che sa immaginare la realtà, perché in quella corruzione vede non l'
astratta violazione di una norma, ma, ad esempio, le cattive attrezzature di cui -
causa quella corruzione - viene dotato un ospedale, in luogo di quelle efficaci che
esso avrebbe avuto grazie a un' asta corretta: dietro quel reato ci sono dunque
malati curati peggio, individui concreti che soffrono. Gli antichi, che avevano
capito quasi tutto, sapevano che ci può essere poesia nel legiferare; non a caso
molti miti dicono che i poeti sono stati anche i primi legislatori. www.corriere.it
Sul sito il testo integrale dell' intervento di Claudio Magris Il conflitto Per lo
scrittore Franz Kafka (a sinistra in un ritratto di Tullio Pericoli), la legge pone l'
individuo fuori dalla vita. A sua volta il poeta Novalis (a destra) scrive in un
frammento: «Io sono un uomo completamente illegale; non ho il senso né il
bisogno del diritto» L' autore Il testo pubblicato in questa pagina è una sintesi
della «lectio magistralis» su «Letteratura e diritto» tenuta da Claudio Magris
(nella foto) a Madrid lo scorso 24 febbraio, quando l' Università Complutense gli
ha conferito la laurea honoris causa
Magris Claudio
MARTA FERRANTI PROTAGONISTA TRA LA VITA E LA MORTE PER GIUSEPPE MARINI
Antigone, un' eroina insopportabile
Tre sono i problemi dell' Antigone di Giuseppe Marini: lo spazio, il tempo e gli
attori. Lo spazio è un piccolo teatro all' antica, di rossi velluti, angusto e
confortevole: come è concepibile allestirvi l' Antigone? Il tempo riguarda solo
Marini. Si prende tutto il tempo che può. Non c' è entrata o uscita di scena che
non avvenga in modo solenne. L' obiezione scaturisce dal buon senso. Va bene
che Antigone è una tragedia, ma non bastano i fatti a renderne edotto lo
spettatore? Perché debbono essere tutti messi in corsivo, sottolineati in quanto
fatali? Terzo problema, il più arduo: Marini si rivela fedele, ha cominciato con i
suoi giovani attori, ha avuto successo, con loro continua. Ma se il regista è
cresciuto, degli attori non si può dire altrettanto. Essi ubbidiscono alle
indicazioni di regia e vanno come figure in un carillon, tutti avanzano come ho
detto, tutti urlano o sussurrano fino a cancellare le sfumature di comportamento
o d' intenzione. Per quanto riguarda la protagonista, Marini ha la sua idea: «E'
già oltre, tutta chiusa in un' intraducibile estraneità interiore, occupando uno
spazio ellittico e liminale, entre deux, tra la vita e la morte, dove la ragione
collassa». Ma perché, se Antigone (Marta Ferranti) è così «in limine», quando è
sul punto di fisicamente scomparire si denuda il seno destro? Non si tratta di una
piccola contraddizione, o di una caduta di gusto. Si tratta, io credo, di un
rimorso, di un soprassalto di ciò che da Marini è stato negato, la presenza
incombente di colei che sembra sottrarsi. E, in realtà, Ferranti si fa notare per
quel suo essere composta, verginella, piccola santa: un essere insopportabile, un'
eroina di cui diffidiamo! Ecco, a proposito di diffidenza, l' opposto versante. Ma
che ha tanto da urlare il tiranno? Per Hegel, Creonte non era neppure un tiranno.
Per tutti noi, lo è. Ma cosa voleva chiarire Marini, ciò che già sappiamo e che è
stato acquisito dalla coscienza moderna, che Creonte è proprio un tiranno? O
voleva sottintendere che quelle urla celano il principio della fine, che egli sta
nascondendo la propria debolezza, la viltà che lo insidia? In quanto prediletta
(dagli dèi, dal padre), e dunque aristocratica invocatrice dell' Invisibile e, nello
stesso tempo, solida partigiana di valori tecnici (un fratello è insostituibile, un
marito o un figlio no), e perciò contrapponendo la propria pietà, il proprio privato
sentimento alla altrui ragione, Antigone si comporta come una qualunque ribelle,
un' anarchica, una individualista. Da parte sua, il tecnocrate Creonte, il
partigiano del visibile, di fronte al contropotere di Antigone si limita a usare il
potere che gli conferiscono le leggi. Se dovessimo pronunciare un giudizio
politico, come potremmo non essere con Antigone e contro di lei? O, viceversa,
come possiamo non essere con Creonte e tuttavia contro di lui, contro la sua
empietà? Per Marini, e per tutti noi, è pacifico che Antigone è la libertà, è
il personaggio positivo. Ma così non è. Ed è così vero che lo spettacolo va
contro le intenzioni del suo autore. Egli smorza con sottigliezza i rossi velluti con
i grigi su grigio dei costumi o con la soffocante semicirconferenza tombale della
città di Tebe. A dominare la scena non è la creatura «entre deux». Lo è, in modo
inconsapevole, Creonte (Luca Carboni) e il meglio di sé lo spettacolo, senza
operare rovesciamenti dell' acquisito sul piano concettuale, lo dà nella sua
qualità stilistica, che contraddice la gravità dell' assetto formale. L' Antigone di
Marini è anzi popolare, schietta, diretta: non teme la contaminazione e non teme
gli effetti, né visivi, né sonori, tutta quella Laurie Anderson, tutto quel Puccini,
quel Bach. ANTIGONE di Sofocle/Marini Teatro della Cometa, Roma
Cordelli Franco
ELZEVIRO LA RISCOPERTA DI SOFOCLE
IL MITO PERENNE DI ANTIGONE
« Antigone celeste » , la definisce Hegel. « Antigone dall' anima di luce, Antigone
dagli occhi di viola » , la invoca D' Annunzio: da quando la sua storia fu messa in
scena ad Atene, nel 442 a. C., il mondo si è innamorato di Antigone. Nella
versione di Sofocle, il suo mito è diventato la più celebre, e secondo molti la più
bella, delle tragedie greche. Difficile contare il numero delle traduzioni,
degli adattamenti, delle rivisitazioni: una ventina di anni or sono George
Steiner calcolava fossero circa 1.530. Difficile trovare miglior
dimostrazione della capacità della tragedia greca di rappresentare storie
che continuano ad avere senso ben oltre il momento e il luogo nel quale
furono concepite. Nel caso di Antigone, una storia notissima: figlia delle nozze
incestuose tra Edipo e sua madre Giocasta, Antigone vive nella città governata
dallo zio Creonte. I suoi due fratelli, Eteocle e Polinice, sono morti l' uno per
mano dell' altro: Eteocle difendendo la città dall' assalto dei nemici; Polinice
assediando una delle sue sette porte, difesa da Eteocle. Creonte decreta: come
traditore della patria, Polinice non avrà sepoltura. Chi violerà il divieto sarà
lapidato. Ma Antigone viola il bando: rendere gli onori funebri a Polinice è un
dovere più forte della legge umana. Quando scopre che a violare il suo decreto è
stata sua nipote, che è anche la fidanzata di suo figlio Emone, Creonte è
sconvolto. Nel primo dialogo tra i due - nel quale secondo Goethe è racchiusa l'
essenza stessa della tragedia - Creonte e Antigone dichiarano ciascuno di
rispettare le leggi. Antigone quelle « non scritte » , che esprimono principi etici
imprescindibili; Creonte quelle « scritte » , dettate dal potere politico. Qui sta il
dilemma tragico: ciascuno dei sistemi di leggi invocate ha un suo
fondamento. Né Creonte né Antigone hanno torto. Creonte ha un forte
senso dello Stato: tutti i cittadini devono essere uguali di fronte alla
legge, anche sua nipote, anche la fidanzata di suo figlio. Antigone ritiene
di non dover rispettare una regola della quale non riconosce il
fondamento etico. La tragedia si conclude con la fine di entrambi.
