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Appunti di cinema verdiano. Giuseppe Verdi nel cinema di Visconti e Bertolucci. 1. Introduzione. Meraviglie del sincronismo e consolazioni a basso costo, se non soprattutto vigore pervicace di una tradizione. Storia di opera e cinema: dall'arrivo del treno a La Ciotat fino all'ultima novità in cartellone, la creatura dei Lumière non ha mancato di far prova di un appetito ai limiti dell'onnivoro, e non si è certo i primi a guardare ai giochi di trasposizioni e riciclaggi sotto il filtro della macchina da presa. La vocazione realistica propria della pellicola traforata – sarebbe questa, secondo alcuni la marca genetica distintiva della settima arte – ha saputo così sposare fin dagli esordi il surrealismo delle Lune di Méliès. La storia di un saccheggio, in definitiva: dall'ingenuità muta dell' arroseur arrosé fino all'appropriazione e rilettura di un patrimonio finzionale sconfinato; gli eroi di carta della tradizione romanzesca conquistano un volto d'alogenuro, ancora condannati al gesticolare sguaiato degli inizi e al silenzio del sottotitolo. Suona impossibile, ma è all'epoca del muto che risalgono le prime prove, i primi film- opera: un Trovatore del 1908 dovuto alla Società Italiana Pineschi che utilizzava un sistema di sincronizzazione tra le immagini proiettate e la colonna sonora riprodotta da un fonografo. Stesso sistema, discretamente diffuso, che dette consistenza sonora al volto di gesso di Francesca Bertini, Leonora impennacchiata nella regia di Ugo Falena del 1910. Questo a sottolineare la subitanea reazione del cinema nei confronti di una tradizione, quella operistica, la cui ampiezza, multiformità, ben si prestava alla fame di storie di questi inizi: proiettore da un lato e registrazione smagliata dall'altro. Così Gianfranco Casadio tirando le somme di un'impresa classificatoria con pochi precedenti – i primi film operistici rimangono tuttora di difficile reperibilità -, ci dice: Ne è emerso che, fin dall'epoca del muto, l'interesse del cinema si è rivolto al mondo operistico portando sugli schermi i lavori più famosi del repertorio lirico italiano: dai Pagliacci alla Traviata, dalla Bohème alla Cavalleria rusticana, dalla Gioconda alla Manon, e tutto ciò nonostante l'evidente handicap che il cinema dell'epoca aveva nei confronti di una rappresentazione artistica il cui punto di forza risiedeva nel suono 1 . Ma a questi primi tentativi seguirà una stagione italiana fiorente, e l'opera, i suoi personaggi rassicuranti perché conosciuti, penetreranno nell'androne buio dei cinema popolari, ora schiacciati sulla patina luminosa di uno schermo – addio tridimensionalità dei corpi e delle voci: si diceva appunto di una consolazione a basso costo; così l'Italietta della domenica pomeriggio dimenticava la fame della guerra, al prezzo scorciato della grande opera liofilizzata su pellicola. Maramotti non mancherà di sottolineare la macchina commerciale dietro a tutto questo: Questi films hanno rappresentato un grande business, perseguito con sagacia e piena conoscenza delle norme fondamentali di marketing e della psicologia del consumatore. Si è trattato di un fenomeno imponente che ha coinvolto centinaia di artisti, registrando, com'è stato scritto “un significativo passaggio di registri e maestranza” nel rapporto teatro – cinema, ed uno scambio continuo (e trasversale) di produttori, tecnici, sceneggiatori, costumisti, operatori, montatori, attori e figuranti, tra film e film, tra generi diversi 2 . Di certo un movimento di imponenti dimensioni che per un ventennio – travagliato, e forse sta anche qui il segreto di un'operazione di loisir – intratterrà un pubblico con velleità da melomani; di certo, un successo indubbio: anche tagliata, interpolata con inserti personalissimi e non autorizzati, intarsiata con decorazioni che non potevano non essere estranee al luogo deputato – teatro, arricchita a piacere per uso e consumo del vasto pubblico, la musica del 1 Gianfranco Casadio, Opera e cinema: la musica lirica nel cinema italiano dall'avvento del sonoro ad oggi , Longo, Ravenna, 1995. 2 Andrea Maramotti, Postfazione a Opera e cinema, op. cit., p. 266.

Appunti Di Cinema Verdiano (VISCONTI, BERTOLUCCI)

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Verdi nel cinema.

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Appunti di cinema verdiano.Giuseppe Verdi nel cinema di Visconti e Bertolucci.

1. Introduzione.

Meraviglie del sincronismo e consolazioni a basso costo, se non soprattutto vigore pervicace di una tradizione. Storia di opera e cinema: dall'arrivo del treno a La Ciotat fino all'ultima novità in cartellone, la creatura dei Lumière non ha mancato di far prova di un appetito ai limiti dell'onnivoro, e non si è certo i primi a guardare ai giochi di trasposizioni e riciclaggi sotto il filtro della macchina da presa. La vocazione realistica propria della pellicola traforata – sarebbe questa, secondo alcuni la marca genetica distintiva della settima arte – ha saputo così sposare fin dagli esordi il surrealismo delle Lune di Méliès. La storia di un saccheggio, in definitiva: dall'ingenuità muta dell'arroseur arrosé fino all'appropriazione e rilettura di un patrimonio finzionale sconfinato; gli eroi di carta della tradizione romanzesca conquistano un volto d'alogenuro, ancora condannati al gesticolare sguaiato degli inizi e al silenzio del sottotitolo. Suona impossibile, ma è all'epoca del muto che risalgono le prime prove, i primi film- opera: un Trovatore del 1908 dovuto alla Società Italiana Pineschi che utilizzava un sistema di sincronizzazione tra le immagini proiettate e la colonna sonora riprodotta da un fonografo. Stesso sistema, discretamente diffuso, che dette consistenza sonora al volto di gesso di Francesca Bertini, Leonora impennacchiata nella regia di Ugo Falena del 1910. Questo a sottolineare la subitanea reazione del cinema nei confronti di una tradizione, quella operistica, la cui ampiezza, multiformità, ben si prestava alla fame di storie di questi inizi: proiettore da un lato e registrazione smagliata dall'altro. Così Gianfranco Casadio tirando le somme di un'impresa classificatoria con pochi precedenti – i primi film operistici rimangono tuttora di difficile reperibilità -, ci dice:

Ne è emerso che, fin dall'epoca del muto, l'interesse del cinema si è rivolto al mondo operistico portando sugli schermi i lavori più famosi del repertorio lirico italiano: dai Pagliacci alla Traviata, dalla Bohème alla Cavalleria rusticana, dalla Gioconda alla Manon, e tutto ciò nonostante l'evidente handicap che il cinema dell'epoca aveva nei confronti di una rappresentazione artistica il cui punto di forza risiedeva nel suono1.

Ma a questi primi tentativi seguirà una stagione italiana fiorente, e l'opera, i suoi personaggi rassicuranti perché conosciuti, penetreranno nell'androne buio dei cinema popolari, ora schiacciati sulla patina luminosa di uno schermo – addio tridimensionalità dei corpi e delle voci: si diceva appunto di una consolazione a basso costo; così l'Italietta della domenica pomeriggio dimenticava la fame della guerra, al prezzo scorciato della grande opera liofilizzata su pellicola. Maramotti non mancherà di sottolineare la macchina commerciale dietro a tutto questo:

Questi films hanno rappresentato un grande business, perseguito con sagacia e piena conoscenza delle norme fondamentali di marketing e della psicologia del consumatore. Si è trattato di un fenomeno imponente che ha coinvolto centinaia di artisti, registrando, com'è stato scritto “un significativo passaggio di registri e maestranza” nel rapporto teatro – cinema, ed uno scambio continuo (e trasversale) di produttori, tecnici, sceneggiatori, costumisti, operatori, montatori, attori e figuranti, tra film e film, tra generi diversi2.

Di certo un movimento di imponenti dimensioni che per un ventennio – travagliato, e forse sta anche qui il segreto di un'operazione di loisir – intratterrà un pubblico con velleità da melomani; di certo, un successo indubbio: anche tagliata, interpolata con inserti personalissimi e non autorizzati, intarsiata con decorazioni che non potevano non essere estranee al luogo deputato – teatro, arricchita a piacere per uso e consumo del vasto pubblico, la musica del

1 Gianfranco Casadio, Opera e cinema: la musica lirica nel cinema italiano dall'avvento del sonoro ad oggi, Longo, Ravenna, 1995.

2 Andrea Maramotti, Postfazione a Opera e cinema, op. cit., p. 266.

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melodramma italiano (raramente ci si imbatte in titoli stranieri) non solo “tiene” ma molto spesso anzi “sbanca”, testimoniando il divorzio netto pubblico – critica, filologia – termine che fa sorridere beffardamente in questo contesto – e botteghino. Al di là del puro dato statistico, i problemi sollevati dal contatto opera- cinema sono stati a lungo discussi da tecnici e critici delle più diverse fazioni, senza dunque ignorare la discrepanza manifesta tra i due mezzi di espressione – e dunque avvallando in parte l'arricciatura di naso dei puristi. È evidente come ancora ci dice il Maramotti musicologo, che nel momento in cui uno spettacolo pensato per un luogo deputato viene carpito, non solo per un diverso luogo, ma per una realizzazione che si avvale di possibilità diverse, la filologica fedeltà al testo originario non può sussistere, a meno di non fermarsi a quel gradino iniziale e quasi asettico che è la semplice ripresa in teatro. Guglielmo Pescatore3 ci dirà dunque dell'orientamento che muove da un lato l'opera figlia del teatro, la sua artificiosità manifesta, l'orgogliosa finzionalità del recitar cantando; e dall'altro il cinema, come già si è detto, infisso nel paradigma di una ripresa del vero - verosimile. D'altronde, lo stesso Pescatore negherà questa stessa differenza d'ispirazione, evocando le possibilità finzionali – ora più che mai evidenti grazie all'iper- realtà dell'effetto tecnologico – del testo filmico. Ciò che si perde nell'adattamento cinematografico dell'opera, dunque, non è tanto il lusso della bella simulazione, quanto piuttosto la goffa umanità del teatro; è una premessa doverosa per chi vuole insistere sull'argomento. L'inquadratura che è già una scelta, il taglio della zona d'ombra e marginale – sì, la smorfia della comparsa vicina alle quinte, o l'imprevisto di uno scivolone -, ma anche l'algida perfezione formale di un suono sempre uguale sui magnetismi del nastro, contro la vibratile rottura di una voce dal vivo. Anche per questo, la trattazione non insisterà sulla produzione più strettamente cine – operistica, pure incredibilmente vasta, privilegiando invece una linea di genere che si lascia influenzare solo trasversalmente – strutturalmente – dal melodramma lirico, e da quello verdiano in particolare.

