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Il primo libro di antropologia di Elisabetta Pintus Riassunto del testo "Il primo libro di antropologia" di Marco Aime. Letteralmente "antropologia" significa "studio dell’uomo", ma è meglio dire "studio degli uomini", il suo essere parte di un gruppo di individui con cui intrattiene relazioni di vario genere (affettive, parentali, sessuali, di vicinato, commerciali, politiche…), che diventano l’oggetto di studio dell’antropologia, la "cultura". Ogni gesto, ogni parola, ogni regola vengono compresi da un determinato gruppo di persone in quanto condivisi. Università: Università degli Studi di Cagliari Facoltà: Economia Esame: Demoetnoantropologia - A.A. 2010/2011 Docente: Felice Tiragallo e Tatiana Cossu Titolo del libro: Il primo libro di antropologia Autore del libro: Marco Aime Editore: Einaudi Anno pubblicazione: 2008

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Il primo libro di antropologia

di Elisabetta Pintus

Riassunto del testo "Il primo libro di antropologia" di Marco Aime.

Letteralmente "antropologia" significa "studio dell’uomo", ma è meglio dire

"studio degli uomini", il suo essere parte di un gruppo di individui con cui

intrattiene relazioni di vario genere (affettive, parentali, sessuali, di vicinato,

commerciali, politiche…), che diventano l’oggetto di studio dell’antropologia, la

"cultura". Ogni gesto, ogni parola, ogni regola vengono compresi da un

determinato gruppo di persone in quanto condivisi.

Università: Università degli Studi di Cagliari

Facoltà: EconomiaEsame: Demoetnoantropologia - A.A. 2010/2011

Docente: Felice Tiragallo e Tatiana CossuTitolo del libro: Il primo libro di antropologia

Autore del libro: Marco AimeEditore: Einaudi

Anno pubblicazione: 2008

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1. Definizione di antropologia Sir Edward Tylor, nel 1871, dice: La cultura, presa nel suo significato etnografico più ampio, èquell’insieme che include conoscenze, credenze, arte, morale, legge, costume e ogni altra capacità e usanzaacquisita dall’uomo come appartenente a una società. Ruth Benedict dice: La cultura è ciò che tiene insiemegli uomini. Tutte le varie categorie della vita dell’uomo sono apparentemente a sé stanti, ma nella mente degli individuiqueste espressioni sono spesso inevitabilmente connesse a qualche livello. I diversi modi di organizzare lasocietà, la vita quotidiana, le differenti cognizioni del mondo circostante rispondono di volta in volta aesigenze e processi storici particolari, che rimandano e danno vita a una rete di simboli, che non può esserepercepita osservandone solo una maglia: lo studio dev’essere olistico e totalizzante, tenendone conto dei varielementi di una società e di una cultura. Si parte quindi da un nodo della rete per comprenderne l’interastruttura, per poi tornare ad analizzare quel nodo alla luce del tutto: le cosiddette connessioni, dove ogniparticolare si definisce connettendosi a significati globali. L’antropologo cerca regole nell’insieme dipratiche spesso strane e di difficile comprensione che un gruppo umano mette in atto; tenta di dare ordinealle azioni che ognuno di noi compie quotidianamente, in maniera spesso meccanica, conformista, senzasentire la necessità di ricondurle a un determinato concetto di cultura. Una delle caratteristiche dell’antropologia culturale è: partire dall’osservazione particolare per giungere auna comprensione globale. Dal momento che ogni gruppo umano è un caso a sé stante, l’approcciorelativista è uno dei pilastri fondamentali: atteggiamento secondo il quale ogni espressione culturaledev’essere spiegata all’interno del quadro simbolico della società che la produce. Quelle che chiamiamoculture sono degli insiemi di comportamenti e regole che vengono appresi vivendo in un determinatocontesto sociale. Vengono utilizzati due termini per indicare due diverse prospettive di osservazione: etico(si intende il punto di vista dell’osservatore esterno, del ricercatore, che spesso è altro rispetto alla comunitàin cui studia, è uno sguardo da fuori che tenta di ricondurre i fatti osservati a una logica di tipo scientifico)ed emico (è il punto di vista di chi fa parte della società in oggetto e che percepisce gli stessi fatti e agiscesenza per forza darsi spiegazioni, ma per abitudine, conformismo e routine). A problemi comuni gli individui danno risposte differenti perché "i problemi, essendo esistenziali, sonouniversali, le loro soluzioni, essendo umane, sono diverse". Ogni forma di espressione culturale scaturiscedall’elaborazione prodotta da un cervello biologicamente e strutturalmente identico a quello di ogni altroessere umano, ma ciò non impedisce che ciascuna delle popolazioni del pianeta sviluppi soluzioni diverse asituazioni condizionate da eventi esterni oppure di adottare scelte arbitrarie e convenzionali. In questo modola cultura diventa una sorta di magazzino del sapere accumulato da un gruppo, anche se ci sono delle formedi trasversalità che attraversano molte culture, ma ciò non impedisce che due sistemi, anche seincommensurabili, non possano essere comunque comparati tra di loro. L’atteggiamento relativista si oppone all’etnocentrismo, che esprimerebbe una "concezione per la quale ilproprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa e tutti gli altri sono considerati e valutati in rapporto aesso". Il risultato è quello di giudicare sbagliato tutto ciò che non risponde ai propri canoni: anche se nonapprovato dagli antropologi, è un tratto che accomuna la maggior parte dei gruppi umani del presente e delpassato. Ogni società tende a pensarsi fondamentalmente buona e circondata da gruppi e personetendenzialmente non buoni; tutto ciò che non è consueto viene visto come non naturale.

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2. Gli stadi della ricerca antropologica Ai tre stadi operativi previsti in una ricerca antropologica (descrizione, analisi e interpretazione), vieneaggiunto uno step preliminare, in cui il ricercatore definisce l’ambito della ricerca e determina quali concettimettere in evidenza, che spesso sono quelli che gli sono più consoni. La personalità, il genere, l’età, lanazionalità e gli studi compiuti condizionano l’approccio alla ricerca. Ci sono quindi varie correnti che perònon si sono succeduti come lungo una scala evolutiva, ma nella maggior parte dei casi hanno convissuto. Gli inizi dell’antropologia moderna sono legati a uomini come Henry Lewis Morgan (1818 – 1881), EdwardTylor (1832 – 1917) e James Frazer (1854 – 1941), che per primi, nella seconda metà dell’Ottocento,diedero forma e statuto di disciplina alle varie pratiche occasionali e non strutturate. La loro prospettiva, l’evoluzionismo sociale o unilineare, prevedeva una classificazione del genere umano sulla base del grado dievoluzione raggiunto: quello selvaggio, quello della barbarie e quello della civiltà. Ciò aveva il merito diaccomunare nella categoria degli "umani" anche quei popoli che fino ad allora erano stati considerati comesemianimali o comunque non umani, ma anche il limite di avere una visione etnocentrica: nel gradino piùalto c’erano gli occidentali, mentre gli altri erano in attesa di civilizzarsi o di essere civilizzati. Il tempo e ilprogresso avrebbero accompagnato tutti lungo la scala, trasformandoli in perfetti gentlemen londinesi. Nonera concepibile che pezzi di umanità prendessero strade diverse. Più tardi, negli anni Quaranta – Cinquanta, le teorie vennero riprese da studiosi come Julian Steward (1902 –1972), Leslie White (1900 – 1975), Elman Service (1915 – 1996) e da Marshall Sahlins (1930), in chiavemultineare. La svolta del neoevoluzionismo sta nel determinare linee di sviluppo multiple e parallele lungole quali ogni società passerebbe attraverso vari stadi di complessità, senza dover per forza seguire unpercorso unico. Intorno alla fine dell’Ottocento, ispirati dagli studi di geografi tedeschi come Friedrich Ratzel (1884 –1904), alcuni antropologi spostarono l’accento sulla distribuzione spaziale di tratti culturali comuni. Lanuova prospettiva, chiamata diffusionismo, puntava a identificare delle aree culturali all’interno delle qualisi riscontrassero tratti comuni: disponendo cronologicamente queste aree, si potevano individuare dei puntidi irradiamento da cui si sarebbero diffusi, nelle regioni vicine, elementi della cultura originaria.