Condannata a morte, Antigone si suicida. Creonte è un uomo annientato:
Emone si uccide sul cadavere di Antigone e alla notizia della sua morte si
uccide Euridice, moglie di Creonte. La fine della tragedia è la fine
inevitabile del conflitto che si ripropone eternamente, ogni volta che l'
applicazione della regola giuridica si scontra con una realtà sociale e una
valutazione etica che non riconoscono il suo fondamento morale. Antigone
pone il problema perenne della tensione tra la regola giuridica e la sua
interpretazione e applicazione, che consentono al diritto di non cristallizzarsi in
una staticità che può farlo percepire come ingiusto. Ma anche altri conflitti sono
espressi nello scontro tra Antigone e Creonte: quello tra sessi, tra generazioni,
tra individuo e società, tra vivi e morti, tra essere umano e divinità: tutti i
conflitti che tornano come costante dell' esperienza umana. A questo aggiungasi
che la tragedia tocca un altro tema, fortemente sentito dalla cultura idealistica e
romantica: l' amore fra fratello e sorella, esaltato come il sentimento più
completo, oltre e al di sopra dell' erotismo. Sono molti, insomma, i motivi dell'
incredibile successo di Antigone fra letterati, musicisti, eruditi e filosofi, in
particolare nel XIX secolo: Hölderlin, Shelley, Hegel, Wagner Ma la popolarità di
Antigone non si esaurì con quel secolo. Nel 1944, sotto il governo Vichy, la
censura tedesca autorizzò a mettere in scena l' Antigone scritta da Anouil nel '
42. Francesi e tedeschi applaudirono, insieme, ma per ragioni diverse. Gli
occupati si identificavano con Antigone, gli occupanti trovavano in Creonte la
giustificazione della loro presenza. Anche per questo, per la sua capacità di
prestarsi a letture continuamente e anche simultaneamente diverse, Antigone è
sempre fra noi.
Cantarella Eva
INCONTRI DEMOSTENE, ROUSSEAU, LENIN: I DISCORSI CHE HANNO FATTO EPOCA
IN UN' INIZIATIVA DELLA «FONDAZIONE CORRIERE DELLA SERA»
Rivoluzionari e tiranni, potere alla parola. Retorica
Prima venne Vittorio Sermonti, con le sue letture dantesche che riempivano la
chiesa e il sagrato di Santa Maria delle Grazie a Milano. Poi è stata la volta di «7
poeti per 7 città». Quindi è toccato ai classici, letti da grandi attori e commentati
da figure di spicco della cultura italiana. Adesso la parola passa alla storia. Si
chiama proprio così, «La parola alla storia. Pagine e uomini di ieri e di oggi», l'
iniziativa promossa dalla Fondazione Corriere della Sera che ha preso avvio la
sera del 25 ottobre al teatro Grassi di via Rovello, a Milano. Un ciclo di quattro
serate, occasione per ascoltare passi di opere classiche del pensiero occidentale,
come le Filippiche di Demostene o La guerra del Peloponneso di Tucidide, ma
anche interventi di protagonisti della storia contemporanea, come Winston
Churchill e Lenin. Antichi e moderni, rivoluzionari e tiranni, fianco a fianco,
accostati con discorsi di particolare significato storico e dal forte impatto
retorico. Dopo i primi due appuntamenti, in cui il filologo Luciano Canfora ha
presentato brani che riflettevano su «Politica e disincanto» e su «La riscrittura
della storia», la prossima serata è in programma per domani al teatro Grassi
(ingresso gratuito fino ad esaurimento posti con inizio alle 20.30, per
informazioni telefonare al numero 02/62828027). «Dominare o essere dominati»
è il tema di quest' incontro, per il quale Giovanni Belardelli, docente di Storia del
pensiero politico contemporaneo all' università di Perugia, ha selezionato testi di
Sofocle, Benjamin Constant, Benito Mussolini e Jean-Jacques Rousseau. Si
partirà da un' opera teatrale, con un passo dell' Antigone di Sofocle recitato da
Bebo Storti e Rossana Mola, per poi passare a un estratto del Discorso sulla
libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, un celebre testo di
Constant datato 1819. Ma ci sarà anche spazio per il discorso pronunciato da
Mussolini alla Camera il 3 gennaio 1925, che segnò la svolta verso l'
instaurazione della dittatura fascista dopo la crisi del delitto Matteotti; per
concludere con una manciata di pagine tratte dal Discorso sull' origine dell'
ineguaglianza tra gli uomini di Rousseau. L' ultimo appuntamento di questo ciclo
di letture critiche è previsto per la sera del 29 novembre, sempre a Milano,
sempre al teatro Grassi. In quell' occasione toccherà a Gian Antonio Stella,
inviato del Corriere della Sera, presentare una selezione di testi sul razzismo che
saranno poi letti da Bebo Storti. Così la parola torna alla storia. Tino Mantarro
Mantarro Tino
ELZEVIRO JUDITH BUTLER RILEGGE IL MITO
Antigone: l' eros nell' età dell' incertezza
La forza di convivere con la propria fragilità: un tema molto attuale
Sulla devianza di Antigone, la giovane principessa tebana figlia incestuosa di
Edipo che si contrappone al tiranno Creonte per dare sepoltura al fratello ribelle
Polinice, si sono interrogati nel corso della storia occidentale scrittori e filosofi.
L' eroina di Sofocle, come racconta George Steiner, che ha passato in rassegna in
un celebre saggio le metamorfosi di Antigone nel tempo, ha campeggiato
soprattutto nell' Ottocento, il secolo della fraternité, quando «le linee radicali di
parentela corrono orizzontalmente, come nel rapporto fratello-sorella». Poi, nel
Novecento, la rivolta verso l' autorità prende il sopravvento, e i rapporti si
verticalizzano, come nella relazione genitori-figli: nell' immaginazione del
Novecento ad Antigone subentra Edipo, sul cui celebre complesso secondo Freud
si fonda quel tabù dell' incesto che regola la legislazione interiore dell' uomo e lo
stesso sviluppo della civiltà. Ma Antigone non esce affatto di scena e ricompare
nei luoghi più impensati: nei cortei pacifisti come nei collettivi femministi e nelle
teorie del differente pensiero femminile, come eroina della resistenza all'
invadenza del potere. È la versione di Hegel a essere presa per buona e
rovesciata: se per il filosofo tedesco Antigone rappresentava quel principio
femminile arcaico e prepolitico che deve piegarsi - o essere piegato - alle leggi
della polis, adesso diventa la figura simbolica che oppone le leggi non scritte del
privato contro la guerra e la violenza, ai codici inesorabili del pubblico. Ora però
Judith Butler, filosofa americana sul campo - sul campo non solo della
speculazione ma anche dell' attualità e dei suoi cambiamenti - nel suo La
rivendicazione di Antigone (Bollati Boringhieri, pagine 128, euro 13)
smonta il mito femminile e femminista di Antigone, tutta cuore e
sentimenti familiari contro la rigidità brutale del governante Creonte,
per presentarci la fanciulla tebana in una nuova ancora più estrema
metamorfosi. Violenta e testarda non meno del suo Creonte, Antigone -
addirittura a partire dalla etimologia del suo nome: anti-generazione -
non ha minimamente il senso della famiglia come noi lo intendiamo - lei
semmai sceglie la parentela con i morti - tantomeno vuole difendere la
pace contro la guerra o il principio femminile contro quello maschile.
Anzi, se c' è qualcuno con cui Antigone davvero si identifica non è certo
una donna, come la mite e davvero non violenta sorella Ismene, ma
piuttosto il guerresco e politico fratello Polinice o addirittura il padre
omicida e incestuoso che nell' Edipo a Colono le si è rivolto chiamandola
«uomo», riconoscendo il suo virile coraggio. Butler nel prendere in
considerazione l' estremismo, diremmo oggi, di Antigone ripercorre non solo la
lezione di Hegel ma anche quella novecentesca di Lacan, che sul limite estremo
di un desiderio che non può dirsi senza tradirsi e senza tradire le strutture
simboliche della parentela colloca la fanciulla di Sofocle. Ma per la filosofa
americana le cose non stanno neanche come le mette il celebre psicoanalista
francese. La forza di Antigone, dice Butler, sta nella sua capacità di «deformare»:
non solo le norme della sovranità politica ma anche quelle del genere sessuale e
quelle della famiglia. Anzi, Antigone è l' eroina della parentela in crisi, della
sessualità incerta, rovesciata o trans, delle famiglie di fatto «in cui il posto del
padre è disperso, quello della madre occupato da diverse figure», famiglie in cui
il divorzio oppure l' omosessualità dei genitori, l' Aids, ma anche le migrazioni,
gli esili, lo statuto di rifugiati producono nuclei umani porosi, dilatabili,
eccentrici. Antigone insomma non sfida la legge, è semplicemente altrove
rispetto a quella legge, non si oppone al potere ma chiede e insieme fornisce una
prospettiva critica a chi delimita per ragioni sociali o d' igiene simbolica i criteri
di legittimità per le relazione umane, per gli amori, i dolori, le perdite
riconoscibili. Di fronte a questa Antigone della brillante lettura di Judit Butler,
reincarnata tra i queer, i trans e i soggetti sessuali anomali della fin-de-siècle
novecentesca, un dubbio resta e ha nome Sofocle. Se è vero che la torsione che
porta un classico a trascorrere le epoche è necessaria e salutare, talvolta il testo
nella sua nuda e ricca letteralità è più eloquente delle sue più sorprendenti
interpretazioni. Ora, per esempio, che tutte le opere sofoclee sono in corso di
una nuova pubblicazione curata da un' équipe di studiosi internazionali presso la
Fondazione Valla, se si prende in mano il primo volume della serie, Filottete -
tragedia scritta, sembra, da un Sofocle ormai vecchio e bistrattato dai figli - la
crisi della parentela e l' estremismo delle relazioni assumono un volto diverso.