[....] Abbiamo la trascrizione pari pari dell'opera (sia nell'edizione teatrale che appositamente rifatta, su pellicola o nastro che sia) allo scopo di divulgarne la conoscenza presso quei pubblici che non posso vederla a teatro; l'opera filmata per tramandarne esiti e caratteristiche (“teatro in scatola”); l'opera filmata per sfruttarne la popolarità di cantante celebri o per venire incontro ad una particolare richiesta del momento; la scena lirica come sfondo o come componente del racconto filmico; la musica operistica come supporto all'atmosfera di una vicenda, il ricordo all'opera per lo svolgimento di discorsi sovrapposti (di gusto, sociologici, politici, dialettici); l'attualizzazione di melodrammi del repertorio; la citazione di particolari momenti operistici nella scena o solo nella colonna sonora; l'ammiccamento o lo smontaggio, e così via4.

Così Ermanno Comuzio sintetizza le possibili filiazioni filmiche, il risultato di un incontro certamente prolifico tra due universi performativi. Sempre Comuzio, appoggiato dal Di Giammatteo critico cinematografico e da Cristina Bragaglia, propende per una classificazione dei generi filmici che distingua nettamente la cine- opera dall'opera in prosa, l'opera parallela dalla biografia operistica. Distinzioni critiche adottate anche dal solito Pescatore, che per altro porrà un discrimine specifico tra gli ultimi due: dove il film biografico operistico svolge un confronto tra spettacolo – vissuto sociale e artistico – e vita individuale, l'opera parallela gioca sul raddoppiamento dello spazio drammatico: lo spettacolo lirico diventa modello ultimo cui tendono i fatti della vita privata. Non sono rilevazioni del tutto prive di interesse, o almeno le si può considerare un utile prologo per successive note a margine – se ne riparlerà per il viscontiano Senso.Sono oltretutto imprescindibili, per chi voglia affrontare anche solo parzialmente la storia delle produzioni verdiane, proprio le biografie firmate da due dimenticati, per quanto indiscussi sovrani della scena cineoperistica italiana: Gallone e Matarazzo, l'uno autore di un Giuseppe Verdi del '39, l'altro di un omonimo tributo biografico al cigno di Busseto del '53, cui va

3 Gugliemo Pescatore, La voce e il corpo: l'opera lirica al cinema, Campanotto, Pasian di Prato, 2001.4 Ermanno Comuzio, L'opera lirica e il cinema, in Un bel dì vedemmo, Pavia, 1984.

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aggiunto l'episodio verdiano coevo di Casa Ricordi, sempre di Gallone. Sono certo testi filmici non privi di una certa ingenuità, un cedimento al lacrimevole e al patetico cui è facile giungere quando si tratta di dramma melò, eppure non privi di una loro originalità e vigore. A proposito di Gallone, Pescatore dirà:

Un'ultima considerazione per Gallone che occupa una posizione di preminenza non solo nella filmografia verdiana, ma anche in quella del film opera in generale: al contrario di quanto si potrebbe pensare, tale posizione […] nasce da una profonda adesione ai procedimenti del racconto melodrammatico propri dell'Ottocento italiano: contrasto familiare o sociale e risoluzione “teatrale”, compresenza di forza epica e sentimento, commistione di tradizione e gusto popolari con i temi “alti” dell'appartenenza nazionale.

Così gli si scuserà la bonaria e buonista versione a lieto fine della Traviata (Amami Alfredo! Del 1940), se già in Casa Ricordi – e nell'episodio finale della Parma dei moti contadini – si intravede in filigrana la tensione del melò politico bertolucciano, Novecento. Anche di Matarazzo non mancheranno le lodi tarde, quando si parlerà del suo Giuseppe Verdi come della «biografia cinematografica per eccellenza»5, capace di restituire carattere e vita del biografato a dispetto delle inesattezze storiche. Sarà anzi per tramite della cinepresa di questo sperimentatore del genere che, secondo Marchelli, il cinema conoscerà la tempra effettiva del compositore, parafrasando Mila: «l'esperienza d'uno degli uomini più “terrestri” che la terra abbia mai prodotto, nemico d'ogni metafisica»6.Il panorama di parafrasi verdiane più o meno riuscite conta fra le altre un'Aida di Clemente Fracassi, curiosa per la presenza di una giovanissima Sophia Loren di nero interamente dipinta, e doppiata dalla voce di Renata Tebaldi – mentre nel ruolo di Amneris, interpretato da Lois Maxwell, spiccava la voce di Ebe Stignani. Siamo negli anni '50 del film-opera a colori, o per dirla ancora con i critici, di quel «ciarpame di classe» che tradurrà i fasti coreo- scenografici dell'opera di teatro, nei fondali piatti e stinti – «negli elefanti rassegnati e i cammelli spelacchiati»7 - del teatro di posa. Se si mettono da parte le tarde recrudescenze – La Traviata di Lanfranchi del '67, e le regie colte zeffirelliane degli anni '80 – la cineopera popolare lascerà dunque il posto a una forma cinematografica che risente sì dell'influenza di un genere come il melodramma lirico, ma in una modalità più silenziosa e meno diretta; si tratterà non più di trasposizioni nette, ma di polimorfiche riproposizioni di brani scelti, plastiche distorsioni, o ancora drammi melò informati nel profondo da un modello verdiano più o meno confessato. Una breve panoramica sui rapporti tra cinema e opera verdiana ha reso dunque necessaria una scelta, dati anche i limiti di spazio: l'occhio ricade su due chiosatori del calibro di Visconti e Bertolucci, selezione tutt'altro che casuale, e che anzi risponde ad una precisa impostazione metodologica. Inutile negare che con gli attuali mezzi a disposizione, chiunque voglia svolgere un'indagine sull'utilizzo di moduli musicali verdiani nel cinema contemporaneo, non trova difficoltà di sorta – democrazia livellante dei nuovi media -. Basta così accedere a una banca dati come quella fornita dall'Internet Movie Database8, per scoprire la ricorrenza – ai limiti dell'abuso – del nostro compositore nelle colonne sonore dei più svariati generi di film – tanto per citarne qualcuno, la melensa epopea teen dei vampiri in Twilight, l'oramai arciconosciuto serial cartoon dei Simpson, l'incommentabile Rocky Balboa -. Tendenza alla fagocitazione onnicomprensiva del cinema di cui si diceva, fin dunque ai limiti della dissacrazione. L'utilizzo strumentale di una musica immediatamente riconoscibile – come quella che sostiene alcune delle romanze più

5 Massimo Marchelli, Pari Siamo, Giuseppe Verdi e il cinema, in AAVV, Se quello schermo io fossi, a cura di Massimo Marchelli e Renato Venturelli, Le Mani, Recco – Genova, 2001, p. 17.

6 Massimo Mila citato da Massimo Marchelli, ibid.7 Guglielmo Pescatore, La voce e il corpo, op. cit., p. 80.8 Internet Movie Database, Giuseppe Verdi sountrack, http://www.imdb.com/name/nm0006333/, consultato il

18/6/2011.

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famose della lirica verdiana – dimostra anche l'irriverenza della macchina commerciale cinematografica, e più ancora: l'impossibilità stessa, a meno di una forzatura che non trova scusanti, di utilizzare la musica operistica come musica di commento. Dice bene Alessio Vlad nel Preludio a Se Questo schermo io fossi, raccolta di scritti composti sul nostro argomento: l'opera in quanto spettacolo totale, in cui è la musica però ad essere protagonista e medium plastico della vicenda, confligge per natura con la morbida trasparenza della colonna sonora nel cinema; lì, infatti, la musica «deve commentare stando sotto e non prevaricando mai»9, e dunque è facile capire come la musica muscolare di Verdi non potrà mai essere una musica “cinematografica”, relegata cioè a una semplice funzione di commento. E già Pescatore lo notava quando, sfogliando l'ampio catalogo di presenze verdiane su celluloide, ne attribuiva la causa a un “di più” - oltre il carattere popolare della sua musica: un'ulteriorità dunque che lo portava a disegnare «una vera e propria via italiana al melodramma cinematografico, e se si vuole, [...] una linea verdiana all'interno del nostro cinema»10. Linea franta, discontinua, labirintica – un panorama di soluzioni dal tono e dal significato differentissimo -, di certo però portante in quella cavillosa matassa che è il cinema autoriale degli ultimi anni: melodramma verdiano come cifra, parte integrante di una poetica. Un percorso, questo, che si vuole necessariamente parziale – limite imposto per ragioni di spazio e tempo, a una materia potenzialmente estendibile, se si pensa che l'ultima variazione sul tema si ha con Sorelle mai di Bellocchio, uscito in sala nel marzo 2011. Ci si limiterà dunque, peccando certamente di scarsa originalità, ai classici del genere, i già citati Visconti e Bertolucci, figli di quella temperie culturale che non aveva ancora relegato l'opera nel campo dei diversivi intellettualistici – e sì, che il cinema da un lato ha firmato la condanna a morte del teatro, sacrificio proseguito poi con successo dalla televisione, e dall'altro ne ha perpetuato forme e vezzi per tramite delle sue polimorfiche variazioni.

Si è detto che Verdi è per gli italiani quello che Shakespeare è per gli inglesi. È vero. E allora la sua opera deve essere un riferimento per i registi e gli sceneggiatori, mai per i musicisti11.

Sanguineti aveva visto giusto quando scriveva che «dov'era l'aria e il duetto vive l'inquadratura e la sequenza»12: la parentela tra opera e cinema si svolge qui, più che a livello musicale. Verdi è o è stato per molti un modello irrinunciabile, e questo innanzitutto – a meno di considerare opinabili pose citazionistiche – a livello profondo, di struttura drammaturgica.

9 Alessio Vlad, Preludio, in AAVV, Se quello schermo io fossi, op. cit., p. 6.10 Guglielmo Pescatore, La voce e il corpo, op. cit., p. 37.11 Alessio Vlad, Preludio, in AAVV, Se quello schermo io fossi, op. cit., p. 7.12 Edoardo Sanguineti, Verdi in technicolor, Il Melangolo, Genova, 2001.

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2. Luchino Visconti.

L'opera, quando ero ragazzo, era lo spettacolo per antonomasia. Andare all'opera era ancora come essere immersi nell'Ottocento. Per me, il sipario della Scala, tremolante prima dell'inizio dello

spettacolo, il preludiare degli strumentisti, rappresentavano l'anticipazione di ogni piacere. Avevamo il palco proprio sull'orchestra: stavo lì in ansia per la curiosità di sapere quello che sarebbe

accaduto una volta tirata la tela. Quel piacere, devo dire, il cinema non riesce a supplirlo. Non mi piace tornare a vedere un film che ho già visto: Il Trovatore l'ho invece visto e sentito tantissime

volte. È quello che mi succede con i romanzi13.Luchino Visconti

Una cosa è certa: qualunque spettacolo Luchino abbia affrontato – prosa, lirica, cinema […] - tutti i suoi lavori avevano sempre una matrice melodrammatica.

