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ANTONIO LANZETTA - La Corte Editore · un fiume fetido dal femore fino alla pancia, gli riempì lo stomaco e lui vacillò. Strinse la presa sul bastone e le nocche sbiancarono

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ANTONIO LANZETTA

IL BUIODENTRO

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© 2016 La Corte Editoria e ComunicazioneCorso Galileo Ferraris 77, TorinoTutti i diritti riservatiLa Corte Editore è un marchio La Corte Editoria e Comunicazione

Progetto grafico: La Corte Editore | Emanuele La CorteFoto dell’autore: Rosaria Portanova

ISBN 9788896325858

Finito di stampare nel mese di Ottobre 2016

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IOGGI

Gli occhi della ragazza lo fissavano attraverso il velo di moscerini che le ricopriva la faccia. Le iridi blu erano vasi di vetro riempiti dall’orrore e dalla paura.

Damiano Valente avvertì una fitta alla gamba. Il dolore risalì come un fiume fetido dal femore fino alla pancia, gli riempì lo stomaco e lui vacillò. Strinse la presa sul bastone e le nocche sbiancarono. Il flash di una reflex illuminò la corteccia livida del salice. I rami no-dosi emergevano dalle rovine di una costruzione di pietra. Le mura erano nere, divorate da muschio e rampicanti, il tetto sfondato.

Damiano osservò i ruderi, poi quel vecchio albero maledetto, e rabbrividì. Gli era tremata la voce quando il commissario De Vivo aveva telefonato per avvisarlo. Aveva chiesto di ripetergli il pun-to esatto in cui l’avevano ritrovata, perché non riusciva a crederci. Era in cucina quando il telefono aveva squillato. Si era appoggiato contro il frigorifero, aveva provato a controllare il respiro sperando che passasse. Era convinto che se avesse chiuso la chiamata e fosse strisciato fino al suo studio, facendo finta di niente, tutto sarebbe

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tornato al suo posto.Valente, sei ancora lì?La voce distorta di De Vivo gli aveva ricordato che il passato non

si arrendeva. Potevi andare avanti, provare a far funzionare la tua vita al meglio, spingere i ricordi in una cantina e spegnere la luce. Lasciare che il buio facesse il resto. Il passato trovava sempre il modo di far pagare i debiti.

«Chi è stato a trovarla?» chiese. La ragazza non smetteva di guardarlo. C’era rimprovero in quegli

occhi, un’accusa per qualcosa che lui conosceva e avrebbe potuto evitare. Damiano affondò una mano nella tasca dell’impermeabile, afferrò la scatola di mentine e l’agitò. Il rumore delle pillole gli diede conforto. Fece scattare all’indietro il coperchio con il pollice, se la portò alla bocca e mandò giù una pasticca di morfina. Sollevò di scatto la punta del bastone dal fango e l’agitò davanti al naso della giovane. Gli insetti, che vorticavano su una voglia di sangue secco, si dispersero per poi ritornare in uno sciame compatto.

Una nube che corrodeva i tessuti.«Un escursionista.» Il commissario De Vivo si mise una sigaretta

tra le labbra ma non l’accese. «Ieri stava percorrendo la vecchia via del mercato nero quando l’ha vista.»

«Come mai siete arrivati soltanto oggi?» Damiano ascoltò inorri-dito il tono della propria voce. Le cicatrici correvano lungo il lato destro della sua faccia fino al labbro. Carne gonfia e lucida che gli tirava la bocca di lato dando alle parole il suono viscido della morte. Il suono di qualcosa che doveva essere sepolto sotto la dura terra e invece era ancora lì. Un corpo spezzato che si trascinava in mezzo ai vivi.

Il poliziotto allargò le braccia. «È un tedesco, un mezzo hippie fissato per la natura. Non aveva il cellulare, ti rendi conto? È dovu-to scendere fino al paese. Era buio, pioveva, e credo si sia cagato addosso. La gente ci ha messo un po’ a capire che cazzo voleva.

