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16 febbraio Ci eravamo già concentrati sull’immagine dell’apostasia, di come Geremia si soffermi sulla radicale perversità del popolo, sia in alcuni elementi di concretezza che ci vengono presentati, sia come immagine di atteggiamento di fondo. Dio sottolinea: il popolo ha abbandonato me, sorgente viva, per accogliere una cisterna screpolata. Radicale negatività del popolo, sottolineata con l’espressione “dura cervice” e “cuore incirconciso” (chiuso, bloccato). Geremia annuncia a seguito un giudizio punitivo di Dio: il crimine p totale, e così sarà la sanzione. Queste parole sono di ritornello… La totalità della punizione assume un volto: l’annuncio di una deportazione/esilio, l’occupazione di Gerusalemme da parte di popoli del nord, la fine della monarchia, la distruzione del Tempio. Ricordiamo: la predicazione di geremia ha fondato la sua “sicurezza” sull’inviolabilità del Tempio. Ger 13, 14 —> io li frantumerò uno contro l’altro, non avrò pietà (Chesed), nè misericordia (RChM - rahim/ o rachim —> controlla). Ger 14, 11-12 —> ma anche 7,16 —> l’invito di Dio a Geremia è di non pregare per Israele. Quasi Dio ha paura che Ger si comporti come Mosé, che faccia il lavoro di “smuovere” il popolo… ecco fino a che punto siamo arrivati! Che Dio non permette al profeta di essere tale (quasi come se Dio “rischiasse” di cadere nella ‘trappola’ di intercessione positiva del profeta!). L’elemento punitivo nella tradizione biblica, è il distacco di Dio nei confronti del male: non c’è compromesso, Dio NON è vicino a chi sta punendo per un comportamento fallace. 16,5 —> non soltanto c’è un invito: chiede a Ger di non fare quei gesti di lutto: la logica di fondo è “ci saranno talmente tanti lutti, che diventa impossibile

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Appunti Antico e Nuovo Testamento

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Page 1: Appunti Bernini

16 febbraio

Ci eravamo già concentrati sull’immagine dell’apostasia, di come Geremia si soffermi sulla radicale perversità del popolo, sia in alcuni elementi di concretezza che ci vengono presentati, sia come immagine di atteggiamento di fondo. Dio sottolinea: il popolo ha abbandonato me, sorgente viva, per accogliere una cisterna screpolata. Radicale negatività del popolo, sottolineata con l’espressione “dura cervice” e “cuore incirconciso” (chiuso, bloccato). Geremia annuncia a seguito un giudizio punitivo di Dio: il crimine p totale, e così sarà la sanzione. Queste parole sono di ritornello…La totalità della punizione assume un volto: l’annuncio di una deportazione/esilio, l’occupazione di Gerusalemme da parte di popoli del nord, la fine della monarchia, la distruzione del Tempio.Ricordiamo: la predicazione di geremia ha fondato la sua “sicurezza” sull’inviolabilità del Tempio.Ger 13, 14 —> io li frantumerò uno contro l’altro, non avrò pietà (Chesed), nè misericordia (RChM - rahim/ o rachim —> controlla).Ger 14, 11-12 —> ma anche 7,16 —> l’invito di Dio a Geremia è di non pregare per Israele. Quasi Dio ha paura che Ger si comporti come Mosé, che faccia il lavoro di “smuovere” il popolo… ecco fino a che punto siamo arrivati! Che Dio non permette al profeta di essere tale (quasi come se Dio “rischiasse” di cadere nella ‘trappola’ di intercessione positiva del profeta!).L’elemento punitivo nella tradizione biblica, è il distacco di Dio nei confronti del male: non c’è compromesso, Dio NON è vicino a chi sta punendo per un comportamento fallace.16,5 —> non soltanto c’è un invito: chiede a Ger di non fare quei gesti di lutto: la logica di fondo è “ci saranno talmente tanti lutti, che diventa impossibile seguire la grande liturgia del panorama del lutto per tutti… non è la morte di uno solo, sarà la morte di una buona fetta del popolo”.Così anche Ezechiele lo farà: gli muore la moglie, ma non fa i segni di vedovanza. Davanti a queste situazioni, Geremia porta però ancora un messaggio di speranza: nella sua prospettiva, si trova invece ancora a parlare come se ci fosse ancora un orizzonte di possibilità. C’è quasi un invito “vi chiedo di mettere fine al mio dolore!”. Ger 13, 15 e seguenti…Pur arrivando a immagini di “quasi impossibilità” (può un etiope schiarirsi, o una tigre perdere le strisce?…), resta a pronunciare una salvezza che sembrerebbe del tutto impossibile… la Parola di Salvezza va sempre e comunque annunciata, Geremia non si può sottrarre.La parola profetica, che annuncia anche un giudizio, deve essere detta anche come parola di Speranza, anche se del tutto improbabile.

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Ger 30 / 33. Capitoli in cui si concentrano gli oracoli di salvezza. Questi capitoli sono chiamati il “Libro della Consolazione”. In questa parte sono concentrati i testi più numerosi, con la prospettiva di misericordia da parte di Dio. La situazione che si determinerà con il castigo e punizione, diventa una situazione che, una volta che si sarà realizzata, non sarà l’ “ultima parola” dell’esperienza del popolo. L’esilio diventa quasi il “crogiolo” dove il popolo viene purificato. Allora si incomincia a parlare di un “ritorno”, di una “restaurazione”, di un ristabilimento anche religioso del rapporto. Ger 30, 18 —> si direbbe: quell’inevitabile castigo, non anniente. Non a caso, introduce l’immagine di una ferita, un colpo che ha colpito il popolo, ma che si rimargina, cura e guarisce. Non diventa una ferita mortale. Anche l’oracolo di giustizia, di condanna, è ferita che sarà rimarginata. Dio è lo stesso che prima colpisce, e poi guarisce. Ciò che emerge qui, è la dimensione di misericordia.Il captiolo 31, è citato nel vangelo, in Mt, per la strage degli innocenti: la figura di Rachele che piange. 31, 15 e seguenti —> Immagina Rachele che piange la morte dei suoi due figli, giuseppe e beniamino (popolo del regno del Nord e del regno del Sud). Notate però che a questa situazione, Efraim chiede perdono: la situazione che Geremia immagina, che ha colpito il popolo, porta a una conversione.Lo schema è: peccato - castigo; castigo - pentimento; pentimento - consolazione. Ezechiele prenderà una prospettiva diversa: per Ger l’oracolo di consolazione viene dal grido di Efraim che si pente. Per Ezechiele, è solo per il “nome di Dio” che si annuncerà l’oracolo di salvezza, e quest’oracolo determinerà il pentimento di Israele.In Geremia, il pentimento determina l’oracolo; per Ezechiele, al contrario.Geremia presenta una sorta di soggiogazione di Dio, determinata dalla tenerezza suscitata dal pentimento di Efraim. Molto bella, nella conclusione di questi oracoli di salvezza, l’idea di ipotesi di irrealtà (formula grammaticale ebraica precisa), quella di 33, 25-26 —> “così dice il signore: se non esistessa la mia alleanza, se non avessi stabilito leggi, rigetterei anche la stirpe di Giacobbe e David..” eccola l’ipotetica di irrealtà: l’Alleanza, il Patto, c’è. Quindi, c’è qualcosa che LEGA Dio.

