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P O S S I B I L I S V I L U P P I T R AR I G O R E E C R E A T I V I T À
A L I C E G A R G I U L O
APPRENDIMENTO E DSA
P R E M E S S AL A M I A I D E A
La scelta dell’argomento di questo
lavoro viene da una esperienza
direttamente vissuta di “difficoltà a
leggere” il contesto in cui da alcuni
anni lavoro come psicologa. Forse
un vero e proprio caso di “dislessia
professionale”.
Facciamo un passo indietro: ancor
prima della laurea ho avuto la
possibilità di entrare in contatto con
un gruppo di lavoro napoletano che
si occupa della diagnosi e del
trattamento dei Disturbi Specifici di
Apprendimento, e più in generale di
apprendimento e degli aspetti
neuropsicologici (A.N.D.A.).
I L M I OI N C O N T R OC O N I D S A
Ho iniziato a collaborare con
l'équipe in qualità di tirocinante,
osservando e apprendendo nozioni
teoriche, modalità diagnostiche,
cliniche e abilitative in chiave
neuropsicologica.
In un certo senso ho costruito una
mia mappa, elaborata anche sulla
base di esperienze pregresse, teorie
ingenue e scientifiche apprese nella
vita e all’università.
Ho imparato a leggere il territorio
dell’apprendimento e delle difficoltà
di apprendimento con quella
mappa.
Quando mi sono sentita
sufficientemente pronta ad
avventurarmi in questo territorio, ho
iniziato a lavorare come Tutor DSA.
In questa veste, ho iniziato a seguire alcuni bambini e ragazzi nei compiti a casa e nel
potenziamento delle caratteristiche basali dell’apprendimento: lettura, scrittura, calcolo,
attenzione, memoria e metodo di studio.
Il mio “compito” è quello di lavorare con loro, tenendo conto degli aspetti del funzionamento
neuropsicologico messi in evidenza nel percorso diagnostico, per rafforzare le componenti
basali degli apprendimenti e organizzare l’attività didattica in modo da favorire
l’apprendimento (attraverso anche l’uso di strumenti compensativi) e l’impegno nei compiti.
Ogni tanto ho dovuto aggiungere nuove conoscenze, ampliare la mia mappa, ma tutto
sommato essa mi permetteva di leggere le realtà che vivevo e di orientarmi nel mio lavoro.
Dopo circa due anni e mezzo ho deciso di iscrivermi all’I.I.P.R. e sono entrata in contatto con
una nuova “visione del mondo”, quella sistemica e quella dell'ecologia della mente, che ha
iniziato a farmi interrogare circa il mio modo di leggere la realtà, di apprendere, di
relazionarmi, di essere parte dei contesti.
Inizialmente ho iniziato a farmi domande sul mio lavoro di Tutor, sulle mie premesse ingenue
e scientifiche e sul mio modo di intendere l’apprendimento e il contesto dell’apprendimento.
Mi sono forse sentita “dislessica” nella relazione con i bambini che seguivo, nel senso che
entrando in un nuovo contesto (la scuola di specializzazione), dove mi venivano proposti
nuovi punti di vista, sentivo di non riuscire più a leggere chiaramente il contesto dell’attività
didattica con quella mappa. “Improvvisamente” la mia mappa non mi bastava più.
L’inizio della scuola ha rappresentato per me, sempre rimanendo nella metafora, l’inizio
della prima elementare e la scoperta di una qualche “difficoltà di lettura”.
Come tutti i processi, specialmente quelli riguardanti la rilevazione e la gestione di difficoltà,
anche il mio è durato un po’. È iniziato senza che io ne avessi molta consapevolezza, poi pian
piano è stato per me possibile esplicitarlo.
Stocasticamente parlando, la freccia (l’idea) che ha colpito il bersaglio è stata: provare a
cercare la “struttura che connette” il mio lavoro di tutor con il mio essere una psicologa-
psicoterapeuta sistemica, provare a tenere insieme e non a separare.
Da subito mi è sembrato un obiettivo ambizioso, che mi ha spaventato. Ho pensato di non
essere in grado di farlo e il solo pensiero di addentrarmi nello studio della teoria batesoniana
e della psicologia ecologica e in un’eventuale, seppur minima, rielaborazione di alcuni
concetti mi sembrava un’impresa impossibile.
Forse, mi sono detta, è quello che capita ai bambini con DSA quando iniziano a leggere,
scrivere o far di conto. Eppure ho percorso la strada. Non so precisamente cosa mi abbia
aiutato a percorrerla.
Fondamentale è stato il sostegno nei miei didatti, che mi hanno rassicurata e mi hanno
invitato ad affrontare questa strada partendo da me e tenendo conto dei miei limiti.
Mi ha molto aiutata il confronto quotidiano con i bambini e i ragazzi, i quali mi offrono
l’esempio di come è possibile percorrere anche strade che sembrano impraticabili. Forse è in
parte merito della mia curiosità e del mio desiderio di sollevare delle domande, che
rappresentano per me un’occasione di crescita e arricchimento professionale.
Probabilmente sono tutti questi aspetti che insieme mi hanno portato a decidere di scrivere
questo elaborato, in occasione del passaggio al secondo biennio della specializzazione. Non
so dove mi porterà, so che è pieno di domande più che di risposte.
Ho provato a percorrere questa via, non preoccupandomi solo degli esiti, ma facendo
attenzione al processo. A percorrerla lasciandomi guidare dalle parole, tratte da una poesia
di Costantino Kavafis:
“Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga, fertile inavventure e in esperienze. […] E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fattoormai savio, con tutta la tua esperienza addosso già tu avrai capito ciò che Itaca vuolesignificare”.
INTRODUZIONE Con l’obiettivo di comprendere il mio lavoro di tutor DSA da una nuova prospettiva, quella
sistemico-relazionale ed ecologica, e di integrare aspetti differenti della mia formazione e
pratica professionale, sono partita dalla teoria di Bateson sull’apprendimento.
Con la preziosa guida dei testi del professore Giovanni Madonna (2010, 2013) e della
professoressa Rosalba Conserva (2000, 2013), ho tentato, nel primo capitolo, di ripercorrere
la teoria batesoniana in riferimento al contesto scolastico.
Ho poi cercato, nel secondo capitolo, di approfondire le caratteristiche dei DSA e le
difficoltà che gli alunni trovano nel percorso di apprendimento, rispetto alle richieste che
vengono fatte loro, nonché le difficoltà nell’adattamento al contesto scolastico e nella
costruzione di un’immagine di sé positiva.
Nel fare questo ho preso in considerazione un aspetto importante del processo di
apprendimento, che è la relazione adulto-alunno, analizzandone possibili esiti creativi e
patologici.
Infine, nel terzo capitolo, ho cercato di riflettere sul contesto ri-abilitativo, e in particolare sul
lavoro di tutor, provando a metterne in evidenza limiti e risorse; nonché sulla possibilità di
dar spazio nella relazione tutor-bambino all’espressione creativa dell’alunno e di sé, intesa
come possibilità di elaborare modalità creative di adattamento al contesto di apprendimento
(abilitativo e scolastico).
RINGRAZIAMENTI La creazione di questo e-book è stata possibile grazie a tante persone che ho incontrato
sulla mia strada: a quelle che mi hanno accompagnato per un tratto, a quelle che ho al mio
fianco da sempre e a quelle con le quali ho l'impegno quotidiano di costruire un cammino
insieme.
Ringrazio innanzitutto i bambini e le bambine che ho incontrato nel mio lavoro di tutoraggio:
la relazione con loro mi ha insegnato più di qualsiasi libro; l'équipe dell'ANDA, che mi ha
permesso di avvicinarmi al mondo dei DSA e con generosità ha condiviso con me
conoscenza ed esperienza; i didatti dell'IIPR, che mi hanno accompagnato nella formazione
e nella stesura di questo elaborato, in particolare Giovanni Madonna e Chiara Cicala.
Ringrazio mio marito, Riccardo, e la mia famiglia, senza i quali non potrei essere dove sono.
C A P I T O L O 1L ’ A P P R E N D I M E N T O ( AS C U O L A ) I N C H I A V EE C O L O G I C A
Per poter riflettere
sull’apprendimento, “serve una
teoria: nel nostro caso, una teoria
generale dell’apprendimento, la
quale dia conto anche dell’imparare
a scuola” (Conserva, 2000, p. 1).
La teoria cui si fa riferimento in
questo e-book, è quella che
Gregory Bateson ha presentato nel
saggio ‘Le categorie logiche
dell’apprendimento e della
comunicazione’ (1964). In tale
occasione, Bateson ha illuminato “il
concetto di apprendimento con la
teoria dei Tipi logici di Russell” e ha
descritto “vari ordini di
apprendimento: l’Apprendimento 0,
l’Apprendimento 1, l’Apprendimento
2 e l’Apprendimento 3” (Madonna,
2010, p. 229).
U N A C H I A V E D IL E T T U R A
Quella proposta da Bateson è una
gerarchia di ordini di
apprendimento in cui ogni livello è
in relazione con quello precedente
e ne rappresenta il cambiamento.
Bateson “non parla mai, nei suoi
esempi, di apprendimento
scolastico” (Conserva, 2000, p. 1) e
tuttavia il suo modello ci consente
di guardare all’apprendimento a
scuola con una nuova e interessante
chiave di lettura.
Pensando all’apprendimento spesso
viene da pensare alla scuola e
tuttavia un bambino venendo al
mondo porta con sé apprendimenti
già strutturati ed “è predisposto
ad apprendere gran parte delle cose che gli adulti sanno e sanno fare” (Conserva, 2013,
p.7). Il bambino ha quindi una predisposizione biologica che influenza i successivi
apprendimenti.