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Abbiamo dovuto far venire un interprete per interrogarlo.»«Immagino.»«Vuoi parlarci?»Damiano fece una smorfia. L’occhio destro gli lacrimava. Avrebbe

voluto strapparselo e buttarlo in mezzo agli alberi, ma si limitò ad asciugarsi con la manica dell’impermeabile. Puntellò il bastone nel terreno, spostò il peso del corpo sulla gamba buona. Il sole stava per tramontare e l’umidità gli entrava nelle ossa come pugnalate. La parte peggiore però doveva ancora arrivare. Contrasse gli addo-minali e sbuffò nell’inginocchiarsi. Sentiva lo sguardo di De Vivo addosso, la commiserazione di uno che stava guardando uno storpio provare a essere normale, e fece affidamento sul poco orgoglio che gli restava per non sembrare un miserabile. La borsa era lì, poggiata ai suoi piedi. La sfiorò con la punta delle dita, sentì il cuoio ruvido contro i polpastrelli, in un gesto che aveva visto fare a suo padre migliaia di volte prima di lui.

«Sei il primo giornalista che vedo portarsi dietro una ventiquattro ore» affermò De Vivo, lanciandogli un’occhiata divertita, e lui si limitò a scrollare le spalle. Trovava quell’ironia irrispettosa nei con-fronti della ragazza. La gente aveva sempre pensato che lui fosse un tipo strano. La cosa non lo sorprendeva. Damiano Valente, il sec-chione. Il frocio dalla lingua biforcuta. Con il tempo, aveva smesso di fare caso a quello che dicevano sul suo conto. Si era convinto di essere davvero un tipo strano.

Era arrivato sul posto appena aveva saputo, prima ancora del me-dico legale, che adesso lo fissava tenendosi a distanza. Lui era lo Sciacallo e le notizie di cronaca nera gli appartenevano. Era la sua caccia, una spasmodica ricerca dei fatti che lo aveva portato fino a quel corpo. Si sforzava di mostrarsi impassibile, distaccato, ma non riusciva a darsi pace. Sentiva qualcosa nella pancia, come se dei vermi gli stessero mangiando le interiora, e sperò che la morfina facesse subito effetto.

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Intorno al salice, gli uomini della scientifica scattavano foto e mar-cavano reperti, muovendosi con cautela nelle tute bianche, più simi-li a fantasmi che a persone. Il coroner fece un colpo di tosse e infilò i guanti in lattice.

Un vento gelido sibilò tra i tronchi, scosse le foglie e le gambe della ragazza oscillarono. Era nuda, appesa a un ramo per i polsi con del filo spinato. Rivoli di sangue nero e fango le segnavano le braccia fino alle ascelle. C’erano segni di morsi su un seno, il corpo era una cartina geografica di lividi e ferite. La testa della vittima era poggiata sul terreno, tra i suoi piedi e le radici sporgenti del salice.

«Cristo, sembra uno scheletro.» Il commissario De Vivo si avvici-nò al cadavere e le foglie scricchiolarono sotto i suoi piedi.

Denutrita è la parola giusta. Damiano era madido di sudore. Faceva freddo, ma lui stava su-

dando. I capelli incollati alla fronte e la camicia come un secondo strato di pelle. Agitò la scatola delle mentine, cercando conforto nel rumore delle pasticche che sbattevano contro le pareti del con-tenitore. Il dolore lo uccideva, ogni giorno di più, e quella roba era l’unica cosa che gli permetteva di reggersi in piedi.

La ragazza si mosse e Damiano sbarrò gli occhi. Una vibrazione nei rami. Il fremito impercettibile delle gambe, come la coda moz-zata di una lucertola che si agitava nell’aria.

Un’allucinazione. Nient’altro che un’allucinazione. Lo Sciacallo cercò di afferrare i pensieri che gli turbinavano in

testa. Era come se il tempo passato a leggere i vecchi articoli di giornale e a guardare foto ingiallite del 1985 avesse condizionato la sua mente. I ricordi si erano trasformati in qualcosa di concreto.