Franco Mannino14

C'è da credere a uno dei più fidati collaboratori del nostro regista, il musicista siciliano Mannino, legato a Visconti oltre che da un legame parentale, da una solida amicizia che fu il coronamento di un sodalizio trentennale (si contano così nove consulenze musicografiche e un'opera, Mario il Mago, per cui Luchino fu anche librettista). La dipendenza del regista dal melodramma ottocentesco è a tal punto nota da portare un altro accorto osservatore della sua opera, Micciché, a sfatarne il mito dell'esclusività: sì, l'opera è e rimane un punto di riferimento imprescindibile per l'intera produzione viscontiana – passione tutt'affatto che monogamica, però, se si considera la partecipazione al più vasto panorama musicale classico e contemporaneo, dal sinfonismo di fine Ottocento – Novecento fino alla canzonetta leggera, passando per il lirismo vocale e orchestrale. Il rapporto opera lirica – Visconti offre d'altronde più d'uno spunto, a chi voglia considerare anche quel repertorio di regie che fece di Luchino, dalla Vestale scaligera del '54 alla Manon Lescaut spoletina del '73, uno dei massimi registi lirici europei. È certo tuttavia che questa pure interessante branca d'indagine esula dal nostro oggetto precipuo: l'utilizzo di moduli melodrammatici all'interno del racconto cinematografico viscontiano – presenze per altro quasi del tutto limitate al caso di Verdi, selezione obbligata data anche l'articolazione e la vastità degli esempi possibili. Si deve a Cristina Gastel Chiarelli, legata anch'ella da legami familiari con il noto regista, una disamina accorta dei rapporti intrattenuti con l'universo musicale, e più specificatamente con quello lirico: secondo la studiosa, il compositore parmense sarebbe stato tra gli ospiti di casa Visconti, fatto che in sé testimonia solo parzialmente la vicinanza ideale tra i due autori. Una presenza per così dire genetica, iscritta nel paradigma stesso della produzione viscontiana, e che ben si attaglia oltretutto a quella tensione wagneriana che ne innerva le basi: la tentazione dell'assoluto cui risponderà il tentativo di fondere su pellicola gli stimoli proveniente da una cultura a tutto tondo, musicale, visiva, letteraria. Al fondo c'è l'idea di spettacolo completo, di mescolamento dei linguaggi. Il melodramma come forma volutamente ibrida, che pratica zone di confine: «Amo il melodramma perché si situa proprio al confine della vita e del teatro» 15, contaminazione arte- vita che per altro troverà il suo massimo risultato in Morte a Venezia.L'idea fondamentale è semplice e ben espressa da Gaetano Tramontana, quando scrive:

Nel melodramma Visconti trova la risposta a due fondamentali esigenze artistiche: la passione per la musica e un repertorio di drammi a forti tinte che ben si adattava alla sua ricerca di casi e situazioni

13 Luchino Visconti citato da Guglielmo Pescatore, La voce e il corpo, op. cit., p. 51.14 Franco Mannino, Visconti e la musica, Akademos & Lim, Lucca, 1994, p. 111.15 Luchino Visconti, citato da Giorgio Tinazzi, Un melodramma in abisso, in AAVV, Il cinema di Luchino Visconti, a

cura di Veronica Pravadelli, Biblioteca di Bianco e Nero, Quaderni n, 2, Roma, 2000, p. 147.

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estreme in quanto rivelatori dell'interiorità dell'individuo16.

A una concezione trascinante della musica di commento – scelta con quella cura maniaca oramai leggendaria – si associano dunque opzioni stilistiche riportabili al melodramma ottocentesco, ad esempio nella caratterizzazione dei personaggi – si veda la Natalia delle Notti Bianche – e soprattutto nella struttura narrativo – drammaturgica.Più specificatamente, la Chiarelli così riassume:

Il cinema fin dall'inizio, in modo sempre più manifesto, accoglie caratteristiche e convenzioni del melodramma quali la struttura in “atti” della sceneggiatura, la presentazione dei personaggi, spesso incatenati dal principio alla fine del film in un loro ruolo, la struttura dei dialoghi, il loro rapporto con la musica e con i silenzi, la rappresentazione di una realtà spettacolare con situazione e sentimenti estremi, la rispondenza di luoghi e di ambienti “cangianti” al gioco dei sentimenti stessi, la forza e la significazione di simboli e metafore, che si materializzano nei colori e nelle fogge dei costumi e degli arredi, usati come materia di narrazione.Al melodramma si rifanno, in taluni film, anche la musicalità, il timbro e il colore della voce degli attori, con il loro alternarsi e sovrapporsi, come al melodramma rimandano i rapporti tra “duetti” e scene corali, oltre vere e proprie citazioni musicali da opere liriche17.

Andremo ora a verificare questi rilievi di ordine generale nello specifico, prendendo in considerazione le opere ove è più manifesta un'influenza verdiana, attraverso cui Visconti compirà un percorso di maturazione che definirà di volta in volta le sue coordinate estetiche. Si parte così dal più americano dei suoi film, Ossessione del 1943, dal romanzo di Cain, Il postino suona sempre due volte. Tematicamente affine a quella che sarà una linea guida del cinema di Luchino, la vicenda d'amore rude tra la Calamai e Girotti racconta della disgregazione della famiglia e della degenerazione dei sentimenti: opera prima deflagrante, per il suo insistere su sanguigne passioni, il film si allineava alla voga americana dei Cecchi, Vittorini e Pavese, rompendo gli schemi – e gli schermi – idillici dell'assopita Italietta dai placidi costumi borghesi, con la torbidità della scarmigliata Giovanna. Micciché sottolinea così la saldezza strutturale della pellicola, divisa in due serie ternarie atte a scandire il racconto come se fosse «una drammatica parabola sull'inesorabilità e l'invivibilità del Fato»18, parabola che trova il suo fulcro nel personaggio femminile, costretta a un inoppugnabile destino di furia e crimine – l'uccisione del marito - . L'umanità dolente di una vera e propria “traviata” che sembrerebbe attraversare come tematica – il destino del bighellone, del disperso su cui Visconti tanto insisterà – e come motivo musicale l'intero film.Dunque, in Ossessione il melodramma starebbe in parte nella costruzione strutturale dell'opera: il rispetto del tradizionale ciclo del racconto che si configura idealmente in atti, qui segnati dalla netta cesura costituita dal delitto; presentazione dei personaggi e loro definizione vocale, oltre che caratteriale. Secondo la Chiarelli sarebbero melodrammatici persino i dialoghi «nella loro scarna e poetica elementarietà, nelle loro tensioni “contratte” nelle loro inattese “espansioni” come nella loro impossibilità di trasformarsi in reali colloqui»19. Ma il debito nei confronti di Verdi risulta plateale quando si consideri la ricorrenza di due temi musicali, di cui uno è l'aria di Germont della Traviata, appunto, Di Provenza il mar.Dopo i titoli di testa, costituiti da una carrellata in avanti sull'immagine d'una strada che scorre attraverso il parabrezza di un veicolo, la fermata del camion coincide con la scoperta della voce di Bragana, baritono dilettante, accompagnato dal suono di una chitarra, mentre canta i versi: Al natio fulgente sol Qual destino ti furò?. Quando Gino, il vagabondo nascostosi nel retro del camion, entra nella trattoria, un cliente riprende lo stesso passaggio al pianoforte. Mentre Bragana lo conduce verso il veicolo in panne, i due uomini incrociano due clienti che si allontanano cantanto la prima frase dell'aria: Di Provenza il mar, il suol...

16 Gaetano Tramontana, Invito al cinema di Visconti, Mursia, Milano, 2003, p. 160.17 Cristina Gastel Chiarelli, Musica e memoria nell'arte di Luchino Visconti, Archinto, Milano, 2006.18 Lino Micciché, Luchino Visconti: un profilo critico, Marsilio, Venezia, 1996, p. 8.19 Cristina Gastel Chiarelli, Musica e memoria, op. cit.

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Più tardi, durante il concorso a Ancona, Bragana intona l'andante da noi udito dall'inizio fino ai versi Ah! Il tuo vecchio genitor tu non sai quanto soffrì / te lontano, si squallor il suo tetto si coprì. Poi dopo un'interruzione, gli ultimi versi sono ripresi per il finale del pezzo: Ma se alfin ti trovo ancor [...] Dio m'esaudì! Seguiamo dunque l'intuizione di Suzanne Llandrat- Guigues quando attribuisce all'aria che trascorre lungo tutto il film, una funzione reduplicativa rispetto al tema fondante della “traviata” «che è a fondamento del film e va al di là del tema americano del tramp mutuato dal romanzo d'origine»20. In un certo senso, dunque, siamo vicini a Micciché – che ha sottolineato del film le riflessioni a carattere etico- esistenziale: seguendo e compenetrando il tema del vecchio marito beffato e tradito, quest'aria di Verdi, ripetuta in varie forme, ripresa ossessivamente, accompagna e persino giustifica il delitto dei due amanti – la degenerazione di Bragana portata agli esiti estremi di volgarità, quasi a necessitare la turpe azione di Giovanna e Gino.

Diamo qui spazio a due esempi ulteriori di utilizzo del melodramma lirico in Visconti, anche se non propriamente attinenti alla nostra linea di ricerca.Esula dall'ambito strettamente verdiano la citazione iniziale di Bellissima quando, sullo scorrere dei titoli di testa si innesta l'immagine del Coro e dell'Orchestra Rai diretta da Franco Ferrara: l'opera è L'Elisir d'Amore di Donizetti e la citazione vale ancora una volta per il suo valore strutturale. Sempre Mannino, al secondo incontro artistico con Visconti, si rivela un testimone affidabile e un valido commentatore delle sue scelte:

Per le musiche, Visconti, come ha sempre fatto in tutta la sua carriera, ha compiuto un'operazione culturale: le prime sequenza del film riprendono un concerto alla radio di Roma, in via Asiago, dove si vede Franco Ferrara mentre dirige l'orchestra e un concerto femminile in un brano dell'Elisir d'Amore. La decisione di inserire quei temi, liberamente parafrasati in chiave moderna, quale commento, era già stata presa da Visconti; addirittura prima di cominciare a girare il film. Luchino non poteva rinunciare all'opportunità di inserire il melodioso tema Quanto è bella, quanto è cara quando la bambina appare nel film. La Magnani, sua madre, la vede bellissima, mentre agli altri sembra buffa, e la deridono21.