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3. Il diffusionismo, il funzionalismo e lo strutturalismo In parte le istanze dei diffusionisti vennero riprese dalla scuola tedesco – americana, sviluppatasi negli USAall’inizio del Novecento, con i maggiori esponenti in  Franz Boas (1858 – 1942), Robert Lowie (1883 –1957), Edward Sapir (1884 – 1939), Alfred Kroeber (1886 – 1960) e ClydeKluckhohn (1905 – 1960), tuttidi madrelingua tedesca e con studi fatti in Germania o in Austria. Affinando la teoria delle aree culturalispostarono l’accento sul particolare, il "tratto culturale": elementi che potevano contribuire a determinare uninsieme culturalmente omogeneo tenendo conto delle specificità storiche di ogni area. In Francia le riflessioni di Emilie Durkheim (1858 – 1917) diedero vita alla scuola sociologica francese, chesi fondava sull’osservazione empirica per conferire uno statuto di scientificità ai dati e sull’idea diconsiderare i fenomeni sociali come fatti aventi una vita propria, indipendente dall’apporto dei singoli. Inpratica, la cultura precederebbe la società, che sarebbe determinata da una coscienza collettiva superiore aquella del singolo. Suo allievo fu Marcel Mauss (1872 – 1950), che può essere considerato il fondatore dellatradizione etnologica francese. Teorizzò i fatti sociali totali, quegli aspetti particolari di una cultura che sonoin relazione con tutti gli altri aspetti di quella cultura: attraverso l’analisi di un fatto sociale totale, quindi, èpossibile leggere per estensione le diverse componenti di una società. La grande svolta è legata ai nomi di Bronislaw Malinowski(1884 – 1942) e Reginald Radcliffe-Brown (1881– 1955), che ruppero con le tradizioni precedenti, abbandonando il loro studio per recarsi sul terreno, dandovita alla pratica dell’osservazione partecipante. Malinowski andò nelle isole Trobriand e Radcliffe-Brownnelle isole Andamane, svolgendo le loro ricerche nel secondo decennio del Novecento, dando vita allacorrente essenzialmente britannica del funzionalismo, termine che deriva dalla metafora organica utilizzataper descrivere le società umane. Queste sarebbero la risultante dell’azione di diverse funzioni che, come gliorgani del corpo umano, lavorano per mantenerlo in vita. Tra i due padri fondatori sorsero però delledivergenze: per Malinowski la funzione delle istituzioni sociali era quella di soddisfare i bisogni biologicidell’individuo (funzionalismo biologico), mentre per Radcliffe-Brown, il fine delle diverse componenti eradi mantenere l’equilibrio della struttura sociale (struttural-funzionalismo). Entrambi si erano disinteressatidella dimensione storica, rivalutata in seguito da Evans-Pritchard (1902 – 1973), che fece ricerche in Africache lo aiutarono ad affinare la prospettiva funzionalista introducendo la dimensione diacronica. La principale critica mossa al funzionalismo è quella di una lettura statica delle società, ripresa poi neglianni Cinquanta dagli antropologi della Scuola di Manchester: Max Gluckman (1911 – 1975), Victor Turner(1920 – 1983) e Edmund Leach (1910 – 1989) spostarono l’accento sul conflitto e sulle dinamiche interne aogni società, vista non più come un organo in equilibrio statico, ma come il prodotto di un continuo processodi trasformazione, basato sul conflitto. Lo strutturalismo, che ebbe come precursore Henry Lewis Morgan, fu determinante l’opera di Claude Lévi-Strauss. Lo strutturalismo, sotto l’influenza delle teorie linguistiche e psicologiche, ha come obiettivo ildimostrare l’unità psichica del genere umano attraverso l’individuazione di categorie universali della mente.Le diversità culturali sarebbero delle varianti di temi costanti, insiti nella struttura psichica umana. Di scuola prettamente francese fu l’antropologia marxista, sviluppatasi negli anni Sessanta, che volevauscire dalle strette maglie dell’analisi di Marx, troppo etnocentriche e impossibili da applicare in contestiextraeuropei: individuò modi di produzione diversi da quello capitalista senza perdere di vista le questionilegate alla stratificazione sociale, all’interrelazione tra modello economico e struttura sociale e ai rapporti tra

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colonizzati e colonizzatori. In Italia si sviluppò all’ombra del pensiero di Gramsci, che si occupò con altriantropologi del folklore e delle culture contadine dell’Italia del Sud. L’antropologo americano Marvin Harris, riprendendo i tre livelli marxisti infrastruttura, struttura esovrastruttura, propone una prospettiva che conduca a una vera scienza della cultura e alla individuazione dileggi generali che regolano le società umane: il materialismo culturale. Si fonda sul principio secondo cuil’infrastruttura, che comprende i modelli di produzione e di riproduzione, oltre all’ambiente, determinerebbela struttura (economia, gruppo familiare, organizzazione politica), a sua volta determinata dallasovrastruttura, cioè l’apparato ideologico, religioso e simbolico di ogni società. Ha molti punti in comunecon la corrente dell’ecologia culturale, che si sofferma analizzando prevalentemente gli aspetti relativiall’adattamento e all’economia: più che di culture si occupano di popolazioni, perché le culture nonmuoiono di fame, mentre le popolazioni sì. Se materialisti ed ecologi culturali si basano su uno sguardo esterno per ricondurre il tutto a leggi generali,opposto è l’interpretativismo di Clifford Geertz (1926 – 2006). Abbandona il metodo comparativo perpuntare l’obiettivo sui significati locali, indigeni, dei fatti culturali, che possono essere compresi solofacendo riferimento al quadro simbolico della cultura che li produce. L’etnografia, caratterizzata da unadescrizione densa, sarebbe pertanto una pratica fine a se stessa. Alla fine degli anni Settanta negli Stati Uniti prende forma la scuola di pensiero postmodernista, la cuiattenzione si sposta sul processo di produzione del testo etnografico. I rapporti tra osservatori e osservativengono messi in discussione, si analizzano i processi di scrittura, le retoriche descrittive, portandol’antropologia su un terreno più prossimo alla letteratura e trasformando l’analisi antropologica in una criticaculturale sempre più rivolta alla nostra società.

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4. Osservare e chiacchierare Wittgenstein invitava ad osservare, più che a pensare: l’osservazione partecipante è il pilastro portante dellaricerca antropologica. L’antropologo è colui che è di casa fuori casa, si piazza nelle comunità o nella localitàche intende studiare e inizia a osservare, intervistare, fotografare, e a scrivere: l’etnografia è la prima eindispensabile fase della ricerca, la descrizione di ciò che si osserva e si intuisce, una sorta di reportageapprofondito. La ricerca antropologica si fonda sul metodo induttivo: parte da elementi, dati, fatti particolari osservati, perpoi arrivare a considerazioni di carattere generale. È chiaro quindi che la pratica di terreno è la cifracaratteristica dell’antropologia culturale: è grazie a una permanenza prolungata e a una convivenza strettacon la popolazione locale che si arriva a familiarizzare con una determinata cultura locale. Tendenzialmentel’antropologia privilegia il metodo qualitativo, anche perché il lavoro avveniva in contesti privi di scrittura,dove non era facile avere dati di tipo quantitativo se non raccogliendoli di prima mano. In epoca recente il contesto è però cambiato: spostandosi su terreni più vicini o interni alla societàoccidentale, i ricercatori hanno dovuto fare i conti con gli archivi, le statistiche e varie fonti scritte; in alcunicasi i dati di archivio e le fonti orali possono divergere. Inoltre, i dati scritti non riportano quasi mai lemotivazioni che portano ad avere quei determinati dati: per questo è molto importante chiacchierare, coninterlocutori che vengono chiamati "informatori", persone che hanno voglia di stare ad ascoltare e dirispondere alle domande, compiendo in prima persona un lavoro di analisi e di interpretazione, cercando dicapire le motivazioni di azioni diventate abitudini. In questo gioco delle parti non ci sono regole fisse, tantomeno un metodo, anche perché più che scegliere si viene scelti dalle persone più intraprendenti.L’antropologo dipende da chi è disposto a collaborare con lui. Negli ultimi anni, da uno sguardo unidirezionale si è passato a una multifocalità: i punti di osservazione dimoltiplicano, con attori localizzati anche in  luoghi diversi. L’antropologo non fa più l’osservatore sedutosul muro che divide la sua cultura da quella che sta osservando, ma si è spesso ritrovato a lavorare in unasorta di terra di nessuno, in un terreno che non è già, ma non è più ancora, ma è tra. L’altro è sempre altro,ma porta sempre qualcosa di nostro dentro, soprattutto in questi anni dove l’altro vive spesso accanto a noi,con conseguenti confini meno netti.