Ezechiele

Obbiettivo fondamentale: chiarire da cosa dipendono gli “oracoli di giudizio” - che sono determianti dal peccato di Israele; mentre gli oracoli di salvezza NON dipendono dalla conversione del popolo. Ciò che fonda la salvezza di

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Dio, è solo la volontà gratuita di Dio verso il suo popolo, “per l’onore del Mio nome”.4-24 oracoli di giudizio25-32 oracoli contro le nazioni33-48 oracoli di salvezzaQual’è il rapporto tra la prima e la terza parte? Quale le motivazioni degli oracoli di salvezza?E’ chiaro che gli oracoli di giudizio sono determinati dalle colpe di Israele; c’è un’insistenza, come anche in Geremia, nel presentare la negatività del popolo, nessuno è escluso. L’immagine è sempre quella di Dio che lascia distruggere il popolo dalle nazioni straniere… ma al contempo, queste nazioni che distruggono Israele, si ritrovano maledette. C’è qualcosa di irrazionale: questi popoli sono strumento dell’ira di Dio, ma Dio è geloso del suo popolo, e li maledice. Insistenza in questi oracoli del pronome possessivo “mio” riferito al popolo e a cose intorno al popolo.Ez 35 —> il punto di partenza della salvezza, non dipende dalla conversione di Israele, ma dalla santità di Dio: Dio annuncia la salvezza; a seguito di quell’annuncio, il popolo si converte. Ez 20 —> c’è da parte di Ezechiele il desiderio di presentare la storia dell’infedeltà di Israele. Riprende la storia dalle origini del rapporto con Dio. Alla fine di ogni “tappa storica”, dice di aver pensato di sterminare il popolo, ma di non averlo fatto “per amore del mio nome” per la sua gloria. Le tappe sono: egitto, prima generazione nel deserto, seconda generazione nel deserto.Cosa vuol dire “per il mio nome”? Quale elemento viene presentato? Certamente il testo ha una sua ambiguità: sembra che ci sia un elemento egoistico, non dice “per amore del mio popolo”: è un elemento che accentra sulla dimensione di Dio stesso; il nome è qualcosa che potrebbe essere profanato. Anche Mosé faceva leva con una sollecitazione “egoistica”: ovvero —> “cosa diranno le genti, che non sei in grado di salvarle?”. Sarà il NT che porterà a pienezza questa prospettiva: il Nome del Padre è il momento massimo di glorificazione, e nel NT è nella Croce che si espleta al massimo. Pensiamo alla frase di Ireneo: “La gloria di Dio è l’Uomo Vivente”.Ez 16, 1 sgg —> racconta attraverso l immagini di una bambina appena nata, ancora sporca di sangue, come se Dio fosse un passante che la vede e la prende, fino a farne una donna bellissima. Israele vive grazie allo sguardo che Dio ha gettato su di lui.

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TOBIA

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Tb 14 - Detto da commentatori “Cantico della Misericordia”. Temi dominanti sono due: misericordia (indicativo il versetto 5); giudizio.L’esperienza della misericordia ruota intorno a una duplice conversione: quella di Dio, che dal giudizio/castigo passa alla misericordia; e quella dell’uomo.Tobia è deuterocanonico, è scritto in greco (non entra nella bibbia ebraica); scritto nel periodo ellenistico, particolarmente in quella fase di Antioco IV Epifane: il momento in cui la palesina è sotto i Tolomei, dove c’è un certo fascino verso la cultura greca, a rischio di deprezzamento della tradizione ebraica.Tobia è scritto in greco ma è per un ebreo della diaspora. Presenta la figura del “pio ebreo” chiamato a conservare l’eredità dei padri. La figura di Tobia e Sara, sono due persone affascinate e fedeli alla Torah. Tobia è figlio di Tobit (così le traduzioni italiane). Figura che è presentata come eroe - va a seppellire i morti -, ma ha anche tratti di cultura popolare che lo “stemperano” (attenzione a un sostrato magico - il fiele del pesce…; alcuni tratti di misoginia…).Due fonti testuali principali, A e B.Terza grande corrente testuale è quella di un originale aramaico.A qumran, trovati frammenti sia in ebraico che aramaico: consideriamo qumran come quarta fonte.Il movimento di conversione passa dall’amarezza ad una dimensione di gioia: possiamo dire che “i nodi si sciolgono”, all’interno del testo.Il movimento è anche spaziale: le scene sono più di una.La teologia fondamentale del libro di Tobia è quella che esalta la pia osservanza dei comandamenti. C’è una morale delle opere. Non è la storia della conversioen di Tobia e Sara: è la storia di una situazione di difficoltà. E’ la dimensione della “prova”, tradizionale sapienziale; ovvero: non è causato dalla loro malvagità, è Dio che mette alla prova (tradizionalmente). L’assoluzione e la benedizione sono il finale positivo.Il capitolo 13: “Allora Tobi scrisse questa preghiera di esultanza”. Il termine ‘preghiera di esultanza’. L’esperienza di Tobi è un’esperienza che lo porta a provare sulla sua pelle la misericordia di Dio, riacquistando la vista etc.Queta esperienza di Tobi però viene riletta come esperienza del popolo: non nek senso che rappresenta il popolo egli stesso - gli manca la dimensione di colpa -: l’esperienza di bontà che Tobi fa, è un’esperienza che egli fa “per tutti”. Diventa un’esperienza comune, e lo leggiamo in versi come “userà misericordia a tutti voi”.Tobi la sperimenta per sé, come superamento e fedeltà, ma è in una logica che non si manifesta solo come privata, è un’esperienza sovrabbondante, che tocca tutti. Dio castiga, ma usa poi misericordia.

Capitolo 5, vediamo come è usato il binomio castigo/misericorsia —> versetto 5, versetto 10.

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L’esperienza di Tobi, sposta dal binomio castigo/premio a quello castigo/misericordia. La logica del castigo, non si ‘consuma’ fino al limite previsto, ma viene “interrotta” da un’altra logica, quella della misericordia. La conversione è quindi la risposta alla misericordia sperimentata. La conversione è l’effetto della misericordia, e non la causa della misericordia. Seppur ancora con un certo pudore, questa misericordia è già indicata come “aperta” su un orizzonte ben più ampio del popolo di Israele; non ha le prospettive universalistiche di altri testi, ma sicuramente già c’è almeno un anticipo di apertura qui.

In questa carrellata di AT, abbiamo visto come la misericordia non sia presente solo nel NT: la misericordia che segue il castico, quella che si sostiuitsce al castigo, quella che porta la conversioen, quella che segue la conversione…Non c’è una sintesi di pensiero, ma diverse voci che vogliono presentare che il rapporto tra Dio e l’uomo non è inteso solo in una dimensione di peccato/castigo, fedeltà/premio.