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Qualche anno più tardi, con Le Notti Bianche, Visconti continuerà a nutrire la sua cinematografia di riferimenti musicali operistici, questa volta creando un gioco di riflessi tra Dostoevskij, dalla cui macronovella trae ispirazione, e il Barbiere di Siviglia. Nel film l'opera di Rossini è evocata nel corso di un flash- back in due sequenze, dove il personaggio della nonna intona con voce roca la seconda parte della cavatina di Rosina. Ancora secondo Llandrat Guigues:

la regia di Visconti illustra il doppio viso della Rosina di Rossini come lo ha concepito il libretto di Cesare Sterbini. A differenza della Rosina di Beaumarchais, la cui bellezza deve molto alla sua freschezza, alla sua rettitudine e alla maniera delicata in cui esprime i suoi sentimenti, quella di Rossini è insofferente di un giogo che intende scrollarsi al più presto22.

E la scelta viscontiana di far intonare l'aria alla nonna complicherebbe ulteriormente il piano dei riferimenti, facendo convergere nei personaggi del film tutta la molteplicità delle Rosine che si sono susseguite dalla versione di Beaumarchais a quella rossiniana.

Ma siamo già oltre l'esperienza centrale di Senso, uscito nel 1954, non a caso la stessa data del debutto operistico scaligero e callasiano di Visconti: storia d'amore e risorgimento, il lungometraggio per dirla con le parole solite di Micciché «segna una tappa nella storia

20 Suzanne Llandrat- Guigues, Il tramonto e l'aurora: sul cinema di Luchino Visconti, Schena, Fasano, 2002, p. 133. 21 Franco Mannino, Visconti e la musica, op. cit., p. 20.22 Suzanne Llandrat Guigues, Il tramonto e l'aurora, op. cit., p. 143.

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viscontiana e sembra al tempo stesso indicare una più matura prospettiva al cinema italiano»23. Rimarrà difatti opera di grande rilievo, isolatamente esemplare nell'ambito del filone storico del cinema italiano precedente e susseguente, ma è invero per la sua tenuta melodrammatica che a noi qui interessa. «Ho trasferito i sentimenti espressi dal Trovatore di Verdi dalla ribalta in una storia di guerra e di ribellione»24, e si potrebbe aggiungere, di quelle passioni tormentose caricate al massimo del loro potenziale, seguendo il più canonico dei sentimentalismi melò: non è un mistero che il film risponda su più di un fronte alle pretese di un esercizio stilistico, appunto la trasposizione in pellicola di fatti, gesti, atmosfere da opera lirica. Pescatore addirittura ne parlerà come di un vero e proprio film- opera, considerandolo in opposizione alla corrente neorealista ben affermata in Italia in quegli anni – e alla quale con questo film Visconti sembra rispondere con movimento speculare. Se torniamo alla definizione di Tramontana, per cui il melodramma sarebbe rintracciabile nel film anche e soprattutto a livello di struttura, non si può non considerare Senso come esempio cardine di questa casistica: così già il plot appare evidentemente intriso di elementi di genere, passioni estreme e tragiche, contrasti insanabili, una serie di accadimenti a senso unico. La sceneggiatura di Visconti (in collaborazione con un'altra regina del cinema italiano, Suso Cecchi d'Amico), più che un adattamento, risulta così essere una vera e propria riscrittura del racconto di Boito, che va decisamente nella direzione del teatro d'opera. D'altronde, la presenza di una rappresentazione lirica è tutt'altro che occasionale, o dettata da motivi spettacolari. Visconti si oppose fermamente alle volontà della censura di tagliare la scena iniziale, sui ci si soffermerà a breve nel dettaglio. Riguardo la scansione narrativa dell'intrigo, sarà Tinazzi25 a specificarne i tratti, rinvenendo all'interno della pellicola la presenza dei topoi melodrammatici tradizionalmente collaudati: i colpi a effetto – il cadavere del soldato austriaco rinvenuto durante la passeggiata veneziana -, i nodi drammatici – l'arresto di Ussoni -, imprevisti e complicazioni narrative che mettono a rischio lo svolgimento privato degli eventi – l'incendio della villa vicina, ad Aldeno -, confessioni ed equivoci – Livia trova Ussoni pensando di trovare Mahler -, colpi di scena – l'improvviso arrivo di Franz in villa -, la fuga – il viaggio a Verona -. Il film prosegue dunque seguendo moduli narrativi ai limiti dello stereotipo, costruiti attorno ai tre personaggi centrali: la contessa Serpieri – impersonata da un'Alida Valli che sembra presenza costante e musa ispiratrice del cinema operistico, la ritroveremo con Bertolucci -, Franz Mahler, cui ben s'attaglia il binomio classico di bello e dannato, e Ussoni, patriota italiano e cugino di Livia, della cui piattezza i critici non hanno mancato di segnalare il difetto. Sempre Tinazzi ci dirà dunque della riduzione dei personaggi a “segni” evidenti, partecipi di un “movimento” che vuole riallacciarsi alla convenzione. Per questa propensione a una significazione a tutto tondo, i loro gesti sono marcati; un esempio chiaro viene dalla scena madre con la prostituta, con Livia che si aggrappa alle tende della stanza quando sente una voce femminile che chiama Franz; e Franz, poco dopo, strappa bruscamente il velo nero dal viso di lei, mentre inizia la musica di sostegno. Sottolineature al limite del rischioso, ma che rispondono a pieno a un'intenzione confessata. Sarà Luchino Visconti, ragionando sul suo sodalizio artistico con la Callas, a descriverci la recitazione melodrammatica con queste parole:

La recitazione lirica, melodrammatica, è diversa; è una recitazione enfatica, nella quale vanno sottolineate certe cose. [...] Si sa bene che il melodramma richiede una specie di dilatazione dei sentimenti, dei gesti, degli atteggiamenti, ecc26.

23 Lino Micciché, Luchino Visconti: un profilo critico, op. cit., p. 29.24 Luchino Visconti, Riflessioni su “Senso”, in AAVV, Leggere Visconti, a cura di Giuliana Callegari, Nuccio Lodato,

Amministrazione provinciale di Pavia, Pavia, 1976, p. 68.25 Giorgio Tinazzi, Un melodramma in abisso, in AAVV, Il cinema di Luchino Visconti, op. cit., p. 14826 Luchino Visconti, Visconti racconta: La Callas e la recitazione nel Melodramma, in Lino Micciché, Luchino

Visconti: un profilo critico, op. cit., p. 124.

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Dunque atmosfera febbricitante, elettrica, esaltazione del gesto – quanto ci ricorda qui il muto, e in fondo la sua vicinanza al movimento esagerato proprio dell'opera, una recitazione da Diva alla Sunset Boulevard -, spesso additata dalla critica come eccessiva. Resta il fatto incontrovertibile che qui Visconti trova il modo di smarcarsi dall'abusata poetica neorealistica, per avvicinarsi a una sorta di «realismo estetico», misura più vicina ai suoi interessi culturali più ampi. Dunque cifra stilistica fondante, in grado di ripartirsi tra le arie -monologanti-, i duetti e i cori. Con le parole di Tramontana: tre elementi portanti facilmente rintracciabili «rispettivamente nelle tribolazioni amorose e di coscienza di Livia, nei suoi incontri con Franz e nelle parti appunto corali che tendono ad affrescare i moti risorgimentali e in particolare la battaglia di Custoza»27. A proposito della dimensione monologante introdotta nel film dalla voce narrante di Livia: bella l'intuizione di Llandrat Guigues, quando considererà questa scelta in linea con la dimensione temporale e spaziale introdotta fin dall'esordio del film con la celeberrima sequenza del Teatro La Fenice. Una voce che conferisce al racconto una dimensione memoriale altrimenti perduta, e che puntella a più riprese quell'esordio esemplare, «voce lirica che, per mobilità, le apparizioni (12 occorrenze nel film), e le sparizioni, modula in maniera teatrale le scene che accompagna»28, e che perverrà ad un'autonomizzazione catartica nel finale, in forma d'urlo.

Essendo la voce, per eccellenza, ciò che si perde, si propaga o riecheggia, essa favorisce la creazione d'un fuori campo temporale, sempre difficile da mettere in pratica al cinema, mentre nella novella di Boito la voce della narratrice era narrativamente localizzabile “sedici anni dopo un'avventura accaduta a Venezia”. In quale luogo e in quale tempo si esprima la Contessa del film resta del tutto confuso. L'opera lirica, col gioco delle reinterpretazioni, è diventata una forma eternamente ripetitiva nel momento in cui Visconti dà inizio al suo film (Livia Serpieri stessa confessa che a Venezia “il tempo non esiste più”)29.

Non si uscirà mai dal Teatro la Fenice: i personaggi si muovono sullo sfondo di una Venezia appiattita su fondali teatrali desaturati – ancora si guardi in particolare la scena della passeggiata o quella dell'intrusione notturna di Franz ad Aldeno: qui Visconti darà prova di una maestra registica d'impronta dichiaratamente teatrale – i due protagonisti isolati in una camera, mentre tutto ciò che è fuori è intuibile solo attraverso la partitura sonora, il ringhio dei cani da guardia, il trambusto conseguente degli abitanti della villa. Spazialità teatrale, pittoricismo ottocentesco – quanto Hayez e quanto Signorini è possibile vedere dietro il taglio dell'inquadratura viscontiana ? -, letterarietà dell'espressione («i dialoghi come libretti d'opera» per Tinazzi): tutto questo concorre a definire Senso, come il più operistico e ottocentesco dei film italiani del tempo, e probabilmente di tutti i tempi.

(http://www.youtube.com/watch?v=gnJliUutkWQ)Riserviamo alla chiusa la lettura analitica della prima scena, si è detto appunto la sequenza girata al teatro La Fenice di Venezia, di cui Mannino stavolta ci dice:

Stupenda, fra l'altro, la scena del Trovatore alla Fenice di Venezia, nella quale si ascolta un disco del tenore Gino Penno; mentre sullo schermo Visconti portò un vero cantante, molto in voga quel periodo. Si trattava del baritono Giulio Fioravanti, che avevo lanciato proprio io al San Carlo di Napoli. […] Solo che, come ho già detto, Fioravanti era un baritono; fu quindi generoso, ma lo fece per la stima che nutriva per Luchino, ad accettare la parte di Manrico, che è tenore, e a fingere di cantare la celebre aria verdiana Di quella pira. Al principio del quarto atto, la voce di Ruiz era di Caruso Mariano, mentre quella di Leonora – nel film interpretata dalla Martinez, allieva della scuola di canto della Fenice – era di Maria Callas30.

27 Gaetano Tramontana, Invito al cinema di Visconti, op. cit., p. 162.28 Suzanne Llandrat Guigues, Il tramonto e l'aurora, op. cit., p. 142. 29 Ibid.30 Franco Mannino, Visconti e la musica, op. cit., p. 26.