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5. Il corpo "innaturale" Il primo modo con cui noi percepiamo gli altri passa attraverso lo sguardo: l’aspetto di un individuo è ilprimo parametro sulla base del quale classifichiamo e definiamo un individuo. Uno dei primi elementi che siincontrano in una ricerca è proprio l’aspetto delle persone, il loro modo di presentare il corpo, di decorarlo,di modellarlo. Gli antropologi si sono sempre interrogati sul rapporto tra natura e cultura: il corpo umano è un ottimostrumento per analizzarlo, poiché l’uomo ha completato la propria struttura con un più o meno consistenteapparato culturale. La diffusa opinione che fosse stato il fatto di avere un cervello proporzionalmente piùgrande rispetto agli altri primati ad aver consentito all’uomo di costruire e utilizzare attrezzi è statacapovolta da Andrè Leroi-Gourhan, che sostenne che fosse il fatto di utilizzare attrezzi che ha contribuitoallo sviluppo del nostro cervello. La cultura ha contribuito a influenzare la natura del nostro corpo, cosìcome la lingua ha influenzato la distribuzione genetica dei gruppi umani. L’intreccio e l’interscambio tranatura e cultura è continuo e costante. È vero che discendiamo dalle scimmie, ma è anche vero che il corpoche ci accomuna è scolpito, disegnato e modellato in modo diverso: dall’acconciatura alle pitture corporali,alle incisioni e alle deformazioni, come se il corpo così com’è non soddisfi le esigenze dell’uomo.

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6. Modellare il corpo ebbene presenti varietà somatiche, polimorfismi e variabili genetiche, il corpo come apparato biologico puòessere considerato come universale, il denominatore comune dell’essere umani, e come tale è oggetto distudio di biologi, medici e antropologi fisici. Altro dato universale è che non c’è una cultura che accetti ilcorpo così come ci viene donato da Madre Natura: nessuna società che accetti di lasciare i capelli incolti,che non limiti la crescita delle unghie, che non applichi una qualche sostanza sulla pelle. Il corpo vieneinciso, modellato, amputato, come a voler sancire un distacco dalla natura, marcarne la differenza; l’uomo eil suo corpo così come sono sono carenti, non funzionano come dovrebbero. I capelli vengono tagliati, acconciati, colorati, fino a diventare decorazione, cornice per il volto, espressionedi una moda, di un gruppo, di un’epoca. Negli anni Sessanta-Settanta, portare i capelli lunghi significavaaderire a un modello ideologico di contestazione, come pure i punk con le loro creste colorate. L’adozionedei dreadlocks, rappresenta un’idea di resistenza e un’identità legate a un’origine africana attraverso lavenerazione del ras tafari, l’imperatore di Etiopia Haile Selassie; per la maggior parte dei giovani cheaderiscono al movimento rasta, significa aderire al pensiero musicale portato avanti principalmente da BobMarley. Nell’Africa occidentale le pettinature femminili assumono significati ben precisi, non solo connessiall’appartenenza a un gruppo, ma anche alla condizione della donna che le porta. Le pitture facciali dei nativi americani davano origine a un vero e proprio codice comunicativo, come purele pitture corporali dei nuba del Sudan. L’utilizzo di cosmetici per sfumare il colore della pelle del viso o persottolineare i tratti degli occhi o delle labbra risponde non solo alle mode, ma anche a un nostro statod’animo. Presso gli hagen della Nuova Guinea, colorate pitture corporali e decorazione con piume indicanoun big man, capo eletto dal gruppo. In altri contesti si vuole invece disegnare e scolpire il corpo in maniera irreversibile, come i tatuaggi, praticanata in Polinesia (serviva a distinguere lo status sociale degli individui) e adottata dai marinai dei mari delSud, diventando in certi casi un marchio punitivo e d’infamia, impresso sulla pelle di galeotti, prostitute eomosessuali. Con il passare del tempo perde la connotazione dell’emarginazione, diventando (fin dal XVIIIsecolo in Giappone) una forma d’arte vera e propria, destinata ad esprimere bellezza, fino a diventare unsemplice vezzo estetico o con un significato politico, conservando però la sua valenza di marchio d’identità.Monocromatico o colorato, il tatuaggio necessita di uno sfondo chiaro, quindi in molte popolazioni dallapelle scura si procede alla scarificazione, un’incisione superficiale della pelle che prevede l’inserimento dipiccoli grani, che danno origine a disegni in rilievo che possono essere letti come emblema di bellezza ocome un linguaggio simbolico. La carta d’identità di molti abitanti dell’Africa occidentale è incisa sul lorovolto fin da bambini, attraverso piccole cicatrici di forma e combinazione diversa nelle guance che indicanoil gruppo etnico di appartenenza e il clan di origine. Il corpo appare quindi come una pagina bianca su cui poter scrivere.

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7. Oltre la pelle Non sono presenti solo segni che riguardano la superficie del corpo: la letteratura etnografica è ricca diprove inflitte alle carni umane, dal rito della frustata alle lacerazioni dorsali praticate con una pietra, allevarie forme di circoncisione. Il dolore così vissuto è un’esperienza necessaria, un supporto e un mezzoindispensabile per attraversare la soglia della normalità e acquisire uno status diverso. Pelle e carni vengonopenetrate violando un confine considerato intangibile: la pelle rappresenta il limite estremo del corpo, illabile confine che ci separa dal resto del mondo. Inoltre, l’infliggersi dolore con tagli, punture e sfregi èconsiderato un antidoto al dolore esistenziale, che annulla e annienta il sé, che dimostra a chi prova il doloreche è ancora vivo: soffro, dunque esisto. Il corpo diventa quindi materia malleabile, da personalizzare a seconda degli schemi culturali o individuali,da scolpire, modellare, amputare. L’allungamento del collo tramite l’apposizione progressiva di anelli dimetallo, i piattelli labiali, la dolicocefalia (allungamento del cranio), la compressione dei piedi, mettono inatto quel processo di costruzione dell’individuo sociale che viene definito antropopoiesi: azione che non silimita alla modifica della forma per manipolazione, ma che prevede l’amputazione, il taglio di parti delcorpo, come nel caso della circoncisione e delle mutilazioni genitali femminili. Meno dolorosi e condotti al di fuori di impianti rituali, anche gli interventi di chirurgia plastica rientranonelle pratiche di modellamento del corpo, anche se realizzati a scopo terapeutico. Più intrusiva è la pratica diespianto e trapianto di organi, che da una parte salvano vite umane, ma dall’altro alimentano un traffico cheripropone il divario tra i più abbienti e tra chi non ha niente se non la nuda vita. La moderna tecnicachirurgica ha riconcettualizzato la relazione fra sé e altro, fra individuo e società e le tre forme del corpo: ilsé esistenziale del corpo vivente, il corpo nella sua rappresentazione sociale, il corpo politico. I riti di passaggio sono caratterizzati da tre fasi fondamentali: la prima è la fase di separazione, in cui gliindividui escono momentaneamente dal gruppo sociale; la seconda è la fase liminale in cui i soggetti hannoabbandonato lo status precedente ma non hanno ancora quello nuovo; infine la fase di riaggregazione, chevede il rientro degli iniziati nel gruppo, carichi del nuovo status.