Essa permette il passaggio dalla ricezione di informazioni all’apprendimento e consiste nella
capacità di “cogliere (nel tempo e nello spazio) e codificare la differenza percepita”
(Conserva, 2013, p. 4) e la somiglianza percepita (Madonna, 2010), cioè di selezionare e dare
significato ad alcune delle informazioni del flusso degli eventi continuo ed evanescente di
cui si è parte.
Tuttavia, anche l’apprendimento è un processo continuo e perché esso permanga nel
tempo e la nuova ‘forma’ duri di più rispetto alle sue possibili alternative, occorre che il
contesto si ripeta. Inoltre, “l’apprendimento è condizionato anche e soprattutto dalla natura e
dalla qualità del contesto stesso, dalla qualità e dalla natura delle persone coinvolte, e dai
loro rapporti di relazione” (Ibidem, p. 9).
Il bambino quindi, quando arriva in prima elementare, ha già alle spalle tanti e fondamentali
apprendimenti, come nozioni esplicite e premesse cognitive implicite, che si sono
sedimentati sulla base della sua predisposizione e nella ripetizione di esperienze significative
nel contesto familiare, nel contesto sociale, nel contesto della scuola.
Il bambino è portatore di un’epistemologia (nota 1) individuale, ed essendo un organismo
vivente e non una “macchina banale” (von Foerster, 1987), oppone resistenza al tentativo
degli insegnanti (e dei genitori) “di replicare il loro modo di valori e le loro abitudini di
pensiero”. “Oppone resistenza per il semplice fatto che cresce e quindi apprende e quindi
cambia (tende a cambiare) se stesso e gli schemi interpretativi che gli vengono imposti”
(Ibidem p. 9).
Inoltre, l’apprendimento, che avviene sempre in un contesto comunicativo tra esterno e
interno, ‘cambia’ l’individuo, ma cambia anche il contesto, “il quale richiede – a un più alto
livello e in un tempo successivo – che l’individuo apprenda ancora” (Conserva, 2013, p. 3).
“Il processo dell’apprendimento che riguarda il singolo individuo”, anche quello che avviene
a scuola, “ è infatti organizzato per livelli sia ricorsivi che gerarchici” (Ibidem, p. 4). Ciò significa
anche che per apprendere contenuti più complessi (es. calcolo algebrico), occorre
apprendere prima nozioni più semplici (es. calcolo aritmetico) per poi acquisire, in un livello
superiore, la capacità di combinare i due apprendimenti (es. combinazioni dei due calcoli) e
anche la capacità di apprendere ad argomentare su ciò che si è appreso (Ibidem).
Tale processo nell’ambito scolastico si focalizza soprattutto su ‘oggetti esterni’ ed “ è
fondato sulla ripetizione meccanica di contenuti e di procedure (sull’esercizio), e su
procedimenti euristici e di risoluzione dei problemi per tentativi ed errori” (Ibidem, p. 9).
Inoltre, anche se la scuola contemporanea è più aperta alle differenze individuali e al
rispetto delle diverse modalità di apprendimento, offrendo una didattica individualizzata
(nota 2), essa continua a basarsi sull’idea che l’istruzione possa essere programmata e che i
programmi possano valere per tutti.
Continua, quindi, a incontrare il problema di dover coniugare la necessità di prendere in
considerazione la storia di ciascun alunno, con la necessità di insegnare a tutti le ‘stesse’
cose, negli ‘stessi’ tempi, e di mettere tutti nella condizione di raggiungere gli ‘stessi’ risultati
(Ibidem).
Questi sono obiettivi perseguibili solo in teoria; in pratica, nella realtà scolastica accade che
molti bambini apprendano in modo differente, in tempi differenti (Ibidem).
Tale “pluralità dei percorsi e dello stile di conoscenza” (Conserva, 2013, p. 16), l’individualità
dell’alunno e le possibilità che emergono nella relazione dell’insegnante con ciascun
bambino, andrebbero prese in considerazione e considerate come componente altrettanto
importante dell’apprendimento.
Tali elementi fanno parte della componente casuale, aleatoria, “immaginativa” del processo
(stocastico) di apprendimento/insegnamento. Essa è fondamentale tanto quanto la
componente selettivo/conservativa, che corrisponde al “rigore”, alla natura prescrittiva e
formale dell’apprendimento/insegnamento scolastico.
La componente aleatoria si manifesta nella relazione tra organismo e ambiente, che offre
degli stimoli e sollecita nuovi apprendimenti; la componente conservativa potrebbe essere
descritta come un filtro critico, che compara i nuovi e i vecchi apprendimenti e modula
l’eccesso di creatività. La prima, senza la seconda, porterebbe a un’immaginazione priva di
forma e rigore; la seconda, senza la prima porterebbe alla banalizzazione delle persone (von
Foerster, 1987) e alla omologazione degli studenti (Conserva, 2013).
“Il superamento di tale contraddizione non comporta necessariamente la scelta di una sola
strada […]: è molto spesso “una uscita creativa” non descrivibile del tutto, quanto meno non
in una descrizione programmatica e ‘oggettiva’” (Conserva, 2013, p. 16).
Tenendo conto di questi aspetti che caratterizzano il contesto scolastico, si proverà ad
analizzare i diversi livelli dell’apprendimento proposti da Bateson (1964) in relazione alla
scuola.
L'APPRENDIMENTO ZERO “L’apprendimento 0 è il caso della specificità della risposta che, giusta o sbagliata che sia,
non è suscettibile di correzione” (Madonna, 2010, p. 230). È il caso della ricezione di
informazioni che si verifica quando un organismo risponde a uno stimolo (in un istante 2)
nella maniera in cui aveva risposto precedentemente (in un istante 1).
Madonna (2010) propone un elenco non esaustivo di fenomeni che rientrano in questo ordine
di apprendimento. Il primo fenomeno è l’apprendimento già consolidato, che avviene
quando chi apprende in una situazione dà il 100% di risposte esatte.
Un esempio è il cane che impara a discriminare tra un cerchio e un'ellisse e non sbaglia mai
la risposta. Questo esempio potrebbe essere calato nel contesto scolastico in riferimento a
un bambino che frequenta la prima elementare e che impara a riconoscere le forme
geometriche o a differenziare tra la scrittura di nomi propri e di nomi comuni, e non faccia
errori.
Un altro tipo di Apprendimento 0 è quello che si verifica quando le risposte del soggetto che
apprende sono in massima parte determinate da fattori genetici: ne è esempio un
uccello che agli stimoli ambientali tipici della primavera risponda ogni anno con l’avvio di un
rituale di corteggiamento. Forse quello di un bambino che apprende sulla base della propria
disposizione biologica a trasformare l’informazione in apprendimento.
L’Apprendimento 0 “non modifica colui che apprende” e “in ambito scolastico, diremmo che
A. zero è l’acquisizione di nozioni elementari ed esplicite, compresi gli automatismi”
(Conserva, 2000, p. 1). Si tratta di nozioni e automatismi che non modificano altre variabili,
come il carattere della persona che apprende o il suo stile di apprendimento, e che hanno lo
stesso significato nelle diverse situazioni che la persona vive. In altri termini,
l’Apprendimento 0 riguarda tutte quelle nozioni che sono stabili nel tempo e non sono
suscettibili di correzioni o vengono vissute come tali.
Ne sono esempi ulteriori l’apprendere a dividere le parole in sillabe, apprendere la data di un
evento storico, apprendere una formula matematica. Tutti esempi di apprendimento in cui
“la causa (lo stimolo) è direttamente, linearmente, legata all’effetto (la risposta)” (Ibidem, p. 4).
L'APPRENDIMENTO UNO “L’Apprendimento 1 è il caso del cambiamento nella specificità della risposta mediante la
correzione dell’alternativa scelta all’interno di un certo insieme” (Madonna, 2010, p. 231) e
avviene quando un organismo risponde (in un istante 2) in modo diverso rispetto a come
aveva risposto precedentemente (istante 1) allo stesso stimolo.
Come esempio di Apprendimento 1 Madonna (2010) riporta il fenomeno dell’assuefazione e
più precisamente il momento in cui essa si realizza. Ovvero quando un “organismo che
apprende, smette di rispondere a quello che prima era uno stimolo fastidioso” (Madonna,
2010, p. 231), come il verme che in un istante 1 si contrae a seguito di una stimolazione
elettrica e in un istante 2 smette di farlo.
Costituisce un altro esempio l’apprendimento strumentale: quando una persona che
apprende si muove per tentativi ed errori in un istante 1 e, in un istante 2, di fronte allo stesso
stimolo mette in atto un comportamento che prima non metteva in atto.
Ritornando all’ambito scolastico “chiameremo A.1 anche i procedimenti per tentativi ed
errori – la capacità di correggere un errore e di correggere il procedimento della correzione
- considerando che l’A.1 riguarda informazioni suscettibili di variazioni” (Conserva, 2000, p. 3).
Ne può forse essere un esempio quello di un bambino che, nello svolgere esercizi di calcolo
a mente, si muova per tentativi ed errori (ricorrendo al supporto delle dita o del calcolo
scritto), fin quando riesce a rispondere (correttamente) recuperando il fatto aritmetico.
Un altro fenomeno che rientra nell’Apprendimento 1 è quello meccanico in cui, a seguito di
un comportamento, l’organismo che apprende mette in atto un altro comportamento che
prima non manifestava. “Ne rappresenta un esempio la circostanza in cui, in un’aula
scolastica, un bambino, in un istante 1 non declami il secondo verso di una poesia a seguito
della declamazione del primo verso e, in un istante 2, dopo un certo numero di ripetizioni, a
seguito della declamazione del primo verso declami il secondo” (Madonna, 2010, p. 232). Ne
può essere esempio anche l’annullamento o l’inibizione di apprendimento.