Filottete, abbandonato dai compagni achei in viaggio verso Troia su un' isola
deserta perché ferito e dunque inservibile, nel suo risentimento e nella sua
estrema irriducibilità è certo un affine di Antigone, come lo è colui che lo
dovrebbe riportare insieme al suo invincibile arco sotto le mura di Troia, il
giovane Neottolemo figlio di Achille. Entrambi avversano non solo il potere, ma
la legalità così come l' hanno conosciuta, e ne cercano disperatamente scampo,
soprattutto nella misura in cui ha rigettato l' invalidità di Filottete in nome della
legge dell' efficienza. Ma, come anni fa spiegava in un saggio dedicato al
dramma sofocleo Edmund Wilson e come risulterà dallo scioglimento dell'
intreccio, la vera forza deve saper convivere con la fragilità. Un tema quanto mai
presente alla nostra coscienza postmoderna: senza bisogno di attualizzazione
basta il bellissimo racconto di Sofocle a spiegarcelo.
Rasy Elisabetta
CLASSICI UN SAGGIO DI VIDAL-NAQUET METTE IN GUARDIA DALL' ATTUALIZZARE I
DRAMMI ANTICHI: C' ERA POCO DI REALISTICO ANCHE IN ESCHILO, SOFOCLE E
EURIPIDE
Tragedia ateniese. Per favore non scomodate la politica
Trasportare quei testi all' oggi è solo licenza poetica
Pierre Vidal-Naquet vide l' Antigone di Jean Anouilh nell' autunno del ' 44, dopo
la liberazione della Francia. Il dramma era stato già messo in scena nel febbraio,
durante l' occupazione tedesca e, prima e dopo, gli spettatori e lui stesso non
ebbero il minimo dubbio che si trattasse di una rilettura politica e attualizzata
della tragedia di Sofocle. Molti anni dopo, Vidal-Naquet - che si era
avventurosamente salvato nel ' 44 a Marsiglia dalla deportazione nazista mentre
entrambi i genitori furono uccisi ad Auschwitz - sarebbe diventato uno studioso
della Grecia antica dedicandosi con particolare attenzione al mondo della
tragedia, senza però perdere storicamente d' occhio i temi caldi dell' attualità
politica, dai crimini dell' esercito francese in Algeria al negazionismo. Ma dopo
decenni di questa doppia militanza storica è arrivato a una conclusione in
assoluta controtendenza con gli studi sul dramma antico e soprattutto con buona
parte delle sue riletture nel teatro contemporaneo, Anouilh compreso: la
tragedia ateniese non era affatto politica, ed ogni sua attualizzazione
altro non è che un arbitrio artistico, una licenza d' autore priva di un
oggettivo fondamento. «Non bisogna cercare di vedere nella tragedia ateniese
uno specchio della città. Più esattamente, se si vuole conservare l' immagine,
bisogna sapere che si tratta di uno specchio infranto: ogni riflesso rinvia a una
realtà sociale e, ad un tempo, a tutte le altre, mescolando strettamente i diversi
codici: spaziali, temporali, sessuali, sociali ed economici»: questa la tesi di fondo,
appunto, di Lo specchio infranto, sottotitolo Tragedia ateniese e politica, una
conferenza diventata un brillante pamphlet che Donzelli propone ai lettori
italiani. Come sottolinea Riccardo Di Donato nell' introduzione - ricordando
anche la messa in scena di Ronconi, qualche mese fa a Siracusa, delle Rane di
Aristofane con sullo sfondo le sagome poi rimosse di Berlusconi, Bossi e Fini -
quella dell' attualizzazione dei testi antichi non è certo una questione per soli
addetti ai lavori: attuali questi testi lo sono per la continuità delle
rappresentazioni - dai grandi teatri alle recite scolastiche - che rinnovano
costantemente emozioni e riflessioni. Ma il punto di Vidal-Naquet è un altro. Non
nega che, per restare alla sola Antigone sofoclea, tra traduzioni più o meno fedeli
e adattamenti più o meno liberi, attraverso le riletture di questa tragedia si possa
fare la storia della coscienza europea, dal momento che ogni opera che arriva dal
passato entra a far parte del nostro presente comune e non solo del campo della
filologia e della storia. Il punto è che a distanza ravvicinata, la distanza cioè che
può permettersi uno studioso come lui che alla decifrazione del mondo antico ha
dedicato la vita, una contraddizione è evidente. Se è vero, afferma, che i greci
hanno inventato la politica - cioè il suffragio, la legge comune scritta, la soluzione
degli antagonismi con giostre verbali - è altrettanto vero che «la letteratura
ateniese ha messo, nell' oscurare tale attività, un genio pari a quello che la città
ha impiegato nell' inventarla». Quale la vocazione politica di Eschilo,
Sofocle, Euripide? Testi e biografie alla mano con la provocatoria perizia
dell' intenditore, Vidal-Naquet non ha dubbi: impossibile definirla.
Quanto alle tragedie stesse, la realtà inscenata non è quella della polis: l'
ordine - o il disordine - tragico non è realistico, ma si comporta nei
confronti della realtà allo stesso modo in cui, secondo Freud, procede il
sogno: «contesta, deforma, rinnova, interroga». In altri termini un
passaggio al limite che, anziché testimoniarlo, «mette in questione quello
che la realtà dice e crede». E allora chi si accosta alle tragedie ateniesi
deve guardarsi accuratamente dalle tre tentazioni che lo minacciano: la
tentazione del realismo, della lettura politica e dell' attualizzazione
moderna. Ferma restando la libertà di ogni artista, e di ogni lettore, di
trasportare quegli antichi testi nel proprio presente come più gli piace e secondo
le proprie emozioni e convinzioni, Vidal-Naquet rovescia la prospettiva. Nel
nostro mondo contemporaneo non è stata la tragedia antica a mettere in scena la
politica attuale, ma la politica attuale a riproporre la tragedia antica: «Quel che,
ai miei occhi, riecheggia la tragedia ateniese, non è un dramma teatrale o un
altro, ma al contrario la serie di rappresentazioni politiche all' uso delle masse
che furono i processi di Mosca negli anni 1936-38 o di Budapest Sofia e Praga,
senza dimenticare Tirana, alla fine degli anni Quaranta e all' inizio degli anni
Cinquanta». Elisabetta Rasy Il libro: Pierre Vidal-Naquet, «Lo specchio infranto»,
edizione italiana a cura di Riccardo Di Donato, Donzelli editore, pagine 120, euro
9,50. Il testo sarà in libreria dal 4 settembre
Rasy Elisabetta
GIUDIZI / DOPO IL «CASO SIRACUSA»
La grecista Cantarella: Aristofane autore attuale che criticò anche i giudici
MILANO - Dovevano esserci le caricature di Berlusconi, Bossi, Fini e La Russa.
Ma se Ronconi a Siracusa avesse rappresentato invece che Le Rane, Le Vespe
forse ci potevano stare anche Francesco Saverio Borrelli e le «toghe rosse».
«Tutto è possibile quando si rappresenta Aristofane» dice Eva Cantarella,
studiosa del mondo greco e membro del consiglio di amministrazione dell'
Istituto nazionale del dramma antico. «La sua attualità è tale che quasi tutte le
opere si prestano a un' interpretazione in chiave contemporanea. In questo non è
paragonabile a nessun altro autore. Certo, un' opera come l' Antigone di
Sofocle è un impareggiabile paradigma dei rapporti tra individui e potere
ed è diventata a più riprese un simbolo contro ogni tirannia. Ma
Aristofane va oltre. La sua è satira politica a tutto campo. Lo muove un
grande amore per la sua città, l' Atene di 2400 anni fa, di cui constata l'
inarrestabile decadenza. La colpa, secondo lui, è soprattutto dei
governanti. Ma prende di mira anche il tessuto sociale, le istituzioni, l'
educazione, la degenerazione della vita civile». Per questo le sue opere
potrebbero essere usate anche dal premier e dai suoi alleati, suggerisce Eva
Cantarella: per stigmatizzare, a colpi di teatro, quelli che considera vizi ed
eccessi degli avversari politici. Come appunto nelle Vespe, dove un figlio cerca di
guarire il padre, un giudice popolare, dalla smania di andare tutti i giorni in
tribunale a condannare senza pietà gli imputati. Per questo lo imprigiona in casa
e mette in scena un fantastico processo al cane per consolarlo, mentre le Vespe, i
colleghi del giudice, così soprannominati per le loro mazze simili a giganteschi
pungiglioni, muovono all' attacco per liberare il vecchio magistrato. «Quella -
dice Eva Cantarella - è una critica all' amministrazione della giustizia in
generale, con i giudici che sono diventati mestieranti soggetti alle varie fazioni.