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Mentre Pescatore riporta la presunta genesi di questa stessa scelta, basandosi su un racconto di Franco Zeffirelli: Visconti si sarebbe trovato ad assistere a un'edizione scaligera del Trovatore nel 1952, da un palco di proscenio, percependo quindi parte della sala come sfondo dell'azione teatrale. L'intuizione sarebbe giunta con l'entrata in scena della Callas, al IV atto, per l'assolo di Leonora.Attendibile o meno che sia il racconto, rimane più che certa la ripresa del III e IV atto dell'opera verdiana all'inizio del film, sequenza oramai più che conosciuta, che non termina di produrre commenti e commentatori. Secondo Pescatore, essa sarebbe strutturata appunto secondo modalità che ricordano in parte l'opera parallela, affermandosi con funzione d'ouverture all'interno dell'economia narrativa del film. La pellicola si apre con un'inquadratura fissa in campo lungo del palcoscenico, proseguendo poi con un movimento di macchina complesso che ribalta il punto di vista: prima dal loggione verso il palcoscenico – carrellata in avanti -, poi dal palcoscenico, compresi gli attori, verso la platea. Sui titoli di testa scorre il duetto finale di Leonora e Manrico (Vieni ci schiude il tempio / gioie di casto amore). Mentre Manrico canta la celeberrima romanza Di quella pira, la macchina panoramica giunge a scoprire gli orchestrali, parte della platea e dei palchi, gremiti di ufficiali austriaci e civili. Ecco realizzata la proiezione del sentimentalismo melodrammatico su una realtà contemporanea. Il parallelo continua, e mentre sullo schermo compare Ussoni con i patrioti italiani, sul palcoscenico il coro degli armati canta: All'armi! All'Armi!/ Eccone presti a pugnar teco o teco a morir. Nella sequenza successiva, mentre Livia si preoccupa della sorte del cugino, Leonora canta Salvarlo io potrò, forse. Il principio organizzatore giunge a disvelarsi apertamente nel momento del primo incontro di Livia con Franz: così mentre Leonora canta implorante il suo amore per Manrico, oltre la ribalta, nei palchi, ha inizio una passione che è l'immagine speculare, sordida e decadente, di quella rappresentata a teatro. «L'opera non mi piace quando si svolge fuori scena. Non è che ci si possa comportare come un eroe da melodramma senza riflettere alle conseguenze, gravi, di un gesto impulsivo o dettato solo da qualche imperdonabile leggerezza», la battuta che Alida Valli- Livia Serpieri rivolgerà a Farley Granger – Franz Mahler, già in odore di furente passione. Allo stesso modo, alla fine del film, lo svuotarsi della scena rimanda a un principio registico- scenografico di tipo teatrale; e i bastioni di Verona contro i quali avverrà la fucilazione, sostituiscono la prigione di Manrico davanti alla quale canta Leonora, ma il colore blu irradia, trasforma in notte convenzionale e in scena questa inquadratura, apparentandola allo spazio scenico de La Fenice.

Si può dire senza temer d'incorrere in abbaglio, che nel verdiano Senso si dà prova di un certo wagnerismo, quel saggismo poetico che ne Il Gattopardo troverà la sua piena manifestazione – ancor prima nel romanzo che nel film. Per quanto il riferimento principale a Verdi sia qui nell'utilizzo del valzer (rimaneggiato da Rota), anche il romanzo di Sicilia è ascrivibile a un certo operismo d'impostazione. È vero, come dice Tramontana, che l'osservanza del dettato di Tomasi di Lampedusa comporta un passaggio dal melodramma alla sinfonia, «con il principe di Salina quale gran concertatore»31, ma il Burt Lancaster titolare di un'interpretazione splendidamente classica, ha qui l'aura e l'aria di un autentico tenore con brunitore baritonali. Anche il Gattopardo ha un inizio emblematico: il rosario interrotto dalla notizia dell'arrivo delle truppe garibaldine rivela immediatamente la rigidità viscontiana, evidente nella dilatazione temporale dell'azione e più ancora nella compiaciuta staticità delle immagini, ormai riprese solo in campi larghi e dall'alto, incrociando così l'effetto “palcoscenico” e il realismo dei luoghi reali dell'azione. La conseguente presunta bellezza delle inquadrature si anima solo dall'interna agitazione dei personaggi, con teatrale coralità intorno alla statuaria presenza del protagonista.

31 Gaetano Tramontana, Invito al cinema di Visconti, op. cit., p. 92.

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Il melodramma risulta quindi più suggerito che effettivamente citato, con qualche squarcio che sa però di operismo, dalla notte in cui si compie il plebiscito all'arrivo a Donnafugata per le vacanze, ai duetti tra il principe e gli invitati della storia.In generale, tuttavia, siamo oramai al tramonto della fase melodrammatica viscontiana, di cui resta traccia secondo il solito Tramontana «nella caratterizzazione di alcuni protagonisti, nel rilievo riservato alla musica, nelle opposizioni dialettica tra personaggi»32. Ma la storia del principe di Salina ha già caratteri monologanti che si distaccano dalle esperienze precedenti e un procedere contemplativo che è tutt'altro rispetto alle grandi tinte del melodramma. Per dirla con Marchelli: «Non è questo romanticismo verdiano, semmai una sorta di manierismo autoreferenziale»33.Ciò non intacca minimamente, in ogni caso, la fiera adesione di Visconti alle modalità dell'opera lirica, vera stella polare di un suo certo cinema, ed in parte cifra della sua stessa personalità; come a dire, della “differenza” viscontiana nel senso forte del termine, la differenza che viene dall'assunzione profonda, inevitabilmente dolorosa. Come ha scritto Renzo Renzi:

Il cinema e il teatro furono, per lui, l'occasione di un lungo godimento estetico, quindi di una lunga liberazione, ma insieme anche di una lunga, molto civile, espiazione34.

32 Ivi, p. 162.33 Massimo Marchelli, Pari Siamo, Giuseppe Verdi e il cinema, in AAVV, Se quello schermo io fossi, op. cit., p. 15.34 Renzo Renzi, Visconti segreto, Laterza, Roma, 1994.

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3. Bernardo Bertolucci.

D'altro canto in America, dove c'è una repubblica, è d'obbligo annoiarsi tutto il giorno e fare seriamente la corte ai bottegai di strada, divenendo ottusi come loro; e poi, laggiù, non c'è l'opera lirica! 35

Stendhal, La Certosa di Parma.

Il passo è breve: dalla Parma di certose e corti – intrigo di passioni immaginose, perché italiane, e politiche di palazzo – a quest'altra, ripresa con la carezza di una camera aerea nella domenica di Pasqua del '62. Prima della rivoluzione, un Bertolucci ventiquattrenne tutt'altro che spaesato alla macchina da presa, e un'apertura colta – lo sarà tutto il film, a dir della critica – tesa tra il Pasolini greve de La religione del mio tempo e gli organetti acuti di Morricone. Su tutto questo la corsa di Fabrizio, nuovo Del Dongo in cravattino e camicia, taglia la città assopita nelle sue blasfeme credulità – guai a chi non sa / che è borghese questa fede cristiana –, provincia bella perché poco provincia, dirà in seguito il nostro autore.

Mio padre mi diceva sempre che sotto il fascismo Parma era provincia, ma una provincia estremamente raffinata, legata direttamente al mondo francese […] Perciò, anche a causa di questi discorsi, io all'inizio ho avuto con Parma un rapporto mitico, da bambino di campagna 36.

Bambino che, si aggiungerà, non smetterà di attraversare aie e filari di pioppi in Novecento, e che qui ci descrive «i bastioni le barriere doganali, i campanili come minareti, le cupole come colline di pietra, i tetti grigi, le altane aperte e giù più giù le strade, i borghi, le piazze, la piazza». Gremita dai sonnambuli mai nati, i borghesi della «messa a mezzogiorno», la piazza di Parma che irride Fabrizio e il suo amore sconcio e scomodo – sì, lo stesso che Stendhal ci dice nel romanzo, e non mancherà di sorriderne di lato -, l'amore peccaminoso per natura, o forse per ancestrale ribrezzo, che è quello incestuoso. Dall'altro lato, invece, Clelia, Clelia che è quella «parte della città che ho rifiutato, è quella dolcezza di vivere che io non voglio accettare»: quattro anni dopo sarà il '68, e questo ha tutta l'aria di sembrarne un preludio. D'altronde Bertolucci qui sconta l'obbligo di espiare una paternità ingombrante e prepotentemente politica – citata in testa forse anche per poter meglio distaccarsene: Bernardo esordisce con Pasolini, al quale si affiancherà nelle riprese di Accattone. Siamo alla metaforica “uccisione del padre” - il lessico freudiano tornerà a più riprese, e non per nostra volontà -, vero e proprio atto di nascita del “nuovo” generazionale, e del “nuovo” cinema in particolare. Tornando al nostro tema: dov'è l'operismo, dov'è il melodramma in una pellicola che pretende di aderire – atto rivoluzionario! - al suo presente? - pretenziosità, sarà il vezzo e il difetto di tanto cinema bertolucciano.La scena al Teatro Regio di Parma, finale in più di un senso – sancirà la sconfitta definitiva del protagonista e il suo rientro nei ranghi, brivido della previsione esatta a ripensarci col senno di poi -, e la rappresentazione del Macbeth: ecco dove con più chiarezza compare il debito contratto da questo figliol prodigo del cinema italiano, nei confronti del compositore suo conterraneo. Non stupisce che sia Micciché a metterne in luce, con una lucidità d'analisi controcorrente rispetto alle vedute critiche più ortodosse, rinvii e caratteri. Se Prima della rivoluzione è film concepito, raccontato e girato in funzione antipasoliniana, non lo si potrà neanche ridurre, come pure molti hanno fatto, ad una pedissequa imitazione del Godard di A bout de souffle. La telecamera sporca, il montaggio sincopato, pieno di spezzature stilistiche – una narrazione tutt'altro che realisticamente mimetica -, rendono questa scrittura filmica innegabilmente francese. Eppure, e qui arriva Micciché:

C'è un parziale padre occulto nel Bernardo Bertolucci di Prima della rivoluzione. Accanto al padre

35 Stendhal, La Certosa di Parma, traduzione di Gianni Celati, Feltrinelli, Milano, 1993, p. 441.36 Bernardo Bertolucci, in Stefano Socci, Bernardo Bertolucci, Il Castoro editore, Milano, 2008, p. 5.

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negato, Pasolini, e al padre affermato, Godard, c'è occultato forse financo nell'“inconscio” del giovane regista parmense, Luchino Visconti: con il suo senso della rivoluzione impossibile e dell'integrazione inaccettabile; con il suo rapporto con la Storia come Storia altrui, non vivibile da chi è “prima della rivoluzione!”; con il suo senso del teatro e del melodramma, dell'impegno e della estenuazione, della decadenza e della infrazione, dell'ideologia e della morte 37.

