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Appunti del corso di Costruzioni di Macchine 2 PARTE VIII Meccanica della Frattura (p.1) INTRODUZIONE Nella lezione precedente si è cominciato a parlare di un argomento fortemente collegato al fenomeno della fatica, cioè della meccanica della frattura. E’ bene non confondere, però, i due concetti: una cosa è l’esistenza della frattura e la sua propagazione stabile o instabile, un’altra sono i fenomeni di fatica. Nella fatica il danneggiamento aumenta a causa di una frattura che si propaga, ma non è vero il contrario, cioè se si osserva una frattura che si propaga non è detto che sia dovuta al fenomeno della fatica. E’chiaro però che l’applicazione che interessa maggiormente è il legame tra la frattura e una probabile causa come appunto la fatica. Esiste, infatti, anche la propagazione instabile della frattura che, grazie al comportamento fragile del materiale e ad una velocità pari praticamente a quella del suono, è a tutti gli effetti istantanea e si diffonde immediatamente per tutto il componente. Quindi i due fenomeni vanno considerati separati e sono collegati tra loro in un senso(fatica frattura) e non nell’altro ( frattura non → fatica). LUCIDO 3 (Ripetizione lezione precedente) La cosa fondamentale da tener presente è che la presenza di fatica su un componente fa si che l’esistenza di una frattura nel tempo venga amplificata, ovvero che una cricca nel componente subisca un ingrandimento; e che contemporaneamente, a causa della riduzione della sezione resistente e della tenacità del materiale, la resistenza residua del componente va man mano diminuendo. Pertanto, se il coefficiente di sicurezza è sufficientemente elevato, non ci si accorge di tale riduzione di resistenza, fintanto che questa (resistenza) non scende al di sotto del carico nominale di esercizio comportando la rottura del componente. Esiste, inoltre, una fascia di incertezza in cui può avvenire un sovraccarico e in corrispondenza di questo può presentarsi la rottura del componente. LUCIDO 4 (Ripetizione lezione precedente) ( Salta da 4 a 10) E’stato detto che la frattura può essere di tipo fragile o duttile, e che in queste lezioni si parlerà di frattura fragile poiché la frattura duttile è ancora poco conosciuta e i modelli utilizzati per essa stanno avendo successo solo negli ultimi anni. LUCIDO 11 e 12 (Ripetizione lezione precedente) Il primo problema che si incontra in applicazioni sulla meccanica della frattura è quello di una PIASTRA PIANA INDEFINITA che presenta una singola cricca di lunghezza 2a. In base al modo in cui questa piastra viene caricata e come si riflette sulla cricca, si riconosce un “MODO” che sostanzialmente si divide in :Modo I, II, III. Il Modo I è quello che comporta la presenza di sollecitazioni che determinano l’allontanamento o l’avvicinamento delle labbra della cricca, il Modo II e III, invece, sono caratterizzati da azioni taglianti, dove il modo II non verrà studiato poiché raramente si verifica, mentre il modo III è legato a sollecitazioni di taglio parallele alla cricca che possono contribuire all’innalzamento del livello tensionale e contribuire alla propagazione della cricca. Il modo I è quello che maggiormente interessa in quanto, essendo il più frequente, è quello fondamentale per il fenomeno della nascita e propagazione della cricca ed è quello che si può più facilmente caratterizzare attraverso le proprietà note del materiale. Inoltre se si considera una piastra molto sottile (ma non necessariamente, va bene anche una piastra molto spessa) sollecitata in uno dei tre modi, intorno all’apice della cricca si determina una zona,

Appunti Costruzione Di Macchine 2 Cap 8-9

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Appunti del corso di Costruzioni di Macchine 2

PARTE VIII – Meccanica della Frattura (p.1)

INTRODUZIONE Nella lezione precedente si è cominciato a parlare di un argomento fortemente collegato al

fenomeno della fatica, cioè della meccanica della frattura. E’ bene non confondere, però, i due

concetti: una cosa è l’esistenza della frattura e la sua propagazione stabile o instabile, un’altra sono

i fenomeni di fatica.

Nella fatica il danneggiamento aumenta a causa di una frattura che si propaga, ma non è vero il

contrario, cioè se si osserva una frattura che si propaga non è detto che sia dovuta al fenomeno della

fatica. E’chiaro però che l’applicazione che interessa maggiormente è il legame tra la frattura e una

probabile causa come appunto la fatica. Esiste, infatti, anche la propagazione instabile della frattura

che, grazie al comportamento fragile del materiale e ad una velocità pari praticamente a quella del

suono, è a tutti gli effetti istantanea e si diffonde immediatamente per tutto il componente. Quindi i

due fenomeni vanno considerati separati e sono collegati tra loro in un senso(fatica → frattura) e

non nell’altro ( frattura non → fatica).

LUCIDO 3 (Ripetizione lezione precedente)

La cosa fondamentale da tener presente è che la presenza di fatica su un componente fa si che

l’esistenza di una frattura nel tempo venga amplificata, ovvero che una cricca nel componente

subisca un ingrandimento; e che contemporaneamente, a causa della riduzione della sezione

resistente e della tenacità del materiale, la resistenza residua del componente va man mano

diminuendo. Pertanto, se il coefficiente di sicurezza è sufficientemente elevato, non ci si accorge di

tale riduzione di resistenza, fintanto che questa (resistenza) non scende al di sotto del carico

nominale di esercizio comportando la rottura del componente. Esiste, inoltre, una fascia di

incertezza in cui può avvenire un sovraccarico e in corrispondenza di questo può presentarsi la

rottura del componente.

LUCIDO 4 (Ripetizione lezione precedente) ( Salta da 4 a 10)

E’stato detto che la frattura può essere di tipo fragile o duttile, e che in queste lezioni si parlerà di

frattura fragile poiché la frattura duttile è ancora poco conosciuta e i modelli utilizzati per essa

stanno avendo successo solo negli ultimi anni.

LUCIDO 11 e 12 (Ripetizione lezione precedente)

Il primo problema che si incontra in applicazioni sulla meccanica della frattura è quello di una

PIASTRA PIANA INDEFINITA che presenta una singola cricca di lunghezza 2a.

In base al modo in cui questa piastra viene caricata e come si riflette sulla cricca, si riconosce un

“MODO” che sostanzialmente si divide in :Modo I, II, III.

Il Modo I è quello che comporta la presenza di sollecitazioni che determinano l’allontanamento o

l’avvicinamento delle labbra della cricca, il Modo II e III, invece, sono caratterizzati da azioni

taglianti, dove il modo II non verrà studiato poiché raramente si verifica, mentre il modo III è legato

a sollecitazioni di taglio parallele alla cricca che possono contribuire all’innalzamento del livello

tensionale e contribuire alla propagazione della cricca. Il modo I è quello che maggiormente

interessa in quanto, essendo il più frequente, è quello fondamentale per il fenomeno della nascita e

propagazione della cricca ed è quello che si può più facilmente caratterizzare attraverso le proprietà

note del materiale.

Inoltre se si considera una piastra molto sottile (ma non necessariamente, va bene anche una piastra

molto spessa) sollecitata in uno dei tre modi, intorno all’apice della cricca si determina una zona,

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tipo effetto di intaglio però molto più ingigantito in termini di intensità, nella quale si ha un effetto

locale cioè la cricca fa sentire la propria presenza.

LUCIDO 13 (Ripetizione lezione precedente)

Questo effetto locale è stato definito da Westergaard per primo in questo modo(Modello di

Westergaard per la rappresentazione degli sforzi in corrispondenza di una cricca).

egli utilizzò uno sviluppo in serie come segue, arrestandosi al primo termine :

In questi anni si sta cominciando ad usare anche il secondo termine di questa serie, dove il suo

utilizzo nei lavori specialistici viene introdotto come Pstress. Nelle applicazioni abituali questo

termine non viene considerato; invece è importante in quanto definisce delle ulteriori interazioni tra

le sollecitazioni che si verificano tra i tre assi. Si usa, ovvero, dire che il Pstress è un indice sulla

spazialità della cricca contrapposto alla planarità dell’effetto della cricca.

Quindi se la serie viene troncata al primo termine, quest’ultimo può essere considerato come il

prodotto tra una costante con una funzione dell’angolo e con

una funzione del raggio in un riferimento polare rappresentato

nella fig. accanto(vedi meglio sul lucido). Questo metodo segue

a grandi linee il metodo di Fourier per l’integrazione delle

equazioni differenziali alle derivate parziali, in cui se si ha una

funzione a più variabili questa può essere trasformata in un

prodotto di più funzioni ad una variabile soltanto. La variabile

funzione dell’angolo per il momento non interessa molto, verrà

considerata in seguito soprattutto quando si parlerà degli effetti

di plasticità associati alla cricca, mentre K1 è una costante e il

legame delle componenti di sollecitazione con la distanza dalla

cricca r è dell’ordine ½ (cioè nelle varie componenti di

sollecitazione la r è sotto radice).

Se si analizzano i termini delle componenti di sollecitazione nelle relazioni sopra, si nota che man

mano che ci si avvicina alla cricca, ovvero riducendo il valore di r, tutte le componenti di

sollecitazione stesse aumentano e per r=0, cioè in corrispondenza dell’apice, tutte le componenti

sono pari ad infinito. Quindi da ciò si può affermare che qualunque riferimento atto a qualificare

l’intensità del carico non può essere valutato nell’apice della cricca ma necessariamente un po’

distante da esso. A questo punto si può definire il termine K noto come S.I.F. (STRESS

INTENSITY FACTOR), che è una quantità proporzionale alle componenti di tensione che si

determinano a distanza unitaria dall’apice della cricca. Si può notare che lungo l’asse x ovvero per

y=0, le due componenti di sollecitazione σx e σy sono uguali presentando anche taglio nullo; cioè

3

per θ=0 σx e σy sono direzioni principali. Questo non avviene quando ci si trova a θ=90° cioè in tal

caso questa non è una direzione principale:

LUCIDO 15 e 16 (Ripetizione lezione precedente)

E’ evidente che poiché si è interessati al calcolo delle sollecitazioni che si verificano sul

componente, il problema principale è quello di calcolare il K. Westergaard per il caso della cricca in

una piastra a lunghezza infinita, trova che : dove a è la semilunghezza della cricca e σ

è la tensione all’infinito. Ci si riferisce alla tensione all’infinito poiché questa non può che essere

uniforme su tutto il contorno; mentre la tensione nelle vicinanze della cricca, si è visto, che va da 0

all’infinito avvicinandosi all’apice della cricca. Questa espressione del K, di per se molto semplice,

si è pensato di adattarla ai casi più diversi che si possono verificare di componenti criccati

esprimendola in un’altra forma nota come : , in modo tale da definire β come un

moltiplicatore per il SIF su piastra infinita; cioè rappresenta un coefficiente che moltiplicato per il

SIF su piastra infinita fornisce il SIF del caso che interessa (Cioè dato per il caso in esame, si

ottiene KK dove con K si indica il SIF nel caso di piastra infinita).

Si sottolinea che il SIF definisce il livello di sollecitazione, quindi maggiore è il SIF maggiore è la

sollecitazione a distanza unitaria dalla cricca. Però sostanzialmente il problema non si risolve in

quanto si vuole ricavare il livello di sollecitazione per capire se il componente cede o meno. In

questo caso si dovrebbe affermare che il componente cede sempre, poiché se nelle vicinanze della

cricca la tensione arriva all’infinito allora si dovrebbe concludere che non è possibile la resistenza

di un componente criccato quale che sia l’ampiezza della cricca. Questa affermazione, però, non

può ritenersi vera per la Teoria elasto-plastica; inoltre è noto che i fenomeni fisici nella realtà

assumono una certa continuità; e infine dall’esperienza e dalla pratica (per es. il Tufo, lamiere di

acciaio, ecc. sono materiali in natura di per se criccati) componenti criccati comunque resistono

anche se in maniera peggiore rispetto a componenti non criccati. Evidentemente, in realtà, il

modello è difettoso, ovvero non tiene conto di qualcosa che si sta trascurando, e quindi lo stato

tensionale ottenuto con questo modello si deve combinare con qualche altro effetto che deve

consentire entro certi termini la resistenza del componente. E’chiaro, allora, che c’è bisogno, oltre

dell’indicatore che fornisca il livello di sollecitazione, di un altro indicatore che informi se il

componente resiste o meno. Questo indicatore non fa altro che assumere la forma di un valore

limite del SIF, che viene chiamato TENACITA’. Ottenere questa quantità è molto complicato;

infatti si può anticipare che se il materiale è molto fragile la tenacità esiste e si può definire; se

invece il materiale presenta anche un certo grado di duttilità la tenacità diventa anche funzione dello

spessore, il quale non è presente nel modello prima esposto. Il problema, allora, nel caso di

materiale duttile è che all’aumentare dello spessore la tenacità prima aumenta e poi diminuisce.

Quindi si afferma, per il momento, che esiste un SIF critico che viene chiamato Tenacità, raggiunto

il quale il componente cede. Ovviamente dato che aSIF lo stesso valore di K si può

ottenere o variando a o variando σ, quindi se si identifica in K il valore

della tenacità, si può raggiungere la condizione critica o a lunghezza di

cricca costante aumentando opportunamente la tensione e questo valore

della tensione viene chiamato resistenza residua del componente,

oppure mantenendo costante la sollecitazione allungando la cricca (più

è lunga la cricca più lo stato tensionale è considerevole). Pertanto il

valore di lunghezza della cricca che consente di raggiungere il valore

della tenacità è definito come lunghezza critica della cricca.

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LUCIDO 17 (Ripetizione lezione precedente)

Quindi, per quanto detto prima, si possono costruire delle curve tensione-lunghezza della cricca che

corrispondono ad un K costante; ovviamente queste curve sono parametrizzate con valori di K pari

proprio al valore di tenacità del componente. Nella fig. in esame sono state considerate delle leghe

di alluminio, acciaio ecc. ipotizzando un comportamento a tenacità costante rispetto allo spessore

del componente considerando in particolare uno spessore molto piccolo (o almeno una tenacità

poco variabile con lo spessore).

LUCIDO 18-19-20-21 (Ripetizione lezione precedente)

Una riflessione ulteriore da fare è che, poiché il K o il β rappresenta il livello tensionale che si ha in

un componente per effetto della cricca, è chiaro che ogni sforzo deve essere indirizzato a ricavare il

valore del SIF per tutte le geometrie e le ipotesi di carico possibili.

E’ citato il caso di Feddersen, che ha studiato l’influenza della larghezza della piastra sul

comportamento dello stato tensionale sulla cricca, ed è riportato il caso il cui le cricche su una

piastra sono poste allineate con passo costante. In definitiva sono state costruite delle tabelle con le

quali è possibile ricavare i vari SIF che interessano.

LUCIDO 22 Nella rappresentazione del SIF, di solito, viene privilegiata la forma grafica. Esistono diversi

manuali nei quali si accompagna la forma analitica del SIF con la forma grafica; questi manuali non

sono altro che un antologia di casi studiati dove i risultati sono ottenuti per via analitica o numerica

o per via sperimentale, da cui sono ricavate funzioni che interpolano al meglio questi dati, e che

quindi sono poste con una forma analitica e con un diagramma sui tali manuali.

(Allegati nella parte 9.b questi diagrammi dei casi più comuni)

Nella pratica, però, nella maggior parte delle applicazioni non si riesce a trovare nei manuali a

disposizione il caso che interessa. Pertanto bisogna capire come fare se si presenta un caso che sui

manuali non è presente. Si discute adesso, però, prima dei casi che sono presenti sul manuale:

Caso di una cricca presente in una piastra semi

infinita: la cricca anche se non emerge in

superficie, è comunque ad una certa distanza

finita dal bordo. Questa distanza è indicata con b

ed è misurata partendo dall’asse della cricca. La

lunghezza della cricca è indicata con 2a. Sull’

ascissa del diagramma è posto il parametro a/b ed

il SIF che in realtà sono 2, uno nell’estremo A ed

uno nell’estremo B, sono diversi tra loro, in

quanto il sistema è asimmetrico e quello in

prossimità della superficie a distanza finita

dall’estremo A della cricca, avrà ovviamente

intensità maggiore. Cioè il SIF è più grande in A

che in B. Infatti sul diagramma sono presenti due curve dove quella più alta è per l’estremo A,

mentre quella più bassa è per l’estremo B. Inoltre sull’asse delle ordinate è disposto, come avviene

abitualmente, il rapporto tra il valore del K del caso in interesse con il K0 che si presenta nel caso di

piastra infinita. Pertanto, dato che β=K/K0, il diagramma rappresentato non è altro che il diagramma

di β. Ovviamente se a/b→0 vuol dire che: o la cricca è piccolissima o è molto grande la distanza di

essa dal bordo; in tal caso se la piastra è semi-infinita non ha più importanza poiché si sta così

lontani dal bordo che lo stato tensionale non risente della sua presenza; pertanto è evidente che si

dovrebbe trovare lo stesso SIF che si ha nel caso di piastra infinita (infatti per a/b→0 si ha che

K/K0→1 ovvero K→ K0).

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LUCIDO 23 Caso di una cricca che emerge sul bordo di una piastra semi-infinita:

questo caso è rappresentato nelle figg. sottostanti, in cui la prima fig. presenta il caso in cui la

piastra è soggetta a sforzo normale, mentre l’altra fig. presenta il caso in cui la piastra è soggetta a

flessione; in quest’ultima si distinguono tre curve dove quella superiore rappresenta la flessione

pura, mentre le altre due raffigurano il tipico caso trave appoggiata con tre punti nota come

flessione in tre punti, dove due punti sono gli appoggi e il terzo è il punto in cui è applicato il

carico.

Nella prima fig. si notano due gruppi di curve, dove due curve formano un gruppo e un’altra forma

un altro gruppo; tali curve si formano poiché si presenta il seguente problema: dato che il carico è

sbilanciato, poiché per effetto della riduzione della sezione retta si crea una asimmetria di carico, si

determina una flessione. Allora se si tiene conto della flessione, le curve corrispondenti sono quelle

più in alto, mentre se non si tiene conto della flessione, si forma la curva riportata in basso nel

diagramma (bending restrained) dove il SIF assume valori molto più bassi. Inoltre nel caso in cui si

considera anche il bending, assume importanza la geometria della piastra; infatti nel gruppo di

curve superiori, dove sono presenti i SIF maggiori, le due curve si distinguono per il rapporto

geometrico h/b (rapporto tra lunghezza e larghezza della piastra) diverso. E’ importante notare che

quando la piastra è molto grande ovvero quando a/b→0, il β=K/K0→1,12; da cui si ha una funzione

crescente all’aumentare di a/b.

Nella seconda fig. , quella che presenta il caso di flessione in tre punti, si ha un andamento della

funzione molto simile a quella della fig. precedente , per lo meno sul fatto che quando a/b=0 si ha

β=1,12, però bisogna fare attenzione al fatto che non si può far riferimento alla piastra sottoposta a

trazione, ma bisogna far riferimento alla piastra inflessa; quindi si deve calcolare il SIF per una

piastra inflessa con una cricca al centro che è pari a

bK

aM20

6 . Quindi quest’ultimo diventa il

SIF di confronto per i casi in cui si hanno componenti criccati soggetti a flessione.

LUCIDO 24 Quando la vita, in termini di numero di cicli, di un componente prosegue e prosegue allora anche il

danneggiamento, come è noto, compare quello stato di fatica diffusa che si manifesta con la

formazione di più di una cricca; pertanto è importante sapere come le varie cricche interferiscono

l’una con l’altra. Cioè con l’applicazione del carico, la presenza di due cricche fa si che aumenti il

SIF di ciascuna di esse, perché per effetto di ciascuna delle due cricche prese separatamente si

forma uno stato tensionale di un certo livello che ingloba tutto ciò che ne risente l’influenza. O

meglio lo stato tensionale e quindi il SIF di una cricca va ad influire sullo stato tensionale dell’altro

e viceversa. Pertanto necessariamente si ha un’esaltazione dello stato tensionale.

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Questi diagrammi mostrano come per effetto della a2/b, ovvero della lunghezza della cricca CD a

distanza b dall’asse della cricca AB, ci sia una variazione del SIF sull’estremo A nella prima fig. e

sull’estremo B nella seconda fig. della cricca AB . Si può notare come nella seconda fig. il SIF è più

pronunciato, il motivo è che l’estremo B della cricca AB è più vicino alla cricca CD.

I due diagrammi sono costruiti sempre alla stessa maniera, cioè sulle ascisse si ha il rapporto a1/b

(ovvero semi-larghezza della cricca AB rapportata dalla sua distanza dal bordo della cricca CD cioè

nell’estremo C), poi le varie curve sono parametrizzate dal rapporto a2/b che tiene conto della

lunghezza della cricca che determina il sovraccarico e dalla sua distanza dalla cricca che ne è

colpita, ed infine sulle ordinate è presente il solito rapporto tra K e K0 pari a β.

LUCIDO 25

Caso di piastre con nervature di irrigidimento:

Ci sono delle aste trasversali che servono a rinforzare

localmente la piastra e che ovviamente presentano una

resistenza alla cricca che è nettamente maggiore della

resistenza della piastra senza nervatura, e quindi il SIF della

cricca viene alterato dalla presenza della trave.

Bisogna notare che : Se lo sforzo normale sta sulla piastra

allora la nervatura è soggetta a flessione poiché si ha un

carico che non è applicato sulla fibra baricentrica. Quindi se

si sceglie una rigidezza flessionale dello stiffener

(nervatura) diversa da zero oppure no, si hanno risultati

diversi. Quindi nel diagramma sull’asse delle ascisse c’è un

parametro λ che dipende dalla rigidezza della piastra e della

nervatura, cioè dipende direttamente dalle caratteristiche

della nervatura; (differentemente a quanto si è visto per i

diagrammi precedenti), le varie curve sono parametrizzate

in base al rapporto geometrico a/b (dove a è la semi-

lunghezza della cricca e b la distanza dell’asse della cricca dalla nervatura), mentre sull’asse delle

ordinate c’è il solito β. Inoltre sul diagramma si distinguono due gruppi di curve, uno definisce i SIF

in riferimento all’apice B della cricca BC, l’altro all’apice C, e ciascun gruppo è parametrizzato in

a/b.

LUCIDO 26 Caso delle cricche che nascono in corrispondenza dei fori:

Questo caso è importante per diversi motivi: nota la teoria

sull’effetto di intaglio, si può già affermare che sulle generatici g c’è

un sovraccarico. Quindi l’effetto di una frattura, come la formazione

di una cricca, non fa altro che sommarsi al sovraccarico che già

esiste per il semplice effetto di intaglio e quindi è più facile che si

raggiungono dei valori limite. Inoltre è fondamentale lo studio di

questo caso in quanto è dominante la diffusione di giunzioni

g g

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chiodate in presenza di fori nell’industria navale e aeronautica.

L’esperienza, infatti, dimostra che se si ha una lamiera chiodata con certi fori, questa lamiera cede

(come si può vedere nella foto su questo lucido) per una propagazione di cricche che abbracciano

sostanzialmente tutti i fori. Questo appena detto non è completamente esatto in quanto un parametro

importante è la forza di serraggio del chido (forza di chiodatura). Se la forza è molto elevata intorno

ad ogni foro si crea uno stato di compressione che influenza la propagazione della cricca; questo

fenomeno fa si che la cricca si propaghi girando intorno ai fori. Se, invece, lo sforzo di chiodatura è

basso si verifica che la cricca taglia i fori. Però non è ancora ben noto un metodo per valutare come

la chiodatura dei rivetti alteri lo stato di sollecitazione intorno al foro e quindi la ricerca della forza

ottimale di chiodatura viene fatta sostanzialmente per via sperimentale.

LUCIDO 27 Se si è in presenza di un foro, è possibile la

formazione di una cricca da un solo lato o da

entrambi i lati. Bisogna lavorare, per questo tipo

di problema per casi limite e cercare la soluzione

successivamente per i casi intermedi.

Il primo caso limite che si può presentare è : di

cricca molto piccola e di un foro molto grande,

cioè il caso in cui la cricca è molto piccola rispetto alla dimensione del foro (a‹‹D). In tal caso la

curvatura del foro è ininfluente per le cricca; cioè essendo la cricca molto piccola se la

circonferenza del foro è una curva o una retta non presenta differenza, quindi ci si può ricondurre ai

casi visti in precedenza cioè quelli di una cricca molto piccola che emerge su una parete di una

piastra. Pertanto dato che la cricca è molto piccola si ha a→0, allora a/b→0, quindi dal diagramma

del caso precedente β=1,12. Si potrebbe dire allora che aK 12.1 , ma σ deve essere

modificato poiché, in realtà, è dato dal prodotto tra il fattore di forma con la σ nominale; questo si

esprime con la relazione: β=1.12Kt . Siccome il Kt può arrivare fino al valore di 3, nel caso di foro

molto piccolo rispetto alla piastra (come può essere il caso presente in quanto si sta considerando il

foro di un chiodo che è molto piccolo rispetto alla piastra), allora β=1.12Kt=1.12×3=3.36 .Pertanto

sui manuali spesso si trova, per questo caso, direttamente aK I 36.3 .

L’altro caso limite è : di foro piccolo rispetto alla cricca. Un caso del genere è possibile, basti

pensare alla cricca che si forma su un aereo quando unisce i fori dei finestrini: in questa situazione

la cricca è molto più lunga della dimensione dei fori (Dimensione del chiodo è grande dai 4 ai 8 mm

rispetto ad 1 m raggiungibile dalla lunghezza della cricca). In tal caso la presenza del foro nello

studio del problema non ha la minima importanza, per cui, invece di considerare il foro più la cricca

o più 2 cricche, si considera un'unica cricca di grandezza maggiore ( per tali applicazioni vedi foto

nel lucido 26). A questo punto se il foro con le cricche si trova in una piastra infinita, si può ottenere

il SIF nel modo seguente : aK effI dove aeff è la lunghezza efficace della cricca che non è

quella reale, ma è data dalla relazione 2

aDaeff

. [IMP:fare attenzione ai simboli utilizzati nelle

relazioni, poiché in questa relazione a si riferisce all’intera lunghezza della cricca, mentre nei

diagrammi visti in precedenza si riferisce a volte alla semi-lunghezza della cricca a volte all’intera

lunghezza]. In questa relazione, quindi, aeff è una semi-lunghezza, mentre a è una lunghezza. (Altre

volte invece la lunghezza viene indicata con l in particolare da Rooke). Rooke (e Cartwright)

afferma riguardo al caso in esame (egli ha condotto approfonditi studi aeronautici) quanto si può

osservare dalla fig. sotto : sull’asse delle ordinate c’è il β e sull’asse delle ascisse c’è il rapporto l/R

(rapporto tra la lunghezza della cricca e la dimensione del foro, coincidente simbolicamente al

rapporto a/D considerato in precedenza).

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Si nota come in un primo tratto, ovvero per bassi

valori di l/R, il β sia indipendente dalla cricca ed è

pari a 3.36 (al variare della lunghezza della cricca

ovvero di l/R si ha che β resta costante e pari a 3.36),

poi in un secondo tratto si presenta una variazione di

β ottenuto confrontando il valore di K=3.36 con il K

ottenuto sostituendo il valore di 2

aDaeff

(noto

il valore di l ed R) nella relazione aK effI ,

ottenendo una curva di β dipendente dalla lunghezza

della cricca. Questi due tratti sono ovviamente ottenuti intersecando le due curve : la prima

indipendente dalla lunghezza della cricca a β=cost=3,36 , la seconda con β dipendente dalla

lunghezza della cricca valuta come descritto prima. Quindi sulla sinistra del diagramma e del punto

di intersezione vale la prima curva, sulla destra la seconda. Poi i vari casi intermedi tra la due curve

sono ottenuti numericamente, arrivando ad una soluzione che si avvicina molto a quella analitica.