Tanto che il giudice si chiama Filocleone perché sostiene Cleone, il demagogo al
potere, mentre il figlio, del partito avverso, si chiama Schifacleone. Ma bisogna
tener presente che Aristofane è un aristocratico conservatore, contrario a
ogni innovazione culturale, politica, di costume. Per esempio, è un feroce
antifemminista e anticomunista ante litteram, anche se a volte è stato letto in
chiave opposta. Basta leggere Le donne al parlamento». Qui le mogli dei politici
occupano l' assembla e decidono che tutto è comune: uomini, cose, denaro.
Vengono promulgate regole di uguaglianza del tipo: un uomo prima di avere una
donna bella dovrà giacere con una vecchia o una brutta. Insomma il comunismo è
un errore e il governo delle donne un fallimento. Con buona pace delle pari
opportunità. Cristina Taglietti La vicenda LE CARICATURE Per la scenografia
delle «Le rane» di Aristofane, in cartellone al teatro greco di Siracusa, Luca
Ronconi ha pensato di utilizzare alcuni pannelli con le caricature di Berlusconi,
Bossi, Fini e La Russa LA «CENSURA» Dopo le rimostranze dei ministri Micciché
e Prestigiacomo, Ronconi ha deciso di andare in scena senza i pannelli.
Berlusconi gli ha però consigliato di ripristinarli: «Il governo neppure sa cosa sia
la censura»
Taglietti Cristina
IL LIBRO DEL GIORNO
Antigone, una tragedia troppo umana
IL LIBRO DEL GIORNO Nel 442 a.C., nell' Arena di Pericle, Sofocle mette in
scena Antigone. È forse la prima volta che gli spettatori ascoltano il nome della
figlia di Edipo. Venticinque anni prima Eschilo aveva presentato I sette contro
Tebe: in quel dramma i due figli di Edipo, Eteocle e Polinice, si uccidono l' un l'
altro e appaiono Antigone, la sorella Ismene e un araldo che comunica l' ordine
del governo di Tebe di non seppellire Polinice, colpevole di aver combattuto
contro la sua città. Se quei versi, come oggi molti ritengono, non sono di Eschilo,
ma un' aggiunta postsofoclea, la sfida di Antigone è un' invenzione di Sofocle.
Edipo, la madre-moglie e i due figli maschi sono nominati da Omero; Edipo e uno
dei figli, Eteocle, appaiono in Erodoto: Antigone, no. Quasi 2500 anni sono
passati da quando la tragedia sofoclea - che pone di fronte Antigone e Creonte, le
leggi divine e umane, l' individuo e lo Stato - è apparsa a turbare le coscienze. Il
tempo non ha offuscato quella figura di donna che puntualmente ritorna con la
sua presenza inquietante quando si manifestano conflitti sociali e intolleranze. E
non stupisce che, soprattutto a partire dalla Rivoluzione francese, il testo
sofocleo sia stato studiato, interpretato, riraccontato. Maria Grazia Ciani
raccoglie in un solo volume l' Antigone di Sofocle, quella di Anouilh e quella di
Brecht. L' Antigone di Anouilh andò in scena nel 1944 con il visto della censura
tedesca, e molti vi scorsero l' apologia del governo collaborazionista di Vichy. Al
polo opposto, Brecht (1948) fece rivivere il personaggio nella cornice della
resistenza antifascista e vi aggiunse alcuni passi corali, «con una finezza lirica
che gareggia con il modello», dice George Steiner, autore di uno studio sulle
interazioni tra il testo di Sofocle e le sue reinterpretazioni nel corso del tempo. L'
Antigone è una tragedia senza dèi, il che ha contribuito alla sua fortuna; ma
forse nel caso di Anouilh tende a diventare troppo umana. Dalla discussione sui
grandi problemi etici si passa alla psicologia di una ragazza non bella che nel
gesto eroico cerca una rivalsa. Forse dell' Antigone di Anouilh si poteva fare a
meno. Luisa Biondetti SOFOCLE ANOUILH BRECHT Antigone - Variazioni sul
mito Marsilio, pag. 186, L. 10.000
Biondetti Luisa
TEATRO 2 BRANCIAROLI NON CONVINCE DEL TUTTO
Un delitto per la droga nella citta' di Sofocle
La questione del Bene che finisce col cambiarsi in Male
----------------------------------------------------------------- TEATRO 2 Branciaroli non convince
del tutto Un delitto per la droga nella citta' di Sofocle La questione del Bene che
finisce col cambiarsi in Male In "cos' e' l' amore" di Franco Branciaroli il tema
sofocleo, trattato nell' "Antigone", dell' opposizione tra etica di un governo e
morale individuale, si unisce all' eterna questione del Bene che quasi
alchemicamente a contatto col potere spesso si trasforma in Male. Fatti ispirati
dalla cronaca si intrecciano con il mito per rappresentare la stoltezza di coloro
che seguono pedissequamente le regole imposte da un potere dispotico e la forza
morale di chi urla i diritti del singolo contro un' Autorita' ingiusta. Che nel nome
del bene di una collettivita' impone inequita' e nefandezze. Questi e altri i temi
che nella tragedia - processo l' attore, autore e regista tocca, partendo dalla
morte violenta di un giovane drogato, Polinice, avvenuta, per mano di un
persecutore - educatore (Gianluca Gobbi), in una comunita' , chiamata Citta' del
Sole. Un Antigone uomo (Mauro Malinverno) smaschera l' omicida e recupera il
corpo nascosto in una discarica per riportarlo all' interno della Citta' e chiedere
giustizia ma in un fiorire di dolorose contraddizioni, di prese di posizione piu' o
meno opportunistiche o conformiste, come quelle dell' altro fratello Ismene
(Massimiliano Andreghetto), giustizia non ci sara' . Un' idea interessante che non
trova, pero' , il giusto linguaggio per lievitare, la lingua simil - alta, finto - tragica
parlata sulla scena da' un tono di insopportabile enfasi, di artificiosita' e uno
sgradevole sapore di posticcio. Forse se il linguaggio fosse stato piu'
naturalmente "basso", la forza mitica della tragedia sarebbe stata piu' leggibile.
Drammaturgicamente l' opera non si risolve ne' con gli interventi addolorati e
dolciastri della madre, ne' con quelli cervellotici del padre della vittima (Paola
Bigatto e Antonio Zanoletti), immotivatamente chiamati Giocasta e Edipo, ne' con
le conclusioni filosofeggianti di Creonte, lo stesso Branciaroli re - despota della
Citta' animato da perverse ambizioni. Il nudo palcoscenico semicircolare evoca
un gigantesco ventre capace di trasformarsi ora in una camerata affollata di letti,
ora in una sorta di "minuscolo Agora", fulcro della vita della Citta' : un nero antro
che tutto sembra contenere, nascondere e al tempo stesso tutto svelare. Se da un
punto di vista figurativo lo spettacolo offre un apprezzabile rigore, dal punto di
vista recitativo soffre di scompensi. Non tutti i giovani attori sono all' altezza dei
ruoli, va segnalata comunque la positiva e convincente prova di Gianluca Gobbi.