L’Apprendimento 1 comporta un cambiamento ed è legato strettamente alla ripetibilità del
contesto, cioè alla possibilità di incontrare lo stesso stimolo nell’istante 1 e nell’istante 2 nel
medesimo contesto. “Gran parte dell’apprendimento scolastico è di questo tipo"
(Conserva, 2000, p. 2): un apprendimento che non viene solo acquisito ma che si configura
anche come cambiamento.
Perché ci sia Apprendimento 1 occorre, dunque, che il contesto si sia ripetuto più volte e si
sia mantenuto stabile entro un tempo necessario al bambino ad acquisire nuove
competenze. È possibile che tale contesto subisca delle variazioni non sostanziali e che in
esso si faccia ricorso a strategie differenti.
È auspicabile che nel contesto scolastico ci siano variazioni minime che tengano conto del
principio della massima gradualità e della minima variazione per fa sì che un bambino impari.
Un esempio è proprio quello della scrittura: si impara fisiologicamente (e si dovrebbe
insegnare) a scrivere con una gradualità che somiglia a quella del bambino che impara a
parlare e che riesce a gestire gradualmente lettere, sillabe, parole, frasi minime, frasi
complesse, brani (Stella e Grandi, 2012).
Le condizioni da allestire per far sì che l’allievo raggiunga un Apprendimento 1 sembrano
essere dunque la ripetibilità del contesto, il tempo e il rinforzo: si acquisiscono
informazioni, se ne riconoscono le caratteristiche, si impara a confrontare una certa
informazione con altre informazioni analoghe quando si è inseriti in un contesto che si ripete
identico (o senza variazioni eccessive) nel tempo.
Nel contesto scolastico ciò viene realizzato attraverso la ripetizione di esercizi meccanici e
ripetuti nel tempo (es. calcolo scritto, risoluzione di problemi, esercizi di grammatica ecc.). La
ripetizione permette (quando tutto va bene) il consolidamento dell’Apprendimento 1 e la
produzione della automatizzazione e della correttezza dell’apprendimento, generando
Apprendimento 0.
Un altro elemento caratterizzante questo ordine di apprendimento è il confronto ripetuto
con altri contesti. È in virtù di tale confronto che il bambino impara a riconoscere le
differenze e ad acquisire elasticità e apertura, proprie della natura dell’apprendimento.
Un bambino, ad esempio, imparerà a scrivere la parola sole con l’iniziale minuscola, ma la
scriverà con la maiuscola (Sole) quando, nel rispondere alle domande di scienze, si riferirà al
nome della stella. Il bambino dunque acquisisce un automatismo (differenza tra nomi propri
e nomi comuni), ma anche una flessibilità tale da apportare delle modifiche in base al
contesto (tema di italiano o domande di scienze).
Anche in questo ordine superiore di apprendimento (A.1) si generano automatismi. Ciò che
cambia, rispetto all’Apprendimento 0, è la “disposizione a ragionarci sopra, ad avere la
consapevolezza che si tratta di abitudini automatiche acquisite (quelle piuttosto che altre) in
un insieme di alternative” (Conserva, 2000, p. 3).
Per acquisire e rendere stabile un automatismo occorre del tempo (e ogni alunno ha bisogno
di un tempo diverso) ma forse ne occorre di più per modificarlo. E dato che gli automatismi
possono risultare dannosi o poco convenienti, è necessario mantenere un certo grado di
flessibilità, che garantisce all’alunno la possibilità di riadattare l’apprendimento a situazioni
nuove.
Un’ulteriore differenza tra l’Apprendimento 0 e l’Apprendimento 1 è che in quest’ultimo il
processo non è lineare. Il processo è ricorsivo e circolare: una causa può diventare effetto
di qualcosa altro, una premessa al cambiamento di ordine superiore: l’Apprendimento 2.
Un esempio, riportato da Conserva (2000), è quello di un ragazzo, non interessato alla lettura,
che un giorno legge un libro per obbligo o per piacere (A.1): tale lettura potrebbe generare in
lui la predisposizione ad amare la lettura e configurarsi dunque come apprendimento di
ordine superiore, l’Apprendimento 2.
L'APPRENDIMENTO DUE “L’apprendimento 2 è il caso del cambiamento nel processo dell’Apprendimento 1”
(Madonna, 2010, p. 233). Esso, definito deuterapprendimento, può essere descritto, tenendo
conto principalmente dell’aspetto cognitivo, come “un cambiamento correttivo dell’insieme
di alternative entro il quale si effettua la scelta”. Tenendo conto prevalentemente degli
aspetti percettivi, invece, può essere descritto come “cambiamento nella segmentazione
della sequenza delle esperienze” (Madonna, 2013, p. 233).
Comunque lo si descriva, si tratta di un cambiamento che riguarda una intera classe di
situazioni e non una singola situazione. “Riguarda, più precisamente, l’acquisizione, da parte
del ricevente, della capacità di creare contesti”; “è un apprendimento di relazioni che si
realizza attraverso le relazioni” (Madonna, 2010, p. 234).
Questo tipo di apprendimento si realizza quando l’organismo acquisisce un’abitudine a
percepire e a pensare le esperienze, evidenziandone un certo tipo di significato piuttosto
che un altro (Bateson, 1972).
Tali abitudini possono essere considerate aspetti del carattere o tratti di personalità di un
individuo e buona parte di esse risale alla prima infanzia. Come esempi di Apprendimento 2
possiamo considerare, dunque, i tratti del carattere, il comportamento, i pre-giudizi, i modi di
interpretare la realtà, le rigidità e anche il proprio stile di apprendimento (Conserva, 2000).
L’A.2 del soggetto, insieme agli eventi esterni, fa parte del contesto ed è regolato dal
precedente Apprendimento 2. Quindi il comportamento del soggetto, la sua visione del
mondo, può “plasmare il contesto globale fino ad adattarlo alla segmentazione voluta”
(Bateson, 1972, in Madonna 2010, p. 235).
Una caratteristica importante del contenuto dell’A.2 è infatti quella dell’autoconvalidazione:
le premesse acquisite sulla base dell’Apprendimento 2 danno forma all’interazione. E si
confermano nell’interazione. Per cui “l’apprendista stregone non rinuncia alla sua visione
magica degli eventi quando l’incantesimo non funziona” (Bateson, 1972, in Madonna 2010, p.
235), così come l’alunno non rinuncia alla sua visione della matematica (e del suo essere uno
studente che va bene in matematica) quando prende un cattivo voto.
In altri termini, l’Apprendimento 2 può essere descritto come l’aspettarsi che una certa
configurazione di contingenze, apprese in un certo contesto ripetuto, si presenti anche in
altri contesti. Tali “aspettative” possono essere adattative quando si ha ragione di aspettarsi
quella configurazione o disadattative, quando si ha torto. L’A.2 non ha infatti la funzione di
consentire l’adattamento alle situazioni, ma quella di realizzare una preziosa “economia nei
processi di pensiero (o canali neuronici) che vengono usati per risolvere problemi, o
Apprendimento 1” (Bateson, 1972, p. 350). Se l’abitudine (a segmentare gli eventi o a dare
forma a un’interazione) è adattativa, l’A.1 viene favorito dall’A.2, se è disadattativa l’A.1 può
essere ostacolato o ritardato.
Tuttavia se è vero che l’A.2 può essere disadattativo, è pur vero che esso è costituito
dall’insieme degli apprendimenti che il soggetto seleziona nel tempo, “considerandoli per sé
vantaggiosi” (Conserva, 2000, p. 4). In qualche modo, quindi, l’A.2 è adattativo per il soggetto,
gli permette di adattarsi al contesto in cui apprende, anche se da un altro punto di vista il suo
comportamento può essere valutato come disadattativo.
Per un osservatore può essere più facile evidenziare la “smentita della giustezza” di un
comportamento di fronte a un evento. Per il soggetto, invece, quello stesso evento finirà per
confermare le sue previsioni circa l’adeguatezza della sua risposta.
Ad esempio, un ragazzo che ha difficoltà nella lettura potrebbe farsi un’idea negativa di sé
come lettore e della lettura e ciò potrebbe essere, a un livello, adattativo perché gli
consentirebbe di dedicarsi a qualcosa in cui si sente più capace (es. sport), ma a un altro
livello, potrebbe essere per lui disadattativo poiché tale abitudine a pensare potrebbe
impedirgli di scoprire il piacere della lettura (magari con l’aiuto della sintesi vocale), oltre che
la fatica. L’apprendere ad apprendere (l’A.2 per l’appunto) può essere quindi ‘meccanico’, e
tale che ‘migliora’ nel tempo” (Conserva, 2000, p. 4) pur quando è disadattativo.
L'APPRENDIMENTO TRE “L’Apprendimento 3 è il caso del cambiamento nel processo dell’apprendimento 2, per
esempio un cambiamento correttivo del sistema degli insiemi di alternative entro cui
effettuare la scelta”. [...] Ovvero un cambiamento complessivo dell’io [...] una ristrutturazione
completa della personalità” (Madonna, 2010, p. 238).
In quanto tale, l’Apprendimento 3 è difficile e raro. Tuttavia l’organismo tende a provare il
cambiamento proprio dell’Apprendimento 3 e lo fa per superare i contrasti tra gli aspetti del
carattere che si generano a livello dell’Apprendimento 2.