LUCIDO 28 In realtà Rooke è stato preceduto da un altro studioso noto come Bowie, il quale nel suo lavoro non

ha considerato il caso di cricca molto piccola, ma ha sistematicamente preso il sistema cricca+foro e

lo ha trasformato in una cricca equivalente; in questa maniera al variare del rapporto a/D ha ottenuto

una curva di risposta :

in termini di SIF, che poi ha confrontato con soluzioni di

tipo numerico verificando che sia nel caso di una cricca

che nel caso di due cricche, sostanzialmente, lo scarto è

assolutamente accettabile. Quanto appena detto si può

osservare nel diagramma accanto.

Il diagramma sottostante, invece, è molto complesso in

quanto prevede anche lo studio della propagazione delle

cricche che sarà spiegato in seguito. In tale diagramma si

può osservare la curva di propagazione di una cricca in un

provino normale, cioè senza

particolari geometrie (curva A); poi le

altre 5 curve accanto si riferiscono

alla propagazione di una cricca che

inizialmente è una cricca che sta sui

due lati di un foro di varie dimensioni

(5,10,20,30,40mm differenziando le

varie curve). Si può osservare che

ponendo queste curve sullo stesso

diagramma come quello in esame,

queste curve si sovrappongono e si

confondono con la curva che non

presenta fori, cioè con la curva A, in

corrispondenza delle ordinate che

presentano lunghezza della cricca

nulla coincidendo proprio con il diametro del foro. Diagrammi del genere dimostrano che c’è una

corrispondenza accettabile tra le due teorie (di Rooke e Bowie) e che ognuna possa essere

giustificata dall’altra.

A

9

LUCIDO 29 Per tutti i casi intermedi, poi, Rooke e

Cartwright hanno costruito un diagramma come

riportato nella fig. accanto; la quale riporta il

caso di una piastra soggetta a carico biassiale,

dove su una direzione agisce σ su un’altra

agisce α×σ, definendo due sottocasi: caso con

una cricca e caso con due cricche. Nella fig. le

linee tratteggiate corrispondo ad caso con una

cricca, quelle continue corrispondono al caso

con due cricche. Poi per ciascun sottocaso, le

varie curve sono parametrizzate in funzione di α . Se α=0 ci si riconduce naturalmente al caso di

carico monoassiale, se α=1 si ha il caso biassiale con carico identico nelle due direzioni, se α=-1

inoltre si presenta il caso di compressione su una direzione e di trazione sull’altra. Si nota, però, in

queste curve che, anche se Rooke ha calcolato i risultati nella zona per valori di a/R molto piccoli

(cricche molto corte in riferimento ai fori), questi risultati in tale zona non sono molto corretti

poiché tendono a valori nulli; pertanto per valori di a/R compresi tra 1.0 e 1.1 si considera la

semplice teoria vista in precedenza. Si osserva inoltre che per queste curve i valori di KI/K0 tendono

ad 1 per valori di a/R elevati ovvero per cricche molto grandi, in particolar modo nel caso di carico

monoassiale e per il caso di due cricche sul foro (linea continua); questo avviene perché si sta

valutando il β per una cricca (che è unica in quanto il foro si confonde con la frattura della cricca) in

una piastra infinita. Mentre per le linee tratteggiate, quelle che corrispondono al caso di una cricca

sola sul foro, il β non tende ad 1 ma a 0.8; questo si può spiegare con il fatto che il carico sul

foro+cricca non è simmetrico.

Nella fig. accanto, invece, è riportata la variazione del fattore di

forma al variare del rapporto l/R dove, fare attenzione, questa volta

l rappresenta la lunghezza della sola cricca (alla sinistra del foro).

Pertanto il SIF ottenuto dall’utilizzo del diagramma precedente del

caso di carico σ all’infinito sul foro+cricca, deve essere amplificato

dal fattore di forma Kt valutato con il presente diagramma (fig.

accanto) che tiene conto dell’influenza della cricca sulla forma del

foro causandone l’aumento della stato tensionale. Da sottolineare

che tale cricca va ad influire sul fattore di forma valutato sul lato

opposto del foro (punto B) Infatti dalla fig. si può notare come aumentando la lunghezza della

cricca l ovvero aumentando l/R il fattore di forma in tale punto aumenti.

LUCIDI 30-31-32

I concetti esposti in questi lucidi sono già noti da CM1.

Si è dimostrato negli studi precedenti, quindi, che : dato un giunto con tre chiodi, ed utilizzando i

concetti sulla congruenza degli spostamenti delle deformate dei chiodi soggetti a vari carichi, si ha

il 45% del carico assorbito sulla prima e la terza fila e circa il 9% sulla seconda. L’esperienza,

invece, ha dimostrato che c’è il 37% sulla prima e la terza e il 26% sulla seconda. Questa differenza

è dovuta, adesso che sono stati introdotti i concetti visti in questo corso, all’ovalizzazione dei fori, e

all’effetto di forzatura del chiodo all’interno dei fori; quest’ultimi sono due effetti che la schema

utilizzato non tiene conto. La cosa importante è che tutti i casi di cricche su fori, che sono stati

esposti fin ora, riguardano i fori scarichi, però dato che in genere i fori vengono creati per far

alloggiare dei chiodi e questi devono essere forzati all’interno del foro, evidentemente in molti casi

sulle pareti di questo foro c’è una distribuzione di carico. E’possibile anche che si presentano dei

fori scarichi, i quali per esempio possono servire per far passare dei cavi elettrici, (se è vero che tutti

i chiodi usano dei fori, non è detto che tutti i fori sono fatti per i chiodi) noti come open-hole, cosi

come si presentano fori sollecitati da un carico.

B

10

LUCIDO 33

Esistono manuali su SIF per fori che si aprono per

effetto di carichi per forzamento, dove si ipotizzano

certe distribuzioni di carichi che interessano un

certo angolo del foro.

Se la distribuzione di pressione equivale ad un

carico, si usa uno schema che fa riferimento ad una

cricca che per un tratto è soggetta ad una pressione uniforme (da sottolineare che considero come

schema la cricca equivalente, cioè in cui il foro ne è inglobato, dove su una delle due labbra c’è

questo carico uniforme che tende ad aprire).

Lo studio di questo problema può essere fatto anche considerando il carico concentrato e non

distribuito (nei casi che si usano abitualmente in cui con Strebeck i termini con il quadrato del

coseno sono praticamente trascurabili).

LUCIDO 34 Allora considerando un carico fisso, si può calcolare il SIF utilizzando un caso noto in cui sul

labbro di una cricca sia esercitata una forza p applicato a distanza x dall’asse della cricca, dove la

relazione è cosi espressa :

dove KIA è il SIF sull’estremo A della cricca; (si ricorda che

AB è la cricca equivalente comprensiva del foro e della

cricca reale con lunghezza efficace pari a 2a).

Se si vuole conoscere con la stesso schema il SIF nel punto

B, si usa la stessa relazione ponendo –x al posto di x, ottenendo quindi il KIB. Nel diagramma sopra

sono rappresentati i due SIF nei due estremi della cricca.

Si nota inoltre che nelle due relazioni precedenti il a

PK

2 , dove il caso di confronto non è la

piastra infinita con la cricca caricata con σ all’infinito, ma è la piastra con una cricca i cui bordi

sono caricati da una forza. (Sono due casi diversi in quanto il caso presente è una cricca con bordi

carichi, mentre il caso utilizzato in precedenza è con bordi della cricca scarichi).

LUCIDO 35 Se si presenta il caso di foro con due cricche di lunghezza a1 e a2, e se queste non sono uguali,

allora il carico P non è in asse al centro della cricca equivalente, ma è spostata di x, e utilizzando e

adattando le relazioni viste nel lucido precedente, si ottengono i seguenti valori di K:

11

LUCIDO 36 Tutti casi visti fino al lucido

precedente, riguardano le cricche

che partono dai fori; ma si possono

presentare anche casi in cui le

cricche sono vicine ai fori, e quindi i

due effetti di presenze reciproca si

possono esaltare in particolare:

l’effetto di intaglio del foro che uno

stato tensionale già di per se più

elevato e lo stato tensionale dovuto

alla cricca si fa risentire anch’esso

sul foro. L’esperienza insegna che

nella zona compresa tra cricca e foro

le tensioni sono particolarmente

elevate.

Il primo diagramma sopra fornisce il SIF in corrispondenza dell’apice A della cricca, mentre il

secondo fornisce i SIF per l’apice B, il quale trovandosi in una zona con stato tensionale maggiore,

fornisce SIF più elevate, pertanto le curve del SIF del secondo diagramma sono più accentuate.

Da notare ancora che sull’asse delle ascisse sono riportati i valori di a/b (rapporto tra semi-

lunghezza della cricca con la distanza dell’asse della cricca dal punto più vicino del foro), sulle

ordinate ci sono ovviamente i valori β, e le varie curve sono parametrizzate dal rapporto R/c

(rapporto tra raggio del foro con la distanza dell’asse della cricca dal centro del foro, per cui

c=a+b+R).

Fin adesso è stato possibile capire come calcolare i SIF per alcuni casi semplici e comuni.

LUCIDO 37 In generale, nella maggior parte dei casi, è difficile trovare sui manuali il caso o l’applicazione su

cui si sta lavorando. Se si sta effettuando un problema d’altronde ripetitivo e c’è la fortuna di

trovarsi in un caso ben noto allora i manali sono più che sufficienti; ma se ci si trova su problemi

che richiedono una certa versatilità, c’è bisogno di approcci diversi.

Metodi per calcolare il SIF, senza i manuali:

Metodo analitico: partendo dalle funzioni alle variabili complesse, e apportando le opportune

semplificazioni, è possibile sperare di arrivare ad una soluzione magari lavorando sul piano (è

comunque molto complicato), ma per problemi a 3 dimensioni praticamente non è possibile

procedere. Quindi i metodi analitici sono particolarmente complessi e possono essere usati su poche

applicazioni.

Metodi numerici : questi metodi sono molto più comuni e molto più correnti; i metodi numerici

sostanzialmente più utilizzati sono il FEM e BEM, ovvero i metodi agli elementi finiti e i

boundering. Il BEM, che tratta gli elementi di confine, consente di ottenere una soluzione di tipo

numerica semplicemente esprimendo gli elementi di contorno o i contorni del componente in

esame. La soluzione numerica, con il BEM, viene trovata solo nei punti in corrispondenza di questo

contorno e poi è possibile da questi recuperare per interpolazione dei valori in punti interni; per

questo motivo la soluzione per valori interni al componente non è particolarmente accurata. Però il

vantaggio di usare il BEM è : dato che per una superficie bidimensionale bisogna descrivere una

curva, per un volume tridimensionale bisogna descrivere la superficie bidimensionale di contorno, e

quindi ci sono difficoltà di modellazione che sono di un ordine di grandezza inferiore a quelle che si

hanno nel FEM; per di più poiché la soluzione riguarda solo il contorno e non anche il volume

interno o la superficie interna, il raggiungimento della soluzione è più rapido teoricamente; in

pratica c’è il fatto che la matrice del sistema di equazioni del problema numerico non è a banda, ma

è una matrice completa, il che ostacola fortemente la rapidità della soluzione. In ogni caso per molte

12

strutture, soprattutto per strutture di riferimento, il BEM è molto più veloce del FEM. Purtroppo il

BEM (si vedrà il NASGRO come codice di calcolo per lo studio della frattura e della propagazione

delle cricche, il quale ha in sé il modulo BEM) ha un grosso ostacolo: per il FEM ci sono a

disposizione una variegata gamma di pre-processing e post-processing e anche molto avanzati,

mentre i pochi programmi BEM commerciali hanno dei pre-processing di modellazione che sono

molto antiquati (sono in ritardo rispetto agli alti modellatori FEM di 25 anni); questo perché

dovendo affrontare con il BEM sistemi più semplici rispetto a quelli del FEM allora risulta inutile

utilizzare pre-processing troppo avanzati.

Il BEM è molto adatto per la meccanica della frattura, e anche per il calcolo a fatica in termini di

propagazione, spesso più adatto del FEM. Per il calcolo del SIF è molto più accurato il FEM, però

questo impiega molto più tempo per il calcolo, anche perché la mesh, in particolar modo nell’apice

della cricca, è molto spinta dove bisogna aumentare il numero di gradi di libertà; il BEM non ha

questo limite in quanto l’infittimento della griglia avviene solo sul contorno che può essere una

linea (mesh monodimensionale) al più una superficie. Quindi nel BEM la mesh è effettuata solo sul

contorno e la soluzione quindi è trovata solo sul contorno e poi tramite una funzione di forma si

ottengono i valori per l’interno.

Esistono, poi, dei metodi numerici indicati come collocazioni, pertubazioni, ecc. che sono più

antichi, ma che comunque possono essere utilizzati. E poi ci sono i metodi numerici più

all’avanguardia che hanno sicuro sviluppo futuro noti come Meshless i quali utilizzano il metodo

agli elementi finiti senza gli elementi, e presentano solo dei punti ai quali corrispondono dei nodi

senza rappresentare la mesh (appunto meshless); a tali nodi si attribuisce una capacità di attrazione

che fa si da legarsi ai nodi circostanti, come una sorta di gravità tra gli elementi. I meshless non

sono tanto adatti per valutare il SIF, ma per studiare la propagazione della frattura. Dei promotori

del meshless affermavano che in effetti i risultati ottenuti nel FEM sono falsi, poiché la soluzione

con il FEM appunto non può che seguire il contorno degli elementi, mentre nel meshless la

soluzione prosegue senza direzioni obbligate (in effetti l’ambiente meshless può essere paragonato

come ambiente all’universo dove le stelle rappresentano i vari nodi, ogni stella ha una zona di

influenza che teoricamente va all’infinito). Ultimamente sono anche diffusi dei strumenti ibridi che

presentano una struttura meshless racchiusa in una struttura agli elementi finiti; questo viene fatto

per rimediare ai punti deboli di ciascuna delle due metodologie; nel meshless il punto debole è nelle

condizioni di vincolo, in quanto imporle in questo metodo è molto complesso (dove si deve

utilizzare per esempio il metodo del moltiplicatore di Lagrange), non tanto per l’applicazione del

carico, ma per l’idea dello spostamento imposto è di difficile attuazione. Siccome questo problema

è di facile risoluzione con il metodo agli elementi finiti, allora si prende la struttura meschless e si

racchiude in uno strato di elementi finiti; quest’ultimo serve per imporre le condizioni al contorno, e

la struttura meschless per risolvere il problema. Uno dei problemi dei nodi della meshless è quando

si presenta la cricca, come un nodo su un labbro della cricca influisce sull’ altro; a tal scopo ci sono

delle funzioni con le quali si riesce ad aggirare la cricca.

Quindi i metodi numerici sono tanti e possono essere usati indifferentemente, con i quali si possono

trovare delle difficoltà che fanno perdere tempo; pertanto si cercano dei metodi più semplici e

rapidi. Tra queste tipologie di calcolo sono note : il Compounding e le Funzioni peso (Weight

functions).

Metodo del Compounding : è stato inventato da Cartwright e portato avanti da Rooke; questo è un

metodo approssimato (così come gli altri), molto rapido, nella maggior parte dei casi molto

semplice e dà ottimi risultati. Sostanzialmente il metodo del Compounding è il metodo della

combinazione, intesa come combinazione, appunto, di SIF che provengono da casi precedenti.

Malgrado tutti i casi e i manuali che si possono ottenere, i casi da risolvere spesso non sono

compresi in questi volumi; ma dal momento che si usa il compounding, si può decomporre il

problema in una serie di sottoproblemi per i quali sui manuali si trova la soluzione, poi

componendoli si ottiene il risultato del problema in esame.

13

LUCIDO 38

L’idea di Rooke è la seguente:

Si suppone di avere una struttura pluriconnessa (per

esempio biconnessa), e questa struttura presenta un

contorno B0 e B1. Si ipotizza che sul contorno B0 sia

applicato un carico S0 e che all’interno della struttura ci

sia una cricca.(vedi fig. accanto)

Bisogna allora ricavare il SIF per la cricca all’interno di

questa struttura. Da sottolineare che si sta utilizzando la

teoria lineare elastica della frattura, in cui il materiale è lineare elastico, non ci sono non linearità,

quindi per quello che riguarda le sollecitazioni vale il principio di sovrapposizione degli effetti.

Siccome le tensioni nell’intorno della cricca sono proporzionali ai SIF evidentemente il principio di

sovrapposizione degli effetti si può applicare anche in tale zona. Praticamente se si presentano più

stati di tensione, ognuno di questi da luogo ad un SIF, come le tensioni si sommano allora si

possono sommare i SIF. Quindi il Compounding non è altro che il principio di sovrapposizione

degli effetti applicato al calcolo dei SIF. Evidentemente nel sistema il SIF per la cricca dipende da

una serie di fattori, tra cui la geometria della struttura principale, il contorno B0, il carico S0, e la

geometria di B1 (si presenta un sottosistema che rappresenta un caso noto : foro di contorno B1 + la

cricca).

Pertanto sia la geometria della piastra che quella del foro determinano il SIF della cricca; allora si

decompone il problema in più problemi semplici, dove si può prima considerare la sola struttura con

un contorno esterno B0 e con il carico S0 di cui posso ricavare il SIF indicato con K . Però per

questo sottosistema bisogna fare attenzione al fatto che i punti che corrispondono al foro ci sono

delle componenti di tensione che nella struttura effettiva non ci sono. Allora si deve studiare

un’altro sottosistema uguale a quello precedente, nel quale però non viene inserito il carico S0, ma

nei punti che corrispondono alla geometria del foro si applicano le tensioni che, per l’utilizzo del

principio di sovrapposizione degli effetti, sommate a quelle omologhe del sottosistema precedente

fanno si che per il sistema complessivo non ci siano sollecitazioni in corrispondenza del vuoto del

foro. Quindi nei punti che corrispondono al contorno del foro nel primo sottosistema si va a vedere

quali tensioni sono state indotte, per esempio S1, e si va ad applicare - S1 al contorno del foro nel

secondo sottosistema, in modo tale che si ottiene S1- S1=0 nel sistema complessivo. Del secondo

sottosistema l’applicazione del carico - S1 influenza lo stato tensionale sulla cricca, quindi, si va a

calcolare il SIF nella cricca indicato con K*

1. Allora il Compounding consente di arrivare alla

soluzione che il SIF complessivo è : KKK*

1 . Dunque si osserva che una struttura biconnessa

viene riportata in più strutture monoconnesse in modo tale da poter applicare l’idea della

sovrapposizione degli effetti.

LUCIDO 39

Si suppone adesso di avere una struttura triconnessa, per

esempio quella della struttura accanto, che ha una cricca

tra due fori. In tal caso se si ripete quanto affermato

prima, il SIF che si ha nella struttura complessiva è dato

dalla somma del SIF, che si ha nel primo sottosistema

che ha solo il sistema base con contorno Bo e carico So

(struttura monoconnessa con una cricca), + il SIF che si ha nel secondo sottosistema che presenta

entrambi i fori di contorno B1 e B2 dove influiscono i carichi –S1 e – S2 necessari affinché vengono

scaricati i fori nel sistema complessivo annullando l’ effetto tensionale che si ha nel primo

sottosistema in corrispondenza della zona dove sono localizzati i fori nel sistema complessivo.

14

Quindi si ha che K rKK

* (*1), ovvero la somma dei SIF nei due sottosistemi fornisce il SIF del

problema complessivo. A questo punto, sempre utilizzando il principio di sovrapposizione degli

effetti, invece di considerare insieme i due carichi –S1 e – S2 nel secondo sottosistema, si possono

considerare uno per volta; pertanto il SIF del secondo sottosistema si può scomporre, per il solito

principio di sovrapposizione degli effetti, così: KKK r

*

2

*

1

* (*2). Però, se la struttura

complessiva non comprendesse il foro di contorno B2, ma solo quello B1 il compounding avrebbe

dato un SIF pari a KK K*

11 , similmente se ci fosse solo il foro B2 si avrebbe KK K

*

22 .

Da queste ultime due isolando K*

1 e K

*

2, e sostituendola nella (*2), si ottiene che:

KKKK r 221

* e a sua volta sostituita nella (*1), si ottiene KKKK

21(*3).

Quest’ultima espressione vuol dire che SIF di una cricca in un sistema geometrico in cui sono

presenti due singolarità, cioè due contorni aggiuntivi contemporanei, può essere calcolato

considerando la somma dei SIF che si ha quando si prende una singolarità per volta (cioè quella del

foro B1 e del foro B2) e sottratta del SIF che si ha nella struttura madre di riferimento (senza le due

singolarità).

LUCIDO 40

La relazione (*3) può essere rielaborata in altro modo : Se alla relazione (*3) si somma e si

sottrae K si ricava che :

Tale relazione sta in effetti affermando che se si ha una struttura con due singolarità, il SIF

complessivo è uguale al SIF che si avrebbe in assenza di singolarità + l’aumento di SIF dovuto alla

prima singolarità + l’aumento di SIF dovuto alla seconda singolarità. Cioè si sta sottolineando che

le varie singolarità non partono da zero, non forniscono un livello tensionale che si va a sommare

direttamente a quello del sistema madre, ma presentano solo quello che è l’eccesso rispetto al

sistema madre. Cioè la struttura madre determina un minimo di livello tensionale e i livelli

tensionali delle singolarità si sommano solo delle quantità eccedenti rispetto al sistema madre.

Quindi se si considera la struttura complessiva e se ne ricava una struttura madre senza singolarità e

il numero necessario di strutture ausiliarie n ciascuna con una singolarità il livello tensionale si

ricava immediatamente con la relazione:

Questa relazione delle volte non viene riportata in termini di K ma in termini di Q, il quale non è

altro che il rapporto tra il K del sistema complessivo e il K della struttura madre.

Nel compounding, però, esiste un errore, perché nella realtà la presenza contemporanea di due

singolarità non è detto che sia uguale alla somma dei due casi di una singolarità per volta, in quanto

una singolarità può influenzare l’altra. Se una singolarità influenza l’altra, allora evidentemente la

relazione scritta prima non è più valida, e si dovrebbe dire che:

dove Ke è il SIF dovuto alle interazioni.

Se si hanno, per esempio, due fori, questi si suppone che presentino degli effetti locali, ma questi a

grande distanza da essi vanno a scemare. Allora, sempre nell’ipotesi di elasticità lineare, si possono

15

avere due fori molto lontani tale che i campi di sollecitazione di ciascuno di essi apprezzabilmente

non si intersecano, e quindi si può considerare ogni foro separatamente. Se i fori sono più vicini la

tensione nel punto intermedio risente sia dell’uno che dell’altro, e quindi c’è interferenza tra di essi.

Se questi fori sono molto lontani e al centro di essi c’è una cricca, si può affermare che i campi

tensionali non si intersecano, però allo stesso tempo la cricca al centro risente sia dell’uno che

dell’altro. Mentre l’altro caso, sempre con la cricca al centro dei fori, ma i fori sono abbastanza

vicini, allora i campi tensionali interferiscono tra loro e quindi i SIF sulla cricca aumentano

ulteriormente. Pertanto nel caso di fori molto lontani il termine Ke non si considera o meglio si può

trascurare; viceversa se i fori sono molto vicini tali da interferire tra loro, nella relazione del K deve

intervenire anche il temine aggiuntivo Ke. Tale termine aggiuntivo fa cadere l’efficacia del metodo

del compounding, perché non c’è nessun modo per poterselo calcolare se non utilizzare il metodo

agli elementi finiti e recuperarlo, quindi, a posteriori. Allora il compounding da dei risultati tanto

più accurati quanto più piccoli sono i termini Ke, cioè quanto minori sono le interferenze reciproche

che sussistono tra le diverse singolarità. Se si hanno delle singolarità che interferiscono poco, allora

il metodo del compounding va bene, altrimenti se ci sono singolarità che interferiscono molto tra

loro allora ci sono forti problemi per il suo utilizzo.

LUCIDO 41

Si riporta qualche esempio:

1° Esempio

La piastra a ha evidentemente SIF nullo perché non c’è la

cricca. Però dal punto di vista tensionale la piastra b è

equivalente alla piastra a; dove la struttura b è sottoposta ad

una tensione σ di trazione sulla piastra e da un carico – σ di

compressione di chiusura sui bordi della cricca; quindi anche

questa deve avere il SIF nullo. La struttura b può essere considerata come la somma di due strutture

d , e con la medesima geometria, dove la d presenta la piastra caricata con σ all’infinito e la cricca

scarica, mentre la e presenta la piastra scarica ma la cricca è caricata con – σ.

Allora il SIF di d sommato a quello di e deve essere pari a quello di b che è ovviamente nullo; cioè

Ka=Kb=Kd+Ke=0 da cui Ke=-Kd. Dato che aK d , allora aK e

. Se si inverte la σ

sulla cricca nella struttura e, e la si chiama p si ottiene il caso di una cricca soggetta a carico di

apertura in cui il SIF è pari a apK e .

2°Esempio

Si ha una piastra a assoggettata da un carico all’infinito

solo su un verso della piastra; tale carico è bilanciato da un

perno il quale presenta una reazione P=σW (dove W è

ovviamente la larghezza della piastra). Scomponendo

questa struttura, la struttura madre è, quindi, la piastra

soggetta a carico simmetrico (ad ambo i lati) all’infinito e

con una cricca al centro. Le altre due strutture d ed e

dispongono carichi P sulla cricca tali che sommati o sottratti opportunamente alla struttura madre

dia quella complessiva. La struttura d è scarica all’infinito ed è carica solo sulla cricca con due

carichi P che si equilibrano; mentre sulla struttura e, che va a sottrarsi alle precedenti d e b, mostra

il carico all’infinito sul lato opposto in cui è presente il carico all’infinito σ nella struttura a di

partenza, e la reazione P di nuovo opposta a quella disposta nella struttura a (cioè si nota che la

struttura e è opposta a quella iniziale a). Allora in generale Ka=Kb+Kd-Ke ovvero Ka+Ke=Kb+Kd,

ma dato che Ka=Ke si ha KKK dba

2

1. Dato che per le piastre b , d si possono avere SIF dai

manuali e sostituendoli nella precedente si ottiene Ka :

16

LUCIDO 42

3°Esempio

Si ha non una piastra infinita, ma una striscia di lamiera, nella quale in

maniera eccentrica (cioè è fuori dal centro ovvero non è sull’asse) c’è

un foro in cui è presente anche una cricca.

Quindi si ha questo foro con cricca a distanza b-1 e b+1 dai due

boundering (confini) B-1 e B+1, e inoltre la piastra è caricata da una

tensione all’infinito.

Questa volta bisogna fare degli artifizi non sui carichi,

ma sul contorno; allora come struttura madre si

considera solo il foro + cricca in una piastra infinita,

poi si considera la cricca equivalente vicino al

contorno di destra e infine la struttura con la cricca

equivalente vicino al contorno di sinistra. Pertanto si è

sempre preso una singolarità per volta.

Dai dati forniti, la lunghezza della cricca effettiva è

l=6mm, il raggio del foro è R=5mm, quindi la

lunghezza della cricca è aeff=a’=(2R+l)/2=(2*5+6)/2=8mm. Poi la larghezza della piastra è

b=32mm, la distanza del centro del foro dal bordo destro è b+1=15mm, mentre dal bordo sinistro è

b-1=17mm. Allora fissata la distanza dell’estremo destro della cricca (pari a 4mm) dal bordo destro

della piastra, la crcca + foro passando a cricca equivalente ha modificato la distanza del centro del

foro dal bordo destro b+1 nella distanza del centro della cricca equivalente dal bordo del foro b’+1.

Quindi dato che la differenza (vedi fig.) a-a’=R+l-a’=5+6-8=3mm , vuol dire che il centro della

cricca equivalente ha subito uno spostamento di 3mm a destra; pertanto le nuove distanza dai bordi

sono b’-1=b-1+3=20mm e b’+1=b+1-3=12mm.