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8. Costruire generi È attraverso il corpo che distinguiamo il sesso degli individui: ogni società umana è composta da maschi eda femmine, riconoscibili non solo dalle caratteristiche anatomiche, ma anche da una serie di elementiculturali che traducono il sesso, dato naturale, in genere. Infatti gli individui nascono sessuati ma senzagenere, che dev’essere costruito sulla base di tipologie sociali condivise e accettate. Per Norman Mailer, non basta essere anatomicamente foggiati in un certo modo per essere consideratiuomini, e che l’essere uomo è legato a un concetto di virilità. Non a caso è importante distinguere il sessodal genere: il primo è legato all’anatomia e immutabile, mentre il genere p una categoria simbolica, ilprodotto di una costruzione culturale, un’icona sociale che porta con sé le implicazioni morali. È vero chenon c’è nessuna società umana che attribuisce a uomini e donne compiti diversi, ma è anche vero che ilmodo in cui si concepisce l’essere femmine o maschi è diverso da cultura a cultura. Sono molte le lingue che usano un termine neutro per definire i bambini: termini che indicano individui chenon hanno ancora appreso le regole del vivere in società. La costruzione del genere inizia dall’infanzia, dove vengono indicati pratiche o giochi diversi a seconda delsesso: i modi di vestire, i trattamenti, che portano anche alla divisione sessuale del lavoro; in molti casi ladivisione si fonda sulla forza fisica, ma anche ora ci sono lavori tipicamente maschili o femminili. Ci sono quindi anche riti iniziatici per conquistarsi la virilità: immersioni profonde, rischiose spedizioni,pratiche di sopportazione del dolore. Anche poco tempo fa, chi non veniva considerato idoneo alla levamilitare, non era considerato un vero uomo. C’è la concezione che sia l’uomo a dover portare il pane a casa,come ostentare eccellenti prestazioni sessuali: il cosiddetto machismo. La virilità dev’essere anche ribaditanel comportamento quotidiano, con diversi modi di fare a seconda del sesso, con la gestualità: un uomo chegesticola come una donna è considerato effeminato, una donna che si comporta come un uomo è consideratamascolina.

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9. Donne e madri La femminilità si presenta più come una condizione biologica: mentre ai ragazzi è spesso impartitaun’educazione attraverso delle prove che li strappano alla famiglia, per le bambine sono previste forme diiniziazione di carattere domestico, che tendono a inserirle nel contesto al quale si pensa debbano destinaregran parte della loro vita. Il ruolo della donna è principalmente legato alla procreazione, e anche le sue tappe sono legate a momentistrettamente connessi con la riproduzione. Lo status di madre diventa fondamentale in tali contesti e ne èprova il fatto che in molti casi una donna sposata può essere ripudiata dal marito perché considerata sterile.Che a mettere al mondo i figli siano le donne è fuori discussione, così come è lei che li allatta, ma non èscontato che debba essere una donna per forza ad accudire i bambini: la cura dei bambini non è legata allariproduzione. Le donne sono madri, ma fanno anche le madri: scelta che spesso viene imposta al maschio, iquali si sarebbero appropriati in esclusiva della sfera pubblica. In nessuna società uomini e donne hanno uguali possibilità: il rapporto tra generi è sempre caratterizzato daun maggiore o minore grado di diseguaglianza, considerata quasi sempre naturale. La gerarchia di generenasce dal fatto che i bambini maschi si percepiscono come diversi dalle madri, con le quali intrattengono laloro prima relazione emotiva, e imparano a eliminare o celare le loro qualità femminili per realizzarecompletamente l’identità maschile. Da ciò deriva il fatto che i maschi ritengano il lavoro delle donne dirango inferiore. Nasce cioè da "insiemi coerenti di rappresentazione, di schemi mentali incorporati": lamaternità ha finito per giustificare l’esclusione o la maggiore difficoltà di accesso delle donne alla sferapubblica.

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10. Generi di mezzo Di solito i sessi in natura sono due, ma i generi possono essere di più. Sono state riportate molte descrizionidi berdaches, che erano individui che assumevano abbigliamento e comportamenti caratteristici delle donnee a volte potevano contrarre una sorta di matrimonio con persone del loro stesso sesso. Il loro ruolo erasocialmente riconosciuto e godevano di uno status che spesso ne faceva degli intermediari tra uomini e dei. In molte società native americane era prevista la nozione di terzo genere, indifferente al proprio sessoanatomico, che non comportava però nessuna implicazione rispetto alle preferenze sessuali. Non solo venivaaccettata l’esistenza di un genere di mezzo, ma addirittura poteva essere incoraggiata, perché eranoconsiderati portatori di uno status quasi sacro e considerati benedetti dalle divinità in quanto dotati di unavisione mistica del futuro,, grazie alla capacità di entrare in contatto con gli spiriti. I "maschi" berdachespotevano anche diventare le mogli degli uomini più coraggiosi o di donne che erano diventate uomini dandoprova come valorosi guerrieri. In Alaska venivano educati sin dall’infanzia alcuni bambini maschi asvolgere compiti femminili e a indossare abiti da donna: una volta adulti, avrebbero sposato gli uomini piùimportanti del gruppo, che avrebbe avuto altre donne, per i quali avrebbe svolto lavori domestici. Genere di mezzo o terzo genere non significa per forza omosessualità o transessualità: tutto questo è fruttodella nostra società. Lo spazio sociale tra i due poli non è vuoto, ma caratterizzato da un continuum lungo ilquale possono trovare collocazione altre forme di espressione del genere. Esiste una percezione soggettiva disé, per la quale i due livelli non coincidono necessariamente. I transessuali non rappresentano però un vero eproprio terzo genere: si tratta di individui biologicamente maschi o femmine che, grazie a chirurgiespecializzate, hanno mutato il loro sesso modificando gli organi genitali. Hanno semplicemente cambiatogenere, identificandosi in quello che si sentono più consono. Esempi di genere di mezzo sono gli eunuchi: sia nella castrazione per mantenere la loro voce pura, favoritadall’unione delle caratteristiche delle voci maschili, femminili e bianche, il tutto amplificato da unapoderosa cassa toracica che permetteva di eseguire note lunghissime. Non si trattava però di unadeguamento del proprio corpo alla propria auto percezione, ma di pratiche imposte con la violenza.