Se la persona vi riesce, può imparare ad apprendere sull’Apprendimento 2 e dunque può
“migliorare la sua capacità di realizzare ulteriore Apprendimento 2 o di liberarsene”. In
entrambi i casi il suo io diventa più flessibile. Se la persona non vi riesce “ può andare
incontro a una patologia psichica” (Madonna, 2010, p. 238).
L’apprendimento 3 ha a che fare con il cambiamento della propria visione del mondo e
talvolta viene raggiunto in psicoterapia. Esso, dunque, non può facilmente essere pensato in
riferimento all’ambito scolastico.
E tuttavia, esso può essere legato alle esperienze che, nei processi di apprendimento,
stimolano la creatività e l’immaginazione. In esse vi possono essere le basi per un’uscita
creativa, che si avvicina all’A.3: “da un modo insolito, non stereotipato, non del tutto
intenzionale di rapportarsi al mondo, si giunge a guardare il mondo come non lo si è mai
guardato” (Conserva, 2000, p. 6).
IL CAPITOLO 1 IN PILLOLE
L'apprendimento due è un apprendimento di relazioni che si realizza
attraverso le relazioni.
Bateson (1964) parla di una gerarchia di ordini di apprendimento in
cui ogni livello è in relazione con quello precedente ene rappresenta il cambiamento.
L'apprendimento uno
avviene quando un organismo risponde (in un istante2) in modo diverso (rispetto all'istante 1) allo stesso
stimolo.
L'apprendimento zero è l'apprendimento già consolidato,
quando il soggetto risponde allo stesso modonell'istante 1 e nell'istante 2.
L'apprendimento tre è un cambiamento complessivo dell'io,
è difficile e raro.
C A P I T O L O 2L ’ A P P R E N D I M E N T O D E G L I A L U N N I C O ND S A
I Disturbi Specifici di Apprendimento
sono disturbi di origine
neurobiologica, definiti dall’ICD-10
come “disturbi nei quali le modalità
normali di acquisizione delle abilità
scolastiche sono alterate già dalle
fasi iniziali dello sviluppo.
Essi non sono semplicemente una
conseguenza di una mancanza delle
opportunità di apprendere e non
sono dovuti a un trauma o a una
malattia cerebrale acquisita” (ICD-
10: International Statistical
Classification of Diseases and
Related Health Problems 10th
Revision).
Nei DSA rientrano la Dislessia
(disturbo di lettura), la Discalculia
(disturbo del calcolo), la
Disortografia e la Disgrafia (disturbi
della scrittura dal punto di vista
costruttivo ed esecutivo) (Stella e
Grandi, 2012).
U N AN U O V A M A P P A
Essi si basano sulla difficoltà di
automatizzazione dei processi di
lettura, scrittura e calcolo; processi
che non possono essere eseguiti in
modo veloce e accurato con il
minimo dispendio energetico.
Tali disturbi, dunque, non
interessano le abilità intellettive
globali, ma alcune specifiche abilità
che “possono riguardare anche altri
ambiti cognitivi come la memoria,
l’attenzione, la visuo-percezione, le
funzioni esecutive (ad esempio
questi studenti possono avere
difficoltà nell’imparare e ricordare
informazioni in sequenza come i
mesi dell’anno, i giorni della
settimana, il conteggio all’indietro, procedimenti matematici)” (Valerio et al. 2013, p. 15).
“Parlare di difficoltà specifica di apprendimento localizza il problema all’interno della
persona” (Stella e Grandi, 2012, p. 12) e ciò ha in sé il rischio di cadere in una di quelle che
Bateson definisce spiegazioni dormitive, ovvero spiegazioni “in cui ciò che è in una relazione
viene collocato in uno dei due termini della relazione, e l’intelletto si addormenta”, non riesce
ad accedere alla complessità di ciò che accade (Madonna 2013, p. 147).
Succede quando un insegnante o un genitore dice che l’alunno non apprende perché non è
motivato, o perché è svogliato. Ciò accade spesso nei confronti degli alunni con DSA e
accade anche spesso di considerare che le persone con DSA possano essere inadeguate in
alcuni contesti perché hanno un disturbo, finendo per non considerare il contesto e la
relazione tra la persona e il contesto.
In una visione che tenga conto non solo del soggetto, non possiamo dimenticare che le
difficoltà si manifestano, si consolidano o si delimitano, in relazione all’ambiente e alle
richieste che in esso vengono fatte al soggetto (Pollak, 2009). Le difficoltà di apprendimento,
infatti, diventano manifeste in sistemi educativi basati principalmente sulla valutazione delle
capacità di letto-scrittura.
Se vivessimo in una cultura basata sulla trasmissione orale o se il sistema educativo fosse
basato prevalentemente sull’arte, probabilmente i bambini con DSA non avrebbero difficoltà,
ma saremmo costretti a parlare di persone “DISartistiche”, per "coloro che hanno difficoltà
specifiche nel disegno” (Stella e Grandi, 2012, p. 13).
Seguendo fino all’estremo questo discorso potremmo tuttavia cadere in una differente, ma
ugualmente rischiosa, spiegazione dormitiva e collocare la causa del mancato
apprendimento dell’alunno nell'altro termine della relazione: nel contesto o nell’insegnante.
Sembra utile, dunque, guardare al processo di apprendimento dei bambini con DSA,
tenendo conto sia delle caratteristiche individuali dell’alunno (e anche dell’insegnante),
proprie della neurodiversità umana (Stella e Grandi, 2012), sia del contesto di
apprendimento; considerare che un soggetto che apprende è “immerso nell’ambiente e nel
tempo, in un processo comunicativo tra interno ed esterno” (Conserva, 2013, p. 2) ed è in
questa interazione che l’organismo cambia e cambia anche il contesto.
Tuttavia, accade molto spesso che l’insegnante, pur essendo (in teoria) facilitato nel suo
ruolo da vari fattori (l’essere un organismo vivente sensibile alle relazioni, l’essere istruito e
l’essere competente circa l’apprendimento), non riesca a tener conto di questa complessità
e non abbia la sensibilità per cogliere “la natura di un apprendimento, dare un nome agli
apprendimenti osservati e a mettere in atto correzioni adeguate: al contesto innanzitutto, il
quale comprende non solo chi propone percorsi di apprendimento ma anche il ‘carattere’ di
chi apprende” (Conserva, 2013, p. 9).
Le difficoltà riscontrate dalle persone con DSA in ambito scolastico, legate all’impossibilità
per molti di accedere a modalità flessibili e individualizzate di insegnamento, hanno reso
necessaria la promulgazione di una legge nel 2010. La legge 170/2010 ha tra le finalità
quelle di garantire il diritto all’istruzione, favorire il successo scolastico, ridurre i disagi
relazionali ed emozionali, preparare e supportare gli/le insegnanti.
QUANDO L’A.1 E L’A.0 RISULTANODIFFICILI Tenendo conto di queste premesse sui DSA, e riprendendo la teoria batesoniana
sull’apprendimento, possiamo ipotizzare che la persona con DSA trovi difficoltà
nell’apprendimento 0 e nell’apprendimento 1, in relazione alle richieste che riceve.
Potremmo dire che il bambino con DSA trovi difficoltà nell’Apprendimento 0, o meglio nel
rispondere alle richieste circa l’acquisizione di nozioni elementari e automatismi (ne sono
esempi: usare le maiuscole per i nomi di città, memorizzare formule matematiche, date, fatti
aritmetici, tabelline, ecc.).
Il bambino dislessico, ad esempio, impara a leggere, magari anche in tempi non troppo
differenti dagli altri bambini, ma la lettura non diventa per lui (in tempi brevi) un automatismo.
“L’allievo dovrà leggere lettera per lettera e sarà quindi lento, si affaticherà e commetterà
errori” (Stella e Grandi, 2012, p. 15).
Allo stesso modo, per il bambino discalculico, l’automatizzazione del calcolo e dunque
l’acquisizione di fatti aritmetici, cioè delle “combinazioni di numeri per le quali l’accesso al
risultato è diretto” (Stella e Grandi, 2012, p. 108), è molto più lenta e difficoltosa.
Sono esempi di fatti aritmetici le tabelline e i calcoli semplici: il bambino discalculico può
imparare a risolvere l’addizione (3+2 = 5), ma più difficilmente la sua risposta si basa sul
recupero di un fatto aritmetico (automatismo), piuttosto ogni qual volta si trova davanti
quella operazione (3+2) può rispondere svolgendo il calcolo.
Ciò probabilmente non vorrà dire che il bambino non ha appreso, ma che non riesce
facilmente ad accedere all’automatizzazione del processo e a quel momento in cui di
fronte allo stesso stimolo dà il 100% di risposte esatte in poco tempo. Egli non ha appreso, in
altri termini, secondo i tempi e le modalità (automatismo) che gli vengono richiesti perché
possa poi accedere a nuovi e più complessi apprendimenti.
Le difficoltà si manifestano anche nell’Apprendimento 1, o meglio nel rispondere alle
richieste e alle pretese di A.1. Ad esempio potrebbe risultare difficile per un bambino con
DSA apprendere a scrivere, ad addizionare, a pianificare un testo.
Per un bambino con DSA ancor più complessa potrebbe risultare la richiesta di flessibilità,
cioè del confronto tra contesti, che fa sì che l’apprendimento acquisito in un contesto possa
essere applicato per somiglianze e differenze in un altro contesto. Ad esempio, imparare a
scrivere la parola sole con l’iniziale maiuscola o minuscola, in base al compito che sta
svolgendo. Inoltre potrebbe risultare difficile imparare a correggere gli errori e il
procedimento della correzione (Conserva, 2000).