NT

VANGELO DI MATTEO - Benché tutti abbiamo nelle orecchie Dante che dice “Luca è scriba della manusetudine (misericordia) di Cristo”, molti hanno letto Matteo come vangelo della misericordia. Matteo riprende un importante passo di Osea (Mt 9,13).1) Mt 9,13 e seguenti [da verificare il passo esatto] —> paralitico; chiamata di Matteo; pasto con i peccatori [con citazione da Osea]; discussione sul digiuno; adattamento della fede cristiana con quello che l’ha preceduto (toppa nuova vestito vecchio; vino nuovo otri vecchi)

Mc 2, 13-14 —> è parallelo a quanto visto di Matteo. Stesso schema: paralitico, chiamata di Levi, pasto coi peccatori [manca qui la citazione di Osea]; ‘andate’ —> comando, che anticipa una forma di comando di tipo HALAKAH (giuridico). Molto più in la, troveremo la guarigione dell’emoroissa - c’è più materiale in mezzo.

Lc 5, 27 —> paralitico; chiamata di levi; … schema piu simile a Mt

ALTRO PASSO CHE ANALIZZIAMO confrontando nei tre sinottici [le spighe strappate e mangiate dai discepoli in giorno di sabato]

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MT 12,7 —> matteo sposta questa pericope, e ci reinserisce di nuovo Osea. Le spighe, in Mc e Lc sono subito dopo la discussione sul digiuno; Matteo invece le allontana al capitolo 12. Dopo, segue una guarigione.

Mc 2, 23-28 —> in Marco anche Gesù sgrana le spighe e le mangia; in Mt, i discepoli. Segue la stessa guarigione.

Lc 6 —> gesu mangia: l’esigenza giustifica.

PAROLE: misericordia ELEòS (ebr. CHESED - fedeltà di Dio). A volte eleos traduce anche RAHAMIM (misericordia, viscere - “forse plurale di rahab? si domanda tommi…).Amore - presenza di Dio; / Sacrificio - olocausti.Conoscere - unione sponsale, rapporto sessuale.

La citazione di Osea è in senso anticultuale; questa prospettiva, la troviamo anche in Samuele (“il signore si compiace forse degli olocausti e dei sacrifici più dell’obbedienza alla voce del signore?” 1Sam 15-23). E anche nei Salmi.Quindi: la tradizione AT, ha in sé la consapevolezza di un valore contrario a quello esteriore/sacrificale, che sa già stigmatizzare. Non è solo il sacrificio di animali estrinseco, esteriore, a significare un’unione con Dio. L’opposizione ai sacrifici nell’AT non è contro il culto, il sacrificio in sé, ma contro l’idea che il sacrificio causi il rapporto, e non solo - al massimo - lo manifesti. E così, anche il NT non ha una specifica anti-cultualità (Luca si conclude con i discepoli che salgono al tempio a pregare; forse l’unico passo che sembra assegnare connotazione negativa è la citazione di geremia riguardo ai mercanti nel tempio, “una spelonca di ladri” —> siete ladri fuori, e poi quando entrate

MANCA UNA LEZIONE

8 marzo

Gv 7, 53 [??] “e andavano ciascuno a casa sua; Gesù allora se ne andò al monte degli ulivi. Di mattina presto si presentò nel tempio, e tutto il popolo veniva da lui, ed essendosi seduto li ammaestrava”. Gli scribi e i farisei conducono una adultera e gli dicono ‘maestro, è adultera; nella Legge di Mosè, donne simili sono da lapidare; cosa dici?’ mettendolo alla prova.

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Gesù, scrive sulla terra; insistono a interrogarlo, allora si drizza e dice “chi tra di voi è senza peccato, scagli la prima pietra”; essi allora avendolo udito, se ne andarono. Essendosi drizzato: “Donna, nessuno ti ha condannata?” e lei “Neppure io ti condanno; va e non peccare”.Testo accolto canonicamente, ma manca nei manoscritti più antichi. Dal punto di vista della critica testuale, è assente nel testimone più antico - papiro - di Giovanni; e nemmeno nei principali greci (sinaitico, alessandrino…) e in molti codici minuscoli. Addirittura fino al 4 secolo, non è citato nei Padri. E’ commentato invece da Ambrogio, Agostino…Brano accostato da molti a Luca 7 (accostamento ideale, non letterale).Nella prassi antica, i peccati chje non venivano perdonati erano: apostasia, omicidio, adulterio. Davanti a questa prassi, può aver fatto grande difficoltà, l’adozione di questo testo. A livello sintattico-semantico, non è giovanneo: esempio la parola ‘scriba’ non è mai usata in Gv.Capitolo 7, 24: in questo blocco di versetti, gesù dice “io non giudico nessuno, e se giudico, il mio giudizio è vero”. Probabilmente su questa affermazione del non giudicare, si è inserito l’episodio dell’adultera.Il confronto fra Gesù, adultera e accusatori, mette in luce il tema della misericordia e perdono di Dio. La volontà dietro all’inserimento - appunto, non casuale; addirittura, fa ‘violenza’ a un discorso che viene interrotto -, è strategica intorno al tema del non-giudizio.E’ presentato il confronto tra due giudizi: quello umano, che condanna, che ha per giudice dei peccatori, e quello divino che assolve, che ha per giudice l’innocenza divina. Chi è più legittimato a condannare, non lo fa!!! E viceversa.La struttura del brano è ben congegnata: tre parti: 1) ambientazione della scena (antefatti); 2) accusa di scribi e farisei; 3) dialogo conclusivo tra gesù e donna, rivelatore della misericordia di Dio.La donna è presa in flagrante: manca l’uomo adultero; come mai non c’è? Viene presentato un gesto di Gesù, non facile: quello dello scrivere per terra. Accanto a questo unico gesto (l’unica volta che viene attribuito il verbo scrivere a gesù), c’è larga attenzione alla spazialità e dinamica: la scena, il chinarsi ed alzarsi di Gesù; a livello narrativo, si insiste su questi elementi spaziali e geografici, forse simbolici. Forse l’abbassamento e innalzamento sono quelli cristologici. All’infedeltà - dell’adultera, come di Israele -, corrisponde la misericordia divina: come Dio non ha distrutto israele a seguito dell’adulterio idolatrico, così non condanna questa donna.Spesso, lo “scrivere” evocato in relazione a Geremia 17,13 “quanti si allontanano da te, saranno scritti nella polvere; poiché si sono allontanati da te fonte di acqua viva”. Queste letture sono recenti: la tradizione Patristica invece non ha mai dato particolare rilievo al gesto dello scrivere, se non come “gesto per prendere tempo, invitare a riflettere, ritardare il giudizio”. Gesù

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scriverebbe i nomi dei peccatori, sulla polvere, cancellabili con un solo soffio di vento.Come in Luca 7, le parole di Gesù evocano una dimensione liturgica “Nessuna ti ha condannata? E neppure io ti condanno; va e non peccare più”. Anche l’appellativo “donna” - che riferisce di solito a sua madre sembrerebbe aprire una dimensione di riscatto della situazione. Come la vita per questa donna ri-comincia, per merito di Cristo, così la venuta di Cristo tra gli uomini non è giudizio, ma inizio di un nuovo cammino. La non condanna, inizia un percorso di conversione. La salvezza non viene dal rigorismo, ma dalla riflessione sul peccato come esperienza universale, che coinvolge tutti, e dal quale dobbiamo tutti essere liberati. L’unico che potrebbe scagliare la pietra è Gesù, l’unico senza peccato; ma quello che fa è non-condannare. La logica della misericordia elude la sanzione alla colpa.