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11. Coprire e scoprire il corpo Alla pelle gli uomini ne hanno sempre aggiunto un’altra, fatta di stoffe, corteccia, foglie, pelli, per coprire,esaltare e disegnare le forme. L’abito, infatti, non serve solo a riparare dal freddo, dai raggi del sole o daaltri eventi naturali, ma anche per ridisegnare il corpo coprendone certe parti e lasciandone intravedere altre.Oltre a tutto ciò, il coprirsi è collegato al senso del pudore, che è sempre esistito, anche quando in certepopolazioni si andava in giro nudi: era considerato infatti sconveniente soffermarsi a guardare i genitali.Presso molte popolazioni africane il seno non è considerato oggetto erotico, quindi non è da coprire, mentreinvece le cosce devono essere sempre coperte. Nella maggior parte delle società umane si è restii a mostrarei genitali in pubblico, ma non è la nudità in sé ad essere considerata oscena: è l’atteggiamento morboso chesi ha verso di essi che viene condannato o sanzionato. In ogni caso, ogni cultura ha deciso quali parti eranoda coprire e quali no, con regole che, essendo legate alla storia, possono anche mutare, soprattutto quandointerviene anche la religione. L’hijab, il velo che incornicia il volto di molte donne musulmane, rappresenta un segno di pudore, diffuso intante altre società: anche in Italia, prima, si recavano a messa a capo coperte, come fanno tutt’ora le suore.Più drastico il burqa, che annulla totalmente qualsiasi forma femminile. Tutto l’opposto certi abbigliamenti occidentali, molto aderenti, o del reggiseno push up, che tendono aevidenziare le forme. Per quanto riguarda gli uomini, ci sono tendenze opposte: in chiesa si devono togliere il cappello, insinagoga non possono entrare a capo scoperto. L’utilizzo del corpo come espressione morale è reso in modo evidente dalla diversità di attribuzione allediverse parti di esso di una valenza morale ed estetica, che definisce i confini etici di una società. In certepopolazioni del Sudafrica, per esempio, l’esperienza sessuale prematrimoniale è considerata moltoimportante, purché la ragazza non rimanesse incinta: la ragazza doveva tenere le gambe unite e strette inmodo che ci fosse contatto con il pene ma non con le parti intime. Tale pratica si diceva comportasse unabuona padronanza dei muscoli delle gambe e del sedere: avere natiche forti e sode era interpretato comesegno di innocenza e di alta moralità, e veniva esibito non perché fossero prive di morale, ma perchéandavano fiere del proprio corpo, simbolo del loro rispetto dell’ordine morale stabilito dalla loro cultura.

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12. Il corpo dopo la morte Il corpo è percepito talmente tanto come un fatto culturale che neanche dopo la morte viene abbandonatototalmente nelle mani della natura. L’uomo seppellisce i propri morti e i funerali sono sempre un eventocollettivo. In forme diverse, tutti praticano la toilette del morto, la composizione del cadavere, la sua cura, lasua vestizione, la preparazione di cibi per il viaggio, la protezione dall’esterno (bara o telo, per esempio). Lacura dei corpi dei defunti rappresenta l’estremo tentativo di strapparli alle ingiurie del tempo; seppellire è unmodo per dissimulare il deperimento della carne; l’imbalsamazione temporanea lo rallenta; in altre culture lasi accelera, facendo per esempio mangiare il corpo dagli avvoltoi o cremando il corpo; viene combattuta ladecomposizione invece in pratiche come la mummificazione o la criogenizzazione (congelamento delcorpo). La conservazione che aspira alla perennità è anche strumento del potere. Distrutto o conservato, il corpo non viene mai lasciato al proprio destino: i vivi ne segnano in un qualchemodo il percorso, e anche gli anonimi ossari con i resti dei caduti nelle guerre è un modo per nonabbandonare all’oblio quelle spoglie senza nome. Diverso il destino dei corpi dei santi cristiani, portati ingiro per essere ostentati e adorati, con continui investimenti estetici. Il culto delle reliquie non era unrimasuglio pagano, ma era il simbolo della sconfitta sulla morte: il corpo, anche se a pezzi, risponde albisogno di fisicità e di materialità di cui i culti hanno bisogno, non è più un semplice resto organico, maincorpora rapporti sociali importantissimi.

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13. Studio antropologico: la nascita La nascita di un bambino costituisce sempre un evento, sia per la drammaticità del parto sia per gliinterrogativi che pone sull’esistenza umana, con risposte diverse a seconda della società. La scienza occidentale spiega come il concepimento avvenga in seguito all’incontro degli spermatozoimaschili con quelli femminili all’interno dell’utero, ma non per tutti è così. Per esempio, per i trombrianesila nuova vita iniziava con la morte di un individuo: il defunto segue il suo spirito che lo porta nell’isola deimorti, dove conduce una vita come quella che faceva da vivo, ma più bella; a un certo punto però si stanca edesidera tornare sulla terra, che avviene facendo un salto indietro nel tempo e tornando bambino; si lasciacullare nelle onde del mare finché non incontra lo spirito della madre che lo mette sulla testa della donnaincinta, che comincia a stare male e a vomitare; infine, si infila nella pancia della donna e rinasce. Per altri ilbambino è come una pianta, che prende vita dallo sperma come se fosse un seme e cresce nella pancia dellamadre nutrendosi del suo sangue; per altri ancora è la parola che ha un potere fecondante, ma solo quellabuona, quella che dall’orecchio (considerato un secondo sesso femminile) arriva direttamente all’utero, cheproduce l’umidità necessaria alla procreazione; per altri ancora certi antenati possono produrre bambiniattraverso piccole escrescenze ossee trovate nelle sue ossa. Non è un processo di rinascita come quelloinduista, ma una sorta di legame tra antenati e neonati che rappresenta la continuità, mentre nel primo caso èl’anima dell’individuo a trasmigrare dopo la morte in un altro corpo. La nascita di una coppia di gemelli è considerata ovunque un evento eccezionale, che può avere valenzapositiva o negativa. È positiva per i dogon, che lo rimandano al tempo in cui tutti gli esseri nascevano incoppia: perciò i due bimbi, che sono come toccati da un genio, hanno un valore superiore agli altri; inUganda, i genitori di gemelli avevano il potere di far crescere con maggior vigore le piante di banano; nelTogo questo tipo di parto è di ottimo auspicio e offrono noci di cola a statuette raffiguranti gli spiritigemello. È negativa invece per i bassari, che in passato ne sopprimevano uno; nel Congo vengono chiamati"i bambini dell’infelicità"; in Zambia e in Congo appartengono al mondo animale e sono oggetto diavversione. Tutto ciò è teso a fornire un senso all’esistenza umana, al ciclo che si perpetua, con un legame tra nascita emorte, sottolineate entrambe da eventi rituali: spiegare una nascita significa mettere in luce una concezionedel mondo tesa a spiegare il mistero della vita. La tecnologia e la conoscenza medica hanno reso possibile la manipolazione dell’evento naturale e laseparazione la procreazione dalla sessualità: utero in affitto, fecondazione artificiale… Tali pratiche sonooggetto di discussione perché rimettono in gioco l’ordine generale, la concezione della vita, stravolgendo ilmondo precedente.

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14. Studio antropologico: i bambini Tutti noi cresciamo, ci sviluppiamo e a un certo punto iniziamo a declinare: l’invecchiamento biologicoviene visto in modi diversi. Ovunque si opera una suddivisione del ciclo di invecchiamento in fasce più omeno ampie, con conseguenti periodi di vita, con comportamenti diversi. Nella nostra società l’etàanagrafica viene definita con la differenza tra anno corrente e anno di nascita: questo dato indica però soloin modo approssimativo il grado di invecchiamento biologico dell’individuo. Esistono poi definizioni comebambino, ragazzo, giovanotto, adulto e anziano che hanno a che fare con la percezione che si ha di unindividuo, con relativi comportamenti diversi per ogni età: si è più tolleranti con un bambino, meno con unragazzo, si esige responsabilità da un adulto, esperienza da un anziano. Questi sono i cosiddetti "gradi di etàinformali". Il primo grado di età informale è quello dei bambini, concezione sociale del piccolo individuo. Non esisteun’età assoluta dopo la quale si cessa di essere bambini, ogni cultura determina il passaggio in base aelementi diversi: in occidente, è la scuola che scandisce le prime fasce di età; in altre popolazioni ilpassaggio è legato a rituali come la circoncisione, o quando il maschietto è in grado di manovrare la zappa ela ragazzina a trasportare la legna sulla testa. In generale, un individuo esce dallo status di bambino quandoentra a far parte del ciclo produttivo. I sistemi di classificazione mutano anche all’interno di una stessa società con il trascorrere del tempo: prima,per esempio, bambini piccolissimi venivano già assunti come lavoratori e venivano trattati sicuramente noncome bambini che hanno il diritto di giocare. Molti storici della famiglia parlano di invenzione dell’infanziacome una conquista della società occidentale contemporanea, tant’è che in inglese ci sono due termini perindicare il lavoro: work per l’impiego salariato, labour per l’attività svolta dai bambini all’interno delcontesto familiare. Questo porta a vedere come deprecabile il lavoro minorile, ma in molte parti del mondoquesto è l’unico modo per sopravvivere.