Quell’ossessione era reale e odorava di morte.«Ne hanno già ammazzata una in questo modo.»La voce gli giunse alle orecchie distorta. Un’eco amplificata che gli

bucò il cervello. Damiano si voltò. Chi aveva parlato? Una coltre scura gli era ca-

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lata davanti agli occhi. Non riusciva più a distinguere i volti delle persone, c’erano solo macchie di colore e sagome. Poi vide le bam-bole. A decine, corpi di plastica sospesi a mezz’aria. Erano nude e impiccate ai rami. Lo fissavano con occhi vuoti, studiando i suoi movimenti. Registrando le sue reazioni a quel messaggio che qual-cuno aveva lasciato per lui.

La ragazza era immobile. Una statua di morte.«Che stai dicendo, Rizzo?» la voce di De Vivo era roca, le parole

mischiate al catarro.«Commissario, tu non sei di queste parti, vero?» Il medico legale

sfiorò una gamba della vittima. «Trovarono una donna su questa montagna, forse trent’anni fa. Era scomparsa da settimane. Sono cresciuto a Salerno, ricordo bene il telegiornale…»

«Era l’estate dell’85.» Damiano sentì il ronzio del sangue nelle orecchie. Respirò piano e strinse le palpebre. Non gli restava molto tempo prima che arrivassero gli altri.

Adagiò il bastone sul terreno, fece scattare i lucchetti dorati e aprì la valigetta il tanto che bastava per prendere un guanto in lattice. Lo infilò sotto lo sguardo del coroner.

«Che cosa ha intenzione di fare?» chiese il medico, ma Damiano fece finta di non sentire. Lui doveva toccarla. Doveva sentire la vit-tima, appropriarsi del dolore che l’aveva straziata.

«Dottore, stia calmo.» Il tono di De Vivo era imbarazzato.«Calmo? Chi è questo individuo? Io posso rovinarvi…»Le parole dei due uomini rimbalzavano da un tronco all’altro. La

morfina prese a circolargli in corpo e Damiano rilassò i muscoli del collo. Le voci divennero un rumore di fondo, il riverbero di una comunicazione lontana. Liberò il viso della ragazza da una ciocca di capelli. I suoi occhi non smettevano di fissarlo. Avvertì un for-micolio alla punta delle dita, un calore che scivolò sotto le unghie, arrampicandosi lungo il braccio fino alla spalla.

Lo Sciacallo pensò a lei, un attimo prima di morire, incapace di

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distogliere lo sguardo dal volto del suo aguzzino. Impotente e sen-za possibilità di sottrarsi all’orrore, e provò pena. Ricambiò quello sguardo vitreo per un ultimo istante, poi le abbassò le palpebre.

Non c’era più nulla di cui aver paura. Era rimasto solo il freddo.«Conoscete il suo nome?» grugnì e le voci intorno a lui tacquero. «No. Nessuno denuncia di scomparsa, almeno di recente.» De

Vivo si tolse la sigaretta dalle labbra, la punta stretta tra indice e pollice, il filtro rivolto verso l’alto. «I cani hanno trovato i vestiti sepolti in una buca lungo il sentiero, in mezzo a quelle bambole del cazzo. A parte questo, ancora nulla. La scientifica si spaccherà la schiena a cercare qualcosa. Deve arrivare altra gente da Napoli. Ho fatto diramare un comunicato alle Questure. Cristo, quanti anni aveva secondo te?»

«Quindici, o forse meno» rispose Damiano. La stessa età che ave-va Claudia.

Sollevò il mento e osservò il moncone slabbrato che adesso so-stituiva il collo della vittima. Gli insetti si esibivano in una danza macabra sopra i pezzi di pelle morta e i frammenti della spina dor-sale esposta. La scientifica aveva avviato un generatore d’energia da campo. Il suono cadenzato della macchina riempiva la foresta.

«L’ha presa qualche settimana fa. Forse un mese, considerando quanto sia magra.» Damiano faceva fatica a parlare. La gola era sec-ca, migliaia di spilli infilati nella trachea. Il coroner ricordava bene. Il passato non muore mai per davvero.

Sollevò un braccio e indicò la caviglia destra della ragazza. «Lo vedete questo segno?»