Dunque alla rinnegata paternità pasoliniana non corrisponde la sostituzione meccanica di un'integrale putativa paternità godardiana, ma un gioco più complesso di ispirazioni, suggestioni e dipendenze. Eravamo alla fase manieristica del Visconti gattopardesco, e da qui ripartiamo: un gioco d'omonimia innanzitutto – ironia del caso? -, Fabrizio – Francesco Barilli e Fabrizio Salina – Burt Lancaster. Entrambi personaggi segnati dal senso drammatico di un'estraneità: partecipi di un Presente al tramonto, estromessi dalla Storia. Ma oltre Il Gattopardo, sarà ancora Micciché a rilevare un probabile viscontismo nascosto nella scena girata in teatro. Qualche anno prima era Senso, La Fenice di Venezia e la rappresentazione de Il Trovatore, dislocata fra palchi, poltrone, palcoscenico e foyer, come si è visto, esordio funzionale all'assegnazione dei ruoli nella storia. Allo stesso modo, e in maniera invertita, la sequenza chiave del Teatro Regio parmense e la rappresentazione del Macbeth, dislocata tra palchi, poltrone, palcoscenico e foyer, riassume i ruoli che la “storia” finisce per lasciare ai personaggi: Fabrizio e Gina, l'amata zia, Clelia e la Famiglia. In un caso, quello viscontiano, la chiave operistica verdiana è enunciativa, laddove nell'altro è decisamente conclusiva.

Ma in ambedue il rito teatrale è quello in cui la Storia si trasforma in sintesi rituale, con i ruoli ben divisi; i personaggi negativi (Livia in Visconti, Fabrizio in Bertolucci) nei palchi; i personaggi che mediano il dramma vanamente cercando di mutarlo (Ussoni in Visconti; Gina in Bertolucci) in platea; e tutti insieme a guardare il palcoscenico, dove ha luogo la rappresentazione mimetica della vita.

Diverso invece il risultato da un punto di vista strettamente tecnico: alla classicità dell'adesione in Senso, risponde qui una modernità più ardita, la disfrasia pressoché totale fra piano visivo e sonoro. Tra la partitura verdiana del Macbeth, che sentiamo in colonna, e quello che vediamo accadere in teatro non vi è nesso: ne sentiamo già le prime note mentre la gente, inclusi i protagonisti, sta ancora entrando a teatro; e la musica continua mentre si schiude il sipario, si accendono le luci e la gente applaude. Artificio, tuttavia, che anche Visconti non aveva mancato di osservare in un altro suo film, Le notti bianche, quella volta si è detto con Il Barbiere di Siviglia. E allora si può ben dire che questi quasi dieci minuti condensano efficacemente la vicenda del film e buona parte della poetica bertolucciana, ineluttabilità del disincanto a fronte di un'illusione irrinunciabile. Adriana Asti, appena liquidata, rientrando in sala lo afferma apertamente citando la propria giovanile insofferenza verso l'opera: «Che noia Verdi! Verdi, Verdi! Così amato, non se ne può più. Dopo tutto che cos'è: quello che noi non siamo. Basta lo odio. Preferisco Mozart». Bella strizzata d'occhio di un regista che guarderà sempre – e forse più – al metafilmico che al filmico («Lo stile dei miei film […] non dipendeva soltanto da quello che dovevo raccontare ma anche da questo punto interrogativo sulla natura del cinema. […] Malgrado il passare degli anni, fare un carrello ha sempre significato per me anche investigare la natura del carrello»38): come vedremo per almeno altre due opere dello stesso Bertolucci, l'utilizzo di moduli operistici sarà tutt'altro che casuale, frutto anzi di quella meditazione che muove ogni suo ciak. Si può dire, dunque, che Micciché avesse ragione nel definirlo come il «più viscontiano dei registi postviscontiani»39, eletto, a suo dire, dallo stesso autore di Senso come principe ereditario. Rimangono, questo è certo, due esperienze radicalmente altre, entrambe legate da un certo grado di esibita letterarietà, di certo però più romanticamente classica in uno, onirica, surreale – decisamente sopra le righe – nell'altro.

37 Lino Micciché, “Prima della rivoluzione”, in AAVV, In viaggio con Bernardo: il cinema di Bernardo Bertolucci, a cura di Roberto Campari e Maurizio Schiaretti, Marsilio, Venezia, 1994, p. 38.

38 Bernardo Bertolucci in Enzo Ungari, Scene madri di Bernardo Bertolucci, Ubulibri, Milano, 1982, p. 196.39 Lino Micciché, “Prima della rivoluzione”, op. cit., p. 38.

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Non è un caso che la seconda Parma, questa volta più agreste, la Parma che odora di culatello e fienili, sia filtrata dal Borges del Tema del traditore e dell'eroe, e dei suoi rovelli trattiene la magia della sospensione e dell'ambiguità: La strategia del ragno, il cui approdo su grande schermo è collaterale – e la bassa produzione si vede nella semplicità delle ambientazioni, questa val Padana di casolari e pianori gialli- è film di viaggio e memoria. Odissea del ritorno di Athos Magnani, il film certifica l'attitudine verdiana del nostro regista, a cominciare dalla ricomparsa della musa viscontiana di Senso: una bellezza che non si può dir del tutto sfiorita, Alida Valli impersona Draifa, amante di quel padre morto – è ancora questione di padri – il cui fantasma muove i fili della ricerca. Draifa ambigua e ambivalente, perennemente perduta nella polvere della sua villa, è un personaggio senza tempo e senza storia, agente di memoria e signora della reticenza. Tinazzi vede già in lei il chiaro esempio di una propensione al teatro:

I percorsi spaziali di questi [padre e figlio] per arrivare a lei sono sempre prolungati, quasi movimenti dentro scenografie, i dialoghi con lei avvengono spesso su fondali evidentemente finti, come fossero quinte teatrali. La complessità della memoria è la complessità della messa in scena40.

A riconferma, fra le altre cose, della propensione bertolucciana al metacinema, in linea con il suo ben marcato gusto per certe finezze intellettualistiche. Il film, dirà Tinazzi, rimane un percorso all'interno della rappresentazione e delle sue componenti: la base di scrittura – quel “serbatoio di immagini” che Attilio padre utilizzava in poesia -, la figuratività in parte dechirichiana di certe inquadrature, e certo la musica. È la complessità di linguaggio, le potenzialità della messa in scena che vengono coinvolte nel discorso bertolucciano, ed è forse qui che l'eredità di Visconti si rende più manifesta: quasi una disarticolazione del principio wagneriano che fa della settima l'arte più completa e complessa. In Prima della rivoluzione il Regio era stato il teatro della resa dei conti – prepensionamento delle istanze rivoluzionarie del giovane Fabrizio, dirà Marchelli41; anche qui il teatro, cuore dell'immaginaria città della bassa, Tara, è il luogo della rivelazione e della chiusa: la manifestazione della verità (confessata da Beccaccia e poi dai tre amici del padre interpellati da Athos figlio) avviene nel luogo della finzione. Un teatro che si vede, e innanzitutto, si sente (all'orecchio più accorto non sfuggirà l'aria del Trovatore canticchiata da uno dei personaggi). Ma il melodramma è presente in una maniera più sfacciata e colorita, questa passione per la musica che fa tutt'uno con la passione per il buon cibo (cibo così presente, si diceva dell'assaggiatore di salumi, divinità della tavola imbandita che sarà rievocato ne La Luna). Tara è il luogo del padre, della memoria, della tradizione: lo strascico della parlata emiliana, le pitture naifs che ruotano sui titoli di testa, il melodramma come musica mitica, com'ebbe a dire lo stesso regista («musica mitica per un personaggio mitico»); siamo nell'ambito di un'arte ricca per poveri, il melodramma popolaresco e la consuetudine del suo teatro. «Mi sembrava di essere uno di quei personaggi lì, hai capito? » dirà Garibazzi ad Athos, quando parlando di un progetto sventato e ingenuo, l'assassinio di Mussolini, si paragonerà ai congiurati di Un ballo in maschera; tutta Tara diverrà un gran teatro, così Athos padre quando immaginerà la messa in atto del piano. E allora dice bene Tinazzi quando afferma:

Bertolucci fa sue, sul piano del racconto, le struttura predilette dal melodramma: il sotterraneo filo conduttore, quello dell'eroe e del traditore, dà luogo al processo di disvelamento tipico del genere, al “togliere la maschera”. Un genere che ama le evidenze, l'enfasi (l'uccisione del leone, il suo funerale), le scene madri, originarie […], le scansioni, le ripetizioni, le coincidenze (Athos padre ucciso durante la recita del Rigoletto, come avrebbe dovuto essere ucciso il Duce), i richiami (Athos rinuncia a partire da Tara, e il suo ritorno è scandito da brani del Rigoletto: “... mi coglierà sventura?...”). La rappresentazione cerca l'intensificazione del senso, soprattutto attraverso commistioni, prima fra tutte quella del guardare e dell'ascoltare42.

40 Giorgio Tinazzi, “Strategia del ragno”, in AAVV, In viaggio con Bernardo, op. cit., p. 59.41 Massimo Marchelli, Pari Siamo, Giuseppe Verdi e il cinema, in AAVV, Se quello schermo io fossi, op. cit., p. 20.42 Giorgio Tinazzi, “Strategia del ragno”, op. cit., p. 61.

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Se il film vale però per questo «gesto di sospensione leggero ma essenziale»43, è anche per l'abilità di Bertolucci nel plasmare il melodramma secondo le sue precise esigenze e tentazioni. Così, come ha rilevato Peter Brooks, il procedimento di visionarietà e disvelamento propri del melodramma si sposano spontaneamente all'onirismo del cinema bertolucciano, a questa sorta di «naturalismo dei sogni» che è anche regressione infantile – appunto si diceva, ritorno, memoria. Dall'altro lato, il richiamo è alla psicanalisi, al suo tentativo di far sì che l'universo torni a risultare un ininterrotto reticolato significante – tratto che risulterà manifesto nel film della Clayburgh che andremo ad analizzare. La pienezza del linguaggio del melodramma, la sua propensione a scoprire, a seguire i percorsi del desiderio, battono sentieri che sembrano incrociarsi con il percorso psicanalitico. Ma al di là di diramazioni e deviazioni, è vero quel che dice Tinazzi, e cioè che il «melodramma si propone innanzitutto come messa in scena della scrittura, e come messa in scena della visione, cioè teatralizzazione»44. Non stupisce che sia un discorso linguistico a sorreggere questa storia di smarrimento e agnizioni: in fondo sarà lo stesso tipo di approccio, più maturo e più estremo – fin quasi ai limiti dell'accettabile – praticato da Bertolucci nel tardo La Luna.