Antonio Zanoletti cerca con intensita' di dare una qualche plausibilita' al suo
fragile personaggio. Uno spettacolo di cui non si puo' non apprezzare l' impegno
civile. Magda Poli COS' + L' AMORE regia di Franco Branciaroli Teatro dell'
Arte, Milano fino al 27
Poli Magda
SOCIETA' COMPLESSE E DIFESA DELL' ETICA
QUELLE LEGGI NECESSARIE
------------------------- PUBBLICATO ------------------------------ Societa' complesse e difesa
dell' etica TITOLO: QUELLE LEGGI NECESSARIE QUELLE LEGGI - - - - - - - - - - -
- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - Antigone, l' immortale eroina dell' omonima
tragedia di Sofocle, rifiuta di obbedire alla legge promulgata dalle autorita' di
Atene, che vieta di dar sepoltura al corpo di suo fratello, considerato traditore e
ribelle allo Stato. Antigone trasgredisce quel decreto, provocando cosi' la sua
stessa morte, in nome delle "leggi non scritte degli Dei", ossia di comandamenti
morali assoluti, che nessuna legge positiva puo' violare senza rendersi
moralmente illegittima e ingiusta. I principi universali dell' etica . da quella
evangelica a quella kantiana, che impone di considerare ogni individuo
come un fine e mai come un mezzo da utilizzare per altri scopi . non
possono essere negati da nessuna legge di nessuno Stato. Richiamare i
valori etici, come ha fatto Ernesto Galli della Loggia sul Corriere del 6 ottobre, e'
piu' che mai opportuno, specie in un' atmosfera culturale che tende spesso a
dissolvere o almeno a risolvere la morale nella sociologia e nella politica,
considerando giusto cio' che corrisponde a un presunto sentire comune, ai
sentimenti o ai valori di una maggioranza, e considerando dunque giusta una
legge che codifichi le opinioni largamente diffuse. Se cosi' fosse, le leggi razziali
di Norimberga, che sancivano un atteggiamento largamente condiviso, o altre
leggi che in diverse parti del mondo hanno sancito o sanciscono discriminazioni
razziali o d' altro genere, sarebbero giuste e andrebbero rispettate e obbedite
non solo per la forza con cui si impongono ma, anche e prima ancora, per un
dovere morale. Noi invece veneriamo come eroi e martiri i fratelli Scholl o il
teologo Bonhoeffer che, come Antigone, si sono ribellati alla legge dello Stato
nazista che calpestava l' umanita' e in questa ribellione hanno sacrificato la loro
vita. Qualunque cosa pensino i cinici e i realisti da strapazzo, i quali credono che
basti avere pochi scrupoli per essere dei Machiavelli e conoscere la verita'
effettuale delle cose, se il mondo non perisce lo si deve, in buona parte, a chi sa
sentire la voce delle "non scritte leggi degli Dei" e obbedirle, qualsiasi ne siano le
conseguenze e qualsiasi cosa proclamino i legislatori del momento. Non si puo'
pretendere che esistano molte persone come Antigone, non siamo chiamati ad
essere eroi, ma ad essere il piu' possibile liberi e onesti nel piccolo
combattimento quotidiano, il che peraltro non e' poco, una civilta' o anche
soltanto una societa' non e' viva se e' troppo povera di individui capaci di
formarsi una personalita' autonoma, di cercare e fondare dei valori in cui
credere, di darsi dei criteri per riconoscere il bene ed il male, e comportarsi in
conseguenza. Se l' individuo non ha questa volonta' e questa forza, nessun
meccanismo giuridico potra' dargli la capacita' di orientarsi nella vita e di vivere
in modo libero e creativo il rapporto con gli altri e col suo stesso destino; Kipling
direbbe che nessuna norma giuridica puo' fare di lui un uomo. In questo senso
giustamente Galli della Loggia sottolinea l' importanza fondamentale della
personalita' individuale. Non credo tuttavia che gli individui siano oggi meno
capaci di scegliere tra il bene ed il male di quanto non accadesse ieri, e
soprattutto non credo che ci sia un nesso fra una pretesa impotenza o almeno
irresolutezza morale e l' espandersi della sfera legislativa e giurisdizionale,
chiamate ad occuparsi di problemi sempre piu' numerosi, in altri tempi lasciati
alla discrezione dei singoli e "alla spontaneita' dei loro comportamenti", come
scrive Galli della Loggia denunciando questa crescente e a suo avviso negativa
ingerenza della legge. Il proliferare del diritto e delle leggi e' inevitabilmente
legato allo sviluppo di una societa' sempre piu' complessa; una tribu' nella
foresta non ha bisogno di un codice stradale, o almeno non di uno cosi'
complicato, anche se si preoccupa di stabilire chi ha piu' o meno diritto di
accesso a un sentiero di caccia. Pure la cessione di un igloo fra gli eschimesi
richiede una regolamentazione meno articolata di quella che e' necessaria al
mercato immobiliare di una metropoli. Non considero affatto rozzi e selvaggi gli
eschimesi, della cui vita e della cui poesia mi e' anzi capitato di scrivere con
ammirazione sul Corriere, ma non considero a priori necessariamente meno
libero e moralmente meno creativo di loro chi acquista o vende immobili
operando all' interno dell' intricata selva di leggi che ordinano la sua attivita' .
Una societa' sempre piu' complessa crea nuovi rapporti tra gli uomini, nuove
forme . lecite o illecite . di confronto e dunque eventualmente di conflitto e dove
c' e' un conflitto, anche solo potenziale, deve esserci un diritto che lo regola e lo
media in modo civile. Le trasformazioni sociali generano nuove possibilita' di vita
e di sviluppo, ma anche di prevaricazione, di sopraffazione, di violenza e dunque
c' e' necessita' di nuove norme che tutelino le loro possibili vittime. Armi piu'
potenti richiedono maggiori controlli su chi le usa. Sarebbe insensato deplorare
lo sviluppo tecnologico e sociale che spesso crea condizioni di vita piu' umane
per cerchie piu' vaste di persone, e deplorare la semplicita' dei tempi antichi,
certo piu' semplici ma non certo piu' scevri di oppressioni, ingiustizie e iniquita' .
Una nuova realta' puo' comportare, accanto a vantaggi, nuovi pericoli, che
occorre arginare. La legge e' tutela dei deboli, perche' i forti non ne hanno
bisogno; e' stata la plebe a Roma a chiedere e a ottenere le dodici tavole,
basilari nel diritto romano scritto. La legge non deve rincorrere l' evoluzione
della realta' per mutare i principi che la ispirano, come vorrebbe un malinteso
sociologismo in base al quale l' etica e il diritto dovrebbero adeguarsi
passivamente all' evolversi della realta' , termine vago che non dice niente di
preciso, perche' non si capisce cosa sia questa realta' , cui noi . che saremmo
quindi fuori di essa . dovremmo comunque conformarci. I principi che ispirano l'
etica e il diritto . l' uguale dignita' di tutti gli uomini, la tutela di ognuno di essi
da ogni violenza . non hanno da mutare con i tempi; se si diffonde l' abitudine all'
aggressione razzista, la morale non cessa certo dal condannarla e il codice non
cessa di perseguirla. Ma proprio per la fedelta' ai principi che la fondano, la
legge deve adeguare le sue norme alle nuove forme di violenza che possono
sorgere, ai nuovi problemi che possono venirsi a creare. Gli embrioni congelati e
scongelati diventano individui, che vanno tutelati nei loro diritti alla successione
ereditaria e cosi' via. Chiedere nuove leggi dinanzi a nuovi problemi non significa
abdicare alla morale e all' impegno personale, come mi sembra dica Galli della
Loggia, ma significa dare realta' concreta agli imperativi e ai comandamenti
della morale. Certo non bisogna creare nuove leggi superflue, quando per
risolvere i problemi si puo' ricorrere a quelle esistenti e alle potenzialita'
implicite in esse. Ma quando un individuo puo' venire leso da un altro, magari in
nuovi modi e in nuove forme, non si puo' lasciare alla coscienza morale
individuale la decisione se lederlo o no. Anche ogni omicidio e' un fatto morale
prima di essere un fatto giuridico, un peccato prima ancora che un reato, ma la
legge che lo persegue . e che certo non estingue ne' assorbe o supera la sua
dimensione morale, come insegna Delitto e castigo . non e' un arbitrio nei
confronti della coscienza. Nuove possibilita' tecniche di mettere al mondo dei
figli sono soltanto tecniche, ma quei figli messi al mondo hanno diritto all'
assistenza da parte di chi li ha generati e se questi ultimi si rifiutano, arrecando
loro danno, la legge deve costringerli con la sua forza. Ogni legge, col suo
formalismo e la sua autorita' , appare facilmente antipatica; a Don Chisciotte non
piaceva che uomini d' onore si facessero giudici dei peccati di altri uomini e
avrebbe preferito che a difendere i deboli perseguitati fosse la sua lancia di
cavaliere, ma i deboli perseguitati non si sentirebbero abbastanza protetti dalla
sua lancia nobilissima e fragile. Tanta letteratura, anche grande ma ingiusta, ha
guardato con freddezza al diritto, considerandolo arido e prosaico rispetto alla
luce della poesia e della morale. La legge invece ha una profonda e malinconica
poesia; e' il tentativo di calare concretamente nella realta' vissuta le esigenze
della coscienza . un tentativo fatalmente compromissorio, perche' costretto a
fare i conti con i limiti del reale, ma grande proprio per questo arduo e ingrato
confronto con la dura prosa del mondo. Se le "non scritte leggi degli Dei" si
limitano a contrapporsi astrattamente alla legge positiva, possono rivelarsi
estremamente pericolose; se per Antigone esse si identificano con un valore che
tutti consideriamo universale, un fanatico puo' considerare un comandamento
divino la voce interiore che lo spinge, in nome della sua morale o religione, a
impedire alle donne di studiare o a sparare a Rabin. Sul piano politico, una pura
moralita' , anche nobile ma non mediata dalla legge, puo' divenire violenza
giustizialista, sino al linciaggio. Chi ha rubato, poco importa se per se' o per il
suo partito, deve andare in carcere (e bisognerebbe una buona volta anche
vedere qualcuno andarci veramente, quando la sua responsabilita' e' stata
accertata e la sentenza e' passata in giudicato), ma deve pagare il suo debito alla
giustizia in base alla qualificazione giuridica del suo reato, non al sentimento o
all' indignazione morale. La legittimita' morale riscalda il cuore piu' della fredda
legalita' , ma la democrazia, ha scritto Norberto Bobbio, si fonda su valori
"freddi" come la legalita' . O meglio, essa si fonda sulla legittimita' solo quando
quest' ultima si e' tradotta in legalita' . Il compito delle "non scritte leggi degli
Dei", osservava un grande giurista come Ascarelli, e' quello di tradursi in leggi
positive sempre piu' giuste e piu' capaci di tutelare gli uomini. Sara' quindi non
solo inevitabile, ma anche bene promulgare tutte le leggi che il corso delle cose
rendera' necessarie. Non e' un lavoro divertente; puo' sembrare cavilloso, ma
richiede fantasia. Gli antichi, che avevano capito quasi tutto, sapevano che ci
puo' essere poesia nel legiferare; molti miti ci dicono che i poeti fondatori sono
stati anche i primi legislatori.
