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FUOCO NEI SEMINARI APPUNTI DI PASTORALE DELLE VOCAZIONI

APPUNTI DI PASTORALE DELLE VOCAZIONI - … · Il libro che presentiamo ne è l’immagine viva; ... fici del seminario minore siano sufficientemen-te compensati da risultati complessivamente

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FUOCO NEI SEMINARIAPPUNTI DI PASTORALE DELLE VOCAZIONI

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FUOCO NEI SEMINARIAPPUNTI DI PASTORALE DELLE VOCAZIONI

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p. Stef. Igino Silvestrelli

Fuoconei seminari

APPUNTI DIPASTORALE DELLE VOCAZIONI

EDIZIONI CASA DI NAZARETH

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1971 - Prima edizione1971 - Seconda edizione1972 - Terza edizione1990 - Quarta edizione

[con approvazione ecclesiastica]

EDIZIONI CASA DI NAZARETH

viale Vaticano, 50 - 00165 ROMA - CCP 42867002

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PRESENTAZIONE

Il volume compare in quarta edizione per unsuccesso editoriale che pone in evidenza non solol’attualità dell’argomento e cioè la formazione diseminaristi e giovani aspiranti alla vita religio-sa, ma anche un certo stile attraente e vivace,come si addice ad una materia così plastica,generosa e imprevedibile come è la giovinezza,specialmente quella ‘eletta’.

Padre Stef. Igino Silvestrelli, che ne è l’auto-re, non avrebbe bisogno di presentazione; mi siasolo consentito ricordarlo qui, quando ero suocompagno di studi ginnasiali a Trento in annilontani: statura slanciata, due occhi neri viva-cissimi, un giubbetto marrone tipo militare, cal-zoncini scuri, svelto nel gioco, devotissimo all’al-tare e obbediente, direi devoto verso i superiori.

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Questa personalità non è mutata con gli anni:la stessa giovialità, limpidezza e l’entusiasmoper la Chiesa, per la gioventù ‘vocata’, un gran-de amore per Gesù Cristo e per il suo Vicario.

Il libro che presentiamo ne è l’immagine viva;sarebbe allora superfluo cercare in esso il ‘trat-tato’ teologico o psicologico sull’età evolutiva.Sotto questo aspetto il saggio resta al di sotto dicerti autori di psicologia religiosa o di ricerchesociologiche sulle vocazioni riuscite o fallite.Niente di tutto ciò, per una ragione che mi pareintravedere dopo la lettura del bel volume: l’Au-tore (come confessa) ha passato ben 45 anni inistituti di formazione pre-adolescenziale e ado-lescenziale; dalla sua esperienza diretta e vissu-ta è sbocciato questo prezioso manuale di pras-si educativa delle vocazioni ove il panorama sulmondo giovanile freme della sua ricchezza sor-prendente, della sua fantasia creatrice, delle suestraripanti energie e del suo entusiasmo per gliardimenti più impegnativi.

La vita dunque precede la teoria; è di questavita che bisogna tenere conto, anche attraversoil collaudo in un’epoca, come la nostra, in cuiuna certa freschezza giovanile, il desiderio dilibertà e l’enigmatica ricerca della propria indi-viduale coscienza, caratterizza le nuove genera-zioni.

Ma lo stile espositivo del volume non deveindurre il lettore a credere che si tratti di unozibaldone di memorie: no. Sotto le apparenze diun discorso familiare, l’Autore ha affrontato

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tutti i temi più ardui del nostro tempo sullavocazione sacerdotale e religiosa. Voglio accen-nare ad alcuni come ad esemplificazioni signi-ficative.

Anzitutto, la questione: solamente seminarimaggiori o anche seminari minori? A parte l’am-biguità di taluni tentativi di denominazioninuove, l’Autore constata come l’abolizione deiseminari minori ha provocato danni quasi irre-parabili. Si adduceva e si adduce la ragione chesu 100 ragazzi tra i 10-13 anni (età in cui affio-rano i primi segni di vocazione) solo 20 o anchemeno, riescono; si è posto così l’accento se i sacri-fici del seminario minore siano sufficientemen-te compensati da risultati complessivamentemodesti.

Padre Silvestrelli ritiene (e crediamo giusta-mente) che non solo il Concilio Vat. II li racco-manda, ma che, con i dovuti adattamenti e cambidei tempi, essi restano i ‘vivai’ delle vocazionipiù belle. Togliete (egli dice argutamente) i vivaie vedrete a che si riduce la forestazione.

Poi egli scende ad enumerare nei vari capito-li (sono 45, in forma di medaglioni spigliati edensi) alcuni errori commessi nella direzione deiseminari minori: spericolate acrobazie per lan-ciare (si dice) i giovani nel mondo in cui un gior-no dovranno esercitare il loro apostolato, con leconseguenze che si vedono.

E ancora, l’ossessione del numero: si vorreb-be che il seminario ‘rigurgitasse’ di giovani, ascapito della qualità e con il rischio di mandare

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avanti ragazzi fragili, psichicamente anormali.Perché poi scaricare nel seminario minore ‘pre-fetti’ o assistenti studenti di teologia, pericolan-ti o lunatici e zoppicanti nella morale? Che direinfine del permissivismo o della rilassatezza nelladisciplina, ridotta al ‘minimo’? Questo è il lac-cio della libertà giovanile.

In particolare p. Igino con finezza psicologi-ca ritiene che se in tempi passati il flagello deiseminari potevano essere i corruttori, oggi sonopiuttosto i ‘sabotatori’, cioè quei giovani chespargono tra i compagni l’irrisione sulla pre-ghiera, sull’obbedienza, e persino sulla Fede. Nonmeno funesta è la presenza di professori che delprete non hanno nulla o quasi; e ancora l’ecces-sivo contatto con il mondo.

«Quando la cera supera la fiamma, la spe-gne», osserva con viva immagine l’Autore: e cioèquando la vita del seminarista si invischia insimpatie ambigue, in strambe pretese, o in lan-guori sentimentali, che cosa si può attendere?

A queste denunce l’Autore oppone una grandefiducia nella gioventù moderna, come ad esem-pio la legittima gelosia della libertà personale,una certa innocente disinvoltura in materia dipudore e della purezza, la generosità nell’accet-tare sacrifici purché in vista di un grande amorecon Gesù Cristo, l’entusiasmo per le cose grandi.

Non è senza motivo che p. Igino più volte siappelli agli esempi di s. Giovanni Bosco, l’in-cantatore insuperato dei giovani che con l’amo-revolezza sapeva accendere nei giovani segrete

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ansie del divino, l’entusiasmo per la vocazionesacerdotale, mirabili ascensioni nelle vie dellospirito. E’ questo amore sacrificato e puro per igiovani che costituisce l’edificio pedagogico perla coltivazione degli ‘eletti’ e per la loro perseve-ranza lungo il difficile cammino dell’adolescen-za.

Ne sono testimonianza concreta le ampie cita-zioni di lettere, di diari, di confidenze scritte checome sfaccettature di un prisma riflettono l’o-pera mirabile della Grazia divina sorretta dal-l’amore sconfinato con cui l’Autore ha guidato igiovani sui sentieri della gioia sacerdotale e reli-giosa.

Alla vigilia del Sinodo dei Vescovi che tratte-ranno di questo vitale problema per la Chiesa, ilvolume costituisce un utilissimo sussidio pertutti: per i Vescovi, per i maestri di spirito, per iconfessori e per gli educatori dei giovani cheGesù anche oggi invia alla Chiesa.

Non mi resta che augurare nuovi successi esoprattutto ampia messe di fiducia nel futuro,di grande speranza nei giovani e di impegno apo-stolico verso la porzione eletta della Chiesa.

Roma, 8 settembre 1990

Festa della Natività di Maria SS.ma

d. Dario Compostaprofessore nella Pont. Univ. Urbaniana

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Bibliografia?1.

Costretti dalla dolorosa carenza insistente divocazioni, molti esperti in scienze sociologiche,psicologiche e pedagogiche, hanno detto e scrit-to, criticato e precettato esaminando or l’uno orl’altro dei molteplici aspetti del complesso pro-blema pastorale inerente alla vocazione sacerdo-tale o religiosa; né manca, grazie al cielo, chi pre-senta il problema sotto la luce soprannaturale, tra-scendente, di una chiamata carismatica, che si ar-ticola in mille interventi di Grazia, che portano ilprescelto alla accettazione spontanea della volontàdi Dio, alla perseveranza, al gaudio indefinibiledi una fusione di spirito col Cristo, che sa di uni-cità e di totalità.

Queste pagine hanno nulla di sensazionale daaggiungere al molto già detto e spesso autorevol-mente: riflettono una esperienza vissuta quasi inin-terrottamente dal 1946: anni di predicazione e diaccostamento, per direzione o consiglio, offerti amigliaia di adolescenti e di giovani incontrati nellepiù varie occasioni e in ambienti altrettanto diver-si, non con l’esplicito intento di farne dei ‘semina-

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risti’ o degli ‘apostolini’, ma con l’ansia segreta discorgere qualche contrassegno della predilezionedivina e incoraggiare una generosa risposta.

Non ignoro autori e libri, trattati estesi e artico-li occasionali; ma sotto queste righe stanno loro, imoltissimi adolescenti, chierici e novizi, che par-lano così come a me hanno parlato o scritto riflet-tendo sul mio diario e sulla mia esperienza il loroanimo, il loro travaglio, la loro scienza o esperien-za vissuta nella gioia di una scoperta stupenda, dicrisi insorgenti e penose, di rinnovate riprese, ditraguardi finalmente conquistati con l’ardore deicampioni. E’ alla scuola di questi ragazzi ‘scelti’, chenon mi stanco di frequentare e che vorrei poter sem-pre frequentare, che ho appreso quanto è detto inquesto volume che continua l’esperienza dell’altro,Educhiamo i chiamati.

Non credo esista cattedra migliore per una cono-scenza retta e sempre aggiornata della pedagogiaadolescenziale, soprattutto in ordine alla vocazione,di questo accostamento assiduo e mai stanco deiragazzi stessi e di una esistenza vissuta il più pos-sibile con loro.

Non nego importanza allo studio di tavolino ealla frequenza in scuole ben fornite e capaci; tutta-via queste premesse non bastano per conoscere ecapire l’animo dei ragazzi in genere e dei ‘chiama-ti’ in specie. San Filippo Neri, s. Giovanni Bosco,s. Gaspare Bertoni, il b. Giovanni Calabria... sonostati a questa scuola, alla scuola di una esperienzavissuta e patita tra i giovani; fatti allievi dei loro

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stessi allievi, hanno acquisito quella che giusta-mente è chiamata tuttora “ars artium difficillima”.Vivendo un’intera esistenza con loro, al serviziodiuturno delle loro anime, hanno meritato la nonfacile promozione al reclutamento di molte voca-zioni efficienti, anche là dove una affrettata e impa-ziente verifica aveva precluso ad altri la semina-gione o il raccolto.

Bibliografia?Non sarebbe difficile offrire qualche indicazio-

ne, qualche nome, dei titoli, dei riferimenti; né mancain queste pagine l’eco di studi e di meditazioni fattesu testi di esperti; né potrebbe essere in alcun modogiustificata la mancanza di richiami biblici, evan-gelici e apostolici, e di citazioni dai documenti con-ciliari e dalle direttive pontificie.

Tuttavia sono piccoli seminaristi, liceali, chieri-ci di teologia, novizi religiosi, e tutti vivi ed elo-quenti, anche se nascosti nell’anonimato, che oraparlano di quanto di più caro hanno scoperto nelsegreto dell’anima e tengono come il tesoro delcuore (cf. Mt 6, 21).

I ‘scelti’ sono loro: di essi qui si parla; e sono leloro istanze, le loro esperienze che qui parlano aquanti sentono il dovere e sospirano la gioia di «dareincremento alle vocazioni sacerdotali» (O.T. 2/A).Non sarà stata fatica inefficace essere tornati allie-vi dei nostri stessi allievi: sarà forse evitato il peri-colo di esser trovati e giudicati vecchi in quest’oragrave della Chiesa santa, che se giustamente fa pen-sare all’«ora del Getsemani» (Paolo VI, 20 febbraio

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1971) è preludio di un risveglio di primavera e dirisurrezione.

Ritorniamo a scuola, sconfessando niente e nes-suno all’infuori di quella autosufficienza che sbar-ra la via al passo di marcia cui è doveroso e urgen-te allinearsi nella soluzione di un problema di vitaper il sacerdozio ministeriale e per gli istituti reli-giosi: non mancheranno la forza e il conforto delleparole profetiche di Gesù: «Ti benedico, o Padre...,perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapientie agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25).

...E tutto all’insegna della carità – «Tutto si fac-cia tra voi nella carità» (1 Cor 16, 14) – tacendoallusioni o riferimenti che in qualsiasi maniera pos-sano ferire persone o istituzioni, nel desiderio sin-cero di recare fiducia e consolazione spirituale.

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Frustrazioniper nessuno

2.

Un docente di università ha contestato il titolo delprecedente volume Educhiamo i chiamati: secondolui la parola ‘chiamati’ non è indovinata né oppor-tuna, perché sia nei seminari diocesani sia nellecosiddette scuole apostoliche, non si possono direchiamati tutti gli allievi per il solo fatto di trovarsiin ambienti intenzionalmente voluti e organizzatiper l’educazione vocazionale.

L’appunto non colpiva nel segno: infatti sia inquello come in questo volume, il discorso verte pro-prio sul tema della formazione di coloro che nelleintenzioni di Dio (spesso a noi occulte o non chia-ramente espresse) sono veramente dei ‘chiamati’,perché ‘scelti’ (cf. Gv 15, 16).

Ammessa l’opportunità di avere ambienti fattie organizzati allo scopo preciso di offrire ai can-didati al sacerdozio e alla vita religiosa un climaadatto alla scoperta prima, e allo sviluppo poi, diuna eventuale vocazione; e accettata una logicagradualità in tutto questo germogliare e crescere;

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e constatata la presenza in siffatti ambienti di ado-lescenti la cui vocazione non è ancora apparsa evi-dente o non sicura appaia l’accettazione della scel-ta divina; si pone il quesito: pur sapendo che tragli allievi ci potranno essere dei ‘non chiamati’(perché ‘non scelti’), nella strutturazione di pro-grammi e di orari, e nella aerazione dell’ambien-te educativo, come nella selezione di persone ecose, di metodi e di tecniche, il criterio selettivodovrà orientarsi al servizio dei chiamati o dei nonchiamati?

La risposta non sempre è stata serena ed equili-brata: il timore (talvolta esagerato, ipotetico in certicasi, e spesso ipertrofico) delle frustrazioni infertenei ‘nostri’ ambienti a coloro che non risultarononé disponibili né disposti, ha spinto alcuni educa-tori a pronunciare verdetti spietati contro soprat-tutto i seminari minori e le scuole apostoliche, etale condanna ha indotto a chiudere vivai nella assur-da speranza di servire meglio la causa delle voca-zioni.

I fatti parlano da sé, e costringono a un ripensa-mento più approfondito e più serenamente criticocirca strutture, orientamenti pedagogici e didattici,al fine di aggiornare ogni cosa a una maggior effi-cienza e non a una irrazionale soppressione. Vivaioè vita in atto. Né oso dubitare sia stata una dellemigliori benedizioni che il Concilio di Trento haportato alla Chiesa santa, l’istituzione dei semina-ri: aggiornare vorrà dire molte cose, prima che sop-primere!

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Si discute così da molti: se in un seminario mino-re (media, ginnasio, liceo) su cento allievi, soloventi (ed è già molto, stando alle statistiche!) saran-no preti (perché effettivamente solo questi sono statichiamati), nella scelta dello stile o spirito d’am-biente deve darsi la preferenza alla maggioranza oalla minoranza?

Per quanto oculata e diligente possa essere laselezione antecedente l’ingresso, certamente laminoranza è così strettamente legata alla mag-gioranza e ad essa compaginata nel ritmo quoti-diano, da render impossibile una pluralità di me-todi e di misure.

Il bene posto in causa e la finalità dei seminarioptano per la priorità e la preferenza a coloro cheDio ha chiamato al sacerdozio. Questi, dunque,hanno per primi il diritto a realizzarsi pienamentein ordine alla vocazione, senza subire limitazioni ofrustrazioni che possano mettere in forse il libero egeneroso proseguimento della loro risposta.

Ciò non toglie, non deve togliere, che gli altripossano sviluppare in pienezza la preparazione alloro destino, senza subire minorazioni e frustra-zioni. Se un padre organizza e dispone ogni det-taglio per le nozze di uno dei suoi figli, penso chegli altri fratelli e i fortunati invitati al banchettonuziale debbano godere di quell’apparato, senzasubirne torto o danno. Il festeggiato (in minoran-za!) non fa la fortuna di tutti quelli che si assi-dono alla sua stessa mensa? E’ appena assurdopensare il contrario.

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Per una presenza che appare magari per lungotempo (come può avvenire nelle medie) incerta eipotetica, vale la pena organizzare tutto in chiavedi formazione vocazionale? Pare di sì, purché lostile adottato non sia di pregiudizio ad alcuno: nonsia favorito il sogno, quando è necessario che edu-catore e allievo prendano coscienza di una realtàche coinvolge la formazione della personalità e larealizzazione di un destino che assorbe l’esistenzae ha un’eco nell’aldilà. Sia a ogni costo evitata lasaturità, generatrice di più o meno latenti rigetti edi odiose rivalse; né si creino i vuoti di una educa-zione unilaterale ed univoca, buona per essere preti,deficiente per diventare padri di famiglia.

Frustrazioni per nessuno: né quelle provocateper difetto, né quelle causate da eccesso. Se tutto saràminuziosamente studiato per preparare al popolo diDio i suoi migliori figli, quale danno potrà mai veni-re a coloro che già d’ora sono quello stesso popoloche vive accanto ai chiamati?

Il ricordo degli anni passati nel seminario dovràrimanere come un ‘segno’ profetico che risveglia lanostalgia del bello e del buono, e un invito sempregradito a vivere un cristianesimo convinto e coe-rente.

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Amore chiamaamore

3.

«La talare del prete al fuoco!»: non è il titoloscandalistico di un fatto di cronaca orchestrato aifini della desacralizzazione, ma la notizia edifi-cante che si diffondeva tra l’umile gente di un pae-sino sperduto in una delle valli del veronese al-cuni decenni fa. Per quei ‘fedeli’ la talare si iden-tificava col prete, era la sua bandiera, che dove-va significare tante cose, non tutte di facile ap-prendimento: senza sforzo per essi quella divisasacra era il segno della presenza del Mistero inquell’uomo, che appunto per questo non si ap-parteneva, ma era di tutti; tutti infatti potevanofarne conto come di uno di casa.

Quella sera la talare del prete era infagottata,semidistrutta in un angolo della piccola piazza. Ilpovero prete di quel paese di provincia avrebbe datoanche la vita, non solo la divisa, pur sempre cara inquell’epoca di non contestazione secolarizzante:l’aveva fatto per salvare un padre di famiglia, chein un banale incidente s’era appiccato il fuoco e

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fuggiva in preda alla disperazione. Interruppe laconversazione, si avventò su quella fiamma umanache correva impazzita, e con la talare riuscì a fer-mare la morte avvolgendo il poveruomo: questi stet-te fra la vita e la morte per qualche giorno, ma fusalvo.

Non si spense il fuoco che bruciava sotto quellatonaca nera: uno dei figli del padre scampato nondimenticò più il gesto d’amore e il rischio di quelprete, e divenuto lui stesso sacerdote, fu costrutto-re di un grande seminario, educatore indimentica-bile di candidati, solo ricco di bontà, di quella chesalutarmente contagia chiunque l’avvicina.

La divisa sacra diventa maschera ingannevole efors’anche farisaica parodia, qualora sotto non celiun fuoco da custodire con gelose premure, il fuocodella vita, la carità: non fu così per quel pastore d’a-nime che sotto la tonaca bruciata, altri tesori nonebbe all’infuori di un “cuore da prete”.

Fu presso questo zio paterno che vissi gli annidella adolescenza, e qui imparai che significa es-sere “fratello universale” e “padre di molte genti”.Amore chiama amore, come vocazione genera vo-cazione: non lessi alcun trattato sul sacerdozio neidiciotto anni di attesa; mi bastò l’esempio di quelparroco, il contagio di un cuore sacerdotale. Quel-la paternità, pur modesta, discreta, silenziosa, eraattivissima, vigorosa quanto estesa e sempre vi-gile sulle necessità di una grande famiglia: la lungapreghiera, nella quale oltre il breviario trovavanoposto parecchie corone del Rosario, e l’accurata

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preparazione della catechesi e dell’omelia, eranoesca a quel fuoco che spingeva lo zio prete a per-correre per ogni verso la parrocchia, a recare aiutoai poveri e agli infermi, a trattenersi sotto il soleche scottava i muri a giocare la partita con unebreo, nella segreta speranza di colpirlo un gior-no o l’altro “al cuore” per farne un figlio. Quan-te volte, giovane studente, dovetti attraversarequella piazza per recare la minestra a una par-rocchiana povera, che non era sfuggita all’occhioe al cuore del parroco!

Questi e non altro fu il testo sul quale scopersiche significhi vocazione sacerdotale: e mi bastò agiustificare tante cose, dal celibato al servizio tota-le, dalla preghiera alla assistenza caritativa. Quel-la strana paternità mi colpì così profondamente nel-l’età adolescente, che di essa Dio si servì per farmicogliere il suo invito, la chiamata allo stato sacer-dotale.

«Seguitemi,vi farò diventare pescatori di uomini»(Mc 1, 17).«Andate in tutto il mondoe predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16, 15).«Noi abbiamo riconosciuto e credutoall’amore...» (1 Gv 4, 16).

E’ a titolo di emblema che questa pagina di dia-rio, non nuova né unica, apre una familiare conver-sazione sul problema della formazione sacerdotale:

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è infatti a questa tesi, alla tesi dell’amore, che sirifanno le istanze più universalmente sentite e piùprofondamente patite da quanti ho ascoltato neinostri ambienti formativi. E’ a questo vertice chedevono convergere tutte le componenti di una peda-gogia fatta per ragazzi, ‘scelti’ ad appiccare ovun-que l’Amore infinito: «Ite, incendite omnia!»: gridaai candidati del suo tempo, santa Caterina da Siena.

«Ho 18 anni – mi scrive un seminarista licea-le – ho bisogno di amare; perciò ho deciso diuscire dal seminario».

Come? Nel seminario ci si sente ‘soli’, incapacio impediti di amare, cioè di vivere?

Mi si permetta, qui, di afferrare la penna di s.Giovanni che non si perita di dichiarare ‘morto’ chinon ama – «Chi non ama rimane nella morte» (1Gv 3, 14) – per scusare quel giovane che tra le pare-ti di un seminario si sentiva soffocare.

Gli ho risposto che mi sembrava strano non potes-se amare vivendo nella casa dell’amore, quale appun-to io pensavo dovesse essere quel sito, così spessochiamato “cuore della diocesi”: aspettasse ad usci-re, cercasse fuoco o lo facesse lui stesso su quelfocolare o cuore della diocesi, convinto come sonoche talvolta si pretende di ricevere prima di averdato («Date e vi sarà dato» Lc 6, 38).

Resta tuttavia quella condanna: un seminariosenza un bel fuoco acceso, è un sepolcro; bisognafuggirlo.

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L’arte di amare non è facile; chi ama ripete Dio,fa il mestiere di Dio, imita Dio, nel quale essenzae dinamismo sono un tutt’uno, l’Amore (cf. 1 Gv 4,8): la si insegna amando, la si impara amando, inquella fusione di animi che attira la presenza divi-na per una ininterrotta Pentecoste d’amore.

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Titolopoco indovinato

4.

La Pentecoste richiama il cenacolo nel quale sitrovarono uniti in un cuor solo la Vergine e gli apo-stoli, nella attesa di quella “virtù di Spirito Santo”che li avrebbe resi testimoni del Cristo per ogni lidodella terra e in ogni tempo; testimoni dell’Amoremediante una condotta di autentica imitazione d’a-more: «Come io vi ho amato, così amatevi anchevoi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno chesiete miei discepoli, se avrete amore gli uni per glialtri» (Gv 13, 34-35).

Le nostre case di formazione hanno nel cenaco-lo di Gerusalemme la loro casa madre, un modelloda riscoprire e uno stile a cui rifarsi di continuo.

«La fabbrica dei preti» si volle da taluni chiama-re il seminario; ma quanto sia lontano da una ponde-rata disamina di persone e di fatti questo giudizio, ap-pare evidente per chi si è trovato a contatto di tantiseminari che al cenacolo si ispiravano nell’intento dicreare ai candidati un ambiente ideale, il più adattoa coltivare una vocazione superiore.

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Cenacolo quindi e non fabbrica!Questa fa pensare a un accostamento di persone,

che si trovano insieme senza conoscersi e per neces-sità; ricorda obblighi, forzature e non pochi calco-li spesso egoistici; e soprattutto denuncia uno stiledi convivenza senz’amore, nel quale la persona odiventa numero o viene appiattita fino ad apparirecome un’ombra.

Nel cenacolo è Cristo che vive nella sua secondafamiglia, quella dei sacerdoti cui è affidata l’interafamiglia umana redenta: qui si respira aria domesti-ca, qui si vive l’uno nell’altro, qui uno è servo del-l’altro, e tutto si articola nel pieno rispetto di ognimembro, nella valorizzazione di quanto ognuno haricevuto di natura e di Grazia per il bene di tutti.

Tuttavia è doveroso ammettere che in certiambienti ‘nostri’ l’ispirazione al cenacolo è statascavalcata da sistemi ben lontani dalle genuine inten-zioni della Chiesa e dei Fondatori: da queste con-traffazioni sono nati tanti guai, di cui le dolorosedefezioni di oggi possono essere una logica, anchese tremenda, conseguenza.

Cenacolo o fabbrica: non sembra ci possa esse-re una via di mezzo; ma se fabbrica fosse, oggi nonsaprebbe più a chi aprire i battenti.

Cenacolo, dunque.Ma al cenacolo è immanente la legge dell’amo-

re come in nessun’altra convivenza.«Nessuno mi ha mai voluto bene come lei»:

confessa un religioso ventenne al suo padre mae-stro. Promozione da ambire a prezzo di incontabi-li rinunce, se è vero che meglio vive chi meglio ama.

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«Sento di amarla più di mio padre»: scrive aldirettore spirituale un candidato di 22 anni; e seppiche il complimento era diretto a un educatore dallamano forte, ma che sapeva amare i suoi giovani piùdi un padre di famiglia.

Ha scritto un allievo di seconda liceale (18 anni),quasi a commento di una festa organizzata nella suacasa di formazione:

«Caro Padre, voglio ringraziarla per la festadell’Immacolata passata insieme; grazie per tutto,grazie specialmente per quello che ha fatto a F. ea P.; grazie per me.

Non poteva far niente di meglio che spezzetta-re la carne a quel piccolo...: penso che l’Immaco-lata mi abbia regalato come dono quella scena.

Sono rimasto tanto contento: ho visto in leimio papà, ho riscoperto con gioia il suo volto di‘papà’, e mi sono sentito con gioia ‘figlio’.

Ho visto ancora una volta che tutto quelloche mi possono dare papà e mamma, lei me lopuò dare».

Tocca alla mamma accendere il fuoco ogni mat-tino, per tempo! Nei nostri ambienti se il fuoco nondeve mancare, è compito di chi presiede far sì cheil fuoco dell’amore arda e superi magari in vigoree bellezza quello domestico. Né si pensi a grandicose: l’amore si nutre di dettagli quasi insignifi-canti, come il fuoco che è la sintesi di innumere-voli scintille.

«E’ la prima volta che incontro un sacerdoteche ringrazia il chierichetto che gli lava le mani

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al lavabo della Messa»: dichiara un seminarista diterza media.

E un chierico di teologia, stordito da crisi insor-genti che mettono in forse i suoi progetti, non trovamiglior incoraggiamento a proseguire “in spem etcontra spem» che l’esempio del suo direttore spiri-tuale, il quale non risparmia il proprio materasso dilana per la salute del povero chierico; questi poinon dissocierà più il ricordo di quel gesto buonodalla decisione di proseguire nonostante tutto.

Forse a non pochi è mancato affetto, per porre insalvo tempestivamente il tesoro di una vocazione.

Nulla può sostituire l’amore nell’età in cui l’af-fettività urge violenta e reclama il diritto a donarsie aspetta fiducia, affetto, amicizia: anche il santua-rio più sacro diventa una tomba se vien meno quel-la carità senza la quale tutto è nulla e a nulla serve(cf. 1 Cor 13, 2).

Non è forse compito tipicamente sacerdotalequello di “vivere d’amore” tutta l’esistenza per Cri-sto e il suo gregge?

E non dovrà in ogni circostanza il sacerdote inse-gnare a “vivere d’amore” secondo il precetto delMaestro, come Lui ha amato?

«Mi vuoi bene? Pasci...» (Gv 21, 15-17).Troppe volte nei ‘nostri’ ambienti si è creduto di

poter sostituire il precetto del Signore con altri begliapparati, con surrogati costosi e vistosi, ma vuoti,fasulli, e deludenti alla fine; giacché nulla può sosti-tuire, nell’età che avanza e decide, il «vincolo diperfezione» (Col 3, 14).

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Senza famiglia?5.

«Poveri ragazzi! Vivono un’esistenza meschina,come fossero senza famiglia, come altrettanti orfa-ni, mentre a casa, e forse non lontano da qui, hannogenitori e fratelli. Perché costringere a una vita arti-ficiale e quasi innaturale dei ragazzi che hanno unafamiglia propria, spesso fatta di buoni cristiani? Chimai può sostituire la famiglia naturale in questaetà?...».

Press’a poco queste erano le lamentele scam-biate in un seminario minore da alcuni assistenti (oprefetti) che non si accorgevano, così dicendo, disconfessare un po’ se stessi e certi loro metodi checontrastavano purtroppo fino all’evidenza con lospirito di famiglia che avrebbero voluto instauratotra i ragazzi assistiti.

«Senza famiglia»: titolo commovente di roman-zi e di films, e tesi di moda per coloro che nonvogliono giustificare la presenza dei seminari mino-ri e ne fanno bersaglio di critiche accanite, non sem-pre rispondenti alla testimonianza dei fatti. I semi-nari e tutte le altre case di formazione vogliono esse-re altrettante famiglie; deve in esse spirare clima di

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famiglia; tutto ha da essere vivificato da una viva-ce cordialità, capace di far amare la vita seminari-le come una bella e piacevole integrazione della vitadomestica.

Gli allievi dovrebbero essere così affiatati traloro e con il gruppo degli educatori, da ritornare sìvolentieri alla propria famiglia, ma con altrettantavoglia far ritorno al seminario stesso: fusione diaffetti, non facile da ottenersi, ma punto di arrivoverso cui vanno diretti gli sforzi di ogni giorno. Quigiunti, come da una nuova pista di lancio, si potràpuntare su altre mete, che, come base insostituibi-le, abbisognano di una intesa cordiale, di piena fidu-cia reciproca, e della scambievole integrazione traseminario e famiglia.

Non poche volte assistiamo con rammarico allefughe dal seminario per le vacanze lunghe o brevio per il ritorno festivo in famiglia: tutto per moltipassa in second’ordine, non esclusi il pranzo, laMessa o qualche semplice dovere o favore richiestodalla comunità. Fughe di piccoli, e fughe di gran-di, come si uscisse da un luogo di detenzione for-zata e finalmente si potesse respirare un po’ dilibertà.

A onor del vero, va anche detto che in questefughe troppi superiori precedono gli allievi nellapremura di andarsene quanto prima, non appenafinita la lezione o scaduto un compito di assisten-za. Ai ragazzi non può sfuggire il senso di questastrana fretta, e sanno trarne le conclusioni seguen-done l’esempio con zelo. In famiglia si è tutti ‘uno’,

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e solitamente i genitori sono i più attaccati e affe-zionati alla casa domestica e alla vita di famiglia.

In alcuni seminari (ora non sono più molti) ilnumero elevato degli allievi rende davvero proble-matico e quasi impossibile uno stile autenticamen-te familiare, dovendo far ricorso troppo spesso alladisciplina, per quanto discreta e blanda, per tenereuniti e ordinati tanti adolescenti. Al fine di salvarelo stile di famiglia nei seminari dove sono nume-rosi gli alunni, il Concilio Vat. II prescrive: «Ven-gano distribuiti, con sistemi adeguati, in piccoligruppi affinché si possa provvedere meglio alla for-mazione personale dei singoli» (O.T. 7).

E’ una critica mossa ai collegi e alle convivenzein genere (convitti e semiconvitti...) quella del‘numero’: i ragazzi di oggi non tollerano più di esse-re considerati ‘numero’; ma questo pericolo è eli-minato solo in famiglia, dove cinque figli sono comeuno, e uno come cinque. Forse è per questa ragio-ne che anche giovani sui 18-20 anni nostri allievipensano ancora con nostalgia alla famiglia, proprioquando altri, chiamati a fondarne una propria, sogna-no e cercano quella evasione dalla protezione dome-stica che potrebbe in qualche modo ritardare la rea-lizzazione di un bel sogno.

E’ certamente uno scoglio grave, questo, cheva studiato accuratamente, ed eliminato decisa-mente: nessuno dei nostri candidati deve sentirsi‘solo’ o un puro ‘numero’ o appena un ‘ospite’.Rivedo a distanza di parecchi anni un assistente,chierico salesiano, accogliermi premurosamente

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nella allegra brigata dei primi compagni di vitacollegiale; e fra questi ritrovo con commozioneviva un ragazzino tutto fuoco attendere che aves-si dato sfogo alle lagrimucce dell’addio a chi miaveva accompagnato lassù per gli studi (a Tren-to, in via Barbacovi), per invitarmi a fare con luiuna bella partita: e fu tanto bella quella partitache mi sembrò di essere stato riassorbito da unafamiglia grande e buona.

Ci vorrà un po’ di tutto, ‘omne bonum’, cosìcome nelle famiglie anche più modeste, affinché nevenga una convivenza più umana, più calda, piùvaria e gioiosa: se la condotta comunitaria deveavvicinarsi il meglio possibile a quella di una fami-glia sia pur numerosa, è risaputo che nelle nostrecase un po’ di tutto c’è, e nonostante la ristrettez-za del nido domestico, l’orizzonte offerto da per-sone e da cose (a volte davvero minuscole!), non-ché da scambi e da relazioni varie, è largo, proprioper quel poco di tutto che i genitori procurano aifigli perché amino il piccolo, ma caro mondo fami-liare.

Nessuna data di rilievo in famiglia è trascurata,onomastici e compleanni, ritorni o guarigioni, e...tutto crea pretesto alla fusione degli animi. Respon-sabilità ed incarichi vari, lavoro manuale e puliziadella casa, organizzazione di gruppi, arbitrato digiochi e competizioni culturali, ed altre sane occu-pazioni ed esperienze, devono creare quell’intesache sa di famiglia, sa di amicizia, di reciproco inte-ressamento, di vera integrazione affettiva, di gioio-sa fraternità. L’orario settimanale e giornaliero

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dovranno pure essere variati in maniera tale da pre-venire atrofie e saturità: così farebbe un genitoreveramente premuroso di educare nei figli degli uomi-ni completi.

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Vivaio e vita6.

Molti sacerdoti e religiosi, anche dei nostri gior-ni, ripensano con animo grato agli anni passati nelseminario minore o nella scuola apostolica fin dallaprima adolescenza, e pur riconoscendo necessariaggiornamenti e ristrutturazioni di metodi e diambienti, attribuiscono al soggiorno in quei vivaiuna sempre più chiara e suasiva scoperta dei germidi vocazione e una amorosa coltivazione di questa,fino alla maturazione degli anni ‘teologici’.

La vocazione è senza dubbio prima “opus Dei”che “opus hominis” e “opus hominum”: ed è altret-tanto dimostrabile che Dio può chiamare quando ecome e dove a Lui piace, liberissimamente e tal-volta inaspettatamente, fino a cavare dalle pietre ifigli di Abramo (cf. Lc 3, 8). Ma sembra non menovero e constatabile che ogni vocazione è condizio-nata da una sfera esterna al chiamato, quella appun-to fatta dagli uomini, l’ambiente nel quale l’operadi Dio e l’opera dell’uomo chiamato, diventanoopera della Chiesa, della società.

Quante vocazioni non sono arrivate a matura-zione perché soffocate al primo apparire, o stroncate

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nel crescere, dal clima di casa o di paese o di scuo-la! E chi non sente le raffiche micidiali di dottrine,di costumi, di esperienze in netto contrasto col Van-gelo, con lo stile austero del sacerdozio di Cristo,con le mete a cui chiama una autentica vocazionereligiosa?

La chiamata dei profeti come quella degli apo-stoli, in ogni tempo, esige un clima di preghiera, diriflessione, di certa segregazione dalla mondanitàper attendere allo studio, alla ginnastica dello spi-rito, all’acquisto di sode virtù umane, cristiane epotenzialmente sacerdotali. Pretendere che le voca-zioni, oggi soprattutto, si conservino e si maturinonella dissipazione così sfacciatamente edonistica,non è un tentare Dio?

Una volta precisate le finalità dei seminari, siaminore che maggiore, e ben scelte le strutture e sele-zionati i sussidi secondo le esigenze dell’età e dellaeducazione umana, cristiana e sacerdotale, non saràdifficile accettare la validità di queste istituzionirivelatesi fino ad oggi provvidenziali. Il ConcilioE. Vat. II precisando lo scopo sia del seminariominore che del maggiore (cf. O.T. 3 e 4), non dichia-ra implicitamente la volontà della Chiesa di con-servare l’istituzione e di potenziarne l’efficacia?

In questi nostri appunti non facciamo una nettadistinzione fra il ‘minore’ e il ‘maggiore’, o tra la‘scuola apostolica’ e il ‘noviziato’ o lo ‘scolastica-to’; pur riconoscendo che nei successivi passaggic’è qualcosa di nuovo nei soggetti, che si riverberasull’ambiente educativo e opta per nuovi accorgi-

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menti e adattamenti di metodo. Va accettato, comedato acquisito dalla esperienza; sarebbe pericolosocreare blocchi, discontinuità, distacchi di fondodalla educazione intrapresa nella prima adolescen-za. La vita inizia nel vivaio e avanza ininterrotta-mente con quella linfa iniziale e per quella spintaprima. E’ per una formazione unitaria e globale deiragazzi ‘scelti’ che qui sono raccolte esperienze,opzioni e testimonianze.

C’è nell’aria un senso diffuso di sfiducia, che asua volta genera intolleranza e fretta di evadere dalvivaio, quasi debba questa permanenza ritardare unamigliore affermazione nella vita stessa del candi-dato, e creare rachitismi che sanno di infantilismoe di adolescenzialità a oltranza. Per lo stesso timo-re c’è chi vuole ritardato l’ingresso nei seminariminori confidando in una assistenza assai più pro-blematica e ipotetica che dovrebbe essere garanti-ta dalla famiglia e dalla parrocchia. Contro questevelleità stanno le statistiche più che eloquenti didiocesi e di istituti religiosi che, avendo ceduto asiffatte tentazioni, hanno chiuso seminari e novi-ziati.

Natura insegna: senza un vivaio ben custodito ecoltivato non si rifanno né giardini né campagne néboschi; è bravura incontestata quella del giardinie-re che non rischia esperienze stravaganti e irrazio-nali, ma tutto dosa, fin l’aria e il sole, in vista pro-prio della vita e della vigoria delle piante stesse. Iltrapianto di alberi non più tanto giovani è sempreun’impresa non facile e spesso enigmatica, pur rico-

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noscendo che vocazioni tardive hanno dato buonifrutti.

L’accusa più ricorrente contro i seminari mino-ri si riduce al dubbio che questa istituzione possarealmente rispondere alle attese di una formazioneumano-cristiana integrale e aperta alla maturazionecosciente, responsabile ed entusiastica di una even-tuale vocazione.

Tale dubbio si dilegua nell’urto con la reale situa-zione delle scuole pubbliche di provincia o di città:chi ne sa qualche cosa si affretta ad affidare con rin-novata fiducia i ragazzi che presentano germi divocazione ai seminari e alle scuole apostoliche.

Si parla spesso di frustrazioni e si temono perogni dove nei ‘nostri’ ambienti di formazione; e nonsi temono abbastanza quelle frustrazioni parimentideleterie che dovrebbero subire i ragazzi chiamati,ma trattenuti in famiglia, nel mondo, privati di unambiente scelto che protegga e faccia crescere qua-lità, inclinazioni e intenzioni seminate dalla Prov-videnza.

Al lavoro, dunque, per togliere ogni pretesto adubbi e timori: tutto dovrà essere vagliato e ordinatoal fine che il vivaio sia esuberante di vita, di fre-schezza primaverile, di gioia, di santità, che garan-tiscano una crescita perfetta nel pieno rispetto delleleggi della natura e della Grazia.

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Ambiente ‘scelto’per ragazzi ‘scelti’

7.

La impressionante flessione di vocazioni induceanche buoni preti a muoverne accusa contro l’isti-tuto seminarile, tacciando cose e persone di arcai-smo e di ottusità cieca di fronte alle nuove istanzedella pedagogia e della psicologia.

Per togliere a chi diffida ogni possibile pretesto,e per favorire il reclutamento tra i pre-adolescentiche costituiscono il vivaio del sacerdozio, sarà neces-sario rivedere e ridimensionare posizioni ed espe-rienze, pronti a strapparci da ciò che appare retrivoe antipedagogico, e altrettanto decisi a introdurrenovità che, lungi dall’essere salti nel vuoto (ne ver-rebbe una responsabilità ben pesante sugli educatoridelle vocazioni!), abbiano il carisma del buon sensoe un certo collaudo dai segni dei tempi, ossia dalcontesto globale delle esperienze ecclesiali nelmondo contemporaneo.

Quanto all’ambiente in genere: c’è chi proponedi cambiare il nome eliminando una nomenclaturasorpassata. Non più ‘seminari’ e ‘scuole apostoliche’,

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ma case di orientamento vocazionale, collegi o con-vitti vescovili, ville o case dedicate a uno o all’al-tro Santo, o titoli ancora più evasivi e generici,mutuati da istituzioni laicali o profane. Si è pensa-to di interpretare il pensiero di alcuni allievi, soprat-tutto delle classi superiori. Non è improbabile un’in-tenzione fasulla, quale potrebbe essere la mimetiz-zazione o il rispetto umano, o un’acquiescente cedi-mento verso la mondanizzazione che pare non siarresti davanti ai luoghi più santi. Tuttavia non pensosia impresa costosa cambiare intestazioni e titoli,rimanendo il dubbio che ciò possa bastare per toglier“la muffa al quadro”.