Se non si tiene conto che nel caso dei DSA, la dis-abilità sta nell’automatizzazione, e che
dunque la mancata acquisizione dell’abilità (es. lettura) è dovuta alla mancanza dei
prerequisiti di base, risulta difficile allestire le condizioni perché un allievo apprenda e
stabilizzi routine di azioni in modo accurato. Automatismi che sono alla base della scrittura,
della lettura e del calcolo, e dunque di tutti gli ulteriori apprendimenti.
Tenendo conto di questo aspetto, dobbiamo anche considerare che il principale metodo di
insegnamento utilizzato nelle scuole, ovvero “l’esposizione agli stimoli e l’allenamento, non
sortisce gli effetti attesi: il processo non diventa automatico” (Stella e Grandi, 2012, p. 11).
Quindi può succedere che un bambino continui ad avere le stesse difficoltà anche dopo
numerose ripetizioni di esercizi di lettura, calcolo o scrittura.
La difficoltà nell’automatizzazione e l'inefficacia dell’allenamento ben è evidenziata nelle
parole di questo genitore: “sono rimasto colpito soprattutto un giorno in cui, dopo aver scritto
una pagina di parole ripetute, girando il foglio Eleonora non si ricordava più come si scriveva
la parola che aveva scritto almeno venti volte. Sono andato su tutte le furie rimproverandola
per la scarsa attenzione, e, come al solito, è finita in lite e in pianti, ma poi ho cominciato a
pensare che dovevamo consultare qualcuno per capire se c’era qualche problema” (Stella,
2002, p. 58). Se consideriamo che:
▶ "l’automatizzazione rende disponibili attenzione e flessibilità per ulteriori apprendimenti”
(Madonna, 2013, p. 200);
▶ in ogni passaggio di livello, la qualità dell’apprendimento è legata all’acquisizione di
automatismi;
▶ nel caso dell’apprendimento a scuola gli automatismi riguarderanno le quattro operazioni,
l’ordine del calcolo algebrico, il lessico e le strutture grammaticali del linguaggio verbale e
così via;
▶ “gli automatismi sono necessari non soltanto per gli apprendimenti ‘di base’, ma anche e
forse di più per i livelli superiori” (Conserva, 2013, p. 5);
risulta evidente che comprendere cosa siano i DSA e ancor di più quali siano le
caratteristiche dello stile di apprendimento di ciascun allievo con DSA è fondamentale per
allestire le condizioni perché tali ordini di apprendimento siano possibili.
Infatti, “gran parte dell’apprendimento scolastico è Apprendimento 1” (Conserva, 2000, p.
2), “che da un lato genera, quando è consolidato e produce il cento per cento di risposte
esatte, Apprendimento 0: l’informazione relativa al fatto che, per esempio, è (di nuovo) il
momento” di usare la lettera maiuscola; “dall’altro genera, quando si ripete nel tempo,
Apprendimento 2” (Madonna, 2010, p. 242).
QUANDO L’A.2 È DISADATTIVO La scuola pone attenzione prevalentemente alle acquisizioni programmabili e definite dai
programmi ministeriali. In altri termini, nella scuola l’attenzione è rivolta agli “oggetti esterni”
(es. risoluzione di un’addizione), la cui comprensione può più facilmente essere valutata
come corretta o come sbagliata.
Più difficile sembra cogliere l’Apprendimento 2, che può manifestarsi sempre in forme
differenti, ma che accompagna qualsiasi Apprendimento 1 dell’alunno. Esso emerge, ad
esempio, nella risoluzione di un esercizio e può riguardare lo stile di apprendimento, il
valore dato alla materia, le aspettative, gli esiti, le emozioni e così via (Conserva, 2000).
Dunque, anche se l’insegnante è generalmente preparato e orientato a lavorare sul
raggiungimento dell’Apprendimento 0 e 1, nel contesto scolastico di cui egli è parte,
insieme all’alunno, allestisce le condizioni perché avvenga anche l’Apprendimento 2 e
dunque, una “parziale ristrutturazione del sé” dell’alunno (Conserva, 2013, p. 10 ).
Gli insegnanti, infatti, nel proporre al bambino i contenuti del programma (A.1),
inconsapevolmente definiscono il contesto di apprendimento (basato sulla valutazione ad
esempio), adottano tipi di rinforzo (premi o punizioni) e modalità di somministrazione del
rinforzo (in modo coerente, imprevedibile ecc.), secondo il loro modo di essere e di pensare
(Madonna, 2013).
Sulla base delle modalità di rinforzo, i contesti di Apprendimento 1, quando ripetutamente
attraversati, possono produrre Apprendimento 2 cioè caratteristiche di personalità: ad
esempio, “una persona ‘sicura’ avrà probabilmente attraversato in maniera ripetuta contesti
di Apprendimento 1 in cui il premio era preferito alla punizione” (Madonna, 2013, p. 182). Allo
stesso modo, potremmo dire che una persona ‘insicura’ avrà probabilmente attraversato
contesti di A.1 in cui la punizione era preferita al premio.
L’A.2 può rivelarsi adattativo per l’individuo quando l’alunno (e l’insegnante) riesce a
“sperimentare e confrontare differenti punti di vista, ricavandone criteri per mettere in atto
comportamenti adeguati ad altri nuovi contesti – pur mantenendo (e in armonia con) il suo
peculiare stile” (Conserva, 2013, p. 10).
Un alunno demotivato, ad esempio, potrebbe trarre beneficio nello studio allargando la sua
gamma di possibilità, mettendo un nuovo Apprendimento 2 accanto agli altri. Diventando ad
esempio anche interessato all’apprendimento oltre che demotivato. L’Apprendimento 2 si
verifica nella relazione insegnante-alunno e proprio in virtù della significatività di tale
relazione, che è specializzata nella produzione di nuovi apprendimenti (0 e 1). Esso, quando è
adattativo al contesto, agevola l’Apprendimento 1 e 0. Si crea quindi un circolo virtuoso.
Proprio perché “in ambito scolastico, l’A.2 non rientra in un programma, per meglio dire non
è programmabile”, “i modi di intervenire di un educatore sull’A.2 richiedono molta più
cautela”, la necessità di comprendere come ogni singolo alunno apprende e interpreta la
realtà, e l’adattamento degli interventi agli aspetti psicologici del singolo alunno.
Ciò aiuta l’insegnante “a tenere sempre aperta la relazione con lui” [...] “e a tener conto delle
diversità ‘caratteriali’ dei suoi studenti pur svolgendo per essi lo stesso programma”
(Conserva, 2000, p. 5).
L’A.2, quindi, può rivelarsi adattativo quando l’insegnante tiene conto della relazione con
l’alunno e mette in atto comportamenti per migliorare se stesso all’interno di quella
relazione, come essere coerente tra il pensare e l’agire, mandare messaggi appropriati al
contesto, offrire una pluralità di contesti per sperimentare più punti di vista (Conserva, 2013).
L’attenzione agli aspetti relazionali, non meno importanti dell’insegnamento degli ‘oggetti
esterni’, non è supportata spesso da una formazione adeguata dell’insegnante, non è una
competenza formalmente richiesta. Piuttosto è lasciata alle caratteristiche personali, alla
sensibilità del docente, e non sempre avviene che la persona che insegna sia capace di
tenerne conto. Inoltre, spesso nelle scuole gli insegnanti non hanno la possibilità di accedere
a servizi di supporto psicologico. Può accadere che l’Apprendimento 2 risulti disadattivo
per l’individuo che apprende, e diventare fonte di disagio:
▶ quando le premesse iniziali del soggetto sono turbate e modificate oltre la soglia di
tollerabilità;
▶ quando l’insegnante si allontana dal suo compito di rendere possibile per ogni studente
l’A.1 e l’A.0, e si dedica all’A.2, programmandolo come se si trattasse di un altro livello di
apprendimento (es. far amare la lettura ai ragazzi attraverso l’esercizio);
▶ quando non si tiene conto di se stessi e della propria partecipazione al contesto e del fatto
che “la spiegazione di quel che accade è nell’incontro, nella relazione fra insegnante e
allievo” (Madonna, 2013, p. 148);
▶ quando non considera la relazione tra l’alunno (con le sue premesse epistemologiche), gli
oggetti dell’apprendimento e le richieste, e l'insegnante.
Nel caso di bambini con DSA (ma in sostanza di tutti gli studenti, se consideriamo i DSA
come espressione della diversità neurobiologica) questo potrebbe significare, come spesso
purtroppo accade, sia che l’insegnante non riesca ad adeguare le richieste didattiche (A.1 e
A.0) alle modalità e ai tempi dell’alunno, sia che non riesca a selezionare i messaggi da
rivolgere all’alunno in modo da tener presente la relazione e gli aspetti caratteriali propri e
dell’alunno.
Un esempio su tutti di comunicazione disfunzionale è legata alla collocazione dell’errore
commesso dall’alunno dentro la sua persona (es. “sbagli perché sei svogliato”). E non nella
relazione tra l’allievo e la norma che sta apprendendo (es. “sbagli perché non concordi il
soggetto con il predicato”).
Nel primo caso, l’alunno sposta la sua attenzione “su un piano (la svagatezza) che rende la
correzione indecidibile (e forse impossibile almeno nell’immediato)” (Conserva, 2013, p. 9);
nel secondo caso l’attenzione dell’allievo è portata su un “dominio circoscritto di ciò che egli
potrebbe ragionevolmente correggere” (Conserva, 2013, p. 9).