Allora bisogna studiare le tre strutture: la struttura che ha una cricca pari a 2a’=16mm in una piastra

infinita (A), un’altra che ha una cricca di 16mm con il solo bordo a destra a distanza 12mm dal

centro della cricca (B), e una terza struttura che ha una cricca di 116mm a distanza 20mm con il

solo bordo di sinistra distante 20mm dal centro della cricca (C).

Quindi A) per il foro nella piastra infinita :

dove si nota che c’è, nel calcolo del SIF, un coefficiente 1.0, poiché da Rooke si possono usare le

curve dalle quali entrando con un rapporto geometrico aeff/R=8/5=1.6 si ottiene un β=1.0 (vedi

per le curve nel lucido 29).

Poi con B) per la cricca rispetto la bordo di destra:

dove entrando con aeff/b’+1=8/12=0.66 nell’opportuno diagramma (usando curve nel lucido 22 dove

interessa la curva nell’estremo A relativo alla fig. riportata) si ottiene un β=1.2 circa.

Poi con C) per la cricca rispetto al bordo di sinistra:

17

dove effettuando gli stessi calcoli precedenti ed usando le stesse curve con aeff/b’-1=8/20=0.4 si

ottiene β=1.04 .

Applicando a questo punto il compounding

ovvero la relazione seguente:

K=K0+(K1-K0)+(K2-K0)=[5.013+(6.016-5.013)+(5.214-5.013)]σ = 6.216σ

Naturalmente se la striscia di lamiera è troppo stretta si verifica interferenza e ci vuole il termine

aggiuntivo Ke; quindi il risultato precedente è tanto più valido quanto più larga è questa striscia.

LUCIDO 43

Metodo delle funzioni pesate (anni 70 – Rice):

La complicatezza di questo metodo ha fatto si che inizialmente fosse messo da parte, poi

ultimamente è stato recuperato (utilizzato ultimamene in alcuni programmi di calcolo).

L’idea è : si ha una certa geometria con una certa distribuzione di carichi; supponendo di già

conoscere il caso con la stessa geometria con un sistema di carico diverso, e che (importante) sia un

sistema di carico simmetrico. Supponendo di avere già a disposizione il problema risolto con la

stessa geometria per una condizione di carico simile, e di aver calcolato per questa condizione di

partenza di riferimento il SIF, che è chiamato KIr, e la funzione spostamento apertura della lastra

(ovvero della cricca) v(x,a).

Allora noti KIr e v(x,a), si può costruite una funzione peso, la quale ,chiamata m(x,a), è costruita in

questo modo:

dove si nota che le due relazioni differiscono a seconda se si sta in SPT o SPD, distinguendosi per il

termine (1-ν2).

Pertanto dato che si deve risolvere un problema con la stessa geometria, ma condizioni di carico

diverse, (quello di riferimento deve avere carico simmetrico, quello in esame può essere

qualunque), si può dimostrare che il SIF del caso effettivo non è altro che l’integrale esteso alla

lunghezza della cricca 2a del prodotto del carico effettivo p(x) per la funzione peso m(x,a):

LUCIDO 44

Esempio:

Si vuole calcolare il SIF per una cricca sottoposta ad un

carico uniforme sulle labbra ma che non interessa l’intera

lunghezza delle labbra stesse, e che interessi, invece, la

sola lunghezza 2d rispetto all’ intera lunghezza della

cricca 2a. Ovviamente il caso di riferimento è quello della

cricca in una piastra infinita sottoposta al carico

simmetrico all’infinito σ. Allora per questo caso di

riferimento è noto che aK I ,e la funzione spostamento è:

(la quale è stata già utilizzata per il COD).

18

dove k è una costante che varia a seconda se si sta considerando uno stato piano di deformazione

oppure di tensione, e dipende dal noto parametro ν.

Allora derivando v(x,a) rispetto ad x si ottiene:

E noto che aK I e che

x

axvEaxm

K I

),(

2),( ,allora si ottiene che :

[Nota: Secondo me ci sono degli errori in questi passaggi]

Quindi il K è ottenuto effettuando l’integrale tra –a ed a della p(x) moltiplicata per la m(x,a)

precedente, cioè:

Ma dato che la p(x) è supposta uniforme pari a p o σ, ed è tale solo per -d≤x≤d con le parti esterne

della cricca libere, pertanto l’integrale e quindi il SIF diventa :

Questo è un caso molto semplice; normalmente l’impiego delle funzioni pesate offre sicuramente

delle difficoltà di tipo analitico nettamente superiori a quelle del compounding con l’aggravante che

le funzioni spostamento spesso in letteratura non si trovano; cioè nonostante si devono trovare le

funzioni spostamento per i casi con le condizioni di carico simmetriche che sono quelle più comuni,

queste funzioni spostamento spesso non sono disponibili.

19

PARTE VIII – Meccanica della Frattura (p.2)

SLIDE 1

Stavamo vedendo un poco come si può calcolare il SIF; poi ci siamo interrotti per vedere che

strumenti abbiamo per valutarlo da soli. E abbiamo parlato del compaund

che è un metodo estremamente utile e attuale. Dobbiamo riprendere la quantificazione del SIF per

alcuni casi particolari, per parlare delle cricche tridimensionali .

SLIDE 2

La cricca tridimensionale può essere completamente contenuta all’interno di un componente (sarà

una soffiatura, un difetto di fusione, si è formata per l’effetto di coazioni locali ) oppure potrà essere

superficiale, dovuta ad un qualsiasi accidente, un urto o qualcosa del genere.

Diciamo che nella pratica cricche tridimensionali se ne trovano in gran numero e si fanno degli

studi per ricavare la capacità di sostenere una certa cricca ; queste sono ormai analisi abbastanza

correnti nella meccanica avanzata. Il problema è quello di capire dove si ha interesse a fare questa

analisi: ovviamente si ha interesse di fare questa analisi in 2 categorie di localizzazione di cui la

prima è quella nella quale il cedimento avrebbe conseguenze catastrofiche per l’intero gruppo in

esame (perchè per esempio ne impedirebbe il funzionamento o comporterebbe danni a cascata) e la

seconda (che non sempre coincide con la prima ovviamente) si tratta delle parti, dei punti nei quali

lo stato tensionale è quantitativamente elevato, e quindi con la presenza della cricca il livello

tensionale crescerebbe ancora; quindi per esempio nel caso di un albero con 2 diametri diversi e un

bel raggio di raccordo, la cricca si va a posizionare proprio nel raccordo ; in questa maniera si è già

in una posizione in cui lo stato tensionale è già bello sostenuto e noi ci piazziamo pure una cricca e

vedremo se poi l’albero riesce a resistere oppure no . Il primo risultato utile nel caso di cricche

tridimensionali è dovuto a Sneddon il quale studiò il caso di una cricca circolare piatta , quindi

bidimensionale immersa all’interno di un solido indefinito. Quel tale prese una cricca circolare di

raggio a , quindi la cricca lineare di semilunghezza a, e trovò questa relazione (la prima della slide)

e possiamo dire che questo è se continuiamo a insistere ad utilizzare quella vecchia relazione. Un

passaggio in più fu dovuto ad Irwin il quale studiò delle cricche ellittiche : qua ne è rappresentata

metà soltanto (fig in basso a sx) ed i semiassi c ed a.

Qua si ha una cosa alla quale bisogna prestare attenzione; questa è una cricca ellittica

bidimensionale, un taglio ellittico all’interno del solido: ebbene per ogni punto del fronte della

cricca si ha un SIF diverso. Questo apparentemente può lasciare perplessi, ma in realtà non deve,

per il semplice motivo che il K è un qualificatore del livello tensionale poiché lo stato tensionale

sicuramente non è costante, non è uniforme ma sono variabili anche quegli enti che noi prendiamo a

indicarne complessivamente la severità. È un po’ come se noi dicessimo di avere tante cricche

ognuna che ha la dimensione del generico raggio corrispondente a questa cricca ellittica e quindi a

questo punto possiamo calcolare i SIF , ovvero la funzione SIF. Ma come al solito quando abbiamo

a che fare con un ellisse la descrizione della funzione è eseguita attraverso l’angolo di eulero (la

relazione di eulero) : eulero scrisse le 2 famose equazioni parametriche dell’ellisse e cioè

cos*ax senby * e fece questa costruzione (fig. in basso alla slide), cioè lo studio della

circonferenza sul semiasse minore e sul semiasse maggiore , tracciò il raggio dalle intersezioni, calò

le parallele agli assi e il punto di incontro era proprio un asse dell’ellisse e quindi divenne molto

semplice la descrizione della curva. Quindi, quando qui come altrove in riferimento ad un ellisse

trovate in generale un angolo, non è l’anomalia del punto dell’ellisse che sarebbe questa (la in

corrispondenza di questo raggio vettore (forse in riferimento al cerchio + piccolo) ) ma invece

20

l’anomalia della retta che si adopera nella costruzione di eulero per determinare il punto (rif cerchio

+ grande) . Ciò premesso il SIF è funzione di quest’angolo ed è dato da questa espressione (la

seconda relazione della slide) , m invece è una sorta di eccentricità dell’ellisse , e compare anche

(m) che è un integrale ellittico di seconda specie completo, cioè da 0 a 2

, ed è dato dalla prima

espressione sulla slide successiva.

SLIDE 3

Gli integrali ellittici sono di prima, seconda e terza specie e vengono fuori non appena si vuole

provvedere al calcolo di lunghezze ed aree delimitate da ellissi , perciò prendono questo nome . Non

sono risolubili in forma chiusa : lo sviluppo in serie di quello completo di seconda specie è questo

qua (prima formula sulla slide) .

Sono completi se l’estremo superiore di integrazione è 2

, altrimenti si chiamano incompleti.

Ovviamente (m) è una costante e per ogni cricca va calcolata una sola volta perché dipende da m

e non dal punto in cui ci troviamo. Dopodiché si possono calcolare facilmente i SIF e in particolare

i SIF che ci interessano maggiormente sono quelli in questi 2 punti cioè in 0 e 2

sull’ellisse (rif fig

in basso sulla slide 2) , quindi sui 2 semiassi perché probabilmente sono valori stazionari ed infatti

lo sono (al centro della slide sono riportate le relazioni dei suddetti SIF) . Notate che ac

a

2

2

perché

c è il raggio del cerchio maggiore e a di quello minore, e c

a<1, quindi KI (0)< KI

2

, perché nel

primo c’è un numero minore di 1 ( cioè c

a ) moltiplicato per a .

Questo è un fatto che può lasciare in dubbio, cioè che ho il SIF maggiore in corrispondenza del

semiasse minore. Tra l’altro tutto quello che abbiamo detto sugli intagli etc etc.. ci porterebbe a

pensare che il SIF massimo si debba avere qua (=0),ma in realtà non è così perché questa non è

più una cricca piana ma una cricca nello spazio ( pensate che nel momento in cui sottopongo il

solido in figura ad una trazione si ha una deformazione del solido per cui questa cricca piana si

ingobba , non ho più 2 labbra che si separano ma 2 superfici che si separano : a parità di distacco un

termine va a 0 per una certa lunghezza e l’altro va a 0 in un campo molto più stretto , quindi è tirato

molto di più ,é più curva tutta quanta la superficie, e questo chiarisce perché mai qui (2

) le

tensioni sono maggiori e quindi anche il SIF .In realtà le cricche interne al solido non hanno per noi

in assoluto un grande interesse, sono sicuramente più interessanti per noi le cricche superficiali le

quali saranno di 2 tipi : surface crack e corner crack . Nella cricca superficiale vera e propria ho

una unica superficie che fa da limite alla cricca , mentre nella cricca d’angolo ne ho 2 . Un caso

molto eclatante è questo qui (fig in basso a sx) : è la cricca sul bordo di un foro che non interessa

tutto quanto lo spessore; è una cricca d’angolo molto particolare perché quello che vi ho raccontato

sulle cricche in prossimità dei fori, dando per scontato che si tratti di cricche passanti, cioè che

interessano l’intero spessore, in realtà si verifica solo dopo un certo tempo dopo l’insorgere della

cricca ; di solito la cricca si sviluppa in questo punto e poi pian pianino si ingrandisce e ad un certo

punto interessa tutto quanto lo spessore ; ma per il primo tratto quella cricca è una cricca ad angolo

e si capisce perché per esempio il caso caratteristico della cricca d’angolo è quella prodotta dal

trapano che rompe solo il punto ma non tutto lo spessore .

SLIDE 4

21

Allora anche per le cricche superficiali si sono fatte diverse analisi: un caso eclatante può essere

quello che voi vedete qui (fig sulla slide). Abbiamo una piastra di spessore B sulla quale c’è una

cricca superficiale ellittica (semiellittica ovviamente) che ha il semiasse minore a (profondità a) e il

semiasse maggiore c. Attribuiamo a Murakami e Kobajashi quindi al sol levante la valutazione del

SIF per questi casi. Notate come è fatta questa formula del SIF. 1,12 è il che io ho per una cricca

che emerge in superficie e che sia molto piccola; poi c’è un termine Q che dipende dal fatto che

negli spigoli di questa cricca (in corrispondenza del semiasse maggiore, dove abbiamo le curvature

maggiori ) si potrebbe verificare, salvo quello che diremo poi successivamente, la nascita di zone

plasticizzate. Nella formula del Q il rapporto 2

2

s

è una indicazione di quanto siamo lontani da

quella condizione e tutto viene ulteriormente corretto attraverso il coefficiente MK con evidente

riferimento a Murakami . Qua vedete come sui vari manuali i diagrammi di Mk e vedete che

dipende dal rapporto geometrico della cricca a/2*c ; chiaramente quando a/2*c =0,5 la cricca è

diventata semicircolare quindi ci aspetteremmo Mk =1 per somiglianza con il caso della cricca

interna circolare ; invece per tutti gli altri casi di interesse abbiamo

Mk maggiori che dipendono dal rapporto a/B cioè dalla quantità di spessore della piastra interessata

dalla cricca . Siamo qui nei problemi nel momento in cui mi devo ricavare la resistenza residua

perché la sigma compare sia all’esterno che all’interno (questo è un fatto normale). Si legga poi

l’esempio: prima di tutto mi devo definire l’ellisse , quindi mi calcolo 7975,02

22

c

acm e poi

mi calcolo l’integrale ellittico (m)=1,1789 così non ci devo più pensare. Poi, siccome devo entrare

in questa relazione (la prima in alto sulla slide) mi devo calcolare Mk dopo aver calcolato a/B e

a/2*c ; sfruttando la formula in alto alla slide mi ricavo quindi c ed ho ricavato così la tensione

residua.

SLIDE 5

Prima di finire sui vari problemi di calcolo dei SIF e affrontare tutta la meccanica della frattura con

una nuova ottica è bene dire che non esiste in generale il discorso della cricca disposta

perpendicolarmente alla retta di carico ; in generale noi avremo uno stato tensionale biassiale nella

nostra piastra nella quale ci sarà una cricca orientata in una certa maniera (angolo ) rispetto alla

direzione di uno dei carichi, rispetto all’asse di riferimento. Vi sono evidentemente dei casi in cui le

cricche sono bene allineate perché per esempio può capitare che l’ubicazione dove nasce questa

cricca è caratterizzata tensionalmente in un modo particolare : se io parlo di un foro in una lamiera

soggetta a trazione dove sappiamo già dove è la maxt e con ogni verosimiglianza la cricca parte

là,perché lì abbiamo un certo stato tensionale (a 90° abbiamo la compressione e certamente la cricca

lì non nasce).Quindi ci sono certi casi in cui è evidente la partenza, ma nel caso generale non è

affatto evidente; quindi dobbiamo pensare di trovarci in una piastra alle cui estremità (piastra molto

lunga) abbiamo delle tensioni remote sigma1 e sigma2 e nel bel mezzo di questa piastra c’è una

cricca che ha dimensione 2*a ed è inclinata di rispetto a sigma2 (rif fig a sx sulla slide).

Vogliamo sapere come si procede: prima di tutto ci interessa lo stato tensionale intorno alla cricca e

approfitteremo di questo fatto per capire se la cricca va in propagazione da che parte si dirige; beh,

come al solito possiamo pensare di isolare un elemento (linea tratteggiata) all’interno del quale è

sita la cricca ed è evidente che questo elemento, che avrà come lati la direzione parallela alla cricca

e quella perpendicolare alla cricca, sarà una zona alla cui periferia esisteranno tensioni sia normali

che di taglio, perché nello stato tensionale esterno (rif fig a destra)esiste una x, esiste una y, non

esiste xy ,su questo piano abbiamo sia una che una .

22

Lo stesso ragionamento può essere fatto inserendo la , nessuno ce lo impedisce, ma supponiamo

che non ci sia.Quindi con riferimento alla cricca, la cricca è sollecitata sia da tensioni normali

,per cui lavorerà nel modo uno come abbiamo fatto finora, ma ci saranno anche le tensioni di

taglio per cui lavorerà in modo 2; quindi avremo contemporaneamente un KI e un KII : questo è un

caso nel quale, risentendosi sulla cricca queste tensioni, abbiamo la presenza di due campi di

sollecitazioni locali che si andranno a sovrapporre, uno caratterizzato da KI e l’altro da KII ; manca

il KIII che richiederebbe uno spostamento fuori piano, ed è una cosa che si verifica raramente,

mentre invece un caso del genere è estremamente comune (rappresenta la generalità).

Per prima cosa dobbiamo calcolare e in funzione di sigma1 e sigma2, cioè in funzione dei

carichi esterni applicati, e per questo dobbiamo usare le relazioni di trasformazione in condizioni di

stato piano (sulla destra); possiamo così ricavare l’espressione di KI : ho messo in evidenza sigma2

e ho chiamato m il rapporto 2

1

; analogamente abbiamo l’espressione del KII.

SLIDE 6

Abbiamo visto che il buon Vestergard ci ha lasciato le formulazioni dello stato tensionale

nell’intorno dell’apice della cricca per il modo 1, 2, 3; allora la tensione che avremo, per il principio

di sovrapposizione degli effetti, sarà la somma di quella dovuta a questo caso e di quella dovuta a

quest’altro caso.

Ecco le espressioni che riferiscono rispetto a KI corrispondono a quelle f () che vi ho indicato

allorché vi ho parlato della soluzione del Vestergard.

La funzione angolare che abbiamo nel caso 2 non ve l’ho indicato ma, credetemi,si tratta di queste

qua.

Quello che dobbiamo tener presente è che nell’intorno dell’apice della cricca ci sarà uno stato

tensionale che dipenderà sia da che da , quindi che conterrà in sé sia

KI che KII: questi stati di tensione sono detti misti o combinati.

In moltissimi casi il KII esiste, ma è molto più piccolo di KI ,ad esempio 10 volte più piccolo,e in

quei casi si è incerti se considerarlo biassiale oppure fregarsene.

Allora Erdogan e Sih si domandarono in quale direzione si sarebbe verificato l’avanzamento di

questa cricca: supponendo che questa cricca aumenti, in quale direzione si propagherà? Angolo

definito da un’anomalia misurata rispetto all’apice della cricca.

L’idea dei due ricercatori è stata questa:siccome la cricca si propaga per apertura, cioè per distacco

delle due facce, evidentemente la tensione efficace è la tensione t ,la tensione normale

circonferenziale. La r no perché mi produce semplicemente un aumento o una diminuzione di

spessore, la è sempre più piccolina e allora l’idea fu questa: la propagazione avverrà nella

direzione in cui t è massima. Quindi scriviamo 0

t e ricaviamo l’equazione che ci deve

consentire di ricavare .

E’ evidente che l’equazione è questa qui ed è proprio uguale alla ; quindi 0

t nella

direzione in cui 0rt , quindi ho tensione normale massima e tensione tangenziale nulla. E quindi

la relazione che ci consente di ricavare la direzione di diramazione è la penultima sulla slide, una

volta noti i due SIF.

D’altra parte per ogni SIF abbiamo dato un valore in funzione delle condizioni al contorno, della

direzione della cricca,del valore di m, sostituendo queste funzioni noi otteniamo questa nuova

forma di equazione in che contiene anche m e (ultima relazione sulla slide).La direzione in

non dipende dal valore delle tensioni ma solo dal rapporto dei valori di esse, più l’orientamento. Ora

23

evidentemente se =0 la cricca è allineata con sigma2, e quindi non c’è KI ; se invece 2

evidentemente la cricca è perpendicolare a sigma2 e parallela a sigma1,e sarà sigma1 che non avrà

più il K1. Per di più m può variare tra 0 e 1 (volendo va da 0 ad infinito): se fosse >1 potrei invertire

la misura di e il risultato non cambierebbe.

Evidentemente se =0 si ottiene che =0, cioè praticamente se la cricca è allineata con sigma2,

continua a propagare lungo sigma2; nel caso in cui m=0 avremmo 0 = 0 e quindi non sapremmo

valutare (in realtà vedremo che va a zero per continuità).

Se 2

la cricca sarà allineata con sigma1, e allora sen=0.

SLIDE 7

In pratica è una curva che noi otteniamo su un diagramma di questo genere; sono tutte curve che per

=0 e =90° mi danno =0 tranne il caso m=0 dove per continuità se noi portassimo al limite il

valore che abbiamo per 90°- (anzi per 0

+) allora dovremmo ottenere che questa strana curva

andrebbe a circa 72° e quindi presenterebbe una discontinuità con le altre; in realtà questa

discontinuità è puramente analitica : tutte quante le curve partono da zero, crescono e poi tornano a

zero e man mano che m diminuisce il punto di massimo si sposta verso l’asse delle ordinate quindi

sostanzialmente questo è un punto degenere (quello a 72° sull’asse delle ordinate) perché la curva

qui dovrebbe presentare una cuspide ma in realtà per m=0 se se =0 anche =0 però subito dopo

=72° ;poi ancora se mi metto ad un certo valore di all’aumentare di m l’angolo di diramazione

diminuisce. Questo è chiaro perché all’aumentare di m si sente la presenza di sigma1 che aumenta e

farà deviare la cricca nella propria direzione e quindi è chiaro che deve diminuire all’aumentare

di m . Ora però se guardiamo l’equazione (in basso alla slide 6) questa non ci dice altro che se la

cricca propaga , lo fa nella direzione (ammesso che propaghi) : la cricca propagherà se il K

complessivo corrisponde alla tenacità; e qual è il K complessivo? Non lo sappiamo definire ma

sappiamo dire ‘ la sollecitazione è più grande o più piccola di questa quantità ’, possiamo dire che K

è minore della tenacità ma quando è un K solo. Questa qui (slide 6: quantità in parentesi quadra

nella seconda equazione della slide) è una combinazione di due K : in molti codici di calcolo voi

sentirete parlare di K effettivo. Allora possiamo dire che se K effettivo è minore del Kc non si ha

propagazione altrimenti si ha propagazione. In pratica la cosa più logica è dire: se la tensione t

nella possibile direzione di propagazione(quindi come valore massimo) risulta minore della

t critica (resistenza residua) per la cricca disposta come è disposta e caricata nel modo I

perpendicolarmente, allora non si ha propagazione altrimenti si ha propagazione. Allora t avrà

propagazione in condizioni critiche, quindi è venuta meno la resistenza critica se t vale Kc cioè

tenacità su radice di 2r.

In pratica,ripetendo il concetto, io ho determinato la direzione nella quale si può avere la

propagazione ma devo capire se la propagazione avviene o non avviene. Se mi metto in stato

monoassiale dico che la propagazione avviene se la sigma che è uguale a K su radice di 2r

raggiunge la resistenza residua la quale è pari a r

K c

2 ; solamente la t massima è data proprio da

questa espressione e ci si chiede dove sia la funzione di : non c’è perché io ho una cricca

perpendicolare alla direzione del carico e quindi si sta aprendo , quindi si allunga semplicemente .

SLIDE 8

24

Qua malgrado la forma sta avvenendo la stessa cosa perché io sto pensando a una cricca che si

allunga in direzione ed è un discorso che posso fare perché in direzione le sono assenti quindi

mi sono riportato di nuovo nella condizione che mi ha consentito di scrivere questa relazione della

resistenza residua (quella di cui si è parlato prima).

Allora sostanzialmente se si determina la propagazione della cricca, si determinerà nella direzione

fornito da questa equazione (probabilmente l’ultima sulla slide 6) e si verificherà qualora sia almeno

soddisfatta questa equazione (la prima sulla slide 8) oppure se la disuguaglianza sia maggiore. In

pratica posso pensare di imporre un valore di KII , ricavo KI e ottengo così l’equazione di .

Ricavato torno indietro e mi ricavo un valore di KI. Questo per spiegare come è realizzato questo

diagramma, il quale mi indica le coppie di valori KI e KII che danno luogo a propagazione, per i

quali vale il segno di eguaglianza (nella prima equazione sulla slide). Quello che non vedete in

questo diagramma è l’angolo…(non si capisce perchè c’è il cambio di cassetta).

Notate bene questo che sta scritto qua; tutto il criterio che noi abbiamo sulla tenacità di cui abbiamo

già parlato è basato su una tensione che raggiunge un valore limite: il K che raggiunge la tenacità, la

sigma che raggiunge r

K c

2 non è altro che il criterio della massima tensione normale.

Quindi ci siamo dimenticati di Von Mises e di Beltrami ,in pratica stiamo parlando di tensioni

normali, ed è chiaro che stiamo parlando di frattura fragile. Per i materiali fragili non si ha un

apprezzabile variazione di forma ma un allontanamento delle fibre atomiche. Se siamo all’interno

della curva non si verifica la propagazione perché i punti sulla curva sono quelli che ci determinano

la eguaglianza.(La compressione mi chiude la cricca e non la fa avanzare).

SLIDE 9

A questo punto abbiamo fatto una panoramica sulla sovratensione in presenza di frattura , sulle

possibilità di calcolare i SIF su alcuni casi emblematici, perfino sulle cricche tridimensionali e poi

ci siamo soffermati su questi casi di sollecitazione biassiale. Tutto quello che abbiamo detto

potrebbe essere affrontato in una maniera diversa: facciamo ciò per il fatto che ragionando in

maniera diversa otteniamo le stesse cose in una nuova forma, e può essere che impariamo qualcosa

in più e, stranamente, i criteri di cui stiamo parlando sono i criteri energetici che, nel campo della

frattura, sono stati applicati molto prima di quelli dei quali abbiamo parlato.

Nel 1921 se non erro un tale ingegner Griffith iniziò a fare degli studi sul vetro e si accorse per

primo della presenza di fratture che si propagavano (d’altra parte il vetro è il materiale fragile per

eccellenza: o propagava o no, quindi non si ha una cricca che si propaga piano piano; o si ha una

cricca ferma o si ha una cricca che si propaga a razzo).

Gli studi di Griffith furono presi in considerazione solo in un secondo momento (Vestergard,etc…)

alla luce anche della innovazione tecnologica.

L’inizio dell’idea è abbastanza semplice.

Supponiamo di avere una cricca che si propaga e facciamo il bilancio energetico: avremo un

sistema sottoposto ad un sistema di carichi, e avremo che il lavoro eseguito dalle forze esterne in

una parte sarà conservato nel corpo sotto forma di energia di deformazione, e dall’altra parte

un’altra quota sarà utilizzata nell’avanzamento della cricca. Quindi in generale possiamo scrivere

questa equazione (la prima) che è molto banale.

E che succede se le forze esterne non compiono lavoro (cioè sono nulle)? Allora vuol dire che

U+W=0 . U è l’energia immagazzinata e W è l’energia spesa per l’avanzamento della cricca.

Possiamo dire che se c’è W ,cioè se c’è l’avanzamento della cricca, allora W=-U (-U è l’energia

elastica rilasciata).

Questo è un modo per dire ‘ L’avanzamento della cricca può avvenire se è disponibile energia

sufficiente che ha immagazzinato all’interno del corpo come deformazione elastica’ ; quindi se il

25

corpo ha assorbito una certa dose energia elastica la può mettere a disposizione della cricca perché

si determini il suo avanzamento.