Terminologia paolina Elemento insistente in paolo; prospettiva però non sistematica: non vi è una teologia della misericordia sviluppata. Certamente Paolo ha una consapevolezza - come Gv 8 - che è la situazione di peccato che tocca l’uomo. Prospettiva riassumibile in: 1) tutti gli uomini sono peccatori; 2) dio nel suo amore misericordioso, giustifica i peccatori; 3) questa giustificazione non avviene per mezzo della Legge o le opere della Legge; 4) questa giustificazione avviene per mezzo di Gesù Cristo morto e risorto.

Tutti hanno peccato, e sono privi della gloria/presenza di Dio. Il peccato - e Paolo usa un certo termine “hamartano”, mancare il bersaglio; disobbedienza (parakoè); caduta (parabàsis - idea di scivolata); trasgressione…Questa è la condizione propria dell’uomo, pagano o giudeo. Ecco perché dice che tutti gli uomini commettono peccati, disobbediscono a Dio, trasgrediscono la legge (quella nel cuore dell’uomo, e quella data da Mosé). I peccati concreti mettono in evidenza una potenza: quella del peccato che rende schiavi gli uomini. RIcordiamo l’affermazione paolina “..io so quello che dovrei fare e non lo faccio…”. Paolo si chiede anche da dove venga il peccato e questo dominio sugli uomini; e dirà: “a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e con il peccato è entrata la morte” - Romani 5.C’è un potere distruttore che è stato scatenato, con l’ingresso del peccato.Se il peccato radicale dei pagani è l’idolatria, per paolo quello dei giudei è l’autogiustificazione. Paolo specifica: tutti siamo sotto la collera di Dio. L’unica vera conseguenza logica della condizione attuale è la manifestazione dell’ira di Dio sull’uomo.

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Es 33 —> Dio dice a Mosé: “lascia stare questo popolo, ti farò capo di un altro popolo”: in questa proposta, propone l’abbandono del Popolo; poi ci sarà però l’intercessione di Mose…Qui si inserisce il concetto di Giustizia del NT: Dio si dimostra giusto non perché condanna, ma perché rende giusti. Dio è il Dio fronimos, il dio dell’amore e della misericordia - agape, eleos -; quel Dio che, per grazia, rende giusti. “Dio dimostra il suo amore verso di noi perché mentre eravamo ancora peccatori Cristo è morto per noi” —> Rm 5, 8. E anche Rm 11, 33.La giustizia di Dio è salvifica, non punitrice.In Cristo, l’obbedienza piena e perfetta al Padre, rende a Dio ciò che il peccato dell’uomo gli ha tolto. Gesù giustifica i peccatori morendo. Non è solo con la morte che salva, ma con morte e risurrezione. “Cristo è stato messo a morte per i nostri peccati, ed è risorto per la nostra giustificazione” Rm 4.L’uomo deve essere convinto - in Cristo - che l’amore di Dio è più forte del suo peccato.

15 Marzo

La tematica della prova - Esperienza che il singolo col popolo di Israele è chiamato a vivere. Prove emblematiche: come la prova di Abramo col sacrificio di Isacco; la prova di Giobbe (la prova descritta nei primi 2 capitoli); le prove di Gesù nel NT.L’elemento della prova è stato introdotto dalla riflessione sapienziale, come tentativo di rispondere a una teoria tradizionale che non sembra funzionare (ti comporti bene allora bene; ti comporti male allora male). La situazione “immeritatamente” negativa, viene vissuta quindi come prova, con la quale Dio “saggia” il cuore dell’uomo. La complessità estrema della prova di Giobbe, però, fa addirittura saltare la logica della prova; mentre le altre prove generalmente hanno un superamento “positivo”, uno scioglimento.Si ricollega alla dimensione della punizione e della misericordia.

Deuteronomio 8 - la “prova del deserto”: il deserto è collegato alla dimensione della prova in sé. Lo logica sapienziale: come un padre corregge il proprio figlio. Ma la prima cosa che viene messa in evidenza è: mettere in pratica e non dimenticare. Perché la prova abbia un senso, la prova non si esaurisce nella fattualità del momento, ma diventa feconda proprio perché non viene dimenticata; ci si appropria del contenuto di quell’esperienza.ù

1) deserto come punizione2) come prova

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3) come esperienza 4) come luogo di nascita (come ventre femminile, grembo - qui è nato

Israele)

Due verbi di movimento - fare uscire, fare entrare - segnano il “ritmo” di un cammino di salvezza del popolo, dalla prospettiva dell’azione divina.I verbi in ebraico sono in forma causativa. Tra questi due momenti, che sono passaggi su corsi d’acqua, c’è il deserto. Quindi: passaggio acqua (mar rosso)- deserto - passaggio acqua (giordano). Sono due passaggi “puntuali” - un momento solo -, inframezzati da un tempo lungo (40 anni: il numero 40 indica un “tempo definito/limitato”). Questi 40 anni, sembrano quasi ‘ritardare’ l’elemento positivo di entrata nella Terra. “Il Signore ha fatto andare [verbo ALACH] Israele nel deserto”: altro verbo di movimento, sempre in relazione alla storia della salvezza. Perché la Storia della Salvezza deve comportare l’attraversamento del luogo della solitudine e morte per eccellenza? Il deserto è detto” Grande e spaventoso, lugoo di serpenti velenosi e scorpioni, terra assetata”; e Israele è FATTA ANDARE da DIO nel deserto “per umiliarti, per provarti, per farti felice”. C’è una volontà divina. Il Signore è soggetto causativo; il deserto è inserito nel progetto di Dio. Poteva essere “ti ho fatto uscire / hai percorso / ti ho fatto entrare”; ma invece è “ti ho fatto uscire / ti ho fatto attraversare / ti ho fatto entrare”.Il deserto rappresenta un’esperienza umana. E’ per ognuno.

Anche nell’esilio di Babilonia si parla di un deserto. C’è dinuovo un’esperienza confrontabile. Qui si rilegge con valenza simile l’esperienza.I relatori della forma finale del pentateuco, se accettiamo l’idea di redazione persiana, hanno già passato la divisione del regno, e anche l’esilio: sono già capaci di ri-leggere queste esperienze.