«Catene» affermò De Vivo e il dottor Rizzo annuì.Damiano guardò il commissario come se si accorgesse di lui per

la prima volta. Era un ottimo agente, pensò. Alto, la corporatura massiccia che si intravedeva da sotto il parka, le guance arrossate dal freddo. Un poliziotto esperto che si era fatto le ossa tra i vicoli di Napoli. Ma qui non si trattava di delinquenti comuni. Non c’erano

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soldi e potere a giustificare le azioni. E si domandò se l’agente fosse in grado di comprendere le infinite sfumature del male.

«Ha giocato con lei per un po’, fatto quello che voleva, poi l’ha portata qui.» Studiò un uomo della scientifica curvo su un cespuglio, poi scosse il capo. «Non troverete nulla. Nessuna fibra o ramo spez-zato. Niente che lui non abbia voluto farvi vedere.»

«E tu che ne sai?»«È così che ha fatto nel 1985. Il dottore ha ragione.»Damiano richiuse la sua ventiquattrore. Il block-notes e la penna

rimasero al loro posto, non aveva necessità di prendere appunti. Aveva tutto già scritto nella testa. Fece forza sul bastone per rialzarsi e il pomello gli scavò un solco nel palmo della mano. Il cuore gli martellava nel petto, poteva sentire il rimbombare cupo del sangue nelle orecchie manco avesse fatto uno scatto da velocista. Eppure c’era stato un tempo in cui era stato il più veloce. Un tempo in cui aveva avuto entrambe le gambe buone e amici in cui credere. Un tempo in cui aveva conosciuto l’amore e sentito l’alito gelido della morte sulla faccia.

«E tu che ne sai? Eri un ragazzino nell’85.» De Vivo piegò il capo di lato, si grattò una cicatrice che gli tagliava il mento. Al suo fianco, il medico legale lo guardava a bocca aperta. C’erano delle briciole di brioche attaccate ai baffi.

Damiano non rispose. Non ci avrebbero messo molto a capire quello che intendeva. La sua famiglia era andata in pezzi nell’estate del 1985. Zoppicò intorno al cadavere, scansò le gambe della ragaz-za con un braccio e si avvicinò all’albero. Sotto la corteccia, c’era un messaggio per lui. Scorreva nella linfa nera di quel salice.

Il bosco adesso sembrava vivo. Il sole era scivolato dietro la cresta della montagna e nel cielo era apparso il volto butterato della luna. Le luci alogene montate dalla polizia si accesero, respingendo le ombre nella parte più fitta della vegetazione.

Sulla montagna, vicino alla cascata, oltre il paese, Castellaccio,

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c’era quell’albero. Un salice solitario, radici sporgenti macchiate di sangue e rami contorti su cui appendere corpi.

Una vita fa. Una ragazza senza testa.Lei. Claudia. La prima. Lui conosce questi posti. Fa parte di loro come i vermi che scava-

no il terreno, come la luce della luna sulle rocce, come l’odore di resina e il cinguettare degli uccelli.

«Che cosa intendi, Valente?» insistette De Vivo.«Controlla gli archivi, Ernesto. I mostri non muoiono mai» rispo-

se lo Sciacallo. Raccolse il bastone e lo puntò verso il sentiero da dove era venuto. Presto sarebbero arrivati i suoi colleghi e non vole-va farsi trovare. Si mosse, un piede davanti all’altro, la ventiquattrore stretta nella mano.

Stefano Fabiani osservava le fiamme contorcersi nel camino. Era ancora presto per accenderlo, il clima non era poi così rigido, ma amava lo schiocco secco dei ceppi divorati dal fuoco. Lo rilassava. Agitò il bicchiere di Jack Daniels prima di trarre un sorso. Nella loro stanza, i bambini ridevano. Sentiva il suono delle doghe dei letti ammortizzare i salti. Monica era in cucina e parlava al telefono con Elisabetta. Il prossimo weekend sarebbero andati a Roma. Voleva visitare San Pietro, stringere la mano al Papa, e Stefano, grazie alle sue amicizie, avrebbe fatto di tutto per non deluderla.