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15. Studio antropologico: l’età collettiva Il concetto di età di cui ogni società fa uso quotidiano è un prodotto culturale che non viaggia di pari passocon il processo di invecchiamento fisico: quindi, bisogna avere meccanismi che vincolino l’aspettobiologico con quello sociale, come può essere la maggiore età. Non sempre l’età biologica determina l’etàsociale. A volte, però, l’età può condizionare i rapporti umani anche in società complesse, come inGiappone, dove gli uomini si dividono in tre categorie fondamentali: i senpai, (senior) i kohai (junior) e idoryo (colleghi), con una divisione basata sul rango, determinato dall’anzianità, che viene non solo dall’etàbiologica ma anche da quella di assunzione in una ditta, di laurea o di diploma, con un conseguentecomportamento diverso degli individui. Ogni cultura attribuisce alle varie fasi della vita progetti e aspettative diverse, che determinano la strutturasociale e la stratificazione di comunità. In Tanzania l’età dei maschi costituisce il fondamento delle divisioniterritoriali, dando luogo a gruppi chiamati villaggi d’età: quando si avvicinano alla pubertà, lascianol’attività della cura del bestiame di cui si erano occupati prima e raggiungono un villaggio abitato dacoetanei poco distante da quello d’origine, dove si dedicheranno alla coltivazione dei campi. In molte società l’età è organizzata sulla base di un vero e proprio sistema di classi: è un’istituzione culturalee politica, che mette in relazione età biologica ed età sociale, creando una struttura che lega l’età degliuomini ai loro ruoli e ai loro status. Stabiliscono un ordine cognitivo e strutturale all’interno di unapopolazione, creando categorie basate sull’età e sulla generazione, come un sistema di parentela,assicurando una regolarità demografica e una stabilità sociale durevole: implica continuità e sostituzione dipersonale in maniera ordinata e prevedibile, attraverso la collocazione dei nuovi membri al posto di quellideceduti. Si possono distinguere due modi fondamentali di reclutamento: quello iniziatico, che prevedel’ingresso dei giovani maschi nel primo grado di età in seguito a un’iniziazione collettiva, e generazionale,dove ci sono diversi sistemi complessi di gradi che dividono l’intera vita dell’individuo. Presso alcune culture l’attribuzione dell’età di un individuo non è solo il prodotto matematico di unasommatoria, ma passa attraverso altri fattori socialmente determinanti, come in Giappone. Le classi di etàoperano un appianamento delle differenze dovute al diverso sviluppo di ciascun individuo: l’inserimento inun gruppo comporta un livellamento, anche se all’interno ci saranno individui che emergono grazie alle lorodoti personali. L’età fisica non corrisponde meccanicamente a un’età sociale, mentale o sessuale, e le classid’età compiono un appianamento delle differenze individuali e presentano alla comunità un gruppo diuguali, sforzandosi di fare dell’invecchiamento un processo culturale piuttosto che fisico, tentando quindi diarrestare almeno in parte il flusso del tempo, unendo gli uomini in gruppi i cui membri hanno pari diritti epari status, con segmenti di tempo definiti: l’età non conosce confini territoriali né divisioni di parentela. Nelmomento in cui i due sessi iniziano a distinguersi socialmente, anche i sistemi per scandire le loro etàdifferiscono. Nelle società tradizionali in genere le donne non sono inserite in un sistema strutturato di classidi età formale, ma solo informale, determinati da fattori connessi con il processo riproduttivo: pubertà,matrimonio, primo parto, parti successivi, menopausa. Lo status della donna è quindi determinato dal suoessere o non essere una madre, dove l’età biologica non è un elemento fondamentale di calcolo. Per quanto riguarda la vecchiaia, mentre in occidente ormai è quasi una parola tabù, nelle societàtradizionali agli anziani viene attribuito un ruolo importante. Nella nostra società si usa il termine "terza età"per indicare l’abbandono del mondo produttivo: l’anziano è visto come inadatto a compiere qualsiasiattività, improduttivo e passibile di emarginazione.

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16. Studio antropologico: la malattia Il nostro corpo finisce inevitabilmente per declinare ed essere soggetto a malanni, seguito da un bisogno dicurarsi, proprio perché l’idea che ogni società ha del corpo è una costituzione culturale e non assoluta, cosìcome l’idea di male, di sofferenza e di terapia. La malattia ha due chiavi di lettura: da una parte il deseas,alterazione nel funzionamento del nostro organismo, e illness, punto di vista dell’ammalato, il dolore e lasofferenza che percepisce l’individuo. Questi due livelli di interpretazione e di percezione spostano il pianodell’analisi sul rapporto guaritore/paziente. Esistono diversi approcci al male, secondo i quali il corpo non viene considerato come un soggetto separatodalla mente e dal contesto sociale in cui vive, concetto di molti sistemi di cure tradizionali. La malattia,intesa in questo senso, smette di essere una disfunzione fisica e basta, ma diventa il prodotto di una serie direlazioni tra corpo, mente e condizioni sociali. Molte malattie, tra l’altro, sono causate da malnutrizione,sottonutrizione, carenza di igiene, ambienti malsani: dalla povertà insomma. Il compito del guaritore diventaquindi il capire l’insieme delle cause che provocano il male, non riconducendo i sintomi del paziente a unagriglia predefinita, ma interpretandoli a seconda della persona che ha di fronte: anche perché molte voltedeve fare i conti con la credenza che quel male derivi da un’entità sovrannaturale.

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17. Studio antropologico: la morte Quando si è davvero morti? La soglia tra vivi e morti non è sempre chiara, molto spesso ci si ritrova difronte a una dimensione dove vivi e morti convivono nello stesso mondo, dove la soglia tra la terra e l’aldilàè poco chiara e comunque valicabile nei due sensi. La morte cerebrale non è accolta ovunque, poiché vieneconsiderata innaturale in quanto riduce la morte da processo socialmente definito a semplice eventobiologico. È interessante il fatto che neppure dopo la morte lasciamo del tutto questo mondo, anzi proprio nel momentoin cui sembra che il nostro corpo sia giunto alla fine riacquista una dimensione sociale: la morte riporta ilnostro corpo nella società, accompagnata da cerimonie collettive che coinvolgono l’intera comunità. Ildecesso di un individuo evidenzia le relazioni tra il mondo dei vivi e quello dei morti, rimettendo in giocoquelle tra i superstiti. La cessazione delle attività vitali implica un cambiamento di status del corpo: in alcuni suscita orrore, pauradi contaminazione, in altri è possibile toccare il cadavere, rimanergli vicino. In occidente sia la nascita che lamorte sono definitivamente ospedalizzati, dove sono gli specialisti ad accudire i nostri corpi; in passatoinvece l’idea di buona morte era legata alla propria casa, al proprio letto, circondati dai parenti. La morte rimanda a concezioni cosmologiche relative a credenze extraumane, mettendo in comunicazione isuperstiti con un’idea di aldilà: diverse credenze religiose prevedono una vita dopo la morte, assicurando ilproseguimento del legame tra vivi e defunti; i morti diventano antenati, con il loro culto: diverse tipologie diofferte funebri sotto forma di cibo, oggetti e fiori, con una particolare attenzione a come e dove vengonosepolti (per esempio, gli uomini del Benin vengono sepolti con il capo a ovest, in direzione delle terre diorigine degli antenati, mentre le donne con il capo a est, in direzione del mercato), come se si volessecontinuare la vita in un altro mondo. La fine di una vita non è solo la fine di un uomo, ma anche di una partedella società: vengono messe in discussione anche le relazioni tra i superstiti. Presso i lodagaa del Ghanasettentrionale, i riti funebri hanno l’effetto di distruggere i ruoli affettivi del defunto e di ridistribuirli tra ivivi, riorganizzando anche le relazioni di carattere amicale o amoroso. Nonostante si dica che la morte rende tutti uguali, sono poche le popolazioni che cercano di fare riti ugualiper tutti: solitamente la morte di una persona importante si traduce in un fatto politico, che implica non solola glorificazione del defunto, ma anche la conferma del successore. Presso molte popolazioni la morte delcapo o del re dà il via a una sorta di vuoto istituzionale, in cui tutto è concesso, dove la gente può tenerequalsiasi comportamento voglia: questo per far capire il caos in cui si vivrebbe se non ci fosse qualcuno areggere le sorti della società. Soprattutto nei casi in cui il sovrano possieda qualità divine: il re incarna illegame con l’aldilà, con le divinità, con gli antenati, depositario del benessere e del buon funzionamentodella società intera. La costruzione di monumenti funebri, talvolta colossali, sottolinea come si voglia fissarenella memoria in ricordo degli uomini più potenti. La morte sacralizza i ruoli, li enfatizza.