Poiché la configurazione del corpo cambia molto con l’avanzamento della cricca, è possibile

esprimere questo criterio in termini differenziali, in corrispondenza di un incremento di lunghezza

da della cricca. E quindi possiamo scrivere le relazioni in basso alla slide, e la condizione per la

propagazione è questa da

dW

da

dU (come condizione limite, perché in realtà dovremmo avere il

segno maggiore (vedi slide 10)).

SLIDE 10

Nella prima relazione della slide da

dU è chiamato gradiente di rilascio dell’energia (ed è un

gradiente e non una velocità), e si è indicato con G per ricordare Griffith, mentre da

dW lo

chiamiamo R. Per cui si dice che se G>R si ha propagazione, se G<R non si ha la propagazione.

Questa relazione ha rivoluzionato la meccanica della frattura e ha dato luogo a delle curve che non

sono altro il diagramma di R per varie lunghezze della frattura e che si chiamano R-curve. Allora la

prima cosa da capire è come si calcola G, che è la quantità di energia rilasciata nel momento in cui

si va ad aprire una cricca, oppure è la quantità di energia assorbita nel momento in cui vado a

chiudere la cricca, dal momento che il sistema è elastico lineare. Lo schema che abitualmente si

adopera per il calcolo di G è questo: ho una cricca di lunghezza a e la vado a chiudere di =da ,

applicando le tensioni necessarie per la chiusura, che sono quelle che agiscono qui se il sistema è

continuo. Applicherò per la chiusura le tensioni r

K

2 compiendo un lavoro: devo chiudere solo

un pezzo della cricca, e quindi ad un certo punto ho il valore x=-+r ,più la distanza dall’apice che

sto formando, quindi a-+r = x .

Posso dire che l’energia immagazzinata non è altro che il lavoro speso da queste y per chiudere;

allora la sigma agirà su una superficie con altezza dr e profondità quella che è (ad es. 1). Questa

forza elementare deve compiermi un lavoro per uno spostamento v. Devo considerare uno

spostamento 2v perchè le sigma stanno sopra e sotto. Nell’espressione del v posso togliere i termini

quadratici (passaggio con il ) perché mi trovo con lunghezze molto piccole. Devo quindi risolvere

l’integrale, e ottengo che l’energia assorbita è E

KU I

2

e quindi ricavo E

KG I

2

(Abbiamo

supposto uno stato piano di tensione; se avessimo supposto uno stato piano di deformazione

avremmo avuto E

KG I

22 )1( ) . A questo punto capite che o calcoliamo G o calcoliamo IK

abbiamo fatto la stessa cosa; quindi un qualsiasi criterio fondato sul SIF , fondato sulle forze, o

fondato su G, quindi in termini energetici, è la stessa cosa.

SLIDE 11

In tutto quello che abbiamo detto abbiamo detto che le forze esterne non compiono lavoro; vediamo

cosa succede se compiono lavoro.

26

Quando applichiamo le forze possiamo lavorare in termini di controllo di carico e di controllo di

spostamento; possiamo dire che la cricca propaga a carico costante o che la cricca propaga a

spostamento (allungamento) costante . Mi spiego meglio facendo questi due esempi: nel primo ho

una piastra forata criccata di lunghezza l e di una certa larghezza che, sotto l’azione di un carico P0

,si allunga di l. Qual è l’energia che ho immagazzinato? Ho il diagramma in cui le ordinate sono i

carichi e le asciss gli spostamenti, e traccio la retta OA e il raggio vettore del punto di

funzionamento. L’area OAB rappresenta l’energia elastica immagazzinata.

Supponiamo adesso che la cricca non sia più lunga a, ma a+a, e sto lavorando in controllo di

spostamento, per cui faccio allungare la piastra di l. Ovviamente, siccome è chiaro che la

cedevolezza della piastra è aumentata, per fare aumentare la lunghezza di l devo applicare un

carico più basso. Questo si poteva dedurre anche facendo il calcolo al centro della slide che in realtà

è sbagliato perché parte dal concetto che tutto il l sia localizzato in questa sezione (quella

adiacente alla cricca),il che è sbagliato però rende l’idea. Allora per questo secondo carico ottengo

lo stesso l però sotto un carico più basso, quindi avrò immagazzinato un’energia inferiore, per

esempio OCB.

Allora nei due casi c’è una differenza di energia immagazzinata, che è rappresentata da OAC,che

può essere interpretata come quella energia che deve essere rilasciata per creare la lunghezza a a

parità di allungamento complessivo della piastra.

SLIDE 12

Naturalmente posso fare lo stesso ragionamento anche a carico costante: se ragiono a carico

costante ovviamente le due piastre, proprio perché quella in cui c’è la cricca maggiore ha

cedevolezza maggiore, si allungheranno in maniera diversa. Posso allora dire che quando ho la

cricca di larghezza a assorbo l’energia OAC, quando ho la cricca di lunghezza a+a assorbo

l’energia OEF. Quindi l’energia elastica che si rende disponibile nel passaggio da a ad a+a è OAE,

mentre CAEF è il lavoro compiuto dalla forza P. Quindi Pl=CAEF che come sappiamo deve

essere il doppio di OAE.

Leggere nota a fondo slide.

SLIDE 13

Questo discorso può anche eere visto in forma generale analizzando un carico di questo tipo. (I

simboli non sono gli stessi usati in precedenza: F=Lf ).

Nel momento in cui ho dei carichi che compiono un lavoro, posso calcolarmi G:

)( dUdLda

dG f ; se il carico è P, il lavoro che viene compiuto è perché mi cambia

l’allungamento, quindi sarà da

ldP

)(. U è l’energia interna, pari a lPU

2

1, e poi

considerando CP

l

dove C è la cedevolezza, possiamo scrivere 2

2

1CPU . Vado ad inserire tutto

nella relazione in alto e, derivando a parti, si ottiene la relazione finale.

Per scrivere l’equazione finale occorre supporre P=cost. altrimenti avrei dovuto avere anche il

termine da

dPC , che non c’è. La G può essere interpretata come variazione di energia interna che

ho a carico costante anche se le forze compiono un lavoro; quindi mentre io all’inizio ero arrivato a

questa espressione (questa in basso) supponendo nullo (non considerando) il lavoro delle forze

esterne, arrivo alla stessa espressione considerando le forze esterne, purchè sia interpretata in modo

tale da dire che ho un carico che è costante.

27

SLIDE 14

Allora G è sistemata.

D’altra parte abbiamo W: se abbiamo detto che la propagazione avviene quando G>R, se non

sappiamo calcolarci W il discorso rimane lettera morta.

Griffith, non sapendo come cavarsela, disse W=(cost. * lunghezza di frattura), cioè W è

proporzionale alla frattura. In realtà lui ragionò in termini di energia necessaria per creare una

superficie esterna (io sto separando), però nel momento in cui creo una frattura io sto creando 2

superfici esterne, e per questo mi compare 2; quindi diventa l’energia necessaria per creare una

superficie unitaria. Il fatto di dire 2a vuol dire che questa energia è indipendente dalla lunghezza

della cricca che sto realizzando o a partire dalla quale mi sto muovendo,e quindi la lasciamo così, n

modo da scrivere che R=2 che è costante. Questo vuol dire che se io ho un componente posso

capire se

22

E

a oppure no. R quindi rappresenta una capacità del materiale di resistere, al di

là del quale si formano queste due superfici, quindi praticamente la cricca può avanzare.

Supponiamo allora di avere un materiale per il quale io conosca R che è costante; quindi posso

costruirmi un diagramma (quello sulla sinistra): sull’asse delle ascisse riportiamo la lunghezza della

cricca e sull’asse delle orinate posso riportare G o R. Se riporto R=2=cost. è una proprietà del

materiale ed è sempre la stessa, se riporto E

aG

2

sarà una rette perché è proporzionale ad a.

Logicamente se io prendo per esempio questa retta (quella col punto A) se prendo questo punto (un

punto generico sulla suddetta retta nella parte tratteggiata) ho una cricca di una certa dimensione a,

poiché G<R la cricca non propaga. Se arrivo al valore di a1 allora G=R e sto in condizione di

incipiente propagazione. Queste due rette corrispondono a valori di sigma diversi e , in particolare,

sigma2<sigma1 perché, dal momento che

crit

crita

K

2 , se ho un a critico più grande avrò una

sigma più bassa.

In realtà si adopera il diagramma sulla destra: è un diagramma che corrisponde ad uno spostamento

della scala dei tempi. Si fotografa l’istante attuale e si dice che la cricca ha questa lunghezza e poi in

futuro ci saranno degli incrementi di cricca, quindi dei a. E’ un diagramma in cui si scrive

sull’asse delle ascisse un a e sull’asse delle ordinate non cambia niente. Sullo stesso asse delle

ascisse, ma dal lato negativo, io posso riportare la lunghezza della cricca che io vedo in questo

momento. “Uhm Uhm”

Se per esempio sono partito dalla cricca di lunghezza a1 con la tensione 1 , il tratto OH è G

nell’istante presente ed è pari ad R, quindi mi trovo in condizione di incipiente propagazione. Se la

stessa cricca è caricata da una tensione 2 , nell’istante attuale il G è pari al tratto OF, che è minore

di R, e la cricca non propaga.

Solo se per opera dello Spirito Santo questa cricca avesse questo aumento di lunghezza (ai) che non

può avvenire stabilmente quando la propagazione è lenta perché G<R, allora si avrebbe

improvvisamente la propagazione instabile.

Invece se ho la 2 , quindi il carico minore, per avere adesso la propagazione dovrei comunque

avere il valore di G questo (boh?) e quindi la cricca oggi sarebbe dovuta diventare più grande,

perchè se io porto una retta parallela a 2 e G è questo (mah!), nell’istante attuale incontro

l’intercetta che mi rappresenta la lunghezza di cricca.

Quindi questa è un’applicazione molto semplice che però mette in luce quel discorso che abbiamo

fatto per sapere se la cricca propaga o no. Attenzione! Perché se propaga, propaga di brutto perché

G aumenta sempre mentre R resta lo stesso (aumenta sempre l’eccesso di G rispetto ad R): è quella

che si chiama propagazione instabile (“qualcuno mi fermi”: la propagazione parte e non si stoppa

nel modo più assoluto).

28

SLIDE 15

Non è detto che G sia dato da una retta. Se sto lavorando in controllo di spostamento, poiché cambia

la cedevolezza, al variare di a cambia pure sigma perché il l è costante, e quindi va a finire che io

otterrei un diagramma di questo genere (in alto a sx); però è una finezza perché possiamo ritenere

sostanzialmente che le curve G costante siano delle rette.

Torniamo un attimo indietro (diagramma in basso a sx) e torniamo al diagramma in cui per una

certa cricca noi avevamo posto le tensioni sull’asse delle ordinate, le lunghezze sull’asse delle

ascisse e avevamo fatto delle curve a K costante.

Se la più esterna mi rappresenta la tenacità , io ho modo di stabilire la lunghezza critica di una

cricca; supponiamo che nell’istante presente i io abbia certi valori di a e sigma , quindi il mio K è

quello che mi identifica la curva interna, mentre la tenacità è il K che mi indica questa altra curva.

Praticamente la lunghezza critica sarà questa (dal punto (ai,sigmai) fino al corrispondente punto

sulla curva esterna procedendo orizzontalmente): senonchè avviene una cosa che ci fa pensare di

non aver capito niente. Se ho un materiale fragile quanto detto sopra è corretto; se il materiale è

duttile l’esperienza ci insegna che passare da ai ad a critico a carico costante è impossibile ma, ad

ogni aumento di a si accompagna anche un aumento di , in modo tale che per arrivare alla rottura

occorre percorrere una curva che ha per lo più quell’andamento (la curva tratteggiata tra le due

curve a K costante).

Questo vuol dire che per passare dalle condizioni attuali alle condizioni critiche io avrò un aumento

di lunghezza per un aumento di carico e poi starò buono; se ho un altro aumento di carico avrò un

altro aumento di lunghezza e starò buono; e così via.

Poiché io posso stare in equilibrio solo se G<R , vuol dire che per i materiali duttili R non è

costante.Infatti se andiamo tracciare R per un materiale duttile (diagramma in alto a dx) avrò una

curva crescente (R-Curve).Vedete che se mi trovo qui (ai), con questo valore della tensione (quello

col punto B), posso pensare che per essere G=R si debba avere la propagazione della cricca, ma in

realtà non è vero perché nel momento in cui è aumentata un poco la cricca (a2) R è diventato più

grande, quindi in quel momento G diventa più piccolo di R e non si ha propagazione. Si avrà

propagazione se cambio la tensione ad un altro valore, in modo tale che il G passi per questo valore

( C ). La cricca non si fermerà più quando arrivo al punto di tangenza ( D ) perché, siccome la R

non cresce ulteriormente al di là di quella tangente, allora se aumenta la cricca aumenta R, ma si

trova sempre sotto la retta, e per questo continua a propagare.

Quando ho un materiale duttile, l’ipotesi per la quale non si ha propagazione è non solo G>R, ma

deve risultare anche da

dR

da

dG . E’ evidente che quando sto parlando di propagazione, sto parlando

di propagazione inarrestabile, e cioè quella propagazione che chiamiamo instabile, mentre in tutta

questa zona (area nella zona BCDH) la propagazione è stabile, cioè applico un carico, aumenta un

poco e si ferma, e così via…cioè può essere controllata, a differenza del caso precedente. Il

problema è come si ricava la R ,come si ricava la curva R. Questa curva si ricava sperimentalmente

‘barando’ perché si dice : la propagazione si ha quando G=R ma io R non la so misurare mentre so

misurare G. Allora carico il provino, nel momento in cui si rompe vedo qual è la G e mi ricavo il

valore di R. Giocando in questa maniera si costruisce la curva R del materiale.

SLIDE 16

Questa pagina è poesia perché ogni volta che devo fare dei conti ho bisogno di una forma analitica

della curva R. Allora si da alla curva R una forma di questo genere:

1

aR in cui occorre ricavare i coefficienti e . Questa è una forma che viene data sulla base

di una relazione sperimentale e cioè praticamente : se io considero una cricca che adesso ha

29

lunghezza a0 e che arriva a rottura dopo che è stata incrementata di a , avrò la lunghezza critica

a+a che è più o meno proporzionale ad a0 per qualunque a0 e così ricavo la formula analitica della

curva R.

SLIDE 17

Ma molto più importante di questo è capire perché i materiali duttili hanno una curva curva R e non

hanno più R costante. Non hanno R costante perché noi finora abbiamo parlato di frattura fragile,

mentre nei materiali duttili si verifica una frattura duttile, la quale è dovuta a tutt’altri fatti e si

propaga in tutt’altra maniera anche se l’effetto finale è poi lo stesso. Il meccanismo di rottura è

diverso : non è più quello della separazione netta delle file di atomi, ma è dovuto, come abbiamo

detto quando abbiamo cominciato a parlare di frattura ,alla creazione di vuoti; siamo partiti

dall’idea di avere delle inclusioni, degli intrusi tra un grano e l’altro e, in determinate

circostanze,sotto l’azione del carico, nel momento in cui questo carico eccede di un valore che

dipenderà dal tipo di materiale, dal tipo dell’inclusione, dalle dimensioni dell’inclusione…..(cambio

cassetta ).

Le inclusioni all’interno di un materiale duttile sono numerosissime e saranno quindi distribuite in

vario modo quindi sotto l’azione del carico, all’aumentare del carico, in certe zone comincia a

determinarsi la nucleazione ; cioè praticamente le pareti del materiale base si distaccano da queste

inclusioni. Se aumento il carico si nucleeranno altri vuoti, ma quelli che già esistono per effetto del

carico si ingradiranno cioè aumenteranno. Ovviamente supponiamo che questa sia una sfera

(secondo oggetto in alto)se io tiro, se ho il distacco,questo vuoto aumenterà di dimensioni in questa

direzione (quella delle frecce) qua invece non può ridursi perché c’è l’inclusione (guardare figura),

tenderà quindi a diventare un ellisse sempre più pronunciata e sempre più staccata dall’inclusione.

Contemporaneamente all’aumentare del carico la distanza tra questi vuoti andrà a diminuire finchè

ad un certo punto si romperà la zona intermedia tra 2 cavitàe si avrà la coalescenza. Allora nel

momento in cui io comincio a prendere un materiale in cui ci sono diverse inclusioni (fig in basso a

dx) avrò una frattura che si propagherà per coalescenza di vuoti : quindi il meccanismo che

determina la crescita della frattura sarà tale da provocare una crescita che vedrà in qualsiasi istante

delle inclusioni che non si sono mosse, dei vuoti che si sono appena nucleati, altri che sono in fase

di accrescimento e altri ancora che sono in fase di coalescenza e poi ci sono quelli che sono

‘scassati’ . Abbiamo aumentato il carico e avrò quindi che questa cricca può aumentare. Questo è un

modello molto attuale che è stato proposto da Gurson (fig sulla destra) : sostanzialmente l’idea della

nucleazione del vuoto viene ad essere collegata con una certa deformazione locale; in pratica se la

deformazione locale supera un certo valore allora avviene il distacco tra l’inclusione e la particella .

Questa deformazione (energia) minima di cui ho bisogno dipende dalla di Griffit che è una

costante caratteristica del materiale e anche da R0 che è il raggio dell’inclusione pensando che

l’inclusione sia una sferetta: siccome R0 è elevato alla potenza –1/2 allora quanto più grande è

l’inclusione tanto più piccola è la deformazione necessaria per innescare la formazione di vuoto. Poi

una volta determinatisi una serie di vuoti la deformazione cresce ancora e in qualsiasi istante l’asse

maggiore del vuoto sarà funzione della deformazione alla quale siamo arrivati, mentre nello stesso

tempo sarà diminuita la distanza tra 2 cavità (queste cavità che saranno lontane, per effetto del

carico si allungano e si avvicinano).

SLIDE 18

Evidentemente esisterà un valore della deformazione aldilà del quale si ha la coalescenza, quindi

aldilà del quale le zone si vanno a riunire: questo avverrà in corrispondenza di una deformazione

finale detta f e secondo Gurson si ritiene che la condizione di criticità sia esprimibile attraverso una

relazione tra b ed X, dimensione del vuoto e distanza tra i vuoti (vedi relazione in basso). K(n) è

funzione del tipo di materiale.

30

X e b li abbiamo già calcolati, quindi, a parte la f , parlare di b/X e parlare di 0

0

X

R è la stessa cosa,

ma R0 è il raggio dell’inclusione e X0 è la distanza iniziale tra le inclusioni, quindi possiamo avere

un’idea di quello che avviene.

SLIDE 19

Supponiamo di considerare un cubetto di materiale base: quindi la X0 è pari al passo tra una

inclusione e l’altra; questo cubetto, che sarà un insieme di elementi finiti nella modellazione, avrà

un volume X0 * X0 * X0 ; contemporaneamente al centro di questo cubetto c’è il difetto, cioè c’è

un’inclusione di raggio R0 , quindi avrà un volume pari a 3

03

4R . Se consideriamo il rapporto f tra il

volume dell’inclusione e il volume del materiale ,vediamo che esso dipende dal rapporto

3

0

0

X

R,e

quindi questo rapporto

0

0

X

R sarà la frazione di inclusioni che caratterizza il mio materiale e sarà

più basso o più alto a seconda della qualità iniziale. E’ chiaro che se K, che determina la criticità

della situazione del mio materiale, è una costante del materiale, è evidente che se

0

0

X

R è più

piccolo, per arrivare alle condizioni critiche ho bisogno di una f più grande, cioè di una

deformazione maggiore. Se invece

0

0

X

R è più grande, cioè se la qualità è inferiore perché ci sono

molte inclusioni oppure ci sono inclusioni di grosso diametro, mi basta una deformazione più bassa

per arrivare alle condizioni critiche. Tutto questo lo si scrive in questa maniera (relazioni in basso),

e si vede che la f è funzione della percentuale di inclusioni che io ho nel mio sistema.

31

Meccanica della frattura p.2 12) LE FIGURE IN OGNI SLIDE SONO CONTATE DALLA PRIMA IN ALTO A SINISTRA IN SENSO

ORARIO

Lezione del 17/02

Iniziamo questa lezione introducendo l’integrale J che si basa sull’analisi dell’energia potenziale di

un corpo ciccato, la quale dipendeva dalla differenza tra l’energia complessiva di deformazione ( W

che consideriamo estesa all’area dal momento che l’analisi condotta è bidimensionale)e il lavoro

compiuto dalle forze al contorno. Se ci interessa quindi il gradiente dell’energia potenziale, come

ipotizzato da Griffith, lungo la lunghezza della cricca, bisogna derivare l’equazione dell’analisi

dell’energia potenziale rispetto alla lunghezza della cricca. Rice però dimostrò, applicando il

teorema della divergenza, che tale gradiente poteva essere posto in una forma particolare che da

integrale di superficie passava a integrale di linea e il potenziale elastico W veniva integrato solo

lungo la direzione perpendicolare all’asse della cricca (vedi dx2 ), mentre il prodotto tra le forze

esterne e i gradienti di spostamento veniva valutato in direzione parallela all’asse della cricca (vedi

dx1). C’è da dire che Rice dimostrò anche che questo integrale valutato lungo la linea chiusa era

pari a 0, detto integrale J. Il fatto che l’integrale J sia pari a 0 lungo una linea chiusa porta alla

conseguenza: supponiamo di avere un corpo criccato e di fare una curva chiusa, che abbraccia

l’apice della cricca, un segmento di uno dei due lati delle labbra della cricca, un’altra curva che

riprende l’apice della cricca e il restante labbro della cricca. (slide 22) Dall’analisi della figura 1 si

nota che i tratti appartenenti alle labbra della cricca, AF e CD, sono scarichi e non danno contributo

all’integrale: ciò vuol dire che l’integrale esteso alla prima curva Г1 più l’integrale esteso alla

seconda curva Г2 deve essere pari a 0, ovvero il primo integrale deve essere pari a - il secondo

integrale, ma poiché le due curve sono state percorse in senso opposto, se invertiamo il segno di

quella percorsa in senso orario (per convenzione), i due integrali diventano uguali. L’integrale J è

quindi nullo se esteso ad una linea chiusa e assume un valore costante su qualsiasi curva che

partendo da un labbro della cricca arriva sull’altro abbracciando l’apice della cricca, rimanendo

tutto all’interno del corpo ciccato. Se però continuiamo a considerare che l’integrale J è la derivata

rispetto alla lunghezza della cricca dell’energia potenziale, non possiamo non evidenziare che J e G

sono la stessa cosa e quindi è possibile descrivere le curve G,R analogamente a JR,R (in figura 2

dove a R è sostituito JR)ed è importante perché il significato di J è più completo di quello di G, il

quale richiede un comportamento lineare elastico del materiale mentre J è valido sempre e quindi è

uno strumento molto adottato per studiare il comportamento di un elemento criccato e delle

vicissitudini che si verificano nell’intorno dell’apice della cricca anche se non è applicabile la teoria

elastica e cioè per piccole deformazioni plastiche. (slide 23) L’aver detto che J è valido anche in

campo plastico ci da il “là” per affrontare la verifica dell’esistenza di una zona plastica nell’intorno

dell’apice della cricca, zona di cui si verifica l’esistenza immediatamente poiché la tensione per R

che tende a 0 va a ∞ sia in direzione X che in direzione Y e quindi i risultati trovati non possono

essere validi in tale regione. Ci si chiede quindi fino a che distanza è valida la teoria elastica.

Prendendo in esame la figura 1, e quindi la σy, applicando il modello di Irwin si ricava il raggio

plastico r*p in corrispondenza del quale la σy è uguale a quella di snervamento e quindi al di sotto di

esso c’è la zona plastica e sopra quella elastica. In realtà però questo raggio deve essere corretto e

quest’ approssimazione la si rappresenta graficamente (figura 1) introducendo una circonferenza di

diametro r*p dall’apice della cricca, che rappresenta la zona plastica. Quindi il diagramma è

sbagliato poiché al di sotto del raggio plastico la σy è costante e pari a quella di snervamento σys,

seguendo la teoria di materiale elastoplastico senza incrudimento. Quest’errore si evince dall’analisi

del diagramma, poiché l’area sottesa è pari al carico all’∞ e quindi se diciamo che non è più valida

questa zona del diagramma, l’equilibrio complessivo dell’elemento criccato non è più verificato.

Evidentemente se la parte tratteggiata in figura 1 deve essere eliminata e la σy non deve

ulteriormente crescere (materiale elastoplastico senza incrudimento) deve verificarsi che le ordinate

devono essere maggiori per verificare l’equilibrio energetico: ciò si ottiene shiftando la curva come

si vede in figura 1 di slide 24 e questo comporta che la zona a sigma costante aumenta (aumenta

32

cioè il raggio plastico)e da questo punto in poi si ottengono delle ordinate sempre maggiori. Il

problema ora è calcolare di quanto spostare il diagramma, e quindi calcolare l’effettivo raggio

plastico. Irwin notò che il maggior valore del raggio plastico corrispondeva alla maggior zona

plastica calcolata prima che noi avremmo se la lunghezza della cricca invece di essere a sia aeff

(vedi figura 2) e la differenza delta rappresenta proprio lo spostamento del diagramma. Introdusse

quindi il concetto di lunghezza di cricca fittizia come quella cricca che presenterebbe quel raggio

plastico calcolato in prima approssimazione. Dall’analisi della figura 2 quindi il raggio plastico è

rappresentato da delta più lambda dove quest’ultimo rappresenta il raggio plastico di prima

approssimazione della cricca fittizia mentre r*p rappresenta il raggio plastico di prima

approssimazione della cricca effettiva. Poiché delta di solito è molto piccolo rispetto ad a si ottiene

che non cambia molto tra la cricca effettiva e quella fittizia e che lambda e quasi uguale a r*p. A tal

punto l’unica cosa da calcolare qual è la maggior lunghezza della cricca fittizia che consente di

avere l’equilibrio delle aree. In base a ciò a sinistra di lambda la sigma è costante e quindi pari a

sigmas *(delta+lambda), quantità che deve essere uguale che pare da delta e arriva a lambda (in

base a ciò l’integrale va da 0 a lambda), da ciò si ricava che delta è uguale a r*p. Da tale analisi si

evince che l’errore commesso sul raggio plastico di prima approssimazione è del 50%. (slide 24)

Per cominciare a tenere conto di un campo con comportamento plastico il SIF sarà corretto con

l’aggiunta del raggio plastico fittizio dal momento che stiamo parlando di una lunghezza fittizia. Per

arrivare ad un SIF più accurato per successive iterazioni. Quando abbiamo studiato la cricca

abbiamo tenuto conto dell’apertura delle labbra sotto un carico infinito e abbiamo considerato il

cosiddetto COD, che è l’apertura (2 volte lo spostamento) della cricca al centro; di conseguenza,

considerando un COD variabile, all’apice della cricca, esso deve essere pari a 0. Questo non è vero

però nel caso di deformazione plastica poiché nell’apice della cricca, gli spostamenti non sono nulli,

e si ha uno stiramento dell’apice stesso. L’ apertura della cricca all’apice per effetto della plasticità

è detto CTOD, misurato in seguito a un COD, dato dall’apertura del provino (figura 2) il quale da

una trave diventa una bilatera e dal suo studio si può risalire all’abbassamento e cioè all’angolo di

inclinazione della trave e quindi il punto a stiramento nullo. Per differenza tra il punto ad

abbassamento nullo e la semilunghezza della cricca stessa, si può risalire al CTOD e quindi al SIF.