Un simile contesto di apprendimento, ripetuto nel tempo, potrebbe mettere l’alunno in una
condizione in cui sperimenta continui insuccessi, difficoltà nell’acquisizione di nozioni e
abilità (A.1 e A.0), spesso seguiti da rinforzi negativi e punizioni.
Attraversare l’insuccesso in modo ripetuto e soprattutto trovare nella propria svogliatezza la
causa del mancato apprendimento, può portare a una situazione paradossale: apprendere
di non essere capace di apprendere come gli altri e come vuole l’insegnante, e cioè
nell’unico modo ritenuto possibile.
Le parole di Gianluca, un ragazzo di 16 anni ben esprimono la sofferenza legata a una
situazione simile: “quando leggo non riesco a riconoscere bene le parole e così faccio fatica
a capire quello che c’è scritto. Io lo so che sono dislessico, ma gli altri non ci credono. Gli
insegnanti dicono che non ho voglia ed è vero che io non ho più voglia, ma io ho provato a
imparare a leggere come gli altri ma non ci sono riuscito e non ci riesco” (Stella, 2002, p. 64).
L’abitudine a pensare e percepire il proprio comportamento e le proprie capacità di
apprendimento come fallimentari, se ripetuta nel tempo, in diversi contesti (es. in diverse
relazioni, ordini di scuola, materie scolastiche ecc.) può contribuire a ristrutturare le
‘premesse epistemologiche’ del soggetto che apprende.
Egli, sulla base delle nuove abitudini, si aspetta di ripetere l’esperienza di fallimento in altri
contesti e tende a confermare le sue pre-conoscenze e le sue previsioni (anche quando
esse vengono smentite agli occhi di un osservatore). Tale A.2 può diventare terreno fertile
per l’abbandono scolastico, per il disinteresse dell’alunno e per manifestazioni
psicopatologiche secondarie ai DSA (ansia, fobia scolare, disturbi del comportamento,
disturbi psicosomatici ecc.).
“Le persone con DSA incontrano numerose difficoltà nella loro storia scolastica e nella vita,
con effetti a volte importanti sugli apprendimenti, che possono portare a situazioni critiche a
livello psicologico, quali un sé scolastico negativo. Da ciò conseguono un basso livello di
autoefficacia, bassa motivazione, scarsa fiducia in sé e disistima” (Stella e Grandi, 2012, p. 11).
ESITO CREATIVO O PATOLOGICO? Le situazioni di cui si è parlato potrebbero essere descritte anche come incontro tra le
difficoltà del bambino nell’apprendere nei modi e nei tempi previsti dalla scuola e l’eccesso
dell’aderenza dell’insegnante al carattere normativo del suo lavoro (vedi Cap. 1).
In altri termini, il bambino potrebbe non avere un supporto adeguato a scuola e/o a casa e
non trovare delle ‘strategie creative’ per apprendere partendo dalle sue difficoltà di base;
l’insegnante potrebbe non riuscire ad abbandonare una visone stereotipata di sé (e
dell’alunno) e delle norme prestabilite, e a trovare delle ‘strategie creative’ per insegnare.
Potrebbe, in altri termini, sviluppare quello che Giacomo Stella definisce un disturbo di
insegnamento: “vere e proprie distorsioni del modo di concepire il proprio ruolo di docente.
Una concezione che prevede un modello unico di funzionamento e di risposta, sempre
uguale per tutti.
Quello che conta è imparare nel modo standard, spesso lo stesso con il quale il docente ha
imparato quando era studente, molti anni prima” (Stella, 2015).
Tale disturbo consiste anche nel non riuscire a chiedere agli studenti qualcosa di inaspettato
(Conserva, 2000).
Probabilmente tale situazione crea sofferenza nell’insegnante, ma ciò che risulta evidente è
la sofferenza che gli studenti provano nel doversi confrontare quotidianamente in un
contesto in cui non si sentono compresi, aiutati, sostenuti. In un contesto di apprendimento in
cui sperimentano la condizione di fallire in ciò che gli viene richiesto: apprendere.
Bateson cita spesso la storia del cane e della ‘nevrosi sperimentale’, che può essere
esempio di situazioni simili e ci può aiutare a comprendere come esse possano condurre a
un esito patologico.
Quando, invece, l’insegnante riesce ad accedere alla sua creatività (forse inconsapevole e
non programmabile) è possibile creare le condizioni per un’uscita creativa anche dell’allievo.
Bateson racconta la storia della focena (Conserva, 2000), che può essere un esempio di esito
creativo in un processo di apprendimento.
Quella del cane e della focena sono due storie che Madonna (2010) utilizza come esempi
per spiegare le sindromi transcontestuali orizzontali-verticali e le differenze tra quelle
patologico/patogene e le altre.
Bateson afferma che la transcontestualità è una “caratteristica costitutiva della mente”
(Madonna, 2010, p. 97). Essa attiene all’attraversabilità dei contesti, che riguarda tutti i
contesti del mondo degli esseri viventi, e al fatto che qualsiasi “parte - definita come
individuo, come sottosistema, come cellula o in qualunque altro modo - è necessariamente
partecipe di ambiti e di livelli sistemici molteplici” (Madonna, 2010, p. 97).
Le sindromi transcontestuali orizzontali-verticali differiscono da quelle orizzontali e da quelle
verticali, e sono caratterizzate “dall’attraversamento di ambiti e livelli di percezione, pensiero
e descrizione e possono essere sia creative, sia patologiche” (Madonna, 2010, p. 100).
LA STORIA DELLA FOCENA Questa è la storia di una focena addestrata (ai fini di uno spettacolo) a considerare come
rinforzo secondario il fischio del suo istruttore, che quando fischiava somministrava del cibo
all’animale. Somministrava dell’altro cibo quando la focena ripeteva ciò che stava facendo al
momento del fischio. In una sessione, dopo tre ripetizioni della stessa sequenza
(comportamento-rinforzo), la focena aveva appreso delle regole. Alle sessioni successive la
focena doveva produrre sempre un nuovo modulo comportamentale per ricevere il cibo.
Per essere in grado di fare ciò, la focena doveva infrangere la struttura del contesto, cioè
della prima sessione e delle successive, e accedere al contesto dei contesti, al “contesto di
ordine superiore in cui le si chiedeva di esibire, a ogni nuova sessione, un diverso o nuovo
modulo comportamentale” (Madonna, 2010, p. 103).
Nelle prime quattordici sessioni la focena commetteva molti errori (ripetizioni di
comportamenti già manifestati) prima di mettere in atto un comportamento diverso. Tra la
quattordicesima e la quindicesima sessione, tuttavia, la focena si mostrava agitata e metteva
in atto un’esibizione composta da otto comportamenti, quattro dei quali non erano
mai stati osservati prima in quella specie animale.
Questa storia ci mostra che “si può indurre in un mammifero un acuto senso di sofferenza e
disagio, se lo si mette in condizione di sbagliare circa le regole che danno significato a un
rapporto importante con un altro mammifero” e che “se si è in grado di respingere o di
resistere a questo stato patologico, l’esperienza complessiva può favorire la creatività”
(Bateson, 1972, p. 323).
Per la genesi di una sindrome di questo tipo è fondamentale l’infrazione da parte
dell’educatore delle regole e la somministrazione di molti pesci non meritati, che
salvaguardano la relazione con l’animale e lo aiutano a riconoscere di stare in un contesto
in cui è amato, nonostante le frustrazioni inflitte.
LA STORIA DEL CANE Questa è la storia di una situazione sperimentale in cui un cane veniva addestrato a
discriminare tra due stimoli diversi (cerchio e ellisse), attraverso la somministrazione di
rinforzi positivi (cibo).
Ogni qual volta il cane affinava la sua capacità a discriminare, il compito era reso più
complesso e le differenze tra l’ellisse e il cerchio venivano ridotte, fino a che il cane
mostrava profondi segni di turbamento, quando le sue soglie percettive non gli
consentivano più di discriminare.
Il cane era messo in una situazione in cui era impossibile realizzare ciò che gli veniva
richiesto: discriminare. E che aveva imparato nella relazione con lo sperimentatore. Le
premesse del contesto erano cambiate, quello era diventato un contesto per l’azzardo
mentre il cane aveva appreso che si trattava di un contesto per la discriminazione.
Quindi “sbaglia - ed è indotto all’errore - circa le regole che governano l’interazione
nell’ambito di una relazione significativa” (Madonna, 2010, p. 107).
Ciò che contraddistingue questa sindrome è la presenza di “punizioni relative a due ordini di
comportamento fra loro collegati” (Madonna, 2010, p. 107). Esse si realizzano “quando un
organismo sperimenta punizione a seguito di un qualche insuccesso e impara che non deve
imparare che all’insuccesso segue la punizione” (Madonna, 2010, p. 107).
L’esito patologico, inoltre, è legato alla non delimitazione degli effetti, all’invasione dell’intera
“esistenza di un individuo”, e all’assunzione di “una dimensione totalizzante” (Loriedo e
Picardi, 2000, p. 85).
IL CAPITOLO 2 IN PILLOLE
L'apprendimento 2 può essere disadattivo quando ilbambino apprende di non essere capace di
apprendere.
I DSA sono disturbi di origine neurobiologica: dislessia, discalculia, disortografia, disgrafia.
I bambini con DSA hanno difficoltà nei processi diapprendimento 1, centrali nel percorso scolastico.
I bambini con DSA hanno difficoltà nell'acquisizionedi nozioni elementari e automatismi
(apprendimento 0).
L'apprendimento 2 può risultare adattivo quando sitiene conto che gli apprendimenti avvengono nellarelazione adulto-bambino-oggetti da apprendere.