L’esperienza del deserto porta con se una punizione del peccato. La tradizione rabbinica sottolinea che quando adamo ed eva uscirono dal Paradiso, si trovarono nel deserto. L’esperienza dei progenitori comincia col deserto. Anche per Israele, la prima prova è il deserto (anche prima di entrare in Babilonia). E’ lo spazio non vitale, spazio di morte; rifiutare Dio è rifiutare la vita, e quindi ricollocarsi in uno spazio morto. Il deserto è collegato all’idea di peccato, ma l’attraversare il deserto in sé non è il peccato. E’ prova.La dimensione della prova, rinvia a un “desiderio di approfondire la relazione”: il testo sottolinea due movimenti di conoscenza: quella che parte da Dio, quella che parte dall’uomo. Cosa scopre Israele? Scopre che anche se cade nel peccato, resta nella relazione con Dio! La relazione non si rompe! In apparenza, Dio sembra “mettere alla prova” Israele come se non si fidasse; ma il risultato, invece, è che Israele, davanti alla prova non superata, resta comunque nell’Alleanza.E’ come se in una relazione di amore la parte che mi ama mi mette in contatto con una persona con la quale sarebbe facile cadere nel tradimento;

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io tradisco, ma l’altro non mi lascia, resta, supera la dimensione del mio tradimento.Le tentazioni di Gesù rinviano esplicitamente a Dt 8 (che è anche citato!): 40 giorni, deserto, prova. C’è un bellissimo Salmo. il 66, che sembra ricordare quell’esperienza di Dio che mette alla prova: “per umiliarti” —> (ebr. RPN - rapèn) fare percepire la debolezza ed impotenza. DT 8, 3 —> provare la fame: di solito quando uno ha fame risponde cercando il cibo; “ti ho dato la mamma”: israele è un bambino nutrito da Dio. Passando in questa umiliazione, Israele diventa adulto. Dio, nell’umiliazione, gli fa percepire la sua dipendenza. Nel deserto, la mano dell’uomo è forzatamente inoperosa: per mangiare, gli serve l’aiuto di Dio. Il Sabato vuole proprio ricordare questo all’uomo: non tutto dipende da lui.

LA “PROVA” NELL’AMBITO DEL LIBRO DI GIOBBE

Libro di Giobbe: forse c’è un nucleo antico; sicuramente si è sviluppto in epoca persiana (non a caso Giobbe è un sapiente persiano). Il testo si presenta in due forme letterarie: una parte in prosa e una poetica. La parte in prosa è all’inizio e fine; quella poetica è all’interno (ed è la maggior parte).Letteratura sapienziale, letteratura di contestazione rispetto alla “tradizione”; ma, in fin dei conti, se avessimo solo la parte in prosa, non potremmo dirlo così ‘polemico’. Leggendo il primo e il secondo capitolo, saltando dal terzo capitolo fin quasi all’epilogo (fino a 42,7) [ovvero leggiamo le parti in prosa], ci troviamo davanti a un piccolo libretto dove l’immagine presentata è quella di una difficoltà/sofferenza di Giobbe affrontata come ‘prova’. Giobbe, proprio per aver superato la prova, viene ‘reintrodotto’ nei suoi beni.Troviamo il Satàn per eccellenza - l’accusatore - che verifica la “correttezza” dell’uomo-Giobbe.L’immagine della prova viene colta come l’esperienza in cui un uomo viene provato - in una forma quasi di piece teatrale -. Al Satan inizialmente viene conferito il potere di intervenire, tranne sulla persona stessa di Giobbe; ad un certo punto, interviene anche direttamente sulla stessa persona di Giobbe.E’ probabile che all’origine ci fosse appunto solo il breve raccontino in prova. Il centro/poetico verrebbe aggiunto ad “ampliare” largamente la comprensione di questa dimensione di prova; in questo modo, l’esperienza diviene molto più enigmatica, non è solo un “test di atletismo sacro” di Giobbe.C’è un ciclo di discorsi di vari personaggi; questi, sono preceduti da un monologo di Giobbe: Giobbe si chiede “che cos’è la vita? non è una

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successione positiva di giorni, ma un susseguirsi di giorni che mi avvicinano alla morte”; vita come inganno: le promesse che sembrerebbe annunciarti, non è in grado di mantenerle, e porta solo alla morte. Perché iniziare, quindi, una corsa verso il nulla?I tre amici di Giobbe si rendono conto che la posta in gioco è molto importante: un uomo che vive una difficoltà, e sa di essere un giusto (e questo lo possiamo comprendere in una prospettiva tradizionale: se è giusto, deve stare bene). Quindi, questo dice: io sono giusto, allora Dio si inganna!!! Gli amici se ne rendono conto, e cercano di difendere Dio in questa logica, con l’unica possibilità che hanno: accusare Giobbe!!! Gli amici lo cercano quindi di convincere che lui non è così giusto. Se sta male, è peccatore.L’autore biblico invece vuole difendere la possibilità dell’uomo di unirsi all’urlo di Giobbe: l’urlo di Giobbe, non è insensato. Gli amici vorrebbero far tacere Giobbe, ma alla fine è lo stesso Dio che non lo fa tacere, che gli permette lo sfogo!!! Questa è la difficoltà dell’uomo che dovrà morire: tutte le sventure sono ‘accessorie’; il succo, qui, è la morte personale.Diventa determinante il capitolo 28: separa rispetto a quello che è l’inserimento dell’ultimo amico, il famoso Eliu - il quarto amico che salta fuori - [si noti che il terzo, Zofar, non parla: ma è come dire ‘si potrebbe andare avanti all’infinito, in questo botta e risposta… non cambierebbe nulla…’].Giobbe 28 è uno di quegli ‘inni alla Sapienza’, insieme a Siracide 24, Proverbi 8…Innanzitutto, viene presentato il lavoro di un ‘minatore’, che è l’apice della tekné, dell’uomo artigiano del tempo; è come dire “l’uomo è diventato maestro, addirittura è arrivato ad estrarre i vari metalli dalla terra…” - un po come nel novecento si è detto “addirittura l’uomo è andato sulla Luna!…”.Ma… la Sapienza, da dove si trae? L’uomo è stato capace di entrare nella terra ad estrarre cose preziosissime, ma ancora non sa da dove si estrae la Sapienza… L’uomo non ne conosce la via.Altra immagine: dopo lo ‘scienziato/estrattore di metalli’, arriva il mercante. La sapienza non si può scambiare con niente al mondo! Il mercante fa arrivare cose stranissime dai confini del mondo, ma… ancora niente Sapienza.Ma c’è qualcosa che permette all’uomo di conoscere la Sapienza: l’Abisso e la Morte. Questi due, permettono all’uomo di avvicinarsi alla Sapienza, poiché la morte “ha sentito parlare” della Sapienza.Quindi, se all’inizio Giobbe presentava la vita come una corsa terribile verso la morte, qui il timbro cambia. La morte è connessa con il peccato; la morte, ci ricorda che “non siamo Dio”; il succo di Genesi 3 era: l’uomo non può dire “sono come Dio” e la morte glielo ricorda. Questo limite però, che esiste ancora, ha qualcosa di “sapienziale”: è lì la chiave. E’ nell’accettare questo limite che l’uomo entra in una logica sapienziale.