Il termine ‘seminario’ potrebbe significare permolti, non sempre bene informati e talvolta preve-nuti, un armamentario di cose vecchie, di metodiallergici, di ingozzamenti di regole e di pratiche, dipressioni più o meno perdonabili, di ostruzionismoalla esuberanza adolescenziale, e simili brutte cose:se così, il cambiamento del nome poco conta, per-ché non basta. La targa levata dal frontespizio diver-rebbe un facile paravento dietro il quale la muffapotrebbe ancora sopravvivere.

Indubbiamente la cornice va sostituita: la pre-cedente opprime il quadro e potrebbe sfasciarlodel tutto irrimediabilmente. Edifici troppo vastinon piacciono: il ragazzo vi si sente ‘numero’;così non tollera facilmente di essere inserito inambienti sociali dove gli allievi troppo numerosifanno pensare con nostalgia al tepore affettuosodella propria famiglia, ritardando quell’inseri-

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mento che appare coefficiente insostituibile allaeducazione del cuore.

L’incontrarsi con immagini sacre per ogni ango-lo, persino dove manco, per rispetto, si vorrebberovedere; trovarsi a mensa in un refettorio caserme-sco, quasi castigati a non scambiare una parola ouno scherzo; camminare per lunghi corridoi mona-stici, come in più o meno liete processioni o corteifuneraleschi; per finire, la sera, a fare ricreazionenello studio (chiamato anche camerata) dove già cisi è trovati chiusi per più ore nella giornata...: tuttoquesto e altro ancora i nostri adolescenti condan-nano giustamente come una cornice grottesca obigotta, che si stupiscono abbiano potuto sostene-re per tanti anni le passate generazioni.

E chi più tollererebbe, oggi, vedere adolescentigiocare in abito talare? Don Bosco, espertissimo dianime giovanili, non si sarebbe mai adattato ad apri-re una casa o un oratorio, senza assicurarsi che c’eraspazio sufficiente per allestire quanto prima un cor-tile da gioco e un teatrino: per queste anticameredoveva passare il ragazzo prima di entrare nella cap-pella o nello studio o nel laboratorio.

A un ragazzo di terza media, che mi confidavacome da un mese metteva in forse la sua perma-nenza nel seminario dove già dalla prima si era tro-vato contento, chiesi di esaminare assieme la crisi:quasi all’improvviso, inaspettatamente, gli era sem-brato che il seminario, grande come un ministeroromano, gli togliesse il respiro. La sua casetta nonaveva che un palmo di cortile, non aveva palestra,

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nemmeno un gran televisore e un bagno conforte-vole, né un modestissimo calcetto o bigliardino (coseda seminario); e alla povera casa pensava come aun bel sogno di libertà.

Un giovane entrato per la prima teologia dove-va fare non poca fatica a varcare la soglia della cap-pella dei teologi, che gli appariva troppo diversa elontana dallo stile moderno, semplice e tutto luce,della sua parrocchiale. Forse un giorno si dovràammettere che “non tutto il male è venuto per nuo-cere”, se in considerazione della scarsità numericadegli ospiti, ci si vedrà costretti a chiudere operetroppo vaste, per riportare ogni cosa a dimensionidomestiche, molto più adatte a viverci uno stilecasalingo, di famiglia.

E nessuno, che appena voglia entrare nelle istan-ze di adolescenti dall’argento vivo, dubiterà di sacri-ficare senza rimpianti qualche palmo di giardino odi orto, o i vasi di geranio che abbelliscono corri-doi e terrazze, per dare libero respiro a un giocoesuberante che non sopporta troppi riguardi o deli-mitazioni.

E’ assurdo pretendere di far amare un ambienteche non interpreta le esigenze e i gusti degli ospi-ti! Quando poi un ragazzo mal sopporta di trovarsiin un posto antipatico, chi gli potrà far amare quan-to tra quelle pareti verrà insegnato, sia pure in vistadi realizzazioni ottime?

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Verifica continua8.

Le mete educative verso cui sono dirette espli-citamente tutte le nostre intenzioni e il nostro tra-vaglio sono quelle segnate dal Concilio E. Vat. II edagli altri documenti ufficiali (cf. O.T. 3 e 4; R.F.11): i seminari minori sono eretti allo scopo di col-tivare i germi della vocazione negli alunni e di pre-pararli a seguire, con animo generoso e cuore puro,Cristo Redentore; i seminari maggiori sono neces-sari per formare un’anima sacerdotale negli alun-ni, proponendo loro l’esempio di Cristo, Maestro,Sacerdote e Pastore.

Tutto questo presuppone ed esige una eccellen-te formazione umana e cristiana, portata fino allasempre più cosciente e generosa donazione di séalla volontà di Dio. Lavoro che lega in uno i dueseminari e ne compagina e armonizza indirizzi, sus-sidi e tempi: quanto inizia nella prima media, pro-cede gradualmente fino al liceo e alla teologia peruna maturazione e promozione sul piano umano ecristiano che renderanno possibile e relativamentefacile la identificazione col Cristo, con la sua men-talità e il suo stile. Un altare, per quanto pregiato

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e ben lavorato, non si regge da se stesso, gli occor-rono dei supporti: si gioca sull’equivoco e si rischiadi lavorare sul vuoto, quando questo lavoro educa-tivo (per una promozione naturale e soprannatura-le) non venisse iniziato tempestivamente e prose-guito ininterrottamente. E ci si domanda se maipossa, il chiamato a impersonare il Redentore inmezzo al popolo di Dio, dirsi pago del lavoro fattoin una maturazione che abbraccia e obbliga tuttal’esistenza.

Questo è il quadro sul quale, senza indugi esenza soste, gli educatori scelti per così eccellentee grave compito sacrificano il meglio di sé in unaggiornamento che obbliga allo studio, alla vigi-lanza, alla più assidua comunicazione con lo Spi-rito, e alla più chiara e suasiva testimonianza difedeltà alle mete stesse che presiedono al nostrolavoro educativo.

L’ammodernamento della cornice non basta: ilquadro soprattutto conta; e questo è opera dellaProvvidenza Divina e di tutti coloro che vivono neiseminari, il corpo degli educatori e gli alunni insie-me.

Se l’ambiente materiale e logistico-organizzati-vo può essere paragonato al corpo, superiori e alun-ni ne sono certamente l’anima: è logico vada a que-sta la massima cura e nel dubbio della scelta, la pre-ferenza in ogni caso.

Tutti siamo d’accordo che a ben poco o a nullaservirebbe un edificio studiato sin nei dettagli inordine alle finalità pedagogiche, se poi mancassel’anima; se tra superiori e allievi, ad esempio, man-

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casse unione cordiale e fiducia reciproca, se tra glieducatori stessi non ci fosse armonia di indirizzi edesemplarità senz’ombre.

Ripulire un quadro d’autore, riportarlo alla bel-lezza primigenia e farlo di nuovo prezioso e presti-gioso, è meno facile che cercare una cornice e adat-tarla, è pacifico; non manca il rischio di peccare ditroppo zelo e alla fine della ripulitura trovarsi nellemani un quadro mutilato.

Se la comunità seminarile risponde alle atteseconciliari (cf. O.T. 5) e forma «una famiglia taleda tradurre in pratica la preghiera del Signore: Chesiano una cosa sola», l’anima avrà il suo respiro ela sua vigorosa affermazione anche in un corpo nonancora ammodernato e confortevole. Per trattenereil ragazzo di cui s’è parlato nel capitolo preceden-te, non c’era più nulla di lusinghiero nel bel semi-nario di recente costruzione e attrezzatissimo: perun attimo sembrò a quell’adolescente che mancas-se il ‘fuoco’ in quell’agglomerato e in quella piccolamoltitudine di ospiti.

Compaginati da una cordiale carità – che nonignora quelle semplici e pure manifestazioni di affet-to comunemente ritenute frutto e segno di sana fami-liarità – gli educatori e gli educandi, senza rinunciarei primi al proprio ruolo e i secondi al proprio dove-re, realizzeranno quella integrazione reciproca, indi-viduale e comunitaria, che a tutti faciliterà il rag-giungimento delle sublimi mete, che sole giustifi-cano la convivenza nei seminari e la stessa esisten-za di questi.

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Certe spaccature o fratture che generano un per-nicioso pullulare di ripensamenti e di intenzionifuggiasche, non sono forse nate in qualche semi-nario o noviziato, anche recentemente, da manca-ta affabilità nei superiori e da freddezza nei giova-ni? Integrazione di cui forse abbisogniamo più noi“della tavola alta” (come soleva dirsi in collegio!)che loro, i nostri fratelli o figliocci; ma questa èottenibile a un patto, segreto, ma essenziale e maisurrogabile, nelle comunità dove prevalgono ado-lescenti: che i superiori precedano nell’esempio diquanto all’educando viene proposto o formalmen-te richiesto.

Interessante davvero, anche se fastidiosa, unalettera ‘aperta’ che lessi appesa in un seminario: erain atto una penosa frattura tra superiori e ragazzidel ginnasio, una autentica ferita nell’anima di quel-la promettente comunità seminarile.

Era stato bandito il fumo e s’era andati a fruga-re nelle valige e nelle tasche degli alunni per faresmettere, giustamente, quel vizio; s’era anche ricor-si a motivi di ordine igienico, e addirittura asceti-co (con certe parole grosse, quali: «...il dovere dellaausterità e della riparazione...»): ma quella lettera‘aperta’ domandava ai reverendi superiori, per glistessi motivi, validi per loro a titoli più urgenti eobbliganti, l’esempio di una austerità che sola liavrebbe persuasi a bandire il capriccio delle siga-rette, chiudendo una spaccatura dannosa a tutti eforse pericolosa ai fini di una promozione voca-zionale.

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«Egregi Superiori, ...il borsellino, la salute, lariparazione e l’esercizio della mortificazione...non sono forse ragioni obbliganti voi più e primache noi?».

Così contestavano ragazzi dagli occhi aperti edalla lingua sciolta. Ipercritici? Comunque sia, ciobbligano a una verifica continua all’insegna di unacondotta lineare e convincente: siamone grati!

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Equivociintollerabili

9.

Quasi inavvertitamente possono infiltrarsi equi-voci capaci di mettere a repentaglio le migliori inten-zioni e un lavoro costato sudori: accenniamo adalcuni, che sembrano ripetersi frequentemente.

Il primo equivoco, nato spontaneamente dalvivo e meritorio desiderio di veder aumentare ilnumero dei candidati, è di pensare e credere chetutti gli alunni debbano o almeno possano essereun giorno dei preti o dei religiosi. All’inizio dellavoro educativo e negli indirizzi programmati,questa idea non appariva affatto; piano piano lasegreta aspirazione è diventata intenzione e que-sta ha preso la mano per ordire ‘sante’ astuzie,sussurrare preferenze, proporre mete ‘sublimi’,facendo alla fine un po’ la voce grossa (di sott’ac-qua, s’intende!) per estorcere una qualche velleitàdi propositi, semmai «la voce del Signore si fossefatta intendere».

Turbato, un frugolino di prima media cerca diincontrarsi segretamente con un amico del ginna-

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sio: «E’ vero che qui si diventa preti tutti?... Biso-gna proprio farsi preti qui?». Nessuno può nega-re che su quel piccolo, Dio abbia posato il suo sguar-do: i segreti di Dio sono in quest’ora misteri impe-netrabili; ma una cosa è altrettanto certa, che l’e-quivoco ha già creato dei guai in quel fanciullo, eproprio in ordine a una felice risposta ad eventualechiamata.

L’equivoco non serve che ad alimentare segreteriscosse e rivalse, che potranno durare per decenniin coloro che usciti dal seminario hanno di esso con-servato solo l’amaro ricordo delle strane forzatureche legavano non tanto i piedi, quanto la libertà ol’esuberanza.

Conosco un reduce che costretto per lunghi mesia una intollerabile inazione nei lager tedeschi, oraper un irrefrenabile impulso non sopporta un attimodi sosta e soffre l’orgasmo del moto. E’ un simbo-lo; ma è provato che certe iatture inferte alla personanegli anni della prima adolescenza da metodi edu-cativi errati, hanno lesionato per tutta la vita; ed èparimenti dimostrato che alcuni – siano rimasti oabbiano scelto altre vie – hanno faticato per moltotempo (più di 20 anni!) per neutralizzare o cancel-lare simili storpiature.

Anche i ragazzi già scelti dalla Provvidenza enostri allievi sono acutamente gelosi, oggi più diieri, della propria libertà; e anche quando si adat-tano più o meno spontaneamente a una certa disci-plina, sentono nell’intimo una vivace aspirazioneall’autonomia: chi li tocca in questa, è visto in unaprospettiva antipatica, anche se le intenzioni pos-

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sono sembrare ottime. Questo si rivela massima-mente in taluni pre-adolescenti, nei quali la perso-nalità già si delinea ben dotata e forte. Né ci si aspet-ti che tale acuta gelosia accenni a scemare neglianni evolutivi che portano alle soglie del venten-nio.

La vocazione, se c’è, deve svilupparsi assieme econtestualmente alla affermazione della persona-lità, se non si vuole correre il rischio che la voca-zione l’abbia e la coltivi uno strano personaggio,un ‘sosia’, affiancato al ragazzo, che noi, vittimeinconsapevoli forse di un banale equivoco, abbiamoelencato arbitrariamente nella lista dei candidati‘sicuramente’ eletti.

Altro equivoco, non meno pericoloso del primo,può sussistere nonostante la vigilanza perché non siinsinui nelle intenzioni e nelle programmazioni:chiamati e non chiamati devono assumere, nolentio volenti, un’andatura da chierici; “chierici in minia-tura” si suol dire, scusando la mascheratura col pre-testo della disciplina, della uniformità di stile, dellabellezza di un così distinto regime di condotta, ecc.Chi non è nella lista, in quella fatta dalla Provvi-denza Divina per non fraintenderci, “pro bono pacis”e per salvare le apparenze, si adatterà per un po’ aquesta caricatura clericalizzata, ma per quantotempo? La commedia, quando va per le lunghe,diventa farsa ridicola; e il ragazzo, soprattutto ilmeglio provveduto, si sente declassato e autolesio-nato.

E’ antipedagogico e inumano insistere che porti

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un paio di scarpe o larghe o strette, chi ha bisognodi correre: ogni scarpa su misura e ogni cosa a suotempo! Non ci sono forse delle mete, già bene deli-neate e definite in partenza, alle quali incoraggiareogni ospite, come ad esempio, l’acquisto di fortivirtù umane (sincerità, fedeltà, bontà, fortezza d’a-nimo, serenità costante...) e di una coerenza semprepiù impegnata nella imitazione di Cristo? Da que-sti traguardi si potrà sempre riprendere la corsa perportare il ragazzo o il giovane alla disponibilità tota-le per realizzare il piano di Dio, fatto per ciascuno,sulle vere ed esistenti possibilità preordinate e cor-responsabilmente sviluppate.

Non so quale benefico effetto possa aver pro-dotto nell’animo dei lettori, questa lettera ‘aperta’che ricopio da un giornale murale appeso nei cor-ridoi di un seminario minore:

«Amati fratelli, dopo la pausa pasquale, ciritroviamo insieme per riprendere il nostro lavo-ro spirituale e intellettuale. Cercheremo di voler-ci sempre più bene, aiutandoci l’un l’altro a cor-reggerci ed edificarci. Il sacerdozio è la più altavocazione: cercheremo di corrispondervi contutto l’ardore del nostro cuore sacerdotale. Aveteconstatato, durante le festività pasquali, quan-to le anime desiderino il sacerdote, i sacerdoti.Tutti dunque sono in attesa di voi, e i più gene-rosi saranno quelli che disseteranno questeanime. Prima che il nostro amore diventi impe-gno di donazione agli altri, sia da questo momen-to impegno di donazione a Gesù risorto, vivo,

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vivente, e vivificante nel nostro bel seminario,cuore della diocesi. Tanti auguri di buon lavoroe di santità! I Superiori».

Alla lunga citazione va aggiunto che i destinataridella lettera-proclama erano ragazzini delle medie:dopo averli più volte incontrati nella ricreazionepomeridiana (di solito altrove tanto chiassosa, dopo4 o 5 ore di scuola) svogliati, disorganizzati, restiial gioco, speravo di leggere su quel giornale mura-le un accorato appello alla partita di calcio o a qual-siasi chiassata, sicuro che gli eventuali germi divocazione... sarebbero stati meglio protetti e megliogoduti prima dagli interessati e poi dalle anime“assetate di sacerdoti”, come appunto proclamava la‘lettera aperta’: aperta su di un cortile dove (in appa-renza, per fortuna!) se ne stavano compassati e invec-chiati tanti bravi ragazzi dal cuore in corsa.

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Arte scomoda10.

Sembra paradossale che si possa correre il ri-schio di cadere nell’equivoco di mentire o mette-re a tacere o addirittura osteggiare – più o menovelatamente; sul principio solo in alcune circo-stanze, poi di abitudine – il preciso scopo per cuila Chiesa vuole i seminari: con una logica spie-tata, obliterato il fine, ci si comporta con gli ospi-ti come se un certo numero di essi non fosse (pre-sumibilmente) destinato al sacerdozio e non aves-se da custodire e da far fiorire il carisma della di-vina chiamata.

Salvo un intervento particolare della Provviden-za, non si vede come possano in un clima strana-mente agnostico svilupparsi e maturare delle voca-zioni, specialmente quando si tratta di adolescenti,nella fase così delicata e insieme decisiva in cuil’ambiente ha una incidenza determinante come innessun’altra epoca.

Si va mutuando così uno stile laico, che rasentaquello sfrontatamente ostile, nel quale è sbarrata laporta a una affermazione chiara e franca dei princì-pi morali cattolici, è inverosimilmente contestato

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ogni pur saggio e prudente riserbo su fatti e coseche per nulla rientrano nei programmi scolastici oeducativi, e pare bandita ogni rinuncia a quanto sadi mondanità e di edonismo.

In alcune ‘nostre’ scuole si è arrivati a degliestremi conturbanti, tanto da domandarsi che cosaancora restasse da mutuare dall’esterno di indi-scriminato e provocante. Certe leggerezze sonoimperdonabili in casa nostra, quando è risaputo ericonosciuto ad ogni responsabile, preside o in-segnante, il diritto e il dovere di reagire a siffat-ta corruzione; non mancano in scuole pubblicheesempi incoraggianti di reazione e di provvedi-menti severi.

Ho prove sufficienti per affermare che ragazzi,entrati nel seminario con buona intenzione, hannotrovato incentivi al male che in famiglia erano statiaccortamente tenuti lontano. Alla osservazione fattacon garbo ad una giornalaia che ostentava certastampa sconveniente, questa non si trattenne dalrispondere all’interlocutore, un vescovo dell’AltaItalia, che i suoi più assidui clienti erano, da uncerto tempo, i seminaristi.

C’è chi vede e tace, per non apparire retrogrado.C’è chi lascia correre nella speranza di esibire unseminario ‘pilota’ ai cacciatori del sensazionale: levoci corse su certi sistemi ed esperienze seminari-stiche restano una pesante denuncia a carico di per-sone inette a una missione educatrice che esige imigliori soggetti di una diocesi o di una congrega-zione religiosa.

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Cosa chiama cosa, e anche le pratiche di pietàhanno subìto l’urto delle stravaganze di pseudo-educatori, molto preoccupati di liberalizzare e de-mitizzare anche i rapporti con lo Spirito, inven-tando le “nuove vie” (!) dove tentazioni antichee risorgenti hanno gettato i presuntuosi di ognitempo.

Ce ne volle a persuadere dei giovani teologiche il Rosario non è preghiera superstiziosa; e nonmi stupii quando seppi che alcuni parroci delladiocesi avevano protestato di non mandar più ra-gazzi al seminario, sconfessando metodi ‘pilota’,nei quali alla pietà (che si voleva ‘aggiornata’!)era lasciato il cantone di cenerentola, col prete-sto specioso di non violare la libertà di intesa trala coscienza e Dio.

E’ mai plausibile che giovani abituati in fami-glia e in parrocchia alla prassi della Messa quotidianae del Rosario serale in casa, non trovino nel semi-nario un incoraggiamento a coltivare pratiche che lihanno, inconsapevolmente forse, preparati a sceltesuperiori e all’ingresso nel seminario stesso? A forzadi burocratizzare (nonostante le mille parate prote-statarie contro la burocrazia di Stato!) e di secola-rizzare anche gli ambienti formativi, ci si trova asalvare, a malapena, un nome o una parvenza di isti-tuzioni ecclesiastiche che presso la Chiesa e il popo-lo hanno una ben chiara e indiscussa fisionomiaeducativa.

C’è da stupirsi che il Cielo non piova più, e la sic-cità di vocazioni si faccia tremendamente insisten-te? Il precetto del Maestro «Rogate Dominum mes-

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sis...» (Mt 9, 38), non suona forse condanna controcerti responsabili di azzardate e spericolate espe-rienze, così lontane dalle prospettive evangeliche eapostoliche, appunto perché alienanti dall’orazione?

Arte scomoda, lo dobbiamo ammettere, quelladi educare ragazzi ‘scelti’ per una missione unica edivina: gli slittamenti accomodanti o ‘permissivi’sono nati o potranno nascere dal non accettare lagravosa responsabilità di un’arte, altrettanto unicae divina, in piena coscienziosità e dinamicità inson-ne.

Non è mai stata impresa facile educare i giova-ni, e oggi meno che sempre, specialmente quandosi tratta di condurre dei prescelti da Dio a tale matu-razione da poter espletare una missione tanto eccel-lente quanto ardua: la singolarità della missione siritrova ‘anteprima’ nel tipo, per così dire, di edu-cazione conveniente da impartire. Qui l’educatoreentra nelle vedute di Dio, coglie i segni delle suemisteriose intenzioni (non di rado così divergentidalle nostre previsioni e dai nostri gusti), accon-sente ad attualizzare le scelte della sua sapientissi-ma e liberissima Provvidenza, asseconda ispirazio-ni e mozioni interiori donate con divina larghezzaal fine di rendere abili a far pensare ed agire gli edu-candi secondo la mente e l’azione di Dio stesso.

Arte scomodante sì: non esiste tuttavia arte piùnobile e degna di merito presso Dio e presso la Chie-sa e l’umanità.

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Il primo passo11.

Educare i candidati equivale a toccare il verticedella difficilissima arte nei suoi culmini: dare allaChiesa e al Mondo i nuovi profeti di Dio e i nuoviapostoli del Vangelo.

E’ evidente la necessità di una azione inces-santemente congiunta tra lo Spirito e l’educato-re, ché solo la Grazia ha il taumaturgico potere disuscitare da umili contadini o pastori o pescatorii messaggeri di Dio e gli operatori della Reden-zione. La parte preponderante qui è senza dubbioquella di Dio: l’educatore, per quanto ben ferra-to nelle scienze umane e agganciato a valide espe-rienze, non deve né precedere, né sostituire, nécontrastare la prestigiosa azione dello SpiritoSanto; la sua finirebbe per essere una scimmiot-tatura vanesia e deludente.

Perciò l’educatore, docibile e docile, diventanelle mani del divino Artista, strumento vivo, in-telligente ed esperto della divina Sapienza, attra-verso il quale passano i carismi singolari che for-mano gli eletti secondo la mente e il cuore di Diostesso. L’unione con Lui, la vita interiore, si fa

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obbligante e determinante, insostituibile: comepotrebbe altrimenti ‘capire’ i pensieri di Dio, tra-smetterli integri e farli accettare con intelletto d’a-more per una trasformazione, che si identificanelle sue profondità misteriose con la vita stessadel Cristo?

«Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»(Gal 2, 20).

Quello che un educatore di futuri sacerdoti inten-de ottenere lavorando sui candidati, precedente-mente e ininterrottamente deve permettere alla Gra-zia di realizzarlo in se stesso: per insegnare aglialtri come fare il messaggero, l’apostolo, il prete...è necessario che l’educatore per primo sia un auten-tico messaggero, un fervente apostolo, un pretesanto; e l’efficacia strumentale sarà sempre com-misurata e condizionata alla sua sensibilità sopran-naturale, alla sua disponibilità, alla donazione alloSpirito.

Anche qui vale l’assioma: vocazione generavocazione; ch’è come dire (soprattutto in questamateria): fervore genera fervore! Prima di edu-care il popolo eletto, i profeti si sono lasciati eru-dire ed educare, soavemente e fortemente; e ilMaestro volle dai primi apostoli che gli fosserodocili discepoli a prezzo di non poche rinunce edi una disponibilità “sine glossa” (cf. Lc 5, 11; 9,57-62; 14, 26-33).

E’ vero: nessuno deve assumere da sé un incari-co educativo vincolante a responsabilità senza ugua-li; ma chi ne ha avuto incarico o delega dal Vesco-vo, può contare sul continuo lavorìo dello Spirito,

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che non trovando obici o resistenze (non si dimen-tichi che basta un ‘cenno’ perché l’azione divina siaarrestata, essendo Dio non geloso, ma rispettosissimodella libertà anche dell’educatore!), rende il maestroidoneo a formare discepoli sullo stampo primario,quello del Vangelo. L’educazione di una vocazioneè opera di Dio e insieme, inseparabilmente, operadell’uomo: l’educatore riconoscendo e accettandotutta la parte di Dio, nulla deve sottrarre di sé all’im-presa.

Sono perciò ugualmente da rigettare questi atteg-giamenti contraddittori: quello di chi, credendosisufficientemente preparato (con studi, diplomi, espe-rienza...), si sente sicuro di sé e del suo operato, eprocede avanti (o meglio si illude di procedere avan-ti!) come se Dio potesse rinunciare alla Sua parte;e quello di chi, a giustificazione della propria iner-zia, appaltasse all’intervento della Provvidenza Divi-na la propria parte di responsabilità, dando origineagli equivoci opposti di cui si è parlato preceden-temente.

Nulla senza il consiglio di Dio, e nulla senza dinoi, come se tutto dipendesse dalla nostra azione,affidandoci Iddio i tesori della sua Luce e della suaGrazia da trasmettere ai chiamati con coscienteimpegno e responsabilità.

Lo sforzo interiore di adeguamento e di obla-zione all’intervento trascendente, va svolto conserietà e semplicità insieme: ci si deve spersona-lizzare, ma non fino al punto di assumere atteg-giamenti (non sempre coartabili nel segreto del-

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l’intimo) forzati, eccentrici e fittizi, cioè né con-vinti, né spontanei, né di conseguenza persuasi-vi, quasi debba venir soppressa la nostra attivitàpersonale da quella divina. Ognuno deve restarequello che è, ed adoperare il meglio che gli vienedalla natura e dalla Grazia in piena libertà di spi-rito, sicché gli educandi nulla trovino di palchi-stico o di troppo studiato o di non chiaramentespontaneo ed entusiasta nella nostra condotta enell’azione pedagogica.

Nessuno come gli educatori dei seminari e dellescuole apostoliche è chiamato a scendere nelleprofondità della Fede e della Grazia, a coltivare lavita interiore, a nutrirsi di studio sacro e di medi-tazione, a sostare presso il Maestro nel suo “nascon-diglio d’amore”, a cercarlo nelle righe del Vange-lo; così nessuno potrà esonerare questi educatori‘scelti’ dallo studio delle scienze psicologiche epedagogiche, nonché dal ricorrere tempestivamen-te al parere di esperti e al consiglio di persone illu-minate, come dal provare e ritentare, con una pazien-za da Dio, vari metodi o accorgimenti suggeriti dallaesperienza d’altri, dalla scienza, o imposti dalleconcrete realtà.

Chi mai vogliono incontrare nei nostri ambientidi formazione gli alunni (indistintamente, chiama-ti o meno; ma quelli soprattutto), se non degli edu-catori che siano una tangibile e incontestabile apo-logia del Cristo Sacerdote? Una fortissima istanzadi autenticità li porta a distinguere “nero da nero”,spontaneità da palco, entusiasmo da rassegnazione,

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con una dialettica senza precedenti; e tutto in chia-ve pedagogica, giocando a questo modo l’accetta-zione o il rigetto di un ordine o di un consiglio, diun incoraggiamento a proseguire o di un incitamentoa segnare il passo...

Il precetto del Signore: «Mi sarete testimoni...»(At 1, 8), si fa obbligante come in nessun’altra operaapostolica, e diventa patto, tacito ma impreteribile,per poter attendere a una efficace e feconda inizia-zione sacerdotale: accettarlo lealmente è il primopasso, e resta il definitivo oggi come non mai nellavita della Chiesa.

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Rischi danon permettersi

12.

Nella natura tutto è misurato e calcolato finonegli elementi più semplici, meno appariscenti equasi trascurabili: non un fenomeno che non abbiadimensioni precise, finalità proporzionate, attitudi-ni e attività perfettamente coordinate e armonizza-te col contesto universale della vita e della esisten-za. L’empirismo e l’improvvisazione sono fuoriluogo dovendo trattare di una qualsiasi scienza,anche della più elementare o di scarso interesse esi-stenziale.

In questo campo – nell’interpretare la mente diDio e nel farla apprendere e accettare fino alle estre-me conseguenze – ‘rischiare’, ‘azzardare’ sarebbeper lo meno irrispettoso sia verso Dio, che verso leanime e la stessa arte di educare; potrebbe diventa-re criminoso qualora si osasse dare a vite umane (sivive una sola volta!) un indirizzo arbitrario o discu-tibile o irresponsabile, forse non esente da falsifi-cazioni, da forzature inescusabili o da caricaturetollerabili in una farsa ridicola, ma non ammissibi-

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li in chi deve interpretare un destino che coinvolgetempo ed eternità con risonanze immediate e smi-surate sulla vita delle moltitudini. Se la vita fosseriducibile a un sogno vuoto o a un azzardo puerile,si potrebbe anche scherzare e fare dell’acrobatismoda saltimbanco, tutto riportando tra le sbarre e lecondizioni di un gioco!

“Sub specie boni”, traditi da calcoli speciosi,ma tanto arbitrari e gratuiti quanto affrettati, cifurono educatori che si affidarono al rischio (per-ché non lo chiamiamo ‘scherzo’?), rimettendosipoi ingenuamente a quella Provvidenza – diceva-no con fare pietista – che avrebbe saputo cavar-sela a suo tempo.

Acrobatismo, dabbenaggine, tentazione di Dio,irresponsabile viltà di fronte a un compito vitale:ecco i rischi da non permettersi mai, a costo di “darele dimissioni” e passare ad altri la consegna.

Chi ha azzardato avviare per strade non traccia-te da Dio anime che poi hanno dovuto retrocedere,non senza pagare di avvilimento e di umiliazioniun cambiamento di rotta che poteva significare uninesorabile fallimento nell’esistenza? Coloro che,atteggiandosi – tout court – a profeti o indovini odogmatisti, avevano solennemente ed enfaticamen-te dichiarato essere quelli i voleri divini, quello iltracciato della Provvidenza, e come tali dovevanoessere messi in opera ‘toto corde’ e senza altre veri-fiche...

Nella applicazione di un’arte così gravida di con-seguenze, in questioni tutt’altro che leggere e facil-

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mente solvibili, l’umile timore di se stessi e del pro-prio giudizio, spesso previene passi falsi e salva dasorprese indesiderabili. L’umile attesa non dispen-sa dal fare la propria parte addossandola comoda-mente ad altri, ma crea la migliore disposizione adaccogliere ed accettare i ‘segni’ di Dio e le indica-zioni dei fratelli.

Ricordo d’aver conosciuto un medico di campa-gna che con estrema facilità diagnosticava “unabanale influenza” per non creare angustie o panicoe per acquistare simpatia e popolarità; ma intanto labanale influenza mandava troppi all’altro mondo...Siamo almeno tanto cauti e prudenti nel pronosti-care sull’avvenire di un adolescente, quanto devo-no esserlo i medici e gli infermieri nel campo tera-peutico!

Orazione, studio, indagini varie, consiglio,pazienza... e tempo, costantemente congiunti, per-metteranno di conoscere il ruolo che Dio assegna aciascuno e il modo o stile con cui ad esso uniformarsie adeguarsi.

Né l’educatore, né il giovane cedano alla fretta,pessima consigliera in affare di così grave impor-tanza; e qualora la fretta fosse dalla parte dell’edu-cando, non vi si adatti l’educatore. Più tardi gli stes-si male-consigliati non dubiterebbero di imputare,senza reticenze, agli educatori quelle lontane deci-sioni sollecitate da loro stessi, ma non sufficiente-mente ponderate nell’anima dei consiglieri.

Le forzature non sono costume di Dio: non sonobenedette, sia che entrino a far parte di uno stile

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pedagogico, sia che determinino una scelta o deci-sione; le conseguenze quindi non sono mai addebi-tabili alla divina Sapienza, che tutto dispone, conestrema precisione, come afferma la Scrittura: «Tuhai tutto disposto con misura, calcolo e peso» (Sap11, 20).

Il timore di perdere degli ipotetici candidati giocaspesso un ruolo pericolosissimo, pur riconoscendotutti a priori che questo è puerile e da condannar-si: che affidamento, infatti, potranno offrire allaChiesa elementi raffazzonati all’insegna del nume-ro? L’istanza più patita è che Dio ci conceda sacer-doti e religiosi che siano delle autentiche testimo-nianze, senz’ombre, delle guide sicure, dei pastorisanti, ai quali anche il mondo di oggi finirebbe perprestare fiducia; ottenuto questo favore divinamentecaro e di pregio assoluto, avrà il suo ruolo anche ilnumero.

Salvo il caso di indubbie controindicazioni voca-zionali, che si potranno facilmente identificare nelleprime classi con lacune morali o psichiche o psi-cofisiche, con una volontà nettamente ostile allaconvivenza nell’ambito seminarile, non pare pru-dente sottoscrivere l’affrettata decisione di evade-re per l’apparire di crisi di castità o di intolleranzaalle esigenze di una vita comunitaria o di insuccessiscolastici o di nostalgie varie o di attrattive di mondo:si consigli di dare tempo al tempo, di soprassede-re, di donarsi alla comunità, di portare a buon ter-mine l’anno scolastico o il ciclo di studi, il corsointrapreso, pregando Iddio di far luce a suo temposu decisioni ora premature.

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Non sono pochi gli adolescenti incontrati in que-ste svolte (così frequenti nell’età evolutiva!) che,persuasi ad attendere, hanno visto meglio la stradae hanno proseguito poi felicemente.

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Educatori chesoffrono vertigini?

13.

«Poiché l’educazione degli alunni (dei semina-ri) dipende dalla sapienza delle leggi e soprattuttodalla idoneità degli educatori, i superiori e i pro-fessori dei seminari devono essere scelti fra gli ele-menti migliori e diligentemente preparati con uncorredo di soda dottrina, di conveniente esperien-za pastorale e di una speciale formazione spiritua-le e pedagogica» (O. T. 5/A).

Chi soffre le vertigini delle vette, qui è tentato diabbandonare l’impresa; non è difficile, infatti, capi-re che il ‘minimo’ nell’educatore dei seminari è unfallimento scontato. Ognuno dà quello che ha, e chiha poco dà poco; e chi avesse il minimo...?

Tutti d’accordo che in questa missione occorredare molto, senza sosta, senza misura. Giustamen-te i Padri del Concilio chiedono una buona riservadi doti umane e soprannaturali e uno spirito occu-pato di continuo nell’aggiornamento e nell’ade-guamento delle proprie capacità educative, che altro-ve abbiamo chiamato “dinamicità insonne”.

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La missione salvifica che la Provvidenza inten-de affidare a giovani ‘scelti’, presuppone e reclamal’intenzione divina di comunicare loro una ingentecopia di grazie sia nell’ambito della natura, sia (edeminentemente) nel campo della Grazia: tramitefortunato della straordinaria comunicazione è l’e-ducatore, fatto partecipe e solidale delle responsa-bilità pastorali del Vescovo che l’ha delegato al com-pito.

Non si vuole con questa affermazione delimita-re le misteriose e sempre mirabili vie dello Spiri-to, ma solo ricordare che, d’ordinario, è attraversol’educatore che fluiscono nei candidati i doni delCielo.

Per ‘educatore’ qui s’intende il corpo degli edu-catori, che logicamente varia nel numero e nellecompetenze, quindi anche nelle responsabilità: nes-suno che faccia parte di questo ‘corpo’ può scagio-narsi ed esimersi da quanto il Concilio domanda eprescrive. Ciascuno, nelle sue mansioni è corre-sponsabile dell’impresa che collegialmente è con-dotta per la realizzazione di un bene sommamentenecessario alla Chiesa.

Per questo la mediocrità di un educatore ricadenegativamente sugli altri, su tutti: non è la primavolta che un chierico assistente, ultimo nella gra-duatoria delle mansioni e delle responsabilità, com-promette tutto un lavoro di mesi e di anni. Il suoimmediato contatto con i ragazzi gioca troppe volteuna funzione decisiva. E ci si lasci domandare comesia giustificabile la presenza tra i seminaristi di pre-fetti (chierici di teologia) insicuri nella virtù e tal-

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volta anche indecisi sulla scelta dello stato, o comun-que messi tra i ragazzi per una ‘prova’. Anche aquesti aiutanti degli educatori va chiesto un serioimpegno ascetico innanzi tutto; poi, onestamente, vaofferta la possibilità di una preparazione pedagogi-ca proporzionata all’incarico.

Se, dunque, l’educatore è un minimista, impi-gliato nelle spire della grettezza, che cosa potrà inrealtà mettere a disposizione dei suoi giovani, senon penuria e mediocrità?

Non attira un fiume in secca!Non è concepibile che tema le vertigini della san-

tità (e qui significa ‘sacerdotale’ per chi è prete ochierico), chi si dedica alla formazione ‘perfetta’(cf. Mt 5, 48) dei futuri ministri di Dio, dispensa-tori della santità del Cristo. Purtroppo è appena cre-dibile, ma vero: ci si aspetta l’impossibile chiedendoa uomini e a istituzioni mediocri quei campioni dellospirito, quegli uomini ‘superiori’ di cui l’umanitàha bisogno.

D’altronde non è così agevole nascondere a lungola propria carestia spirituale, le proprie lacune mora-li, agli occhi scrutatori dei giovani di oggi: non tar-derebbero a contestare più o meno apertamente l’in-capacità, l’incoerenza..., la commedia di chi si piccadi conoscere e non sa, di chi si perita di fungere daeducatore, da maestro o da medico... e non si reggeche a mala pena sull’orlo della propria vacuità spi-rituale. I giovani sono particolarmente sensibili allaattrattiva delle vette, delle cose grandi, forti e belle,rischiose e ardite; e mal sopportano la presenza di

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maestri minimisti, mediocri, facili al compromesso,instabili, malati di miopia spirituale, e in qualsiasimodo isolati e carcerati nel proprio egoismo.

«Essi sono più che mai assetati di assoluto, digenerosità, di autenticità... I giovani oggi, certo lagrande maggioranza, non vogliono parole, ma fatti;vogliono pagare di persona, vogliono costruire unmondo nuovo» (Paolo VI).

Ascoltando o leggendo le critiche ‘aperte’ suiloro educatori m’è sembrato di capire che «nullapuò sostituire la lezione viva e vissuta che vienedalla condotta dell’educatore; non c’è trattato diascetica, non c’è eloquenza che valga, quanto unsacerdozio vissuto in pienezza: se manca questalezione, tutte le altre sono superate, annullate e inu-tili».

«L’anima, ecco ciò che conta!», si ripete par-lando delle nostre organizzazioni; e non a torto, poi-ché un fabbricato moderno e popolato non vale quan-to l’anima che a tutto dà un valore e un potere edu-cativo. Quest’anima è appunto il collegio degli edu-catori, ogni singolo educatore, o meglio l’operato dicostoro, che diverrà spirito vivificante di tutta lacomunità, resa immagine fedele del cenacolo.

Un cuore implacabilmente votato alle altezzedello Spirito, non comunicherà il suo ardore e nonfinirà per trascinare alle vette anche un corpo gra-cile?

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Minimismodevastatore

14.

Non è compito facile individuare tutte le causeche hanno portato alla flessione impressionante dellevocazioni ecclesiastiche e religiose, ma non sem-bra lontana dal vero l’opinione di coloro che pon-gono in capo alla lista il minimismo o permissivi-smo introdotto nel sistema pedagogico degli ambien-ti di formazione. Questo il focolaio dell’infezione,dal quale poi deriverebbero tutti gli altri guai di cuisoffre questo campo della pastorale.

«Abbasso il minimismo!»: gridò un Padre delConcilio quando, discutendosi in aula il documen-to riguardante la formazione sacerdotale, parve adalcuni Padri opportuno non esigere troppo dai can-didati.

Abbasso il minimismo, che spopola seminari escuole apostoliche!

L’adolescente, con una immediatezza sorpren-dente (derivante in parte dalla forte carica di istin-tività), da premesse a volte appena abbozzate oda programmi appena accennati, trae conclusioni

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rapide, dogmatiche e spesso irreversibili. Con-clude assai logicamente e realisticamente che dapremesse ‘minimiste’ non si può arrivare che atraguardi ‘minimisti’, intuendo chiaramente checon poco o nulla si realizza poco o nulla. Se quan-to gli viene prospettato in rapporto diretto allapreparazione o formazione etico-sociale, è in chia-ve minimista, non è illogico che pensi riduttiva-mente della funzione che alla fine egli dovrebbesvolgere nella Società.

Chi non sa che con un bagaglio scarso e un rifor-nimento dubbio, è assurdo progettare di andare moltolontano o molto in alto?

D’altra parte non è forse l’adolescente nellafase più ricca e promettente di energie fresche evivide per realizzazioni impegnative e ardimen-tose?

Basterà stimolarle, allenarle e indirizzarle oppor-tunamente per vedere adolescenti gettarsi con entu-siasmo e coraggio da campioni. La storia, sia reli-giosa che civile, ci ricorda che i ‘grandi’ in ognisettore, da quello artistico a quello prettamente reli-gioso, hanno fatto il loro ingresso lusinghiero nel-l’alveo della vita in questa età evolutiva e ingrata sesi vuole, ma profetica e decisiva. L’esperienza vis-suta dai campioni della santità cristiana accerta chese la formazione della personalità umano-cristianaè condotta a buon passo e stimolata potentemente inquesta fase della vita, in cui natura e Grazia invita-no e sospingono, è garantita una corsa spedita e pro-messo un esito felice.