Le porte del Vaticano per lui non erano mai chiuse. Stefano aveva salvato la società di costruzioni di suo padre dal

fallimento. Autostrade, opere pubbliche, ma soprattutto chiese. Il suo vecchio era un palazzinaro. Si era spaccato la schiena dopo il terremoto degli anni Ottanta, ricostruendo Castellaccio e ricavando solo un terzo dei profitti che riusciva a ottenere lui con il sorriso.

La vita era una questione di stretta di mani, e Stefano sapeva strin-gere quelle giuste.

Le mani ingioiellate di cardinali e vescovi.

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Si liberò delle scarpe, strusciando un piede contro l’altro, e allun-gò le gambe sopra il tavolino. Avvertiva il formicolio piacevole del calore sui talloni. Poggiò la testa sullo schienale della poltrona e sorrise. Domani mattina aveva un volo in prima classe per Milano. Si erano messi in testa di candidarlo alle prossime elezioni politi-che. Dicevano che fosse l’uomo giusto per rappresentare il Sud. Un esempio per la classe dirigente del Mezzogiorno, e questo gli andava bene. Non si era mai sentito di rappresentare qualcosa, figuriamoci una parte di nazione, ma lui ci sapeva fare con la gente, questo non si poteva negare.

Vuotò il bicchiere e lo depose sul pavimento. Si voltò su un fianco, liberando il telecomando della televisione dal peso delle chiappe. Davano un vecchio film di fantascienza con Kurt Russell che in-terpretava la parte di Jena Plissken e rivederlo gli fece ripensare al passato. Aveva viaggiato molto per seguire i cantieri, anche all’este-ro, eppure non si era mai allontanato del tutto da Castellaccio. C’era qualcosa in quel paese di montagna che creava dipendenza, un lega-me così forte, da preferire la sua casa nel centro storico a un attico con vista sul Colosseo. Monica non la pensava allo stesso modo, ma i soldi erano i suoi e a lei piacevano molto i soldi. In paese aveva più possibilità di vantarsi della nuova borsa firmata davanti alle sue amiche sempliciotte rispetto ai salotti bene di Roma, e questo le bastava.

Jena era appena atterrato con l’aliante sul tetto del World Trade Center quando il telefono fu risvegliato da una notifica. Stefano guardò l’orologio e si morse il labbro inferiore. Le aveva detto di non scrivergli più, di non cercarlo. Era finita tra loro, anzi non c’era mai stato nulla. Solo che lei non riusciva a farsene una ragione. Era arrivata a minacciarlo, avrebbe raccontato tutto a Monica se lui non avesse preso la decisione di lasciarla.

Lo smartphone poggiato sul tavolo vibrò una seconda volta.Stefano rimase a guardarlo per un lungo istante. Poteva alzarsi,

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fingere di cercare qualcosa in garage e controllare la notifica, oppure farlo adesso. Sua moglie era ancora al telefono, la voce squillante co-priva il baccano dei bambini e il suono della tv. Guardò il corridoio, le ombre della cucina proiettate sul muro, poi si mosse.

Provò un sollievo tale che rischiò di sciogliersi come ghiaccio da-vanti al fuoco, quando vide che a scrivergli era stato Damiano.

Valente lo storpio. Che cazzo voleva a quest’ora? Vivevano nello stesso paese ma

non parlavano da un anno. Un giornalista che si era fatto i soldi scrivendo libri sugli omicidi e sulla sofferenza. Erano stati amici da ragazzini, buoni amici, ma le cose erano cambiate. Si diceva in giro che Damiano fosse dell’altra sponda, ed era meglio non farsi vedere troppo insieme. Non ora che volevano candidarlo alle elezioni. Fu quasi tentato di ignorare il cellulare e tornare al suo film, ma poi attivò lo schermo e controllò le notifiche.

Rilesse il messaggio almeno cinque volte prima d’essere certo d’a-ver capito, poi si afflosciò tra i cuscini con un peso sul petto e il telefono ancora stretto in una mano. Prese il telecomando della te-levisione e cambiò canale. Le immagini scivolarono davanti ai suoi occhi alla velocità dei ricordi. La giornalista parlava del cadavere e gli parve di sentire l’eco della voce di Damiano nella testa mentre ripeteva quelle tre semplici parole: Guarda il telegiornale.