Passando alla slide 25, si può precisare che r*p rappresenta la maggior lunghezza della cricca fittizia

e che la zona plastica corrisponde circa al 30% della lunghezza della piastra e ciò dipende oltre dal

materiale, anche dalla lunghezza linearmente e dalla sigma remota quadraticamente. Questo fa si

che nello studio della propagazione di una cricca è evidente che la lunghezza della cricca aumenta

sempre e ciò è dovuto ad una ridistribuzione degli sforzi perché si vanno a modificare le sezioni

resistenti e praticamente mentre la lunghezza della cricca aumenta sempre, davanti ad essa avanza

sempre più un fronte di zona deformata plasticamente. Possiamo quindi supporre come rotto un

componente in cui è presente una discontinuità fisica (si supera la tenacità) ma è anche vero che se

tutta la struttura si plasticizza, cominciamo ad avere una resistenza sempre più bassa a parità di

deformazione: si accetta quindi come convenzione che un componente è rotto quando è in parte

criccato e plasticizzato per tutta la rimanente zona resistente. Si precisi che comunque tutto questo

dipende dall’intensità della tensione applicata e che la relazione per il calcolo del raggio plastico

fittizio è valida solo in salita e quindi la storia di carico ha un’importanza fondamentale

(meccanismo di propagazione della cricca). Successivamente, nel calcolo del COD quindi

considerando solo la zona criccata, senza considerare la zona plasticizzata, si commette un errore di

circa il 20%. In conclusione il metodo di Irwin ci da in modo semplice la determinazione della zona

plastica ricorrendo ad uno studio del diagramma, cioè confrontando tale diagramma con la curva

tensione-deformazione del materiale. (slide 26) Quello di Irwin non è il solo modello che fornisce il

raggio plastico dal momento che esiste anche il modello di Dugdale, il quale è meno immediato ma

sempre più comune. Supponiamo di avere la solita cricca di lunghezza 2a su una piastra sottoposta

ad un carico all’infinito e consideriamo una cricca fittizia di lunghezza 2a+la parte plastica, come

prima: l’unica differenza è che ρ=δ(figura 1). Se avessimo questa cricca di semilunghezza a+ρ per

effetto della azione esterna questa cricca si aprirebbe, se non si aprisse è perché in questa zona la

33

tensione di snervamento (poiché siamo in campo plastico) la mantiene chiusa. Dugdale si chiese

quanto valeva il SIF all’estremità della zona plastica, ma poiché siamo all’interno del materiale il

SIF=0, perché la cricca è chiusa, ma poiché il SIF è dato dalla somma di Kσ della cricca fittizia

sottoposta a carico infinito e kρ dovuto all’effetto delle sigma di snervamento che lo vanno a

chiudere, da tale relazione si ricava quindi il valore di ρ. Si può usare anche la formula

approssimata in basso. Tali formule per il calcolo di ρ sono approssimate in quanto abbiamo

considerato uno stato tensionale monoassiale: lo stato tensionale invece all’apice della cricca è

biassiale (SPT) o triassiale (SPD). (Slide 27) Il saperese un materiale si è plasticizzato o meno in un

punto non può prescindere dall’accettare un certo criterio di plasticizzazione (ad esempio Henky-

Von Mises) che consente di calcolare la tensione di confronto equivalente al comportamento del

materiale in campo monoassiale e quindi siccome stiamo studiando la plasticizzazione se la nostra

sigma di confronto è uguale a quella di snervamento, funzione delle tensioni nelle tre direzioni

principali ottenute da Vestergard, si è vicini alla plasticizzazione. A questo punto è possibile o

ricavare la σs in SPD o SPT oppure, conoscendo la σs e comparendo una commistione tra distanze e

direzioni, si può calcolare il raggio plastico come funzione della direzione e ci si accorge che la

distanza dall’apice della cricca alla quale inizia la plasticizzazione è diversa nelle diverse direzioni.

(slide 28) Dalla figura 1 si nota che in SPD la zona di plasticizzazione è a forma di 8, mentre in SPT

è a forma di fagiolo e ciò che bisogna notare che la dimensione della zona plasticizzata in uno stato

piano di deformazione è molto più piccola della dimensione della stessa zona nel caso di stato piano

di tensione. Ciò è funzione delle ipotesi che abbiamo fatto circa la condizione di plasticizzazione:

infatti se al posto della condizione di Henky avessimo utilizzato Tresca, avremmo ottenuto delle

zone diverse e la scelta tra le due dipende dalle ipotesi che si fanno in partenza. Allo scopo è

consigliata la visione di film giapponesi degli anni 50…Quindi in generale la scelta si basa su

un’approssimazione dll’idea e della legge fisica ad essa correlata: in altre parole ci saranno dei

materiali per i quali il comportamento di plasticizzazione sarà en rappresentato dal criterio di

Tresca, altri da Henky. (Slide 29) Supponendo che sia valida l’ipotesi di Henky, si analizzi

l’estensione della zona di plasticizzazione in corpi criccati: supponendo diavere una piastra come

quella in figura 2, andando a misurare l’estensione della zona plastica nell’intorno della cricca si

ottiene che il volume plasticizzato ha un’estensione maggiore in superficie poi naturalmente si

riduce e diventa costante nella parte centrale; ciò succede in piastre di almeno un certo spessore.

Questo è illuminante nei confronti di un corpo sollecitato dall’esterno: se non c’è carico applicato

sulle facce, anche le tensioni sono nulle e perciò (figura 1-a) la prima è caratterizzata da sigma=0 ed

il materiale è libero di contrarsi. La superficie si presenterà quindi curvata perchè può avere delle

ε≠0 e quindi σ=0. Lo stato di tensione potrebbe quindi essere definito piano o meglio ci si avvicina

molto, perché comunque la sigma e la Tau sono uguali a 0; per meglio dire si ha lo stato piano di

tensione sul pelo libero della piastra dal momento che non si mantiene piano per tutto lo spessore.

Nella zona immediatamente superficiale e subsuperficiale, la zona di plasticizzazione deve

somigliare molto a quella che corrisponde allo stato piano di tensione. Se ci si trova invece

all’esterno (fig 1-b) se lo spessore è abbastanza grande, lo stato di deformazione che si ha nella

parte centrale lontano da imbotti, tende a essere a deformazione piana e la zona plasticizzata tende

ad essere molto più piccola. In generale ciò vuol dir che si avrà una zona sollecitata in maniera tale

da somigliare ad uno stato piano di deformazione finchè il materiale nel punto considerato non

risente della prossimità delle superfici e si accorge che l’azione da sinistra è diversa da quella che

viene da destra e si deforma di conseguenza. In questo modo c’è poi il passaggio graduale tra uno

stato piano di deformazione a uno stato piano di tensione. Ciò è molto importante perché tutto

questo su una piastra molto sottile non ha senso di esistere perché man mano che cresce l’effetto

della lontananza da queste superfici aumenta l’effetto della vicinanza da quest’altra e quindi non si

ha proprio modo di arrivare a uno stato piano di deformazione e tutta quanta la piastra avrà una

strizione locale molto pronunciata dovuta a una ampia zona plasticizzata. Se invece abbiamo un

“piastrone” ci sarà una grande zona centrale sulla quale non si sente l’effetto delle superfici e nella

quale la zona plastica è di dimensioni ridotte anzi si dirà che in questo caso la zona in cui lo stato di

34

tensione è più o meno piano sarà modestissima e la generalità di questo componente si comporterà

come un corpo sottoposto a deformazione piana e ci sarà una zona plasticizzata intorno all’apice

della cricca molto ristretta (figura 3). (slide 30)Si precisi che tale analisi è partita calcolando

l’estensione della zona plastica con il criterio di massima sollecitazione (sigmay=sigmas); poi si è

calcolata l’estensione della zona plastica con un criterio più logico, cioè praticamente si sono

ricavate le tensioni principali e da queste siamo risaliti all’estensione della zona plasticizzata.

Ritornando alla slide 27, c’è da dire che quando si è scritto l’espressione del rp(θ) compare il SIF,

funzione della sigma remota (tensione all’infinito). Che legame c’è tra il remote stress e

l’estensione della zona plastica e per quale valore del remote stress per il quale si inizia ad avere

una plasticizzazione. In pratica questo si fa assegnando la sigma1 e vogliamo sapere a quale valore

bisogna arrivare per avere la plasticizzazione. Assegnando sigma1 posso esprimeresigma2 e sigma3

in sua funzione tramite coefficienti n e m che non sono altro che rapporti delle sigma delle direzioni

principali. Fatto ciò si può ricavare la sigma1 di plasticizzazione in funzione di sigmas che non è più

funzione della distanza (dal momento che, contenendo il SIF, facendo i rapporti si semplifica) ma

solo dell’angolo θ. Da tale relazione si ricava nelle varie direzioni (al variare di n e m) come variare

sigma1 in corrispondenza della quale comincia la plasticizzazione (non dice a che distanza avviene).

Le sucessive relazioni possono venir spiegate poiché siccome le tensioni aumentano man mano ci si

avvicina all’apicedella cricca sela zona plastica in SPD comincia quando la tensione è 3 volte quella

di snervamento, mentre in SPT bastava che arrivava a quella di snervamento, è evidente che la

plasticizzazione nel primo caso avviene ad una distanza molto più vicina all’apice della cricca

rispetto all’SPD e quindi la zona plastica in uno stato piano di deformazione è molto più piccola

perché viene innescata sotto tensioni molto più elevate. (slide31) Ciò viene evidenziato in figura 1

dove il primo diagramma rappresenta il caso in cui sigma1 (sigmay) è uguale a sigmas, mentre nel

secondo sigma1 è uguale a 3sigmas; quindi se si deve plasticizzare in stato piano di deformazione,

questa plasticizzazione interessera sempre un volume assai più contenuto. Quest’idea ha dato

originea quello che si chiama PCF(indicato con α), che non è altro che la tensione massima che si

può avere rapportata alla tensione di snervamento e che nel caso in esame è sigma1/sigmas.

Ritornando alla figura 1 c’è da sottolineare che i due diagrammi sono diversi non perché le zone

lastiche sono diverse ma per il grado direaltà con cui sono stati tracciati. Il secondo è un diagramma

molto più reale perché evidenzia un raccordo e una progressiva riduzione a zero. Abbiamo visto che

la sigma1 per la quale si comincia ad avere la plasticizzazione è pariad 1 nel caso di stato piano di

tensione e 3 nello stato piano di deformazioni. In pratica il PCF è compreso tra 1 e 3 poiché

all’intrno di un corpo si hanno contemporaneamente entrambi in relazioni a percentuali dispessore

differenti: l’effetto dellospessore quindi si deve necessariamente far sentire e le interazioni tra i

diversi gruppi e quindi porterà delle variazioni in questi valori standard determinati. Si è sempre

detto in base allateoria lineare elastica della frattura che in corrispondenza di una certa sigma si

aveva un dato valore del SIF e la cricca partiva quando superava il valore della tenacità, la quale

varia ed è funzione dello spessore e non solo in funzione del materiale. Tracciando un diagramma

della tenacità al variare dello spessore si trova che la curva di tenacità ha l’andamento di figura 3.

Questo andamento è giustificato dal fatto che poiché ho una piastra molto sottile, questa è molto

plasticizzata dal momento che ha uno stato di tensione piana e avrò un certo valore del SIF. Avendo

invece una piastra molto spessa, questa è totalmente in stato di deformazione piano perché la parte

interna è prevalente sulle striscioline esterne e quindi di nuovo ho un comportamento alla frattura

che è dettato dal fatto che il volume di materiale è in stato di deformazione piana e quindi avrò un

altro valore stabilizzato del SIF. La zona compresa tra B0 e Bs rappresenta quella zona nella quale

va a ridursi quella parte in stato piano di tensione e va ad aumentare la zona interessata da uno stato

piano di deformazione. Si precisi che i pennacchi rappresentano valori della tenacità non danno

valori affidabili a causa degli spessori modesti e che quando si parla di tenacità in generale ci si

riferisce alla tenacità in stato piano di deformazione. (slide 32) In figura 1 è rappresentato un

provino standard per una prova di frattura statica in cui è presente un innesco alla frattura o un

innesco molto grande che provochi una rottura rapida. In figura 5 è rappresentato un provino della

35

ASTM estratto da un componente più grande mentre in figura 1 è un provino standard sul quale

vogliamo che si crei una cricca superficiale per fatica: tagliando in corrispondenza della cricca, si

ottiene la figura 2 in cui si nota che si è creato un intaglio non uniforme meno profondo al centro e

più in superficie. In figura 3 invece si ha un provino adatto perflessione su 3 punti in cui il carico è

applicato come se fosse al centro di una trave appoggiata-apoggiata in corrispondenza dell’intaglio

della cricca. C’è da considerare che, nel momento in cui abbiamo dei risultati di una prova su un

provino bisogna dichiarare le modalità di estrazione del provino dalla direzione di laminazione.

(slide 33) In figura 2 è rappresentato un codmetro, un apparecchio che si adopera per misurare il

COD tramite degli inviti effettuati sul provino in corrispondenza dell’intaglio. Sulle due lamine che

lo compongono vi sono degli estensimetri che misurano la curvatura delle lamine. (slide 34) Per

finire la parte statica della meccanica della frattura si può dire che esiste una certa differenza tra la

resistenza di una piastra e la resistenza dellapiastra reale, perché la piastra reale può essere soggetta

a condizioni di crisi diversificate (criteri multi-fader). In tale analisi si prenda in esame la

plasticizzazione copleta della piastra che ne impedisce il suo sfruttamento completo. Facendo

riferimento alla figura 2 si supponga di avere un diagramma lunghezza della cricca-sigma (residual

strenght) in relazione ad una piastra di dimensioni w. Se si ha un materiale relativo allo spessore di

piastra che sto considerando, posso fare la curva a kc costante (tenacità costante) e la curva sarà

simile a quella tratteggiata: se il punto di funzionamento è al di sotto di questa, la piastra non si

rompe, mentre non appena la raggiungo, la cricca è in condizione di incipiente propagazione

plastica. Sopra la curva non è possibile l’equilibrio perché praticamente è stata superata la tenacità e

quindi la cricca sicuramente si propaga. Si analizzi ora la curva corrispondente alla plasticizzazione:

siccome l’area resistente è (w-2a)*b se sigma è pari a sigma in corrispondenza di (w-2a) è pari a

quella di snervamento, si sta plasticizzando, se è al di sotto, non si sta plasticizzando. Con ciò si

vuole dire che la tensione in corrispondenza della quale si verifica la plasticizzazione in questo

diagramma può essere rappresentata come una retta che passa per i punti (0;sigmas) e (w;0): nel

primo punto infatti la cricca ha lunghezza 0 ma l’elemento è sollecitato dalla tensione di

snervamento all’infinito mentre nel secondo punto, sia la sezione resistente (perché a=w e c’è

discontinuità fisica) che la tensione applicata sono nulle. Tale retta è detta di snervamento: i valori

al di sotto assicurano che la piastra è ancora in campo elastico, valori superiori dicono che la piastra

è in campo plastico. Se ora si traccia la curva del Kc e la si sovrappone alla retta di snervamento,

vediamo che sarà generata una zona centrale nella quale la curva di Kc è inferiore alla retta, mentre

ci saranno altri tratti in cui la curva Kc costante è a superiore alla retta: ad esempio a sinistra, per

piccole lunghezze della cricca si dovrebbero applicare delle tensioni molto elevate per avere la

frattura, in altre parole in tali zone la piastra si plasticizza per carico dal momento che esso è molto

vicino al valore di snervamento. Per lunghezze elevate, per dar luogo alla frattura, sono necessarie

tensioni basse però è prevalente l’effetto di plasticità perché in effetti anche con carichi molto bassi,

la sezione resistente è modestissima. Volendo considerare un criterio multi-fader che tiene conto di

fratture e plasticizzazione, se il punto di lavoro si trova nelle zone tratteggiate, dovrò considerare il

criterio della plasticizzazione; se si trova nella parte centrale, dovrò tenere conto della frattura. In

modo approssimato si può considerare la curva costituita dalle tangenti alla curva kc costante

passanti per i due punti sopra indicati le cui tangenti sostituiscono i tratti della retta di snervamento.

Ecco perché quando si hanno dei componenti e si va a vedere il diagramma sigma-a, si ha un

andamento simile alla figura 1 slide 34 dove le curve vanno verso la tensione di snervamento; si

precisi che in figura sono anche rappresentate le curve R corrispondenti all’accrescimento della

cricca alle condizioni di danneggiamento. Un caso particolare è la figura 4 dove sono rappresentate

due curve di tenacità, una di un materiale ad alta tenacità (curva tratteggiata:che non cederà mai per

frattura ma per snervamento perché si trova sempre al di sopra della retta di snervamento), l’altra

con tenacità bassa. A tal punto indipendentemente dal fatto se la cricca si possa propagare fino a un

certo punto in maniera stabile e poi instabile, deve interessarci che durante l’esercizio del

componente comunque la cricca per fatica si ingrandisce e quindi l’effetto della fatica sul

componente criccato comporta un danneggiamento progressivo interiore del componente fino a che

36

non interviene la morte del componente. Da ciò si evince che parlare di frattura e di fatica di un

componente rappresenta la stessa cosa, ma bisogna ricordarsi che la frattura può propagarsi anche

senza fatica, ma la fatica nasce esclusivamente in seguito all’allungamento di una frattura. E’

importante ora vedere come la frattura si propaghi per effetto della fatica (studio della propagazione

per fatica della frattura) ciò vuol dire che sotto un carico fluttuante (affaticante) si nota che la cricca

pian piano cresce con velocità sempre crescente fino a che si determina la rottura del componente (

poiché si è arrivati alla lunghezza critica); si precisi anche che più il componente è spesso più è

veloce la propagazione della frattura. Negli ultimi tempi le tecniche di prevenzione delle cricche

hanno fatto passi da gigante e quindi è possibile ricavare le curve di propagazione delle cricche e le

curve della resistenza residua anche tenendo conto delle capacità del particolare metodo di

rilevamento della cricca. In figura 2 slide 35 è rappresentato il sistema di calcolo del criterio feel

safe, cioè il componente deve essere sicuro anche quando è rotto; si supponga che a un certo istante

iniziale si verifica una cricca e che si propaghi fino al tempo b e cioè fino a quando la resistenza

residua è scesa troppo (limite di non sopportazione). L’intervallo tra a e b è l’intervallo nel quale

bisogna concentrare tutti gli interventi di manutenzione allo scopo di rintracciare la cricca e

eliminarla. Si precisi che questo metodo non va molto bene perché man mano che ci si avvicina alla

vita finale del prodotto, l’intervallo a-b va rimpicciolendosi e quindi le operazioni di manutenzione

devono essere sempre più ravvicinate. Altra idea è stata quella dell’utilizzo della ridondanza che si

basava sull’utilizzo di componenti in parallelo (servono 30 chiodi?...ne metto 60! Alias two is megl

che uan…). Il difetto di questo metodo è che nel caso di rottura di uno dei due componenti, l’altro

doveva sopportare il 100% del carico all’improvviso, fino a non utilizzare più questo metodo: oggi

si utilizzano maggiormente verso progetti damage tolerance, verso strutture che sono capaci di

sopportante il danno entro una certa entità stabilita (simile al feel safe) e quindi si è dovuto

introdurre una politica di manutenzione atta a non raggiungere alla rottura del componente a causa

del raggiungimento di questa entità.

Lezione del 22/02

Sotto carichi affaticanti, in generale vi è un aumento della lunghezza della cricca e tale aumento

dipende ad esempio dallo spessore della piastra: si vede che man mano che lo spessore è maggiore,

la propagazione della cricca è più veloce (figura 1 slide 35 sotto carico alterno simmetrico). Il tutto

dipende anche dai livelli di carico: nella slide 36 figura 1si nota che a livelli di carico maggiori

corrisponde una più veloce propagazione della cricca. In figura 2 invece si comincia ad avvicinarsi

in modo più attuale allo studio di propagazione della cricca in cui il numero di cicli e la lunghezza

della cricca sono rappresentati mediante diagrammi bilogaritmici tutto ciò in funzione delle grandi

variazioni che si hanno nel tempo e quindi a parità di lunghezza di cricca occorre un numero di cicli

minore all’aumentare del carico. Un’osservazione da fare è che invece di confrontare le lunghezze

con la durata calcoliamo le velocità di propagazione in termini di da/dN quindi come allungamento

per ciclo, vediamo che questa velocità non dipende molto dalla lunghezza della cricca, ma dipende

dal SIF: se si fa un diagramma bilogaritmico sulle cui ordinate ci sono le velocità di propagazione e

sulle ascisse le variazioni del SIF nel ciclo io ottengo una dipendenza lineare (figura 3): il deltaK si

spiega perché, considerando un ciclo, ci sono dei valori minimi e massimi della sigma che portano a

un SIF minimo e massimo; altra cosa da osservare è il fatto che il deltaK per un determinato carico

cambia perché varia la lunghezza della cricca a. In realtà questo diagramma rappresenta solo una

parte del comportamento generale che è mostrato in figura 4, dove la figura 3 rappresenta la parte

centrale della curva e vi è un deltaK al di sotto del quale la propagazione non avviene dal momento

che la velocità è quasi nulla. Quindi se il carico è quasi statico, deltaK molto basso (o per basso

livello di carico o per valori vicini di K massimo e K minimo e quindi sigma), non vi è

propagazione della cricca: tale valore prende il nome di deltaK di soglia. All’altro estremo vi è un

deltaK per il quale la velocità diventa infinita ed è il deltaK massimo è uguale alla tenacità e cioè la

propagazione si stabilizza e la frattura si acutizza. Per quanto riguarda il tratto centrale rettilineo, la

37

formulazione utilizzata è la legge di Paris-Erdogan in cui C e n sono due parametri che dipendono

esclusivamente dal materiale. Il primo difetto di tale legge è che considera solo il tratto rettilineo e

non tiene conto della variazione di R che sposta le curve velocità di propagazione che

sostanzialmente si spostano soltanto senza deformarsi (figura 1 slide 38) e più mi riporto a carico

statico più ci si sposta verso sinistra. Sono quindi state proposte soluzioni alternative per quello che

riguarda la legge di propagazione e una delle più celebri è quella di Forman, che si differenzia al

denominatore dove compare la differenza tra la tenacità e il K max del ciclo che dimostra che se ci

si avvicina nel ciclo alla tenacità, la velocità di propagazione della cricca, schizza; c’è inoltre il

termine (1-R) che tende a rappresentare l’effetto di spostamento della curva. Nel tentativo di trovare

altre rappresentazioni, ci si è imbattuti in un fenomeno particolare. In figura 1 slide 39 si nota come

propagherebbe la cricca sotto carico S1 e analogamente sotto carico maggiore S2. Ovviamente se

l’elemento è sottoposto prima a un certo numero di cicli di un carico e poi si passa a un altro livello

di carico, la curva di propagazione dipenderà da come ci si alterna e cioè con quale ordine si

applicano i carichi (fig 1-d: si applica prima il carico S1 e poi si traccia la parallela al carico S2 a

fine ciclo, il contrario in figura 1-e). Questa analisi rappresenta la legge di accumulo del danno

attraverso l’analisi della propagazione della frattura. Supponiamo di voler seguire la curva di

propagazione di una frattura sottoponendola a un carico ciclico uniforme si ottiene così la parte

tratteggiata di figura 2; ad un certo punto siccome si stava studiando come l’interazione dei cicli di

carico influisse sulla velocità di propagazione si pensò di fare un ciclo molto più violento e si notò

che la velocità di propagazione si abbassò; nel caso c il rallentamento è ancora più evidente dal

momento che si considera un ciclo tutto positivo. In figura 3, si nota che togliendo i carichi più

gravosi la durata aumenta. Anche se tale fenomeno è strano, esso spiega il fenomeno del Load

Interaction (soprattutto dal confronto tra le curve B e C di figura 2) dipendente dall’effettiva

successione dei diversi cicli di carico riguardo al fenomeno di propagazione della frattura e quindi

della fatica. In figura 1 slide 40, è rappresentata la differente propagazione chesi ha in caso di

sovraccarico a parità di ciclo e nel secondo caso si nota che il grado di rallentamento è molto più

sensibile ed il tratto rettilineo può essere anche molto lungo, segno che la cricca rimane costante nel

tempo oppure ha una pendenza bassissima e cioè un forte rallentamento della velocità di

propagazione. In seguito si applicò un secondo overload per voler vedere cosa succede quando la

distanza in termini di tempo tra gli overload varia. L’azione ravvicinata tra due overload aumentava

il rallentamento (figura 2), che era massimo per una certa distanza tra gli overload e man mano che

si allontanavano, tale rallentamento era minore. In queste condizioni la teoria alla base della

meccanica della frattura non riusciva a spiegare il fenomeno, che fu spiegato con l’introduzione

della teoria della chiusura della cricca (avanzata da Helber), la quale si basa sul principio che per

avere la propagazione di una cricca, questa si deve aprire, altrimenti è impossibile separare i lembi

della cricca. Per spiegare ciò si precisi che la meccanica della frattura parte dal presupposto che

tutto l’elemento criccato segue un comportamento lineare elastico del materiale; ciò non è possibile

perché c’è anche una zona a comportamento plastico (dipendente dall’ampiezza della cricca)

intorno all’apice. A tal punto l’ipotesi avanzata da Helber è che la cricca genera una zona plastica

sul fronte che è circondata da un volume di materiale elastico che vorrebbe ritornare a deformazione

nulla e quindi il materiale elastico tende a premere sulla zona plastica per chiudere la cricca (dal

momento che il volume di materiale plasticizzato tende ad occupare uno spazio maggiore di quanto

gli compete perché è deformato). Quindi tutte le labbra della cricca sono caratterizzate da zone

plasticizzate che il volume elastico circostante tende a chiudere. Più è elevato il carico e più grande

è la zona plastica che si forma e maggiori saranno le azioni di chiusura determinate dal materiale

elastico circostante. L’overload quindi creando una zona plastica notevole rallenta la propagazione

della cricca e ciò non cambia fino a quando non arriva un nuovo carico che riesce a superare il

precedente. La chiusura della cricca può essere determinata anche da difetti di corrosione che

creano delle sfaldature superficiali che vanno a incunearsi nelle labbra e impediscono la

propagazione (figura 3). Una volta capito il meccanismo della chiusura sono stati proposti molti

modelli per l’interpretazione e previsione della durata di un componente criccato e tra questi si

38

ricorda quello di Wheeler: supponiamo di avere una cricca di lunghezza a0 che viene colpita

dall’overload che introduce una zona plastica di diametro rp0 (figura 2, slide 41). Si vede che dopo

molto tempo questa cricca è avanzata con fatica fino a una lunghezza ai e sotto il carico abituale si

formerebbe una zona plastica di lunghezza rpi più piccola, in altre parole si forma una zona plastica

completamente contenuta in quella precedente. Con l’aggiunta di un secondo overload, la zona

plastica formatasi in seguito a questo, si sposta verso destra uscendo dalla zona plastica dovuta al

primo overload. In altri termini sotto la cricca di semilunghezza a0 è arrivato un overload, si è

formata una zona plastica di ampiezza rp0. Se la nostra cricca ha lunghezza ai, il raggio plastico

corrispondente avrà ampiezza rpi, valori ottenuti dalle formule sotto la figura 1. Il fenomeno del

ritardo, dovuto a una lentissima propagazione, finchè lambda sarà maggiore di rpi. L’idea di

Wheeler fu che la propagazione poteva essere studiata in modo da assumere che finchè la cricca si

propaga tutta all’interno della zona plastica prodotta dall’overload precedente, si propagherà con

una velocità più bassa pari a φ volte quella velocità che si aveva in assenza di ritardo. Da tale analisi

ciò che deve risultare chiaro è che finché non si considera la load interaction, cioè non si

considerano fenomeni di ritardo, si va a integrare la legge di Paris e si risolve per via differenziale

l’equazione; al contrario, considerando il ritardo, si deve procedere solo per via sperimentale

analizzando ciclo per ciclo per vedere quand’è che si forma il raggio plastico più grande, quando si

verifica la chiusura della cricca. E’ evidente quindi che lo studio della propagazione deve essere di

tipo numerico. La rivoluzione in questi modelli fu rappresentata dallo strip yeld method da