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Età dell’alta tensione, quella adolescenziale; que-sto il suo segno distintivo inconfondibile: l’intolle-ranza alle approssimazioni, il rigetto delle mezzemisure, sia pure nelle manifestazioni più contra-stanti e sconcertanti. E’ questa alta tensione chegenera i santi e i delinquenti, gli eroi e i teppisti. Otutto o niente; e subito, non domani, vuole il ragaz-zo che diventa persona per impadronirsi della vitae del mondo.

Lascia tutti pensosi questo stile drastico, e obbli-ga a prendere, volendo operare con gli adolescen-ti, il passo di marcia loro connaturato e congenia-le: da loro ci dobbiamo lasciare educare, se a nostravolta vogliamo che concluda con positive conqui-ste il nostro lavoro educativo.

Ci siamo ingannati quando per eccessivi timorio per inconsistenti ragioni abbiamo domandatomeno, sempre meno, poi il minimo; non ci si accor-geva che così facendo si riduceva di continuo l’o-rizzonte all’entusiasmo giovanile, che solo nell’ar-dimento si sostiene. L’adolescenza spinge al più,non al meno; alla virilità, non al puerilismo; all’in-finito, all’assoluto, all’eterno, non alla meschinità,al rachitismo, al minimismo.

Resta chiaro che non è possibile raggiungere ilmassimo simultaneamente: peccheremmo di per-fettismo se sognassimo di portare tutti ad un mede-simo livello, tutti infervorare nel medesimo spaziodi tempo o nel medesimo grado di intensità; o sepretendessimo che l’incandescenza di un corso diesercizi o di una giornata di alta tensione spiritua-

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le, debba durare stabilmente: ciò che conta è chel’invito, fatto di parole, meno che di gesti, sia diret-to alla conquista del massimo. Chi andrebbe a cac-cia con l’intenzione di fare un minimo di bottino?Nessuno scende in campo per una qualsiasi com-petizione sportiva col proposito di vincere il mini-mo.

Solo chi non ha del sacerdozio e della vita reli-giosa l’idea altissima che meritano, può permetter-si di non esigere il massimo, almeno intenzional-mente e potenzialmente, dai suoi allievi. Pio XIIafferma: «Il carattere sacramentale dell’Ordine sigil-la da parte di Dio un patto eterno del suo amore dipredilezione, che esige dalla creatura prescelta ilcontraccambio della santificazione... Alla dignitàconcessa deve quindi corrispondere una dignitàacquisita».

Di mano in mano che il giovane avanza nel suocurriculum, prendendo meglio coscienza delle inten-zioni di Dio e facendole sue con scelte e decisionisempre più responsabili e obbliganti, soavemente,ma anche virilmente, deve essere educato ad un regi-me di vita che lo inizi a quello che sarà poi il suohabitus permanente. Chi ad esempio avesse già opta-to per una vita consacrata alla prassi dei consiglievangelici, non dovrà essere avviato gradualmentealla povertà, alla castità e all’obbedienza, che saran-no poi il suo abituale ‘modus agendi’? I voti religiosinon vanno forse a lungo praticati, prima di esseregiurati?

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Lesionialla libertà?

15.

C’è chi contesta si possa ancora proporre a crea-ture umane di accollarsi impegni e obblighi ‘defi-nitivi’, stabili, irreversibili..., che cioè leghino lalibertà dell’individuo per l’intera vita. Il «Se vuoiessere perfetto...» (Mt 19, 21) o viene scavalcato apie’ pari o interpretato arbitrariamente (forse innome della libertà?) o demitizzato fino a ridurloalle dimensioni di pura utopia non presentabileall’uomo ‘adulto’ contemporaneo, più cosciente earbitro di sé che non gli uditori del Maestro.

Ne deriva sfiducia nei confronti della pratica deiconsigli evangelici e della ascesi cristiana; e di con-seguenza un vivere accomodante, che timidamentepropone vincoli a breve scadenza, programmi edu-cativi concilianti con l’innata pigrizia, sacrifici orinunce che non mortificano le strambe espressio-ni del capriccio, e acquiescenze egoistiche che, lungidal formare virilmente, deformano.

Così non si sa chi possa o debba comandare, e chiobbedire; non si sanno trovare ragioni giustificati-

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ve del silenzio; si lasciano circolare riviste e libri chemale non devono fare – si sentenzia – a coloro chedovendo salvare il mondo, di mondo devono sape-re e conoscere financo gli aspetti più deteriori; conl’allettante pretesto di una formazione ascetico-pastorale aggiornata si sono proiettati films ambi-gui a chierici (oggi, nonostante tutto, ancora cosìgiovani!); e per non creare degli scontenti, dei mino-rati, degli inesperti, dei ‘matusa’, si permettonoesperienze che neppure i laici possono concedersisenza pregiudizio della virtù.

Educando a questo modo non si possono certooffrire alla Chiesa i futuri artefici della redenzio-ne!

...Ma si insiste nel sentenziare essere impossi-bile educare alla generosità senza che risulti com-promessa la libertà degli alunni. Se ciò fosse vero,di che dovremmo tacciare tutti gli educatori chehanno sacrificato l’esistenza per allenare alla virtùintere generazioni, cui, d’altra parte, la presenteumanità sente di dovere molto? La generosità nonè forse lo stadio nel quale la libertà ha modo di bat-tersi per affermarsi e realizzarsi stupendamente ediventare sempre più se stessa, ossia sempre piùlibera? L’opposizione caso mai è solo apparente:uno stile impegnativo, arduo, sofferto, costante,pronto al rischio e alla rinuncia, genera entusiasmo,coraggio e gioia; spezza i ceppi dell’egoismo ‘libe-rando’ la libertà stessa, affinché possa superarsi edespandersi in magnanime imprese, alle quali appun-to solo la generosità permette l’accesso.

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L’opposizione non esiste: è infatti sul parame-tro della piena ed efficiente libertà che avviene la‘liberazione’ dalle sbarre di un rachitismo minimi-sta o permissivista. Così si possono constatare l’ac-cresciuta padronanza di sé e dei propri atti, la mag-gior precisione e sveltezza nelle scelte, una semprepiù allettante attrattiva a valori autentici e a gran-dezze non effimere: mete tutt’altro che nocive allalibera crescita di un giovane!

Al contrario è il minimismo che, coartando ilcampo del più impegnativo dibattito, quello che sisvolge sul ring della propria persona (nella lottaspesso drammatica tra il fascino del bene e la sedu-zione del male), riduce e umilia le possibilità mera-vigliose di una libertà, la quale invece, se final-mente libera, può gettarsi nel mare delle realizza-zioni concesse dalla Provvidenza Divina ai ragaz-zi in gamba.

Il minimismo, dunque, è un laccio tra i piedi dicoloro che un mistero d’Amore infinito ha elenca-to nel numero dei campioni; è un subdolo tradi-mento perpetrato ai danni della libertà stessa; cosìcome l’educazione alla generosità è una corda get-tata dalle altezze da provetti scalatori (gli educato-ri) a chi è chiamato alle vette, perché fatto per lepiù alte conquiste.

E dove il soggetto non pare disposto a scalare levette?

E’ scontato che la massa non tutta è disponibile,tanto meno disposta; ci sarà sempre chi si fermeràa godersi lo spettacolo di chi sale arditamente esfida la pigrizia, la stanchezza, e persino l’opinio-

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ne pubblica, che può scambiare coraggio per pre-sunzione; e ci sarà chi, magari all’ultima ora, siaccoderà alla cordata, conquistato dall’entusiasmodei primi. Nessuno comunque avrà da gridare allaminorazione o alla sopraffazione: l’invito a uscireda una carcere o da un tombino non potrà mai esse-re scambiato per una lesione alla libertà.

Ma perché – con un granino di Fede nella Prov-videnza e con le prove forniteci dalla storia dei Santi– non ammettere che, anche là dove il terreno nelquale fosse caduta la chiamata del Padrone dellamesse si presentasse non del tutto ben disposto, lavocazione autentica possa operare con una forzaintegratrice e restauratrice sulla quale è lecito con-tare per una speranza non vana?

Toccherà a noi aiutare il chiamato a corrisponderealla Grazia della vocazione; e questa saprà rimar-ginare eventuali ferite, e colmare lacune.

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Né autoritarismoné angelismo

16.

Un cumulo di frustrazioni – esplosivo latente cheprepara sorde ostilità in un futuro più o meno remo-to – può essere provocato dalla educazione a virtùessenziali ed estremamente necessarie, qualora nonse ne regoli con saggia misura l’apprendimento el’ascesi.

L’obbedienza e il dominio di sé nella mortifi-cazione si possono considerare le testate di ponte,tanto sono fondamentali per la realizzazione dellatriplice promozione a cui intendiamo portare gliallievi (umana, cristiana, e intenzionalmente ec-clesiastica): su testate ben piazzate si potrannoinnalzare arcate ardite e farvi correre una stradasicura.

Tuttavia proprio qui si nasconde l’insidia dellefrustrazioni più impensate: l’autoritarismo, chegenera servilismo, fariseismo, ipocrisia, piattoconformismo; e l’angelismo, che genera atrofiee ipertrofie, ansietà e scrupoli, euforie e malin-conie.

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L’autoritarismo, storpiatura e falsificazione delconcetto cristiano di autorità (servizio prestato aifratelli in obbedienza a un mandato divino), covacome endemica predisposizione in chi è incaricatodi educare: quasi inavvertitamente ci si crede arbi-tri dei destini delle persone affidateci, amministra-tori insindacabili dei loro talenti, maestri ai qualila Provvidenza debba sempre sottoscrivere, e infi-ne giudici pressoché infallibili.

Abbiamo così dei superiori che, fingendo di igno-rare il loro ruolo primario di servizio – «Colui chevorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo,e colui che vorrà essere il primo tra voi, si faràvostro schiavo» (Mt 20, 26-27) – dichiarano, impon-gono, tolgono o aggiungono con indiscussa sicu-rezza, negati al dialogo con i colleghi, con gli edu-candi e fors’anche con Dio (considerando buonaper altri una metodica direzione spirituale di cuiavvalersi per un’equa amministrazione delle pro-prie mansioni).

E sta bene notare come sotto atteggiamenti auto-ritaristi può celarsi una stolida impreparazione asce-tica e pedagogica, o la carenza di un umile timoredi sé e dei propri giudizi: tutto ciò aliena gli animie storna la luce di Dio.

Tentazione facile, perché il ragazzo stesso puòprestarsi al gioco: l’adolescente infatti, per quantosenta vivace la voglia di fare e sia deciso a donar-si ‘ex toto’, avverte la sua imperizia e ha sentoredella sua instabilità; cerca perciò un allenatore, unaguida che lo sostenga integrandolo; è pronto a impe-

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gnarsi a fondo, come è remissivo a lasciarsi mano-vrare passivamente: comportamenti contrastanti del-l’età che sale, di cui ci si deve ricordare sempre,quasi monito della natura a muoverci intorno agliadolescenti in punta di piedi, rispettosi della libertàe altrettanto premurosi di sostenere chi in noi con-fida.

Del nostro autoritarismo vorremmo, qualche voltaalmeno, farne colpa al giovane stesso che in sva-riate maniere ci ha detto o scritto di «correggererichiamare scuotere... con piena libertà»: abbiamosbagliato noi anche allora, pensando ingenuamen-te che con quelle espressioni di buon volere il ragaz-zo rinunciasse alla prepotente brama di autonomia,di emancipazione, di piena libertà interiore. A que-sta l’adolescente non rinuncia mai, nemmeno quan-do lo giura. L’esperienza non lascia dubbi: posseg-go pacchi di lettere sulle quali poter fare lungheconsiderazioni, magari intercalandole a certi avvi-si della Bibbia che disincantano gli ingenui, sulla fal-sariga di quel versetto monitore: «Omnis homo men-dax» (Ps 115, 11).

Ed è ancora ingenuità fasulla sentirsi soddisfat-ti della propria azione educativa, ammirando la pun-tualità, la precisione, l’inappuntabilità e una osten-tata correttezza di modi, che rasenta la leziosaggi-ne, nei propri allievi: saper un tantino diffidare nonè male, può salvare da apparenze ingannevoli e cor-reggere storpiature nelle intenzioni degli interessa-ti stessi.

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Altra conseguenza antipatica e oggi intollerata,è il paternalismo, deformazione di quel dono divi-no che è la paternità, e che dall’egoismo di chi neè partecipe viene privata del suo fascino e della suasacralità. Il paternalista asservisce l’autorità all’in-tenzione di predominio, e mimetizza il suo viziosotto la maschera di un savoir-faire affettuoso e cal-colato, che lungi dall’essere servizio amoroso e sof-ferto, risulta ricerca di una sottomissione, in appa-renza filiale, ma tale da accarezzare e accontentarese stesso.

Il paternalista è sopportato finché non rivela queipiedi di creta che non sanno reggere al cozzo colsacrificio di una opinione o di un progetto, alla provadella umiliazione e della rinuncia ad un affetto ‘pos-sessivo’ che sa di puerilismo: cose d’altronde scon-tate nella condotta di un vero padre. Il paternalismoè invadenza di potere: è il palo che soffoca la vite,e alla fine pretende sostituirsi ad essa, tradendo lasua funzione di servizio.

Chi pecca di autoritarismo rende difficile l’u-nione cordiale di intenti e di sentimenti sia tra isuperiori, che tra gli allievi e gli educatori: la disu-nione disorienta da certi fattori-chiave, senza i qualisi presume di lavorare, ma si distrugge o si costrui-sce sul vuoto, sperperando tempo e fiato; per non diredelle molte sfumature che vengono, in siffatto clima,completamente ignorate. Ne deriva quel chiusismo(talvolta ostruzionista e sabotatore) che precludenei giovani la via a quella comunione di spiriti,senza la quale è utopia aspettarsi un esito fecondoe consistente.

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Ringraziamo il Cielo se i nostri allievi, ribelli apatteggiare col servilismo, non ci consentono atteg-giamenti vanesi e goffi: meglio lo schiaffo che unacarezza!

Se l’abuso di potere nei suoi aspetti più antipe-dagogici dell’autoritarismo e del paternalismo, delu-de le attese dei giovani e crea in essi un ammassodi reazioni, malanni ugualmente temibili provocaquel ‘grazioso’ nemico che si può insinuare sott’ac-qua in chi educa in modo errato alla santità o in chifraintende l’educatore benintenzionato. Lo chia-miamo ‘angelismo’ – anche se di quell’errore qui cifermiamo ad un particolare aspetto – poiché, in sin-tesi, chi ne è vittima assegna delle mete irraggiun-gibili a creature umane o consiglia uno stile impos-sibile; ovvero, se giovane educando, sogna una con-dotta da angelo e lotta per divenirlo.

Gli autentici santi, pur aspirando alle altezzee conducendo una ascesi eroicamente impegnata,avevano sott’occhio le reali dimensioni della na-tura umana con le sue irriducibili infermità, conle sue innate concupiscenze; né si peritavano difare il “passo più lungo della gamba” pur sapen-do di poter contare sempre sulla onnipotente Prov-videnza. Come sapevano dubitare di sé, così sa-pevano accettare le proprie lacune e le proprie fe-rite, senza inutili impennate e senza futili gere-miadi. In tal modo hanno offerto le più belle apo-logie del Vangelo, e una sempre affascinante epi-fania di Dio: sul loro volto si legge la gioia di unaperenne Pasqua – sia pure nella indissociabile

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crasi col venerdì santo – che risveglia la segretanostalgia di Dio.

Quelli tra i santi che ebbero la missione di edu-care la gioventù, si avvalsero del gioco, della ricrea-zione chiassosa, delle competizioni sportive, dellescampagnate, del teatrino e della palestra; della alle-gria in una parola, per far loro accettare con ama-bilità e pari fortezza i precetti del Signore e l’au-sterità della mortificazione, senza cui non si viveche in superficie il messaggio evangelico.

Educatori ed educandi, accettando di buon animole forti esigenze di un genuino cristianesimo, nonpensino di spingere tanto alto il loro volo da proporreo proporsi una tale simbiosi prima, e metamorfosipoi, da credersi super-uomini o da creare degli ange-li in carne e ossa. Ogni sforzo diretto a questo assur-do fine, è destinato a fallire, come un missile che nonoltrepassa l’atmosfera e in essa si disintegra.

Ma c’è di peggio che l’inutilità di sforzi irrazio-nali e grotteschi; ci sono le anchilosità che autole-sionano, rattrappiscono e pressoché annullano lemeravigliose energie della giovinezza, che sospin-ta dalla natura e dalla Grazia ad affermazioni auten-tiche, si vede sbarrare il passo dai suoi propri sfor-zi.

Quanta amarezza ne consegue, e quali momentidi sfiducia prova chi ha mirato troppo in alto e siritrova con “le pive nel sacco”!

Autodisciplina non significa diventare carcerie-ri di se stessi; dominio delle passioni non vuol diresoppressione di istinti; mortificazione dei sensi non

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equivale a mutilazione assurda; controllo dei pen-sieri e dei sentimenti non indica quella dispoticadittatura (d’altronde impossibile!) che intende pre-cludere l’adito aprioristicamente a ogni tentazioneo idea storta o ricordo fotografato ormai nella fan-tasia e nel subconscio...

Nel settore della castità questi assurdi traguardigenerano stati d’animo per nulla propizi alla bellavirtù, verso cui il giovane sente (nonostante le con-trarie apparenze) forte attrattiva: ogni insuccessodiventa premessa di nuove ricadute. Né può farealcunché la modestia che, resasi complice di unaassurda battaglia, si trova desautorata e inefficace.

Chi ancora persiste, finisce per vedere il maledappertutto; incontra incentivi al vizio, anche làdove tutto è semplice e innocente; e finisce per pro-vare sfiducia nella Legge morale, sperimentata comegravosa ed ossessiva.

Non c’è da meravigliarsi se in questo abnormestato fallimentare il pensiero di un eventuale celi-bato appaia come uno stato di vita riservato a pochis-simi, e quasi inumano e impossibile.

Quel «perfetto e rigoroso dominio di sé, domi-nio indispensabile per chi tratta le cose di Dio e sifa maestro e medico delle anime, e segno lumino-so e direttivo al popolo cristiano e profano, dellevie che conducono al regno di Dio» (Paolo VI, 20feb. 1971), non si ottiene attraverso una irraziona-le tensione (quanto mai controindicata ai fini dellacontinenza) o con una prassi spartana insopportabile,perché importabile da spalle non tagliate al peso.

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Una modestia ipertrofica che ancora volesse pro-teggere la castità con mezzi e sistemi arcaici – disospetta efficacia anche in tempi andati – infagot-tata di ampi vestiti e impacciata da ridicoli riguar-di, va sconsigliata: giova di più quel fare disinvol-to e talora un po’ scanzonato e scamiciato di moltiadolescenti d’oggi, che avendo meno complessiingombranti, possono muoversi più lestamenteanche... nel campo spirituale.

Sappiamo quanto sia necessaria questa padro-nanza di sé all’uomo, al cristiano, all’apostolo; maforse non ancora tutti siamo del parere che certestrutture barocche rendono antipatica la virtù.

Chi non vede come la castità sia relativamentefacile anche nei nostri giorni, qualora fiorisca in uncontesto di lealtà, di fortezza d’animo, di carità, edi eutrapelìa cristiana? Ci vuole il ‘pieno’ dellagioia, perché ogni ripiegamento e ogni arresto sianopreventivamente impediti. Se insegniamo a fare il‘vuoto’, liberando dalla superbia e da ogni corru-zione morale, lo dobbiamo fare in vista di quel ‘pienodi gioia’ che solo giustifica ogni lotta spirituale.

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Ingratae fascinosa età

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Con lo sguardo a traguardi superiori, cioè conprecise intenzioni di ordine vocazionale, trattiamodi adolescenti da avviare a tali altezze qualora ne fos-sero chiamati; è logico sentirsi preoccupati di nonbatter l’aria e di non tradire la nostra missione: nonvorremmo lavorare di fantasia.

Come si può costruire un edificio così alto e por-tante qual è un orientamento vocazionale – che esigedoti singolari e uno stile di vita superiore – nell’etàadolescenziale? Non sarebbe il nostro un lavorarea vuoto, un fabbricare sulle sabbie mobili?

Grosso problema di ieri e di sempre!Si sa, la vita è tempestata di illusioni, più o

meno facili, rincorrentesi soprattutto in questasvolta della crescita, nella quale non ci sono an-cora dei chiari punti di confronto perché l’adole-scente possa decidere in base ad esperienze ac-quisite e patite: è come dover tracciare un sen-tiero nuovo in una foresta vergine o su di un piccodi monte mai scalato. Chi più si meraviglia delle

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molteplici delusioni che in questa fase sperimen-tale rendono malsicuro il passo?

L’adolescente cambia come la luna e assai piùvolte in uno stesso mese; tenta e ritenta con unadisinvoltura e naturalezza tali da irritare noi non piùgiovanissimi, che nell’impatto con le sorprese cisiamo fatti le ossa dure.

Età ingrata, si dice, questa; ma aggiungiamo chenessun’altra è più fascinosa; nessuna stagione del-l’anno sprigiona tanta simpatia come la primavera,ricca di luci e di speranze. E’ una stagione che gioca?Marzo è un pazzerello? Tutto quel che volete; ma èla vita che esplode tumultuando, e vuole via libera,e scompiglia i nostri piani già vecchi, e pretendepiena fiducia, accettando la sua danza ed entrandonel suo vortice.

Non altrimenti ogni nostro adolescente.Prendiamolo così come l’ha fatto Divina Prov-

videnza e cerchiamo di lavorare sul dritto dellamedaglia, pari dimensionalmente al rovescio, maassai più lusinghiero e valorizzabile ai nostri fini.

Aspetti positivi di inapprezzabile valore sonoofferti all’uomo nel momento preciso nel quale deveinfilare la ‘sua’ strada, stagliare la propria perso-nalità, corredarsi di principi e di un codice morale,e tuffarsi con gli entusiasmi più vivaci nel maredella vita. Non esiste stagione migliore per un orien-tamento vocazionale.

Ma come parlare di “orientamento vocazionale”se non si hanno dati concreti? Questi dati o segni ogermi sono reperibili già nella prima adolescenza,

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cioè negli anni che vanno (senza pretendere una fis-sità matematica da una vita in corsa) dai 10 ai 13compresi, poiché coloro che poi realmente tocca-rono quelle alte mete, hanno affermato che richia-mi o ispirazioni al sacerdozio risalivano all’infan-zia, alle classi elementari. Dio non improvvisa, e fale sue scelte per tempo, fin dal grembo materno,come è affermato espressamente per Geremia (cf.Ger 1, 4-6; Is 49, 1).

Indubbiamente germi di vocazione sono reperi-bili con maggior facilità, indipendentemente dalladefinitiva risposta, nell’età della piena adolescenza,che parte dai 14 anni e va avanti sino alle porte delventennio.

Si è molto scritto su questo tema dei “germinavocationis”: a noi fare qualche appunto, colto più chenei libri, dalla convivenza con i giovani nella dupli-ce fase adolescenziale.

Base inequivocabile di partenza, piattaformaobbligatoria, tessuto sul quale ricamare o terrenonel quale gettare le fondamenta e innalzare l’edifi-cio, sono quei talenti di ordine comune, senza i qualipossono apparire segni di anormalità (fisico-psi-chiche, intellettuali, morali e spirituali). Qui deve ini-ziare la primordiale verifica, per non crearsi illu-sioni e per non avviare al seminario o agli istituti reli-giosi ragazzi che non potranno toccare nemmeno illivello ordinario e comune.

Non si cerchi tuttavia in questa prima verificauna differenziazione netta, che permetta di identi-ficare ed elencare altri talenti orientativi; la secon-

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da verifica verrà a suo tempo, cioè quando è stataaccuratamente condotta a felice termine la prima,senza aver trascurato l’esame preventivo (antece-dente ogni proposta) circa eventuali contro-indica-zioni ereditarie (cf. O.T. 6/A). Un esame psicoatti-tudinario nei casi dubbi, potrebbe far luce, senzaperò attribuirvi un valore dogmatico.

Nella quasi generalità dei casi, pare sia consen-tito un’ulteriore indagine, questa volta più impe-gnativa, di tipo differenziale, per scoprire su questacomune pista dei cenni o indizi circa intenzioni divi-ne in ordine alla vocazione: le riassumiamo in quel-la attrazione accentuata (al confronto con i coetanei)verso la religiosità (pratiche di preghiera, letturebuone, feste religiose, familiarità con personesacre...), in grado tuttavia proporzionato e non trop-po evidenziato né eccessivo.

In un terzo momento faranno una timida com-parsa connotati importanti, che gradualmente diver-ranno più marcati e visibili, e dovranno accompa-gnare per sempre i ‘scelti’ dalla Provvidenza: deli-catezza di coscienza (purezza in senso ampio), inte-resse alle necessità degli altri, prestazioni varie dinatura ‘apostolica’.

Logicamente, se la nostra verifica si fermassea questi dati, acquisiti nella media e non portatiavanti, non potremmo concludere con un giudi-zio favorevole: nella terza media, più precisamentenel passaggio dai 13 ai 14 anni, solitamente i can-didati rivelano una nota differenziale molto in-coraggiante e sulla quale si dovrà impostare tutto

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un lavoro ascetico nettamente orientativo al sa-cerdozio: una disponibilità abituale (che non re-missività più o meno spontanea o di conquista;servizio alla comunità; serietà nell’impegno sco-lastico; prolissità nelle pratiche religiose), speci-fica poi in vista di una superiore chiamata. Que-st’ultima si farà più chiara e ben contornata nelcuore dell’adolescenza, i 16 anni. A questo puntonei nostri ambienti formativi non dovrebbero tro-varsi soggetti non orientati, con intenzione espli-cita, al sacerdozio.

Trattandosi di allievi liceali di istituti religiosi,oserei dire che l’intenzione esplicita ad abbraccia-re oltre che il sacerdozio anche i consigli evangeli-ci, non dovrebbe essere richiesta, ma se venisseespressa dall’interessato, andrebbe presa in certaconsiderazione: il noviziato però ci si orienta a spo-starlo oltre la maturità, quando altri opta per l’in-gresso nel corso teologico (con tutte le facilitazio-ni offerte dalla Renovationis causam).

Non è detto che con l’ingresso nella teologia onel noviziato ogni dubbio si possa dire risolto e ilsoggetto sia definitivamente sicuro: niente illusio-ni; pur tuttavia sappiamo con chi abbiamo da fare,conosciamo la stoffa sulla quale lavorare, e in can-tiere si può procedere decisamente, chiedendo impe-gno virile e una crescita umano-cristiana più con-creta e constatabile, assieme all’acquisto di quellamaggiore disponibilità alla Grazia sacerdotale che,assecondata giorno per giorno, porterà alla ideale sta-tura del Cristo Sacerdote.

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Il lavoro va fatto con coscienza e coraggio, con-fidando nella misteriosa e pur realissima azionedello Spirito Santo, che non lascia mai solo l’edu-catore che a lui si affida docilmente. Ci vorrà il tepo-re di una carità di eccezione, il clima della serra odel vivaio, che permette a teneri arbusti una cresci-ta e un’espansione ideali, capaci di farne delle per-sone ‘superiori’, atte a responsabilità straordinarie.

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Il ‘pieno’lo fa l’amore

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«Pieno compimento della legge è l’amore» (Rm13, 10) e a questa virtù va assegnato un posto diassoluta priorità nella educazione dei nostri allievi;ad esso l’esperienza attribuisce quella forza decan-tatrice e catalizzatrice che libera, purifica e fecon-da ogni nostra iniziativa, e la rende capace di resi-stere all’urto con le passioni, con l’ingratitudine,con l’insuccesso e con ogni tentativo di subdola cor-ruzione sentimentale o farisaica.

Amore di famiglia, abbiamo detto fin dalle primeconsiderazioni, e tale rimane in ogni fase di questolavoro educativo che intendiamo condurre in chia-ve evangelica. Perciò una parola innanzi tutto a chipresiede, poi agli altri, sia in rapporto ai superioriche in rapporto reciproco.

«...Io sto in mezzo a voi come colui che serve»(Lc 22, 27): afferma il Maestro, e tutta la sua con-dotta era lì a testimoniare la verità; fra qualche orala Croce avrebbe sigillato con la voce del sanguequel programma di vita.

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Essenziale per un educatore è amare; amare inten-samente; amare costantemente; amare divinamente;e non nascondere ai propri allievi, visti nella luce difratelli e figli, l’amore di questo servizio e la dia-conìa di questa carità.

Un simile affetto, scevro dalle pose ridicole delmammismo, non sarà né così possessivo da in-durre nel giovane atteggiamenti bambineschi opuerili, né così platonico da restare nel glacialecampo delle pure intenzioni. Creerà invece un im-pellente desiderio di servire, di sacrificare le pro-prie cose e se stessi (cf. 2 Cor 12, 15), di offrirecon maschia (vorrei dire ‘superba’!) umiltà a tuttiindistintamente un servizio plastico, tutt’occhi,capillare, tutto attenzioni, e così disinteressato danulla pretendere ed aspettare all’infuori del pia-cere di servire ancora.

Si è scritto che ogni ragazzo che frequentava d.Bosco si reputava suo amico particolare; e non eranopochi!

Questo l’ambìto traguardo di quel grande inna-morato di anime: che ognuno si sentisse amato comel’unico; e ognuno potesse contare su di lui sempree poi ancora; ed era ben difficile vincere in amorequel cuore di prete!

Un amore puro, alimentato alle sorgenti purissi-me e purificatrici del Cuore di Cristo, illuminatodalla luce trascendente dello Spirito che fa scorge-re in ogni persona la specchiatura viva di Dio, chefa adorare in ognuna il Sangue del riscatto, e intra-vedere quell’eterno destino che rende ogni creatu-ra umana il più vero tesoro dell’universo.

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Un amore forte che, sul modello di quello di Cri-sto, non si arresta nemmeno di fronte alle più coc-ciute resistenze e alle più ributtanti incrostazionifisiche o morali.

Un amore, infine, che si esalta nel servire gliultimi, i minimi, i meno buoni, i meno generosi,i restii, gli ottusi alla Grazia, i ritardatari e gliultimi arrivati (in tutti i sensi!): ritorna qui spon-tanea l’eco dell’elogio della carità (cf. 1 Cor 13,4-7).

Voglia o no, il ricordo di un simile affetto non soloincoraggia nelle ore critiche della salita, ma restaintegro col passare degli anni, quasi viatico cheinfonde forza e fiducia a proseguire al seguito diCristo Amore.

«Ci avrebbero dato anche la camicia...!», rife-rivano al loro Vescovo dei giovani colpiti dalla caritàche presiedeva in una comunità religiosa.

A questa nota distintiva si riconosce la ‘nostra’arte di educare. Risponderà l’educando al sinceroaffetto del suo educatore? Geloso dei suoi diritti edelle sue autonomie (intime e segrete) non sarà tantofacile a mostrare gratitudine e affetto; ma ciò nonconta molto, purché la premessa sia stata posta danoi con costanza e magnanimità; certamente ne verràuna maggiore fiducia nelle nostre direttive, una piùaperta confidenza, una sempre più constatabiledisponibilità al dialogo e all’intesa; e sempre avràeliminato, l’educatore, per quanto era in poter suoil pericolo delle frustrazioni derivanti da un abusodi potere.

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Questo non è ancora tutto: la carità deve do-minare l’intero ambiente familiare, fino ad esserneil tessuto connettivo abituale; diversamente l’a-zione dell’educatore che venisse bloccata entro ledimensioni dei singoli educandi perderebbe moltodella sua efficacia nei confronti degli stessi sog-getti individui: nessun uomo è un’isola, tanto menoun cristiano e un candidato; ma chi si ostinasse aisolarsi tra le sbarre del proprio egoismo si tro-verebbe presto privo di quei beni ‘comuni’ cheuna cordiale intesa con la comunità garantisce erealmente offre a integrazione, a tutela, a confor-to di ognuno.

Naturalmente non si arriva tanto presto a sensi-bilizzare o galvanizzare di carità evangelica tutti icomponenti della intera famiglia seminarile: si dovràadattarsi a quella legge di natura (che la Grazia nonha mai inteso scavalcare) che avvia all’amore ‘fami-liare’ i membri man mano che vengono al mondo,uno a uno.

C’è chi ancora teme troppo le amicizie nei nostriambienti e vorrebbe tutti e ognuno interessati d’uncolpo alla carità comunitaria esigendo un salto chenon permette la natura: l’amicizia individuale (nonindividualistica!), che cioè lega due compagni dellastessa comunità per motivi innocenti e innocui, chesi sviluppa sotto gli occhi di tutti, che non si insab-bia nei complimenti, ma realizza un certo benecomune, non offre forse la premessa all’educatoreaccorto e prudente per un inserimento graduale, maassai razionale e perciò continuativo, nel gruppo enella comunità?

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Né si deve circoscrivere nei confini del grup-po e della comunità la capacità di amare dei no-stri allievi: bisogna spalancare le finestre e leporte, affinché il fuoco, mancando d’aria e di re-spiro, non faccia presto gran fumo e si soffochida se stesso.

Edoardo Poppe – il santo prete fiammingo – ten-tato di strapparsi allo studio e alla disciplina delseminario, attratto dalle ‘sirene’ che solleticavanofantasia e cuore, si rifugiava in un pensiero – non fit-tizio, ma realista! -: gli sembrava che attorno al suotavolo di studio, in quella stanzetta senz’aria, fos-sero giunti uomini, donne, fanciulli... e tutti fosse-ro lì con le mani protese a gridargli: «Edoardo, stu-dia, prega, soffri: è per noi che tu sarai prete, pernoi!». Allora l’angusta stanzetta si allargava all’in-finito riempiendosi di ossigeno e di... nuove spe-ranze.

Non fu il pensiero delle genti da salvare che misefuoco al cuore e ai piedi di tanti giovani apostoli?E’ l’amore a dire l’ultima parola, quell’amore chetutto vince, quando è fuoco appiccato dal Cuore diCristo! (cf. Lc 12, 49).

Senza spericolate acrobazie che sanno di spe-rimentalismo alienante e antipedagogico, l’avvioalla carità sociale, dalle dimensioni sempre piùlarghe, risponde a una innata esigenza affettiva,prepotente nei giovani e fortemente reclamata ainostri giorni.

Non pochi hanno confessato di essere rientratida una visita agli ammalati dell’ospedale, o ai vec-

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chi del ricovero, o da una lezione di catechismoimpartita ai piccoli... più umili e più disponibiliall’orazione; e altri... di non aver trovato migliorrimedio alla soluzione di ingombranti problemati-che che il rimboccare le maniche e pagare di personanel servizio dei fratelli.

La carità è luminosa, porta il sereno e spazza viale nuvole di crisi che turbano la pace.

E’ l’amore che fa il ‘pieno’!

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Al vagliodi una crisi...

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Nulla di nuovo, forse, né di sensazionale: chidi noi non ha ricevuto la confessione di qualcunadelle crisi che percuotono il dorso di chi sale incordata verso una cima non sempre avvolta di se-reno?

Non sia fastidiosa l’interpretazione di una crisiche vorremmo fosse di pochi, oggi, e che nonsempre può trovarci attrezzati e solleciti: la rias-sume in queste righe un candidato che, da qual-che mese, ha già fatto le prime scelte in pienacoscienza e pari libertà da qualsivoglia coazio-ne o forzatura.

«...Ciò che maggiormente mi tormenta è dinon vederci più chiaro nella mia vocazione: que-sta oscurità mi procura tanta inquietudine e mitoglie le forze per avanzare.

Mi pare di poter riassumere in questi puntilo stato d’animo che mi travaglia in questoperiodo:

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sento in me inclinazioni malvagenon ho molta intelligenzae fatico non poco a scuolanon godo una salute robustaho una notevole superbianon ho piena fiducia nei miei superiorisento una forte attrattiva progressistae liberalista...Con tutto questo, mi pare di essere solo, trat-

tato con durezza, quasi ai margini: in comunitàsi è lanciata la campagna per un servizio piùfervoroso, ma... ciò non mi tocca, non mi lusin-ga più...».

Rileggendo queste righe, pare di ascoltare il polsodi un febbricitante, e vorremmo porgere la mano –quella di Gesù, naturalmente – per restituire imme-diatamente sanità e gioia (cf. Mt 8, 14-15); ma unaanalisi attenta, aiuterà a diagnosticare le cause nondi una crisi, ma delle non poche, insorgenti un po’dovunque in quest’ora, ora del ventilabro, ora diagonia. Vorremmo a tutti i colpiti dalla tormentaportare almeno una parola di sollievo e una bene-dizione a proseguire assicurando l’accresciuta nostrasimpatia e il nostro più che fraterno affetto. Nonabbiamo raggiunto anche noi la vetta con le ginoc-chia e le guance sbucciate?

La chiave di tante crisi dolorose è in quella con-fessione: «Ho una notevole superbia»; tutti potrem-mo rispondere raccomandando umiltà e povertà di spi-rito; saremmo nel giusto, pienamente d’accordo coni moltissimi avvisi della Scrittura che mette in guar-

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dia dalla disgrazia della superbia, dichiarando infineche «Il Signore... incorona gli umili di vittoria» (Sal149, 4). Ma a ragione il s. Cafasso soleva dire di nonparlare del VII comandamento quando si predica ailadri: le ferite vanno lenite e fasciate con estrema de-licatezza, anche se provocate da autolesioni, quali ap-punto quelle che apre la maledetta superbia.

Sì, questa ha fatto sentire fino allo spasimo i limi-ti – segnati tuttavia dalla amorosa Provvidenza Divi-na a tutti e a ciascuno (cf. Mt 25, 14-30) – dellascarsa intelligenza, della poca salute e della ariditàspirituale; fors’anche a questa va imputata la sfi-ducia verso i superiori; né saranno estranee allasuperbia le impennate progressiste e liberaliste.

Ma dove attaccare la corda della salvezza?Quale salvagente lanciare?Se, come appare indubbio, il focolaio della crisi

è incentrato nella “notevole superbia” ammessa dal-l’interessato stesso, potremmo essere tentati di diri-gere il bisturi su quella; ma il male si aggravereb-be. Non è forse questo male morale quello che piùaccieca? E non è ancora la superbia il vizio chemeno degli altri è individuabile? La superbia, unavolta accettata e insediata, opera come un cappel-laccio ficcato in testa, ma troppo grande: scende sulnaso e accieca la vista.

Se il chierico in crisi è riuscito a scoprirsi ‘super-bo’ siamo già a buon punto, è già mezzo salvato,come promette il proverbio. Occorre cercare altro-ve il tipo di penna o di inchiostro, cioè il movente‘ultimo’ che ha vergato la lettera rivelatrice del pate-ma generale.

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Non sarà stata la lista delle difficoltà scolasticheo somatiche... a indurre in tentazione? Ma chi nonha la ‘sua’ lista, quotidianamente ampliata di sor-prese e di contrattempi e di grattacapi e via dicen-do...? A 20 anni suonati non sarebbe assurdo e para-dossale sognare la dolce vita?

La confessione stessa della freddezza provata difronte a un invito comunitario al ‘fervore’ è positi-va, anche se a prima vista l’avremmo elencata tra lepassività del giovane bloccato dalla crisi: infatticerte confessioni non si fanno, se già in preceden-za non si fosse condannato ciò che stiamo per accu-sare.

Lanciamo una sassata ai superiori, allora?Abbastanza comodo, anche se, a essere onesti,

dovremmo rassegnarci anche noi ad esserne il ber-saglio: non sarebbe un gran male, se ricevendo sif-fatte lettere o confidenze, pigliassimo subito la‘nostra’ parte in buona pace. Quelle sassate nonpotrebbero essere “richiami del buon Dio” a unaverifica, mai definitivamente chiusa?

C’è voluto un abbraccio, colmo di quell’affettoumano, battezzato e trasfigurato, che opera l’im-mediato arresto della crisi, salvo un più prolunga-to e particolareggiato esame di ogni punto, da farsituttavia in un secondo tempo; come si costuma farein alta montagna quando un compagno di cordata simuove incerto, dondola sul vuoto e lotta con lamorte: l’abbraccio salva!

A vent’anni un innamorato non si butterebbeforse tra le braccia di chi gli vuol bene, tornato fan-ciullo capace di piangere?

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Oso dire che in qualche ‘nostra’ casa il fuoco fatroppo fumo, quello che fa venire il mal d’occhi ele crisi più inaspettate e pericolose. Occorre il fuoco,il resto poi, quasi in aggiunta.

«...In risposta alla tua del febbraio scorso.Mio carissimo, ho una gran voglia di vederti per

darti un abbraccio forte e affettuoso; tu lo sai da unpezzo che tutte le porte di casa e (devo ripeterloancora?) del cuore sono sempre spalancate per te.Ti immagini quante volte ti penso e ti incontro quinel mio studio, all’altare della mia Messa, persinotra i fogli del mio breviario? Senza il tuo ricordo, misentirei solo, a parte quel provvidenziale sentimentodella presenza di Dio che non mi abbandona mai: latua lettera è venuta a portare un po’ di ossigeno aquesto cuore che non si decide a invecchiare... Enon potrebbe essere il pensiero di un figlioccio pre-sto prete, quello che mi trattiene dalla vecchiaia?Si suol dire che è ‘vecchio’ solo chi non sa speraree sognare: tu sei per me una grande speranza, nonte ne faccio mistero...

Ti mando della roba, regalatami da buone per-sone: col ritorno della buona stagione a te che saifare delle belle partite, sarà utile, così spero. Perqualunque fastidio sono sempre qui ad attenderti.

E per il tuo S.O.S.?Confesso che vi ho fatto sopra un’utile medita-

zione: mi ha commosso, perché mi ha fatto rivive-re un quarto d’ora di mia adolescenza; io allora gri-dai più forte (e piansi non poco). Lasciami ripete-re che fai bene a scrivermi a quel modo: tu fai bene

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a dirmi tutto, dalle idee più sublimi (?!) a quelle piùstrampalate. Non vedi che faccio così anch’io conte? La tua sincerità (umiltà) è un regalo per me, cosìcredo che Dio ti è vicino; l’umiltà è la chiave concui si apre il cuore degli uomini e quello di Dio. E’questa umiltà che fa sperare bene di te: è forse perla presenza di questa, che non lamenti crisi nellapietà...?