Magris Claudio
CLASSICI. L' EROINA DI SOFOCLE SI RIBELLO' A CREONTE PER RISPETTARE UN
ORDINE MORALE SUPERIORE. PERCHE' QUELLA TRAGEDIA, DOPO 2500 ANNI , E'
ANCORA ATTUALE
ANTIGONE La pieta' contro la legge
I comandamenti divini che ci spingono a disubbidire allo Stato " Una norma
razzista non diventa giusta neanche se votata da un parlamento regolarmente
eletto " " La storia esige che tante donne anche oggi seppelliscano fratelli e figli
stroncati dalla violenza umana "
------------------------- PUBBLICATO ------------------------------ CLASSICI L' eroina di
Sofocle si ribello' a Creonte per rispettare un ordine morale superiore. Perche'
quella tragedia, dopo 2500 anni, e' ancora attuale TITOLO: La pieta' contro la
legge I comandamenti divini che ci spingono a disubbidire allo Stato "Una norma
razzista non diventa giusta neanche se votata da un parlamento regolarmente
eletto" "La storia esige che tante donne anche oggi seppelliscano fratelli e figli
stroncati dalla violenza umana" - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - Si
apre a Bled, in Slovenia, il convegno del Pen club internazionale dedicato ad
Antigone. Pubblichiamo parte della relazione di Claudio Magris. Negli ultimi due
secoli si sono succedute, nella letteratura di tutto il mondo, innumerevoli
Antigoni. Ogni rielaborazione, commento e ripresa sono un' interpretazione del
nodo centrale dell' immortale tragedia di Sofocle, il conflitto fra la legge dello
Stato . in questo caso rappresentata dal decreto di Creonte, che proibisce di dar
sepoltura al cadavere di Polinice, morto mentre combatteva contro la sua citta' e
la sua patria . e le "leggi non scritte degli de' i", il comandamen to etico assoluto
che impone ad Antigone di seppellire il fratello caduto nella guerra fratricida, di
osservare l' eterna legge dell' amore fraterno e universale, e della pietas dovuta
ai morti, legge che nessun diritto positivo puo' infrangere senza perdere la sua
legittimita' . Certo, l' Antigone non e' solo questo; e' anche, nota George Steiner .
autore di un mirabile libro sulle Antigoni (Garzanti) . una summa di tutti gli
essenziali rapporti e conflitti umani: fra vecchiaia e giovinezza, societa' e
individuo, mondo dei vivi e mondo dei morti, uomini e divinita' , ethos maschile e
femminile, amore e sacrificio, sfera dell' intimita' privata e sua profanazione
pubblica, martirio del cuore esposto alla piazza. E la piu' nota espressione dei
valori femminili, elevati a una universalita' che li trascende ma nasce da essi. Ma
l' Antigone e' in primo luogo conflitto fra Antigone e Creonte, fra le due leggi
che, nelle loro persone, si affrontano. Creonte non e' solo un tiranno, perche'
se fosse tale, dice Heidegger, non sarebbe neppure degno di essere
contrapposto all' eroina. Hegel, cosi' turbato dalla sublime figura di
Antigone che egli accostava a quella di Cristo, vede nella sua ribellione
all' ordine di Creonte non solo un comandamento universale, ma anche
un culto della famiglia e dei legami di sangue e dunque un culto
sotterraneo, infero, inferiore, una morale personale e privata cui lo Stato
non puo' sottomettersi, ma che lo Stato, pur tributandole un religioso
onore, deve sottomettere alla propria piu' alta e oggettiva realizzazione
dell' universale umano; la famiglia non puo' sovrapporsi allo Stato senza
provocare una regressione. Tragedia non significa, da questo punto di
vista, contrapposizione del bene al male, di una pura innocenza a una
truce colpa, ma e' un conflitto nel quale non e' possibile assumere una
posizione che non comporti inevitabilmente, anche nell' eroismo del
sacrificio, pure una colpa. La grandezza di Antigone, secondo Hegel
infinitamente superiore a Creonte, consiste nel fatto che lei sa che la sua
altissima scelta e' anche colpevole, mentre Creonte lo ignora, almeno
finche' la sventura non travolge pure lui. Va aggiunto che la pietas di
Antigone diventa un valore universale . come in realta' accade, credo, nella
tragedia di Sofocle, quasi in risposta anticipata alle critiche di Hegel . solo se
essa si estende, dai fratelli di sangue, a tutti gli uomini sentiti come fratelli,
superando cosi' ogni ethos tribale nazionale. Per Holderlin, che traduce e riscrive
Sofocle con risultati di incomparabile potenza poetica, l' Antigone e' la tragedia
dell' incontro fra il divino e l' umano, incontro che e' altezza suprema ma anche
lotta devastante, in cui fatalmente l' uomo, essere limitato, trascende e sfonda
distruttivamente i suoi limiti, scatenando una forza vitale illimitata che lo porta
all' autodistruzione. Le eta' rivoluzionarie sono un aspetto storico di questa
tragedia liberatrice e distruttiva, in cui la redenzione che l' eroe individuale
porta nel mondo, abbattendo il suo vecchio ordine oppressivo e instaurandone o
facendone intravvedere uno nuovo e spiritualmente superiore, comporta una
colpa, che il redentore colpevole deve pagare con la morte. La tragedia e'
dunque conflitto fra legge e comandamento morale, i quali hanno entrambi un
loro valore. Ma l' Antigone e' la tragedia, perennemente attuale, del nostro
dovere di scegliere tra questi valori, con tutte le difficolta' , gli errori e anche le
colpe che questa scelta, nelle singole circostanze storiche, implica. La legge
positiva, di per se' , non e' legittima, nemmeno quando nasce da un ordinamento
democratico o dal sentimento e dalla volonta' di una maggioranza, se calpesta la
morale; per esempio, una legge razzista, che sancisca la persecuzione o lo
sterminio di una categoria di persone, non diventa giusta, neanche se viene
votata democraticamente da una maggioranza in un parlamento regolarmente
eletto, cosa che potrebbe accadere o e' accaduta. Una violenza inflitta a un
individuo non diventa giusta solo perche' il cosiddetto sentire comune l' approva,
come vorrebbe farci credere una sociologia malintesa. L' antisemitismo in
Germania all' epoca del nazismo o la violenza contro i neri nell' Alabama
corrispondevano certo al sentire di una larga, forse larghissima parte delle
popolazioni di quei Paesi, ma non per questo erano giusti. Talvolta puo' essere
vero quello che grida il dottor Stockmann nel Nemico del popolo di Ibsen: "La
maggioranza ha la forza, ma non la ragione!". E allora bisogna obbedire alle "non
scritte leggi degli de' i" cui obbedisce Antigone, anche se tale obbedienza .