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18. Studio antropologico: pensare e mangiare Esiste un dato universale, e cioè che dobbiamo assumere circa 2.000 calorie al giorno per evitare ildeperimento fisico e la morte; altro dato è che in natura ci sono molte sostanze velenose per l’uomo; per ilresto, l’umanità si nutre di una lista di alimenti, vegetali e animali, ma non tutti mangiano tutto e non soloper mancanza di disponibilità: scelte legare ad abitudini o a regole culturalmente costruite. Gli inglesi nonmangiano carne di coniglio o di cavallo; nell’Europa del nord non si mangiano funghi; noi occidentali nonmangiamo insetti; in certe parti dell’Africa mangiare insalata è ritenuto più per capre che per uomini. Inmolti casi l’alimentazione è legata a convinzioni di tipo ideologico, ma a livello individuale e non collettivo,come nel vegetarianesimo, oppure legato a tabu religioso, un divieto in senso lato, come nel caso della carnesuina per ebrei e musulmani, della carne bovina per gli induisti e del vegetarianesimo per le filosofieorientali. Esistono quindi molti aspetti legati al cibo: quello nutrizionale (che dipende dall’aspetto biologicodegli esseri umani, da fattori di tipo ecologico e di carattere economico – politico), quello legato al gusto (èimportante differenziare le preferenze individuali da quelle di una determinata società: il gusto collettivonon nasce da un’attitudine innata, ma è il prodotto di una costruzione culturale che finisce per rendereaccettabili o meno alcuni alimenti) e quello legato a eventuali divieti. Il cibo dev’essere principalmentebuono da pensare; sul piano simbolico, inoltre, cucinare significa sottomere la natura alla cultura: è lacottura che separa l’uomo dallo stato di selvatichezza naturale e lo porta nel mondo civile. Inoltre, certeproibizioni alimentari sono fondate sul concetto di impurità, che rimanda all’idea di sporcizia: ciò che noidefiniamo sporco è un giudizio culturale e relativo, in quanto lo sporco è il sottoprodotto di unaclassificazione che definisce ciò che è pulito e puro, dimostrato dall’interesse sempre maggiore verso ilbiologico, che però alimentano anche un immaginario che si contrappone al modello vigente di società.

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19. Il cibo: per gli dei, contro gli dei Nutrimento per il corpo secondo i materialisti, per la mente secondo i simbolisti, il cibo diventa un mediumimportante nella comunicazione con il sacro: gli uomini hanno sempre pianificato offerte agli dei in forma dicibo. Per esempio, nel culto afrobrasiliano del candomblé keto si usa offrire cibo agli orixas, le divinità, chemangiando si ricaricano di una nuova energia, ma devono ricevere un determinato cibo in determinati giornidella settimana: ogni santuario è fornito di cucina di modo che il fedele possa preparare i piatti preferiti dalladivinità a cui si vuole rivolgere l’offerta. Si ritrovano pratiche di offerta alimentare in molti culti tradizionali: molti luoghi di culto sono caratterizzatida oggetti, statuette, manufatti che rappresentano la divinità, reificandolo, rendendolo talmente tantomateriale che dev’essere anche nutrito. Anche il digiuno diventa un mezzo di comunicazione con il sacro, praticato tra i nativi americani, in Africa,tra gli sciamani dell’Asia e delle Americhe. L’astinenza è quasi sempre interpretata come praticapurificatoria, come sacrificio che dev’essere sopportato per liberarsi del piacere e delle scorie del cibo. Ilfine è raggiungere uno stato di eccezione, che allontani dalla pratica quotidiana per avvicinarsi a una veritàsacra: infatti è spesso accompagnato dalla preghiera e dalla meditazione, e diventa l’espressione dellacapacità di sacrificio e autocontrollo dell’individuo. Nella società occidentale, invece, il non mangiare vieneinterpretato come patologia, come nel caso dell’anoressia. Le religioni, spesso, non impongono solo divieti, ma anche regole di consumo di determinati cibi, come per imusulmani che devono mangiare la carne solo se l’animale è stato sgozzato quando era ancora vivo e se ilsangue è defluito completamente dal suo corpo.

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20. Cibo come marchio L’abitudine al consumo fa sì che un piatto diventi tipico e che si trasforma su un piano simbolico in unasorta di marchio d’identità: le abitudine alimentari finiscono per creare dei gruppi di definizione o diappartenenza. A volte però è lo stesso gruppo a fare di quel piatto o bevanda un elemento di orgoglio e diidentificazione, identificandosi per ciò che si mangia e distinguendosi per ciò che non si mangia. Se da un lato certi prodotti si legano a un territorio, con denominazioni di origine per attestarne la lorotipicità, da un altro punto di vista il loro consumo può mettere in scena un altro tipo di appartenenza, diclasse, ceto, rango, genere, ideologia. Il cibo, quindi, diventa uno strumento per sottolineare le differenze tragruppi, culture e strati sociali, e in certe popolazioni anche di genere (non possono mangiare carne ledonne).

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21. Il cibo "tradizionale" I piatti tipici non sono sempre autoctoni, ma è l’abitudine a mangiarli che diventa autoctona. I commerci, lescoperte, le esplorazioni hanno ogni volta portato cose nuove sulla tavola della gente, facendo diventareautoctoni certi piatti con ingredienti che prima non erano conosciuti. La tradizione è spesso il prodotto diuna proiezione del presente sul passato piuttosto che di una continuità storica profonda. Molte cose sonoantiche, ma non si sono trasmesse di generazione in generazione e non sono diventate tradizione; altre,anche meno antiche, hanno dato risposte a esigenze del presente e lo sono diventate. Nell’attuale concezionedi tali prodotti, però, notiamo l’abbandono della dimensione di autoconsumo o di scambio locale per venireimmessi sui mercati internazionali: affinchè ciò avvenga, però, devono essere definiti da parametri che sonospesso sovranazionali. Il prodotto locale nasce nel momento in cui viene definito su scala globale, senzadimenticare tutte le battaglie per assicurarsi la denominazione di origine, protetta o controllata, per garantirel’unicità del prodotto: che, però, vengono tutelate da norme uguali a quelle che tutelano gli altri e chefiniscono per attenuarne la differenza imponendo parametri comuni. La tipicità finisce per diventare quindiuno standard, che si rifà a parametri ufficiali e internazionali.