Abbracciami, ti benedico. Non lasciarmi ‘solo’a pregare per te; e non farmi aspettare troppo unaseconda bella meditazione.

...Tuo sac., amico, fratello, padre, tutto quelloche vuoi ch’io sia per te».

Risposta prolissa e un tantino romantica, se sivuole, ma a vent’anni si sogna amore: quel candi-dato cercava solo quello; la sua era una delle tantecrisi del cuore.

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Quando il dubbioinveste l’educatore

20.

La notizia dell’uscita dal seminario diocesano dialcuni allievi di terz’anno di teologia ha portatodella nebbia sul cuore di un pastore d’anime chefiero e felice del suo sacerdozio, ha già passato laconsegna a un bel numero di leviti. Un casuale inci-dente di stagione porge l’occasione di vergare que-sta lettera destinata ai suoi giovani che, scagliona-ti negli ultimi anni di studio, sono prossimi agliOrdini.

«Ai miei sette chierici una benedizione e unabbraccio immensi!

Perdonatemela questa lettera, che scrivo sottouna duplice forte emozione a cui non so resistere:voi mi siete più cari della vita stessa, che pur sape-te quanto amo, convinto sempre più del suo valoredivino.

E’ questo ‘esagerato’ affetto che mi prende lamano stamattina: vi ripeto di scusarmi! Leggetemiperò con interesse e ve ne sarò grato.

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Carissimi, la notizia che corre sulla bocca dimolti, e che desta stupore e pena soprattutto neibuoni fedeli, dei vostri... compagni di seminariousciti dalle file nei giorni scorsi, non mi ha la-sciato indifferente: è ora di Passione questa per inostri Vescovi e per il Papa; e per me, che cometutti sapete, sono innamoratissimo della mia vo-cazione. Ho tosto pensato a voi prima che ad altri:i più giovani, i nostri piccoli della media o delginnasio, danno meno pensiero stante l’età anco-ra precoce per una scelta. Voi siete a un palmo dalvertice più alto cui possa Dio condurre un essereumano: è contro di voi che l’inferno si può sca-gliare furibondo, nella previsione del bene im-menso che, una volta arrivati, potreste operare perla redenzione del mondo.

Ho dubitato per voi, logicamente; ma voi sietebuoni! Siete in sette: una bella fila che abbracciaun arco di età che va dai 23 ai 44 anni, compren-dendo i chiamati della prima ora e quelli chiamatialla sesta; al presente tutti compatti e decisi, comepiù volte mi avete detto a voce o per scritto. Godia-mone insieme e torniamo ad affidarci alla Madon-na, madre della nostra comune vocazione, perchéquesta è ora di tormenta; e chi meglio di Lei ci puòtutti difendere e conservare?

Qualche notte fa un’insolita bufera di neve hamutilato (notate la coincidenza del numero!) settedegli alti pini che fiancheggiano la nostra chiesae le fanno, estate e inverno, stupenda cornice: settepunte, di due o tre metri ciascuna, giacciono aterra come militi caduti in una furiosa battaglia;

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mentre i sette pini son là mortificati, quasi lancemozzate...

E’ stato un incidente contro il quale nulla si sareb-be potuto fare per prevenirlo; né posso accusare ilvento o la neve o altri: rassegniamoci a vederli persempre così non più svettanti verso il cielo, ma spez-zati dalla furia del maltempo. Il buon Cesare, amalincuore, sta già portando via quelle punte e nonmi tace che gli pare di trascinare a sepoltura dellecreature, ed è lui ad imputare il disastro all’ecces-sivo peso della neve.

Sette pini: sette chierici. Perdonate il raffron-to: mi è venuto così immediato e spontaneo chemi ha fornito punti di riflessione più volte in que-sti giorni.

Ho sempre pensato a voi come ad altrettantefrecce che puntano decisamente verso l’Infinito,verso Dio, scelto ormai come l’unico Bene, tra-guardo da raggiungere con una buona carica diFede e di Carità: voi avete assecondato quell’a-nelito che da sempre agita il cuore dell’uomo versol’Assoluto e l’Eterno; né avete sopportato indugiliberandovi da remore che potevano impedire oritardare la vostra corsa. Vorrei fare i nomi, unoa uno, per ricordare a ognuno le potenti rincorse,prese in occasione di tappe importanti, di eserci-zi, di altre belle feste: e quanto cammino percor-so insieme!

Ho tra le cose custodite con geloso riguardoalcune vostre lettere confidenziali, che documen-tano propositi sinceri di santità e progetti di do-nazione generosa e assoluta al divino servizio,

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alla Chiesa e alle anime. Siete sempre di quel pa-rere e di quei progetti? Puntate ancora verso unavita ‘superiore’ allineata con i santi? La bufera viha investiti? Non dovreste essere nuovi alle lotte:so che tutti, chi per un verso e chi per un altro,siete stati alla guerra: ora la lotta si fa più crudaperché le defezioni aumentano, e ogni defezione,la sentiamo come una ‘nostra’ battaglia perduta,e ci ferisce personalmente.

Come hanno reagito in simili frangenti, non nuovidi certo, i santi? Hanno creduto; hanno predicato dicredere; hanno incitato a credere: la Fede salva. Isanti si sono aggrappati alla Croce, come all’astadella bandiera, e fu la Croce a decidere del lorodestino! E hanno ascoltato l’invito del Maestro inquella prima ora di Getsemani: hanno vigilato inpreghiera.

Pregate, miei carissimi; pregate più che in pas-sato, e nella tempesta avrete solo da guadagnare inrobustezza spirituale, in purezza e in coraggio. Nonaddossatevi pesi, lusinghieri solo in apparenza, noncedete al peso delle vane cose del mondo, anche seoggi hanno un fascino che incanta: il mondo passae con lui le ‘sue’ cose (le sue sirene e le sue droghe!),che si dileguano come neve al sole (vedi ad esem-pio la tirannia della moda, instabile, insoddisfat-ta!).

Forse le belle punte dei nostri pini sono cadutesotto l’effimero ‘peso’ della neve, che appena qual-che ora dopo si è sciolta completamente lasciandodietro a sé sette tronchi mozzati per sempre. Passeràquesta bufera di materialismo teorico e pratico, di

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comodismo, di edonismo terra terra, della vitamoderna; ma intanto è penoso assistere al crollo ditante speranze che non sopportano il peso e il giogodi Cristo sacerdote...

E non saranno forse caduti per mancanza di unalinfa gagliarda nel tronco e nei rami? Un sacco diproblemi che si accavallano e che si combattonoreciprocamente, teologie e opinioni di teologi chesi contraddicono a vicenda, contestazioni cervello-tiche di ogni sorta, a volte gridate all’insegna della‘carità’ (!?)... non vedete che impediscono di scen-dere nelle vere profondità teologiche, nelle abissa-li bellezze della Parola di Dio, nella sperimenta-zione personale delle “insondabili ricchezze del Cri-sto”? Ricordo con gratitudine ed edificazione lemagnifiche lezioni di teologia dogmatica tenute daautentici uomini di Dio: al termine di quelle ‘con-templazioni’, si correva a frotte in cappella per unavisita; la lezione diventava linfa di vita, la teologiagenerava fervore di spirito; e ci si voleva un granbene, allora!

...Forse un palo avrebbe dato elasticità e insiemeresistenza contro la furia della tormenta? Certo quel-l’aiuto avrebbe impedito la rovina e penso che quan-do si fa notte e il vento soffia contrario, è pericolo-so essere soli, senza una mano forte che ti dia corag-gio e (perché no?) leghi eventuali ferite stroncandoemorragie fatali. Ma, si sussurra da qualcuno, a unacerta età – quando il pino è cresciuto – si deve fareda sé, non occorre la direzione spirituale, ci si deverischiare da soli, senza addossare ad altri eventua-li insuccessi...

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No: non così, miei chierici!Chi vi scrive sente di non poter fare da sé, dopo

lunghi anni di studio e di esperienze svariate, nono-stante possa disporre di una discreta biblioteca. Nonfidatevi di voi in quest’ora: aprite l’animo vostrocon fiducia; non ripiegatevi su voi stessi, finiresteper pencolare sul vuoto e... la punta verrebbe spez-zata e gettata a terra.

“La punta dell’anima!”, diceva un mio carissi-mo professore di morale, a significare delicatezza,fervore, santità, zelo, tutto il meglio che possiamoavere e donare. “Dobbiamo vivere la nostra voca-zione con la punta dell’anima” sempre protesa allealtezze; ma non fidiamoci di noi: lealtà, obbedien-za, docilità, confidenza in chi ha la missione e laresponsabilità del nostro cammino. E “chi crede distare in piedi, guardi di non cadere”! (1 Cor 10,12).

L’incidente dei sette pini ci ha portati un po’lontano, è vero; ma ci siamo ritrovati insieme perrinnovarci nell’affetto e stringerci di nuovo in cor-data.

Non siamo soli, siamo con la Chiesa, con i suoisanti: Dio è con la Chiesa e con i santi.

Siate voi d’ora in avanti i sette pini, agitati dalloSpirito di Pentecoste, sempre anelanti alla santità,ad abbellire la nostra Chiesa!

Vi abbraccio tutti come uno. Sempre felice diessere utile, attendo vostri scritti».

Quando il dubbio investe chi vive e consumail meglio di sé per educare i figli più cari della

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Chiesa, che fare per non sentirsi paralizzati dallasfiducia?

Puntare in alto, in Colui che, solo, può far sì chele bufere siano ancora ‘simbolo’ di quelle potenzeinfernali che mai prevarranno. A noi raccogliere,da quelle cime spezzate, l’invito a una non fallacedemitizzazione: quando la tentazione ci scuote, sonole creste ad accusare per prime precarietà ed incon-sistenza. «Sovente non conosciamo le nostre forze;ma la tentazione ci manifesta quel che siamo» (Imi-tazione I, XIII, 5).

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In rispettosaattesa...

21.

Il Concilio parla di “retta intenzione” e di “libe-ra volontà” dei candidati (O.T. 6/A) e vuole che convigile cura si indaghi sulla presenza di queste duepremesse essenziali.

Retta intenzione e piena libertà devono coesi-stere fin dalle prime scelte, e se l’una o l’altra nonfossero ancora abbastanza evidenti e sicure, non cisi illuda di lavorare sul sodo: con quale sicurezza sipuò costruire un edificio, quando non si sa che razzadi terreno è quello nel quale si gettano le fonda-menta e si innalzano i muri?

Retta intenzione e libera volontà sono il terrenoidoneo a un intelligente lavoro educativo vocazio-nale.

Tuttavia anche nel giovane più schietto e ani-mato di buona volontà, non sempre le due premes-se sono evidenziate allo stesso grado; verrebbe la ten-tazione di premere sulla libertà per far luce sulleintenzioni, o di far leva su queste per smuovere lalibertà e sollecitare una scelta.

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C’è di mezzo Dio che sceglie liberissimamen-te, che manifesta gradatamente le sue intenzioni eoffre all’indagine umana dei ‘segni’ indicatori nel-l’ora stabilita; e c’è l’uomo che piano piano si accer-ta dei divini voleri, scritti nelle varie componentidella sua natura, del temperamento e del carattere,e ancor più lentamente ne subisce l’attrattiva, chea sua volta muove la libertà all’esecuzione del pianodivino.

In un dramma tanto delicato, profondo e quasiimponderabile all’occhio stesso dell’esperto edu-catore, questi è spettatore più che attore in tale primafase; o attore solo in quanto scelto dalla Provvi-denza, e voluto poi dall’uomo come teste e guidanella interpretazione e nella accettazione dellavolontà di Dio.

Il rispetto della libertà è anzitutto umile attesadella manifestazione di una eventuale chiamata, e siarticola nelle lunghe e laboriose ricerche dei ‘segni’di Dio, che si è soliti chiamare anche “germi divocazione”, dopo i quali dovranno apparire gli indi-zi e alla fine le prove, che permetteranno di ‘deci-frare’ con sicurezza il significato contenutistico dei‘segni’.

Pazienza a non finire ci vorrà nell’attesa che igermi embrionali si sviluppino con l’opera indis-sociabile dello Spirito e dell’eletto; alle spalle diquesto poi, come palo a sostegno della vite – madiscreto, nascosto, mai invadente, mai presuntuosodi sostituirsi allo Spirito o al chiamato – l’educatore(il collegio degli educatori in taluni casi).

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In questa seconda fase, nella quale l’educatoreassume gradatamente il ruolo di attore associato etalvolta di suggeritore o portavoce, la fretta lusin-ga, ma sarebbe pericolosa se anticipasse pronun-ciamenti e decisioni che non devono sbocciare un’o-ra prima del tempo fissato: anche nel campo dellospirito le brinate possono mandare a monte tantebelle promesse!

Nessuno ignora che la libertà agisce e si svilup-pa gradualmente, col crescere degli anni e al passodi una contestuale maturazione fisico-psichica, acce-lerato o ritardato dall’ambiente e da svariate e tal-volta contrastanti circostanze. Occorrono perciòmesi e anni di sperimentazione – e oggi nonostan-te il frenetico correre più di ieri – prima di conclu-dere categoricamente e giurare su una scelta accet-tata con piena coscienza e responsabilmente.

Puerile e imperdonabile affidarsi agli entusia-smi, alle impennate, alle cotte così conformi al-l’indole adolescenziale. Trattando di addossarsiimpegni e pesi indubbiamente gravi per tutta l’e-sistenza, è giusto attendere che le spalle siano pre-parate e pronte; si abbia quella visione realisticadelle cose e la misura delle proprie forze, che siacquista a prezzo di non pochi anni di attesa at-tiva e laboriosa.

Nemmeno «nel caso doloroso di penuria diclero» (O.T. 6/B) si presuma di rendere un buonservizio alla causa delle vocazioni, rinunciandoalla paziente attesa. L’aratura del campo è affati-cante e forse noiosa, richiede tempo e fiato, so-prattutto molta speranza, ma condiziona il futuro

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raccolto. «Non è possibile che Dio permetta chela sua Chiesa manchi di ministri, se i degni ven-gono promossi» (O.T. 6/B): un drappello di deci-si farà assai più e meglio che la moltitudine di in-decisi e di mediocri.

E’ bene ricordare che il rispetto della libertà (edi conseguenza l’attesa vigile delle intenzioni) è unalleato di prim’ordine per lavorare nell’essenzialee ottenere ottimi risultati; infatti è dimostrato dal-l’esperienza che l’azione di Dio, appare spedita edefficace in diretta proporzione con l’impegno dellalibertà degli educandi. E chi non ha sentito ripu-gnanze vivaci contro cose, magari sacrosante, sol-tanto perché venivano imposte senza capirne né laragionevolezza né il significato? Al contrario nonabbiamo indugiato a buttarci in imprese assai piùardue, ma volentieri ed entusiasti, appunto perchéstimolati e allettati – sia pure dietro indicazioniautorevoli – da una libertà cointeressata e corre-sponsabile.

Dall’assoluto rispetto della libertà esterna edinteriore dei candidati (cf. P.O. 11), deriverannoautentiche fortune: la convinzione, la spontaneità,il senso della responsabilità e della corresponsabi-lità in ordine alla propria e altrui salvezza; l’affer-mazione incontestata dei propri talenti, una più faci-le apertura d’animo, l’intesa cordiale con i supe-riori, e la promessa di una generosità di donazione.

I superiori che da se stessi hanno già operato iltaglio chirurgico della demitizzazione, non trova-no troppo difficile questo pieno rispetto della libertà:

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mettendosi all’ultimo posto, là portati da un forteamore per le anime da educare, sapranno muoversiin punta di piedi, anche quando fosse necessaria lavoce grossa, senza cedere alle debolezze di un vanosentimentalismo, e senza azzardare modi violenti oinconsulti. Il servo non percuote, né accarezza, feli-ce di lavorare nell’orbita dello Spirito in un’impre-sa che supera tutte: l’esperienza ammonisce chesolo chi sa mettersi all’ultimo posto ha la chiaveper indirizzare libere volontà verso traguardi obbli-ganti, senza forzature ingannevoli e senza puerilitentennamenti.

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Diocerca il cuore

22.

Le accresciute necessità del popolo di Dio recla-mano numerosi e santi sacerdoti e fervorosi reli-giosi che, forti più che mai, sostengano l’urto delleforze avverse e, segno profetico, riportino gli uomi-ni all’unità, alla pace e alla conquista dei valoriultraterreni, in un’ora di materialismo travolgente.

A tempi forti, uomini forti!«E’ un problema di anime aperte, che nella vita

religiosa diano la splendida e singolare testimo-nianza, che il mondo non può essere trasfigurato eofferto a Dio senza lo spirito delle beatitudini. E’ unproblema di giovani che sappiano affrancarsi dalconformismo alla vacuità edonistica come alla oppo-sizione irriflessa e sterile, per offrirsi a Cristo Gesùcon l’ineguagliabile forza della loro intatta fre-schezza spirituale, per diventare suoi ministri edispensatori dei misteri di Dio» (Paolo VI).

La Chiesa aspetta la risposta dei figli miglio-ri. Invero pare definitivamente tramontato l’in-fausto tempo nel quale tra le file del clero e nei

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monasteri si rifugiavano anche i naufraghi dellavita, i mediocri, gli inadatti o i pigri e riluttanti aun serio inserimento sociale, quasi cacciati e co-stretti a subire lo stato ecclesiastico o monasticoper avere assicurato un po’ di vitto e fors’ancheun certo prestigio. Oggi si presenta così arduo fareil prete e il religioso (anche nell’ideale del mis-sionario) che pochi trovano il coraggio di ri-spondere all’appello accorato della Madre Chie-sa!

Si avranno, per forza di cose, i migliori: questidovranno rimanere; e questi proseguiranno.

Ma chi intendere per ‘migliore’?Di quale superiorità qui si parla?Non è raro sentire la lamentela: «I migliori, i più

dotati se ne vanno...!».

Non è molto tempo che un teologo di primo annometteva in forse ogni decisione sull’avvenire neltimore che le sue doti (non so quante fossero inrealtà), stimate – per una spietata se pur segretalogica – superiori oggettivamente al sacerdozio stes-so, venissero mutilate e atrofizzate dalla vocazione,dal celibato e da una perpetua diaconìa. Non man-cano poi i sofismi degli arrivisti, mandati avanti dacalcoli interessati propri o dei famigliari, i qualiaccorgendosi (oh, finalmente!) che il traguardo delsacerdozio oggi sfugge all’arrivismo – mentre altrecarriere sono meglio abbordabili e con minor spesae pochi rischi e fastidi – ripiegano non senza sbat-tere la porta e brontolando, come insegna l’anticafavola: «Non è ancora matura!».

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Dove sta quel ‘meglio’ che va scoperto, protettoe utilizzato in ordine vocazionale?

In un qualche cosa di imponderabile, sul princi-pio, che certamente si trovava nel servo che avevaricevuto due talenti come in quello dei cinque, eche invece mancò in colui che ne aveva in consegnauno solo: voglio dire una certa qual disposizioneche può trovarsi in uno o nell’altro, indipendente-mente dalla quantità dei doni ricevuti da natura eGrazia. Presente e attiva questa disposizione, anchei due talenti sono sufficienti per avere poi un pretesanto e zelante. I cinque o dieci talenti restano inu-tilizzati in ordine vocazionale qualora venisse menoquella tal disposizione che perciò in ultima analisirisulta ‘basilare’ e determinante, iniziale (di fondo)e terminale (di traguardo). Se questa speciale dispo-sizione non si manifesta, dopo diligente vaglio,anche se i soggetti fossero dotati di molti talenti,onestamente non potremmo dire quei giovani dei‘candidati’, perché mai potremmo giudicarli ‘imigliori’ ai fini vocazionali.

Non ci dobbiamo forse mettere dalla parte di Dioin questa verifica e giudicare col suo metro? Nondobbiamo anche qui ammettere che talvolta la nostraavvedutezza è, al vaglio dei giudizi divini, vana stol-tezza? Fin troppe volte abbiamo dovuto trarre dallarealtà vissuta la conclusione drastica che «i nostrigiudizi al confronto con la Sapienza di Dio, sono bar-bari!».

Ma torniamo a scrutare nel valore oggettivo deitalenti che può presentarci un allievo per una disa-

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mina, ad esempio, resasi necessaria in una tappache reclama sia pure un iniziale pronunciamento,...alle porte del ginnasio o del liceo. I talenti sonosvariatissimi, per ora non ne abbozziamo nemme-no un sommario: ci basta avere di che poter fare unconfronto analogico e applicabile, di conseguenza,ad ogni quantità e qualità.

La disponibilità al servizio del Datore dei ta-lenti, in ordine allo sfruttamento dei talenti stes-si – poiché il mettere a frutto questi doni è un ser-vire il Datore di essi – è un talento che condizio-na poi nella realtà conclusiva (nella resa concre-ta e nel rendiconto finale) tutto il corredo rice-vuto. Quando poi la mente del Datore destina unuomo a un servizio divino eccezionale, sia perestensione che per qualifica, crea una disposizio-ne-talento di fondo che, indipendentemente dallealtre doti, dà una singolare fisionomia al com-plesso e fa di questa disposizione ‘dominante’, ladefinizione e la carta di riconoscimento del sog-getto e della sua missione.

Questa disposizione dominante e classificante siidentifica nella inclinazione ‘oblativa’ che fa con-geniale (e constatabile nei fatti) il desiderio di espan-sione e la volontà di donazione delle proprie cose(facoltà varie) e di sé. Esaminata in seguito più det-tagliatamente, si potranno scorgere le due direzio-ni distinte, ma indissociabili, della oblazione a Dioe alle anime.

Qui sta il ‘meglio’ che va cercato, individuato evalorizzato come termine di confronto nella verifi-ca della vocazione.

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Si potrebbe obiettare che questa disposizione adonarsi deve trovarsi in tutti, anche in chi è chiamatoa fondare una famiglia, anche in chi volesse rima-nere celibe per ragioni diverse da una diaconìa uni-versale e permanente. Tutto ciò è vero; ed è per que-sto che nei nostri ambienti formativi non temiamodi ospitare assieme ai pochi, scelti a una vocazionesuperiore e singolare, i più, chiamati a traguardicomuni e meno compromettenti. Una promozionelealmente umana e cristiana non può prescindereda questa formazione altruista, diretta cioè a for-mare non delle isole, ma dei continenti, persone pergli altri e non degli egoisti.

Ma chi sarà mai “degli altri” quanto colui cheperpetuerà il Cristo, fratello universale e padre ditutte le genti? In coloro che sono scelti a questodestino, la tendenza alla donazione deve dominare,prevalere, apparire eminente al confronto con lealtre doti, sia prese nella loro globalità, che singo-larmente.

Tutti i tessuti possono essere dipinti o ricama-ti, ma non tutti possono sopportare un identicotipo o peso di ricamo e lo stesso genere di pittu-ra. Tutte le pietre possono essere utilizzate allacostruzione di un edificio, ma non tutte esserebuone per i fondamenti o per ricavarne delle ar-tistiche statue.

A convincerci potrà giovare una attenta medita-zione sulle pagine bibliche nelle quali possiamoimparare come Dio fa le sue scelte e la verifica deglieletti.

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Non poteva trovare di meglio Jahvé per liberareil popolo dalla schiavitù d’Egitto che un guardianodi greggi, un tartaglione, un violento, un fuggiasco,un trovatello, qual era Mosè?

E non aveva dei bei figli, alti, ben piazzati, Iessedi Betlemme, da offrire alla unzione che avrebbeconsacrato il successore di Saul, senza dover chia-mare dalla stalla l’ultimo nato, poco esperto, forsein cattivo arnese in quell’ora, Davide?

E non c’era un soggetto migliore di Giona – chesaremmo tentati di chiamare caricatura di profeta,stante il carattere volubile e pigro – per annuncia-re la redenzione dei popoli pagani ed essere figuradel Risorto?

Non c’erano uomini più dotati dei pescatori diTiberiade e dei contadini di Galilea e di un disprez-zato gabelliere... per farne i primi sacerdoti dellaalleanza nuova e le basi della Chiesa?

Nessuno dubita che ci fosse qualche soggetto piùsimpatico che un Saulo persecutore per portare ilmessaggio della salvezza al mondo...

«Non guardare al suo aspetto – ammonisce ilSignore – né all’imponenza della sua statura. Iol’ho scartato, perché io non guardo ciò che guardal’uomo. L’uomo guarda l’apparenza, il Signoreguarda il cuore» (1 Sam 16, 7).

Al vaglio delle disposizioni e delle intenzioni, ilMaestro fu molto esplicito con i primi candidati nel-l’esigere “suaviter et fortiter” distacchi sempre piùprofondi e radicali, e nell’educare in loro la dispo-sizione all’oblazione di tutto, anche della vita, alla

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missione di cui sarebbero stati investiti. Diversa-mente anch’essi sarebbero stati condannati come«operatori di iniquità», nonostante la protesta diaver profetato nel suo nome, di aver cacciato i demo-ni, di aver fatto molti prodigi; giacché l’essenzialenella vita dei ‘prescelti’ e dei futuri apostoli sta nellaoblazione alla «volontà del Padre»: leggiamo Mt 7,21-23.

Educare in tutti questa fondamentale e decisivadisposizione e farne il leitmotiv di ogni preoccu-pazione pedagogico-ascetica, è obbligante: va attua-ta fin dai primi anni di seminario; individuata inogni verifica; portata avanti di tappa in tappa. I‘migliori’ saranno quelli che educati instancabil-mente a donarsi, saranno trovati allenati e idoneialla disponibilità totale al ministero pastorale, all’a-more unico, immolato, incomparabile e inestingui-bile al Cristo Signore (cf. Paolo VI, 20 febbraio1971).

Ci si dovrà guardare dagli abbagli, che porte-rebbero a giudizi spregiudicati e fatali: un Cura-to d’Ars, un don Guanella, un don Calabria e nonpochi altri, non sarebbero diventati quei grandipastori di anime, se si fosse prestato credito aiprimi affrettati giudizi sentenziati sul loro conto;ma, per grazia di Dio, ci fu chi sotto la miseracorteccia scoperse il ‘cuore bello’ e pronto allaimmolazione.

Dio cerca il cuore.I scelti sono chiamati ad invaghirsi di Lui come

nessun altro mai: Dio cerca quella misteriosa dispo-sizione che gli permetta di donarsi loro in amore.

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No: non esiste al mondo arte più bella e più deli-cata di chi in questa avventura d’amore si fa trami-te, consigliere e messaggero!

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Accettarel’Amore!

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A qualche passo dalla nostra casa, oggi brucia-va un bel fuoco; l’avevano appiccato a bella postaper ridurre in fiamme cartacce e rifiuti, e così puli-re e abbellire l’aia. Tutto era splendente in quellefiamme, tutto, anche la povertà e la miseria dei rifiu-ti che sull’aia avevano dato fastidio.

Una delle tante stranezze dell’Amore divino,forse la più affascinante e commovente, è il con-statare come Dio s’invaghisca e si innamori dipovertà e di miseria: ne era stupito san Paolo, chenon ignorò mai d’essere stato anche lui un pove-ruomo, un ribelle, un persecutore:

«Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degliuomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degliuomini. Considerate infatti la vostra chiamata, fra-telli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo lacarne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dioha scelto ciò che nel mondo è stolto per confonde-re i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo èdebole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che

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nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nullaper ridurre al nulla le cose che sono, perché nessunuomo possa gloriarsi davanti a Dio. Ed è per luiche voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera diDio è diventato per noi sapienza, giustizia, santifi-cazione e redenzione, perché, come sta scritto: Chisi vanta si vanti nel Signore» (1 Cor 1, 25-31).

Non chi possiede il corredo più vistoso e ap-pariscente è il miglior candidato, il più idoneo asalire il monte santo e abitare presso l’Altissimo:che cosa di più terribilmente libero che l’Amoredivino? E’ forza così misteriosa, straordinaria-mente creatrice e impetuosa, da farsi largo e ap-piccarsi a ciò che appare gramo e misero, da col-mare vuoti, da creare sul nulla e trasfigurare infiamme bellissime l’ «infirma mundi... et quae nonsunt», per la gioia del Cielo e la redenzione degliuomini.

Ma il Concilio parla chiaro ed esige «idoneitàspirituale, morale e intellettuale»; parla di «ne-cessaria salute fisica e psichica, considerandoanche le eventuali inclinazioni ereditarie» (O.T.6/A).

Verissimo e giusto; tuttavia, in concreto, ci sidovrà sempre porre dalla parte di Chi sceglie e chia-ma, e mette a disposizione della scelta e della chia-mata tutto Se stesso, l’onnipotenza dell’Amore.

Sempre attraverso il duplice parametro della dile-zione divina e della disponibilità all’amore del chia-mato, vanno esaminate capacità e idoneità, ovveroil corredo, la dote che colui, di cui Dio si è inva-

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ghito, porterà al Diletto negli sponsali e nella misti-ca unione (di cui il Cantico dei Cantici non è che unacanzone di vigilia).

E’ interessante e consolante (ciascuno di noipreti e religiosi ne è teste e documento) seguireil cammino della dilezione divina: come la corsadel fuoco che divora e traduce in vivida fiamma,si appicca a creature umane in cui noi, poverimiopi, non scorgiamo alcunché di simpatico e diamabile.

Non avviene così spesse volte anche nei fidan-zamenti umani? Non c’è chi si innamora di una crea-tura che non ha mezzi, non salute, non bellezza, nonbontà...? Tuttavia quella, se risponde e accetta, è la‘migliore’, diverrà l’ ‘unica’.

Tutto sta qui: che il dono sia accettato e diventirisposta. Non esiste amore finché, accettando ildono, in questa stessa accettazione non si rispon-de. Il Vangelo ricorda un dono d’amore rimastosenza risposta: «Allora Gesù, fissatolo, lo amò...Ma egli, rattristatosi..., se ne andò afflitto, poichéaveva molti beni» (Mc 10, 21-22).

Certamente all’occhio del Maestro non eranonascoste le doti che l’adolescente puro avrebbe por-tato con sé alle nozze col Cristo, pur liberandosidalle zavorre di mondo; ma il dono rimase senzarisposta.

Chi dunque il ‘migliore’?Chi accortosi che gli occhi di Dio si sono posa-

ti su di lui, risponde, accettando l’Amore. Le pre-ferenze divine escono dai nostri gretti calcoli e si

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esaltano nelle nullità e nelle miserie di chi si lasciafar l’Amore da un Dio: vedi il Magnificat (Lc 1, 46-55); vedi la Maddalena (Lc 7, 36-50); vedi Pietro (Gv21, 15-17).

Il compito dell’educatore appare delicatissimo:col cuore non si scherza! Ogni indebita interferen-za è giudicata alla stregua di una aggressione ingiu-sta e viene respinta. «L’amore – secondo un pro-verbio cinese – si fa, non si dice»: così si insegna arispondere amore per Amore, a rispondere meglio,con maggior intensità, ma “più amando, che par-lando”.

Nei sei anni della adolescenza passati in un isti-tuto salesiano, solo una volta, al termine di una ani-mata ricreazione, un Padre, mentre si tergeva il sudo-re e si puliva, mi disse con semplicità e amabilitàindimenticabili: «Se senti che Dio ti vuol prete,rispondi e godi!»; le altre molte parole me le avevagià dette da anni, lui che di nobile famiglia, ex-uffi-ciale dell’esercito, aveva gettato tutto al fuoco, quan-do in età non più tanto giovane s’era accorto cheDio gli teneva gli occhi addosso.

Forse è quest’unica parola che molti attendonoda noi, bisbigliata all’orecchio, ma controfirmatada una condotta da innamorati... per decidersi a“lasciarsi possedere dall’amore di Cristo”.

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L’amabile vincastrodel pastore

24.

Due parole sull’inviso compito della correzio-ne: parlandone a questo punto, ne abbiamo trovatoil posto e la ragion d’essere e di agire sui candida-ti. Non è infatti concepibile per un cristiano la cor-rezione fuori dell’orbita dell’amore: la esige l’a-more stesso, che di essa si avvale per una cercata eambìta adeguazione alle istanze e alle attese di Chici fa l’amore; e a questo punto di arrivo – la somi-glianza, la simbiosi – tendono tutte le correzioniche l’educatore sente il dovere di fare.

Sarà questa intenzione di pura carità a renderemeno invisa la correzione sia a chi la deve fare, siaa chi la deve accettare: che se il destinatario nonscoprisse nelle ammonizioni e nei richiami del supe-riore (chiunque esso sia, dall’assistente all’inse-gnante, dal rettore al padre spirituale...) un inten-dimento caritativo, a poco o nulla gioverebbe l’in-viso servizio.

Il giovane che novantanove volte s’è mostratoremissivo e condiscendente, s’impenna e si irrita

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alla centesima correzione fatta di mala grazia, peruno scatto impulsivo o comunque non per impulsodi carità. Può darsi che la nostra intenzione fossepur stata retta e fors’anche caritativa; ma se tale nonè apparsa, non solo non ha sortito il buon effetto, maha ulteriormente aggravato la situazione: si dovevafar notare che il cuore dettava quelle parole. Uncibo, anche se ammannito con mille ingredienti squi-siti, non si gusta e tanto meno si assimila, se non èstato cotto quant’era necessario.

Un confratello, che da anni si dedica al recluta-mento (si perdoni la parola poco simpatica!) dellevocazioni e alla loro educazione, conveniva con mesul “rischio delle correzioni” indirizzate ad animeintenzionalmente rette e sinceramente avviate allasantificazione: un ferro arroventato ustiona e bruciaanche quando nel fuoco ha preso delle belle pie-ghe! Non lo aveva ancora imparato quell’educato-re, e si vide sfuggire alcuni che promettevano cosìbene per la “pesca degli uomini”.

«Era la prima volta che facevo una osservazio-ne in otto anni di vita vissuta assieme a quel chie-rico: e fu l’ultima. Il giovane stesso mi lasciò scrit-to che datava da quel giorno la crisi che lo avrebbeallontanato per sempre dal mio istituto. Più volte viho fatto meditazione: la correzione era stata one-stissima, me lo confermarono altri autorevolmen-te; ma chi può dirmi se il modo non fosse stato inde-licato?».

Non c’è da stupirsene (mi sussurra qualcuno inalto loco), chi accetta più richiami?

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Tuttavia chi ama davvero accetta anche questodovere, pur ammettendo che amare come il Mae-stro ha amato, cioè in ‘quel’ modo, non sarà maitanto facile («Come io vi ho amato, così amatevianche voi gli uni gli altri» Gv 13, 34), rimettendofiduciosamente ogni parola e ogni attenzione al fina-le giudizio di Dio.

Sia la Scrittura a incoraggiare a non sottrarciall’inviso dovere:

«Il Signore corregge chi ama,come un padre il figlio prediletto»(Pro 3, 12).«Chi accarezza un figlione fascerà poi le ferite» (Sir 30, 7).«Non risparmiare al giovanela correzione» (Pro 23, 13).«Chi corregge un altrotroverà in fine più favoredi chi ha una lingua adulatrice»(Pro 28, 23).«Meglio ascoltare il rimprovero del saggioche ascoltare il canto degli stolti»(Qo 7, 5).«Chi odia la correzionesi abbrevierà la vita» (Sir 19, 5 volg.).

Ci confortino gli esempi dei profeti, del Batti-sta, del Maestro, degli apostoli e di tutti i grandieducatori, che non risparmiarono l’amabile vinca-stro della correzione, ogni qual volta il più verobene e l’esecuzione di un preciso dovere glielo impo-

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sero, a costo di pagar caro quel rischioso servizio dicarità.

Tutto si dovrà studiare, tempo, luogo, parole(dette a viva voce o scritte), disposizioni in chi fa ein chi riceve la correzione, persino il tono e l’at-teggiamento; pronti a dare ulteriori spiegazioni, a ret-tificare, a tutto riesaminare, e, se imposto dallaverità, a ritirare come non detta l’ammonizione.

«Il medico pietoso – dice il proverbio – fa lapiaga puzzolente»: non ci vinca né una falsa pietà,che un giorno ci verrà rinfacciata fors’anche da Dio,né la vana ambizione di non avere contestatori e digodere una popolarità ad oltranza. Il rovescio – chinon lo sa? – ce l’hanno anche le medaglie d’oro etanto grande quanto il dritto: tutti lo devono ricor-dare, chi corregge e chi deve essere corretto, e tuttici si studierà di non mettere il rovescio sotto il nasodel prossimo, aiutandoci reciprocamente a far vale-re il dritto!

Penso che alla fine il buon senso prevarrà e anchele pecorelle più restie e riottose riconosceranno chele ‘sassate’ e le ‘percosse’ erano partite dal cuoreinnamorato del pastore.

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Guide cieche25.

Perché il vincastro del pastore non diventi scu-discio, fatto soltanto per castigare e ferire, provo-cando sfiducia e ostilità, occorre svelenire radical-mente l’ingrato servizio della correzione: per que-sto torniamo sull’argomento.

Si è guide cieche quando si spara all’aria o sicolpisce a casaccio: tutto va osservato, non tuttoe non sempre va corretto. Così fa lo scultore, checonsidera attentamente, fino ai dettagli, poi togliesolo quello che va tolto, e bada di non scalfirenemmeno ciò che va custodito e messo in bellaluce. Così il contadino avveduto, quando nellagiusta stagione pota le viti, strappa solo quei tral-ci che ingombrano e soffocano; né taglia più in làdi quello che è necessario e utile eliminare. Guaise il barbiere, volendo farci belli, per troppo zelotagliasse la testa... a uno solo dei pori della pelle:saremo tentati di cambiare barbieria la volta pros-sima!

E’ guida cieca l’educatore che, non troppo im-pegnato ‘personalmente’ ne cavasse pretesto peresimersi comodamente dal dovere della correzio-

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ne: è compromettente – egli pensa – fare osser-vazioni agli altri, quando ci si trova male in casapropria; non potrebbe qualcuno, senza sottintesi,buttarci in faccia il famoso «Medico, cura te stes-so»? (Lc 4, 23).

Timore infondato, quando si può dimostrare (quile parole contano poco!) che siamo dei combatten-ti, mai in congedo, sempre sul campo di battagliacontro i nostri difetti, e sempre pronti a dare unamano ai compagni d’arme, quali appunto conside-riamo i nostri educandi. Se così fosse, dovremmodire che il medico, il quale obliando la propria feb-bre, mette a repentaglio la salute e fors’anche lavita per soccorrere chi è malato come lui o menodi lui, è solo degno di riconoscenza e di emulazio-ne.

Guida cieca è quella che, per falsa indulgenzaverso le stravaganze della adolescenza, volesse igno-rare queste idiozie e vi si rassegnasse: in questocaso, più frequente che nel passato (a dispetto diapertura e di precocità tanto esaltate!), si avvere-rebbero le altre parole del Maestro: «Lasciateli!Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un ciecoguida un altro cieco, tutti e due cadranno in unfosso!» (Mt 15, 14).

Il facile mutar di rotta proprio della adolescen-za non ci deve trovare impreparati o pavidi: diver-remmo conniventi e complici, per lo meno dellosciupìo di tante energie che vanno utilizzate meglio.Acquiescere ciecamente al fluttuare di umori e diprogetti, è venir meno al nostro caratteristico com-pito di sostenere la tenera pianta, la fragile bar-

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chetta: è su di noi, saldi come roccia, che l’inespertodi mare deve gettare l’àncora. Nella pazzesca danzadelle stagioni (difficili a contarsi!) che si rincorro-no nel giovane – stagione della musica, della fila-telica... dello sport, dei classici, della pittura, deicampioni, dell’erotismo, del nudo (tabuista o per-missivo), della moda, degli entusiasmi euforici, delloscontento e del fervore... – il timoniere deve starforte e aiutare a trar profitto, per quanto possibile,anche da questa ridda di miraggi, e ricondurre i suoiall’essenziale.

Si può ancora chiamare educatore chi non sapes-se prevedere i vicoli ciechi, o i vuoti fatali nei qualil’adolescente potrebbe trovare la tomba nella corsafrenetica verso le ombre? Due cari giovani, un chie-rico e uno studente di medicina, hanno trovato pre-matura fine per essersi affidati a fragili arbusti, nel-l’intento di cogliere un ciuffo di stelle alpine sulmonte Sparavieri (m. 1835)...

Una preveggente formazione all’essenzialità, euna ininterrotta direzione che riporta ai princìpi, farisparmiare risorse e inutili rischi.

Guide cieche coloro che si piccano di portarealle vette, percorrendo tracciati o sentieri ‘nuovi’per puro amore di novità, senza aver appreso di per-sona l’arte della ascesi ed essersi battuti preceden-temente nella difficile impresa: dottrina e santitàsono i connotati di una non cieca guida, che vogliacondurre nel ‘meglio’ e nel ‘perfetto’ i suoi allievi.E quanta santità? Quella almeno che secondo sanBernardo si sostanzia di continui tentativi e di rin-novati propositi.

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Non è guida illuminata chi fosse così condizio-nato dall’egoismo da non capire che non si posso-no far infilare le proprie scarpe, anche se nuove elucide, ai piedi di chicchessia per il gusto di vede-re se stesso specchiato negli altri: nemmeno i santipretesero tanto. Scimmiottare, non è imitare: si puòzoppicare e cadere pur avendo infilato le scarpe diun santo. E’ Cristo che va ricercato nei santi; è Luiche va proposto alla imitazione dei giovani, dopo chealla nostra.

Infine rifiutiamo quella banale storpiatura di dire-zione spirituale che potremmo chiamare “dello sca-rica barili”, cioè quell’ingiusto scudisciare neglialtri ciò che deploriamo in noi, o che in noi sussi-ste nonostante qualche sporadico tentativo di cor-rezione, o che in noi vorremmo ma non c’è: saràforse per la “ragion dei contrari” che spesso chi piùgrida contro la pagliuzza che crede di vedere e didover togliere negli altri, lo fa per stornare la criti-ca dalla trave che opprime la sua condotta morale?(cf. Mt 7, 3-5).

A questo punto verrebbe la voglia di ripiegare levele e abbandonare un lavoro troppo impegnativo:fissiamoci piuttosto in quella simpatica umiltà chemette le ali della fiducia e della bontà; queste poi ren-deranno amabile anche l’aspetto correzionale dellanostra missione educativa; e amabili diverranno lenostre stesse correzioni.