ovvero disobbedienza alle inique leggi dello Stato . possa avere delle
conseguenze tragiche per noi, e pure per gli altri. Ma a questo punto sorge un
interrogativo terribile, a sua volta tragico: come si fa a sapere che quelle leggi
non scritte sono degli de' i, ossia sono dei principi universali, e non invece arcaici
pregiudizi, cieche e oscure pulsioni del sentimento, condizionate da chissa' quali
vincoli atavici? Noi tutti siamo convinti che l' amore cristiano del prossimo, i
postulati dell' etica kantiana che ammonisce a considerare ogni individuo sempre
come un fine e mai come un mezzo, i valori illuministi e democratici di liberta' e
tolleranza, gli ideali di giustizia sociale, l' uguaglianza dei diritti di tutti gli
uomini in tutti i luoghi della Terra siano fondamenti universali che nessun
Creonte, nessuno Stato puo' violare. Ma sappiamo anche che spesso le civilta' .
anche la nostra . hanno imposto con violenza ad altre civilta' dei valori che esse
ritenevano universali umani e che invece erano il prodotto secolare della loro
cultura, della loro storia, della loro tradizione, che era semplicemente piu' forte
dei valori di altre civilta' . Quando un Dio parla al nostro cuore, bisogna essere
pronti a seguirlo a ogni costo, ma solo dopo essersi interrogati con la massima
lucidita' possibile se a parlare e' un Dio universale o un idolo dei nostri oscuri
gorghi interiori. Se la maggioranza non ha ragione, come grida Stockmann, e'
facile cadere nella tentazione di imporre con la forza un' altra ragione, che a sua
volta ha solo la forza. La disubbidienza a Creonte comporta spesso tragedie non
solo per chi disobbedisce, ma anche per altri innocenti, travolti dalle
conseguenze. La tragedia, ma anche la dignita' umana consistono nel fatto che a
questo dilemma non c' e' una risposta precostituita; c' e' solo una difficile ricerca,
non esente da rischi, anche morali. Sappiamo tutti che e' illecito imporre o
vietare con la forza la professione di una fede religiosa, costringere o impedire
col fucile di andare a Messa, ma quando, per esempio, dinanzi al seguace di una
setta che vorrebbe lasciar morire il suo bambino piuttosto che fargli una
trasfusione di sangue, noi siamo pronti a intervenire per imporre con la forza
quella trasfusione di sangue che salva il bambino, sappiamo di esser nel giusto,
ma sappiamo anche che quell' intervento e' il primo passo su una strada che
potrebbe portarci a imporre tutte le nostre convinzioni morali con la forza. Non
ci si puo' sottrarre alla responsabilita' di scegliere un valore quale universale e di
comportarsi in conseguenza; se si rinuncia a questa assunzione di responsabilita'
, in nome di un relativismo culturale oggi dominante che pone ogni
atteggiamento sullo stesso piano, si tradiscono le "non scritte leggi degli de' i" di
Antigone e ci si fa complici della barbarie. Ma occorre renderci conto di quanto
pesante, tragica sia questa responsabilita' e di quanto difficile sia risolvere tale
contraddizione. Todorov ravvisa in Montesquieu una ideale via di mezzo fra
il giusto relativismo culturale, rispettoso delle diversita' , e il quantum
necessario di universalismo etico senza il quale non e' pensabile una vita
politica, civile e morale. Questo e' il nodo di sempre e piu' che mai di oggi,
della nostra epoca drammaticamente chiamata, come prima nessun' altra, a
conciliare la fede nell' universale col rispetto delle diversita' . Ancora una volta
l' Antigone, dopo 2500 anni, parla a una generazione del suo presente,
parla a noi del nostro presente. Il diritto naturale, con i suoi inviolabili
principi universali umani, si contrappone alla norma positiva ingiusta; la
legittimita' nega la legalita' iniqua. Lo Stato e' servitore del bene comune
e quand' esso invece lo opprime l' ubbidienza alle sue leggi ingiuste
diventa una colpa . un peccato, dicono i teologi . e la ribellione un dovere. Ma,
per non cadere in un' altra colpa, ossia per non travolgere la legalita' .
insostituibile tutela civile e democratica dell' individuo . con una legittimita' che,
proprio perche' vaga e giuridicamente infondata, non sarebbe altro che un'
ideologia potenzialmente totalitaria come ogni ideologia, c' e' un' unica strada,
come ricorda Norberto Bobbio: battersi per creare una legalita' piu' giusta senza
limitarsi a contrapporre le "voci del cuore" alle norme positive, ma facendo
diventare norme, nuove norme piu' giuste, quelle voci del cuore, trasformandole
e sottoponendole alla verifica della coerenza logica e delle ripercussioni sociali;
verifica propria a ogni norma e alla sua creazione. Un grande giurista, Tullio
Ascarelli, vedeva nell' Antigone non l' astratta contrapposizione della
coscienza individuale alla norma giuridica positiva, del singolo allo Stato,
bensi' la lotta della coscienza per tradursi in norme giuridiche positive
piu' giuste, per creare uno Stato piu' giusto. Creonte, alla fine, assume
consapevolezza che la sua legge era iniqua ed e' pronto . anche se troppo
tardi . a cambiarla. Le "non scritte leggi degli de' i" vengono scritte in
leggi umane piu' giuste, anche se la loro trascrizione e' interminabile e
sempre, a ogni legge positiva, la coscienza oppone l' esigenza di una
legge piu' alta. La tragedia non e' che questo processo sia interminabile, questa
sua perenne perfettibilita' e' semmai la sua gloria; noi abbiamo piuttosto tante
ragioni per temere che il processo s' interrompa e che paurose ricadute inumane
facciano regredire la storia alla barbarie, la civilta' alla ferocia, la convivenza all'
odio. La tragedia e' che anche i passi in avanti dell' umanita' esigono il sacrificio
di innumerevoli Antigoni, che anche oggi, in questo momento, mentre scrivo
queste parole, continuano a seppellire fratelli, figli, padri, compagni stroncati
dalla violenza degli uomini.
Magris Claudio
La tragedia di Antigone diventa lezione moderna
------------------------- PUBBLICATO ------------------------------ TEATRO TITOLO: La
tragedia di Antigone diventa lezione moderna - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -
- - - - - - - - Quando nel ' 48 Bertolt Brecht penso' ad un adattamento della
tragedia di Sofocle "Antigone" si riprometteva, come scrisse, di "far fare ad essa
qualcosa per noi". Del resto dal 442 a.C. ad oggi la figlia di Edipo che sfida il
potere per dare degna sepoltura al corpo del fratello, con la forza della sua
ribellione, per dirla con Brecht, ha fatto moltissime cose per noi. Questa donna
sola, impavida e superba nella sventura, che sceglie senza alcun timore il
suo destino di morte, e' diventato il simbolo di chi urla i diritti del
singolo contro la sopraffazione del potere, ci ha parlato della stupidita' e
dell' orrore della guerra e della brama di conquista. A questa poetica figura
il gruppo Sottoteatro di Frontiera ha dedicato lo spettacolo "Storie di Antigone",
elaborazione drammaturgica e regia di Giulio Campari. Il testo, ruotando intorno
a Sofocle e a Brecht, unisce al suo interno anche parole di Ce' line, di Eliot, di
Omero, di Krauss, ricorda i fatti di piazza Tienamen, insomma cerca ancora una
volta di far fare ad Antigone qualcosa per noi. Cioe' di sottolineare, con molta
ingenuita' e con necessita' sincera, il "tragico conflitto uomo potere guerra".