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IIGIUGNO, 1985

Flavio si svegliò sul sedile passeggero dell’auto, la fronte premuta contro il vetro gelido. Buio. I fari illuminavano il volto butterato di una casa. L’uomo al suo fianco tirò il freno a mano e spense il motore, poi si voltò a guardarlo. L’abitacolo di quella vecchia Ritmo puzzava di sigarette, un odore così penetrante da aver impregnato la tappezzeria. Appesi allo specchietto retrovisore, due dadi ciondo-lavano per inerzia.

«Andrà tutto bene» disse l’uomo e Flavio sussultò al suono della voce roca.

Non avevano parlato molto durante il viaggio. Ore e chilometri di silenzi intervallati a pause per andare in bagno o mangiare un panino in una stazione di servizio. Flavio si massaggiò il collo e an-nuì, poco convinto. L’assistente sociale gli aveva detto che non c’era altra soluzione, e lui si era fidato. Non c’erano alternative.

Andrà tutto bene era una frase a cui aveva fatto ormai l’abitudine. La prima a dirglielo era stata sua madre quando aveva iniziato a per-dere peso e vomitare sangue. L’aveva guardato negli occhi, mentre

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la sorreggeva nel tragitto dal bagno al divano, e aveva ripetuto quel-le parole troppo convincenti perché lui potesse dubitarne. Poi era peggiorata e allora erano venuti i dottori a dirgli di non preoccupar-si. Uno di loro l’aveva svegliato una mattina, accarezzandogli la testa mentre lui dormiva nella sala d’attesa, e gli aveva detto che sarebbe andato tutto bene. Sua madre era morta e lui si era trovato solo a tenerle la mano nella sala gelida di un obitorio, incapace di piangere, con gli assistenti sociali davanti alla porta e uno sconosciuto, seduto in una Ritmo arrugginita nel piazzale dell’ospedale, che diceva di essere suo nonno. L’unico parente che gli restava. Dove era stato prima? Dove stava quando Flavio doveva tenere la testa di sua ma-dre mentre vomitava? Troppo facile apparire adesso quando tutto era già finito.

Scese dalla macchina, stringendo lo zaino per le cinghie, e un cane gli venne incontro. Era apparso dal nulla e Flavio schiacciò la schie-na contro lo sportello. Nel buio, gli occhi gialli dell’animale brillava-no come lucciole.

«Jack, buono!» Grugnì suo nonno nel liberare un mazzo di chiavi dalla tasca dei jeans. «Tranquillo, non fa nulla. Vuole solo annusarti.»

E il ragazzo si lasciò annusare, il muso umido del cane contro il palmo della mano. La coda frustava l’aria in un ritmo incalzante. Flavio sollevò con cautela un braccio e accarezzò il pelo nero e ispi-do. Aveva la sensazione di sfiorare ciuffi di un tappeto con le dita.

«Gli piaci» disse il nonno, infilando la chiave nella serratura. L’uo-mo entrò in casa e accese una luce che dava sul cortile.

«Chi gli ha dato da mangiare mentre eri via?»«Lui non è mio. Va’ e viene quando gli pare.»Flavio grattò la testa del cane. Era enorme, sembrava un orso. Poi

notò il collare consunto emergere da sotto il pelo del collo. «Come fai a conoscere il suo nome, allora?» «C’è scritto sulla targhetta.» Il vecchio lo fissò per un istante con

gli occhi azzurri di sua madre, zaffiri incastonati sul volto spigolo-

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so. Prese la sua valigia nel cofano ed entrò in casa. «Vieni dentro, è tardi.»

Flavio trovò una piastrina arrugginita tenuta insieme al collare da un lembo di pelle strappata. Sentì le lettere incise nel metallo a con-tatto con il pollice, poi accarezzò ancora la testa di Jack e lui chiuse gli occhi.