...E impariamo dal Maestro divino: troveremopace per noi e saremo operatori di pace nel cuore deinostri allievi (cf. Mt 11, 29-30).

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La tassadi iscrizione

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I giovani amano chiarezza e franchezza; nonaccreditano fiducia a chi gioca di ambiguità o nel-l’equivoco; approfittiamone per metterci d’accor-do per tempo: patti chiari, amicizia lunga!

Non faremo che seguire la pedagogia che il Mae-stro ha adottato con i primi candidati: non potrem-mo calcare strada migliore.

Alla sua scuola ci si deve iscrivere sborsandouna tassa piuttosto alta, senz’altro la più alta chemaestro abbia mai esigito dai suoi discepoli: «Chiun-que di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non puòessere mio discepolo» (Lc 14, 33).

La lista delle rinunce si trova sparsa lungo lepagine del Vangelo e non è corta, né comoda; nonsi arresta nemmeno davanti a cose e a persone carecome la vita; anzi la testa egli domanda e la vita(cf. Lc 14, 26; Gv 12, 25).

Chi non si adatta alla legge del distacco si illu-de di frequentare le lezioni del Maestro; può esse-re presente fisicamente, ma il cuore non è a scuo-

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la: chi non avverte la presenza di questa frangia diallievi assenti col cuore, molto lontani, anche se perla presenza di un minimo di sincerità li vorremmosperare disponibili per una promozione almeno suf-ficiente?

Non è difficile, tanto più nei primi anni, tro-varsi in seminario quasi senza saperne il motivo;né va obliato il pericolo che anche nelle classi su-periori vivacchino degli autentici play boy, deibabbei che, interrogati, non sanno nemmeno dirtichi sostiene per loro le spese della retta o delletasse scolastiche e dei libri... Questi scaldabancosono un peso, una specie di sabotaggio perma-nente, sono quelli che si attaccano sì al carretto,fingono di spingere, ma hanno fatto bene i lorocalcoli e hanno imparato come ci si può far tira-re senza dar nell’occhio.

Sono capaci anche di muover critiche a ognibuona occasione, per crearsi un facile paravento;né trascurano la troupe di protezione, entro la qualeprevalere asservendo talvolta elementi buoni, maimbambolati, alle loro mire interessate; sono costo-ro a trovare di che lamentarsi del vitto, dell’orario,dell’abuso di potere, dell’incomprensione, ecc. Dioce ne salvi!

Ma non mancano altri che si trascinano, salvan-dosi a qualche modo, fino alle soglie della teologia(e qualcuno oltre!), rifiutandosi, più o meno con-sapevolmente, di sborsare la famosa tassa di iscri-zione sopra ricordata con le drastiche parole delVangelo: con quale risultato? Che si fabbrica sullasabbia, o si tenta di salire tracciando il sentiero su

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slavini franosi. Se è vero che fabbrica sulla rocciachi ascolta le parole di Gesù e le mette in pratica (cf.Mt 7, 24-27), è accettando la dura legge del distac-co che si fa il vuoto per gettare solide fondamenta,per dar credito agli altri insegnamenti del Maestroe trarne profitto: troppe volte abbiamo pretesocostruire presto e bene, omettendo quella leale inte-sa preliminare che avrebbe premunito educatori eallievi dalle illusioni.

Ed ecco la ritrita obiezione (tante volte sentita)che non si ha da fare con allievi già decisi a segui-re il Maestro «dovunque andrà» (Mt 8, 19); quindici si deve accontentare di una promozione umano-cristiana di livello ‘superiore’, rimettendo ad altritempi (ad esempio nella teologia) la promozione ditipo ecclesiastico o religioso: altrimenti ci si trovaa voler condurre in alta montagna chi nemmeno havoglia di salire l’argine di un fiume.

Questa tendenza fa molta strada oggi; ma stiamoassistendo al triste fatto che giovani, entrati nelseminario con buone idee di vocazione e andatiavanti con retta intenzione, quando sono presi perle spalle da una decisione, rimettono in discussio-ne tutto, né si adattano a prendere sul serio la mis-sione sacerdotale così come il Vangelo la presenta.Si va in cerca allora di una tipologia di prete chesappia di novità, di sensazionale, di comodo: anti-conformisti per un nuovo tipo di conformismo delsacerdozio alienante, che sia conforme a una visio-ne fatta per il mondo materialista in cui il pretedovrà vivere.

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Forse sarebbe meglio riflettere se la tanto con-clamata promozione umano-cristiana (base per ogniulteriore ascesi) si possa attuare senza sborsare latassa del distacco: quante volte un insegnante chenon si rassegna a battere l’aria, richiama l’uditorioalla attenzione, distaccandolo da ciò che non è per-tinente con la lezione, dall’acchiappar mosche, dalguardare dalla finestra, dall’andare con la fantasiafuori tema...!

D’altronde non ci possiamo adattare nella nostraazione educativa a uno stile medio e mediocre, ma,sapendo presenti alcuni che saranno i “maestri inIsraele”, senza iattura di alcuno, a questi diamointenzionalmente la priorità nella qualificazione delnostro stile. Se così, l’edificio lo dobbiamo inizia-re non dal tetto o dai soprammobili, ma dalle fon-damenta; e queste vanno gettate nelle profonditàscavate estraendo, strappando... quanto non per-metterebbe una fondazione sicura.

Dovendo innalzare un grattacielo (non importa semolti si fermeranno ai primi piani) è logico scava-re in profondità applicando sine glossa la legge deldistacco. Dovendo portare molto in alto (anche secertuni si fermeranno a quote modeste) va accetta-ta in partenza la legge del distacco, per cui tanto sisale, quanto ci si stacca, non un millimetro di più.Non è legge facoltativa o arbitraria o superflua; maè la radicale esigenza di ogni virtù cristiana: accet-tata, diventa virtù.

Virtù aspra, difficile a capirsi e ad accettarsi, emai definitivamente conquistata: per questo cer-

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chiamo di persuadercene meditando le pagine dellaScrittura che presentano Dio intento a educare aldistacco: qui ne accenniamo appena per invitare auno studio più approfondito.

Il tentativo di servire due padroni (cf. Mt 6, 24)è antico quanto l’uomo peccatore, affonda le radi-ci nel primo peccato, descritto come disobbedien-za a un precetto del Creatore, consistente nel rico-noscere il dominio assoluto di Dio sulle cose e sullavita, mediante l’accettazione di un distacco dallecose, da una cosa: era una lezione vitale quella cheil Creatore intendeva impartire (non è forse scien-za di primordiale importanza l’uso delle creature edella stessa vita?). Quel distacco avrebbe conser-vato nell’uomo il dominio indisturbato e inconte-stato sulle cose, che ora andiamo lentamente cer-cando a prezzo di continue tribolazioni.

La non accettazione della legge ha portato infi-niti guai, in primis (volendo stare nel tema) le con-cupiscenze, mai radicalmente estirpate e talvoltatormentose.

Quando Dio riprende il dialogo con l’uomo perguidarne i destini e riabilitarlo nel Messia, si rivol-ge a uomini prescelti alla grande missione, e iniziail discorso dal punto fondamentale: dal distacco.

Ricordiamo quali dolorosi distacchi esige daAbramo? Poi lo farà grande nazione e lo benedirà:«Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casadi tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (Gn12, 1); e più tardi: «Prendi tuo figlio, il tuo unicofiglio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e

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offrilo in olocausto su di un monte che io ti indi-cherò» (Gn 22, 2).

La nobile figura del Messia, Melchisedek «re diSalem, sacerdote del Dio Altissimo... senza padre,senza madre, senza genealogia... fatto simile alFiglio di Dio rimane sacerdote in eterno» (Eb 7, 1-3) rivela ancora la stessa intenzione pedagogica diDio.

Quarant’anni impiegherà la Provvidenza per eru-dire il popolo ebreo al distacco dall’Egitto e daisuoi idoli; e durante questa lunga lezione Dio chia-ma i “suoi eletti”, quelli che non avranno altra ragiondi vivere che Lui, il tabernacolo, il culto, l’educa-zione del popolo. Li vorrà separati, attendati vici-no al tabernacolo, vestiti diversamente dagli altri,consacrati, santi, persino staccati da ogni possedi-mento nella terra promessa: «Il Signore disse adAronne: Tu non avrai alcun possesso nel loro paesee non ci sarà parte per te in mezzo a loro; io sonola tua parte e il tuo possesso in mezzo agli Israeli-ti» (Nm 18, 20).

Il Precursore, promesso a Zaccaria come uomodalla condotta ben difforme dalla comune, avrà real-mente una esistenza singolare, austera, umile, immo-lata: si pagano care le predilezioni divine!

Così vivrà il Maestro, dalla nascita, avvenutalontano da Nazareth, fuori di Betlemme, fino allamorte compiutasi al colmo di ogni distacco.

Non altrimenti per gli apostoli, dai primissimifino agli ultimi, noi compresi, se vogliamo esserecome essi furono, validi ministri di salvezza.

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Basti l’esplicita dichiarazione di s. Paolo, cheriassume un’esistenza vissuta nella rinuncia: «Tuttoormai io reputo una perdita di fronte alla sublimitàdella conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, peril quale ho lasciato perdere tutte queste cose e leconsidero come spazzatura, al fine di guadagnareCristo» (Fil 3, 8).

Se è vero che i giovani sono stupende miniere esono generosi, non è lecito presentare loro un cri-stianesimo mutilo o approssimativo, obliterando leesigenze di un carisma d’amore che domanda ai‘scelti’ una risposta unica, riservata, totalitaria: nonsarà forse alla stregua di questa esigenza oblativatotale, che noi sapremo discernere nei famosi germidi vocazione (divenuti col passare degli anni indi-zi e prove) la chiara volontà di Dio?

L’allenamento a questa virtù austera, che fa idritti, i duri, i decisi, i santi («Dura lex, sed neces-saria lex») avviene lentamente, ma senza incertez-ze da parte dell’educatore entrato ormai nelle vistedello Spirito.

Liberare il giovane da idiozie, da megalomanie,da capricci, da inclinazioni e vizi, da attacchi a quan-to sa di peccato – perché a esso conduce o da essoderiva – dalla servitù delle cose e infine da quantogli rende impacciato il cammino, è un servizio inap-prezzabile e impagabile. La più bella libertà, non èforse quella di non aver esigenze e impacci?

Non sarà poca cosa persuadere il seminarista acontrollarsi meglio nelle spese, a non esigere daisuoi, a non sciupare il boccon di pane o il foglio di

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quaderno; ricordandogli, fin dalle prime battute, lafame di molti, il sudore e la fatica dei famigliari ei sacrifici di benefattori e amici del seminario o del-l’istituto.

Non è da poco educare a scegliere e a scartare,con l’intelligenza e il gusto delle cose superiori, perun ideale sublime: saranno eliminati sia il pericolodel formalismo (facile negli ambienti chiusi), e quel-lo non meno insidioso del conformismo; nemici chesi eliminano andando contro corrente (innanzi tuttocontro la corrente che tumultua in noi).

Ma chi riuscirà oggi a creare nei giovani il gustodelle cose ardue?

Uno solo, il Maestro.Quando un giovane ha scoperto Gesù, ha trova-

to chi gli può fare il pieno per la realizzazione dimirabili imprese (Philp 4, 13: «Omnia possum...»).

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Lasciarsi abbracciareda Cristo

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Il Cristo non è un maestro accomodante, pur tra-boccando sempre indulgenza verso ogni sorta diinfermi e di peccatori: ai suoi programma il massi-mo, la perfezione, la santità; e ad essi si offre peressere la loro ‘santità’. Segno di grande fiducia nellascolaresca, che si vede invitata e fatta capace di rag-giungere traguardi altissimi; non potrebbe esserediversamente, stante la tassa di iscrizione così one-rosa.

Per aderire a tale programma bisogna ammet-tere che ci vuole un bel coraggio, quando non sidimentichi di quale creta siamo fatti: ci vuole ilcoraggio dell’eroismo, di chi si consuma d’amo-re.

Che cosa non sa fare l’innamorato?Santità, follia degli innamorati del Cristo.Per chi si butta nelle braccia del Cristo e non ha

altri per cui vivere e morire, la santità è fusione,comunione, identificazione, intimità divina, para-diso in terra e nel cielo.

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Per i ‘scelti’ che accettano il dono carismaticodella vocazione, non esiste alternativa fuori dellasantità.

Esigenza d’amore, la santità è vita d’amore. Chiama, è santo; chi ama da folle il Cristo, è il Cristostesso che in lui si esalta nell’amore infinito che èDio. L’Emmanuele fa così l’amore a chi accetta l’a-more.

«Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»(Gal 2, 20): constata san Paolo, innamorato ormaiperdutamente del Cristo; e tale forza sovrumana gliproduce la fusione trasformante di sentirsi capacedi sfidare tutti e l’universo: «Chi ci separerà dun-que dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione,l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, ilpericolo, la spada?... Io sono infatti persuaso chené morte né vita, né angeli né principati, né pre-sente né avvenire, né potenze, né altezza né profon-dità, né alcun’altra creatura potrà mai separarcidall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore»(Rm 8, 35.38-39).

Egli è il «Santo di Dio» come proclamò Pietro ecome dovettero riconoscere i demoni (cf. Gv 6, 69;At 3, 14; Mc 1, 24) ed è il Santo degli uomini che ade-riscono a lui: la santità divina offerta alla miseria deipeccatori, affinché se ne impossessino e ne vivano.Vivere di Gesù, che altro vuol dire se non vivere disantità? Le sue parole, la sua Carne e il suo Sangue,la sua Chiesa, tutto egli offre al nostro anelito versol’infinita bellezza, purezza, santità e perfezione.

Quando un giovane si lascia abbracciare da lui,è finita per la mediocrità. Col Cristo ci si strappa

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finalmente da ogni connivenza con l’errore e colpeccato; ci si libera dalle sbarre traditrici dell’or-goglio; ci si emancipa dal fascino seducente dellavanità; per fissarci per sempre alla roccia, all’es-senziale, all’assoluto, all’eterno, all’infinito. Unsimpatico adolescente di Bologna, sulla foto man-datami in dono scriveva con l’entusiasmo di chi hafatto la più bella scoperta: «Con te, Gesù, o mori-re».

La santità dunque è tutta qui, nel vivere abbrac-ciati al Cristo, l’Uomo-Dio, tutto donato a chi locerca con cuore sincero. Qui sta l’OGNI BENE peril giovane che sospira le più alte realizzazioni. Man-giare con appetito insaziabile l’Eucaristia; rilegge-re il Vangelo fino a subirne il fascino; amare la Chie-sa fino all’ebbrezza (come gridava Caterina daSiena): ecco il giovane diventato col Cristo anch’e-gli “santo di Dio”.

E’ di questa plasmazione mistica che dobbiamoparlare «opportune, importune» (2 Tim 4, 2) ai nostriallievi, offrendo la convincente testimonianza diquanto sa fare l’amore di Cristo nella nostra gioiadi appartenergli e nella nostra (che è la Sua) santitànon equivoca.

La Chiesa ha bisogno di santi, di queste follied’amore che sono i preti e i religiosi santi: il celi-bato sacro, la perenne diaconìa, e un’incessantericerca delle cose «quae sursum sunt» (Col 3, 1)torneranno a creare quegli eroismi che finalmentefaranno risorgere l’umanità travolta negli abissi delmaterialismo.

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A 12 giorni dalla morte il Servo di Dio card.Schuster (18 agosto 1954) così rispondeva ai semi-naristi che volevano da lui un ricordo:

«Voi desiderate un ricordo da me. Altro ricordonon ho da darvi che un invito alla santità. Oggi lagente pare che non si lasci più convincere dallanostra predicazione, ma di fronte alla santità anco-ra crede, ancora s’inginocchia e prega. Pare che lagente viva ignara delle realtà soprannaturali, indif-ferente ai problemi della salvezza.

Oggi il mondo non crede più a niente. Ma se unsanto autentico o vivo o morto passa, tutti accorro-no al suo passaggio. Ricordate le folle intorno allabara di don Orione e di don Calabria?

Non dimenticate che il diavolo non ha paura deinostri campi sportivi, non ha paura dei nostri cine-matografi; ha paura invece della nostra santità.

Siate santi.Santi, salverete le anime.Scienziati, sociologi, sportivi, farete ben poco».

Invito antico, ma sempre fresco e attuale: vienedai secoli, fin da quando ai figli di Aronne Dioingiungeva una condotta irreprensibile: «Sarannosanti per il loro Dio e non profaneranno il nomedel loro Dio, perché offrono al Signore sacrifici con-sumati dal fuoco, pane del loro Dio; perciò saran-no santi... perché io, il Signore, che vi santifico,sono santo» (Lv 21, 6.8).

Appello accorato della Chiesa in un’ora di tem-pesta, come scriveva Paolo VI ai Vescovi: «Sì, ilmondo ha bisogno dei santi, perché in essi è Dio

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stesso che ci parla: Egli ci offre un segno del suoregno, al quale siamo potentemente attratti» (Quin-que iam anni; L.G. 50/B).

Lanciamo ai nostri giovani fin dai primi passiquesto programma, diamo loro fiducia e la speran-za delle cose grandi e sublimi! Non si dica che sonocose superate, perché nulla supera il Cristo; la san-tità degli uomini è l’Emmanuele che vive in fragi-li crete, per farne vasi di elezione dai quali verrà lasalvezza.

«Santi, salverete le anime».Mi è giunta in questi giorni l’eco di una campa-

gna stupenda nella quale, in pieno accordo comu-nitario, superiori e allievi, si è deciso di puntareverso la santità, concentrando le forze e gli entu-siasmi a quel culmine. Ritornano alla mente le paro-le di Pio X: «...E ci saranno santi tra i fanciulli».Questa campagna si sta combattendo in una sparu-ta scuola apostolica che ancora crede e spera; pochiforse saranno sacerdoti, ma a tutti è promessa eofferta la promozione alla santità, che è perfezionedi tutto l’uomo battezzato in Cristo: «Tutti nellaChiesa – dice il Concilio – sono chiamati alla san-tità...» (L.G. 39); «Oggi abbiamo grandissimo biso-gno di santi, che dobbiamo implorare da Dio conassiduità» (Christifideles laici 16/C).

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Quando Cristorapisce il cuore

28.

Donarsi in amore a Cristo non è mai stato faci-le; oggi, se dobbiamo fidarci delle statistiche, pareche pochi Lo amino appassionatamente, perduta-mente: per questo la Chiesa domanda con forti gemi-ti che il divino Sposo le dia santi.

«Con te, Gesù, o morire», aveva protestato quelgiovane in un’ora di spirituale incandescenza; manon andò oltre il comune confine della mediocrità,pur avendo ricevuto dalla Provvidenza una singolarecapacità affettiva. La ragazza finì per piacergli molto,troppo,... e i conti tornavano a meraviglia dalmomento che, nell’incanto, quella offriva dimen-sioni multiple. Non cadde tutto; a Gesù fu purelasciato un posto, sebbene un po’ conteso dai suo-ceri prima e più tardi anche da lei, che finì per maltollerare che il cuore fosse diviso: «Nessuno puòservire a due padroni» (Mt 6, 24), valeva anche perquel generoso adolescente.

A suo modo san Paolo stesso sentiva una puntadi gelosia, mettendosi dalla parte dello Sposo, per

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quelle anime che non avendo voluto sottrarre nullaall’amore del Cristo, gli avevano offerto nella ver-ginità sacra un cuore ‘indiviso’ (cf. 2 Cor 11, 2; 1Cor 7, 32-34).

Se l’amore è fuoco (cf. Lc 12, 49), quello cheCristo accende in chi gli vuol bene con ardore, s’ap-picca a tutto e consuma tutto. Quei fortunati primi,gli avevano portato in dote quel tutto da cui si eranodistaccati, non senza scarnificare il cuore, e piùtardi, dopo l’incendio pentecostale, gli avrebberodato in suprema testimonianza d’amore anche lavita (cf. Mt 19, 27; At 5, 41).

«Mi sono accorto – scriveva un aspirante alsacerdozio – che Dio mi ama di un amore ‘esa-gerato’...»: era sulla buona strada da qualche anno,e la bella scoperta sembrava lo mandasse alle stel-le; ma non durò alla prova del distacco da chi lostava per sedurre.

E’ ancora l’Apostolo che mette sul chi va là colo-ro che intendessero fidanzarsi al Cristo: «Temo che,come il serpente nella sua malizia sedusse Eva, cosìi vostri pensieri vengano in qualche modo traviatidalla loro semplicità e purezza nei riguardi di Cri-sto» (2 Cor 11, 3).

Un terzo aveva preparato le valige; c’era solo daprendere commiato dagli amici e dalle amiche: chemale? Il Vangelo insegna la buona creanza! PoveroVangelo tirato per tutti i versi, anche per quelli chenel Vangelo stesso sono stroncati (cf. Lc 9, 61-62).Bastò una moina, di quelle tanto congeniali allesignorine: e il viaggio mutò direzione. Non era pre-parato, a sedici anni?

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I Libri Sapienziali hanno pagine ammonitrici,che tuttora trovano troppo evidente controprovanelle aberrazioni sessuali che travolgono ogni diga.Beh, quel giovane, potrà sempre salvarsi per altrevie; il rotto della cuffia si può sempre trovare, maga-ri ‘in extremis’! E’ vero; ma anche questa ennesimavolta la tristezza non ha tardato a invadere quelcuore, così come avvenne all’ottimo adolescentechiamato dal Maestro: «Udito questo, il giovane sene andò triste...» (Mt 19, 22).

Non erano entrati nel seminario diocesano confini sospetti quei bravi giovani, che superate lemedie... si volle esperimentare con la cosiddettaprova del fuoco, iscrivendoli a un istituto scolasti-co superiore da sempre destinato alle ragazze dellacittà: la prova del fuoco andò male. Una di quellebuone mamme, che avevano tanto sperato e soffer-to, avrà pur biascicato nella sua umile ma validaesperienza di cose e di figli: «Non così si cuoce ilpane al forno!». Certi educatori spericolati, dovreb-bero andare a scuola dalle guardie forestali o daicontadini: imparerebbero che persino le pianticel-le destinate a rimboschire i monti e a sfidare sic-cità e tormenta, vanno introdotte nel forte clima‘soavemente’.

Il serpente che ingannò Eva sibilandole sfiducianella Parola e nell’Amore del Creatore, continua ilsuo mestiere: fa i guai di tutti con le sue insidie ele sue imposture, ma si fa scaltro e canaglia quan-do si tratta di scimmiottare un’anima fidanzata alCristo. Non importa se gli sponsali sono già stati

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celebrati, o se i ‘scelti’ sono già alla mensa delloSposo (cf. Gv 13, 10-11).

E quando la sfiducia entra nel cuore consacratodal supremo segno d’amore? Quando un altro, unaffetto intruso, una simpatia, un attacco indebito...ha sfondato ed è entrato? «Nessuno può servire a duepadroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferiràl’uno e disprezzerà l’altro» (Mt 6, 24). Sappiamo checosa possa significare quell’“odiare l’uno” e quel“disprezzare l’altro” quando si tratta di un coniugato;a quali tradimenti spinge il mal di cuore e il dispo-tismo dei sensi. Ma non sono minori i mali che gene-ra quel secondo padrone, quell’intruso che si avven-ta sul fuoco sacro acceso da una predilezione divi-na accettata e giurata con l’incandescenza di uncuore puro.

Quando un fidanzato si è ingolosito di un’altra,quando un coniuge ha tradito, tutto quello che ricor-da il primo affetto non interessa più, dice più nulla,dà fastidio: tutto è frantumato; persino il nome si vor-rebbe disintegrare, pretendendo dalla natura, chenon perdona, un radicale oblìo.

Non c’è età che tenga: il cuore e i sensi (quellopiù insistentemente di questi) non invecchiano, e inogni epoca sono sempre esca per il serpente sedut-tore e guastatore: una plurisecolare tristissima espe-rienza ammonisce che col fuoco non si scherza!

Nulla più attraeva nel ministero, nemmeno l’Eu-caristia, nemmeno l’apostolato tra i giovani; nem-meno la memoria di tante anime spirate col confor-to sacerdotale; niente più era valido e degno di con-

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siderazione per un confratello venuto a trovarmiprima di fare ‘divorzio’ da quello Sposo a cui avevain pienezza di vita donato tutto, appena qualcheanno addietro.

Non è facile l’amore, quando viene preso nel suounico senso e nella sua assoluta esigenza di dona-zione: non si brucia, che a prezzo di lasciarsi con-sumare. Non è facile fare il prete, anche se nulla almondo può eguagliarne la grandezza e bellezza;perché non è facile amare perdutamente, come Cri-sto a ogni prete domanda nel mistico sposalizio ope-rato nella sacra Ordinazione.

Ma se il chiamato, con un cocente impegno didominio dei sensi e del cuore, nulla sottrae alla obla-zione di sé, chi più felice di lui?

«Come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuoDio gioirà per te»! (Is 62, 5).

Chi più vivo di lui? Chi più fecondo di lui?«Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a con-

tarle... Tale sarà la tua discendenza» (Gn 15, 5).Lo Sposo divino non è mai così vicino al suo

sacerdote, come nell’ora della prova: «Non temere,Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa saràmolto grande» (Gn 15, 1).

Ma ritorniamo ai nostri allievi, ancora in cerca diun orientamento vocazionale, spesso indecisi e insta-bili, pur nella buona e retta intenzione di fare lavolontà di Dio.

Ammesso che tutti nella comunità seminarilesiano nella comunione dello Spirito, educati alla

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fraternità più cordiale, quali chiamati accetterannodi appartenere al Cristo come e assai più intensa-mente che una sposa al suo sposo? “Te solo e persempre” in un fidanzamento – «ut unum sint» – trauna fragile piccolissima creatura e il Cristo Dio: èpresto detto, ma è un affacciarsi sugli abissi.

Preferenza misteriosa che viene data e accetta-ta: scambio d’amore unico e indissolubile.

La scintilla che suscita l’amore per gli sponsalicol Cristo, sia nel sacerdozio che nella vita consa-crata, si stacca dal Cuore di Cristo in un istanteverso cui dall’eternità gravita un amore infinito‘riservato’ (l’iniziativa è da Dio, dalla eternità quin-di), e si appicca al prescelto in un momento che hadell’imprevedibile, del misterioso, dell’ineffabile, incui l’uomo accetta la singolarità dell’amore e rispon-de con una oblazione esclusiva e definitiva (cf. Gv6, 70; 15, 16; 17, 18; 1 Gv 4, 10).

Momento che trova raffronto in quello perduto alprincipio della creazione, in quello della Incarna-zione del Verbo nel grembo della Vergine, in quel-lo della prima consacrazione sacerdotale nel cena-colo, in quello della nostra comparsa alla vita: istan-te che ha il mistero di una nuova nascita. A distan-za di anni lo andiamo cercando nei segreti dellenostre anime per deliziarcene come dell’abbraccioprimo di uno Sposo carissimo.

A noi educatori spetta di vigilare con premuraperché la scintilla divina scoppi nel cuore disponi-bile e preparato di coloro che Dio ha voluto per Sé.Aiuteremo il giovane, che presenta segni della divi-

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na chiamata, a vivere in pienezza di Grazia, a vive-re tra le creature «in povertà e libertà di spirito»(G. S. 37/D), a tenersi in ascolto come Samuele (1Sam 3), mediante una pietà cordiale, intima, e lavo-rando con impegno a quella promozione umana, cri-stiana e apostolica, che è premessa a una disponi-bilità concreta allo scoppio del grande incendio.

Che le fiamme di Pentecoste si posino sul capodei nostri allievi! In quel faustissimo istante è comesi riaprissero i cieli: «Questi è il Figlio mio predi-letto, nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3, 17); ècome ripetesse il Maestro: «Voi siete la luce delmondo» (Mt 5, 14); «Andate dunque e ammaestra-te tutte le nazioni... Ecco, io sono con voi tutti igiorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 19-20).

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Basta poco29.

Per realizzare una esistenza vissuta a tutto pienocol Cristo, è necessario che il fascino di Lui tengasaldamente e totalmente occupati mente e cuore,che Egli tagli l’aria, sia in testa, mai eclissato,mai offuscato. A questo patto si avverano le pa-role di Paolo (Rm 8, 35) e le promesse stupendedel Salmo 15: «Io pongo sempre innanzi a me ilSignore, sta alla mia destra, non posso vacillare.Di questo gioisce il mio cuore, esulta la miaanima; anche il mio corpo riposa al sicuro» (Sal15, 8-9).

Infatti altri volti e altre cose attirano i sensi, lafantasia, il cuore, tutto il nostro essere pervaso dalleconcupiscenze come da altrettante correnti elettri-che. Basta poco, perché un sacco di tritolo esplodae butti all’aria ogni proposito; basta un cerino, uncomplimento, una lucciola, un’ombra, un leggerosoffio di vento, un sottile foglio di carta... per nascon-dere il sole!

Siamo al sicuro soltanto quando teniamo fissi gliocchi (ma tutt’e due!) sul Dio delle nostre scelte:allora tutto in noi si sente soddisfatto e al colmo, la

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mente, il cuore; e persino la carne inferma riposatranquilla.

Attenzione, dunque, alla cronica tendenza allaidolatria di noi stessi, che riverberandosi di conti-nuo sulle persone e sulle cose genera la “fascinationugacitatis” che accieca. A noi tocca imitare i cicli-sti in gamba, che sanno passare veloci attraversouna massa di gente e di robe, scansando magistral-mente ogni ostacolo. Le creature non devono disto-gliere da Colui al quale abbiamo dato tutto: questoil nostro dovere, questo il nostro banco di prova,questo probabilmente il quotidiano martirio e insie-me la garanzia di un vero amore, poiché «senzaamore non si vive, senza dolore non si ama».

La Scrittura ammonisce: «Il fascino del viziodeturpa anche il bene e il turbine della passionetravolge una mente semplice» (Sap 4, 12).

San Paolo raccomanda a Timoteo: «Devi anchesapere che negli ultimi tempi verranno momenti dif-ficili. Gli uomini saranno egoisti, amanti del dena-ro, ...attaccati ai piaceri più che a Dio» (2 Tm 3, 1-2.4).

Nel cozzo vince, logicamente, il più forte: coluiche in questo preciso istante dà tutto, non quasitutto. Che se qualche parte di noi è sottratta allatotale comunione con Lui, per questa fessura il fasci-no entra, sfonda e corrompe.

Tanto geloso, l’amore di Dio per gli eletti? Allagrandezza del dono è correlativa sempre una parigelosia, rispettosissima della nostra libertà: che sela grandezza del dono portasse a una benché mini-ma forzatura, la stessa grandezza del dono subi-

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rebbe iattura. In diretta proporzione, alla munifi-cenza del dono deve corrispondere l’entusiasmo delbeneficiario. Chi affiderebbe i suoi tesori ad unamico non del tutto sicuro? Non farebbe bene a riti-rarlo, per consegnarlo a mani più fidate? (cf. Lc 20,16).

Urge allenare per tempo ad amare di un amoreforte, robusto, temprato di rinunce, pagato di per-sona, con quella intelligente fuga che lungi dal-l’essere una sconfitta, è una autentica vittoria. Quan-do un brutto fuoco sta aggredendo la casa, non restache fuggire, e bravo chi si mette in salvo più lesta-mente. Quando scoppia una epidemia, è da saggidifendersi, rimanendone immuni.

Aspettare alla vigilia delle scelte più impe-gnative è un errore, salvo che non si arrivi al puntodi celare il volto austero e crocifiggente del sa-cerdozio di Cristo. L’idea del combattimento nonè estranea a una valida promozione umana («Nonha forse un duro lavoro l’uomo sulla terra...?»Gb 7, 1); né alla prassi di un cristianesimo inte-gro («Non sono venuto a portare pace, ma unaspada» Mt 10, 34); nulla quindi ci deve trattene-re dal preparare alla società e alla Chiesa dei forti,delle persone austere.

«Quando la cera supera la fiamma, la spegne»:una spregiudicata apertura al mondo e al suo spiri-to, ha spento tante belle fiamme, fuori dal semina-rio (tra coloro a cui avevamo lanciato l’amo), neinostri ambienti riservati e di nuovo fuori, là dovesacerdoti e religiosi gareggiano con gli invitati scor-tesi di cui parla il Vangelo (cf. Lc 14, 15-20).

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San Giovanni, il discepolo che non ha perdutouna sillaba alla scuola del Maestro e ne ha com-preso a fondo le attese, proprio ai giovani si rivol-ge senza sottintesi: «Ho scritto a voi, giovani, per-ché siete forti, e la parola di Dio dimora in voi eavete vinto il maligno. Non amate né il mondo, néle cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amoredel Padre non è in lui...» (1 Gv 2, 14-15).

E’ irragionevole pensare che un giorno Dio possarealmente cavar fuori dai nostri allievi, vissuti inun clima snervato ed edonistico, persone capaci divivere in perfetta castità, in diuturno servizio delleanime, in continua ascesi. Non è questa una grotte-sca farsa, una sacrilega parodia, una sfacciata ten-tazione di Dio?

Comodi e capricci (che non confondo con le esi-genze dell’igiene e con le necessità di una abbon-dante e accurata alimentazione e simili); il farsi ser-vire in troppe cose; la mancanza di buona creanza,di puntualità, di lealtà (è di voga la ‘diceria’ dellesistematiche copiature!); la familiarità irrispettosa;la ritrosia ad accettare la disciplina come «elemen-to integrativo di tutta la formazione» (cf. O.T. 11/B);e mille velleità rendono pressoché impossibile undiscorso serio all’insegna della Croce.

Il Vangelo non muta: la strada che apre davantiai giovani è ancora quella stretta percorsa dal Mae-stro e dagli apostoli. E’ la “Via Crucis” che devonopercorrere coloro che al Cristo intendono accom-pagnarsi per la vita: non ne esiste altra.

Non lasciamoci ingannare.

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Non inganniamo.E’ la Croce che fa i santi.Il ruolo dell’educatore qui è stupendo: quello

dell’Angelo (messaggero di Dio) che passa la nottea combattere con Giacobbe per dargli la gioia diaver vinto una battaglia eccezionale che lo renderàcapace di vincere gli uomini (cf. Gn 32, 23-33). Chilo esercita senza cedimenti o compromessi, alla finesarà riconosciuto come una benedizione di Dio.

«Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!»,disse Giacobbe a conclusione dello strano pugilatoche gli meritò il titolo, unico nella storia, di Lotta-tore con Dio.

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Eclissi inevitabili,scontate, benedette

30.

Questa lettera l’ho ricevuta ieri sera mentre met-tevo in ordine i miei appunti; la scrive un candida-to di istituto religioso (18 anni – 2a liceo).

«Grazie infinite per la sua ultima; mi ha fattobene e mi ha cambiato un po’ le idee. Ho prova-to a ringraziare Dio quando mi si nascondeva.L’ho ringraziato quando mi sentivo triste, quan-do non riuscivo a pregare, quando mi sembravadi non concludere niente. Mi sono sentito piùpieno, più felice, più vero.

Certo è difficile ringraziare Dio quando si na-sconde. Ma è fin troppo vero che posso scambiar-mi per Dio, e mettere il mio egoismo al posto diDio. E forse quando volevo amare Dio, lo amavoper qualcosa. Lo amavo sì accettando di soffrire,volendo soffrire, ma tutto questo per essere sem-pre felice. Non devo amare Dio per essere felice,ma solo per rispondere al suo amore...

Io sono contento: sento in fondo all’anima lapace; cerco di non arrabbiarmi più, né con gli

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altri, né con me stesso. Quando mi sento pecca-tore e mi vedo povero, lo dico al Signore: “Vediche sono povero; ho sbagliato, ti chiedo perdo-no; aiutami Tu ad essere più buono”. Cerco dipregare di più e di non lamentarmi mai. Mentrelavoro, aspetto il Signore, che venga a prender-mi prima il cuore, e poi mi prenda con sé tutto.

La ringrazio, suo...».

La felice combinazione, invoglia a rispondereinsieme; non è poi così raro incontrare adolescentiche brancolano nel buio o nella nebbia, pur cam-minando sulla strada giusta.

«Mio..., il tuo biglietto mi raggiunge nel nova-rese; te ne sono gratissimo: la tua sincerità, schivadi frange, insegna sempre qualche cosa, come inquesta occasione: ti indirizzo questi appunti, chevorrei raggiungessero altri bravi ragazzi, decisi comete.

Mi compiaccio con te che stai combattendocome Giacobbe con l’angelo di Dio, con Dio stes-so, e per l’identico scopo, quello di crescere ro-busto nello spirito, così da poter un giorno lotta-re e vincere alla testa degli uomini. Capisco: tupreferiresti altro genere di lotta, altre tribolazio-ni, e gemi: almeno Lo potessi sentire Dio! Gia-cobbe aveva la stessa brama (è di tutti!): “Dimmiil tuo nome”!

Dio è lontano soltanto quando lo si allontana,non quando non lo si vede o non lo si sente: Dio sieclissa, non si allontana. Quando il sole si eclissa,

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rimane saldo e sfolgorante al suo posto, anche senoi ci troviamo immersi nel buio più fitto.

Va scontato che ci vogliono le eclissi, come nel-l’universo, così nel cielo dell’anima: per non esse-re colti di sorpresa e tremarne troppo, bisogna accet-tare in partenza questo stile divino e prepararsi daforti. Giacobbe lottò con Dio nella notte, e fu cer-tamente una interminabile notte quella! In almenodiciotto Salmi tu puoi trovare un riscontro al gemi-to di questi giorni di eclissi del sole: “Il tuo volto,Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto”(Sal 26, 8-9).

E’ pacifico che l’ascesi più generosa non deveignorare le mille contingenze con le quali ogni crea-tura deve fare i conti: la stanchezza (fisica o spiri-tuale), una punta di esaurimento, persino una catti-va digestione, o una notte insonne, o un’opera santache ci ha gravato le spalle oltre il limite delle forze,una forte tensione magari causata da preoccupa-zioni varie...

E ci sono delle eclissi provocate da noi, chestoltamente siamo usciti dal cono della luce edentrati nell’ombra di morte; ma la tua lettera esclu-de questa accusa, giacché ti ritrovi con la pace nel‘fondo’ dell’anima, dove nel suo giusto posto ri-siede lo Spirito. Non resta allora, che accettare leintenzioni di Dio, quando si eclissa e “fare di ne-cessità, virtù”. Dio costuma nascondersi perchéLo andiamo a cercare; finge di mancare all’ap-puntamento (Lui, fidanzato insuperabile!) per darciquella strana gioia sposata al dolore che si provanel cercarlo, magari fra le spine, negli anfratti

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delle rocce che feriscono; è un profeta che ce nefa avviso: “Così dice il Signore alla casa di Israe-le: Cercate me e vivrete!... Cercate il Signore evivrete” (Am 5, 4.6).

Isaia (cf. 45, 15) sancisce un’esperienza univer-sale e la proclama attributo divino: veramente Dio,il nostro Dio, è nascosto. Nascosto nella natura,nelle sue leggi, nei suoi fenomeni, nelle sue forze,tra i petali delle rose e tra le spine, sul volto di unamamma e negli occhi di un bimbo, come nelle pia-ghe di un sofferente di anima o di corpo o di cuore;nelle pagine della storia dei singoli e dei popoli;nascosto sempre, anche nel Verbo Incarnato, nelmistero della Presenza eucaristica come nel miste-ro del Corpo mistico; nei peccatori e negli inno-centi; nei fratelli (simpatici o nemici) e in coloroche ci guidano con autorità; nascosto lo SpiritoSanto, nel segretissimo lavorio della nostra santifi-cazione.

Ora si è nascosto in un angolo buio del tuo cuore,e attende che lo vada a cercare: è il gioco del rim-piattino, è la caccia al tesoro, è la delizia dellaSapienza (cf. Pro 8, 31). Per te nulla di più vantag-gioso: ognuno di noi diventa, infatti, ciò che cerca(cf. Sal 13, 2): chi cerca vanità, diventa vano; chicerca il peccato, diventa peccatore; chi cerca Dio,diventa divino, come infallibilmente proclama sanPaolo: “Chi si unisce al Signore forma con lui unsolo spirito” (1 Cor 6, 17).

Altre volte si è nascosto, lo hai cercato e tro-vato con gioia sempre nuova; tanto più intensa,quanto più durasti fatica a rintracciarlo, tanto era

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nascosto! Proprio come nel bel gioco del rim-piattino.

Il bello è (te lo dico non per gettarti il laccio dellapresunzione!) che quanto più Dio s’innamora diun’anima (la tua è una di queste!), tanto più si vuolesincerare della genuinità della risposta. Tu stesso tisei accorto che a volte, mentre con la bocca o conla penna diciamo di amare Dio, è il nostro ‘io’ chesi fa avanti, lui l’arrivista, che non si perita di con-tendere con Dio persino quando lo chiama ‘suo Dio’:temo che troppe volte le orecchie del Signore, chesentono le intenzioni del cuore, siano costrette adascoltare delle burle come queste: “Mio Dio, io ‘mi’amo; io ‘mi’ cerco; io ‘mi’ voglio!”. Buon per noidunque, se Dio si nasconde per aiutarci ad essereautentici almeno con Lui!

...Cercare, bisogna, con desiderio sincero, confame, con brama; si tratta di cercare il sommo Bene,non un qualsiasi tesoro: è difficile che trovi funghichi non va di buona voglia; magari ci pesterà sopra...senza vederli: non ne ha voglia, non li desidera.

Abacuc ha un suggerimento da darti; fa per teche avendo i nervi a fior di pelle non ti adatti agliindugi: “Se indugia, attendilo!” (cf. 2, 3).

Sopportare virilmente le dilazioni di Dio (cf. Sir2, 1-6), le sue eclissi, le cosiddette “notti dell’ani-ma”..., non è tempo perso: è tempo di verifica, dipurificazione, di cura, di rinvigorimento dello spi-rito: non devi imitare, perciò, le cinque ragazze stol-te, che hanno poltrito nella attesa, ma cerca chi ti diauna indicazione (come fa l’arbitro o la segnaletica

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nella caccia al tesoro), apriti col tuo direttore spi-rituale o col confessore, cerca nel Vangelo una pagi-na che faccia per il tuo caso, forse qualche trattodella Passione, sta’ saldo alla roccia, legato allacorda del compimento fedele (anche se arduo nellearidità del cuore) del tuo dovere; e a dispetto delbuio, gioca e sta’ allegro: “Exspecta Dominum, estofortis, et roboretur cor tuum, et exspecta Dominum”(Ps 26, 14).