«Dopo Novecento, insomma, avevo bisogno di fare un film che fosse l'opposto, molto intimista, basato su due o tre personaggi al massimo, un film in cui la politica non fosse così centrale […]».45 Non c'è effettivamente nulla di politico nel dramma sconclusionato e divagante di una madre distratta e vanesia come l'americanissima Clayburgh di questo film, e di un figlio disperato fino ai limiti della tossicomania: male accolto in Europa come in America – e non ce ne stupisce visto il basso grado di puritanesimo che richiede la visione di un film del genere-, Bertolucci qui fa mostra per alcuni di un'ilarità istrionica che strizza l'occhio al suo cinema passato, per altri di una ben più indubbia mancanza di gusto – e se gusto c'è, è quello per l'eccesso e lo sconcerto. Si tratta anche qui di un ritorno: al passato dei film precedenti, alla città natale – ancora la Parma color tempera di viali di ghiaia e alberi alti- ritorno alla madre, dopo un'intera filmografia dedicata, per stessa ammissione del regista, alla figura paterna. Non stupisce che, quasi a voler rassicurare lo spettatore stordito e il critico pressoché disgustato, Bertolucci sarà prodigo di commenti e spiegazioni, appellandosi all'irrevocabilità di un certo inconscio e alla fulminazione di un ricordo autobiografico.

Quello che può esserci di autobiografico nella Luna riguarda essenzialmente, nella sequenza iniziale, il confronto tra due immagini: la luna e la madre. […]46

Dopo una filmografia letteralmente intrisa, fin dall'inizio, di istanze inconsce, all'ombra della psicanalisi, La Luna rappresenta il momento in cui trovo il coraggio di puntare la macchina da presa, per modo di dire, sulla scena primaria47.

L'amore tra Gina e Fabrizio in Prima della rivoluzione, ancora ammantato dalla pudicizia del rimosso, sarebbe qui estremizzato fino alle ultime conseguenze: è un rapporto edipico senza censure né pregiudizio che Bertolucci ci racconta, questa passione riparatrice che consegue alla morte – accidentale – di un padre casuale – ad inizio film, e allo smarrimento del quindicenne Joe, soccorso dalla madre con una premura decisamente eccessiva.Non è solo l'insistenza esplicita sull'erotismo edipico, però, a causare l'insofferenza dell'ignaro spettatore; lo sconcerto deriva dalla forma stessa del film, dal suo ostentato ibridismo. Siamo

43 Francesco Casetti, Bernardo Bertolucci, La Nuova Italia, Firenze, 1975.44 Giorgio Tinazzi, “Strategia del Ragno”, op. cit., p. 61.45 Bernardo Bertolucci, La mia magnifica ossessione: scritti, ricordi, interventi (1962- 201), a cura di Fabro Francione

e Piero Sila, Garzanti, Milano, 2010. 46 Ivi, p. 95.47 Bernardo Bertolucci in Enzo Ungari, Scene madri di Bernardo Bertolucci, op. cit., p. 191

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qui di fronte a una commistione di linguaggi scentrata ed eccentrica, che non esiterà dunque a riutilizzare ancora musica e visionarietà da melodramma, giungendo alla netta dichiarazione di debito in almeno tre episodi, smaccatamente verdiani.

Quando si parla di cinema si tracciano sempre delle categorie: commedie, tragedie, drammi eccetera, nella vita le cose si svolgono altrimenti, si può ridere e piangere insieme. Io ho scelto di interrompere i momenti drammatici del film con delle gag... […] io pratico la nouvelle dramaturgie48.

Poco prima di girare il film, avevo letto un libro di Roland Barthes che si chiama Il piacere del testo, un saggio breve in cui dice di sognare il momento in cui, in letteratura, ma per me la cosa valeva anche per il cinema, sarebbe stato possibile mescolare la commedia con la tragedia, mettere insieme delle cose che all'apparenza, secondo le regole del gioco, non possono stare insieme. Forte di questa lettura, mi ricordo che in Francia, quando feci vedere il film, parlai di una nouvelle dramaturgie, e cioè di una drammaturgia basata sull'idea di Barthes: mescolare materiali apparentemente disomogenei, contrastanti.

L'idea viscontiana di mescolamento dei linguaggi è qui portata ai suoi esiti estremi in chiave postmoderna: La Luna rimane il film operistico di Bertolucci, ma in maniera radicalmente diversa rispetto all'impostata rigidità teatrale di Senso – al quale per altro ci si riallaccia per tramite di un'onnipresente Alida Valli, stavolta madre terrifica, dimenticata in una villa di Sabbioneta. Siamo anche qui nel quadro di un esercizio di stile, aperto stavolta al nuovo sapere di massa televisivo, e il cui repertorio di forme e temi esercita una decisa pressione riformante sulle recondite armonie del melodramma classico: «mielodramma» - in riferimento alla scena in cui il bambino succhia il miele dalle dita materne – e musical, a dire del regista, il film gioca a rinnegare la purezza d'espressione dei macrogeneri su cui pone le sue stesse basi; come a dire, coabitazione forzata di cinema, teatro e opera lirica in una sintesi audiovisiva che sa di pastiche e improvvisata. Casadio lo definirà un «pesante e a volte grottesco polpettone»49, dove Kezich sulla Repubblica urlava al misfatto: «Per tutto il resto del film non crediamo un solo momento alla tragedia familiare che recitano per noi la spaesatissima Jill Clayburg e l'antipatico ragazzo Matthew Barry: nel loro odio- amore che trascorre dalla rissa con pugni e schiaffi alla masturbazione e quasi all'incesto, non c'è ombra di verità»50. Probabilmente perché Bertolucci stesso non voleva essere creduto: all'omogeneità del racconto preferisce l'irruenza e lo scherno del ritorno alle origini ( «un film sulla fantasia incestuosa deve essere attraversato da quel movimento violentemente autoerotico e incestuoso che sta dietro l'autocitazione»51), l'esibizione della finzionalità. Succede così che le disarmonie cronachistiche del dettaglio accessorio, del minimo evento, sregolano e fessurano continuamente le disposizioni armoniche del melodramma, comunque considerato come punto di partenza – e di arrivo -:

La luna si riferisce esplicitamente all'opera lirica, al melodramma, e non è un caso se la protagonista è una cantante; il film è costruito su una serie di giochi di specchi, dove la vita e la rappresentazione della vita si confrontano con la scena dell'opera52.

E a confermare quanto si diceva prima sulla coincidenza di visionarietà melodrammatica e onirismo psicanalitico:

Se penso alla famosa opera di Verdi La forza del destino, sarei tentato di chiamare questa storia La forza dell'inconscio. Tuttavia la mia volontà era di non fare della psicologia ma di andare in una

48 Bernardo Bertolucci, La mia magnifica ossessione, op. cit., p. 97.49 Gianfranco Casadio, Opera e cinema: la musica lirica nel cinema italiano dall'avvento del sonoro ad oggi, op. cit.,

p. 227.50 Tullio Kezich, “Repubblica”, 1979, ora in Nuovissimo Mille Film. Cinque anni al cinema 1977 – 1982, Milano, Mondadori, 1983, p. 226. 51 Bernardo Bertolucci in Enzo Ungari, Scene madri di Bernardo Bertolucci, op. cit., p. 191.52 Bernardo Bertolucci, La mia magnifica ossessione, op. cit., pp. 96-97.

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direzione diversa, che fosse melodrammatica e insieme psicanalitica. Nel melodramma i personaggi si sviluppano in un modo piuttosto epico, nella psicanalisi, invece, sono spinti a scavare nel loro profondo. E questi sono esattamente i due registri che ho voluto tenere presenti nel film53.

La dimensione performativa attraversa di fatto tutto il film e coinvolge i personaggi in una recitazione che, a spese della veridicità, risulta anche qui decisamente forzata. Come se i dialoghi fossero sovraccaricati da quel continuo effetto di riverbero che le romanze cantate proiettano intorno ad essi. Romanze recitate, blocchi di parole in rima e ritmo, strofe private della melodia ma sottoposte allo stesso gioco scenico della recita di Caterina sul palcoscenico di Caracalla, quando nell'ultima prova generale si rifiuta di cantare. Musica parlata, sentimenti distribuiti nel corso del film, prelievi di linguaggio quotidiano e luoghi comuni altisonanti: quasi una presa diretta che non smussa, arrotonda, compatta, rende verosimile. Così, come l'intero film non cerca di rendere verosimili i propri materiali d'origine: li allinea e il mette in forma senza pretendere di addomesticarli attraverso la messa in scena. Non si tratta solo di Joe e Caterina, lui peregrino camminatore di una Roma mediorientale fatta di cinema e palmeti, lei impennacchiata nei suoi lustrini d'occasione; anche i personaggi secondari come ha giustamente rilevato la Grignaffini godono di uno statuto teatrale. Si dice ad esempio dell'insinuante Marina:

La sua presenza si configura sempre come invasione dello spazio degli altri. La sua funzione è quella del morto in scena (e quindi del pubblico in scena) del teatro d'opera, funzione che finisce inevitabilmente per teatralizzare l'azione. Sotto la doccia, con Caterina, diventa la spalla per il suo monologo cioè quando Joe e Caterina si parlano, si scontrano, si ritrovano, la sua funzione è quella di spettatrice partecipante che talvolta consente letteralmente alla rappresentazione di procedere (interviene, fa domande, propone suggerimenti) e qualche altra invece si limita a sottolineare con il suo passaggio il luogo e il tempo della rappresentazione (Joe e Caterina sotto il palcoscenico di Caracalla)54.

Il film procede per intermezzi spettacolari, balletti, romanze, improvvisate al pianoforte; persino l'irruzione in scena di personaggi altrimenti molto comuni – la splendida e totalmente dissonante comparsata di Benigni lavavetri, il già citato esperto di culatelli del Ragno – assume qui una dimensione performativa sovraordinaria. La centralità del melodramma viene certificata anche dal severo censore Kezich, quando parlerà dei due «tonificanti episodi verdiani», l'uno riguardante il debutto romano di Caterina nel Trovatore; l'altro, la rappresentazione dell'ultimo atto di Un Ballo in maschera.

53 Ivi, p. 97. 54 Giovanna Grignaffini, “La Luna”, in AAVV, In viaggio con Bernardo, op. cit., p. 98.

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Joe, appena fuoriuscito dalla magia del cinema e del suo primo buco – il tema della droga, dell'eroina è trattato con disdicevole leggerezza -, si reca dunque all'Opera di Roma, dove assisterà entusiasta all'esibizione materna, zittendo un pubblico irrequieto e distratto («Ti sei dimenticato di spegnere la luce?», chiederà qualcuno tra le fila dei palchi oscurati, e Bertolucci sorride della svagatezza in platea, a fronte della sacralità della rappresentazione).