Newmann, che aveva fatto un modello il più possibile completo: questo rappresentava una sorta di

elementi finiti in scala ridotta nel senso che diceva che davanti alla cricca c’erano degli elementini

di materiale plastico, barrette, fino alla fine della zona plastica: si poteva dividere tutta la zona in

una parte elastica (regione 1 slide 42), una parte plastica (regione 2 sul fronte dell’apice della

cricca) e una parte plastica (regione 3 sulla scia). Newmann si trovò a calcolare quale doveva essere

il carico minimo per il quale le labbra della cricca si aprivano; introdusse i concetti di opening stress

e opening SIF (Sif che si determina in condizioni di incipiente apertura) con l’idea che se il ciclo

che sta per arrivare produce uno stato tensionale minore di quello necessario per determinare

l’apertura della cricca non viene proprio considerato, poiché non può produrre la propagazione della

cricca. Il modello è nettamente diverso da Wheeler perché andiamo a determinare oltre al raggio

plastico, se il carico riesce a determinare l’apertura o meno. Da ricordare è anche il modello Nasgro

dalla quale si ricava una legge di propagazione che richiede una conoscenza notevole di costanti del

materiale e questo è il motivo per cui si può utilizzare solo in pochi casi. La legge utilizzata è simile

a quella di Paris:da questa nuova legge si evince che se il deltaKth è maggiore del deltaK non si può

avere propagazione (tenendo conto del primo tratto della curva di propagazione), analogamente al

termine elevato alla q (che tiene conto dell’altro tratto); inoltre tiene conto di R e del ritardo,

quantità (1-f) dove f è il rapporto tra il SIF all’apertura della cricca e il SIF massimo del ciclo e

dipende dal Plastic Constraint Factor PCF, dalla sigma massima del ciclo e dalla tensione di

scorrimento plastico. Il deltaKth è considerato rispetto a valori sperimentali (nella slide vi è

l’esempio con R=0) e al suo interno è presente il termine a0 che è un fattore di correzione per le

piccole crepe. In alternativa al Nasgro, esiste anche ilmodello Willenborg, simile a quello di

Wheeler. Questo modello considera il progredire della plasticizzazione in modo molto accurato: è

fondamentale che anche in questo modello se la zona plastica sta all’interno della zona plastica

dovuta ad un overload, la velocità di propagazione è più bassa di quella che normalmente si

avrebbe; la seconda cosa è che il valore di R utilizzato per poter scegliere la curva da/dN in

funzione di deltaK è un R modificato, poiché non è sigma massimo/sigma minimo, ma è funzione di

k (dove compare la radice di sigma) e inoltre dal fatto che per tenere conto che c’è stato un

overload, willenborg introdusse un R effettivo che considerava i k ridotti di quello chiamato da lui

K residuo, dovuto al ciclo di overload verificatosi. Tutto si risolve con il calcolo di questo SIF di

ritardo (kr). A tal punto si introduca il valore Zol che rappresenta il raggio plastico dovuto ad un

overload in cui compare il K massimo dell’overload, la sigma di snervamento e il PCF per

l’overload. Dopo che è passato un certo periodo dall’overload, la cricca si è propagata di delta a

39

(figura 2-slid 44), quindi (Zol-delta a) è la lunghezza che si deve ancora percorrere per uscire: per

ottenere il K necessario per uscire da questa zona, bisogna riferirsi al primo termine della relazione

di Krw. In funzione di quest’ultimo si tiene conto del Kth e dello Shut-off (RS0) (inteso come

condizione di sicurezza oltre la quale non si recupera), per definire una quantità proporzionale per

ottenere il SIF di ritardo sfasato di Њ. A questo punto si trattino le piccole crepe e si precisi che si

inizia a trattare una cricca in ambito strutturistico quando la sua lunghezza è un decimo di

millimetro. E’ interessante interessarci alle piccole crepe perché sono l’inizio di grandi crepe e

quindi danni maggiori. Se si pensa di applicare la legge di Paris alle piccole crepe, si sbaglia perché

le piccole crepe si comportano in modo completamente diverso da quello finora trattato. In figura 1

slide 45 vi è un classico esempio di crepe lunghe e piccole: queste ultime sono rappresentate come

delle sfrangiature e se si studiano più da vicino ci si accorge che le piccole crepe si propagano anche

per deltaK minori al deltaK di soglia(figura 2) e che le piccole crepe si propagano con velocità

maggiori di quelle che competerebbe loro a parità di SIF. Si precisi che la velocità della piccola

cricca che sta diventando grande è in generale una curva decrescente (figura 3): tale riduzione può

sfociare in un arresto e la cricca non si propaga più o può riprendersi man mano che aumenta il

ciclo di carico e la cricca quindi diventerà lunga e il suo comportamento sfocierà nella curva

principale corrispondente al comportamento delle cricche lunghe. Un criterio molto chiaro per lo

studio delle piccole crepe è stato proposto da un indiano il quale ha proposto uno studio

biparametrico: la propagazione dipende oltre che dal deltaK, anche dal K massimo cioè dal valore

massimo del carico che si ha nel ciclo puntualizzando che in caso di piccole crepe è preponderante

l’influsso del K max dal momento che dipende dalla singolarità mentre man mano che ci si

allontana dalla singolarità e la cricca si allunga, diventa preponderante l’influsso del deltaK. Il

problema principale è fare un calcolo a durata sulle piccole crepe e a risolvere ciò ci ha pensato un

arabo (Saddam Lebbiolao) aumentando la lunghezza fittizia della cricca. L’ottica con la quale si

guarda tutto il problema oggi risulta alterata dal momento che si suppone che in un componente

meccanico siano presenti già al suo interno piccole crepe e che con varie storie di sollecitazioni a

cui è sottoposto molte di queste piccole crepe tendono a crescere. Gli studi condotti sulla

propagazione delle piccole cricche intorno agli anni ’70 ed erano fondamentalmente di natura

statistica dal momento che si sollecitava un provino e ci si focalizzava su una cricca qualora

nascesse e fosse individuata e ne si seguiva la propagazione nel tempo, tracciando così la curva di

propagazione e ricavare al parametro C e n della legge di Paris, diversi per ognuna delle cricche.

Successivamente hanno potuto registrare per ogni cricca l’istante al quale la lunghezza di cricca

arrivava a un certo valore. In figura 1, slide 46, la lnghezza di cricca a cui sono arrivati è pari a 1,25

mm e hanno registrato il tempo necessario (in cicli o ore) a ciascuna cricca per raggiungere questa

lunghezza. In questa maniera si è potuto rintracciare la curva di distribuzione nel tempo affinchè la

cricca arrivasse alla lunghezza di 1,25mm (curva TTCI): tale curva presuppone il fatto che una

cricca è presente nel componente se ha una lunghezza di almeno 1,25 mm. Chiarendo meglio la

TTCI è una curva che indica la distribuzione dei tempi necessari ad avere una certa lunghezza, ma

tale distribuzione si ottiene seguendo la propagazione delle cricche: allora se si prende un C medio e

un n medio e si arriva all’istante t=0 partendo dalla distribuzione TTCI, si definisce qual è la

probabilità che in tale istante ci fossero cricche delle lunghezze di figura 1. Tale distribuzione

prende il nome di EIFSD. Si può fare anche una distribuzione simile fissando un tempo e

analizzando la distribuzione dei difetti che si possono avere dopo un certo tempo a partire

dall’EIFSD. In questo senso l’idea dell’EIFSD è legata strettamente alla qualità del prodotto. Tale

metodo però per un certo periodo è stato accantonato perché si era incapaci di generalizzarlo a

causa della forte dipendenza dai provini. Nell’ultimo periodo c’è invece un ritorno a questo metodo

per la progettazione in campo aeronautico oltre a poter prevedere in parte la propagazione dei difetti

per calcolare i tempi di manutenzione.

In fede

Alessandro Soprano

40

Capitolo IX: Piastre e Gusci

Piastre

Cosa sono le piastre? Sono un segnale della nostra insufficienza.

Abbiamo studiato le travi, l’uomo ha immaginato questa struttura nel dominio elastico lineare

scrivendo tutte quelle “belle” equazioni che conosciamo. Ora si tratta di applicarle.

Ha preso un elemento di tipo particolare, ha idealizzato questo elemento e la chiamato trave.

Io ho a che fare con un elemento che chiamo trave quando una delle dimensioni è prevalente

rispetto alle altre due. È nata in questa maniera tutta la teoria della trave della quale siete maestri.

Passiamo ora a generalizzare. Se pensiamo ad un solido tridimensionale qualsiasi non abbiamo

niente da dire, dobbiamo utilizzare le equazioni di equilibrio e le equazioni di congruenza nelle loro

forme generali e le dobbiamo risolvere, non c’è niente di particolare da dire.

Ci potrebbe essere qualcosa di interessante nello step intermedio.

Nella trave, una dimensione è prevalente rispetto alle altre due, nel tridimensionale nessuna

dimensione è prevalente rispetto alle altre, rimane quella nella quale due dimensioni sono prevalenti

rispetto alla terza oppure una trascurabile rispetto alle altre due. Qualsiasi elemento che corrisponde

a questa idea noi lo chiamiamo piastra.

Vogliamo che sia piana, ma non diciamo nient’altro.

Il problema è più complicato di quella di una trave? No, teoricamente no, la cosa che cambia è

invece di avere una variabile quella sulla lunghezza della trave, ne avremo due una sulla lunghezza

e una sulla larghezza, avremo una x ed avremo una y. Apparentemente il problema è questo, e

quindi sembra assolutamente inesistente, in pratica il fatto che ci siano delle variabilità anche in

direzione trasversale fa sentire la propria influenza sullo stato di sollecitazione all’interno e

soprattutto sullo stato di deformazione a secondo che siano infiniti o meno gli spostamenti

trasversali la cosa diventa più complicata.

Tanto più complicata che a mio sapere, soluzioni chiuse sulle piastre non esistono.

Il metodo principe di soluzione delle piastre è lo sviluppo in serie di Fourier doppia una in una

direzione ed una in un'altra direzione, questo fa si che diventa odioso l’impiego, lo studio delle

piastre.

Proprio per le piastre sono stati dedicati metodi numerici tipo quello alle differenze finite, che da

sempre è stato utilizzato per l’analisi di paratie di setting ed eccetera. Adesso tra gli elementi finiti

ed eccetera, l’efficacia delle differenze finite si va perdendo.

In ogni caso quello che dobbiamo tenere presente, che sostanzialmente noi ci mettiamo a parlare

stamattina di un nuovo elemento, questo elemento è un elemento comunissimo nella pratica.

41

Il tavolo è una piastra, il solaio è una piastra, la pista di atterraggio di un aeroporto è una piastra il

tetto di una casa è una piastra, qualsiasi elemento bidimensionale è una piastra, sarà una piastra

sottile, sarà una piastra spessa, è una piastra! Nemmeno i civili hanno a che fare con travi e piastre

una continuazione, noi abbiamo normalmente a che fare con una sottospecie cioè con qualcosa che

è ancora più complicato cioè le piastre curve.

Allora vi illustrerò stamattina quali sono i modi di reagire usati per le piastre, poi in realtà vi dirò

qualcosa in merito al metodo di Navier, che è molto semplice e vi fa capire qualcosa, il metodo di

Levy non ve lo illustro proprio, mi interessa molto più il problema fisico che le peculiarità di tipo

analitico.

Esistono due trattazioni per le piastre:

1. la trattazione delle piastre circolari

2. la trattazione delle piastre rettangolari

Sono le stesse, cambia solo il sistema di riferimento che utilizziamo, parliamo in termini di

coordinate polari o in termini di coordinate rettangolari, è ovviamente lo stesso problema.

Utilizziamo come riferimento un riferimento che abbia l’origine nel piano x-y coincidente con il

piano medio della piastra, abbiamo lo spessore della piastra h ci mettiamo ad h/2 e abbiamo quello

che chiamiamo il piano medio.

La piastra avrà due lati a e b, l’asse z sarà perpendicolare al piano medio e diretto in modo tale da

rendere nevrogila la terna x-y-z.

Le ipostesi di base che noi utilizziamo per lo studio di una piastra e come la solito che il materiale

sia isotropo omogeneo lineare elastico, poi abbiamo delle idea che ci provengono dalla teoria delle

travi, per esempio nella teoria flessionali delle travi noi abbiamo che l’asse baricentrico era l’asse

neutro della trave, cioè era indeformato, poteva cambiare la sua configurazione ma l’ ε era nulla,

non c’era nessuna deformazione, allora, in questo caso, noi diciamo che il piano medio resta

indeformato flessionalmente, per flessione, poi potremmo avere degli sforzi normali che me lo

deformano, ma altrimenti agli effetti flessionali è indeformato.

42

Nella trave di Bernoulli, le sezioni rette dopo la deformazione continuavano ad essere normali

all’asse neutro, solo con la trave di Timoschenko che abbiamo la presenza del taglio. In questo caso

vale Bernoulli, diciamo che sono nulli, sono trascurabili gli effetti del taglio trasversale, cioè

diciamo che il taglio trasversale ci può essere però il suo effetto è praticamente trascurabile.

Nella trave le tensioni erano tutte nella sezione o perpendicolari alla sezione, ma

perpendicolarmente al piano neutro non avevamo tensioni, qua diciamo la stessa cosa, ovviamente,

diciamo perpendicolarmente al piano medio non abbiamo tensioni e quindi lo stato tensionale è

piano, questo ci induce a ritenere che lo spessore più è piccolo e meglio è, questo ci porta verso la

teoria delle piastre sottili.

In realtà c’è un’altra considerazione che noi facciamo, cioè riteniamo che lungo lo spessore della

piastra non ci siano variazioni nello spostamento normale, nello spostamento lungo z, in modo tale

da dire che non ci sono assottigliamenti, né variazioni di spessore perché lo spessore è sempre lo

stesso. Questo fa si, è molto importante, ci consente agli effetti dell’abbassamento di calcolare

soltanto quello che avviene sul paino neutro, perché tutto quello che avviene al di fuori del piano

neutro, per quello che riguarda lo spostamento lungo l’asse z è insignificante.

Questa relazione vale soltanto per quello che riguarda lo spostamento lungo z, non possiamo

trascurare invece l’intensità dello spostamento per quello che riguarda le altre due componenti dello

spostamento, la u e la v.

Infatti se abbiamo un punto che si trova a distanza z dal piano medio che è deformato, questo piano

medio cosa fa? Si abbassa e si deforma, e quindi finché si abbassa soltanto è ancora diretto

verticalmente, poi se il piano z si deforma, poiché gli effetti del taglio trasversali sono trascurabili,

quindi le sezioni rette continuano ad essere perpendicolari alle deformazioni, si ha anche una

rotazione.

Allora supponiamo che la rotazione sia di φ nel piano x-z e sia α nel piano y-z, noi abbiamo la

doppia deformazione, procedendo per sezioni, nel piano x-z e nel piano y-z, in direzione

longitudinale e in direzione trasversale.

È facile vedere, io avrò uno spostamento trasversale che sarà

e uno spostamento longitudinale pari a

Come spostamenti paralleli alla superficie media.

43

Se poi lungo la superficie media, nella superficie media agiscono dei carichi da sforzo normale o da

altro che mi producono uno spostamento omogeneo per tutto il piano u0 e v0 ecco che le componenti

di spostamento saranno:

[u0] da sforzo normale [– z senφ] da sforzo flettente, taglio, tutte le caratteristiche varie che non

giacciono nel piano medio e lo stesso nell’altra direzione.

Quindi possiamo definire tutte quante le tre componenti di spostamento

Di solito queste relazioni sono relazioni che non utilizziamo, perché in realtà esprimiamo un legame

con la w, cioè esprimiamo la φ e la α come una funzione di w.

Infatti è facile vedere che

E

Per cui la forma abituale con la quale studiamo le componenti di spostamento è questa:

, componenti di deformazione membranali

, componente di deformazione flessionale

00:17:30

Vediamo che noi prevalentemente non saremo assolutamente interessati a u0 e v0, la presenza di

sforzi nel paino medio mi determina uno sforzo normale, mi determina un allungamento uniforme

in una direzione o nell’altra direzione, quello che mi interessa sono gli effetti flessionali. Vediamo

che tutti gli effetti flessionali sono esprimibili in termini della sola w, dell’unica componente di

spostamento perpendicolare, in direzione perpendicolare alla iniziale configurazione del piano

medio. Infatti una volta note le componenti di spostamento posso, evidentemente, ricavarmi le

deformazioni.

Allora

44

x

wz

xu

xu

xx 0 e chiaro che 0

z

x perché siamo in un riferimento cartesiano

ortogonale

e quindi

Allo stesso modo per la deformazione lungo y

Per la deformazione lungo z, io me la devo calcolare tenendo conto che ci troviamo in uno stato

piano di tensione, quindi

Ovviamente le stesse ε me le potrei calcolare in maniera geometrica, ricorrendo alla solita

definizione del raggio di curvatura e quindi ecco la dimostrazione che utilizzando la definizione di

Ed ecco che la

Ovviamente è una fatica inutile perché non ci interessa.

Lo stato è tensionale piano per cui avremo le seguenti relazioni tra le componenti di deformazione e

le componenti di tensione

45

Invertendo queste relazioni, ed esprimendo le componenti di deformazione in funzione della w, e

delle derivate di w, ottengo queste che sono le classiche rappresentazioni delle tensioni nel caso di

una piastra.

Come vedete esprimo le componenti di tensione attraverso le derivate degli spostamenti.

Il motivo, come vedremo tra poco, è che operando in questa maniera le equazioni di equilibro

diventano una equazione in w, e quindi lo studio dell’equilibrio della piastra si riduce allo studio di

una equazione differenziale del quarto ordine in w (w componente di deformazione).

Questo è il motivo per cui esprimo le tensioni in funzione degli spostamenti, cosa che di solito non

facciamo, qua ne abbiamo una utilità particolare.

Adesso dobbiamo introdurre quella che sostanzialmente è una notazione, è una notazione dovuta a

Timoshenko, che ha fatto tante cose belle, qualcuna la sgarrata, secondo me questa è una di quelle

che ha sgarrato alla grande, però grazie alla sua personalità e quella che si utilizza sempre.

Ha sgarrato perchè ha creato una tale confusione di notazione che è contraria a quello che

spontaneamente saremmo portati ad utilizzare.

In realtà sappiamo benissimo che le componenti di sforzo interno, sforzo normale, taglio, momenti

ed eccetera, si ottengono semplicemente integrando il diagramma delle tensioni corrispondenti, in

modo per esempio, da ottenere risultante il momento risultante delle forze elementari dovute alle

componenti elementari.

Allora, la prima cosa che Timoschenko ha detto è stata molto giusta, normalmente noi abbiamo a

che fare con piastre di spessore costante, ho una piastra e in tutti i punti della piastra lo spessore è

costante, allora se abbiamo devo fare un integrale, per esempio di una forza elementare σdA, lo

dovrò fare esteso a una superficie, e siccome se io prendo la piastra tutte queste tensioni agiscono

nella sezione retta della piastra, cioè una sezione rettangolare che ha per altezza lo spessore che è

uniforme e per larghezza ha la larghezza del lato della piastra. È inutile quindi che io mi porto

dietro le tensioni che poi devo integrare, io mi faccio direttamente l’integrazione delle tensioni

rispetto allo spessore, perché quella parte dell’integrazione sarà sempre la stessa, poi ci sarà una

variazione di questo sforzo lungo il lato, però metà problema già me lo sono risolto.

Allora per esempio nel momento in cui, io ho la σx, la σx agirà su una faccia che sarà h per Δy, mi

sembra che l’abbiamo chiamata B il lato lungo y.

Allora lo sforzo normale non è altro che la risultante delle forze elementare σdA, dA sarebbe h per

dx, e quindi praticamente H tutta quanta sarebbe dz per dy. Allora mi incomincio a fare l’integrale

di σ in dz e pi rimane ancora l’integrazione rispetto alla y.

46

Cosa vuol dire questo? io sto dicendo che lo sforzo normale che è applicato su quella faccia è pari

Nx in una striscietta unitaria.

Allora Nx non lo posso chiamare sforzo normale, perché? Facciamo l’analisi dimensionale,

[N/mm^2 per mm] non hanno dimensioni di Newton ma di N/mm. In questa maniera mi lascio

aperta la possibilità di avere una Nx che varia lungo y.

Allora queste quantità, che si ottengono utilizzando le risultanti e i momenti risultanti delle forze

elementari lungo solo lo spessore, non posso chiamarle caratteristiche degli sforzi interni e le

chiamo risultanti delle tensioni.

Allora questo dovuto a Timoschenko ha permeato la cultura planetaria, per cui quando si parla di

piastre, ben difficilmente sentiremo parlare di tensioni ma normalmente sentiremo parlare di

risultante delle tensioni.

Chi mi ha insegnato la costruzione di macchine era un grande nemico di questo, per cui ci insegno

gusci e piastre tutto in termini di tensione, appena uscimmo dalle aule non capivamo niente perché

tutto il resto del mondo parlava un’altra lingua, parlava in termini di risultante delle tensioni.

Allora questa idea di Timoschenko è stata sicuramente buona, ma questa è la prima parte dell’idea,

dove se scese è stato sulla seconda parte dell’idea. Perché sulla seconda parte dell’idea lui ha detto

come li rappresento come notazione tipica le grandezze che mi sono calcolato? Le rappresento con

lo stesso pedice delle tensioni dalle quali sono partito e qui ha fatto uno di quegli imbrogli forti,

brogli nel senso di confusione.

Perché se io considero per esempio Nx, allora questa σx che è per perpendicolare alla sezione retta

y-z ed è diretta lungo x, Nx è diretta lungo x. Ok!

Andiamo sui momenti. Perché sulle forze non lo vediamo.

Mx non è altro che il momento della σx rispetto al piano medio e questo momento è un vettore che

è diretto lungo y però io lo chiamo Mx, facendo riferimento non alla sua direzione ma alla

componente di sollecitazione che lo ha determinato. Questo finchè uno non si abitua è un incubo!

Sostanzialmente abbiamo

Che sono entrambi flettenti, ed abbiamo

47

Che è un momento torcente, nell’una e nell’altra direzione; in questo caso i due momenti sono

uguali, perché la tauxy e la tauyx sono uguali. Quando ci troveremo a parlare delle piastre curve,

poiché le sezioni sono diverse anche se tauxy e tauyx sono uguali, Mxy e Myx non sono uguali

perché sono riferiti a sezioni di tipo diverso. 00:30:40

Evidentemente la prima cosa che dobbiamo fare è scrivere le condizioni di equilibrio di questa

piastra, per cui prendiamo una rappresentazione del piano neutro

E andiamo a rappresentare non le tensioni, ma andiamo a rappresentare direttamente le risultanti

delle tensioni, in modo tale da non pensare più all’influenza dello spessore.

Allora avremo due tagli che da una parte saranno Qxz e Qyz e dall’altra parte saranno per

l’equilibro

Perché devo considerare l’incremento che debbo avere lungo il lato

00:31:30

E così sia per i tagli che per i momenti

Ovviamente anche per gli sforzi normali, però in generale gli sforzi normali in questi casi noi non li

prendiamo mai in considerazione, li trattiamo separatamente, perché non danno un contributo

notevole allo stato tensionale, non hanno nulla di particolare da dire: Nx mi dà una σx che è un εx

moltiplicato per E modulo di Yang, o è trave o è piastra, non è cambiato assolutamente niente.

Allora siccome non si hanno termini di accoppiamento tra sforzi normali e momenti mentre li

abbiamo tra tagli e momenti, allora noi tutto quello che è sforzo normale chiamiamo sforzi nel

piano medio, poi vedremo che a un certo punto noi li chiameremo sforzi membranali, cioè nel piano

del momento, e consideriamo soltanto la strizione. Lo stesso avviene quando abbiamo a che fare

con gli elementi finiti, negli elementi finiti esistono gli schell e i plane, la differenza tra i due che

uno resiste a sforzi nel piano e il plane resiste agli sforzi taglianti. Ricordo quando uscì il Nastran,

aveva gli elementi membranali, gli elementi flessionali e poi aveva la somma dei due quindi

reagivano sia nel piano medio sia a flessione e a taglio.

48

Dopodichè io dovrò evidentemente scrivere le equazioni di equilibrio di questa piastra elementare

per ottenere le equazioni indefinite dell’equilibrio della piastra, cioè le equazioni di equilibrio che

devono essere valide in qualunque punto della piastra con riferimento ad una superficie elementare

ad un volume elementare.

Allora potrò scrivere l’equazione di equilibrio lungo z,

Le equazioni di equilibrio lungo x e lungo y è inutile scriverle, significa scrivere Nx=-Nx e Ny=-Ny

Quindi dovrò scrivere le equazioni di equilibrio alla rotazione, una la posso scrivere intorno all’asse

baricentrico parallelo ad x

L’altra intorno all’asse baricentrico parallelo all’asse y

È molto semplice scrivere queste equazioni, ovviamente l’equazione di equilibrio lungo z mi

compariranno anche i carichi esterni che io ritengo essere normali alla superficie, quindi se mi

danno un carico per unità di superficie pari a p, sull’elementino agirà una pdxdy

Alla fine io ottengo tre equazioni di equilibrio, queste sono le tre equazioni indefinite dell’equilibrio

relative ad una piastra di spessore h caricata normalmente.

Ho un equazione di equilibrio alla traslazione lungo z, che come vedete, comprende soltanto i tagli

e il carico esterno e poi due equazioni di equilibrio alla rotazione nelle quali compaiono un

momento flettente, un momento torcente ed un taglio, sia l’una che l’altra.

Noi mi interessa portarmele appresso tutte e tre, preferisco ridurla ad una sola. Mi ricavo una

componete Q, da

E analogamente farò per questa

E me le vado ad inserire nella prima equazione di equilibrio alla traslazione lungo z

49

In questo modo ottengo un'unica equazione di equilibrio alla traslazione lungo z che

automaticamente soddisfa le altre due equazioni di equilibrio alla rotazione e che è espressa in

termini delle risultanti delle tensioni che danno luogo a momenti

Si parla di momento unitario, tenendo presente che ciascuna di queste grandezze ha anche taglio

unitario, ciascuna di queste grandezze in realtà potrebbe avere per unità di lunghezza, per una

lunghezza unitaria, in realtà parliamo di momenti per lunghezza unitaria.

Allora qui compaiono sia i carichi esterni, sia i due momenti flettenti, sia i momenti torcenti.

Come possiamo trasformare questa equazione?

Prendiamo per esempio Mx,

Mx è il momento unitario che proviene dalla σx e quindi è diretto lungo y, la σx io lo già espressa

attraverso le componenti di spostamento

Quindi w non cambia lungo lo spessore, è uguale alla w0, l’integrale di w dx non influenza la

derivata, e la variazione lungo la derivata me la da z che sta fuori quindi viene

123

32

2

32

2

2 hzz

h

h

h

h

Per cui ogni volta che voi avete a che fare con una piastra comportamento flessionale vi compare

questo termine:

E/(1-ν^2) da questo

h^3/12 dall’integrale

50

questo è un gruppo che quando avete a che fare con le piastre vi trovate sempre davanti.

Contiene già lo spessore, l’effetto dello spessore già sta lì.

Praticamente come altrove vi appuntate su un pezzo di carta il modulo di Young, quando abbiamo a

che fare con le piastre ci appuntate su un pezzo di carta il valore di D.

Allora l’integrazione si fa sentire solo fuori, con la comparsa di D

Ecco allora che Mx risulta pari a D per il contenuto della parentesi tonda.