Piano piano vedrai le stelle, proprio nel buio:cioè sentirai delle ispirazioni o mozioni spirituali,che fino a quell’ora non avevi sperimentate: non sicerca mai invano, come il Vangelo promette (cf. Mt7, 7).

Sarà così anche domani e doman l’altro, anchequando fossi diventato, come so essere tua segretaintenzione, Pastore d’anime, Maestro in Israele, unaltro Cristo: l’ora del Getsemani e l’agonia dellaCroce sono il preludio della Pasqua e della Ascen-sione!

Sii forte! Sii contento, e chiamami ancora adassistere alle eclissi di Dio, sempre benedette!

Tuo...».

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Il pericolodella solitudine

31.

«Guai a chi è solo!» ammonisce il Qoèlet (4,10), e l’esperienza gli ha sempre dato ragione; ca-somai si domanda se oggi ci si possa sentire soli,quando è stata accorciata la distanza persino conla Luna, e se appena si vuole, si ha il mondo incasa.

Appare assurdo parlare di solitudine nei semi-nari, dove convivono molti ragazzi e giovani, incerte diocesi addirittura a centinaia; ma il pericoloc’è, è giusto rifletterci.

Non è quell’attimo di solitudine che ogni novel-lino sente la prima volta (o le prime volte!) che,lasciata la famiglia, entra in una comunità estranea;quella la vuole madre natura e va accettata e tal-volta pagata con qualche lagrimuccia: dura poco, enon è dannosa, per qualcuno è una buona lavatinache farà pensare con più riconoscenza ai cari lascia-ti (forse c’è, fra i lettori, chi ricorda la prima nottepassata in branda sotto la ‘naia’ e quelle benefichelavatine di cuore...!).

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Col passare degli anni, soprattutto nell’età dellapiena adolescenza (14-16) un sentimento vago sulprincipio, poi sempre più vivace di solitudine si fasentire fino alla sofferenza: le ragioni che postula-no questo sentimento ambivalente non sono poche;noi diciamo che è l’evoluzione propria della cre-scita che sfocia naturalmente in questo senso dismarrimento, di autoinsufficienza, di incertezza, edi conseguenza in un acuto bisogno di evasione, diintegrazione, di associazione.

Per quello che qui interessa, diciamo che l’ado-lescente non deve mai sentirsi solo, isolato, stacca-to, disunito, non compreso, non allineato, non inte-grato, non pienamente soddisfatto nelle nostre comu-nità.

C’è senza dubbio una solitudine che fa bene eva apprezzata anche dai giovanissimi: la celebre‘beata solitudo’ dei santi, anche dei più dinamici, cheha fatto loro sentire e godere la presenza di benitrascendenti, che nel frastuono e nelle molte chiac-chiere non si manifestano. Sono le felici pause odoasi nelle quali Dio sussurra la sua Parola, ed entrain dialogo con chi lo cerca (cf. Mt 6, 4-6); l’inabi-tazione misteriosa della Trinità in un’anima vivifi-cata dalla Grazia (cf. Gv 14, 23) diventa esperien-za quasi palmare; la fuga inesorabile del tempo versola foce (la morte) e l’oceano della eternità, vieneintercettata; è accolto il silenzioso e travolgente ser-rarsi dei fratelli (di tutti i fratelli dell’universo!)all’uscio di casa tua.

L’infinito peso dei misteri e dei destini umani,solo nel silenzio trova il giusto clima per una con-

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ferenza ‘al vertice’ dalla quale non ci si può esi-mere, pena il risveglio di quella disperazione cheinconsciamente (strane antinomie del cuore!) fagemere nella solitudine maledetta, che non va maicercata.

La solitudine del ‘silenzio’ va fatta stimare edamare come una benedizione: in essa il ragazzogradatamente (e misurandogli persino il minuto)viene avviato al dialogo con lo Spirito, a medita-re, a captare le onde dell’umanità e la voce del-l’Eterno, e a ritrovare se stesso nella quotidianaverifica (esame di coscienza). Opportuni si rive-lano ed efficacissimi i ‘ritiri’ spirituali, studiatinei dettagli, durante i quali il ragazzo fa l’espe-rienza di Dio e può affermare sul suo diario: «Dioesiste, io l’ho incontrato». Quante volte ho senti-to o letto questa confessione sfuggita da cuori tra-boccanti di gioia! E’ in questa solitudine piena dicomunione con lo Spirito, che si tracciano i sen-tieri di Dio (cf. Is 40, 3).

E c’è la solitudine perniciosa, maledetta, creatadall’egoismo che fa di un essere naturalmente e pervocazione cristiana sociale, un isolotto languido edeserto dove possono trovarsi a loro agio i più viliripiegamenti, le più volgari esperienze di impurità,le più strane idiozie, e inevitabilmente, una segre-ta apostasia da Dio (cf. 1 Gv 4, 20-21). Se questa sifa cronica tutto è in pericolo, giacché l’isolato, sitrova ‘solo’, in uno stato abnorme: qui molte voca-zioni (prima o, peggio, dopo) possono trovare latomba.

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Da questo male dobbiamo premunire e rendereinvulnerabili i nostri quant’altri mai: non devonoconoscere questa razza di solitudine, né ora né poi.Stranieri agli altri, stranieri a Dio, non tarderannoa sentirsi forestieri ed enigmatici a se stessi e insod-disfatti di tutto.

Qui si vede la necessità di un orario duttile, va-riabile; qui l’urgenza delle ricreazioni comunita-rie, rumorose; qui si impone lo spirito di fami-glia, ma di una famiglia ideale, dove si viva l’unoper l’altro, dove il dramma di ognuno sia non ap-pena avvertito, ma ‘sentito’ dagli altri, da tutti:dalla comunità ogni membro si deve sentire ca-pito, seguito, integrato. Va coltivata e favoritaquella sana amicizia che, a cerchi sempre più vasti,arriva a tutti i compagni, ai superiori, come ad al-trettanti famigliari.

Ci si domanda sempre se mai sia possibile crea-re e conservare questo benedetto stile di famigliain un ambiente che sa di scuola, che si muove a suondi campanello o di fischietto, dove fin troppo siparla di superiori e di sudditi, ecc.: ma sì, ogni sfor-zo va fatto, perché nonostante la cornice, semprediscutibile e aggiornabile, il quadro ci sia e attraen-te. E’ proprio questo tipo speciale di famiglia che puòpreparare il futuro ministro di Dio e pastore di anime,il quale pur nella solitudine del celibato sacro, dovràsentirsi nella comunità religiosa del suo istituto onella cura d’anime, come in famiglia, nella più carafamiglia, quella nata non dalla carne o dal sangue,ma dalla paternità sacerdotale.

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Si deve sentire immerso in un cerchio di ‘amici’,quegli stessi che accompagneranno i ‘scelti’ nel-l’immenso campo apostolico: gli amici del Cielo, l’a-dorabile Paternità di Dio, la divina Eucaristia, laVergine, i Santi; gli amici della terra, la Madre Chie-sa, il Vescovo, i superiori, i condiscepoli (domani,forse, confratelli), l’umanità, l’universo. Non vannoesclusi quegli ‘amici silentes’ che sono i libri, ilproprio diario, e quegli hobbies capaci di scaricarei nervi e di ossigenare i polmoni (musica, sport,qualche lavoro manuale...).

Non devono restare fessure aperte alla malinco-nia.

Anche «i rapporti con la propria famiglia» (cf.O.T. 3/A) vanno valorizzati allo scopo di elimina-re ogni tentativo di solitudine: da questa il chiama-to si staccherà adagio e assecondando le istanze diun amore divino sempre più sentito e goduto. Saran-no le rinnovate scelte a operare quei distacchi cheGesù domandò ai suoi primi e che può esigere anco-ra.

D’altronde non è diversa la sorte di coloro chefondano una propria famiglia: piano piano si stac-cano dal primo nido, per farne uno nuovo (cf. Gn 2,24). Ma questo distacco non sarà domandato a tuttiallo stesso modo, ai sacerdoti diocesani come aireligiosi; comunque a tutti con estrema delicatezzae gradatamente.

Le comunità religiose poi, che come Gesù stes-so promise (cf. Mt 19, 29) suppliscono almeno centovolte all’affetto domestico, devono fin dai primi

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incontri con i loro ‘aspiranti’ offrire ante litteramuna testimonianza incandescente di affetto, sì daassicurare che, se Dio domanderà il sacrificio di undistacco totale, avrà già preparato loro una nuova,grande, amabile famiglia, così come Gesù che, aven-do lasciato la sua di Nazareth, s’è premurato di far-sene un’altra, quella degli apostoli; e questi pure,avendo dato l’addio a moglie e a genitori, hannotrovato nella nuova famiglia, della fede e della voca-zione, il centuplo senza rimpianti.

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Clima di Fede32.

Sopra un settimanale cattolico dell’8 marzo 1970un allievo di teologia faceva pubblicare:

«Il seminario, a nostro avviso, potrà essereuna facoltà di teologia da frequentare per ottenerediplomi e cultura, ma non è più, purtroppo, unascuola di vita».

L’articolista metteva a nudo una situazione dicosì ‘scarsa Fede’ da lasciare pensosi e allarmati.Fosse quella una rondine che non fa primavera!

Negli esercizi e ritiri predicati in diversi seminarie istituti e dalle confidenze avute da molti ‘nostri’adolescenti e da un numero non irrilevante di chie-rici di teologia, è emersa una strana constatazione:«Si parla poco di Dio e delle sue cose» nei nostriambienti riservati! Eppure qui Dio è di casa, indub-biamente, almeno di diritto.

C’è del mimetismo rimarcato (olim rispettoumano o coniglismo o conformismo!), che vorreb-be giustificare assurde reticenze col futile pretestoche la sacralizzazione dei seminari minori porte-

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rebbe pregiudizio alla libera espansione della esu-beranza e indurrebbe insensibilmente a formulare deiprogetti (non si vogliono più chiamare ‘ideali’!)frutto di pressioni e di inibizioni, anziché di con-vinzioni e di spontaneità.

Se è più che doveroso liberare la pietà da vanestrutture ritualistiche e da forme grottesche, non sicapisce come religiosità pura e libera da artificio-sità, possa essere sinonimo di ottusità o di cupismoo di ostruzionismo alla più ampia affermazione dellapersonalità dei nostri allievi.

Non nego che “la scopa della distruzione” (cf.Is 14, 23), abbia portato dei buoni servizi in certiistituti e seminari, dove educatori passatisti eranoassurdamente aggrappati alla muffa e allo sclero-tico; ma è antistorico e ingiusto accollare alla nostrapedagogia cattolica e seminarile ‘in primis’ l’im-putazione di invadenza o di sopraffazione dellalibertà.

«O Religione, o bastone», affermava don Bosco,mettendo l’una in netta contrapposizione all’altro.

«Scrupoli e malinconia, fuori di casa mia», avevaordinato quel simpaticissimo prete, Padre Pippo (s.Filippo Neri)!

Una ben intesa e praticata religiosità, lungi dalportare alla tristezza, mette l’ali per volare e spaziarenella piena verità, che libera e fa ultrafelici i figli diDio: a questa prassi si sono sempre allineati i gran-di educatori della Chiesa Cattolica; a questa metatendono i nostri pensieri, affinché in nessun cuoreci sia tanta serenità come nel cuore della diocesi, ilseminario.

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Condanniamo perciò senza equivoci quello stile‘laico’ che porta a chiudere la bocca che deve esal-tare le grandezze di Dio, a relegare la pietà in unacappella o in un determinato scaffale della giorna-ta, sotto chiave naturalmente, perché il profumo del-l’incenso non guasti l’aria!

Che pensare del tentativo, senza seguito logica-mente, di un gruppo di seminaristi del ginnasio diproporre con insistenza l’abolizione della lezionedi religione, come “inutile e fastidiosa”? Ho sottogli occhi non poche lettere e questionari di semi-naristi che testimoniano della assurda reticenza, del-l’assenteismo, della liberalizzazione laica che, aforza di compromessi ed equivoci, falsifica l’au-tentica fisionomia dei seminari.

Le conseguenze, chi non le vede?

«Fede, fede, fede!»: scrive nel suo diario il card.Giovanni Urbani, non privo di una buona esperien-za di seminari e di clero e parimenti innamorato diMadre Chiesa. Dentro questa misteriosa nube (cf. Es13, 21-22) prenderà dimora stabile il ministro diDio, per essere un degno e felice ambasciatore, pre-muroso pastore di anime e guida sicura verso laTerra Promessa. A questa aria di Fede si deve accli-matare per tempo il candidato, il quale entrando nelseminario sia pure in giovanissima età, avrà nulla datemere da questo clima saluberrimo; troverà anzinei principi e nella prassi della Fede uno stimoloche lo solleciterà a realizzare in pienezza tutti italenti ricevuti mettendoli a servizio della Chiesa edell’umanità.

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Il pensiero, ad esempio, della Onnipresenza divi-na non sprona forse a compiere fedelmente e gioio-samente il proprio dovere, affatto preoccupati deglisguardi degli altri?

Il pensiero della eternità che ci perseguita e cicostringe a non poltrire, non sarà un energetico diprim’ordine che, dando il senso divino del tempo,mette fuoco ai piedi per fare “presto e bene”?

La certezza che ognuno di noi può contare sullaadorabile Paternità di Dio non toglie già in parten-za ogni possibilità di tristezza o di scoraggiamentonelle inevitabili crisi?

Una condotta improntata alla Legge di Dio, accet-tata e amata, non libera e spinge alle sconfinatedimensioni della carità? Di che cosa non sono capa-ci i giovani innamorati del Vangelo e del precetto del-l’amore fraterno?

Sotto una copertura di anticonformismo sinasconde purtroppo la debolezza dei princìpi e latimidezza della loro professione in coloro chedovrebbero essere la colonna di fuoco che precedee fa chiaro nei seminari (cf. Es 13, 21-22): è questala tragedia che pesa minacciosa sulla Chiesa santa?

Rigettiamo l’indottrinamento e il lavaggio delcervello come un inquinamento della nostra peda-gogia plurisecolare; ma non ci prenda la paura dellapaura, per finire vittime di un lassismo, peggiore diuna sanguinosa persecuzione.

Diamo credito alla franca affermazione del Con-cilio: «Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, si falui pure più uomo» (G.S. 41/A).

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«Stella ista sicut flamma coruscat et Regemregum, Deum demonstrat»: si possa dire di ognieducatore di chiamati, e questi, come i Magi (cf.Mt 2, 1-12), valorizzando ogni buon sussidio diragione e di rivelazione, andranno incontro al Cri-sto, e come quelli godranno di un gaudio «magnovalde» per offrirGli con una crescente voluttà d’a-more il meglio della loro fresca età.

Fede nella Provvidenza Divina.Fede in Gesù Cristo, Uomo e Dio.Fede nella Chiesa, Madre e Maestra.Fede nella orazione, nei sacramenti,nella Parola di Dio.Fede nell’immenso valore della Grazia.Fede nella vocazione,come carisma, mistero e miracolo insieme.

Ci scuota la sentenza di Isaia che affida la nostrasalvezza, anche in quest’ora di dolorosa esperien-za di debolezza della Chiesa, alla taumaturgicapotenza della Fede: «Se non crederete, non avretestabilità» (Is 7, 9b); fanno eco le parole del Vange-lo: «Omnia possibilia sunt credenti» (Mc 9, 23);«Noli timere..., tantum crede...» (Lc 8, 50).

Fede, ma di quella buona, come diceva il Cotto-lengo, abbiano i nostri allievi, e ognuno meditandocon assiduità il Vangelo, le verità eterne, e le bio-grafie dei santi (veri campioni della Fede) si senta«saldo nella Fede» (cf. 1 Pt 5, 9).

Di Fede siano animati i famigliari dei ragazzi,soprattutto i genitori, i quali oggi solo da autentici

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motivi di Fede possono essere indotti a incoraggia-re nei figli una scelta vocazionale: chi non ricono-sce come benedizione del Cielo una parola, sem-plice e discreta detta o scritta da una mamma pienadi Fede, al momento giusto, quando proprio occor-re una delicata e affettuosa testimonianza di com-prensione e di aiuto morale?

Di molta Fede abbisognano i superiori, i quali,edotti dalla esperienza sanno che almeno l’80 percento dei ‘principianti’ non seguirà la traiettoria,per essi intenzionalmente tracciata, e sarebbero ten-tati di reputarsi più di chicchessia frustrati nel lorosacro ministero: Fede nell’apostolato giovanile ingenere, che sempre porterà dei frutti, magari dopoanni o ‘in extremis’.

Non si mostrino estranei alla Fede tutti gli inse-gnanti, compresi i laici, né mettano mai l’una con-tro l’altra la scienza e la Fede: non sono ambeduevolute dallo stesso Dio?

Mi è capitata nelle mani, pochi giorni fa, la let-tera di un seminarista liceale, che Fede vorrebbevedere, soprattutto negli insegnanti sacerdoti:

«Vorrei che i professori sacerdoti non fosserosoltanto professori, e non avessero paura, capi-tando l’occasione, di parlare qualche volta di reli-gione pratica e specialmente di vocazione. Inol-tre, che la scuola desse una maggior improntacristiana, e che a scuola ci fossero veri semina-risti».

Fede nelle parrocchie (nei sacerdoti e nei laici)che hanno la felice sorte di contare nelle proprie

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file dei seminaristi e degli alunni di istituti religio-si; Fede che riconosce in questa élite una singolaregrazia di Dio, e urge a sostenere con offerte spiri-tuali e materiali le giovani speranze della Chiesa.

Tocca al parroco favorire quella intesa inco-raggiante tra i famigliari e il seminario o l’istitu-to, intervenendo tempestivamente con motivi diFede, a rettificare calcoli interessati, ad assicu-rare assistenza e aiuti vari, a suggerire quella con-dotta domestica che, nelle vacanze specialmente,non crei serie difficoltà al conservarsi e cresceredei germi di vocazione, e non offra pretesti di crisia chi ha già con responsabilità fatto delle scelte.Preparati ‘ad hoc’ tutti i giovani, di ambo i sessi,dovrebbero sentirsi onorati di aiutare l’affermar-si e il consolidarsi della vocazione nei loro com-pagni iniziati al sacerdozio, o alla vita apostoli-ca in qualche congregazione...

E da un soffio perenne di Fede deve essere per-corso tutto il vivaio, tutti gli alunni! Si sa che quan-do soffia il vento non piega solo un arboscello, mamolti insieme, e insieme si spezzano o si raddriz-zano: i compagni esercitano un ruolo di silenziosae spesso imponderabile forza sia in bene che in male,e non solo nei primissimi anni, ma sino agli inizidella teologia o nel noviziato. L’adolescente, pursognando cose grandi e volendo essere dinamico,resistente e perseverante, non è forte, non ha in sésufficiente resistenza, perciò piega facilmente dovepiegano gli altri. Gli fa paura la solitudine, nel benecome nel male, e in ambedue i casi cerca di acco-

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darsi a chi cammina in quel momento per il ‘suo’verso.

Un tempo si temeva l’insinuarsi astuto del cor-rompitore, del sensuale; oggi, pur restando quellainsidia, se ne presenta, assai pericolosa, un’altra:quella del ‘sabotatore’ della Fede, che con un sor-riso beffardo o una parolina mezzo-biascicata mettein ridicolo le pratiche di pietà, la vocazione, la Chie-sa..., quanto di più caro un adolescente buono col-tiva in cuore.

Questi sabotatori della Fede, non isolati a tempo,spopolano le classi, anche le più promettenti. Grup-pi di studio e di attività varie, e la presenza instan-cabile dei superiori, soprattutto del rettore e del-l’animatore, e l’edificazione comune, si rivelanoottimi sussidi a sostegno del clima di Fede.

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In tenutasportiva...?

33.

«Ecco in qual modo mangerete l’agnello: con ifianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano;lo mangerete in fretta. E’ la pasqua del Signore»(Es 12, 11).

«Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucer-ne accese; siate simili a coloro che aspettano ilpadrone...» (Lc 12, 35-36).

«Perciò, dopo aver preparato la vostra menteall’azione, siate vigilanti...» (1 Pt 1, 13).

«Non sapete che nelle corse allo stadio tutti cor-rono, ma uno solo conquista il premio? ...Però ogniatleta è temperante in tutto... Io dunque corro, manon come chi è senza mèta; faccio il pugilato, manon come chi batte l’aria...» (1 Cor 9, 24-27).

Semplicità.Scioltezza.Dinamicità.Combattività.Resistenza.Irriducibilità.

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Parole che galvanizzano le giovani reclute cheper queste energie prorompenti porteranno avantila fiaccola della vita e della Fede. E’ giusto impo-stare il nostro lavoro educativo prendendo le mosseda queste opzioni fondamentali. Ai ragazzi non pos-sono piacere le complicanze degli adulti; sono, peresigenza di natura, semplici e lineari (vedi ad esem-pio nei cibi: panini imbottiti e buone pastasciutte ouna bella bistecca; così nel corredo del vestiario,così nei viaggi, in tutto).

Agli adolescenti non piace la religione quando laincontrano infagottata di vesti, di riti e quasi soffo-cata nel suo Spirito; la carità, quando la possonofare, la fanno senza troppi riguardi: non incontria-mo i nostri ‘signorini’ sporchi fin sopra i capelli inmezzo a mucchi di cartaccia raccolta per uno scopoassistenziale?

Semplicità in tutto e reazione immediata, a voltesventata e impulsiva, a ogni ingerenza indebitanelle cose di loro coscienza; ribellione contro or-dini, a loro giudizio illogici o pregiudizievoli dellalibertà.

L’attuale problematica, che fa così imbarazzatitaluni nostri adolescenti, oso pensare che non possadurare a lungo; molti già se ne estraniano: è piùcongeniale tenersi scapigliati che leccati, dormiresotto una tenda che adattarsi alle cerimonie di unalbergo cittadino; bastano una camicia spalancata alvento e un paio di calzoni più o meno corti per viver-ci un’estate... Ho assistito a lunghe discussioni, aesposizioni di pareri, a studi di problemi d’ognitaglio; ma non mi sono lasciato tradire dalle appa-

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renze, anche se vivaci e aggressive: li ritrovavoimmediatamente dopo, così ingenui, da non voler piùentrare in simili pastoie, da sentirsi più autenticinella semplicità dell’atmosfera abituale.

Semplicità e scioltezza in ogni settore, com-preso naturalmente quello, non poco interessan-te, della castità. Purezza, modestia e castità perl’adolescente sono un tutt’uno. Avverte la bellezzadelle forme (personali prima, degli altri poi) el’ammira; sente (a volte acutissimo) il fascino distimoli che gli appartengono, e tenta di gustarnel’ebbrezza: strano – pensa – che lascino, certeazioni, la bocca amara e il cuore triste...! Alloraescogita o chiede la maniera di godere quanto na-tura gli concede, senza delusioni e scontento: ac-cetta la norma divina, una volta scoperta comeprotezione e difesa contro un uso sbagliato dellericchezze della propria persona; ma non tolleraorpelli di sorta; e fa bene.

Abbiamo sbagliato forse per un certo tempo acaricare pesi intollerabili sulle spalle di ragazzi cheavremmo voluto ‘casti’ sotto un peso di regole e dinorme, che sebbene razionali oggettivamente, nonlo erano affatto una volta applicate ai soggetti; normegeneratrici di atrofie o di tabù ben lontani dalla veracastità. Il terrore delle “mani fuori posto” o dei “pen-sieri cattivi” o del “guardare parti disoneste”; o peg-gio, la fobia dell’altro sesso, abusivamente entratinel metodo, hanno preparato la reazione rivoluzio-naria che dovrebbe prima o poi riportare al giustoequilibrio.

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Che cosa c’è di non onesto e di non innocentenel corpo umano? Verrebbe voglia di riascoltare letirate del Maestro contro certi pseudoeducatori delsuo tempo (cf. Mt 23)!

Ripenso con senso di pena al lungo travagliodi un adolescente ben dotato e di ottime inten-zioni, che passa gli anni migliori in una sordalotta: contro quali diavoli? Contro il suo corpo,contro pensieri e toccamenti e sguardi necessa-ri, utili, doverosi; lotta che logicamente crea ilmale dove non c’è, accumulando in sordinanuove tentazioni, ossessioni, traumi e patemi anon finire.

Ci volle un educatore che, finalmente, gli pre-sentasse il corpo umano come un capolavoro dellaProvvidenza; che gli ingiungesse di guardare purele sue membra (senza indulgere al narcisismo), dilavarsi a dorso nudo, in modo più completo e disin-volto, la doccia con frequenza quasi quotidiana emandasse a memoria come una preghiera le paroledi san Paolo: «Tutto è puro per i puri» (Tt 1, 15)...perché la lunga e inutile e dannosa lotta avesse finee donasse al giovane la gioia della libertà che nellacastità si esalta e ingigantisce.

Una virtù in tenuta sportiva piace all’adolescen-te; e perché lo dobbiamo contrastare in questa istan-za così conforme al Vangelo?

«Se il tuo occhio è chiaro – simplex est – tutto iltuo corpo sarà nella luce... Se dunque la luce cheè in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!»(Mt 6, 22-23).

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Sono idee che forniscono le basi a una raziona-le e possibile castità; questa non deve procederedall’esterno, ma dall’interiore; la modestia vienechiamata in causa come custode, non come padro-na; le idee al riguardo devono essere chiare.

Che se persistessero dubbi nell’animo dell’ado-lescente, tutto gli dovrebbe essere autorevolmentepresentato da un medico competente, sicché ‘tene-bra’ non ci sia. L’impurità teme la luce e allignanelle tenebre. Non pochi giovani hanno riconosciutocome una liberazione l’aver avuto a tempo giusto unabuona educazione sessuale, che se non ha elimina-to i richiami degli istinti, ha corretto tuttavia unamentalità ambigua ed ha portato a dar ragione allaLegge di Dio.

A riguardo rileggiamo le direttive del Magiste-ro sintetizzate da Paolo VI nel discorso del 31 marzo1971: «...Cose tutte che, mentre reclamano, sì, un’e-ducazione sessuale, suggeriscono molte e delicatecautele e raccomandano a genitori e maestri un inter-vento sapiente e tempestivo, con un linguaggio gra-duale, limpido e casto».

Troppo a lungo qualche educatore ha fatto con-dizionare la castità più dall’esterno che dall’inter-no; così la cornice e il vetro, cioè la modestia (passiil paragone!), che dovevano proteggere il quadro econservarne integra la bellezza, lo hanno talmentegravato da schiacciarlo sotto il peso di inibizioniallarmistiche. Fenomeni biologici, ad esempio pru-rito ed irritazione di certi organi; la polluzione inav-vertita; o avvertita pienamente, ma non causata con

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intenzione espressamente cattiva; masturbazionipienamente avvertite, materialmente gravi, ma com-piute con una coscienza incerta, oscura, di chi hasaputo anche raccomandarsi al Signore, e ha tenta-to di desistere...: il tutto in chiave fallimentare edrammatica di peccato grave! E’ risaputo che ‘l’or-gasmo’, soprattutto in certi temperamenti – oggipiù frequenti – toglie la chiarezza dell’intelligenzae quindi attenua la capacità inibitoria.

«Pur tenendo conto della gravità oggettiva dellamasturbazione si abbia la cautela necessaria nellavalutazione della responsabilità soggettiva. Per aiu-tare l’adolescente a sentirsi accolto in una comu-nione di carità e strappato dal chiuso del proprio io,l’educatore “dovrà sdrammatizzare il fatto mastur-batorio e non diminuire la sua stima e benevolenzaverso il soggetto”» (Orientamenti educativi sull’a-more umano n. 99-100, S. Congregazione per l’e-ducazione cristiana).

D’accordo che questa deplorevole abitudine (il‘pessimo vizio’ come spesso è chiamata), ristagnal’adolescente in quello sviluppo psichico e affetti-vo a cui d’altronde lo spinge la natura per una cre-scita che lo deve introdurre tempestivamente e benfornito nelle responsabilità sociali; tuttavia non èdrammatizzando che si aiuta l’adolescente a usciredalle spire della sensualità.

La fuga poi delle occasioni (per una ecologiamorale più sana) è senza dubbio necessaria alla pras-si della castità; infatti «nessuno può conservarsipuro, se sta continuamente a contatto con l’impuroe non lo allontana dalla propria persona»; ma deve

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essere conseguenza di un’interiore, chiara, forte edecisa educazione alla virtù.

Chi non è a conoscenza di quante ‘tentazioni’può essere matrigna una irrazionale segregazioneche, alienando dalle ragazze (dal sesso femminile ingenere) per mesi e mesi, produce o la fobia delladonna (misoginìa) o una abnorme attrazione, tutt’al-tro che proficua per una maturazione umana e cri-stiana, tanto meno celibataria? Il passeggio fre-quente ed i ritorni periodici in famiglia... sono neces-sari e insostituibili, per non cadere nel pericoloso‘separé’.

Chi fosse tra i ‘scelti’ allo stato di castità per-fetta, a un certo punto dovrebbe sentirsi sponta-neamente preso per mano dalla sua vocazione, dalsuo ideale ormai chiaro e fascinoso, come da unaattrattiva talmente forte e soave (quasi fosse guida-to da una avvincente creatura!) da non andare più trale ragazze, col pensiero o con gli occhi o di perso-na, come chi ne sogna una, indefinita prima e benfotografata poi, con la quale accarezzare un idealedi unione.

E’ in questa svolta che si vorrebbe suggerire laprova del fuoco, favorendo una promiscuità tutt’al-tro che graduale e ordinata, quasi ignorando che giàmadre natura, più benigna e prudente di certi sedi-centi alchimisti freudiani, mette alla prova i nostriistinti sensuali e il prepotente stimolo sessuale, senzache ci ostiniamo a volere da certo esasperato speri-mentalismo... un brevetto di dogmatica invulnera-bilità e di indiscussa vocazione al celibato.

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L’esperienza di sempre ricorda che non basta laconsuetudine di vita col sesso femminile perché siadefinitivamente eliminata ogni morbosa attrazione.

A mio parere (e vorrei essere eco fedele di tantibravi giovani incontrati sulla via del sacerdozio edella vita religiosa) colui che giunge al punto in cuiDio si fa intendere e ruba il cuore di chi ha attesoper anni il felice istante, va aiutato con ogni mezzovalido a tapparsi le orecchie, e se necessario, a farsilegare al palo... per non rischiare di perdere un teso-ro. Sempre buono l’avviso di “non scherzare colcuore”!

Semplicità e scioltezza prima, e umiltà e pru-denza poi: strada magnifica aperta alle più bellecorse! Chi è educato a questa stregua, non abbiso-gna di troppe regole, né di assistenza o vigilanzasenza respiro: la convinzione di poter e dover fareda sé senza il continuo pungolo della comunità(superiori e compagni), dà quella disinvoltura cheè autodisciplina, giusta autonomia, e soprattuttoimpegno personale, linearità, educazione al buongusto, alla sana critica, alla dinamicità e alla resi-stenza.

Gli effetti di tale educazione si raccoglierannodomani nella vita domestica, ma soprattutto nelsacro ministero o nella vita religiosa comunitariadei candidati: costoro saranno degli essenzialistiirremovibili, forti e combattivi, socievoli e sempresimpatici, fedeli al dovere e felici di appartenere aun corpo di votati all’amore senza confini, fieri (per-ché no?) anche della loro sacra divisa (cf. P.C. 17 e

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dichiarazione della CEI 20 apr. 1966), pronti amutarla secondo autorevoli indicazioni, a sostituir-la nel lavoro e nelle scampagnate sui monti o nellapartita coi giovani, e ancora più lesti a indossarla unavolta rientrati nell’alveo normale o richiesti dall’e-dificazione del popolo o della comunità.

In tenuta sportiva! Non vuol dire soltanto questo,certo; può significare quella semplicità di stile asce-tico che sintetizzando e unificando, rende meno pro-blematico il santo servizio, più spedito il camminoverso l’acquisto di virtù essenziali, più sereno egioioso l’impatto con la dura realtà della vita inqualunque stato la si viva.

Semplicità nella pietà.Semplicità nelle relazioni comunitarie.Semplicità di programmi, semplicità di mezzi,

semplicità di mete, semplicità di gusti e di vita.

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Una pesantequestione

34.

Sono appunti incompleti, perché circoscritti allenostre responsabilità educative e annotati così allabuona, a contatto con circostanze fortuite.

Uno stimato professionista, medico di provin-cia, confessa il suo dissentire da quanto il parrocoin occasione della giornata pro-seminario aveva rac-comandato ai fedeli: pregassero perché il Padronedella messe mandi tanti sacerdoti alla Chiesa. «Sietein troppi, siete in troppi! Non sono d’accordo col mioparroco sulla necessità di avere molti preti: chie-derei piuttosto che nascano preti del calibro di donCalabria, di don Gnocchi, ...don Guanella. Nellamia vallata, di 30 mila abitanti, in massima partecattolici che credono ancora, ci sono troppi preti: nebasterebbero due o tre di quel tipo e andremmo noia cercarli di giorno e di notte; e tante cose cammi-nerebbero più dritte e ci sarebbero meno pettego-lezzi...».

Forse non aveva tutti i torti: l’ambigua condottadi un paio di reverendi stava annullando il gran bene

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che i più operavano in quelle parrocchie: il nume-ro può dire molto, a petto delle accresciute attivitàapostoliche, ma se quelli sono di fuoco; infatti oggii fedeli hanno bisogno di infervoramento, per rea-gire a correnti contrarie al pensiero cattolico, e que-sto è urgente.

L’incontro con due confratelli (uno del Veneto,l’altro del Piemonte) ci fornisce il capo della pesan-te questione suscitata dal dissentire del medico. Efiniremo per chiedere al buon Dio ancora sacerdo-ti, ma di quelli dalla “tunica inconsutile”.

Uno dei due ha un incarico a largo raggio, è preteda diversi anni, lavora tra i giovani, opera per levocazioni, con tutti è affabile e si dimostra felicedi essere sacerdote, lo circonda (da quanto ho potu-to sapere) un alone di simpatia e di stima: afferma-va che sarebbe tornato di nuovo sui banchi di scuo-la e avrebbe ripercorso più che volentieri il lungo‘curriculum’ pur di essere prete. Seppi da lui stes-so che all’Ordinazione era stato ammesso per il bucodella chiave, perché c’era stato chi si era pronunciatonettamente contrario al suo ingresso nel seminario,e chi all’ammissione agli Ordini. Non si era maipentito, pur soffrendo (mal comune!) di non sen-tirsi all’altezza dei suoi compiti.

L’altro, incontrato casualmente in un viaggio diricerca vocazionale, protestava categoricamente:«Non mi sento di fare la giornata per le vocazioni,perché temerei di creare degli infelici». Non piùtanto giovane, non mi sarei aspettato una tale con-fessione di sfiducia e di scontento. Forse le molti-

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plicate difficoltà della cura pastorale, forse qualcheinsuccesso, un certo vuoto intorno...? Non lo vollisapere. Mi basta, al nostro scopo specifico, il rifiu-to di lavorare per un reclutamento, sia pure giudi-zioso, di vocazioni: era una sassata lanciata a ritro-so su coloro che anni addietro avevano reclutato luia una carriera mal sopportata?

...Non potei sapere gran che dei suoi anni di semi-nario; ma sia lecito concludere (per questa e peraltre, non molte ma sempre troppe, esperienze delgenere!) che la questione ‘numero’ – quella conte-stata dallo stimato professionista – è rimessa sultappeto proprio da confratelli ‘rassegnati’ che ripen-sano con tristezza agli anni della loro permanenzain seminario. Stavo per scrivere “della loro forma-zione seminarile”, ma avrei dovuto scrivere “defor-mazione”, rivedendo la faccia di quel parroco nega-tivo a ogni appello vocazionale!

Perché il salto non sembri troppo lungo, inseri-sco uno stralcio di lettera ricevuta da un giovaneappena venti giorni prima della sua diserzione; chie-de aiuto, comprensione, preghiere e termina sup-plicando: «...Non permetta che commetta la pazziadi abbandonare la mia famiglia religiosa». Che scher-zi fa la vita, che stranezze! E così dicendo preferi-remmo anche noi archiviare la questione pesantedelle diserzioni, dei ripensamenti, delle condanne aritroso.

Torniamo indietro noi, che siamo in causa amotivo dei nostri compiti, senza pretendere di ri-solvere un problema che pesa sul cuore di ognieducatore.

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Dobbiamo rivedere qualche metodo adottato erro-neamente, sia pure in buona fede, e accettato o subì-to con altrettanta remissività: la disamina finirà perammonire che, sia la formazione dei candidati, siail vaglio delle vocazioni, possono andare soggetti adabbagli ed errori, che, né il tempo, né il ministerosacro, né gli eventuali successi apostolici dei primiesperimenti, né l’affetto sincero di confratelli e deisuperiori valgono a cancellare.

In taluni casi (seguendo la falsariga di lamente-le e di accuse ‘postume’) le famose tentazioni impu-re, i cosiddetti “pensieri cattivi” non erano stati presiin serio esame, ma si era ripetuto che non era il casodi badarci, trattandosi di cose di poco o nessun conto,di crisi comuni a ogni mortale, non esclusi i santi,di occasioni buone per far meriti...

D’accordo, tutto vero, sotto un certo aspetto; manon sufficiente la risposta; giacché è risaputo che nonc’è un malato di cuore che sia malato come l’altroo gli altri cardiopatici della medesima corsia di ospe-dale. Sotto queste crisi ‘comuni’ non si celava qual-che indicazione negativa allo stato celibatario? Ana-lizzando più in profondità, non sarebbe apparsaqualche carenza di ordine psichico, prima che mora-le?

Nell’età evolutiva si possono scoprire tante dotie non pochi difetti, ma per la voglia di far ‘nume-ro’ è facile indugiare e fermarsi sul dritto della meda-glia, rimettendo il rovescio alla buona volontà degliinteressati, alle promesse (per altro sincere), allaProvvidenza di Dio e alla paternità dei superiori,che un buco lo avrebbero sempre trovato per siste-

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mare anche ‘Lazzaro’. Qualcuno non avrà nascostoa suo tempo carenze nel temperamento o nel carat-tere, che gli dovevano precludere la via al sacerdo-zio, al convento, alle missioni? Ci fu ingenuità ofretta in chi doveva ponderare ogni cosa e dare tempoal tempo? (Bacone suggerisce che «quanto si fasenza il tempo, il tempo lo distrugge»). Provviden-ziale la Renovationis causam, che dà tempo altempo!

Gli entusiasmi della adolescenza, la tenacia dellagiovinezza, sostenuti dal pungolo di una certa ambi-zione di passare per uomo capace e leale, per uomodi chiesa “in ornatu sacro”, tutto ciò e altro ancorache sfugge a un obiettivo che si arresta alle appa-renze, avrà potuto fasciare e nascondere tare atavi-che o deficienze, che ora, sbendate dalla stanchez-za, da un po’ di esaurimento, da un insuccesso, dauna correzione “in virga ferrea”, da crisi morali oritorni di fiamma, vengono messe a nudo? Al sen-tore di certe lacune bisognava temere e prevedere;forse l’attuale emorragia sarebbe stata almeno inbuona parte eliminata.

Si è sperato troppo nel potere immunizzante delministero sacro, dell’incontro con le anime, massi-mamente con i giovani, e nelle risorse stesse dellanatura e del tempo, o nelle buone intenzioni, cheavrebbero sì spostato il pericolo del crollo, ma noneliminato. Non è destinato a cadere l’albero chesotto la corteccia nasconde l’insidia del tarlo? Sisono afflosciati ponti e grattacieli, dopo mesi o annidal collaudo, per l’infiltrazione d’acqua nelle fon-

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damenta o nelle testate, o per la silenziosa frana delterreno sottostante o per difetto del materiale ado-perato...

Il carisma della castità perfetta non è un donoappiccicato sulla persona dei candidati, come unbel cappello ficcato sulla testa, ma una dote elargi-ta dalla Provvidenza a individui che nella naturahanno la reale e non ipotetica capacità di riceverloe di viverlo, senza dover appellarsi a una infinitaserie di accorgimenti o di miracoli. C’è chi (anco-ra!) guarda un po’ troppo al carisma e non abba-stanza alle spalle che lo dovrebbero portare per tuttal’esistenza. Se le spalle, a conti fatti, non ci sembranoatte a portare un onore e un onere così impegnati-vi, non si imputi a Dio di aver gabbato i presunticandidati, ma umilmente ci si attenga alle indicazionidella sua volontà.

In altri casi i presunti candidati, che con docu-menti e giuramenti alla mano erano stati così espli-citi e sinceri, meritavano la piena fiducia accorda-ta a quelle firme? Forse accecati da un certo reci-proco affetto ci si è fidati di giovani sinceri sì, matroppo giovani, incompetenti, i quali testimoniava-no di ciò che sentivano in cuore, ma che oggettiva-mente non era loro possibile promettere e mante-nere: è la fasulla sicurezza di chi afferma comeautentica una notizia appresa per vera, ma del tuttofalsa; è la vuota promessa di chi firma una cambia-le per dare quello che non ha.

L’adolescenza è bella, quanto delicata e ingrata;l’età dei vènti, nella quale l’anima prende facil-

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mente direzioni contraddittorie e ogni volta con taledecisione, che all’occhio dell’inesperto appare sem-pre l’ultima direzione, quella definitiva. Senza farlanotare, è doverosa una certa suspense che previenereciproche cantonate.

Il giovane che a vent’anni cambia bruscamentedirezione lasciando in asso educatori affezionati,che non hanno nemmeno il tempo per tratteneredalla ‘pazzia’ (come l’aveva definita l’interessato)il precipitoso, vergando domande e formulando pro-messe esprimeva ciò che sentiva, ma sentiva ciò chesognava; e qui costruire sui sogni è autocondan-narsi. C’era stato quel normale e comune amalga-ma con la vita di famiglia, di società, di rapportivari, di mondo... che gli avrebbero resa possibileuna decisione più virile e consistente?

E se tali esperienze avessero allontanato il gio-vane dal nostro fianco? Oh, non si dovrebbero teme-re queste defezioni, quanto quelle possibili ‘dopo’,quando è sempre un po’ tardi per i traumi che nederivano.