«E così sei andato via di casa anche tu?»L’animale abbaiò in risposta, poi si staccò da lui. Annusò un vaso

di piante secche sotto il portico e sparì dietro la macchina, nelle om-bre da cui era arrivato. Flavio si voltò a fissare il mondo intorno alla casa. L’oscurità era scesa sopra i campi come un sipario nero. C’e-rano i profili scuri di case in lontananza, di antenne storte e di tetti sfiorati dal bagliore metallico delle stelle. Dall’altra parte della strada provinciale, c’era una piccola tenuta e una luce accesa al secondo piano. Flavio si abbassò a raccogliere lo zaino che gli era caduto sul selciato, si pulì sui jeans la mano sbavata da Jack ed entrò in casa.

La porta si apriva sulla cucina. Niente anticamera o corridoio, ma solo un vecchio tavolo ricoperto da una tovaglia a fiori di plastica e mobili che puzzavano di muffa. Le chiazze verdi camminavano sul soffitto sollevando croste di intonaco. La porta del bagno di servizio era aperta, e quasi attaccata alla credenza. Flavio sollevò la testa. Sentiva passi al piano di sopra e imboccò la scala che tagliava il muro, ritrovandosi in uno stretto corridoio fiancheggiato da stanze. Non c’erano foto sulle pareti, solo segni e aloni squadrati. Vedeva i buchi dei chiodi dove prima erano state appese cornici e si chiese quando suo nonno aveva tirato via tutto.

«Hai fame?» La voce del nonno lo sorprese alle spalle e lui trasalì.«No, grazie. Sono a posto.»«Questa è la tua stanza.» La camera si trovava in fondo al corridoio. Era un buco illuminato

da una lampadina appesa al soffitto con dei fili scoperti. Il letto era accostato a una parete, il materasso era coperto da lenzuola rosa.

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L’anta dell’armadio era in parte divelta e si reggeva in bilico solo grazie a un coraggioso cardine sopravvissuto alla decadenza.

«Domani la sistemo.» L’uomo indicò con il mento il mobile rotto e poggiò la valigia su una scrivania sormontata da mensole vuote. «Era la camera di tua madre. In fondo c’è il bagno, se vuoi darti una sciacquata. Riposati, è stato un lungo viaggio.»

Flavio non fece in tempo a rispondere che il vecchio era già spa-rito. Rumore di passi nel corridoio. Allora vuotò lo zaino sul mate-rasso e sorrise nel rivedere il contenuto.

I libri di sua madre. Le copertine di cuoio dagli angoli mangiucchiati, i titoli stampati

in caratteri dorati. Jane Eyre, Cime Tempestose, Orgoglio e Pregiu-dizio. Edizioni prese per poche lire al mercatino dell’usato. Pagine ingiallite che erano state sfogliate chissà da quante altre mani prima delle sue. Non erano proprio il suo genere ma aveva trascorso setti-mane a leggerli a sua madre, a consumare le corde vocali sperando che questo potesse darle conforto. E, a giudicare dal sorriso che lei aveva sulla faccia, forse era servito a qualcosa.

Sistemò i volumi sulle mensole, poi aprì la finestra e lasciò entrare la brezza fresca della notte. L’estate era appena iniziata e a Castel-laccio si respirava un’altra aria rispetto all’afa di Torino. Fece per to-gliersi la camicia, quando la sua attenzione tornò a quella finestra al secondo piano della casa dei vicini. La luce era ancora accesa, pro-iettava un bagliore arancione sopra l’asfalto della strada provinciale. Flavio scorse un lampadario a sfera appeso al soffitto e una tenda gonfiata dal vento. C’era movimento in quella stanza, qualcuno era ancora sveglio. Rimase a osservare per qualche istante, incuriosito. Sentì l’ululato di un cane e si domandò se fosse Jack a ricongiunger-si a un branco di lupi nel bosco.

Nel bagno trovò un asciugamano piegato e poggiato sul lavandi-no e un pezzo di sapone come quello utilizzato per lavare i panni. L’acqua della doccia era fredda e cadeva in una bacinella blu ai suoi

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piedi. Trattenne un’imprecazione e si lavò tenendo le gambe diva-ricate e sperando di non allagare la casa. Non era il trattamento di un albergo a quattro stelle, ma provò a farselo bastare. A Torino le cose non erano molto diverse. Vivevano in un monolocale al quarto piano di uno stabile vicino alle Vallette. Un buco che sua madre manteneva facendo doppi turni in fabbrica. Una casa così piccola da non avere alcun concetto di spazio e di intimità.