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Dopo il capitolo 28, che funge così da cesura, c’è una sorta di lamento/apologia di Giobbe. Non aggiunge niente di nuovo, è più una ‘sottolineatura’. Cap 32, arriva Eliu. Sembrerebbe all’inizio una prospettiva diversa, ma alla fine si pone sullo stesso livello dei tre amici: accusare in qualche maniera la divinità. In questa prospettiva, arriviamo alla fine del nostro testo, che è anche il fulcro: gli interventi di ADNI. Cap 38, cuore della teologia di Giobbe. Il Signore risponde a Giobbe dal mezzo del turbine. La proposta: cingiti i fianchi come un prode. Chi si cinge i fianchi? Chi inizia un viaggio (o comunque un guerriero). Dio invita Giobbe ad ‘iniziare un viaggio’. Come coi discepoli di Emmaus: dio dice “cominciate il viaggio, io vi assisterò”. Quindi, Dio presenta una serie di domande a Giobbe; Dio “chiede delle spiegazioni”. Dio fa fare questo percorso a Giobbe: nella sua vita, ci sono molte domande alle quali non può dare una risposta. Non c’è solo la domanda “perché sto soffrendo/perché devo morire?”. Il ‘sapere di non sapere’, ha un che di sapienziale. Il libro di Giobbe non ha ‘risposte’.Cap 40: ‘fai tu la parte di Dio!!! Mettiti nei miei panni!!!’ ‘tu pensi, dal tuo parlare, che te la caveresti meglio di me. Allora vieni tu!’. Viene presentata una drammaticità della creazione: c’è la famosa parte del Behemoth e del Leviathan - animali mitici e ‘cattivi’. Viene presentato il lato disarmonico, brutto, violento della Creazione: la creazione è un piano complesso… Non è solo la bellezza degli esempi fatti prima (quelli del “dov’eri tu quando io…”).Cap 42, la risposta: “Comprendo che puoi tutto, e che nessuna cosa è impossibile per te”. LOTTA TRA GIACOBBE E L’ANGELO: è nel momento in cui Giacobbe perde, che diventa il vincitore!!! Allo stesso modo, Giobbe nel Cap 42 si arrende, e dice: istruiscimi tu, ho parlato senza sapere. Prima ti conoscevo per sentito dire, ora ti vedo.Dio se la prende - in fondo -, con gli amici di Giobbe: l’unico vero sapiente è stato Giobbe. Giobbe ha difeso il fatto che ci fosse un senso; e infatti finisce per dire “io ti interrogherò, Dio, e tu mi istruirai” —> Giobbe si affida al timore di Dio.Ecco perché la morte istruisce, porta la Sapienza: chi comprende la sua finitezza, il suo non essere Dio, capisce il suo posto nel mondo. Giobbe non può prendere il posto di Dio, ma Dio può prendere il posto di Giobbe.La tradizione patristica ha visto in Giobbe una prefigurazione Cristologica: l’incarnazione è il terzo intervento di Dio, dove dice a Giobbe: tu non puoi diventare Dio, ma io posso diventare Giobbe. Due riferimenti importanti: il ruolo di Giobbe di intercessore e mediatore. “Il mio servo Giobbe pregherà per voi”. Giobbe ad un tratto diventa intercessore, diventa il giusto che previene le punizioni per la stoltezza degli altri.

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Quindi, la prova in Giobbe, non è un elemento “puntuale” (o la superi o no, e se la superi guadagni qualcosa) come potrebbe dire la parte in prosa, ma assume uno statuto sapienziale: la prova introduce in una logica sapienziale. Non è “sconfiggerla” che ci fa accedere, ma passarci attraverso, magari proprio arrendendosi, facendo un passo indietro.Così anche in genesi: il limite è mettere un limite alla bramosia. Il limite è il limite “del limite in sé”, è un ‘accogliere la dimensione del limite stesso’.Chiaramente, nella visione complessiva, la prova ‘finisce’ per Giobbe; ma dobbiamo vedere uno statuto quasi permanente e sapienziale di questa dimensione, a livello universale.

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26-4

LE TENTAZIONI IN MATTEO (reprise)

Specifico di Matteo: Le tentazioni sono dopo i 40 giorni; così come dopo i 40 anni di peregrinazione nel deserto, c’è la tentazione.Sottolinea il “salire”: come in Deuteronomio 34. Mosè ‘inchiodato’ su quella montagna, non inizia l’ingresso nella Terra Promessa; invece Gesù entra, sale, lo supera.

Israele è entrata in una terra di òlibertà che non ha saputo tenere; il nuovo Mosè - Gesù -, traghetta in quella Terra Promessa, ma questa volta con una “realtà nuova” - alla quale accediamo nel battesimo.Matteo e Luca: Gesù è veramente tentato, ed è messo alla prova sulla sua “messianicità”: Gesù viene tentato come “Che tipo di messia sarà?” “Sarà il messia nel progetto provvidenziale del Padre, o al di fuori di questo progetto?”.Le tre tentazioni sono sulla maniera di vivere il ruolo di Gesù: incentrate sull’accogliere il progetto di Dio. Nella logica di Adamo/Mosè, si confronta con la chiamata della sua vocazione.In Giovanni, è esplicitato come Gesù è conforme a ciò che ha visto presso il Padre.Nei sinottici, non è così esplicito, ma lo capiamo nelle tentazioni.La prima tentazione: parte dall’avere fame. Satana chiamato “il tentatore” —> accentuazione del ruolo. “Di che queste pietre diventino pane”: parallelo con Esodo: mancanza di un cibo, comparsa della manna. Nello spazio di pietre/deserto, il cibo ‘dal nulla’. Non c’è riferimento diretto al Padre: il tentatore, fa leva su Cristo stesso; si concentra su ‘siamo io e te, siamo solo noi due’. Tutto è introdotto e risolto entro Cristo stesso.

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Nell’AT, abbiamo molti episodi di “sfamamento”: Elia cibato dai corvi, la manna… Si parla di cibo ricevuto gratuitamente. Qui è diverso: Gesù viene tentato sul compiere un gesto autoreferenziato. Sarebbe l’uso di un “talento” autoreferenziato, il ‘peggior uso’ della sua carica messianica. La massima accusa è “se sei il messia scendi dalla croce” (ancora in Matteo): qui si tente ancora ad agire secondo la propria iniziativa, negando il progetto-grande del Padre. Satàn, nella letteratura giudaica extrabiblica - ed è poi entrato nel Vangelo - era detto “principe di questo mondo”. Tentatore che spinge a rivolgersi alle cose del mondo.

LUCA

Le tentazioni sono durante i 40 giorni; prima delle tentazioni inserisce la genealogia, dopo il battesimo: arriva il figlio di Adamo/ figlio di Dio. Pienezza di spirito santo in Gesù, secondo la logica della teologia lucana.C’è un “andare”, non come in matteo un’immagine sopraelevata (“salire”). Mentre in Matteo leggiamo “dì a questi sassi…”; in luca “dì a questa pietra…”: espressione al singolare. La prospettiva è più “filosofica”: “lo condusse ‘in alto’ su un monte”… c’è un “alto” qualsiasi, un “monte” qualsiasi… più assolutizzato.Categoria del cibo: rispondere agli impulsi che la natura da, impulsi legittimi - impulso a rimanere in essere -, quello che qui è in gioco è “scoprirsi uomini/donne in opposizione allo scoprirsi soltanto in un quadro di ‘animali’. In Luca, la seconda è: non solo scoprirsi uomo/donna, ma anche fratello/sorella: se l’altro è fratello e sorella, io non lo domino: altrimenti saremmo “padrone/schiavo”. La decisione alla quale porta la tentazione è “schierarsi” in una categoria.Infine, l’ultima, la più sottile: la scoperta di essere Figlio: la negazione della Croce, della morte, è negazione del progetto del Padre. Ma un padre può chiedere la morte del Figlio? Anche nell’estrema esperienza dell’uomo, la risposta alla tentazione è dirsi figli: anche davanti alla croce, riuscire a dirsi “figli”, e quindi a indicare che c’è un Padre che ci ama.