Infine perché c’è chi teme di propinare l’infeli-cità avviando al sacerdozio o alla vita religiosa?Probabilmente sono persone che camminano con icalli ai piedi, barcollando, appunto perché a suotempo non hanno calzato scarpe adatte: hanno ten-tato, nella speranza che le scarpe stesse si allargas-sero un po’ e che il piede vi si adattasse col tempo.Forse non avevano visto “altra strada” e non sep-pero attendere per guardare meglio e ponderare ognicosa attentamente.

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Sarà forse stato un banale calcolo interessato,ora svanito, a indurre nella bigotta e sacrilega ten-tazione di intrupparsi fra Giovanni, Pietro, Filippoe gli altri chiamati...?

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Non c’è cheun tipo di Prete

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Finché la problematica si è accanita contro iltaglio e il colore della talare del prete, pazienza:forse s’è fatto più chiasso del necessario, mentrebastava così poco per togliere la compassata divisaclericale a ragazzi imberbi del ginnasio (dove anco-ra si faceva indossare) e per dar credito con docileintelligenza alle indicazioni della Conferenza Epi-scopale. Furono fatte anche indagini e inchieste:press’a poco d’accordo tutti con la Gerarchia sullanecessità di una divisa che manifesti, senza ridico-le mimetizzazioni, la sacralità e il servizio eccle-siale; schierati in parti quasi uguali i patrocinatoridella talare e quelli del clergyman; unanimi tutti nelvolere il prete e il religioso puliti e ordinati.

Ma la problematica non s’è fermata qui, lo sisa; s’è spostata su una tematica molto più inte-ressante e delicata: la tipologia del prete moder-no. Ne sono venute tavole rotonde, convegni, con-gressi, interviste, sproloqui improvvisati su rivi-ste tutt’altro che bene informate e certamente con

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intenzioni non apostoliche. Per qualcuno si trat-ta addirittura di creare per la salvezza della Chie-sa (!) un tipo di prete nuovo, simpatico ai tempinuovi, che non dia affatto nell’occhio, non creifastidi e non susciti preoccupazioni ai gaudentidel bel mondo moderno...

Ed ecco le questioni, o meglio i pettegolezzi sulcelibato e la caccia alle sensazionali notizie di cro-naca ‘nera’ e i films italiani che scimmiottano sulloschermo un tipo di prete accomodante e accomo-dato alla tentazione della carne; le contestazionicontro l’autorità, non senza la coda del diavolo ‘poli-tico’, per incoraggiare in altri l’intolleranza di undogma e di una morale ‘alienanti’ dal miraggio mate-rialistico ed edonistico. E non manca chi non riescedel tutto a sottintendere un odio sadico contro ilprete e il messaggio che egli diffonde per farne abrandelli, non tanto l’abito nero o grigiofumo, mail tipo tradizionale, il prete insomma così come Diol’ha dato agli uomini e fissato per i secoli alle sortidella Chiesa.

«I soldati poi, ...presero la tunica. Ora quellatunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzoda cima a fondo. Perciò dissero tra loro: Non strac-ciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca» (Gv 19, 23-24).

Non c’è che un tipo di prete buono per tutte leepoche della storia, quello che ricopia e rivive in séi misteri del Cristo a redenzione dei fratelli. Giu-stamente, rifacendomi all’inchiesta di cui riferivosopra, una larga percentuale, soprattutto tra i giovani,esige dal prete che “sia prete” con autenticità indi-

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scussa, superiore a ogni sospetto, dedito alla pre-ghiera, alla Parola, alla assistenza sociale. Vertica-lista e orizzontalista, come il Cristo in croce: tuttodel Padre e tutto dei fratelli.

Questa la divisa – inconsutile, rossa di sangue,tirata a sorte, ma non stracciata da spregevoli pat-teggiamenti – del sacerdote e del religioso: non altrala loro fisionomia, se vogliono essere del Cristo unabella copia e non una falsificazione.

Questo il destino del prete oggi e sempre: lo sidiscuterà per ogni verso, ma perché, volenti o no-lenti, deve essere una foto ben riuscita ed elo-quente del Cristo, che il mondo (anche e soprat-tutto il mondo dei ciechi, dei sordomuti nell’ani-ma e dei lebbrosi del peccato) vuole incontrarevivo in lui. Una strana infestazione di correnti‘psicosociologiche’ minano il terreno del sacer-dozio (talvolta, non nego, in buona fede) e di-stolgono i chiamati e i candidati dalla contem-plazione della sconfinata grandezza del Sacerdo-zio di Cristo a cui partecipano in modo singola-re, e comune a nessun altro, il prete di ieri e quel-lo di oggi.

Una illuminata devozione alla Vergine, Madredella Chiesa, deve aiutare il candidato a intessere unatunica inconsutile per un tipo di sacerdozio perfet-tamente conforme a quello di Gesù, il quale giornoper giorno, filo per filo, ha intessuto la sua esisten-za fra gli uomini di incessante oblazione alla volontàdel Padre e al più vero bene dei fratelli (cf. Lc 2, 49;Gv 8, 29; 4, 34; Mc 14, 36; Gv 10, 1-19). Una devo-

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zione alla Madonna, fatta di ammirazione, di affet-to cordiale, di imitazione, porta quasi insensibil-mente ad avere un cuore bello, sensibile alle soffe-renze della Chiesa e pronto alle più svariate operedi carità, non restìo alla rinuncia e al sacrificio neisuoi molteplici aspetti.

Il ricorso assiduo al suo potente ausilio, oltre-ché educare all’umiltà, ossigenerà di fiducioso corag-gio il non breve curriculum della preparazione sacer-dotale e l’intero arco della vita consacrata alla imi-tazione di Cristo e alla continuazione della sua mis-sione.

Tunica inconsutile e intrisa di sangue: ecco lafigura del sacerdote quale oggi lo vuole il più gran-de bene delle anime: un uomo tanto identificato colCristo Redentore da formare con Lui e con la sua vitauna unità indivisibile, cementata dal sangue delcuore, del corpo, dell’anima. Con questa uniformespirituale, protetta e non condizionata da una tala-re o da una tuta di lavoro, il prete di oggi ristabiliràla Fede e riporterà i dispersi, i distratti, gli smarri-ti nell’orbita della salvezza.

Questa uniforme che ci configura al Cristo (cf.Col 3, 9-17; Rm 13, 14; Ef 4, 20-24) va indossatatutta d’un pezzo; non si può scindere il Cristo, maa chi tocca in felice sorte di esserne l’“alter ego”(cf. At 1, 26; Sal 15, 6) non resta che rivestirsi di lui“ex toto” senza nulla sottrarre alla mistica trasfor-mazione.

Non si fa a brandelli impunemente il Cristo; lastoria ammonisce severamente, lo stesso Maestro

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ne fu profeta: «Se il sale perdesse il sapore, con checosa lo si potrà rendere salato? A null’altro serveche ad essere gettato via e calpestato dagli uomi-ni» (Mt 5, 13).

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Carte in regola36.

Prima l’uomo, poi l’abito; non è l’abito che fa ilmonaco, ma il monaco che si fa l’abito!

Perfettamente vero, e per non dare occasione apettegolezzi di piazza o a maldicenze scandalistiche,facciamo che sotto l’uniforme sacra ci sia un esse-re ‘sacro’ ossia consacrato e deputato a santificarela convivenza umana realizzando la parola d’ordi-ne del Maestro di essere per il mondo «sale, luce ecittà collocata sopra un monte» (cf. Mt 5, 13-16);e che con quella divisa si riconosca una guida esper-ta delle cose di Dio, e di esse innamorata.

L’insistente sollecitazione, arrivata da oppostesponde e per contrastanti interessi, che il prete sia‘prete’, costringe a una revisione e sistematizza-zione di vita che deve scavare nelle profondità es-senziali per aggiornare tutto ‘radicitus’, dalle fon-damenta: umanesimo e cristianesimo, impegnoascetico ed esigenze pastorali. La contestazionecostringe a un lavoro sodo di restauro e di am-pliamento, non senza la demolizione del paraventodi un’illusoria maturità umanistica e di una labi-le verniciatura ascetica. Mai, dai tempi apostoli-

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ci, la Chiesa e i suoi ministri sono stati sul pal-coscenico della verifica e della critica come ora:ne dovrà però venire una nuova epifania, purchéognuno riveda le sue carte e si metta al passo dimarcia.

Carte in regola abbiano i nostri candidati, cheriprenderanno dalle nostre mani la consegna dellamissione salvifica: prima uomini retti, poi cristianiferventi, quindi santi, poi, a Dio piacendo, sacer-doti, religiosi, missionari...

E non confondiamo le cose giocando di sotto-banco o di incoscienza: non sciupiamo noi stessi ele energie dei nostri ragazzi in promozioni fasulleche lungi dall’educare a un umanesimo solido ericco, lo immiseriscono o lo ingozzano di idiozie edi orpelli vari, quanti ne può portare in casa oggi ilconsumismo.

L’interesse allo sport può degenerare, quandonon è regolato e subordinato ad altri centri di inte-resse più pressanti, quali lo studio, la buona armo-nia in casa, la serenità nelle ricreazioni e la dispo-nibilità a una orazione profonda; la passione per icampioni non contenuta e moderata finisce per met-tere nell’ombra pensieri e preoccupazioni di perso-ne e cose care e di immediata responsabilità; la ricer-catezza eccessiva nella toilette, nell’abbigliamen-to, nel comportamento, storna dalla ricerca di essen-zialità e trascura doveri vitali, quali la conserva-zione e l’accrescimento della Grazia e una nonemblematica ascesi verso il superamento dellamediocrità.

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Dovremmo tutti temere quel linfatismo spiritua-le che crea i babbei, i “non ho voglia”, i nemici dellascopa o del piccone, pieni di esigenze e schifiltosi,che temono i calli alle mani come un declassamen-to sociale... «Troppi dolci fan venire i vermi!» sole-va dire il mite s. Francesco di Sales. Sembra che incerti ambienti ‘nostri’ il ricordo del terzo mondo cisia solo per avere nuovi pretesti di evadere dal quo-tidiano impatto con doveri scolastici e formativi chetrattengono il fiato: quanto pane sciupato sui tavo-li, e quante bibite di puro capriccio e piccole, macontinue spese voluttuarie (non escluso il fumo)!

Sincerità a tutta prova, programmata come tra-guardo obbligatorio; corresponsabilità al buon anda-mento della vita comunitaria; reciproco aiuto; fusio-ne di intenti e compattezza; comunione di animinella gioia e nelle inevitabili difficoltà...

E non stanchiamoci di riportare il ragazzo – chetende di natura a evadere, ad alienarsi dal dovere,dall’“hic et nunc”, dall’“age quod agis” – entro ilsentiero che passo passo deve percorrere per rag-giungere quella statura umana e cristiana che lorende idoneo, se Dio vuole, ad ascensioni più ardi-te e invitanti.

Non pochi genitori si lamentano che i nostri, tor-nati in famiglia dopo mesi di studio, faticano adallinearsi con i fratelli, col papà, che lavorano parec-chie ore al giorno per mantenere il ‘signorino’: alcu-ni seminari hanno creduto di ovviare all’inconve-niente mandando in famiglia ogni sabato pomerig-gio i giovani perché passino la festa in casa. Bellatrovata anche questa, ma con un rovescio tutt’altro

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che formativo! Al rientro in famiglia il signorinonon ha da rimboccare le maniche, giacché nemme-no gli altri lavorano in quelle ore; e che vede dellavita domestica se non ciò che può piacere e diver-tire?

Troppo in fretta è stata applaudita l’iniziativaintrodotta tra i chierici di teologia di far ritorno ognifesta in famiglia con l’espressa intenzione di passarviun bel week-end, messi alla stregua di chi ha fattosei giorni di pesante lavoro in fabbrica o sulle arma-ture di un cantiere. Non so poi con quanto zelo si ras-segnino a sgobbare la domenica nel servizio deifedeli! Ben altrimenti la pensano coloro che aspet-tano la domenica per allenarsi alla catechesi e all’as-sistenza nei ricreatori parrocchiali, o per organizzareattività caritative e simili...

E’ senz’altro una faticaccia questa di costruirel’uomo, il cristiano, il santo... da mettere sotto unauniforme sacra; ma è di importanza vitale.

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Apostoli,se discepoli

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«Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete dav-vero miei discepoli; conoscerete la verità e la veritàvi farà liberi» (Gv 8, 31-32); pare un gioco di paro-le la promessa del Maestro, invece racchiude unambitissimo traguardo: essere stabilmente scolaridi Dio (cf. Is 54, 13; Gv 6, 45), vivere nella veritàe sentirsi pienamente liberi.

Non c’è di meglio.A tale meta Gesù portò i suoi seminaristi e anco-

ra vuole condurre i nostri alunni. Nessun dubbioche gli apostoli siano rimasti in permanenza disce-poli: tali li volle il Maestro, anche quando li mandòalla pesca degli uomini, alla conquista dei popoli.Maestri divennero, ma per mandato ricevuto, quin-di per obbedienza a un precetto; e rimasero semprein ascolto, per trasmettere quella dottrina, che nonera propria, ma di Colui che aveva mandato Gesù eche ora mandava loro.

«La mia dottrina non è mia, ma di colui che miha mandato» (Gv 7, 16); «Come il Padre ha man-

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dato me, anch’io mando voi» (Gv 20, 21); «Chiascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezzame. E chi disprezza me disprezza colui che mi hamandato» (Lc 10, 16).

Saranno apostoli ed eternamente discepoli.Chi pretendesse fare il maestro, cessando di fre-

quentare la scuola del Signore come scolaro, diver-rebbe ben presto un presuntuoso, un falso profeta,una guida cieca.

Può sembrare difficile, può addirittura essereimpossibile, se l’apostolo non si tiene saldamen-te fissato nell’umiltà che ci fa allievi della Sa-pienza («Si quis est parvulus, veniat ad me...» Pro9, 4) e capaci di cogliere i pensieri di Dio e farnostra la mentalità evangelica («Ti benedico, oPadre... perché hai tenuto nascoste queste cose aisapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai pic-coli» Mt 11, 25).

L’appello alla umiltà è insistente nelle lettereapostoliche, tanto era rimasta impressa nella mentedi quei primi la lezione impartita dal Maestro in piùmaniere: «Rivestitevi tutti di umiltà gli uni versogli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà gra-zia agli umili. Umiliatevi dunque sotto la potentemano di Dio, perché vi esalti al tempo opportuno»(1 Pt 5, 5-6); «Umiliatevi davanti al Signore ed eglivi esalterà» (Gc 4, 10).

E’ base che nulla e nessuno può sostituire, siaper una promozione umana e cristiana, sia per edu-care i futuri maestri del popolo di Dio. Superiorie discepoli, siamo tutti scolari, tutti a scuola conanimo infantile, per non rimanere esclusi dall’in-

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telligenza dei segreti del regno dei cieli: «In ve-rità vi dico: se non vi convertirete e non divente-rete come i bambini, non entrerete nel regno deicieli» (Mt 18, 3).

Non è lezione facile, ma resta decisiva e deter-minante: Dio riempie in proporzione del vuoto chetrova (cf. 2 Re 4, 1-7; Gv 2, 1-11). Il fascino delbene, l’ascesi, l’innamoramento del divino Amico,l’attrazione verso le anime e i valori eterni; il fer-vore nella orazione, la resistenza alle tentazioni; lafiducia negli insuccessi; l’ardore nel servizio di Dioe la perseveranza nella vocazione... tutto, assoluta-mente tutto, è legato al grado dell’umiltà.

L’insegnamento va impartito con coraggiosa insi-stenza fin dai primi anni, aiutando i più giovani adesistere da atteggiamenti ridicoli da superuomini,dal pestare i piedi nelle contraddizioni; i più gran-di a riconoscere i propri limiti e a non ignorare ipregi altrui. Oggi la Chiesa soffre una profonda crisidi umiltà e perciò di interiorità, di preghiera, didocilità e di carità fraterna; la superbia dei figli‘scelti’ fa più danno che la persecuzione: questa èsemente di eroi, quella di eretici e di scismatici.

Abbiamo forse esagerato o spostato l’obiettivodall’essenziale, quando nella verifica delle voca-zioni ci siamo fissati sulla castità come se l’umiltànon fosse fondamento indispensabile anche ad essa.Non è vero che in taluni casi si è sentenziato in favo-re della vocazione al celibato, appunto perché l’al-lievo era di “angelici costumi adorno”? Come sel’osservanza del sesto e del nono comandamento,

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cioè una castità-base, non fosse dovere di tutti! Cosìsono state incoraggiate a proseguire persone nonfissate in quella umiltà senza la quale una diaconìaperpetua non è mai stata possibile, e nemmeno unacastità perfetta.

Dio sceglie e chiama e dà costanza agli umili; laScrittura e l’agiografia di ogni secolo ne danno con-ferma.

Utili componenti di quest’arte sono: la lealtà conse stessi e con gli altri, indistintamente, nel giococome nella scuola; l’obbedienza, accettata comeproblema di vita e mistero di Fede, sincera e nonmanovrata; laboriosità in ogni settore (lavoro dibraccia, di testa, e ...di ginocchia!); la bontà di cuoree il servizio comunitario; il bando a ogni critica omormorazione nei riguardi di chiunque; la ripara-zione immediata a ogni mancanza; quindi un’assi-dua frequenza al sacramento della Penitenza, cheallena col sostegno della Grazia sacramentale a unnon fittizio esercizio di umiltà; infine la parsimonia(o austerità) nel vitto, nel vestito, nella ricreazione(dimostrando come una felicità stabile viene dallepiccole cose).

A pastori d’anime cresciuti in questo ‘humus’benedetto, la Chiesa potrà chiedere tutto e non saràfrustrata la sua speranza: non è forse garantita la“virtù dello Spirito Santo” a coloro che scelti adessere gli evangelizzatori fino all’estremità dellaterra, non si sarebbero mai più staccati dalla scuo-la del Maestro? I capitoli 14, 15, 16 e 17 di s. Gio-vanni lo assicurano.

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Se il motorenon canta...

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«Non abbandonarti alla tristezza,non tormentarti con i tuoi pensieri.La gioia del cuore è vita per l’uomo,l’allegria di un uomo è lunga vita.Distrai la tua anima, consola il tuo cuore,tieni lontana la malinconia.La malinconia ha rovinato molti,da essa non si ricava nulla di buono»(Sir 30, 21-23).

Buono l’avviso! Vogliamo portare molto in altoi nostri alunni, alcuni persino alle altezze di unavita sacerdotale o consacrata alla perfezione evan-gelica: ma chi non sa che il motore deve cantare,essere “su di giri” per affrontare senza sorprese lesalite? E’ vero: si dovrà arrivare alle vette curvi e atesta bassa, col fiato tirato, ma non col broncio,bensì col cuore straripante di soddisfazione e digioia. Ci furono mai campioni tristi e santi melan-conici?

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L’allegria è necessaria nei nostri ambienti moltopiù che fuori, nella famiglia o nei circoli sportivi ericreativi: in casa nostra infatti si intende lavoraresodo, non si vuol perdere tempo, si punta a con-quiste morali che non ti danno respiro; qui non siconosce ozio, né pigrizia; qui insomma ci si batteda arditi: ci vuole la musica, che tenga alto il mora-le, che non permetta di guardare troppo alle diffi-coltà, alle asprezze del sentiero che stiamo percor-rendo, che non lasci tempo allo scoraggiamento,qualora dal fronte arrivassero notizie poco lusin-ghiere; ci vuole la ricreazione più dinamica e festo-sa, che sia in qualche modo o richiamo ad esserecontenti dentro nel cuore, o l’esplosione della gioiache già riempie: se non si corre, si scoppia o di tri-stezza o di gioia; in ambedue i casi, dunque, con-viene sacrificare le scarpe, e tante paia, pur di noncapitombolare dal di dentro.

Niente di più consono con le direttive del Van-gelo: Gesù, pur venendo alla luce nel buio di unastalla, vuole che gli Angeli annunzino e provochi-no pace e gioia; non vuole musorni gli amici suoiche egli considera sempre come invitati alle suenozze, mai finite (cf. Mt 9, 15); partendo da loroaugura e dona pace fissando l’appuntamento nelParadiso, dove va a prenotare per essi il posto (cf.Gv 14, 2). Avevano così bene imparato a essere alle-gri, gli apostoli, che nessuno riuscì a farli tristi,nemmeno con le botte (cf. At 5, 41).

Guai a noi se misuriamo tirchiamente il tempodella ricreazione o dello svago; o condizioniamo ainostri gusti e ai nostri timpani l’esuberanza dei

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ragazzi: daremmo inconsapevolmente una mano alnemico delle loro anime, che lavora astutamente econ risultati abbondanti nel settore della lussuria,quando un ragazzo ha i nervi a pezzi e non s’è rifat-to (ricreazione vuol dire ‘recreatio’) dalla tensionedella scuola o della stessa preghiera. Conservi ilsilenzio a suo tempo, stia composto e devoto a suoluogo, ma nella ricreazione faccia il “diavolo a quat-tro”, ...se non vogliamo che il diavolo ce ne giochiquattro!

Il ragazzo triste sente enormemente il peso dellaconvivenza in comunità (collegio, convitto, semi-nario, noviziato...!); ripiega con estrema facilità suegoismi d’ogni razza; rifrange il suo umor nero suquanti lo circondano, superiori e compagni; ed èparalitico di fronte al dovere dello studio... Meglioche salti qualche vetro... qualche stinco, piuttosto cheil diavolo ne combini quattro!

L’apostolo Paolo, che parla chiaro anche ai gio-vani e non nasconde per falsa compassione il voltoaustero del cristianesimo, insiste che la pace siaarbitra nei nostri animi (cf. Col 3, 15) e metta atacere ogni tentativo di scompigliare la gioia; rac-comanda espressamente di godere: «Rallegratevinel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegra-tevi» (Fil 4, 4); e lui stesso si dice ultra-felice adispetto dei non pochi grattacapi: «Superabundogaudio in omni tribulatione nostra» (2 Cor 7, 4).

Nelle ricreazioni abituali il giovane deve essereattore più che spettatore; se spettatore, gli sia con-cesso di muoversi, di agitarsi, di gridare, in modoche la partita giocata dagli altri diventi un po’ anche

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sua e gli scarichi i nervi! Films e spettacoli TV sianosollevanti, né creino nella testa del ragazzo giàsovraccarica di studio, nuovi pesi o peggio favori-scano patemi di spirito: a questo proposito è da loda-re (anche se richiede altro impiego di assistenza) ilsistema adottato in molti ambienti, di dare ai ragaz-zi la possibilità di scegliere tra il film e una qual-siasi ricreazione.

In qualche seminario parificato (tra i grandisoprattutto) l’assillo della scuola sta prendendo unpo’ la mano: e si fa della confusione nella pianifi-cazione delle varie componenti che devono creareun ordine ideale nei nostri gruppi. Per noi prima lacondotta, poi la salute, infine lo studio. Ma per con-servare quest’ordine e garantirsene i vantaggi, ci sipreoccupi che il tono morale sia alto e per averlo,tutto sia cadenzato a suon di musica, cioè al passodell’allegria.

D’altronde se nei nostri ambienti si respira unclima di vera Fede, è inconcepibile che questo nonsia saturo di letizia, e di quella sostanziosa e benfondata: dai Salmi abbiamo sentito quanto sia pres-sante l’invito alla fiducia e quello alla gioia chenaturalmente ne fluisce: «Acclamate al Signore, voitutti della terra, servite il Signore nella gioia, pre-sentatevi a lui con esultanza» (Sal 99, 2).

Fondamento teologico alla nostra gioia è in-nanzi tutto l’adorabile Paternità di Dio, che «contaanche i capelli del nostro capo» (cf. Mt 10, 30);la certezza di essere amati dal Cristo e di poterlofare ‘nostro’ per sempre (cf. Gv 15, 4-9); il sa-

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perci incamminati verso una festa eterna assiemea una innumerevole moltitudine di figli di Dio (cf.Gv 17, 24). «La nostra patria è nei cieli...!», scri-ve s. Paolo ai Filippesi (3, 20): questa è luce in-tramontabile! Ed è per questa luce, che tutto proiet-ta sulla sponda della eternità, che noi sappiamosostenere gioiosamente la lotta contro le concu-piscenze e le insidie del maligno: è in quest’ariadi vigilia che i giovani sono capaci di rinunce edi sacrifici non piccoli.

Alla eutrapelìa comune a tutti i giovani e re-clamata in modo imperioso dalla natura, noi of-friamo motivazioni e fonti soprannaturali che for-niranno alle istanze dell’età primaverile una fre-schissima rugiada celeste, onde la gioia sia piena:«La mia gioia sia in voi, e la vostra gioia siapiena» (Gv 15, 11); parola d’ordine a cui fa ecosan Pietro nella sua prima Lettera (5, 7): «Getta-te in lui (Dio) ogni vostra preoccupazione perchéegli ha cura di voi».

Chi poi ascolta nel segreto le confidenze tal-volta umilianti dei giovani, non permetta che latristezza prenda il cuore nemmeno per un’ora: ilricordo della caduta non è facile cancellarlo, lanatura non aiuta; ma sia aiutato il penitente a go-dere della festa che il Padre organizza ogni voltache un “figlio prodigo” si affretta a far ritorno, esi ingiunga di essere contento d’aver nuovamen-te scoperto l’esagerato amore di Gesù. Non è ve-nuto forse per noi, deboli e lebbrosi nell’anima?E’ lui che vuole far festa per la centesima peco-rella smarrita e ritrovata.

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Considerazione efficace e prodigiosa se il gio-vane ne vive e ne gode: le lotte spirituali, a questasola condizione sortiscono felicemente!

La gioia è baluardo, e quando scende dall’al-to è caparra di sicura vittoria: «Non vi rattrista-te, perché la gioia del Signore è la vostra forza»(Ne 8, 10).

In questa prospettiva possiamo introdurre qual-che osservazione sulle vacanze, brevi o lunghe, pas-sate in seminario, nei nostri ambienti di mare o dimontagna, o passate in seno alla famiglia, comecoefficiente di educazione alla gioia.

Sarebbe errato ridurre a questo solo scopo lenecessarie vacanze, giacché in queste pause si pos-sono rivedere molti punti e fare il pieno di svariateenergie per riprendere la corsa; tuttavia tale con-notazione simpatica prevale nell’aspettativa di tuttigli adolescenti. Se dunque una giornata o più mesidi vacanza non aprono i polmoni a una gioia piùestesa e intensa, non realizzano il loro scopo pre-cipuo. Ci dovrà essere posto per una preghiera piùcalma e più diffusa, per il lavoro manuale (a secon-da delle spalle, logicamente!), per qualche operaassistenziale, per lo studio, per altre occupazioni; mail gioco, le corse, le gite, insomma la ricreazionedeve avere un ruolo evidenziato, massimamentequando la vacanza è breve e si trova incastonata tragiorni di alta tensione psichica o spirituale.

Una scampagnata a suon di musica, cioè allegra,può, almeno in determinate epoche (ad esempiodopo lunghe giornate di maltempo), giovare allo

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spirito come una lezione spirituale ben filata e comeun ritiro.

Trattandosi delle vacanze lunghe, il discorso puòfarsi più grave, avvertendo i pericoli dell’ozio edelle compagnie non buone. Diamo credito ancoraalle parole di don Bosco, che temeva le lunghevacanze come “la vendemmia del Diavolo”. S’è fattadella strada però da quei giorni, e certi accorgimentientrati quasi ovunque nella regolamentazione dellevacanze le rendono meno nocive e meglio utilizza-bili agli scopi educativi.

La collaborazione sempre più vicina tra semi-nario e famiglia; il seminario che va in famiglia, ela famiglia che frequenta il seminario, apre l’aditocordiale a incontri anche nel periodo delle lunghevacanze. Il soggiorno montano o marino a scopoterapeutico (!), può essere valorizzato magnifica-mente e la distensione, lungi dal distogliere la mentedalle cose dello spirito, favorisce il dialogo spirituale,appunto perché trova una maggior apertura allagioia, a quella gioia dello Spirito che dà un saporedolcissimo anche alle minime cose.

Comunque è pacifico che l’interruzione dellevacanze estive, perché avvenga senza traumi, occor-re sia accettata dal ragazzo stesso come un affarefatto bene, un andare al meglio, a una sagra piùbella; diversamente il seminario che interrompe ilgioco gli appare come un dispettoso, che non capi-sce niente.

C’è poco da fare: il ragazzo sente il diritto allagioia e non capitola mai.

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Ascoltiamoli, forsehanno ragione!

39.

Buon per noi se non ci stanchiamo di frequenta-re la cattedra dei nostri educandi: diverremo validieducatori e non ci mancherà la fiducia, la stima e lacordialità di questi critici spietati che non soppor-tano strutture o sistemi che sanno di muffa.

Ricopio le opzioni di un gruppetto avvicinato,avvertendo subito che le loro richieste combacianoalla lettera con quelle di tanti altri loro compagni,sentiti di persona o incontrati attraverso la corri-spondenza.

«Ci hanno detto, in parrocchia, che il semi-nario è la seconda famiglia; io non ci credo, fin-ché i superiori non vengono a tavola con noi.Sarà forse, perché facciamo molto chiasso e poisiamo veloci a finire; ma a casa mia a questecose nessuno ci bada» (1a media).

«A me non va la sveglia a suon di campanel-la (o qualche volta con musica), così non mivanno tutti quei segnali col fischietto, né le chia-

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mate con l’altoparlante. Per esempio, perché ilrettore o uno mandato da lui (ma lui soprattut-to) non ci viene a svegliare personalmente e adarci un saluto in camera la sera?» (2a media).

«A me non va che ci siano preti a fare scuo-la, tranne che per le lezioni di Religione o dicanto: se sgarrano, ci fanno venire in uggia lavocazione» (3a media).

«Con l’aiuto di don G. entrando in ginnasioho fatto la mia scelta e sono ancora contento diaverla fatta; ma non capisco: mi manca qualchecosa al confronto degli altri? Perché in paese c’èchi mi burla?» (5a ginnasio).

«Quest’anno, a differenza degli anni scorsi,non trovo aiuto spirituale nella mia classe diseconda liceo: c’è qualcuno che a lezione fa ditutto, meno che stare attento, e magari ha il suobel 10 in condotta; circolano stampe ambigue epare che nessuno dei professori lo sappia e tuttifanno silenzio o per paura o perché tra loro d’ac-cordo» (2a liceo).

«...Tutto bene, ma i miei superiori (parlo spe-cialmente dell’animatore di gruppo, di alcunialtri) mi pare che si buttino giù troppo; forse lofanno per farci amare la vocazione? Si sbaglia-no, a mio parere!» (1a teologia).

Hanno ragione certamente, quando ci domanda-no che tutto sia come in famiglia, una bella e carafamiglia, che almeno possa stare al fianco di quel-

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la che papà e mamma sanno scaldare con affettogrande e sincero. Così quando vogliono aboliti siste-mi da collegio o da caserma (là dove il numero nonè rilevante e tanti segnali possono essere ridotti a uncenno dell’incaricato dell’orario).

Veramente, come si può instaurare un vero stilefamiliare se i superiori (non dico... gli insegnanti!)non siedono con gli allievi alla stessa mensa? Avver-titi, costoro non fanno le meraviglie per certi riguar-di dovuti all’età o alla malferma salute: non fa cosìanche la loro mamma quando in famiglia c’è chi hadieta speciale per giusti motivi?

Se questa presenza diventasse in qualche modoun servizio (qualora il pasto fosse stato consumatoa parte), penso sarebbe ugualmente gradita ed edi-ficante, purché non si limiti ad essere la presenza diun ‘duce’ che fa filar dritto anche a tavola.

Non volere insegnanti sacerdoti può essere unaopzione ambigua, nessuno lo nega; tuttavia l’av-viso è pertinente: bisogna che sulla cattedra il sa-cerdote che insegna anche materie profane, nondesacralizzi la sua persona e la sua dottrina, e sialineare e cristallino, imparziale, ...buono, e noncredulone.

Quello che ha l’impressione di essere un declas-sato al rientro in paese, quasi che seminarista possasignificare “ragazzo di serie B”, va aiutato ad affer-marsi: il seminarista non ha di meno, ma più chegli altri coetanei; questa superiorità (dovuta allaeccellente formazione ricevuta e agli ideali sublimiaccarezzati) non va fatta pesare sugli altri, ma messaa servizio dei famigliari e della comunità parroc-

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chiale, liberandola da atteggiamenti bigotti e daquanto può rendere impacciato un adolescente chedeve farsi largo nella vita.

Il liceale che lamenta un ribasso di tono tra i suoicolleghi, con la connivenza tacita del corpo inse-gnanti, va ascoltato con qualche riserva, che nonmette no in dubbio la sua sincerità e il suo disa-gio, ma obbliga a verificare semmai non fosse abba-stanza “lucido l’occhio”, ovvero realmente si siatrattenuto in seminario qualcuno dal cuore ormailontano, che “cerca il mal comune” per non sentir-si troppo solo nella sua evasione. Se così fosse, isabotatori vanno individuati e richiamati fortemente:lo vuole la più elementare norma del bene comu-ne.

A chi, fatta ripetutamente la propria scelta havarcato le soglie della teologia, va dato ascoltoper due evidenti ragioni: se un giovane di vent’an-ni oggi opta per il sacerdozio, penso lo faccia sulserio, e non dubiterei di chiamare eroico quelpasso; in lui quindi c’è chiara l’intenzione di daretutto o niente, le mezze misure, i ripieghi e gli ac-comodamenti non li soffre, almeno in questo primoimpatto con la formazione specificamente sacer-dotale.

Trovarsi perciò con persone che non collimanocon l’ideale per il quale si è fatto una decisionecoraggiosa, è una autentica sofferenza morale, chepotrebbe (nei meno preparati) far sorgere pensieridi sfiducia verso l’ambiente, e forse anche più inlà... Un campione del calcio non proverebbe meno

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disagio se dovesse giocare con dei calciatori inerba...

In secondo luogo va ammesso che il giovaneentrato nella teologia con retta intenzione e vo-lontà di proseguire, si senta un po’ smarrito, comechiunque affronta un’ascensione difficile: istinti-vamente cerca compagni che percorrano lo stes-so sentiero e lo aiutino, magari precedendolo ebattendo il tracciato. Che delusione quando inmontagna, ai piedi di un picco, ci si ritrova conpersone inesperte come noi o tali da scoraggiaregli arditi. Rivedo l’amarezza di un viso amico,bloccato nei suoi entusiasmi la prima sera passa-ta in un seminario teologico: aveva lottato controla famiglia, aveva sofferto parecchio per realiz-zare quel passo; né alla università aveva avutonoie per la sua Fede: «Che t’è venuto in testa –gli disse a bruciapelo un seminarista – di lascia-re la libertà per chiuderti qui?».

Beh, forse sarà stato uno scherzo, una battutaumoristica...! Certo un benvenuto di cattivo gusto.L’altro deve aver pensato che quella poteva esserel’ultima monetina (di cattivo conio, però!) da sbor-sare per la grossa fortuna che gli era stata offerta dalCielo. Un terzo avrebbe chiuso l’incidente convin-cendosi una volta di più che anche in questi ‘san-tuari’ non tutto ciò che luccica è oro; oppure cheanche nelle comunità migliori, ognuno deve pro-nunciarsi da sé.

Voci comuni, opzioni unanimi, anche se giuntecon tono e volume diversi, ma con le credenziali di

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una simpatica schiettezza: inducono a rivedere meto-di e condotta, allo specchio di questi amici di Dio,scelti a confortare le speranze della Chiesa.

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Monotonia40.

Parlando al cap. 33 delle prorompenti energiedella adolescenza, sulle quali possiamo contareassai, accennammo alla ‘dinamicità’ con la quale ènecessario fare i conti, se non vogliamo rassegnar-ci a vedere ‘bloccato’ il ragazzo proprio quando eglipuò fare ‘mirabilia’.

‘Dinamicità’ può significare a quell’età bisognodi fare, di disfare; di non stare fermo, troppo lega-to a un tracciato, a un orario, a un amico; di corre-re, di variare, di disporre di un po’ di tutto appuntoper muoversi meglio nella giornata, da padrone;soprattutto il desiderio di poter decidere, organiz-zare, rischiare, scoprire qualche cosa di nuovo: inquell’età tutto si muove in continua crescita fisicapsichica e spirituale; pretendere di fermare o di fre-nare questa spinta, è agire contro una inderogabilelegge della natura, un agire contro le indicazionipiù che evidenti della Provvidenza.

Chi prescindesse da questa elementare esigenzalavorerebbe sul vuoto e comprometterebbe l’edu-cazione al dovere, alla pietà, alla castità, alla caritàfraterna, alla corresponsabilità, e a ogni altra meta.

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Un adolescente non dinamico viene a trovarsinella condizione abnorme di un paralitico, vivo sì,ma legato, immobilizzato... da chi mai? Dall’am-biente o dall’educatore? Sarebbe un educare allarovescia, giacché si getterebbe l’adolescente tra lebraccia di quella nemica mortale che comunemen-te chiamiamo monotonia. Questa genera la solitu-dine che abbiamo considerato come una maledi-zione per ogni uomo, massimamente per il giovane.

La monotonia, dunque, spinge in un tipo di oziointeriore, non facilmente riconoscibile, sul princi-pio, perché il ragazzo gettato tra le braccia di essa,può partecipare alla vita della comunità, fare quel-lo che tutti si deve fare; ma il meglio di sé non si pro-nuncia, non si muove: agisce un automa, senz’ani-ma, quasi un sosia. L’educatore sprovveduto nonavverte il segreto sabotaggio, e può addirittura con-solarsi per l’inappuntabile condotta di un polio-mielitico di spirito; ma quanto potrà durare l’illu-sione? Prima o poi il ragazzo deve esplodere, e sal-tassero appena i vetri...!

Tutto gli diventa difficile, poi odioso, anche ciòche dovrebbe essergli congeniale e gradito: la vit-tima della monotonia è triste di una tristezza cheaffonda le radici nella patita mortificazione di unaenergia vitale, che non tace, non può tacere, deve gri-dare e... percuotere. Sotto i colpi della maga impaz-zita, qual è appunto questa frustrazione, tutto crol-la, dalla pietà alla fiducia, dall’amore ai superiori allapadronanza dei sensi; persino la vocazione, se c’è,viene a trovarsi come una magnifica torre senza fon-damenti.

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Alcuni ex-allievi di seminari minori, sono rien-trati e hanno proseguito con esito felice, dopo qual-che anno di vita all’aperto, in famiglia, in società:era scoppiata in loro una insopportabile ribellionecontro tutto quello che in seminario cadeva sottogli occhi, istigati e ossessionati dalla monotonia.Passata la prima adolescenza, quella che più acuta-mente sente l’esigenza del moto e della varietà, sonorientrati, e trovandosi già più maturi e capaci, hannosofferto meno e reagito più virilmente alla insidio-sa nemica.

In altre pagine di questi appunti ‘casalinghi’abbiamo ricordato che la castità adolescenzialenon è possibile senza un contesto adatto a farlavivere e crescere; qui non possiamo sottacere l’in-sidia che nella monotonia alligna e prolifera spa-ventosamente: un sereno confronto con ragazzidella stessa età, ma che vivendo all’aperto o inambienti ‘chiusi’ ma bene arieggiati, non aveva-no da che fare con la monotonia, mi ha portato aquesta conclusione: l’impurità è meglio combat-tuta e dominata là dove la giornata è dinamica,talvolta disordinata, sempre piena di tante picco-le o grandi cose, con improvvisi contrattempi, conostacoli, con rischi, con sorprese, con novità, in-somma, che a getto quasi continuo creano centridi interesse, e tolgono il tempo di pensare al ‘dia-volo’. Non ci hanno le mille volte confidato gliscouts la loro stupenda serenità durante i giochidi s. Giorgio, o le giornate di marcia o la vita di-namica di un bel campeggio?

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Prendendo atto che nella vita comunitaria, se daun lato la monotonia dovrebbe essere facilmentecombattuta e in parte almeno eliminata, dall’altro lanecessità di un andamento unitario e non sempreflessibile può aprirle l’adito (almeno presso alcunisoggetti ipersensibili) più facilmente che altrove,non omettiamo ogni buon tentativo ed espedienteper rendere la vita di comunità più variopinta (!)possibile, soprattutto negli anni della media e del gin-nasio.

Un ragazzo di quinta ginnasio scrive: «Vorreiche nella nostra vita di comunità si potesserompere la monotonia della vita: essere più at-tivi e non limitarci a passare la giornata nellostudio, ma in altre attività»; un altro, di secon-da liceo, afferma: «Vorrei che ci fosse la possi-bilità di valorizzare le proprie attitudini e in-clinazioni, o doti...»; un alunno di terza mediapropone: «Mi pare che il nostro studio sia su-perficiale...; forse bisognerebbe che noi stessifacessimo dei lavori: ad esempio pulire le ca-mere, le altre sale, ecc.».

Tutti, forse inconsapevolmente, sono a qualchemodo feriti dalla monotonia incontrata nel loroambiente che, per quanto m’è stato detto, è ambien-te di famiglia, non molto numeroso, e abitualmen-te il superiore dispone di un buon margine per rego-lare l’orario con elasticità.

In risposta alle istanze di questa energia esplo-siva, nelle nostre comunità ci sia un po’ di tutto(cf. Fil 4, 8), la routine quotidiana sia sempre su-

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scettibile di varietà, magari di leggerissime va-rianti, che spezzino fin dal nascere la monotonia;ci sia varietà di cibi, di divertimenti (e questi cam-biati senza far ricorso a un intervento drastico,ma con la persuasione che la ripetizione del me-desimo gioco fa diventare ottusi e nevrotici); sicreino nuovi centri di interesse soprattutto appe-na ci si accorgesse che la monotonia fa capolino:qualche lavoro manuale di pulizia, di abbellimento,di sistemazione, di organizzazione; musica, canto,suono di strumenti, ecc.; e si faccia più conto dellescampagnate all’aria aperta secondo lo stile degliesploratori.

La vita di pietà ha pure bisogno di variare, dioffrire sempre qualche cosa di nuovo, e non solonella scelta dei canti o delle intenzioni, ma nellostile di fare meditazione (col libro, personalmente;con la comunità; predicata; scritta sul proprio dia-rio, ecc.), nella scelta del luogo (ad esempio: reci-ta di una parte delle orazioni all’aperto...) e soprat-tutto del tempo.

Gli anni passati nei nostri ambienti devono re-stare fissati nella memoria come il ricordo bellodi una ‘cuccagna’, all’insegna di quel serviziogioioso di Dio che, in ultima, è il più bel dono delcristianesimo all’uomo itinerante verso una feli-cità infinita.