My che è diretta lungo x sarà

Mxy conterrà la derivata mista

E poi posso ancora considerare i tagli, i tagli che non contengono la z sono pari a zero

Quindi a questo punto cosa posso fare, se io sono capace di esprimere i momenti rispetto alle w, io

introduco i valori trovati nella

Ed ottengo una equazione in w

E diventa l’equazione risolvente dell’equilibrio delle piastre sottoposte a flessione

Purtroppo non è nemmeno bi-armonica perché c’è un termine noto.

51

In alcuni casi si tenta di semplificare la soluzione di questo problema, ponendo il legame che esiste

tra la somma dei momenti flettenti e il laplaciano secondo di w

E allora si spezza il problema in due problemi

Si calcola un equazione di secondo ordine che lega la somma dei momenti flettenti al carico esterno

e poi si integra la soluzione per ottenere w, questo non lo faremo mai, ci riferiremo direttamente alla

soluzione diretta.

Questa equazione differenziale deve essere soddisfatta sempre quando abbiamo a che fare con una

piastra soggetta a flessione, in ogni punto. Rappresenta, quindi, l’equazione di equilibrio che noi

dobbiamo integrare, alla presenza di determinati carichi esterni, per ottenere la soluzione in termini

di spostamento.

Noi otteniamo, direttamente, come soluzione la deformata della nostra struttura.

Però, ovviamente, siamo già in condizione di operare questa integrazione o dobbiamo fare qualche

altra cosa?? Per risolvere un equazione differenziale devo prima dare le condizioni al contorno, se

non so esprimere le condizioni al contorno di una piastra io non risolverò mai nulla.

Le condizioni al contorno dipenderanno da come è realizzato il vincolo, dovremmo fare diverse

ipotesi, io farò tre ipotesi che sono i tre casi più comuni:

1 Bordo appoggiato

2 Bordo incastrato

3 Bordo libero

Per quanto riguarda il bordo appoggiato, se io ho una trave quali sono le caratteristiche del mio

appoggio?

Lo spostamento è nullo e il momento è nullo.

Quindi se il bordo è appoggiato x=a bordo parallelo ad y io dirò che w per x uguale ad a e per y

qualsiasi deve essere uguale a zero e che Mx (quella legata alla σx) per qualsiasi valore di y per

questo valore di x deve essere uguale a zero.

Ma Mx è uguale a

52

Se ho che w=0 sul bordo allora

Perché sono tutti fissati allo stesso valore (sul bordo x = a e y e variabile.)

Se è nullo a maggior ragione sarà nullo anche

Quindi dire che Mx uguale a zero significa dire

cioè praticamente quello che deve andare a zero è la derivata seconda di w in direzione

perpendicolare alla frontiera perché quello parallelo alla frontiera è automaticamente soddisfatto dal

fatto che w è uguale a zero.

Quindi se io devo esprimere la condizione di bordo appoggiato x=a io dirò che per x=a,

BORDO INCASTRATO

Se ho un bordo incastrato, ovviamente la cosa è ancora più semplice, perché lo spostamento deve

essere uguale a zero e l’inclinazione perpendicolare all’incastro deve essere uguale a zero. Quindi

praticamente

La differenza tra le due condizioni al contorno presentate consta solo nell’ordine di differenziazione

che li separa.

Come risulta spesso, la condizione al contorno che risulta più difficile da imporre e quella che è più

facile concettualmente. La condizione di bordo libero è quella più complicata.

Perché? Condizioni di spostamento non le posso imporre, se il bordo è libero lo spostamento può

essere qualsiasi, quello che posso dire che non ci devono essere carichi applicati perché non

avrebbero con chi andarsi ad equilibrare.

Quali sono i carichi che io ho su di un bordo?? Un momento ed un taglio.

Infatti i primi ricercatori mettevano il momento uguale a zero, non si trovavano mai; perché non si

può dire che il momento doveva essere nullo, bisogna dire che l’effetto combinato di momento e

taglio deve essere uguale a zero.

L’effetto combinato di momento e di taglio lo si esprime con V.

53

Se vediamo la sezione di estremità, io guardo lo spessore e posso schematizzarlo in tante celle, in

ciascuna celletta mi compare un certo momento torcente

Potrò discretizzare la distribuzione del momento torcente ricorrendo a questo criterio delle celle.

Per di più, queste coppie, se io non vado a vedere cosa succede nella cella ma voglio considerare la

compatibilità di ciascuna cella con quella che segue o con quella che viene prima, potrò dire che

questo momento Myx dx è una coppia ed è dovuta alla presenza di due forzette alle estremità della

cella, queste forze saranno pari al momento Myx dx diviso il braccio dx. Quindi metterò due forze

pari a Myx. Non vi fate imbrogliare questa è una coppia per unità di lunghezza cioè una forza,

anche se la indichiamo con M, il solito discorso della simbologia.

Quindi in una cella abbiamo Myx ed in quella successiva avremo dxx

MM

yx

yx

, un dx è somparso

per la riduzione.

Se consideriamo la zona di confine tra le due celle avremo, una forza verso il basso ed una verso

l’alto, la risultante sarà pari a dxx

M yx

. Questa forza deve farsi equilibrio con il taglio che è Qyz dx

00:50:30

54

Allora se io considero il momento torcente Myx che già conteneva la derivata seconda mista lo

vado a derivare rispetto ad x mi viene una derivata terza mista, poi ci vado a mettere l’espressione

di Qyz ed ecco qua cosa esce:

Allora dire che si annulla l’effetto combinato del momento torcente e del taglio significa che deve

essere soddisfatta questa equazioni differenziale

Dire che perpendicolarmente deve essere nullo il momento flettente, perché non ci sono carichi

applicati, significa che deve essere rispettata quest’altra condizione

Vediamo che esprimere una condizione di bordo libero è tutto tranne che semplice.

Sono le equivalenti di

Che abbiamo visto prima, soltanto che qui compaiono derivate terze, compaiono derivate miste,

quindi praticamente è di solito seccante realizzarle.

Allora a questo punto io vi faccio vedere semplicemente la soluzione di Navier, sulla soluzione di

Levy non ci stiamo molto perché, sostanzialmente, ci rimane poco tempo alla fine del corso.

Allora Navier ha lasciato la soluzione per serie di un problema molto particolare, cioè di una piastra

rettangolare di lati a e b, poggiata su tutti i bordi, un solaio praticamente, e caricata da un carico

uniforme.

Allora ovviamente abbiamo

come equazione di equilibrio e abbiamo le otto condizioni al contorno che sono queste che voi

vedete

55

E corrispondono alla condizione di bordo appoggiato che abbiamo visto.

Allora, Navier partì da una distribuzione del carico uniforme e poi ampliò le sue analisi ad un carico

qualsiasi purché fosse esprimibile in una serie doppia di Fourier e quindi in altri termini se ho un

carico qualsiasi lungo x potrò esprimerlo in serie di Fourier, siccome il problema è bidimensionale,

è chiaro che viene fuori una serie doppia, vuol dire che ho infinite armoniche lungo x e infinite

armoniche lungo y, in corrispondenza di una qualsiasi coppia di numeri di armoniche n ed m io avrò

un coefficiente che mi rappresenta l’ampiezza di questa armonica superficiale, non più lungo una

sola dimensione, che indico con n e m.

Qual è l’unica condizione che questo carico deve rispondere? L’unica condizione che deve

rispondere è che per x=0 ad a e per y=0 a b deve andarsene a zero, perché all’esterno non dobbiamo

avere una prosecuzione di questo carico.

00:54:50

Questa è l’espressione di una serie doppia che soddisfa questa condizione

E dallo studio delle serie doppie, in totale analogia con quelle che sono le serie semplici di Fourier,

il valore della generica ampiezza dell’armonica si può ottenere una volta nota complessivamente

l’andamento della funzione p(x,y)

Allora Navier prese questo valore di p e lo mise nell’equazione di equilibrio delle piastre e disse:

scusate, io ho al primo membro tutte le derivate di una funzione al secondo membro ho una

funzione p

che è espressa in funzione di una serie doppia di Fourier con l’ipotesi che vada a zero sui bordi, w

deve andare a zero sui bordi.

È possibile ritenere che la w sia esprimibile attraverso la stessa serie di Fourier doppia ovviamente

con coefficiente diversi? Allora lui pose w(x,y) in questa forma

56

Avendo derivate quarte e derivate miste seconde avremo sempre seno-seno in ciascuno dei termini,

allora vuol dire che io avrò seno seno sia al primo che al secondo membro e quindi potrò utilizzare

il principio di identità.

Allora se io faccio le varie sostituzioni ho

Allora io posso ricavarmi Wmn come:

Naturalmente Amn era pari a quell’integrale doppio in funzione del diagramma spaziale della p,

allora io volendo mi posso ricavare Amn direttamente dalla distribuzione delle p.

Tutto questo è molto bello, ma andate a calcolare abbiamo delle serie doppie; il problema è che se

una serie doppia converge molto rapidamente, voi i problemi non li avete, subito terminate i vari

calcoli. Ma se avete una serie doppia che converge lentamente, sono cavoli; una volta capitò che

volevo utilizzare un metodo del genere per risolvere le iterazioni tra un disco ed una corona che

stava attorno, per effetto della forza centrifuga volevo capire qual’erano l’andamento delle tensioni

lì attorno. Ricordo che me la portai al mare, presi una casa al mare, d’estate in riva al mare con mia

moglie e i bambini ed io da lontano che lavoravo a mano per trovare una soluzione, non convergeva

assolutamente ho perso tutto il mese di agosto, poi lo feci con un calcolatore, anni 70’, e vidi che se

non prendevo almeno 70 – 80 armoniche lungo x e lo stesso lungo y non potevo mai avere una

soluzione degna di questo nome.

Il problema è un problema di convergenza! Il problema di convergenza mi dice quante armoniche

mi devo portare appresso, è inutile dire che se aumentiamo di uno l’armonica, aumenta non solo il

tempo, ma la possibilità che possiamo fare degli errori, questo è uno dei motivi per i quali il metodo

degli elementi finiti è molto più utilizzato! la realtà e che i conti non li facciamo noi.

Allora questa che vediamo è la deformata della piastra di Navier

57

È una piastra appoggiata su tutte e quattro i bordi e caricata da un carico uniforme, avete in questa

maniera i diagrammi che vi danno i momenti nelle diverse sezioni, io ho fatto questi diagrammi

costruendoli per sezioni

Abbiamo l’andamento del momento che parte da zero arriva ad un massimo e poi ritorna a zero

un’altra volta che è il momento lungo y; dall’altra parte va a zero e parte da zero, l’andamento del

momento, ma per la maggior parte della lunghezza rimane costante.

Quindi valori tutti nulli lungo il bordo ovviamente e valori massimi al centro ovviamente.

Naturalmente l’idea di Navier non è cosi limitata perché ci consente anche di analizzare quello che

accade per un carico distribuito su di una parte della piastra, la soluzione ovviamente è la stessa. Il

problema è che dobbiamo, semplicemente, quando andiamo a scrivere Amn che era l’integrale

esteso alla piastra di p(x,y) per in seno eccetera, stavolta l’integrale non va esteso alla piastra ma va

esteso soltanto alla zona nella quale è applicato il carico.

Quindi se per esempio il carico è uniforme nella zona di ampiezza c per d

58

Evidentemente, l’integrale lo possiamo fare molto facilmente e quindi abbiamo la possibilità di

costruirci le varie ampiezze della risposta e come al solito ci stanno i termini che contengono il

baricentro della zona caricata e la lunghezza lungo le due direzioni della zona caricata

Possiamo divertirci, possiamo fare tendere d e c a zero, quindi le due larghezze a zero in modo tale

da capire cosa succede quando il carico è concentrato.

Ed otteniamo una soluzione di questo genere.

59

Questo è quello che ci consente l’analisi di Navier.

L’analisi di Levy è un analisi sicuramente più completa, che vi invito a leggere, a parte la

pesantezza matematica sulla quale potete sorvolare, ma praticamente mostra come è possibile

esprimere delle condizioni al contorno completamente diverse l’una dall’altra.

Quindi per esempio potete risolvere problemi con le condizioni al contorno più varie, incastrata da

due parti, libera dall’altra eccetera.

Cosa ha fatto Levy? Non ha fatto altro che prendere, è stato un secolo dopo Navier, l’equazione

Ha detto: questa è un’equazione differenziale a derivate parziali del 4 ordine avrà un omogenea

associata con un suo integrale generale e poi avrà un integrale particolare dell’equazione completa

Capiamo quale debba essere la soluzione dell’omogenea associata, soluzione dell’equazione bi-

armonica quindi già nota.

Andiamo a calcolarci quelle che devono essere le condizioni per la soluzione dell’integrale

particolare ed otteniamo una equazione simile a quella che abbiamo ottenuta nel metodo precedente,

della forma:

E le andiamo a risolvere.

L’idea che si utilizza quando si impiega il metodo di Navier assomiglia tanto al Compouding.

60

Es: Qui abbiamo appoggio, appoggio, incastro e libero

Somiglia tanto al prendere dei casi simili a quelli, o per meglio dire, simili come geometria, non

simili come condizioni vincolari e sovrapporre le soluzioni fino ad ottenere queste condizioni al

contorno.

Allora per esempio qui abbiamo tutte le parti appoggiate

Le successive sono delle condizioni dove sono applicati determinati sforzi al contorno che sono

quelli che mi devono annullare quelli che provengono dal caso precedente per ottenere le condizioni

al contorno della mia piastra

Nel secondo caso devo annullare le tensioni che mi vengono dal caso precedente per realizzare una

condizione libera

Nella terza ho libera, appoggiata, appoggiata, devo applicare quei carichi che mi devono rendere

incastrato il bordo. Quei carichi che mi devono impedire gli abbassamenti e le inclinazioni.

Quindi il caso che devo esaminare me lo sto costruendo per sovrapposizione.

61

Abbiamo visto che gli sforzi normali noi li trascuriamo, e lavoriamo sempre sui momenti flettenti e

i momenti torcenti, in realtà se w=0, teoricamente, la condizione di equilibrio nel piano medio è

questa:

Io sto prendendo in considerazione le εx e le εy, le du/dx e le dv/dy, cioè sarebbero

Se io non voglio far comparire l’accoppiamento con il comportamento flessionale devo dire che mi

trovo in un caso in cui w=0 o comunque è trascurabile.

Se è trascurabile, passando alle risultanti delle tensioni

Io ottengo due equazioni differenziali che contengono soltanto le risultanti da sforzo normale e le

risultanti da taglio che vanno a confrontarsi con i carichi, px e py che agiscono in direzione parallela

al piano, quindi non sono carichi normali sono carichi radenti la superficie superiore e per essa

quella media della piastra.

Se invece w non è trascurabile, allora sostanzialmente mi comparirà un accoppiamento con la w:

x

wz

xu

xu

xx 0

Utilizzando quest’accoppiamento si può far vedere che l’equazione di equilibrio flessionale della

piastra che noi abbiamo scritto come:

È uguale a:

Dove oltre il carico applicato ci sono anche gli sforzi agenti sul piano medio.

Questo è un fatto molto importante, in merito alla stabilità.

62

In realtà quello che è interessante da questo è che allora sulla deformazione flessionale di una

piastra gioca un ruolo importantissimo qualsiasi carico parallelo al piano medio.

Per esempio questo è il caso del carico uniformemente distribuito sulla piastra, soluzione di Navier,

nell’ipotesi in cui ci sia una Nx.

Allora vedete che una trazione nel piano medio, come è intuitivo, mi riduce gli abbassamenti

flessionali, quando si fa quel gioco con il lenzuolo con quel tipo che saltella noi stiamo facendo

proprio questo, applichiamo un carico di trazione sul bordo del lenzuolo e abbassiamo, in quel caso

si fa anche per cercare di molleggiare, però praticamente quello che importa è che l’abbassamento si

va riducendo. Quello che succede nella instabilità dei pannelli e che questa N è di compressione

allora w diventa più grande e tende ad andare ad infinito quando il denominatore della precedente

relazione va a zero e li si scatena l’instabilità della piastra sottoposta a flessione.

63

Gusci

La volta scorsa ci siamo occupati di piastre piane, e abbiamo visto che se trascuriamo le variazioni

dello spostamento lungo z nello spessore, e quindi diciamo che tutti i punti allineati sulla normale al

piano medio hanno grosso modo tutti quanti lo stesso spostamento lungo z (vi ricordo che lungo z

c’è un insieme minore della piastra, quella che abbiamo definito trascurabile rispetto alle altre due)

allora le componenti di spostamento possono essere espresse in questa maniera: vedete che abbiamo

due componenti dello spostamento U0 e V0 che sono le componenti dello spostamento nel piano

medio e queste daranno luogo a degli sforzi normali che si manterranno inalterati lungo tutto lo

spessore della piastra. E poi abbiamo altre porzioni dello spostamento che sono tutte collegate allo

spostamento trasversale Q0 dei punti giacenti nel piano medio. Queste componenti di spostamento

sono costanti nello spessore e sono parallele alle componenti di spostamento del piano medio,

incidono sulle componenti di spostamento del piano medio, quindi somigliano tanto alle epsilon di

sforzo normale. Mentre invece questa W, con tutte le sue conseguenze, nell’ipotesi che il piano

medio resti indeformato, non sono altro che le componenti che danno luogo alla lezione sul

comportamento flessionale della piastra. Oggi quindi parleremo di piastre curve e faremo una

ripartizione analoga a quella delle piastre rettangolari. Un’altra cosa che sappiamo è che lo stato

tensionale per ipotesi è piano (SPT) e che nel caso delle piastre io adopero una notazione. Il buon

Timoschenko ci fece notare che, se la piastra è a spessore costante come normalmente accade, è

inutile portarsi appresso l’integrazione sullo spessore ma è bene farla subito fin dall’inizio in modo

tale da tirar fuori l’effetto dello spessore e quindi definì queste risultanti delle tensioni che

sostanzialmente sono carichi per unità di lunghezza, quindi praticamente sono sforzi unitari e in

generale sono presenti tutte le componenti di sforzo. Avremo quindi degli sforzi normali, dei tagli,

dei momenti flettenti e dei momenti torcenti. Appena ci mettiamo a studiare le piastre ci rendiamo

conto che la loro condizione di equilibrio è definita da una equazione completa del quarto ordine e

quindi anche nel caso della semplice soluzione di Navier abbiamo dovuto far ricorso a serie doppie.

Questo spiega d’altra parte perché le piastre normalmente vengono studiate numericamente. È ben

difficile che voi possiate trovare una soluzione semplice. Le piastre rettangolari sono state

l’esempio più eclatante e diffuso dello studio del metodo alle differenze finite. L’unica difficoltà

con le differenze finite si è verificata quando non si aveva a che fare con le piastre rettangolari

perché la difficoltà è quella di applicare le differenze finite alle superfici curve. Che cos’è un

guscio? Un guscio è sostanzialmente una piastra a doppia curvatura. Quelli che ci interessano in

modo particolare sono quelli che presentano una simmetria di rotazione perché siamo interessati a

fare dei tubi, siamo interessati a fare dei serbatoi oppure un sottomarino e quindi praticamente

abbiamo a che fare con della piastre curve di piccolo

spessore che presentano una simmetria chiara di rotazione e

tra le quali prevalentemente anche i carichi hanno una

simmetria di rotazione. Questo ci comporta delle tali

semplificazione che non abbiamo più bisogno di ricorrere a

delle serie doppie ma bastano quattro conti per affrontare una

marea di casi interessanti. Ora dobbiamo capire come si

arrivi a tali semplificazioni. E allora prendiamo un elemento

di piastra curva, supponiamo che questo ha la fibra media di

lunghezza ds0, ha un raggio di curvatura rx ed è sotteso ad un

angolo dφ.

È evidente che

e se mi sposto, vedete che z l’ho messo sulla superficie

media, di z dalla fibra media l’altezza del lato che avrò sarà

64

Questo di solito lo scriviamo portando fuori rx:

Da qui già si capisce dove ci stiamo avviando perché se z è piccolo rispetto a x, rx non lo tocchiamo

e quindi si vede che tutte le semplificazioni dipenderanno dal fatto che lo spessore sia piccolo, ossia

trascurabile rispetto al raggio di curvatura corrispondente. Siccome di solito abbiamo due raggi di

curvatura lo spessore sarà piccolo quando sarà trascurabile rispetto al più piccolo dei raggi di

curvatura principali. Dopo la deformazione sarà cambiato tutto e il caso più semplice che possiamo

dire è che la deformazione sia inestensionale ossia ds0 sia sempre uguale anche se saranno cambiati

rx e φ. Evidentemente rx sarà diventato r’x e dφ sarà diventato dφ’. Se risolvo la disuguaglianza dirò

che dopo la deformazione io avrò un

e se mi sposto di z rispetto alla fibra media avrò

Dire che stiamo parlando di una deformazione inestensionale vuol dire semplicemente che io faccio

una ipotesi che ds0 e ds’0 siano uguali cioè che si sia avuta una rotazione delle facce esterne

dell’elementino come si vede in figura. E allora in questo caso evidentemente rx dφ e r’x dφ’ sono

uguali e quando io scrivo la deformazione εx , dove ho tutti i punti del mantello, io mi riferirò ,

siccome si tratta di una superficie curva, alla lunghezza d’arco e scriverò:

Quindi avrò che come al solito εx varia con lo spessore, la sua variazione lungo lo spessore dipende

dal rapporto z/rx e dipende dalla variazione dei raggi di curvatura. I segni sono così perché si parte

dall’idea che r’x sia più piccolo di rx . Per cui 1/ r’x è più grande per cui è uscito fuori così il segno -.

Nel momento in cui c’è una dipendenza di una εx da un raggio di curvatura, se vi ricordate la teoria

della trave, capite che sto parlando dei momenti perfetti. Questa deformazione inestensionale è

chiaramente legata a un comportamento flessionale della piastra curva. In generale la deformazione

non è inestensionale. Tra ds’0 e ds0 non esisterà una relazione di uguaglianza. Se voglio

quantificarla dirò che ds’0 è un quid in più di ds0. Quindi

scriverò:

dove ε1 è un allungamento nella direzione della superficie

media. Quando mi vado a calcolare la εx ecco comparire

una espressione più complicata in cui ho una deformazione

ε1 che non è uniforme nello spessore perché c’è z/rx e

questa stessa ε1, vedete mi trovo un termine estensionale ε1

e uno che è quello di prima flessionale, però in quello

flessionale ora compare anche un contributo che è quello

dell’estensibilità cioè della ε1. Ma quanto può essere

grande questa ε1? È molto piccola e quindi 1+ ε1 si può

approssimare con 1. E quindi ottengo:

65

Quindi in pratica riottengo la stessa espressione di prima e la mia ε è dovuta al termine estensionale

e a un termine flessionale. Scriverò quindi questo:

Avrò raggi di curvatura differenti e tensioni identiche. Se si tratta di una piastra sottile, quindi se z

massimo può essere trascurato rispetto al raggio di curvatura più piccolo, allora alcuni di questi

termini scompariranno e si avranno le seguenti equazioni:

ε1 è costante e χ1 è la variazione del raggio di curvatura. Stessa cosa nell’altro piano. In questa

maniera abbiamo completamente separato il caso estensionale dal caso flessionale.

Abbiamo introdotto una indipendenza dallo spessore perché praticamente è trascurabile e poiché ε1

e ε2 li vado a misurare nel piano medio e poiché rx e ry sono i ??????? di valori principali della

superficie media, io in completa analogia con quello che ho fatto per le piastre piane sto prendendo

lo studio di tutta la piastra a doppia curvatura e la sto riportando allo studio della sua superficie

media. Quindi sto facendo esattamente lo stesso percorso. Anche lì avevo la ε1 estensionale e la ε

flessionale solo che lì si trascurava la parte estensionale e qui si farà esattamente il contrario.

Parleremo solo del comportamento estensionale della superficie media. Quando potremo fare questo

diremo che il guscio ha un comportamento membranale. Un esempio di membrana sono le bolle di

sapone. Non reagiscono assolutamente flessionalmente ma reagiscono solo con degli sforzi tangenti

alla loro superficie media. Lo stato tensionale lo riteniamo piano e dalle precedenti espressioni

possiamo ricavarci le componenti di tensione:

Nel momento in cui parleremo di gusci a simmetria assiale viene meno anche la τ perché dipende da

φ e γ, lo stato flessionale lo

trascuriamo e i γ dipendono o dalla

variazione lungo l’angolo dello

spostamento radiale du/dθ e se c’è

simmetria assiale questa variazione

non ci può essere o dagli

spostamenti tangenziali perché se c’è

simmetria assiale non ci può essere

una v. L’unica componente di

spostamento che sussiste è la u,

spostamento radiale. Quando

parleremo dei gusci di rotazione in

simmetria assiale di carico, la τ sarà

zero e resteranno solo le altre due

66

componenti. Ci andiamo a scrivere le risultanti di carico e non abbiamo nessuna difficoltà a

scriverle perché le pigliamo esattamente come per le piastre piane, l’unica cosa che quando

scriviamo l’arco questo sarà (1-z/r)dz che rappresenta l’area elementare. Fatto apparire, lo facciamo

sparire subito perché sappiamo che z per noi è piccolo rispetto allo spessore e torniamo quindi ad

avere formulazioni che sono identiche a quelle che avremmo avuto nel caso delle piastre piane

anche se questa volta abbiamo dovuto introdurre questa approssimazione. Se introduciamo questa

approssimazione, piastre sottili, avremo degli sforzi normali e di taglio lungo il piano medio che

dipendono solo dalle componenti di deformazione lineari o di scorrimento misurate nel piano

medio. Abbiamo delle coppie che dipendono solo dalle variazioni di curvatura. Quindi vedete che

gli effetti sono completamente separati. A questo punto abbiamo ancora dei tagli ma non ne vedo

gli effetti per il semplice motivo che avvengono su gusci di rotazione soggetti a carichi

assialsimmetrici, quelli che dipendono da τ che a loro volta dipendono da γ, che sono nulle perché

dipendono da θ, allora è chiaro che sono sistematicamente nulli. Siamo partiti dicendo che la

deformazione di una piastra a doppia curvatura è formata da una parte che dipende dalla

deformazione sulla superficie media e da una parte che dipende dalla variazione dei raggi di

curvatura, queste deformazioni poi varieranno lungo lo spessore. La prima cosa che poi abbiamo

detto è che siccome lo spessore è piccolo possiamo non considerare la torsione e che per calcolare

le risultanti di carico trascuriamo l’archetto che dipende dallo spessore che è piccolo. In questa

maniera riesco ad ottenere una separazione completa delle componenti di sforzo nel piano e

flessionali. Rimane come ultima cosa il considerare che siano trascurabili anche le variazioni di

curvatura e cioè che le χ siano grossomodo tutte uguali a zero. Nel momento in cui introduco anche

quest’altra supposizione, è chiaro che scompaiano tutti i momenti, i tagli già erano scomparsi e mi

restano solo le caratteristiche all’interno del piano medio misurate sul piano medio. Tutto è costante

e non considero più la variazione dello spessore etc. Ci sono due osservazioni da fare: 1) cosa me ne

faccio di questa condizione? nel senso che: è realistica? una membrana o un corpo che si deforma

uniformemente nello spessore e che riduce tutto a degli sforzi nel piano medio è capace di resistere

a dei carichi ad esempio normali alla superficie esterna? ebbene è come se stessi parlando delle

bolle di sapone che sono capaci di resistere alla pressione, entro certe deformazioni, e quindi le

membrane sono capaci di resistere a degli sforzi normali alla loro superficie: questo è un fatto

importantissimo che rende le membrane delle costruzioni meravigliose; 2) ma quali sono i limiti di

queste cose? i limiti sono fortissimi, e sono nelle cose che abbiamo detto: per poter applicare la

teoria membranale oltre allo spessore piccolo noi ci dobbiamo sistematicamente assicurare che

siano trascurabili le variazioni dei raggi di curvatura altrimenti ricadiamo nella teoria molto più

generale del comportamento flessionale dei gusci che è una teoria troppo complicata. Se io prendo

un serbatoio cilindrico e lo riempio di gas non c’è problema, se lo riempio di acqua e lo metto con

l’asse orizzontale per cui l’acqua arriva a un certo punto e poi non c’è più io devo studiarmi il

comportamento flessionale perché la variazione di carico me lo necessita. Un altro caso è tutte le

volte che ho un coperchio, nel passaggio dal mantello principale al coperchio io ho delle torsioni

che hanno deformabilità diverse, anche se è chiaro che arriveranno ad avere lo stesso spostamento

anche se da sole non lo avrebbero e ciò accade solo grazie al loro

comportamento flessionale. Questi sono casi in cui il comportamento

membranale non è più accettabile. Non sarà mai accettabile vicino ai

vincoli per cui se voi vedrete i recipienti sferici questi avranno un

comportamento membranale ma poi troverete un bell’anello che vi

sorregge questo recipiente e nelle vicinanze di questo anello il

comportamento è flessionale perché c’è un carico esterno che è diverso e

non è una pressione pura. Quindi dobbiamo renderci conto che le teoria

membranale ci consente di capire tante cose ma ha dei limiti fortissimi.