MARCO

Non gli interessa il contenuto delle tentazioni, la logica qui è un’altra. Sceglie una diversa prospettiva, più limitata. Forse Marco ha un obbiettivo: “Subito lo spirito lo sospinse nel deserto”. C’è quel subito; il verbo, suggerisce quasi il trasporto del vento. Non c’è nessun dialogo; ci viene dato uno “stato”: vive con le fiere - animali aggressivi -: forse dietro c’è Isaia 12: lo “stare con le fiere” indica il

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raggiungimento della profezia di Isaia. C’è un ‘equilibrio ritrovato’ annunciato da Isaia 11, le bestie non lo attaccano. Quindi, non vedere il dettaglio della tentazione (no contenuti, parole, botta e risposta…); “vi rimase quaranta giorni tentato da Satana”. C’è però una contemporaneità: mentre viene tentato da Satana, ERA nel deserto con le fiere e con gli angeli; il verbo principale è “ERA”. L’immagine delle comunanza con fiere e angeli del paradiso.Mentre è servito dagli angeli, in pace con le bestie, c’è il Tentatore: questa è la descrizione della vita del credente. Il battezzato, essendolo, si trova in tentazione: ma, sempre essendolo , ha gli strumenti per superare.Molti hanno visto paralleli con testi di Qumran, dove lo ‘stare con le fiere’ rapresenta la venuta del Regno/tempo messianico.

PAOLO

Più volte dice di essere ‘in prigione’ o in una situazione che ‘lo mette alla prova’. Pià volte chiede di toglierli quel “pungolo” che lo mette alla prova/tormenta: non si è mai capito con certezza cosa c’è —> forse un problema fisico, forse agli occhi.

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10 maggio

LETTERA AGLI EBREI - E’ proprio l’essere provato di Cristo a costituirlo sacerdote, secondo la Lettera agli Ebrei.

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Cristo dice di essere Profeta e Re, ma mai “sacerdote”. L’autore della lettera agli Ebrei, potrebbe essere un sacerdote egli stesso. Preoccupazione di identificare cristo in quanto sacerdote (benché fosse della tribù di Giuda, quindi non potesse essere un sacerdote tradizionalmente parlando”).Il sacerdozio tradizionale è quello della tribù di Levi - logica della separazione/consacrazione. All’interno della tribù di Levi, c’è la tribù di Aronne: da questa, uno di loro, è sommo sacerdote.Tutta la liturgia e la legislazione sacerdotale sottolineano questa separazione: il sacerdote deve ‘compiere dei gesti’, e viene costituito ‘separato’. Tanto è vero che ci sono delle abluzioni, cambi di vestito, etc, che compie prima o dopo i riti: questo è l’entrare in un mondo separato.Nella Lettera agli Ebrei, c’è una nuova prospettiva per intendere il sacerdozio di Cristo. Lo chiama (in traduzione italiana) “pontefice”: ovvero, capace di mettere in comunione due realtà - la realtà di Dio, la realtà degli uomini. Egli è degno di fede davanti a Dio, ma anche assimilato in tutto (eccetto il peccato) davanti agli uomini. Queste sono le due dimensioni del sacedozio/pontificato di Cristo. Capitolo 17: “dovendo essere assimilato in tutto ai fratelli, per divenire pontefice […] allo scopo di espiare i peccati del popolo”. verbo ‘compatire’ - sum+pathos; ‘infermità’ - letteralmente debolezza (asteneias); ‘essendo stato provato in tutto’ - La credibilità di sommo sacerdote di Cristo è data dalla solidarietà e non dalla separazione. Questa solidarietà ha reso Cristo capace di compatire. L’accezione del verbo (sum+pathein - come “simpatia” in italiano) è lontana dalla nostra compassione nel senso di “commiserazione”: esprime proprio il patire di Gesù; invoca una ‘comunione’ - ricordiamo appunto che è vicino al nostro “simpatia” -.Nasce dalla simpatia nella tentazione (ma attenzione: è escluso per Cristo la possibilità di peccare). Assimilazione all’esperienza più umana dell’uomo. Quest’assimilazione è la più ampia: dal male fisico, dolore, alla solitudine, al ‘male morale’ dell’incomprensibilità del destino fatale della croce, etc.Le prove sperimentate riguardano non il passato - usato un participio passato, che indica la continuità col presente -. La mancanza del peccato in Gesù, non svilisce la assimilazione: il peccato non crea solidarietà, ma solo divisione! Perché ogni peccato è un elemento egoistico. Non ha assunto la possibilità del peccato, però ha assunto le conseguenze del peccato. Nei termini della Lettera agli Ebrei, “essere provato” vuol dire fare esperienza profonda della condizione umana. Questa esperienza, lo accredita come “misericordioso”.C’è da dire che: il peccato non appartiene all’ uomo nella sua profondità. E’ una privazione di umanità.

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Accanto a questo testo di Ebrei, che riprende l’immagine della tentazione, in Paolo troviamo anche un’altra categoria: la pazienza. Anche questa, ci aiuta a entrare nell’ottica della prova.Anche in italiano, la pazienza ha due accezioni: 1) disposizione di animo di sopportare la contrarietà della vita in genere; 2) capacità di svolgere con precisione un’attivitàIl termine greco che traduciamo ‘pazienza’ è HYPONOME. Assume la sfumatura di resistenza e tenacia.In Paolo, la pazienza è risvolto della fede stessa, particolarmente in un contesto di prova. 2Corinti, 6 - “con molta fermezza” —> fermezza è hyponome. Il contesto è caratterizzato da tre termin: tribolazione necessità strettezza. L’orizzonte preso non indica tanto un elemento etico, ma situazioni di carenza che il ministero di Paolo si è trovato ad affrontare. I tre termini vengono esemplificati nei versetti successivi (fatiche percosse digiuni…). Il termine che usa, si discosta etimologicamente dal nostro “pazienza” (pathos) —> upò + manein: “stare saldi sotto” —> immagine di solidità, di un rimango sotto pressione.

Nella presentazione concreta della prove che Paolo ha, lui sottolinea la sua debolezza: la sua “hyponome” non è un frutto della sua virtus, un frutto di un percorso interiore, ma viene da Dio: è la risposta in Dio alla tribolazione della vita. In questo senso, Paolo elabora una logica della tentazione in un contesto di avversità, dove Paolo sperimenta anche una debolezza, ma una debolezza compensata dall’azione di Dio, che gli permette di rispondere ‘rimanendo nella situazione di prova’, non fuggendo. Gli Atti degli Apostoli presentano sempre questa situazione di prova analoga.