Coloro che arriveranno alle mete riservate delsacro ministero o della vita consacrata negli istitu-ti religiosi, allenati negli anni più disponibili allavalorizzazione di una istanza profondamente sen-tita dalla natura, non conosceranno soste, si daran-

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no da fare, ne inventeranno sempre di nuove, a benedi loro stessi e della comunità; non invecchierannonello spirito nemmeno sotto i colpi della stanchez-za e gli acciacchi della vecchiaia, bandiere che sven-toleranno, magari fatte a brandelli, sino alla fine.Simpatici i santi che solo la morte ha potuto imbri-gliare nel loro dinamicissimo cammino.

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Obbedienza41.

Argomento che molti vorrebbero archiviato que-sto dell’obbedienza e non pensano alle immani con-seguenze che deriverebbero da una autonomia scon-siderata, dalla anarchia: ne andrebbe di mezzo lavita, la convivenza, la Fede stessa; ignorando che citroviamo in mezzo a un creato dove nulla procedea caso, o a capriccio.

In una vita associata l’obbedienza è legge vi-tale, a cui sono legati i massimi beni, quali l’or-dine, l’efficienza e la pace. Non è forse l’indi-sciplina che crea il caos, i mille incidenti dellastrada, i disordini morali, le liti, le disunioni, e lacondanna a morte di tante ottime intenzioni...? Sevoglio salva la mia vita e non danneggiare gli altri,non posso attraversare la città senza fare almenouna ventina di atti di vera obbedienza al codicestradale, in rispetto ai supremi diritti della sicu-rezza privata e pubblica.

E meno male che i guidatori del treno non sonodel parere di archiviare l’obbedienza agli ordiniricevuti, altrimenti converrebbe non rischiare la vitamontando in treno...!

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In un giorno solo, cioè nell’arco di 12 ore, unmio conoscente rimase a piedi quattro volte: per-dette tre corse del treno e la corsa del pullman; mase gli altri, i più, avessero dovuto stare ai suoi gusti,chissà quanti avrebbero quel giorno perduto la corsae la pazienza!

E quanti lavoratori ogni mattino fanno sveglia aora stabilita e contando il minuto vanno avanti sottoil peso di responsabilità personali e sociali fino asera, attenti poi a non prendere sonno al momentogiusto di scendere... perché il treno non può scon-tentare gli altri e fare marcia indietro per rimedia-re ai guai del pisolino invadente...

La vita stessa non l’abbiamo ricevuta attraversol’atto di obbedienza dei genitori che hanno ac-cettato la legge della procreazione stabilita dalCreatore?

Obbedienza, problema di vita per tutti; fa un dis-servizio agli individui e alla società chi volessearchiviare questa scienza nell’educazione dei gio-vani. Ragione e Fede offrono quanti motivi voglia-mo per persuadere i nostri alunni della necessitàesistenziale di questa virtù.

I Padri del Concilio definiscono la disciplinacome «elemento integrativo di tutta la formazione,necessario per acquistare il dominio di sé, per assi-curare il pieno sviluppo della personalità...» (O. T.11/B). Accettiamo pure l’avviso ad una educazionegraduale: «Le norme disciplinari poi devono appli-carsi in modo conforme all’età degli alunni, cosic-ché essi, mentre si abituano gradualmente al domi-

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nio di sé, imparino nello stesso tempo a fare rettouso della libertà, a sviluppare lo spirito di inizia-tiva e a collaborare con i confratelli e con i laici»(O. T. 11/B).

E... mistero di Fede, l’obbedienza!L’apostolo Paolo volendo riassumere in uno i

sentimenti che vivono in Gesù così scrive ai Filip-pesi (2, 5-8): «Abbiate in voi gli stessi sentimenti chefurono in Cristo Gesù, il quale pur essendo di natu-ra divina,... spogliò se stesso, assumendo la formadi servo e divenendo simile agli uomini; apparsoin forma umana, umiliò se stesso facendosi obbe-diente fino alla morte e alla morte di croce».

Altrove la Bibbia afferma che, attraverso il mezzodelle sofferenze, Gesù ottenne il suo scopo, quellodi redimere i figli della disobbedienza sottomet-tendosi al Padre in perfetta obbedienza: «Pur essen-do Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle coseche patì» (Eb 5, 8).

Una attenta meditazione del Vangelo porta ascoprire come Gesù nulla ha fatto fuori dell’am-bito dell’obbedienza, dal primo istante della In-carnazione (cf. Eb 10, 5-7) all’ultimo respiro sul-l’altare del sacrificio (cf. Gv 19, 30). Nessuno me-glio di Lui ha accettato questa legge fondamen-tale che regola i rapporti della creatura umana colsuo Creatore, a cui deve tutto; e nessuno ha ac-cettato così pienamente questa legge che rendepossibile la convivenza tra gli uomini. Nessunoha mai ricevuto tanto da Dio, quanto Lui nella suanatura umana, creata, e nessuno quindi si è sen-

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tito più ‘servo’ di Lui; così vivendo, nessuno hagiovato più di Lui alla causa del bene comune. E’giusto che, edotti a tanta scuola, gli apostoli in-sistano nelle loro lettere su questa virtù.

Molto strano che ci siano persone – del restobene intenzionate – che pensino di potersi realiz-zare meglio muovendosi nelle giuste direzioni (alme-no così intendono) con piena autonomia e indipen-denza; e che ci siano taluni i quali cessando di esse-re discepoli – non convergendo con le idee del Mae-stro, in realtà non hanno di apostoli che il nome –ancora si illudano di operare la salvezza delle animebattendo una strada diversa da quella percorsa daGesù.

Molto opportunamente i Padri del Concilio neldocumento che tratta della diffusione del Regno diDio sulla terra affermano: «Sia ben persuaso (l’e-vangelizzatore) che è l’obbedienza la virtù distin-tiva del ministro di Cristo, il quale appunto con lasua obbedienza riscattò il genere umano» (A.G.24/B).

Non pensavo che sotto l’aspetto puramente umanol’obbedienza, o ‘disciplina di partito’ come la chia-mano loro, fosse di un’efficacia così sorprendenteper la diffusione delle più storte e aberranti ideolo-gie; me ne dovetti persuadere nei mesi passati nellazona più ‘rossa’ d’Italia: è veramente questo “passodi marcia” che fa guadagnare strada anche alle idee;obbedienza quasi militaresca o meccanica... ma sem-pre obbedienza da passo di marcia. I figli della Lucestanno a discutere se sia o no umana e cristiana l’ob-

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bedienza; mentre gli altri, più accorti, obbedisconoe fanno e ci strappano generazioni di anime. Non ciaccorgiamo che tante belle realtà stanno brucian-do? Che le più brutte idee s’appiccano ai nostri fede-li?

Come non ammettere che si doma meglio unincendio, quando tutti si lavora volonterosamentee... agli ordini?

Obbedienza domandata con animo di padre o difratello maggiore; e obbedienza prestata con cuorefiliale o fraterno; in una parola, obbedienza di fami-glia.

Obbedienza questa certamente più amabile diogni altra, senza dubbio, ma allo stesso tempo assaipiù obbligante di qualsiasi altro tipo di obbedienza.Qui infatti è l’amore che ha l’iniziativa, sia in chicomanda sia in chi obbedisce; quell’amore che pre-viene, indovina, corre, resiste e... obbedendo sa dioffrire un servizio sigillato con un marchio di garan-zia inconfondibile d’amor puro e di donazione per-fetta: che cosa infatti si dona con un’obbedienzaamorosa, se non il meglio che abbiamo, la liberavolontà?

Questo tipo di obbedienza accorcia le distanze,permette il dialogo che illumina a capire lo spiritopiù che la lettera, può contare sulla comprensionee sull’aiuto di chi comanda e sulla apertura e con-fidenza di chi obbedisce. Superiori e alunni nonsiamo forse tutti servi di Dio e conservi di ognunodi noi? Chi comanda, lo fa per obbedire; e già lui perprimo dimostra di obbedire, compiendo quel servi-zio a nostro favore, comunicandoci ciò che la Prov-

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videnza vuole da noi per il bene di ognuno e dellacomunità.

Cristo ci precede in questa scienza, lui che “Servoe Figlio” di Dio ha saputo scorgere la Volontà Pater-na in ogni circostanza, in ogni legge religiosa osociale che fosse, nelle consuetudini del suo popo-lo, negli ordini di chiunque aveva autorità dall’al-to, persino nella condanna a morte venuta da undisonesto amministratore pubblico (cf. Gv 19, 11).

Obbedienza, mistero d’amore!Fu così per lui, il Maestro; sia così anche per

noi!Se, come dicevamo fin dalle prime pagine, la

carità sarà il leitmotiv delle nostre intenzioni peda-gogiche, non ci riuscirà troppo difficile far accettarecon buon viso una virile virtù umana e cristiana chea sua volta fornirà nella verifica delle vocazioni unelemento di prim’ordine per la scoperta di quelladisponibilità che notammo tra le doti-base per l’ac-cettazione-risposta del carisma divino.

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O tutto o niente!42.

Nelle vacanze dalla quinta ginnasio al liceo,un ragazzo comunicandomi le sue intenzioni scri-veva:

«Sono felice, Padre, perché finalmente vedochiaro il mio destino: farò il prete, non ho piùdubbi. Non mi sento degno, ma ho fiducia. Voglioperò diventare prete tutt’intero: o tutto o niente.Lei non si dimentichi di aiutarmi...».

E’ facile intuire la gioia di un adolescente usci-to all’aria libera, dopo aver percorso un lungo tun-nel nel buio o una strada avvolta dalle nebbie: il tra-vaglio non era poi durato gran che; il ginnasio nonè che un biennio, ma per lui era sembrato eternoquel tunnel!

Sempre così i giovani, per i quali un’anticame-ra, una attesa per quanto breve, pare sempre fin trop-po lunga. E ne vennero una visione chiara e un pro-posito totalitario: o tutto o niente, anche qui conl’entusiasmo dell’età che non ammette mezze misu-re; se parte, corre e non si ferma.

«O tutto o niente!».

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Il divino Maestro li conosceva bene questi sim-patici giovani, e non dubitò di proporre a un adole-scente il sublime miraggio della perfezione indi-candogli un tracciato da eroe. E non era un bel ragaz-zo Giovanni, il discepolo più attento, il più inna-morato, il ‘prediletto’? L’adolescenza è l’età cheesplode, vulcanica, impaziente, verso quella dire-zione che agli occhi assetati di conquiste è stataindicata come il proprio destino: perché mai abbia-mo paura o falsi riguardi a indicare le ‘nostre’ mete,quelle sulle quali ci troviamo soddisfatti e felici?Perché non domandiamo il massimo a giovani chesono autentiche miniere di energie vitali sulle qualisi può ancora contare? Si elemosina il minimo allaporta di chi può appena dare il minimo, ma è stol-tezza elemosinare una monetina al cuore di chi puòriempirci le tasche!

Un giovane, che conta già i 30 mesi che lo sepa-rano dal presbiterato, ha 23 anni, ed è entrato nellenostre file in quarta ginnasio; rivedendo la stradafinora percorsa così riassume la sua esperienza per-sonale:

«Sono del parere che bisogna avere un idealegrande e luminoso verso il quale convergere tuttala propria vita, le proprie energie, ecc. Allora si rag-giunge la coerenza di vita. Finché non si sa checosa si vuole, allora c’è incertezza ed egoismo. L’i-deale deve essere il Vangelo, le sue Parole, Gesù...».

Qualche ipercritico, che in quest’ora di gran penu-ria di vocazioni sta alla finestra per contestare,fischiare, o per suggerire “una scienza o una peda-

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gogia impossibili”, potrebbe mormorare che que-sto chierico è nato vecchio, puzza di trionfalismo eancora vede il sacerdozio con la fantasia di chi dice-va, in tempi andati, che «se per via si incontrasse-ro un prete o un angelo, a quello, prima che a que-sti si dovrebbe il saluto».

Il sacerdozio ministeriale, conferito ai chiamaticon un sacramento, li fa partecipi del medesimoSacerdozio di Cristo in un modo singolare, ontolo-gicamente distinto dal sacerdozio regale comune atutti i battezzati, e li colloca al vertice delle dignità,dei poteri e delle responsabilità che creatura umanapossa sopportare. Ogni sacerdote, ammirato e com-mosso, può senza peccare di vano trionfalismo diredi sé: «Digitus Dei est hic» (Es 8, 15) ed esaltarsicome la Vergine Maria nella riconoscenza e nell’o-blazione di tutto sé all’immutabile Sacerdozio diCristo. Quante problematiche sfumerebbero, lascian-do spazio e tempo ed energie all’approfondimentodi verità essenziali e all’acquisto di doti eminente-mente necessarie e cercate con acuita istanza dalpopolo di Dio nei suoi figli migliori!

Preti, preti santi ci vogliono, che restituiscanoal sacerdozio, vissuto da fragili creature, la sua gran-dezza ‘unica’ e il suo prestigio trascendente!

Preti “distaccati e puri”, che si tengano ininter-rottamente al banco degli scolari, intenti alla Paro-la dello Spirito, per assimilarne il nettare e comu-nicarla con amore diaconale immenso ai vicini e ailontani, che di quelle parole che sono «spirito evita» (Gv 6, 63) hanno bisogno e fame.

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Un amore sconfinato per il Cristo eucaristico eper il Cristo mistico, renderà accettabili i sacrificiche portano con sé un celibato vissuto in piena lealtà,una diaconìa diuturna offerta senza calcoli egoisti-ci all’immensa famiglia di Dio, e l’assillo quoti-diano di un adeguamento della propria condotta pri-vata e pubblica alle istanze di una vocazione così sin-golare. Con chiarezza di mete e pari linearità dimetodi, tutte le nostre scuole apostoliche e i nostriseminari devono sentire l’altissimo onore di colla-borare con lo Spirito Santo a quella perpetua Pen-tecoste che dona alla Chiesa di Dio i figli più cari,i suoi maestri, pastori e padri.

Scuole di santità, le più alte, quindi le più neces-sarie, seppure le più impegnative e ardue.

E’ forse vento di Pentecoste quello che oggi sof-fia impetuoso sui tetti dei nostri cenacoli? E’ turbi-ne che viene dall’alto quello che scuote i rami del-l’albero che da secoli offre alla Chiesa santa i divi-ni frutti del sacerdozio?

Lo voglia il Cielo!In umile attesa e in preghiera, attorno alla Regi-

na degli apostoli, rinnoviamo la nostra Fede nelsublime dono della vocazione sacerdotale e reli-giosa; chiediamo che a ognuno di noi, felicissimi efortunatissimi, sia concessa l’immensa gioia di pas-sare ad altri, a molti e santi giovani, la consegna, eche alla terra, per il nostro umile e gioioso mini-stero, non manchino mai, sino alla fine dei tempi, itesori del Cielo.

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Ancora le ‘scuoleapostoliche’?

43.

Nella costituzione Lumen gentium è detto: «Iconsigli evangelici della castità consacrata a Dio,della povertà e dell’obbedienza, essendo fondatisulle parole e sugli esempi del Signore e racco-mandati dagli Apostoli, dai Padri e dai dottori epastori della Chiesa, sono un dono divino, che laChiesa ha ricevuto dal suo Signore e con la suagrazia sempre conserva» (L.G. 43/A); e più avan-ti: «Un simile stato, se si riguardi la divina e ge-rarchica costituzione della Chiesa, non è inter-medio tra la condizione clericale e laicale, ma daentrambe le parti alcuni fedeli sono chiamati daDio a fruire di questo speciale dono nella vitadella Chiesa e ad aiutare, ciascuno a suo modo,la sua missione salvifica» (L.G. 43/B). Affermainfine: «La professione dei consigli evangelici ap-pare come un segno, il quale può e deve attirareefficacemente tutti i membri della Chiesa a com-piere con slancio i doveri della vocazione cri-stiana...» (L.G. 44/C).

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Nel decreto Perfectae caritatis è detto: «I sacer-doti e gli educatori cristiani facciano seri sforziaffinché per mezzo di vocazioni religiose, scelte inmaniera conveniente ed accurata, la Chiesa ricevanuovi sviluppi in piena corrispondenza con le neces-sità del momento. Anche nella predicazione ordi-naria si tratti più frequentemente dei consigli evan-gelici e della scelta dello stato religioso. I genitori,curando l’educazione cristiana dei figli, coltivino ecustodiscano nei loro cuori la vocazione religiosa»(24/A).

Se questo è l’autentico pensiero della Chiesa, èparimenti chiaro il dovere sia di reclutare le voca-zioni ‘religiose’, sia di avere case e ambienti adat-ti alla coltivazione ed affermazione e maturazionedei germi di tale vocazione.

«Agli istituti poi è lecito, allo scopo di suscita-re vocazioni, curare la propria propaganda e il reclu-tamento dei candidati, purché ciò avvenga con ladovuta prudenza e nell’osservanza delle norme sta-bilite dalla Santa Sede e dall’Ordinario del luogo»(P.C. 24/B).

La parola ‘reclutare’ non garba molto; resta tut-tavia ben grave il problema delle vocazioni reli-giose, appunto in proporzione alle aumentate neces-sità apostoliche del momento storico che viviamo.Se la vocazione religiosa è “uno speciale dono” delSignore, cioè “opus Dei”, ciò nondimeno resta anchee sempre “opus hominis; opus hominum”: giusta-mente il Concilio fa appello a tutti perché ognunofaccia la sua parte e susciti, collaborando con lo

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Spirito, nuove e numerose vocazioni, e queste sianoconvenientemente e accuratamente seguite.

A parte quanto è stabilito in comune accordonelle varie diocesi per una pianificazione raziona-le nel reclutamento delle vocazioni sia per i semi-nari, che per le scuole apostoliche, qui rifacciamo-ci all’‘iter’ che va percorso per una efficace que-stua di vocazioni.

Innanzi tutto è con il gran mezzo della preghie-ra che vanno cercate le vocazioni, giacché prima alCielo vanno domandate, che alla terra; ciò sia dettoper evitare che, mancando la luce soprannaturaleper un retto discernimento degli spiriti (id est, percapire le intenzioni divine!), non si perdano tempo,energie e denaro, creando delusioni dentro e fuoridi convento. Il «Rogate Dominum messis, ut mittatoperarios...» (Mt 9, 38), resta il primo passo, inso-stituibile, e resterà ancora quello che dovrà accom-pagnare ogni altro mezzo o strumento.

Immediatamente dopo, anzi inseparabilmente,questo secondo ‘amo’ è necessario per la pesca dellevocazioni religiose: una condotta luminosa, edifi-cante dei religiosi, così come afferma il Concilio:«Ricordino però i religiosi che l’esempio della pro-pria vita costituisce la migliore propaganda del pro-prio istituto ed il migliore invito ad abbracciare lostato religioso» (P.C. 24/C). Un esempio senzaombre, affascinante, occorre, giacché nessuno dubi-ta del grave impegno che la prassi dei consigli evan-gelici, che non resti alle apparenze, comporta sem-pre.

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A mio parere non basta una condotta degna, civogliono almeno due caratteristiche a integrazio-ne di una esemplarità sia pure eccellente: che ilreligioso sia, e dimostri chiaramente di esserlo,felice di aver abbracciato questo austero stile divita, e che nella vita comune, scelta come coeffi-ciente di perfezionamento della propria persona,si trovi altrettanto soddisfatto e contento, senzaalcun rimpianto per quanto ha lasciato per segui-re il Maestro.

Fatti questi due primissimi passi, gli altri, noncerto trascurabili (cf. il proverbio sempre buono:«Aiùtati, che il Ciel t’aiuta!»), vengono di conse-guenza e con la benedizione di Dio: il Concilio,abbiamo letto sopra, indica come un mezzo effica-ce la predicazione dei consigli evangelici e dellostato religioso e, logicamente, una informazionesugli specifici apostolati degli istituti stessi.

Alla predicazione dovrebbe seguire quell’ac-costamento a gruppi (massimamente fra gli ado-lescenti e fra i giovani) e individualmente (adesempio nelle Confessioni e nella direzione spi-rituale, o tramite una corrispondenza epistolarediscreta e pertinente) che permette una certa ini-ziazione alla vocazione religiosa. Offre buone oc-casioni la predicazione di ritiri o di corsi di eser-cizi spirituali o di convegni vari: in tali circo-stanze, però, si stia attenti a non cadere in faciliabbagli, quali appunto può suscitare l’incande-scenza momentanea provocata dalla singolare gra-zia di una speciale predicazione.

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In una parola è il lavoro apostolico svolto acontatto con il popolo di Dio, in un contesto diaccordo e di armonia con i sacerdoti diocesani econ tutti i lavoratori della messe del Signore; que-sto soprattutto trattandosi di reclutamento di vo-cazioni a istituti religiosi di vita attiva o mista.Quello per i conventi di vita strettamente con-templativa e di clausura diventa un po’ più diffi-cile, mancando un contatto di lavoro apostolicopresso i giovanetti: qui il reclutamento deve farconto sui direttori di anime, che sapranno indi-care a ogni chiamato la via di Dio, non esclusaquesta, nemmeno ai giorni nostri.

D’altra parte come si potrebbero avviare a unavita così singolare dei ragazzi? Non diverrebbe assaiproblematica la convivenza di ragazzi all’ombra diseveri monasteri, dove domina abitualmente il silen-zio...?

Non mi lasciarono indifferente quei frugoli dellamedia che a mensa sedevano nello stesso refettoriomonastico, assieme ai venerandi padri, ad ascolta-re ancor più austere letture: per non vederla prestodeserta quella già minuscola scuola apostolica, eraurgente levarla di sana pianta e portarla a gridare ecorrere in una aperta campagna, abbastanza distan-te dal monastero, da non essere disturbata dal rigi-do silenzio di quelle sante creature dai calli alleginocchia...!

Infine una cordiale intesa con i sacerdoti delleparrocchie e con i famigliari dei ragazzi potrebbeovviare alle non poche difficoltà che anche buonifedeli frappongono alla entrata dei figli e al non

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troppo ipotetico pericolo di una non piena libertà eresponsabilità nelle scelte decisive.

E le “scuole apostoliche”? Ci vogliono tantoquanto i seminari diocesani, e appunto per questaragione nelle nostre pagine si è parlato di ambeduele istituzioni: necessarie agli istituti come il vivaioalla vita. Se il nome dovesse mutare, la sostanza ele mete devono conservarsi intatte: siano cenacolidi intensa vita umana, cristiana e di una apertura odisponibilità accentuata per la formazione e la rea-lizzazione di una eventuale vocazione sacra. Sianobene ossigenate, aggiornate, e vivificate di alto spi-rito di famiglia; né siano agli alunni preclusi, pertimore di perdere elementi, gli orizzonti universalidel santo servizio, come se nella Chiesa, nella Casadel Padre, non ci fossero molte altre mansioni (cf.Gv 14, 2).

Si tenga presente che nell’animo dell’aspirante,se chiamato, in teoria dovrebbero presentarsi così levarie tappe della propria vocazione: sacerdozio,consigli evangelici, specifico apostolato; ma in realtàle cose vanno diversamente, e questo impone riguar-di speciali in ordine al rispetto della libertà di scel-ta. Il ragazzo inverte l’ordine: è attratto dal generedi apostolato esercitato dai padri che lo assistono,poi pensa alla vita ‘consacrata’ dai voti, infine alsacerdozio.

Per quanto m’è toccato di constatare, un simileprocedere può essere stato, in taluni casi, frutto diuna errata maniera di educare: chi non scorge inquesto, una propaganda preponderante (e forse un

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tantino interessata!) sul tipo di apostolato (mostran-do troppe volte gli aspetti lusinghieri e sottacendole corrispondenti rinunce, ecc.)? Con una tristissi-ma conseguenza: che la prassi dei consigli evange-lici e il sacerdozio stesso con i relativi oneri, sonostati concepiti come una doverosa conseguenza,quasi un bagaglio obbligatorio... per poter esercitarequel simpatico genere di apostolato. Ne è venutoche qualcuno, col diminuire o cessare degli entu-siasmi apostolici, non ha trovato ragion d’essere peri voti e il sacerdozio...

Per prevenire un così serio pericolo, anche nellescuole apostoliche si dovrebbe adottare lo stile semi-narile, le stesse norme, le stesse mete: l’indirizzoall’istituto in causa dovrebbe nascere e svilupparsiinsensibilmente, fino alla maturazione di una deci-sione fatta in piena conoscenza delle svariate manie-re di realizzare il proprio sacerdozio nella prassidei consigli evangelici, nella pluralità meraviglio-sa di ordini e di congregazioni, come di poter fareil prete degnamente anche nel clero diocesano. Gra-datamente, in seguito a pronunciamenti sempre piùchiari, l’aspirante deve essere avviato ai consiglievangelici e agli approcci col genere di apostolatoproprio dell’istituto, con prudenza e misura tali danon aggravare con pesi impossibili, e da non crea-re illusioni.

Il pericolo di avere in casa dei babbei è più fa-cile negli istituti; ma sia ovviato educando pertempo gli aspiranti alla piena lealtà, alla giusti-zia, alla riconoscenza, al lavoro, a non farsi ser-vire, ma a donarsi con gioia al servizio della co-

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munità, anche per giustificare almeno un po’ ilpane che vi si mangia.

La tentazione poi di “sbattere l’uscio” qualorasi dovesse cambiare direzione, è più da parte del-l’istituto, che da quella dell’evaso: tante fatiche, eingenti spese se ne vanno...! Suvvia! Niente va per-duto di quello che noi abbiamo donato con rettaintenzione e buon volere: Dio ripaga anche i piùpiccoli desideri e non lascia senza mercede il «bic-chiere di acqua fresca...» (Mt 10, 42). Gli ex-allie-vi, se furono veramente amati ed edificati, nonpotranno tanto facilmente obliterare il bene ricevu-to e sapranno, a loro modo e nella loro vita, rende-re chi il trenta, chi il sessanta e chi il cento nel vastoRegno di Dio (cf. Mt 13, 23).

Non poche volte alla fine s’è dovuto ammettereche «non tutto il male era venuto per nuocere», giac-ché sarebbe stato un male davvero serio, se, traditidalla facile tentazione del numero, avessimo trat-tenuto (senza proprio violare o forzare la libertà!)elementi non idonei a vivere la vocazione in comu-nità: non vanno avanti gli istituti per la presenza‘numerica’ di certi carrettoni o per la cronica con-testazione dei sedicenti santi! Non sono questi i “piùlogici e più generosi seguaci” che Gesù chiama allaperfezione (cf. Paolo VI, 2 feb. 1971).

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Ruolo ‘apostolico’degli ex-allievi

44.

Più sopra ci siamo proposti, a vari titoli, di ani-mare così la vita nelle nostre comunità di forma-zione: che il ricordo degli anni passati con noi debbarestare in benedizione sia in coloro che saranno pretio religiosi, sia per tutti gli altri, gli ex-allievi.

Se per tutti indistintamente i nostri ambienti sonostati larghi di aiuto per quelle promozioni non fal-laci che preparano l’uomo di domani a sostenerecon onore tutte le proprie responsabilità personalie sociali, non pare giusto che tanto lavoro e fatichedebbano rimanere quasi per sempre confinate entrol’arco di vita passato assieme o abbiano un riflessobenefico appena a un palmo fuori di casa nostra.

Gli ex-allievi devono gravitare, a loro modo s’in-tende, intorno a noi quasi per una necessità mora-le, come l’ape che gira e rigira intorno all’aiuolanella quale ha gustato delle buone cose.

Negli istituti religiosi questo ritorno sembra piùfattibile e più facile; mentre nei seminari il frequenteavvicendarsi del personale può segnare una rottura

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di relazioni, che, voglia o no, anche quando sonodirette verso una istituzione, si sostengono finché cisono gli ‘animatori’, le persone care dalle quali siè stati beneficati. In ambedue i casi è vantaggiosointeressarsi di quelli che, pure avendo infilato unastrada diversa dalla nostra, hanno percorso con noiun bel tratto di cammino, e proprio negli anni miglio-ri della vita.

Sembra opportuno fare (fugacemente e non senzauna certa fatica) una distinzione, allo scopo che ciprefiggiamo, di tenere le fila a fine di bene: tra gliex-allievi ci sono gli allontanati per un motivo disci-plinare, in vista del bene comune soprattutto; cisono quelli invitati a prendere un altro indirizzo,perché ritenuti o non idonei o perché essi stessi nonsi ritenevano ‘chiamati’; e ci sono anche alcuni,forse pochissimi, che erroneamente furono consi-derati non chiamati, oppure furono rinviati alla fami-glia in attesa di una nuova verifica e di una promo-zione definitiva.

Su tutti costoro possiamo contare, ma ad un patto,che non siano usciti “sbattendo l’uscio”, come sisuol dire. Naturalmente, tutti gli educatori vorreb-bero eliminarle queste uscite forzate o rese neces-sarie, ma accettate con un disagio astioso; e chi nonvorrebbe prevenirle? Si può arrivare a queste deci-sioni per motivi vari e qui non è il caso di farne unalista; ma due osservazioni suggerisce la comuneesperienza.

E’ innanzi tutto il bene dell’individuo che vuolevenga debitamente allontanato chi fosse affetto di

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omosessualità: questi deve uscire quanto prima all’a-ria aperta, vedere ragazze, prendere qualche scap-pellotto da suo padre (che si accorgesse del male)e trovare di che rompersi la testa (fastidi, grattaca-pi, dispiaceri, impegni di lavoro, ecc.) per liberar-si dalla pessima inclinazione; che se per una ipote-ticissima speranza di recupero lo tratteniamo inseminario, questi si fisserà maggiormente nel suomale e uscito troppo tardi gli riuscirà molto più dif-ficile la guarigione, col rischio di aver danneggia-to per sempre un uomo. Che il bene comune optiper questa ‘liberazione’ è più che evidente.

Altro motivo di malanimo può essere imputato alfatto di aver trattenuto qualcuno che non era pernulla idoneo ai nostri fini, né alla sopportazione diuno stile di vita sia pur rapportato alle comuni esi-genze dei giovani, indipendentemente dal loro desti-no. Hanno camminato qualche tempo con le scarpestrette, ora se ne vanno con i calli, e non conserve-ranno certo un caro ricordo, ma potranno sentireastio e ribellione, coinvolgendo in questo malanimoanche la pratica religiosa. In negozio, è vero, le scar-pe si provano per qualche minuto e con certi riguar-di; poi, se non vanno, non ci si ostina a indossarle,perché nessuno ignora che non c’è un solo paio, néun solo tipo di scarpe da infilare: ciò vale anchetrattandosi di un impegno così grave come la scel-ta dello stato.

Questi ‘allontanati’ trovassero almeno un parro-co o un curato cui affidarsi nell’ora della sconfitta(la chiamo così, perché non saprei a che altra cosa

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paragonare lo stato d’animo di un ex-allievo ‘boc-ciato’ moralmente)!

Quelli che non erano idonei o non si sentivanochiamati, non si vede come possano conservare sfi-ducia verso le nostre case se, appena ci si è reci-procamente accorti, se n’è parlato e si è arrivati a unadecisione bilaterale serena, bene accettata comedono dello Spirito che guida le nostre sorti. Percostoro il bene ricevuto resterà certamente nellefondamenta dell’edificio morale. Su questi dobbia-mo poter contare.

Coloro infine che fossero usciti perché erronea-mente giudicati (con i modi più convenienti e a suotempo) non chiamati, ma senza “sbattere l’uscio” elegati all’affetto degli educatori, non saranno impe-diti dal far ritorno; e comunque, se non hanno por-tato con sé astio e avversione, potranno sempre esse-re una vera benedizione per le parrocchie, per lasocietà, avendo sotto un abito e una ‘ratio vivendi’comune e laicale, un animo non fatto per una pras-si mediocre di vita spirituale.

Tutti indistintamente vanno aiutati con onestà ecarità a infilare la giusta strada e a inserirsi condisinvoltura e competenza nell’alveo comune.

Con opportuni convegni, forse meno vistosi epiù frequenti, potranno far ritorno alle fonti per ria-verne beneficio, tutti, senza escludere di nostra ini-ziativa alcuno: si tratterà in ogni caso di studiareuna organizzazione che non venga per nulla a intral-ciare la vita ordinaria delle nostre case.

Convegni frequenti, e frequenti contatti, nonesclusa la corrispondenza epistolare, partita maga-

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ri da uno o dall’altro degli educatori, anche per ini-ziativa personale, là soprattutto dove mancasse ilgruppo incaricato, o una segreteria, o un delegato ex-allievi.

Coltivati, quanti buoni servizi possono renderealla causa di Dio e alla vita dei nostri stessi cena-coli! Perché non dovrebbero diventare i primi bene-fattori, gli amici delle vocazioni, gli apostoli delleparrocchie sia nella assistenza sociale, che nel ser-vizio liturgico? ‘Migliori’ devono poter essere anco-ra, anche fuori del seminario: non sono stati infat-ti convitati, per lungo tempo, alla mensa imbandi-ta dalla Provvidenza per i figli migliori della Chie-sa?

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L’arte di pregare45.

Abbiamo spinto l’occhio nella direzione di dueabissi, trattando in queste pagine del problemavocazionale: da una parte l’abissale grandezza delcarisma divino, e dall’altra l’immane piccolezzadi chi riceve il dono e di quanti sono votati allaeducazione degli amici ‘scelti’ e prediletti: ...e ab-biamo balbettato qualche sillaba, abbiamo piut-tosto pregato, che elaborato nuovi sistemi e nuovitentativi.

Non fecero altrimenti i discepoli, gli apostoliprimi, che sotto la materna vigilanza di Maria, lafortunata Madre di Gesù, si chiusero nel cenacoloin preghiera. Quando l’Infinito si abbassa sul nostrocapo, tremano persino le ossa e non resta altro rifu-gio che la preghiera. Qui l’Infinito diventa nostraluce, nostra fortezza, nostro coraggio, e nostra gioia:nulla più ci spaventa, nulla ci trattiene dal gettarci(noi, creature nate dal nulla e concepite nel pecca-to) in ardue imprese.

Non è forse questa la più confortante esperienzache offre la Bibbia? Non è questo il precetto delMaestro così bene accolto e vissuto dagli apostoli

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e dai santi di ogni epoca? Chi prega dispone dellapotenza di Dio; chi non prega, credendosi suffi-ciente a risolvere i problemi inerenti alla salvez-za, è un illuso e dispone della sua potenza, cheall’impatto delle innumerevoli provocazioni del-l’avversario, si è sempre dimostrata imparità e im-potenza.

Se al sopraggiungere di una nuova difficoltà, cisi mettesse innanzi tutto in ginocchio, penso cheDio suggerirebbe: non tocca a Lui dire la primaparola e... l’ultima in questo travaglio? Tempo dicenacolo è quello che passiamo assieme ai nostriadolescenti nei seminari, nelle scuole apostoliche,nei noviziati: a noi tocca soprattutto pregare; alloSpirito fare il resto, il più.

E quale ruolo deve occupare l’orazione (menta-le, vocale, personale; comunitaria, privata e litur-gica; pratiche e spirito...) nella educazione dei can-didati? Quello che una perla preziosissima ha ildiritto di occupare in un anello: il posto centrale, ilprimo, il più importante ed opportuno, affinché il suovalore brilli e domini e piaccia. Commisurando iltempo dedicato nella giornata alla scuola, allo stu-dio o semplicemente alle ricreazioni (queste in mediaoccupano quattro ore), dobbiamo ammettere che lospazio ufficialmente stabilito per l’orazione è unaparte appena ‘discreta’; vista nel contesto, addirit-tura ‘minima’; inferiore (al solito!) al tempo desti-nato alle cinque refezioni (3+2).

Si può obiettare che la ‘perla’ è sempre la partepiù piccola: e sia! Purché veramente in una co-

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munità, che si propone mete di eccezione, questaperla abbia il suo posto migliore, e da tutti siaconsiderata come la più necessaria e la più pre-ziosa.

Novellini e veterani, giovanissimi e liceali, aspi-ranti e novizi... tutti devono respirare aria pura,nutrirsi di cibi abbondanti a seconda delle neces-sità; non altrimenti trattando della orazione: tutti siha da pregare, ma tutti secondo necessità ed istan-ze personali. Se l’età e lo sviluppo psico-fisico,intellettuale e spirituale, reclamano continui ade-guamenti e adattamenti nell’organizzazione dellostudio, del lavoro e della stessa ricreazione, moltopiù va studiata e misurata fino al minuto-secondo lacosiddetta ‘pietà’.

Forse per i novellini, gli alunni della prima odella seconda media, la Messa quotidiana non saràopportuna nei primi 20 giorni di seminario; men-tre sempre, fin dal primo mattino, desiderata e as-similata una lezione spirituale, fatta di preghierevocali e di una esortazione non ‘barbosa’, ma le-gata ai sentimenti che si agitano nel cuore di que-sti frugoli un po’ spaesati. Il Rosario può essereintrodotto, senza troppe attese, quando il clima otono spirituale è già un po’ acceso; l’adorazioneeucaristica quando il fervore tocca punte di in-candescenza.

La pietà privata è fondamento alla pietà co-munitaria e va suggerita (secondo peso e misuragiudiziosi!) anche ai più giovani e potrà essereuna breve visita all’Eucaristia, o un pezzo di Ro-sario, o la lettura di una pagina evangelica. La Co-

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munione, anche se fatta in una azione liturgicacomunitaria, va consigliata come una pratica ‘per-sonale’, per evitare fin dagli inizi gli abusi di cuitutti sappiamo.

Qualche ‘osservatore’ si domanda, perché dovreb-be essere ‘facoltativa’ la quotidiana partecipazionealla Messa: è forse facoltativa la presenza alle lezio-ni scolastiche, alle ricreazioni e ai pasti...? E non visi partecipa comunitariamente? Pare incredibile chein ambienti aerati di Fede, non si possa far accetta-re nelle sequenze giornaliere quella mezz’ora diMessa comunitaria nella quale il Cielo offre ai gio-vani le migliori fortune.

E’ sempre in poter nostro suscitare “adiuvanteDeo” la convinzione e la persuasione (richieste ingrado tanto più eminente, quanto più spirituale èuna azione da proporre) che producono spontaneae volonterosa adesione.

E’ l’ubicazione della Messa che richiede accor-tezza ed elasticità: pare, ad esempio, controindica-ta per i giovanissimi la Messa prima dello studio odi altre occupazioni impegnative: per essi bisognache la Messa termini in ‘gloria’, con la previsionedel gioco...; ai più grandi ordinariamente la Messapuò essere proposta in apertura della giornata o inprecedenza dello studio...

Il pericolo di cadere in una pietà ritualista o for-malista (tutt’altro che ipotetico negli ambientinostri!) è preventivamente eliminato, se ogni can-didato viene avviato per tempo alla preghiera per-sonale, affinché possa abitualmente portare un’a-

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nima alle pratiche comunitarie (quelle casomai pos-sono favorire il formalismo!). Questo giusto timo-re, tuttavia, non paralizzi fino a rinunciare a prati-che di pietà d’altro lato formative e gradite: un corposenz’anima non va; ma nessuno ha mai detto che lenostre pratiche di pietà debbano tenere in piedi uncadavere! E’ vero: congiungiamo pietosamente lemani in atteggiamento di preghiera anche a un cri-stiano morto (e tuttavia nessuno grida allo scanda-lo!); ma nessun educatore si rassegna a condurreper le vie di Dio, le vie che menano alle fonti piùalte della vita, dei cadaveri ambulanti. Diamoci pre-mura perché in ogni rapporto con lo Spirito, sia lavita (e quale vivacità di vita nei ragazzi!) quella chesi muove... a comporre in atteggiamento pio tuttala persona, mani comprese!

Una sostanziosa alimentazione spirituale procu-rata da una predicazione assidua su temi biblici disempre vivo interesse per i giovani (Dio, Gesù, lavita umana nei suoi destini ultraterreni...) renderàrobusta, virile e insieme convinta e spontanea lapietà, immunizzandola da ogni formalismo.

I responsabili, dal rettore all’ultimo degli assi-stenti, ciascuno nel suo ruolo, precedano nell’e-sempio di una franca e cordiale prassi di orazione,nella certezza di fare un servizio ‘vitale’ ai proprialunni. Questi in seguito saranno degni ministri diDio, ottimi religiosi, ovvero bravi laici, esemplaripadri di famiglia e nel loro ambiente educatori dellaFede, se alla nostra scuola avranno appreso l’arte dipregare.

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Da questo primo passo dipende anche oggi ilcammino della salvezza; è dalla preghiera che l’uo-mo prende l’orientamento buono, anzi l’unico buono,per ogni vivente: “ad Deum”.

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INDICE

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1. Bibliografia? 132. Frustrazioni per nessuno 173. Amore chiama amore 214. Titolo poco indovinato 275. Senza famiglia? 316. Vivaio e vita 377. Ambiente ‘scelto’ per ragazzi ‘scelti’ 418. Verifica continua 459. Equivoci intollerabili 50

10. Arte scomoda 5511. Il primo passo 5912. Rischi da non permettersi 6413. Educatori che soffrono vertigini? 6914. Minimismo devastatore 7315. Lesioni alla libertà? 7716. Né autoritarismo né angelismo 8117. Ingrata e fascinosa età 8918. Il ‘pieno’ lo fa l’amore 9519. Al vaglio di una crisi... 10120. Quando il dubbio investe l’educatore 10721. In rispettosa attesa... 11422. Dio cerca il cuore 11923. Accettare l’Amore! 127

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24. L’amabile vincastro del pastore 13125. Guide cieche 13526. La tassa di iscrizione 13927. Lasciarsi abbracciare da Cristo 14728. Quando Cristo rapisce il cuore 15229. Basta poco 15930. Eclissi inevitabili, scontate, benedette 16531. Il pericolo della solitudine 17132. Clima di Fede 17733. In tenuta sportiva...? 18534. Una pesante questione 19535. Non c’è che un tipo di Prete 20336. Carte in regola 20937. Apostoli, se discepoli 21338. Se il motore non canta... 21739. Ascoltiamoli, forse hanno ragione! 22540. Monotonia 23141. Obbedienza 23742. O tutto o niente! 24343. Ancora le ‘scuole apostoliche’? 24744. Ruolo ‘apostolico’ degli ex-allievi 25545. L’arte di pregare 261

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STAMPA: NOVASTAMPA DI VERONA

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