A questo punto andiamo a vedere il caso che più ci interessa che è quello

del guscio di rotazione soggetto a carico assialsimmetrico. Questi gusci

sono ottenuti geometricamente facendo ruotare attorno ad un asse una

67

curva che è il meridiano di questi recipienti e quindi avrò una curva, meridiano, che avrò fatto

ruotare attorno ad un asse. Questa curva presenterà una curvatura che ovviamente è uno dei raggi di

curvatura principali della superficie, quello indicato con r1, mentre l’altro lo avrò su un qualsiasi

piano radiale. Il teorema di Eulero ci dice che l’altro raggio di curvatura principale io lo dovrò

vedere in un piano perpendicolare al piano meridiano. Questo piano è quello che si chiama piano

normale e non è il piano che contiene il parallelo ma è un piano che ha un’altra direzione che è

molto scomodo da rintracciare per cui va a finire che tutto viene espresso in coordinate parallele.

Quando parlammo del teorema di (Wernier?) noi facemmo riferimento alla Terra e il raggio della

Terra non è uguale al raggio dell’equatore e i raggi principali della Terra in qualsiasi punto sono

due e coincidenti e sono lungo una normale alla superficie esterna mentre il piano del parallelo non

contiene la normale alla superficie esterna ed ecco perché questo non può essere il raggio principale

però pensando al teorema di W. è facile pensare che se ho un raggio parallelo r0 e l’anomalia del

punto rispetto al centro di curvatura dφ avrò:

La superficie elementare sarà divisa tra due meridiani molto vicini

distanti dθ tra loro e due sezioni normali (due piani perpendicolari

al piano meridiano contenenti la normale alla superficie). Questo

è quello che facciamo quando andiamo a considerare una

superficie sulla faccia della Terra che è delimitata da due

meridiani e due paralleli. Quella superficie terrestre è quindi

delimitata da quattro archi di cerchio, la lunghezza dell’arco di

cerchio più a sud a parità di angolo formato dai due meridiani non

è la stessa ( ardo b e arco d ) mentre i due archi a e c sono uguali.

Allora è chiaro che d sarà più grande di b però in realtà noi stiamo parlando di superficie elementare

e quindi stiamo parlando di dφ e dθ per cui con buone approssimazione possiamo dire che tra b e d

non c’è una grande differenza. A questo punto l’area elementare diventa semplicemente un

rettangolo mistilineo, ossia un rettangolo i cui lati sono sagomati come archi di circonferenza, e

quindi la sua superficie diventa uguale al prodotto di base per altezza. E questa sarà la superficie

elementare. Il problema è che questi gusci a quali carichi saranno sottoposti? Il guscio che stiamo

trattando ha un comportamento ???????? e quindi avrà degli sforzi in una direzione e degli sforzi

nell’altra direzione. Quindi degli sforzi che qui saranno perpendicolari all’arco b e quindi per essere

perpendicolari saranno sempre lungo la tangente al meridiano e avremo degli altri sforzi che

saranno perpendicolari agli a, quindi ai piani meridiani, e che quindi saranno diretti tangenzialmente

al parallelo. Quando noi parliamo di un elemento è chiaro che ci riferiamo a una figura

quadrangolare ma poi questa figura la dobbiamo accoppiare con delle direzioni e l’accoppiamo con

la direzione del parallelo medio e del meridiano medio. Presi il meridiano e il parallelo manca una

terza direzione che prendiamo nel punto di incontro la direzione della curvatura che chiamo

direzione radiale. In questo punto che è anche il centro di questa superficie io ritengo agenti i

carichi esterni. I carichi che avrò saranno quello normale (radiale) e quello lungo la tangente al

meridiano ma non quello lungo la tangente al parallelo perché devo avere l’assialsimmetria dei

carichi. Quando io ragiono in termini di risultati di sforzo interno parlo di un carico normale, una

forza per unità di lunghezza, applicata nel punto medio dei bordi della direzione delle tangenti al

meridiano e questo lo chiamo sforzo meridiano, e poi avrò nel punto medio degli altri due lati delle

forze che avranno la direzione della tangente al parallelo medio in questi punti e li chiamerò sforzi

paralleli. I primi li chiamo generalmente Nφ e i secondi Nθ. In generale il mio elemento è sopportato

a dei carichi radiali lungo il meridiano ed è sostenuto da sforzi interni che hanno delle risultanti di

taglio dirette lungo il meridiano e il parallelo. Va da se che gli Nφ possono cambiare ma gli Nθ non

possono farlo.

Ora cominceremo a costruirci l’equazione di equilibrio per questo elemento pezzo per pezzo.

Cominciamo dalle azioni lungo il meridiano. Mi sono messo in un piano meridiano per cui, a parte

l’effetto di curvatura, io vedo principalmente un archetto e la sua superficie media con delle

68

risultanti di carico Nφ da una parte e dall’altra. Queste

due risultanti unitarie non sono uguali tra di loro,

siccome tra questi due punti si è avuta una variazione

dell’angolo meridiano, allora la variazione tra i due

potrà essere posta in termini di sviluppo di Taylor.

Queste forze sono dirette lungo la tangente al

meridiano nei due punti. Esprimeremo le condizioni

di equilibrio in direzione radiale e tangente al

meridiano. Quando parlo di tangente al meridiano

parlo di tangente al punto medio. Quando parlo di

direzione radiale ce ne sono infinite ma io mi metto al

centro dell’elementino e sto considerando la direzione

radiale nel punto medio di tale elementino. Un’altra cosa di cui bisogna tener conto è che le

superfici sulle quali agiscono Nφ e N’φ sono diverse tra loro perché passo da un parallelo ad un

altro: quindi da un lato avrò r0dθ e dall’altro (r0dθ + r0dθdt/dt). Allora diremo che questa risultante

Nφ avrà una componente tangente e una perpendicolare ruotata di dφ/2. Quindi avrò una

Nφcos(dφ/2) che rappresenta la direzione tangenziale e una Nφsen(dφ/2) che mi rappresenta la

direzione radiale. Notate che le componenti tangenziali sono contrapposte da una parte e dall’altra

perché c’è il materiale che se lo tira dai due lati mentre le componenti radiali sono concorrenti e

centripete. Queste due forze danno luogo ad un’azione radiale diretta lungo il raggio medio:

Se sviluppo questa relazione e tolgo le parti di ordine superiore e considero il seno all’incirca

uguale all’angolo ottengo che alla fine mi resta:

L’azione tangenziale invece sarà:

Andiamo a vedere ora quelle che sono le

azioni dirette lungo il parallelo dove avrò le

due Nθ che sono uguali perché c’è una

69

assialsimmetria sia geometrica che di carico. Anche qui che sto in un piano parallelo mi vado a

trovare una risultante tangenziale e una risultante radiale. Quando parlo di direzione radiale parlo

della direzione radiale rispetto al piano parallelo (quella di dRθ nella seconda figura) e quindi poi

questa avrà ulteriori componenti rispetto alla direzione radiale principale. La procedura è la stessa

di prima ma questa volta carichi e superfici sono gli stessi e quindi quando vado a calcolarmi le

componenti lungo il parallelo ovviamente mi trovo zero. Ho due forze uguali che deviate

ugualmente dal piano medio essendo contrarie vanno a zero. Se non ci fosse l’assialsimmetria non

avrei zero e avrei un sacco di problemi. La componente radiale quindi sarà:

Questa componente come detto avrà ulteriori componenti nelle direzioni principali:

Ora fatto questo debbo solo

assemblare un’equazione di

equilibrio radiale, una

equazione di equilibrio alla

traslazione in direzione

tangenziale tangente al

meridiano e una equazione di

equilibrio alla traslazione in

direzione tangente al parallelo

che sappiamo però essere

nulla. Ho quindi bisogno di

sole due equazioni e soltanto

di due. Vediamo che ho una risultante delle azioni esterne (Z e Y). Z sarà radiale e quindi avrò

Zr1r0dφdθ e avrò una Yr1r0dφdθ. Quindi vado a scrivere le equazioni di equilibrio lungo il

meridiano e avrò anche l’equazione di equilibrio alla traslazione lungo la direzione radiale. Notate

che sono equazioni banalissime anche se una delle due è una equazione differenziale.

Quindi se mi trovo a dover risolvere un problema di equilibrio del sistema in termini locali, mi

trovo a dover affrontare un solo termine differenziale in due equazioni. Per questo motivo la

equazione A) non viene presa in considerazione. Queste sono due equazioni di equilibrio locale. Ho

bisogno di due equazioni perché ho due incognite (le due N). Se devo trovarmele a livello locale

non posso far altro che andare a sostituire queste due equazioni ma poiché so che il regime è di

70

assialsimmetria io potrei cercare di utilizzare questa condizione per non andare a prendere in

considerazione una equazione di equilibrio locale ma quella globale ed è quello che si fa. Quindi si

finisce per accoppiare all’equazione B) una equazione di equilibrio globale in modo tale da ottenere

due soluzioni algebriche e il problema diventa banalissimo.

Supponiamo di aver eseguito la sezione di questo guscio di

rotazione e supponiamo che i carichi esterni abbiano in tutta

questa struttura una risultante complessiva assiale R e solo

questa perché non sto facendo una relazione per l’equilibrio

alla traslazione radiale. In direzione circonferenziale non

l’avranno mai perché sennò non sarebbe assialsimmetrico.

Sotto l’azione di questa R, io avrò, una volta che ho fatto la

sezione normale che fa uscir fuori un cono, tante NφdA che

avranno una componente assiale che sarà NφdAsenφ e

avranno una componente radiale NφdAcosφ. Andiamo ora a

fare le risultanti. Queste Nφ per simmetria assiale sono tutte uguali fra di loro e quindi lo saranno le

loro componenti assiali e in modulo le radiali e quindi la somma di queste ultime è ovviamente

zero. Restano solo le componenti assiali che sono tutte uguali fra di loro ma equiverse e quindi ne

farò gli integrali lungo θ ottenendo proprio 2π. Questa sarà la risultante degli sforzi interni e la R

quella degli sforzi esterni e la loro somma sarà uguale a zero. Quindi dall’equazione di equilibrio

globale mi ricavo la Nφ mentre dall’equazione di equilibrio locale mi ricavo la Nθ. Una volta

ricavate queste due posso passare alle componenti di tensione ritenendole fortemente dipendenti

dallo spessore (s) e trovo:

Sono tensioni principali e non ci sono sforzi di taglio o tensioni radiali. Ho delle tensioni meridiane

e parallele. Il problema è che se voglio utilizzare queste due equazioni debbo fare uno studio

geometrico e andarmi a trovare i raggi di curvatura. Se io ho una superficie a doppia curvatura

ottenuta per rotazione di una curva meridiana intorno ad un asse allora i due raggi di curvatura sono

questi:

Quindi se si scrive l’equazione della curva vi ricavate i due raggi in ogni punto e quindi in ogni

punto potete ricavarvi gli sforzi membranali.

Lasciando stare i primi due esempi banali passiamo a considerare quello che può essere un

problema ingegneristico come la volta sferica pesante che non è altro che una cupola. Supponiamo

di avere una cupola che ha un peso per unità di superficie q e torno torno quindi ho una qdA. La dA

essendo questa una sfera di raggio a sarà ovviamente un 2πau ma posso esprimerla anche attraverso

l’uso dei raggi di curvatura:

Io suppongo che di questa sfera ne adoperi solo una parte, una volta o una calotta, definita da φ per

cui in questo caso ho utilizzato φ come estremo superiore dell’angolo e non come valore corrente

che invece ho chiamato u[0,φ]. Allora su ogni dA c’è una qdA, conviene portarsi alla superficie

anulare, pareggiare l’integrale in dθ e sostituirlo con 2π e avrò:

Questa è la risultante delle forze peso (forze assiali) che mi debbono dare anche forze radiali. Le

equazioni di equilibrio che ottengo sono:

71

Dall’equilibrio globale mi ricavo Nφ e vedo che è negativa

perché se io ho una volta e premo dall’alto il verso è opposto a

quello del peso. Sotto l’effetto del peso in direzione meridiana

questa volta è sempre compressa.

Vediamo che succede in direzione parallela:

È facile vedere che per φ=0, Nθ è negativo e

quindi quando io parto più su (come angolo)

anche in direzione circonferenziale le forze

sono di compressione. Questa forza

all’aumentare di φ comincia a diminuire e

per φ=51,8° diventa zero e poi positiva, per

cui se io faccio una cupola sferica che abbraccia più di 51° questa si spappola. Questo è il motivo

era difficile fare le cupole nei tempi passati. Poi nel rinascimento si capì come risolvere questo

problema mettendo delle forze di contrasto al centro della cupola.

Ora prendiamo un recipiente sferico e

riempiamolo di gas. All’interno abbiamo

una pressione di –p e i due raggi uguali.

Abbiamo un equilibrio locale e globale.

Trovata la R vedo grazie alle relazioni che

le due N sono uguali tra loro, come c’era

da attendersi essendo una sfera. Da queste

mi ricavo le σ che sono tutte uguali tra di

loro. Da questo caso passiamo ad un altro

che ci interessa particolarmente e cioè

quello dei serbatoi cilindrici pieni di gas. Il cilindro è una

superficie a semplice curvatura e non a doppia curvatura e

questo vuol dire che uno dei raggi di curvatura principali è

infinito. È infinito il raggio del meridiano mentre il raggio del

parallelo vale a ed è quello che chiamiamo raggio medio del

cilindro. Supponiamo che non ci siano fondi e quindi che non ci

sia la componente assiale e quindi che R sia uguale a zero. In

questo caso viene che Nφ è uguale a zero e questo vuol dire che

non c’è uno sforzo lungo il meridiano, e quindi non c’è una

tensione assiale sul mio mantello. Ci sarà solo una tensione

circonferenziale (σ ma non τ).

Supponiamo ora che invece i fondi ci siano. In questo caso si

avrà di nuovo una Nφ che sarà uguale a quella del caso del

serbatoio sferico. Se ci sono i fondi poi la tensione

circonferenziale è il doppio di quella assiale. Per questo

motivo se io ho una bombola, questa scoppia perché si

creano delle crepe lungo le generatrici, perché sono dovute

alle σθ . Il distacco del fondo è una cosa che i bombolari non

conoscono perché la bombola si apre lungo la generatrice.

72

Queste due equazioni ve le ho fatte vedere secondo la teoria dei gusci membranali. Ma l’uomo le

conosceva già da tempo sotto il nome di formule delle caldaie perché quando parliamo di caldaie

parliamo di tubi e mantelli soggetti a pressioni interne. Quando si cominciò ad utilizzare la

macchina a vapore questa scoppiava perché non si conoscevano fenomeni come la fatica, la fatica

termica, non si sapeva come realizzare le tenute. Quindi ci si pose il problema di dimensionare i

mantelli delle caldaie. Da qui nacquero le formule delle caldaie che sono banalissime. Io ho una

tensione assiale che agisce su di un’area che è 2πas e questa deve essere uguale al carico che ho sul

fondo pπa2. Circonferenzialmente io prendo metà tubo. Il carico è dovuto alla pressione interna e

deve essere equilibrato dalle σt.

Così posso analizzare anche i serbatoi conici che è un’altra forma a semplice curvatura (r1=∞). α è

la conicità del recipiente, h è la quota a cui mi metto. Il metodo è praticamente sempre lo stesso.

73

Vi faccio un ultimo caso che è un po’ diverso dagli altri perché fino

ad ora abbiamo sempre trattato gas. La pressione non è più

uniforme ma essendo un liquido cambia con la profondità: sul pelo

libero avrò p0 mentre scendendo avrò p=p0+γ(H-h). Se voglio

sapere quali siano gli sforzi all’altezza h divido in due l’equazione

di equilibrio. Da una parte considero una parte di acqua e dall’altra

la restante. Mi calcolo quindi il peso della colonna d’acqua e quindi

mi debbo calcolare il volume. Quindi dovrò calcolarmi il volume

del cilindro e del cono. Quindi ottengo la pressione variabile e

nell’equilibrio globale ho il volume variabile con la profondità.

Supponendo che non ci sia una pressione esterna, ho che sul vertice sono nulli tutti e due gli sforzi,

mentre sulla superficie del liquido non ci sono sforzi circonferenziali ma solo sforzo meridiano.

Questo mi ha dato l’idea di andare a vedere a quale quota c’è lo sforzo meridiano massimo.

74

Lezione 21 – Cilindri con parete a forte spessore

All’altro estremo della possibile casistica rispetto alle membrane,

ci sono i recipienti curvi a forte spessore. In questi casi, di cui il

più importante è quello cilindrico, non c’è nessuna dimensione

realmente trascurabile rispetto alle altre e quindi non possiamo

che ricorrere alle teorie generali dell’equilibrio. Un caso classico

è quello dei reattori chimici nei quali occorre avere una cavità di

dimensioni contenute, ma poiché si ha a che fare con fortissime

pressioni, vengono fuori delle dimensioni di parete enormi. Il

caso più semplice è quello del recipiente assoggettato a una

pressione interna o esterna. La geometria è molto semplice in

quanto è un recipiente a semplice curvatura caratterizzato da simmetria assiale geometrica

sottoposto a carichi assialsimmetrici. Consideriamo il materiale lineare elastico isotropo e carichi

uniformi lungo l’asse z. Quest’ultima cosa semplifica di molto la trattazione perché conduce ad uno

stato di deformazione indipendente dal tempo. È ovvio che trattandosi di un solido

assialsimmetrico, risolviamo il problema ricorrendo alle coordinate polari e quindi sappiamo che

delle equazioni di equilibrio ne rimane solo una che è:

Questa relazione ha moltissime applicazioni ed è l’unica che

possiamo scrivere e questo è un problema in quanto abbiamo due

incognite. Dobbiamo recuperare un’altra equazione e lo facciamo

utilizzando l’equazione di congruenza. In questa abbiamo bisogno

della deformazione radiale εr e una εt tangenziale che deriva da

due cose:

1) dall’allargamento estensionale dell’involucro oppure

2) dal fatto che l’elementino si è spostato su un raggio diverso.

Il primo caso mi fa comparire un dv/dθ che trattandosi di un

problema assialsimmetrico certamente sarà nullo perché v è zero.

Quindi resta solo il secondo termine che è u/r. Si capisce subito che le due ε sono parenti.

Quindi differenziamo εt rispetto ad r:

Otteniamo quindi l’equazione di congruenza che mi dice che legame ci deve essere tra le

componenti di deformazione e le loro derivate per un problema del genere. Abbiamo quindi

ottenuto le due equazioni che cercavamo. Sappiamo che non hanno le stesse incognite ma sappiamo

pure che valgono le equazioni di Navier e quindi so di poter trasformare la seconda equazione in

termini di tensioni. I casi che ci interessano sono quelli corrispondenti a stati piani di tensione e

deformazione perché devo fare un’ipotesi nel momento in cui vado a inserire l’equazione di Navier

nell’equazione di congruenza e debbo sapere quali eq. di Navier andare ad utilizzare. Lo stato piano

di tensione è generalmente più banale e quindi utilizziamo quello, anche se quello che si incontra

più spesso è quello dello stato piano di deformazione. Quindi per prima cosa mi scrivo le equazioni

di Navier in questo caso:

Dopodiché mi scrivo il dεt/dr:

75

Poi faccio qualche giochetto per trovarmi dall’equazione di equilibrio la σt :

Sostituisco nell’equazione di congruenza e ottengo una equazione nella sola incognita σr:

Il resto è banale integrazione:

Dall’eq. di equilibrio poi ottengo:

Di solito questa soluzione la scrivo come:

Come si vede entrambe le tensioni diminuiscono all’aumentare di r e quindi il bordo interno è

sempre più caricato. Quello che debbo calcolarmi sono le due costanti A e B. Poiché avrò delle

pressioni agenti sul bordo interno ed esterno. Quindi la tensione radiale sarà uguale a meno l’una e

meno l’altra:

Da queste sostituendo al posto di σr il termine A-B/r2 ottengo:

Queste equazioni spesso vengono presentate nella forma più adimensionalizzata possibile. I raggi

vengono adimensionalizzati rispetto al raggio esterno. Viene preso un raggio che caratterizzi la

geometria, β, che sarà parecchio minore di uno, e poi avremo una variabile corrente, r, che viene

adimensionalizzata tramite ρ:

Da qui otteniamo queste relazioni:

76

Qualcuno prosegue questa operazione di adimensionalizzazione scrivendo:

E allora le relazioni diventano:

È importante capire invece cosa accade realmente. Allora supponiamo di avere una pressione

interna, pi, e di non avere pressione esterna. Avremo che k=0. Quindi si vede come le tensioni in

questo caso, a parte il termine geometrico, dipendano da 1±1/ρ2:

Particolarizzandola per raggio interno e raggio esterno vedete che il valore massimo in assoluto

deve verificarsi al raggio interno. Quindi nel caso di recipiente cilindrico sottoposto a pressione

interna la tensione radiale è sempre negativa e va da –p a 0, mentre la tensione circonferenziale è

sempre positiva e va da un valore massimo al bordo interno a un minimo diverso da 0 al bordo

esterno. È sicuramente diverso da 0 perché la tensione circonferenziale non ha niente a che fare con

il carico applicato. Vi ho poi riportato i rapporti tra le tensioni di confronto all’interno e all’esterno

perché questa tensione comunque diminuisce dal bordo interno al bordo esterno. Io non voglio che

questo rapporto sia enorme perché, sapendo che comunque la tensione di confronto deve essere

minore a quella ammissibile al bordo interno, il materiale che sta al bordo esterno è poco sfruttato.

Quindi io voglio che il rapporto tra la tensione in rapporto al bordo esterno e al bordo interno non

superi un valore massimo che io posso imporre a progetto e chiamerò μ.

Impostato questo massimo verrà fuori poi un valore minimo di β. Al diminuire di β il rapporto tra le

tensioni di confronto aumenta e quindi se io voglio contenere tale rapporto non posso avere β più

piccolo di un certo valore. Questo mi comporterà dei forti raggi (interni!?).

Nell’altro caso abbiamo una pressione posta all’esterno del recipiente. Da qui appare un β2 in

parentesi e posso fare le stesse considerazioni dette per l’altro caso.

Per l’ipotesi di stato piano di deformazione dove siccome deve essere da questo

si ottiene che la tensione assiale è costante:

Ho preparato un esempio da guardare qualitativamente e riguarda un impianto di estrusione

dell’alluminio. La billetta viene caricata all’interno del container, che è un recipiente cilindrico di

grosso spessore, e viene appoggiata alla matrice di estrusione. Avrà un diametro di un paio di metri

e la lunghezza di circa un metro e mezzo, ha un foro interno del diametro della billetta. Si introduce

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la billetta calda, poi faccio entrare il pistone e

quest’ultimo spinge la billetta nel foro della matrice.

Questo container di solito è sempre più grosso di quello

che serve perché uno dei problemi che noi incontriamo,

quando estrudiamo un metallo, è che mentre lo estrudo il

metallo si raffredda. È vero che tende a riscaldarsi per

effetto dell’attrito sulle pareti del foro del container e del

foro della matrice, però l’effetto non è così violento per

cui succede che la billetta tende a raffreddarsi. Per evitare

che si raffreddi all’interno del container si mettono delle resistenze.

Abbiamo una billetta da 180mm e la forza di spinta di 25MN. La velocità di estrusione è di 3 cm/s.

Questo richiede una potenza di 750kW e la temperatura alla quale avviene tutto è 550°C. Questa

temperatura è sempre un compromesso perché più elevo la temperatura più il materiale si ammolla

e minore forza di spinta necessita, però se poi esagero cominciano a comparire delle bruciature sotto

forma di macchie sull’estruso e delle volte comincio ad avere delle irregolarità superficiali. Il

container ha 990mm di diametro esterno e 1,4m di lunghezza. La pressione di estrusione è 982MPa

e quindi N/mm2. Se io premo la billetta in direzione assiale tenderà a deformarsi anche radialmente

e quindi tenderà a premere sulle pareti del container. È difficilissimo calcolare quanto valgono le

pressioni radiali e tangenziali della billetta sul container. Le simulazioni numeriche mi dicono che

la pressione sulla parete sarà di circa il 60-80% della pressione sulla billetta. Io ho considerato il

70% ed è venuto 688MPa. A questo punto vado a calcolarmi le sollecitazioni che ho nel container.

La tensione di confronto è fortissima perché, siccome

devo fare la differenza tra le due componenti di

tensione, nel momento in cui ho le componenti che

hanno segno opposto, contribuiscono con la somma

dei valori assoluti a quella di confronto. Il bordo

esterno non lavora proprio come si può vedere. Per

riparare a questa condizione disastrosa si fa il

container in due pezzi, ossia un cilindro interno e un

cilindro esterno. Avrò quindi un calettamento forzato.

Avrò quindi che il cilindro interno sarà assoggettato

alla stessa pressione da parte della billetta, però è anche

assoggettato alla pressione esterna di calettamento del cilindro

esterno. Il cilindro esterno invece sarà soggetto solo alla

pressione di calettamento. Molto dipende dai diametri che si

scelgono. Io ho preso dei diametri abituali e ho scelto quello di accoppiamento pari a 380mm. Ora

si applica una espressione trovata da un certo Stange e si cerca di portare la pressione all’80-90%

della sigma di snervamento, ossia quasi alla plasticizzazione.

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Trovata la pressione di calettamento (111MPa) si vanno a prendere le tabelle delle tolleranze e si

vede quale accoppiamento porti a una deformazione tale da creare una pressione vicina a quella di

calettamento.

Naturalmente fatti questi calcoli devo sovrapporre gli effetti.

Come si vede la pressione sul raggio interno è scesa da oltre 1200 a 991MPa perché c’ho un effetto

di contrapposizione tra la pressione esterna e quella interna. Se mi metto invece sul raggio esterno

vedo che la tensione di confronto è salita fino a 85MPa, il che mi fa piacere perché sfrutto meglio il

materiale. Si può ottenere ancora di più facendo un terzo strato. Avrò un calettamento a 300mm e

uno a 500mm. Mi calcolo le pressioni di calettamento su tutti i cilindri.

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Poi mi sommo le tensioni omologhe e vedo che da 1200 sono sceso 794MPa. Sul bordo esterno da

47 sono salito a 141MPa.

Se infine guardiamo i diagrammi che non si riferiscono ovviamente all’esempio, anche se è un caso

analogo, vediamo come la tensione di confronto vada diminuendo con l’aumentare dei cilindri

all’interno del foro e come aumenti all’esterno del container. Quindi si nota l’effetto benefico

dovuto all’effetto della contrapposizione tra pressione interna e pressione esterna.