Attraversò il corridoio, asciugando i capelli con il telo bagnato della doccia. Si pettinò davanti a un vecchio specchio. Sorrise.

Pensò a sua madre. In cucina, lei danzava e cantava usando un mestolo come microfono mentre lo stereo sparava Like a Virgin a tutto volume. Flavio la guardava volteggiare, muoversi con grazia nello spazio angusto tra tavolo e fornelli, e rideva fino a sentire delle fitte nella pancia. Adesso nella pancia c’era solo un vuoto incolma-bile. Si guardò intorno, le pareti umide della stanza, e quei ricordi gli sembrarono all’improvviso parte di un’altra vita, tasselli di una storia che aveva paura di dimenticare.

Mamma, perché?Indossò il pigiama e si avvicinò alla finestra aperta. Le montagne

assediavano la casa come giganti neri. Inspirò ma l’aria non gli ri-empiva i polmoni. Le gambe gli tremavano e aveva la sensazione che una mano invisibile gli stesse stringendo la gola. Si massaggiò il collo fino a che la pelle non iniziò a bruciargli. Da quando era partito non si era più soffermato a pensare alla gravità della sua perdita. Erano stati sempre loro due, la famiglia. A volte gli bastava uno sguardo per capire cosa lei stesse pensando, e lo stesso poteva dirsi per sua madre. Avevano sviluppato un modo tutto loro di co-municare, un linguaggio fatto di parole in codice e intesa. Non era stata fortunata con gli uomini e forse a un certo punto aveva smesso di cercare. Flavio ricordava i pretendenti. Sparivano sempre quando venivano a sapere che lei aveva un figlio, e si era quasi sentito in col-pa perché a causa sua lei non riusciva a essere felice. Un anno prima

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che si ammalasse, le aveva detto che le dispiaceva, le aveva confidato quello che pensava e lei gli aveva risposto di non preoccuparsi, era lui il suo uomo, e aveva sorriso.

Lo stesso splendido sorriso con cui era morta in quel letto di ospedale.

A quattordici anni la vita doveva essere un’altra. I suoi coetanei a scuola pensavano alle vacanze estive, alla bicicletta nuova, alle par-tite di pallone nel campetto del quartiere. Flavio aveva una madre malata che lo aspettava a casa e poco tempo per diventare adulto. Era cresciuto senza che nessuno glielo avesse chiesto e adesso era lì, sotto il tetto di un uomo che non conosceva, in una casa spoglia e priva d’amore. Lontano dalla sua vera casa ma soprattutto solo. Senza sua madre lui era solo.

Un movimento. La luce, al secondo piano della casa dei vicini, si spense. Flavio si ritrovò a scrutare la forma indistinta della notte. Dall’al-

tra parte dei campi, oltre la strada, in quella stanza, c’era qualcuno che lo osservava. Ne era sicuro. Poteva distinguere una sagoma in piedi alla finestra. Un’ombra immersa in mezzo ad altre ombre. Im-mobile, proprio come lui. Separati da una linea invisibile. A Flavio bastava allungare una mano oltre il davanzale per sfiorare quella sagoma. Attese e il tempo si cristallizzò. I piedi nudi sul pavimento e il cuore in gola. Si domandò se suo nonno avesse chiuso a chiave la porta, poi sentì un fischio. Vide una scia fumosa puntare verso la luna ed esplodere in una cascata di petali viola. Il cielo si riempì di decine di deflagrazioni. Boati luminosi che proiettarono bagliori colorati sulla vallata, sopra le sagome contorte delle case aggrappate ai fianchi della montagna. Una festa. Sbatté le palpebre e riportò lo sguardo sulla tenuta dei vicini.

Una folata di vento fece sbattere le imposte e lui trasalì. La tenda si era gonfiata come la vela di un’imbarcazione e lottò per qualche secondo prima di divincolarsi dalle falde. Riuscì ad affacciarsi ma

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dall’altra parte non c’era più nessuno.La finestra era chiusa.

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