C A P I T O L O 3L ’ I N T E R V E N T O R I -A B I L I T A T I V O D E I D S AI N C H I A V EE C O L O G I C A
“Laddove i contesti e i casi della vita
rendono difficile a una persona –
per come essa è fatta - districarsi
senza soffrire nelle varie
contingenze, dovrà impegnarsi a
modificare il proprio modo di vedere
il mondo”. Qualcuno lo fa con l’aiuto
di uno psicoterapeuta (Conserva,
2000, pp. 5-6).
Nel caso dei DSA, la psicoterapia
non è la strada che abitualmente
viene intrapresa e consigliata. Tra le
raccomandazioni della Consensus
Conference del 2007, vi è quella
che i bambini e i ragazzi con DSA
necessitino di una presa in carico
rieducativa (nota 3), orientata a
migliorare la prognosi del disturbo
e, all’interno di essa, di percorsi
riabilitativi e abilitativi.
E S S E R EU NT U T O RD S A
Questi ultimi possono prevedere sia
interventi di carattere clinico sia
pedagogico in senso lato.
Tali interventi sono generalmente
condotti da psicologi o altre figure
professionali e hanno obiettivi e
tempi definiti. Sono guidati da
modelli neuropsicologici e cognitivi
e sono finalizzati al potenziamento
delle abilità di base, lettura,
scrittura e calcolo (A.1), in termini di
velocità e correttezza (A.0) e,
laddove necessario, di altri aspetti
come le funzioni esecutive:
l’attenzione, la memoria di lavoro,
l'inibizione (Consensus Conference,
2007).
Il bambino viene aiutato nell’acquisizione e nel potenziamento delle funzioni di base,
attraverso un training che tenga conto delle sue caratteristiche neuro-psicologiche e del
suo stile di apprendimento, ad esempio il training integrato del Prof. Benso (nota 4).
Può essere utile intraprendere percorsi di tutoraggio nella gestione dei compiti quotidiani,
attraverso un supporto nella organizzazione delle attività, nell’acquisizione di un metodo di
studio efficace e nell’utilizzo di strumenti compensativi (es. mappe, schemi, sintesi vocale
ecc.), con l’obiettivo di trovare strategie utili di cui il ragazzo si impadronisce gradualmente,
fino a raggiungere l’autonomia nello studio (Stella e Grandi, 2012).
La finalità ultima del tutoraggio nei compiti è di rendere possibile (facile) il raggiungimento
degli obiettivi di apprendimento previsti dai programmi ministeriali (A.1 e A.0).
Si lavora con la consapevolezza che allestendo le condizioni perché il bambino/ragazzo
possa rispondere alle richieste scolastiche con successo, si allestiscono anche le condizioni
che rendono possibile l'Apprendimento 2: diverse e nuove abitudini a pensare se stessi in un
contesto di apprendimento .
Questo aspetto non è secondario dal momento che molti ragazzi arrivano ad essere
affiancati da un tutor nello studio quando già mostrano un forte disagio psicologico
secondario al DSA (ansia, sintomi psicosomatici, disturbi del comportamento, bassa
autostima ecc.).
QUANDO IL TUTOR È PSICOLOGO Nel pensare ai limiti e alle risorse nell’attività di tutoraggio farò riferimento alla mia
esperienza. Una delle principali risorse è il rapporto uno a uno con lo studente, che mi
permette di conoscere approfonditamente le modalità di apprendimento del singolo.
Inoltre, pur avendo degli obiettivi definiti dall’esterno (quelli imposti dai programmi didattici e
concordati con gli insegnanti e i genitori), ho una certa flessibilità nel gestirli e nel costruire
degli obiettivi intermedi nella relazione con il bambino/ragazzo per ciò che è raggiungibile
nel momento storico, e ancor di più nel qui e ora del singolo incontro.
Ancora, la mia preparazione sui DSA mi permette di comprendere il profilo neuropsicologico
emerso nella diagnosi e di confrontarmi con i colleghi che si occupano della valutazione,
della diagnosi o ad esempio dei training riabilitativi, condividendo con loro obiettivi e
considerazioni. Questa competenza, unita alla conoscenza approfondita del singolo
studente, può portare all’elaborazione di un percorso di apprendimento individualizzato,
funzionale per il singolo e anche flessibile, cioè modificabile in base alle esigenze che
emergono nel corso del tempo.
L’essere una psicologa (molto spesso questo lavoro viene fatto da insegnanti o laureati in
altre discipline) è per me un’ulteriore risorsa: non solo in quanto organismo vivente sono
dotata di sensibilità alle relazioni (Conserva, 2013), ma in quanto psicologa ho la competenza
di istituire una relazione psicologica, calibrata sulla soggettività.
Inoltre, sono una psicoterapeuta sistemico-relazionale e la mia formazione mi ha aiutato ad
acquisire l'allentamento a pensare alla circolarità delle relazioni, a includere me stessa nel
campo di osservazione. A lavorare su me stessa nella relazione con l'altro.
Ciò non mi protegge dalla possibilità di insuccesso e di non riuscire a instaurare una ‘buona
relazione’ con un bambino. Tuttavia forse mi consente di esserne consapevole, e di provare
a essere il miglior tutor possibile per le caratteristiche e le esigenze di ciascun bambino.
Quelli descritti sono aspetti che potrebbero rivelarsi anche dei limiti. Ad esempio quando,
acquisite una base di competenze nel tutoraggio, si pensa che i metodi e le strategie
utilizzate per un bambino con DSA possano essere utili anche a tutti gli altri; o quando ci si
dimentica che la propria funzione, il proprio contratto è focalizzato sul rendere possibili l’A.1 e
l’A.0 e allenare le funzioni di base dell’apprendimento che risultano deficitarie. E non fare un
percorso di sostegno psicologico in senso stretto.
Ciò vuol dire che anche il tutor può trovarsi nelle situazioni di cui si è parlato in relazione
all’insegnante e non tenere bene a mente i due aspetti fondamentali della relazione di
insegnamento-apprendimento: l’importanza del raggiungimento degli A1 e A0, o anche
componente rigorosa, e il fatto “che i bambini e i ragazzi che incontra sono focene”
(Conserva, 2000, p. 6), o anche componente vaga.
Forse si può affermare che l’insegnante, per la sua formazione e il suo ruolo, potrebbe più
facilmente commettere l’errore di aderire a una visione solamente ‘normativa’ e rigida
dell’insegnamento, tralasciando gli aspetti relazionali, la considerazione dell’unicità e della
creatività, del modo di apprendere di ciascun alunno.
Il tutor-psicologo, viceversa, per la sua formazione, potrebbe essere portato a commettere
maggiormente l’errore di aderire a una visione solamente creativa dell'insegnamento
tralasciando l’importanza dell’A.0 e dell’A.1.
CREATIVITÀ E RIGORE NELTUTORAGGIO Considerando che ciascuna persona con DSA ha proprie modalità di apprendere, che spesso
differiscono da quelle comuni e che devono trovare una strada per adattarsi alle richieste
esterne, la relazione con il tutor potrebbe essere considerata come una relazione in cui
questo adattamento creativo sia facilitato.
Ritornando alla storia della focena, ciò che rende possibile l’esito creativo è la limitazione
degli effetti e la salvaguardia della relazione. Ciò è possibile innanzitutto perché l’animale ha
ricevuto rinforzi in termini di premi e non di punizioni: tale scelta ha un’importanza notevole
rispetto “alla felicità e al mantenimento della salute dell’organismo che impara” (Madonna,
2010, p. 108) poiché consente all’organismo di vivere felice e in buona salute “molto più che
quando il rinforzo è prevalentemente una punizione” (Madonna, 2010, p. 108).
Ciò che in questa storia è ancora più evidente è il fatto che la focena ha ricevuto premi non
meritati. È questo che consente di salvaguardare la relazione con l’addestratore, di
contenere la sofferenza della focena rispetto al fallimento e di darle la possibilità di
correggere l’errore.
La creatività dell’istruttore (che emerge quando non rispetta le regole prestabilite rispetto al
rinforzo e somministra cibo non meritato) permette alla focena di risolvere “in maniera
creativa la sua sofferenza generando e distinguendo, con i suoi propri processi gerarchici di
apprendimento e di adattamento, un’ulteriore struttura contestuale” (Madonna, 2010, p. 109).
Il tutor, dunque, nell’aiutare il bambino nell’acquisizione di Apprendimento 1 (e 0), quindi nel
valorizzare la ‘componente rigorosa’ del suo lavoro, può allestire le condizioni per un esito
creativo lasciandosi andare alla propria creatività, alla ‘componente immaginativa’: non
irrigidendosi nel suo ruolo, negli esercizi proposti al bambino, nel pensare di avere già a
disposizione tutto ciò che occorre al bambino per apprendere.
L’insegnamento della ‘componente rigorosa’ ha a che fare con gli aspetti formali della
relazione, ovvero con ciò che si stabilisce nel progetto, con gli obiettivi di apprendimento e
con gli strumenti che vengono utilizzate nel percorso. La ‘forma’ riguarda anche il setting e la
creazione di un contesto che si ripete nel tempo.
Quello della relazione tutor-bambino è un contesto caratterizzato da una definizione di
alcune regole (orario, tempo, pause, organizzazione dell’ambiente per studiare ecc.) e da
una relazione prevalentemente asimmetrica, che permette di stabilire che il tutor ha il
compito di aiutare il bambino.
L’aiuto consiste nel proporre e cercare, insieme al bambino, le strategie e gli strumenti che si
pensa possano essergli utili per apprendere un contenuto. Poi, attraverso la ripetitività del
contesto di apprendimento, è possibile verificare l’utilizzabilità di una strategia o di uno
strumento (es. mappe concettuali).