Obiettivo piu' dichiarato che drammaturgicamente centrato: le tessere del
mosaico non riescono a far intravedere il disegno nella sua completezza e spesso
i materiali utilizzati risultano tra loro incompatibili. Sensazione amplificata da
una lettura registica che, facendo a pugni con la "molteplicita' " del testo, ha in
se' tutti i logori stereotipi di una messa in scena convenzionale di una tragedia
greca. Ad esempio il potere, Creonte, e' insopportabilmente tonante, le donne
sono quasi sempre sdraiate a terra, prostrate dal dolore, i cori sono in greco
antico per avvisarci che siamo in clima classico. E non basta passare da un luogo
deputato all' altro per creare il ponte tra ieri e oggi, tra mito e realta' . Ma la
scolasticita' della regia e le molte ingenuita' espressive non soffocano del tutto le
qualita' e le potenzialita' dei singoli e del gruppo. Applausi amichevoli. (All' Out
Off fino al 13 maggio)
Poli Magda
IL GRECO TERZOPOULOS IGNORA LA LETTURA MODERNA DELLA TRAGEDIA DI
SOFOCLE E LA RICONDUCE AL RITO RELIGIOSO
ecco Antigone, ma reazionaria
al Teatro Olimpico lo spettacolo " Antigone " di Sofocle, regia di Theodoros
Terzopulos, scene e costumi Georgios Patsas, interpreti Galatea Ranzi, Pino
Micol, Tassos Dimas, Paolo Musio
------------------------- PUBBLICATO ------------------------------ TEATRO Il greco Terzopoulos
ignora la lettura moderna della tragedia di Sofocle e la riconduce al rito religioso
TITOLO: Ecco Antigone, ma reazionaria La cosa non apparirebbe
inconsueta se in genere non prevalesse una lettura laicizzante, volta a
fare dell' opera un manifesto contro le prevaricazioni del potere - - - - - - -
- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - L' Antigone di Sofocle comincia, come tutti
sanno, con il dialogo nel quale la protagonista espone a Ismene il suo progetto di
ribellione e di pieta' : contravvenendo al divieto di Creonte, sfidando la morte,
dara' sepoltura al corpo di Polinice. E un colloquio segreto ("Ti ho chiamata all'
esterno, fuori del cortile, perche' tu sola udissi", dice Antigone a Ismene); e non
e' certo casuale ne' privo di senso, dunque, che il Coro entri in scena solo quando
le due sorelle ne escono. Se l' ho ricordato e' perche' nell' allestimento di
Antigone realizzata all' Olimpico di Vicenza dal regista greco Theodoros
Terzopoulos avviene esattamente il contrario: non soltanto il coro (come, del
resto, tutte le altre figure della tragedia) e' presente in scena sin dall' inizio, ma i
due attori dalla cui voce ascolteremo in seguito le parole del Coro eseguono,
prima che Antigone e Ismene comincino a parlare, una sorta di lungo prologo
mimico accompagnato e scandito da una serie di "segni" sonori suggestivamente
preverbali. E anche questo, credo, non e' ne' casuale ne' privo di senso. Quale
senso? Direi, schematicamente, quello di un drastico spostamento dell'
attenzione dal momento razionale del testo al suo momento rituale, alla sua
"funzione" religiosa: uno spostamento cui si riferisce, se non mi inganno, lo
stesso regista quando afferma (come si puo' leggere nel programma di sala) che
"gli attori parleranno direttamente a Dyonisos", e nel quale mi sembra lecito
ravvisare la chiave dell' intero spettacolo. E probabile che la cosa non
apparirebbe cosi' inconsueta se non venisse dopo un lungo periodo in cui
nella messa in scena delle tragedie greche e' prevalso invece un
orientamento laicizzante, volto a spremere dai miti soprattutto il loro
contenuto umano, psicologico o addirittura politico, insomma . per usare
un termine tanto inelegante quanto, temo, insostituibile . la loro
"attualita' "; e questo e' stato particolarmente evidente proprio nel caso
di Antigone, sentita, non senza ragione, come una sorta di manifesto
della rivolta contro il potere, depositario e custode dell' ingiustizia delle
leggi scritte, in nome delle leggi non scritte della solidarieta' e della
pieta' . Ebbene, di tutto questo l' impressione e' che a Terzopoulos non
importi, per dirla con la dovuta brutalita' , un fico secco. Cio' che gli
importa, a giudicare dai comportamenti che esige dagli attori, e' il nesso
fra verbalita' e corporeita' , fra il peso delle parole e le trasformazioni
concrete, concretamente percepibili, che esso provoca nella voce e nei
gesti di chi e' chiamato a pronunciarle. Ne deriva, in positivo, una sorta di
solennita' viscerale, di plasticita' arcaico misterica, estesa sia agli atteggiamenti
dei singoli interpreti sia all' assetto ritmico e visivo dell' intera rappresentazione;
e in negativo, almeno a mio avviso, un tendenziale allineamento di tutta la
partitura verbale al piu' alto livello possibile di declamazione lirica,
oltranzisticamente antirazionale e antinaturalistica, che e' sempre li' li' per
scivolare (quando non ci scivola del tutto) nell' enfasi. E c' e' anche qualche
problema di incongruenza, che forse l' orecchio non italiano del regista fatica a
cogliere, fra il tono assoluto e, come dire?, intransigente della recitazione e la
bella traduzione di Filippo Maria Pontani, ricca di sottili colloquialita' e
sprezzature. Lo spettacolo e' comunque, nell' insieme, piuttosto interessante, e lo
e' proprio nei suoi aspetti (absit iniuria) piu' "reazionari". Lo scenografo Georgios
Patsas lo ha disposto con sobria efficacia nello spazio intimidente dell' Olimpico,
di cui ha rispettato tutta la monumentalita' proiettando l' azione su una
piattaforma circolare antistante la scena vera e propria; e dello stesso Patsas
sono i costumi, ingegnosamente appropriati alla ieratica intensita' dei movimenti
e delle posizioni (molto bella la visione iniziale dei componenti del Coro immobili
e avvolti in se stessi come insetti pietrificati). Fra i singoli attori, tutti
apprezzabili per disciplina e affiatamento sul piano mimico gestuale, occorre fare
qualche distinzione per quanto riguarda la resa interpretativa o, per dir meglio,
vocale: impeccabile, per chiarezza di dizione e per la capacita' di trattenere l'
enfasi al di sotto del livello di guardia, l' Antigone di Galatea Ranzi; buono, nei
limiti del forse non congeniale antipsicologismo impostogli dalla regia, il Creonte
di Pino Micol; precisi i due portavoce del Coro, Tassos Dimas (che recita in
greco) e Paolo Musio; accettabili gli altri. E stato, la sera della prima, un
successo molto vivo, con un' attenzione evidente nel corso dello spettacolo (due
ore filate) e insistenti applausi finali. ANTIGONE di Sofocle Regia di Theodoros
Terzopoulos. Interpreti principali: Galatea Ranzi Pino Micol Teatro Olimpico
Vicenza fino al 15 settembre
Raboni Giovanni
in polemica con Eschilo e Sofocle, alfieri del potere
teatro programmi. presentata la prossima stagione del CTH ( centro teatrale dell'
hinterland )
------------------------- PUBBLICATO ------------------------------ CARTELLONE . Tragedie
greche rivisitate da Gianni Rossi, attore regista del CTH di via Olmetto TITOLO:
In polemica con Eschilo e Sofocle, alfieri del potere - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -
- - - - - - - - - - - - Beckett, Eschilo, Sofocle ed un pizzico di dialetto milanese nella
nuova stagione del Cth (Centro teatrale dell' hinterland) che, in attesa di una
sede stabile, da anni mette in scena i suoi spettacoli al Teatro Olmetto (al
numero 8.a dell' omonima via). Un cartellone all' insegna dei classici rivisitati.
"Ho sempre visto il teatro greco con atteggiamento critico . spiega il regista
Gianni Rossi, che da quattordici anni dirige il Cth .. Fu un teatro portavoce di
valori che rappresentavano l' ideologia del potere e per di piu' e' riuscito a
influenzare tutta la drammaturgia occidentale, imponendo una cultura basata sul
patriarcato. Basti pensare al sacrificio di Ifigenia, necessario per permettere al
padre Agamennone d' intraprendere la spedizione contro Troia". Si comincia con
il Beckett di "Aspettando Godot", in scena a ottobre e novembre all' Olmetto,
musiche di Franco Ballabeni, interpreti Marco Delle Foglie, Valeria Riva, Monica
Mantegazza e lo stesso Rossi, che cura anche la regia. L' azione e' ambientata
vicino a una discarica, in una periferia metropolitana. "Adulti smarriti nell' attesa
che qualcuno sciolga i loro nodi. Lo Stato sociale? Il partner? L' assessore all'
assistenza? No: Godot!", dice Rossi. Poi, a gennaio e febbraio, il Cth sara' ospite
al Teatro Aut aut di Roma, con "Le Antigoni", testi di Sofocle, Alfieri, Anouilh e
Brecht, con l' attrice Franca Marchesi che incarnera' il mito di Antigone, visto
come metafora dello sfascio sociale contemporaneo. In marzo e aprile si ritorna
all' Olmetto con la novita' "Una mama e la sua tusa drugada" di Gianni Rossi:
storia di una donna come tante, lasciata dal marito, messa di fronte al dramma di
una figlia eroinomane a causa di una delusione d' amore. Una madre che, "a
differenza di Don Abbondio", tira fuori tutto il proprio coraggio per lottare contro
gli spacciatori e salvare la figlia. Protagonista l' attrice Cristina Colombo, che
ricordiamo al "Franco Parenti" con Dario D' Ambrosio ne "Il principe della follia".
La stagione del Cth si chiudera' a maggio, sempre all' Olmetto, con l'
allestimento della tragedia "Agamennone" di Eschilo. Franco Manzoni
Manzoni Franco