Paolo risponde nella sua debolezza col rimanere .

LETTERA DI GIACOMO - La prova nella lettera di Giacomo; troviamo al capitolo 1. Inizia con una “beatitudine” [makàrios] - “Beato colui che sopporta..” —> UPOMENèI. La prova - “peiràzo” [???]. Giacomo usa uniti “prova” e “hyponome”. Paolo li aveva usati entrambe ma non insieme. Beato l’uomo che rimane saldo nella prova —> c’è prima un ‘restare’, una stasi, ma subito, in risposta, una dinamica.

Giacomo 5 - La vera tentazione è accusare Dio di due aspetti: testo che risente della metafisica greca —> non si può accusare Dio di “cambiare” [al contrario della tendenza dell AT, che ci presenta l’aspetto di Dio che ‘decide di non fare questo, cambia idea, etc’; Giacomo si inserisce in una tradizione più ellenistica]. L’uomo è tentato di dire questo, sbagliando: non a caso, la risposta per chi resiste a questa tentazione, è ‘beato’.

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Quindi, l’uomo è provato nella sua relazione con Dio.

LA PROVA NELLA LETTERA DI GIACOMO, PIETRO, APOCALISSE

In tutti i tre testi, la prova è inevitabile per il credente: non in senso etico/morale, ma piuttosto è la prova in quanto fatica del vivere, dell’essere credenti immersi in questo mondo, spesso ostile verso la comunità cristiana.Un vocabolo, “tribolazione” caratterizza la vita del credente. Giacomo la inserisce in un contesto chiamato di “macarismo”: la prova è sempre PEIRàZO (lo stesso della prova etica e morale); è un’occasione di crescita per il credente e per la comunità cristiana. Se ci si sottraesse, non ci sarebbe l’occasione di crescere.Una prova che non è però determinata da bramosia/passioni, ma da “agenti esterni”.

Giacomo - E’ quella che più evidentemente coglie la dimensione della prova nel genere letterare del “macarismo” (da ‘makàrios’ —> beato). Giacomo 1, 2-4.Giacomo 1, 12 —> beato chi persevera nella prova. In questo caso è al singolare (in 1, 2-4 era “prove”). La figura del “beato” del NT - beatitudini, ma anche letteratura paolina… -; sguardo escatologico: l’immagine della beatitudine è escatologica, ma spesso è “già sperimentata”, è già qui.La beatitudine non è conseguenza dell’atteggiamento a cui si è chiamati, ma si è anche già beati in questo. Il macarismo si colloca “tra un presente e un futuro”: il presente è cartatterizzato da uno stato di felicità, gioia: c’è quasi un paradosso tra il ‘siate felici’ e le dimensioni di prove. L’altro lato, riguarda il futuro escatologico: “corona della vita” —> richiama il trionfo coronato dell’atleta che trionfa e viene incoronato. Ma anche la dimensione di regno dei cieli —> la corona del regno.Invito ad essere perseveranti, resistere. Il termine è lo stesso delle lettere di paolo, UPòMENE —> stare saldi, stare dritti anche sotto un peso.Termine “dòkimos” —> essere/divenire approvato. Associato alla purificazione del metallo: l’immagine dell’essere approvato richiama la separazione della materia nobile metallica dalle scorie. Si distingue quindi dal nostro “mettere alla prova” per testare la fedeltà (si mette alla prova qualcuno di cui non ci si fida): piuttosto, nel mondo biblico la dimensione è quella della prova come purificazione dalle scorie che “soffocano” il metallo prezioso. Mentre la prima prospettiva vive nel sospetto, la seconda presuppone che l’esistenza porti con sé delle scorie/impurità, che vadano tolte.

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Beato è quel fortunato che viene messo alla prova, perché ha un’occasione di togliere quelle scorie!Ancora di più questo caso, in cui la prova è intesa come fatica del vivere: nello specifico, la vita cristiana provata dalle persecuzioni.La raice “PEIR” di peirazo, evoca l’idea di “andare oltre” —> l’italiano esperienza deriva da EX - PEIRAZO: dalla prova, ‘tiro fuori’ un insegnamente (o, ne esco purificato).Anche la tradizione di upòmene con “paziente/pazienza” è depauperante: la realtà di upòmene è dinamica, attiva, è un fare.L’immagine conclusiva è l’immagine di un agricoltore: l’agricoltore che aspetta il prezioso frutto della terra dopo le pioggie… Collega la dimensione dell pazienza ad una dimensione prima operosa, poi di tensione alla speranza.

1PIETRO - 1Pt 1, 6-7 —> dimensione della prova appoggiata da una consapevolezza: nell’affrontare la prova, c’è anche un’azione di Dio! Le prove della vita non intimoriscono il credente. La prova è parte della vita ed è un bene. Una vita senza prove diventa pericolosa perché è fragile. Essere colmi di gioia ed essere afflitti da prova sono termini ossimorici accostati. 1Pt 4, 12-13 —> la prova è legata al proprio essere credenti. La lettera di Pietro, ha una preoccupazione apologetica: il credente è in mezzo a una società, e si trova a dover agire in essa e con essa; queste ‘afflizioni’ non sono afflizioni di un mondo tutto negativo, sono cose normali. E’ anche pensata per capitare nelle mani dei pagani: se leggevano questo testo, era quasi apologetico —> il cristiano riconosce la giusitizia umana, riconosce la figura positiva di un governatore… Anche se d’altra parte ricorda che l’essere cristiani vuol dire essere liberi. La logica del credente ti fa libero, anche se ci potranno essere delle autorità più o meno schiaccianti.

APOCALISSE - Diversa. Istituisce l’esperienza della comunità cristiana come “coloro che vengono dalla Grande Tribolazione”. Termine che si presenta più volte; tribolazione e prova che tocca il credente e che sembrerebbe molto più istituzionalizzata, negativa: c’è un’aggressività che circonda il credente. Ma il credente sa che le forze ostili che toccano la sua vita hanno un tempo limitato. C’è una presa di posizione che il credente deve fare. Il settenario delle lettere si conclude con “un vincitore”, che riceve dei premi: non essere colpito dalla seconda morte, un nome nuovo, etc…La figura del Vincitore introduce diverse prospettive: è possibile vincere, per il credente! Le prove possono pregiudicare la fedeltà a Cristo; serve vigilanza; ma d’altra parte qui viene “sancita” la possibilità di essere vincitori. La tribolazione è messa in atto principalmente dal Drago Antico, l’avversario che si scatena contro la donna. Ma a mano a mano nel testo questa

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tribolazione è sempre più limitata. Ma la tribolazione è “strutturale” per il credente: per lui, non manca mai.Per 7 volte nell’apocalisse viene ripetuto UPOMENE: le tradizioni dicono qui “siate perseveranti”. Ma questa solidità nasce dal fatto che Cristo è Vincitore. L’upomene dell’Apocalisse scaturisce dalla vittoria Pasquale: è l’immagine dell’Agnello Ferito ma Ritto in piedi.La tribolazione è condizione normale di vita, perché permette di assimilarsi a Cristo.