Davvero qui il registra smonta dall'interno il fascino del teatro e dei suoi artifici scenografici, svelando all'occhio dello spettatore del cinema ciò che al pubblico in teatro è interdetto: ancora grottesca imperfezione e goffaggine bella del teatro. Con le parole del regista:

Joe va a trovare la madre che canta in Il Trovatore, e qui c'è anche il ritorno al melodramma dei miei film precedenti, che vuol dire la mia terra, Parma, Verdi, c'è la bellissima romanza “tacea la notte placida / e bella in ciel sereno / la luna il viso argenteo” e su quella romanza ho pensato che, invece di far alzare la macchina da presa potevo far alzare la soprano, Jill Clayburgh, su una piattaforma mobile, in modo che sembrasse una specie di ascesi da favola. Joe raggiunge il backstage del palcoscenico e lì ho cercato di far sposare il cinema con il teatro d'opera, facendo vedere dietro le quinte quello che in genere è nascosto al pubblico in platea: i segreti, i trucchi, con effetti anche abbastanza comici55.

Mentre il Conte intona l'inizio della sua romanza, (“Tacea la notte! Immersa nel sonno, è certo, la regal signora, ma veglia la sua dama! Oh Leonora! Tu desta sei...”), Joe s'inoltrerà nelle segrete delle quinte, skateboard sotto il braccio, e scoprirà così un universo di macchinisti, fari di scena e arpisti nascosti.

Allo splendore di una scenografia notturna – cielo stellato e cascata argentea – risponderà l'irriverenza di una macchina da presa troppo curiosa; Manrico intonerà il suo “Ma s'eri quel cor possiede / bello di casta fede”, e Joe vedrà, con noi, l'ingranaggio smosso da due diligenti operai

55 Bernardo Bertolucci, La mia magnifica ossessione, op. cit., p. 102.

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dietro le quinte, a cui risponde il lento scorrere di quest'acqua posticcia. L'ironia arriva al culmine quando un rubicondo suggeritore imboccherà con gesto svelto, i cantanti in scena: Oh gelosia!

Memoria e madre impongono in seguito un ritorno alla città natia, luogo del secondo episodio verdiano: Caterina, dispersa e sconvolta dagli accadimenti ultimi della sua vita, farà visita al suo vecchio maestro di canto, oramai rinchiuso in un mutismo incredulo, bilanciato solo dalla perpetua presenza del giradischi ronzante: stavolta è un pezzo di Così fan tutte, dirà il regista, inserito per «interrompere la continuità del film, così pieno di musica di Verdi e per squarciare questa specie di condanna al melodramma»56.Il ritorno a Parma e la divagante peregrinazione campestre intrattenuta dai due, prevede anche una visita alla villa di Verdi, ove Caterina dice di ritrovare le sue radici. È la confessione di una paternità, stavolta non rinnegata.

Porta Joe davanti alla villa di Verdi, e cerca di spiegargli che Verdi da questo luogo vicinissimo al Po, con la sua arte, è riuscito a immaginare tutto quello che poi ha creato, dalla Venezia di Otello, ai macabri castelli del Macbeth57.

La chiusa del film, che è ricostituzione del nucleo familiare d'origine, e insieme la più classica delle agnizioni (Joe scoprirà l'identità del suo vero padre) coincide con l'atto finale del Ballo in maschera, stavolta trasposto nello scenario divelto, pressoché desertico delle Terme di Caracalla.

Un festoso carnevale di ninfette in calzamaglia e gentiluomini velati, diretti da un improbabile Carlo Verdone regista d'opera, intona il corale “Fervono amori e danze” del III atto, mentre Caterina s'accosta al figlio scandendo, in un recitato crudo e ritmato “T'amo, sì, e in lacrime /a'

56 Ivi, p. 103.57 Ibid.

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piedi tuoi m'atterro”. La tempra vocale sarà recuperata solo poi, quando il dramma familiare troverà la sua risoluzione.

Il padre e la madre, almeno per un attimo, si trovano insieme su un palcoscenico d'opera, nel finale del Ballo in Maschera, e quel finale è così catartico che Caterina ritrova la fiducia in se stessa e di nuovo il piacere di cantare. Il finale del Ballo in maschera è anche il finale della Luna58.

Riccardo darà il suo addio, Joe si lascerà andare agli applausi, e Caterina lanciata nell'urlo del “Soccorso” potrà recuperare la sua integrità perduta di diva del bel canto. Ciò che importa alla fine, nonostante il più che discutibile valore estetico della pellicola, è l'adesione bertolucciana a un'eredità, quella operistica, che trova qui il suo massimo d'espressione.

Chi vince in tutto questo? È Verdi che vince: alla fine è l'opera che unisce l'insieme. Non si vedono più i personaggi, ma solo le terme di Caracalla. Resta la musica, la luna, i proiettori 59.

58 Ivi, p. 104.59 Bernardo Bertolucci, La mia magnifica ossessione, op. cit., pp. 97- 98.

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4. Altri sperimentatori.

La storia delle riduzioni cinematografiche dell'opera lirica è ben al di là dal poter essere qui riassunta: estremamente ampio il ventaglio di registi e sceneggiatori che hanno goduto di un repertorio testuale, visivo e musicale d'indubbio spessore come quello operistico, portando avanti un'operazione a un tempo ossequiosa e dissacratoria. Volendo limitarci a una panoramica riassuntiva, non si potrà non accennare al deflagrante Traviatore dei Fratelli Marx, precoce parodia della ieraticità da palcoscenico operistico, che all'epoca poteva arrogarsi il vanto dell'originalità. La furia iconoclasta del trio capeggiato da Groucho, improvvisatosi impresario teatrale, non risparmia il Manrico austero del sedicente Lassparri, e il duetto con la zingara diventa qui una sarabanda di scenografie improvvisate, tiranti e corde utilizzate a mo' di liane, parrucche svolazzanti, senza contare l'improvvisata partita di Baseball giocata con un violino in orchestra.

(http://www.youtube.com/watch?v=yCgaZnnHB1I&feature=related)

Si dovrà a Bellocchio e al maestoso esordio dei Pugni in Tasca, un'altra variazione sul tema: il finale del film, con il protagonista morente sulle note del Sempre Libera verdiano fa parte oramai delle scene classiche del cinema italiano. Marchelli ne parlerà come di un' «eredità scomoda, di peso, da cui è impossibile sgravarsi», sottolineando l'utilizzo quasi satirico, se non ostile, del brano verdiano montato su queste immagini. È pur vero che a Bellocchio andrebbe dedicato più che un paragrafo, a voler considerare anche i suoi ultimissimi sviluppi, l'Addio del passato del 2002, dove il Libiamo libiamo della Traviata passa dai teatri di prova – gorgheggi di una smilza Violetta quindicenne - alle osterie del piacentino.

(http://www.youtube.com/watch?v=_f3dwTHnzT8)Nell'ultimo Sorelle mai, nato dalla collaborazione con gli studenti del corso di cinema di Bobbio, il regista gioca sui toni dimessi del racconto familiare – vi recitano difatti le ottocentesche zie zitelle dell'autore, e il figlio Piergiorgio -, cui si alternano i lampi del passato, l'interpolazione di scene dai Pugni: la casa è la la stessa, in questa Val di Trebbia cullata dal ritmo delle cicale e dalla rituale stagione lirica estiva, un Trovatore minimal in smoking e sedie di plastica.

Ma della sovversione era maestro il già citato Pasolini, cui si deve almeno un accenno: ne La Ricotta del '62, corto facente parte di un film a episodi, la messa in scena della Passione, diretta da un Orson Welles infeltrito nelle sue pose radical e poco chic da cineasta impegnato, è trapuntata dalla ripresa del tema di Sempre Libera; l'accelerazione del brano, quando utilizzato per seguire i movimenti del goffo e sfortunato ladrone buono, Stracci, accentua la coloritura grottesca del personaggio.

( http://www.youtube.com/watch?v=NI-PNkJFcOE&feature=related : dal minuto 07,10)

Passando per Dario Argento con il giallo- horror verdiano di Opera, e ancora con il De Crescenzo di Croce e Delizia, Traviata partenopea, il melodramma lirico non sarà trascurato nemmeno da un altro dei nostri cineasti di punta, Federico Fellini, che con E la nave va del 1983 ci regala un'ultima fantasiosa variazione e prezioso esempio. Scritto in collaborazione con Tonino Guerra e Andrea Zanzotto – addirittura in funzione di librettista -, E la nave va è un'epopea funeraria all'alba della prima guerra mondiale: non è l'esuberante grottesco, ma lo stile dell'iperrealtà che tratteggia i volti in maschera di una brigade dannunziana, diretta a celebrare la morte di una nota cantante d'opera, le cui ceneri verranno sparse nel mare dell'isola di Erimo. Crociera che ha il passo di note romanze italiane sformate dalla penna di Zanzotto, a cui Fellini chiese di intervenire sui testi.

Erano brani notissimi, La forza del destino, Bellini … Ho perfino dovuto appiccicare le parole là dove in origine non ce ne sono, come nella sinfonia della Forza del destino. In particolare, questa era per me

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una musica molto familiare perché la suonavano in paese con l'altoparlante due volte la settimana, come la sigla del cinema parrocchiale60.

Sui versi musicati da quel Verdi per cui «ho simpatia, non entusiasmo», Zanzotto dirà: «avevo parecchi modelli e si trattava di fare la caricatura di versi che sono loro stessi caricaturali. È un'operazione che non mi sembra venuta male»61.Meraviglioso, difatti, l'inizio corale in finto- muto, con il graduale passaggio da un bianco e nero contrastato alla tinta desaturata che sarà poi di tutto il film; mirabile il debat di voci liriche nelle profondità della nave, dove il pubblico di macchinisti acclamerà a gran voce i fatui e vanesi divi di quella traversata. Belcanto e bell'époque firmano dunque l'ennesima, non ultima, metamorfosi dell'opera lirica tramite cinepresa.

60 Andrea Zanzotto, in Stefano Verdino, Zanzotto librettista di Fellini, in Se quello schermo io fossi, op. cit., p. 42. 61 Ivi, p. 43.

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Filmografia(titoli principali)

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Marco Bellocchio, I Pugni in tasca, Italia, 1965Marco Bellocchio, Addio del passato, Italia, 2000Marco Bellocchio, Sorelle mai, Italia, 2010Pier Paolo Pasolini, La ricotta, in Ro. Go. Pa. G., Italia, Francia, 1962Dario Argento, Opera, Italia, 1987Federico Fellini, E la nave va, Italia, Francia, 1983

MARIA TERESA DE PALMAI anno Master Cle – Culture Letterarie Europee, Erasmus Mundus, 2010 / 2011

Numero di matricola: 0900041995

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