Quando gli aspetti formali sono definiti, è possibile la liberazione del processo di
apprendimento, della creatività. Ad esempio, l’elaborazione di un modo del tutto personale
di utilizzare lo strumento (es. mappa concettuale) o di sviluppare altre strategie.
Questo è possibile, come per la focena, se si tiene conto dell’importanza della relazione,
della possibilità di trasgredire le regole per tenere in salvo la relazione e limitare il vissuto
della frustrazione al singolo compito.
Per quanto riguarda l’insegnamento della ‘componente vaga’, esso è molto più complesso
poiché è “fuori dalla possibilità di intervento diretto dell’azione fondata sulla finalità
cosciente” (Madonna, 2013, p. 200). È tuttavia possibile allestire le condizioni perché la
creatività si manifesti, in modi molto diversi e anche con coloriture artistiche (Madonna, 2013).
Questo è un aspetto fondamentale della psicoterapia (nota 5) e “deve ricevere un’attenzione
particolare anche nell’ambito della formazione” (Madonna, 2013, p. 201). Perché ciò accada è
necessario che il formatore, come il terapeuta, dopo aver ben definito gli aspetti formali
nella relazione con il bambino, lavori su se stesso, ricorrendo alla finalità introversa (nota 6),
cioè non “perseguendo il successo, ma assumendo l’atteggiamento di chi vuole cambiare se
stesso” (Madonna, 2013, p. 205).
Un esempio di ‘uscita creativa’, favorita dal ricorso alla finalità introversa, è quella illustrata
da Leonardo Da Vinci, che viene identificato, come molti altri personaggi importanti della
storia, come una persona con DSA non diagnosticato: egli aveva l’abitudine di stare da solo
al buio per favorire l’immaginazione creativa e pensare ai suoi progetti. Quando voleva
favorire la nascita di pensieri creativi, lavorava sull’ambiente esterno (buio, silenzio), ma
soprattutto lavorava su di sé (Madonna, 2013).
Lavorare su di sé nella relazione di tutoraggio può voler dire cercare di essere il miglior
tutor possibile per ciascun bambino, accogliere la sua soggettività e la propria; vuol dire
provare a offrire le condizioni al bambino che favoriscano l'apprendimento (A1 e A0) e la
possibilità di sentirsi capace di apprendere. E forse anche di sentirsi capace di trovare
strategie personali e creative per raggiungere gli apprendimenti che vengono richiesti nel
programma scolastico.
In tal modo, non soltanto si lavora sull’Apprendimento 1 e si favorisce il passaggio
all’automatizzazione e alla stabilizzazione degli apprendimenti - l'Apprendimento 0 - ma si
favoriscono le condizioni perché avvengano nuovi Apprendimenti 2 e si mettano accanto
agli altri. Ad esempio lo sviluppo di una maggiore consapevolezza da parte del ragazzo delle
proprie caratteristiche e difficoltà, ma anche dei propri punti di forza e risorse.
Una delle risorse che le persone con DSA sembrano possedere, come alcuni studi
dimostrano, è quella di avere un pensiero divergente molto sviluppato (Grenci, Amodio e
Bandello, 2007) e una maggiore attitudine alla creatività.
Questo aspetto, molto spesso ignorato o addirittura ritenuto incompatibile con il processo
educativo (Runco, 2003), se accolto e potenziato, in molti casi risulta essere la chiave per
dare origine a un circolo virtuoso, basato sul successo scolastico.
Ciò è raggiungibile quando si crea una buona relazione con il bambino, basata sulla fiducia
e sull’accoglienza, e si tiene conto che l’apprendimento non riguarda solo il passaggio
di nozioni ma anche la relazione e il contesto in cui avviene; è possibile quando si crea una
buona collaborazione con i genitori e con gli insegnanti, in modo che il ragazzo possa
ottenere dei successi a scuola.
È a scuola, infatti, che lo studente ha la misura di quanto ha fatto e dell’importanza del suo
impegno, nella relazione con gli insegnanti e con i compagni di classe.
Molti bambini, nonostante i miglioramenti, mantengono un atteggiamento negativo verso la
scuola, e ciò accade soprattutto quando continuano a sperimentare insuccessi come
studenti, nonostante l'impegno.
Al contrario, ciò che sembra aiutare e favorire uno sviluppo sano dei ragazzi è la
“valorizzazione di ciò che sanno fare, delle loro abilità, interessi e passioni sia a scuola sia in
contesti extrascolastici” (Stella e Grandi, 2012, p. 14).
Molti ragazzi riescono a crescere bene quando, oltre la scuola, sviluppano aree di interesse
in cui hanno successo, in cui hanno la possibilità di sperimentare la propria creatività, il
proprio modo di essere, di apprendere, perché contesti più predisposti a farlo, come la
musica, lo sport e l’arte.
In questa prospettiva, l’esito creativo può avvenire anche e soprattutto grazie al loro
modo di apprendere e non malgrado le loro difficoltà. Ne sono esempi Albert Einstein,
Leonardo da Vinci, Pablo Picasso, Walt Disney (e tanti altri):
“pensavano in maniera diversa e sono riuscite a farci vedere le cose con i loro occhi.
Le persone vicine non lo accettavano e le hanno ostacolate. Loro però ne sono usciti
vincenti. E tutto il mondo è rimasto a bocca aperta” (dal film Stelle sulla Terra, 2008).
IL CAPITOLO 3 IN PILLOLE
Il tutor DSA sostiene nell'organizzazione dei compiti,
nell’acquisizione di un metodo di studio efficace enella scelta e utilizzo di strumenti compensativi.
La componente rigorosa riguarda gli aspetti formali dell'apprendimento:
regole, obiettivi, programmi.
La componente vaga riguarda gli aspetti processuali:
la creatività e l'espressione della soggettività.
Il tutor DSA può lavorare su di sé per essere il miglior tutor
possibile per ciascun bambino.
Il tutor DSA coordina e favorisce una buona comunicazione tra
alunno, famiglia e scuola.
CONCLUSIONI Alla fine di questo lavoro credo, come immaginavo, di non essere arrivata a grandi risposte.
Tuttavia, credo anche che questo percorso di apprendimento mi abbia permesso di
raggiungere un piano meta-riflessivo sul mio lavoro di tutor e mi abbia aiutato a mettere
insieme parti della mia vita formativa e professionale.
Mi sono aperta alla possibilità di considerare la ricchezza che il mio essere psicologa-
psicoterapeuta i porta nella relazione con i bambini, e viceversa, la ricchezza e che la mia
esperienza di tutor porta nella relazione con i pazienti.
Quelle che prima consideravo due mappe diverse, forse incompatibili, hanno trovato, in
questo percorso di apprendimento, il modo per stare l’una accanto all’altra e iniziare a
integrarsi. Ciò mi ha permesso anche di raggiungere una maggiore serenità e integrità nel
modo di lavorare e di vedere ulteriori sviluppi come possibili.
AUTRICE: ALICE GARGIULO Sono una psicologa iscritta all'Ordine della regione Campania,
e una psicoterapeuta sistemico-relazionale, specializzata
presso l'lIPR di Napoli.
Nella mia pratica clinica, lavoro come Tutor DSA, accompagnando
i bambini e le famiglie nel corso dell'anno scolastico.
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NOTE 1 Con il termine epistemologia Bateson fa riferimento alle abitudini individuali apprese
relative alla conoscenza, ovvero ciò che accomuna un individuo a un gruppo più o meno
grande di altri individui. Con il termine Epistemologia, invece, fa riferimento a ciò che
accomuna un individuo a tutti gli altri, ovvero ai fondamenti biologici della conoscenza
(Madonna, 2010).
2 Secondo le Linee Guida l’azione formativa individualizzata pone obiettivi comuni per tutti
facendo attenzione alle differenze individuali e adattando a esse le metodologie (Linee
Guida, 2011).
3 La presa in carico è un progetto di respiro più ampio che prevede la collaborazione tra
scuola, famiglia e professionisti della salute e che può durare anche durante tutto l’arco
della scolarizzazione (Stella, 2012).
4 Il training integrato di Benso prende in considerazione tre fondamentali aspetti tra loro
distinti, ma in continua interazione: i sistemi centrali e le funzioni esecutive, i sistemi specifici
modulari (apprendimenti per la neuropsicologia) e le emozioni.
5 In relazione al processo terapeutico, descritto da Madonna (2013) come un’interazione tra
forma e processo, Whitaker (1989) “invita i terapeuti ad aspettare che emerga qualcosa di
spontaneo dalla loro creatività”. Invita “a esitare nell’intervento finalistico e cosciente,
nell’azione formale, dunque a favorire, in questa maniera, le condizioni affinché l’azione
processuale possa nascere” (Madonna, 2013, p. 70).
6 L’azione terapeutica è orientata a modificare classi di comportamento (tratti del carattere)
ma, nelle fasi successive a quella iniziale, è caratterizzata da un’azione con finalità introversa.
Se così non fosse, ci sarebbe “un errore dal punto di vista dei livelli logici e potrebbe portare
a frustrazioni o risultati paradossali” (Madonna, 2013). Gli esiti dei processi di Apprendimento
2 sono infatti molto difficili da modificare. Ciò che il terapeuta può fare per allestire le
condizioni del cambiamento è lavorare su di sé per favorire all’interno della relazione
esperienze nuove.
N.B. Si è preferito utilizzare termini maschili (bambini, ragazzi ecc) per aumentare la
leggibilità del testo. Tali termini si riferiscono a persone di entrambi i sessi.