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22. Saper mangiare È importante anche questo perché rivela abitudini sociali, come quella di mangiare con la mano destrasoltanto dal piatto comune per una questione di igiene (c’è carenza di acqua e quindi più difficoltà a lavarsile mani), o l’uso dei bastoncini di legno cinesi, per evitare di usare il coltello (il mangiare è un momento dipace, da non effettuare con strumenti affilati), o il mangiare da solo in senso di rispetto. Anche lacollocazione e la disposizione dei commensali durante un pasto è un altro elemento rivelatore dellaconcezione dei rapporti sociali in una società: uomini e donne separati nei paesi musulmani, i padroni dicasa a capotavola, alla loro destra l’ospite più importante rispettando l’alternanza uomo – donna per ilgalateo, la richiesta precisione formale nella cerimonia del tè giapponese, che si trasforma alla fine in unacoreografia. Anche la divisione del bue che viene offerto quando si arriva ai 25/30 anni è rigidamenteprestabilita: le cosce ai sacerdoti della terra, il torace al capo politico, il collo al pastore che ha allevato ilbue, le parti migliori vengono date agli anziani e ai sacerdoti, mentre invece i giovani non mangiano carne.

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23. Studio antropologico: parlare, per essere umani La comunicazione, verbale e non, è alla base della società umana, è indispensabile alla loro creazione, èfunzionale al loro mantenimento, ne determina i cambiamenti e ne segna profondamente l’identità. L’antropologo parla, conversa, scambia opinioni con gli intervistati, in una lingua che può essere la linguacoloniale oppure nella lingua del luogo: quest’ultimo è uno degli ostacoli più ardui da superare, ma unodegli strumenti più importanti per comprendere come la società organizza il suo pensiero. La parola è ilfondamento della società umana, poiché è attraverso la lingua che definiamo il mondo che ci circonda, loclassifichiamo, lo descriviamo, affermiamo la nostra identità. Le lingue stanno alla base dei popoli: non pernulla ce ne sono più di 6.000 in 200 nazioni, con un evidente plurilinguismo; molte vengono definite dialetti,perché non sono lingue nazionali, ma si tratta solo di una questione politica e non linguistica. Il vocabolario che utilizziamo è l’inventario degli elementi che la cultura ha categorizzato per dare senso almondo in cui vive. Sono la parola, il linguaggio a trasformare gli uomini in veri esseri umani: una linguanon è solo un insieme di suoni, ma è soprattutto un sistema organizzato di simboli, che esprimono pensieri esentimenti del gruppo che la parla. L’inventario linguistico del pianeta è vario e disuniforme: il 4% dellapopolazione parla il 60% delle lingue del mondo, ammassate nelle regioni tropicali (con il tasso dibiodiversità maggiore), contrapposte alle regioni caratterizzate da una bassa intensità di variazioni di stocklinguistici. Ci sono però degli elementi generali che si possono applicare a tutte le lingue, vive o morte, scritte o nonscritte: gli organi utilizzati per produrre suoni sono gli stessi per tutti i popoli della Terra: laringe, naso, lingua,palato, denti e labbra; le lingue non sono solo espressioni fonetiche, in quanto organizzano le potenzialità sonore in un numerodeterminato di unità codificate chiamate fonemi: la lingua non è un suono articolato, ma il prodotto di unaselezione di unità sonore che trasformano il linguaggio da semplice suono in una composizione simbolica,realizzata con materiali limitati, come nella composizione musicale. È dunque la relazione tra fonemi aprodurre significato in una lingua: attraverso il modo in cui quelle persone hanno organizzato la loro lingua,è possibile dedurre quali siano i principi e le categorie sulla base dei quali leggono la realtà che li circonda equella più lontana; la lingua è un sistema simbolico che rinvia a un’esperienza diretta, che può essere continuamente arricchita ea volte dare vita a proiezioni che vanno al di là della pura esperienza vissuta.

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24. Studio antropologico: la lingua che crea il mondo La lingua contribuisce a creare la realtà: il mondo che crediamo essere reale sarebbe invece una costruzionefondata sulle nostre usanze linguistiche. A lingua diversa, quindi, corrisponde non una diversa percezionedel mondo, ma un vero e proprio mondo diverso. Sarebbero quindi le categorie linguistiche a determinareeffettivamente le rappresentazioni percettive e concettuali. Un antropologo, comunque, non deve limitarsiallo studio delle regole grammaticali o degli aspetti formali di una lingua, ma pensare ad essa come a un attosociale, una performance, e studiare ciò che le persone effettivamente fanno con la lingua. Duranti proponeun approccio che definisce etnopragmatica, secondo il quale occorre pensare al linguaggio come azionesociale, in quanto le parole che pronunciamo acquistano una loro forza grazie all’interazione quotidiana tragli individui che le pronunciano. Ogni società prevede un modo giusto di conversare, e comunque diversi modi di conversare in base alcontesto: conversare ad alta voce, non avviare due conversazioni parallele allo stesso tavolo, prendere laquestione alla larga e non andare subito al dunque, attitudine all’esagerazione e all’iperbole. Questo perchéuna lingua non è fatta solo da parole, ma anche da gesti, comportamenti, estetismi. Essere parlanti di una lingua significa anche appartenere a una comunità linguistica, che spesso è unita inun’unica lingua solo per costruzione, pur essendo presenti al suo interno numerosi dialetti  e lingue che, avolte, portano a forme di rivendicazione di autonomia. La lingua, quindi, può diventare un profondomarcatore di identità, come accadeva tra i Greci che chiamavano barbari chi non parlava il greco: la lingua èuna buona base su cui fondare il proprio etnocentrismo. Per lungo tempo si è pensato che l’umanità fossedivisa in razze biologicamente connotate e che a determinate caratteristiche biologiche corrispondesseroaltrettante determinate attitudini culturali. Ora non c’è più questa idea di razza: non è la genetica ainfluenzare la cultura, ma sono gli elementi culturali a influenzare la genetica.

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25. Studio antropologico: comunicare altrimenti Il linguaggio non è fatto solo di parole, ma anche di gesti: esiste una comunicazione gestuale che a volte puòaccompagnare la parola, sottolinearne l’importanza, enfatizzarla, sostituirla. Anche noi usiamo gesti che, purnon essendo universalmente condivisi, sono culturalmente caratterizzanti: strizzare l’occhio, gonfiare leguance per indicare che siamo stufi, mimare le forbici per dire di tagliare corto (ma per esempio in Giapponepotrebbe voler dire un invito a mangiare qualcosa). Un altro esempio di linguaggio non verbale ci viene dauna pratica chiamata scambio muto, oppure la teatralità dei balinesi. Anche il comportamento è un codice e una forma di comunicazione, soprattutto se pensiamo che la nostravita quotidiana è una forma di rappresentazione che corre su due piani paralleli: quello pubblico, chiamataribalta, dove l’attore esprime e mette in scena il suo io sociale, ciò che di sé vuole mostrare agli altri, poi c’èil retroscena, dove l’individuo torna ad essere se stesso. La gestualità, la mimica, la lingua sono i pilastri diquesto codice che per un verso può diventare un segno identitario, un atteggiamento nel quale i membri diun gruppo si riconoscono, oltre a diventare degli stereotipi. Il corpo non comunica solo attraverso i gesti, ma può anche essere un supporto per forme di scrittura, comenel caso delle pitture facciali dei nativi americani e dei tatuaggi; così come lo spazio può diventare base disupporto per un linguaggio silenzioso: a una determinata distanza sociale corrisponde una determinatadistanza fisica. Hall ha individuato 4 tipi di distanza: 1. la distanza intima, tra i 0 e i 45 cm, in cui ci si abbraccia, ci si tocca e si parla sottovoce, quello degliinnamorati; 2. la distanza personale, tra i 45 e i 120 cm, che caratterizza l’interazione tra amici stretti; 3. la distanza sociale, tra 1,2 e 3,5 m, che determina la comunicazione tra conoscenti; 4. la distanza pubblica, oltre i 3,5 m, utilizzata nelle pubbliche relazioni. Tali distanze non sono innate o naturali, ma costruite culturalmente: in ogni società ci sono modalitàspecifiche di rapportarsi nello spazio, che danno vita a una bolla invisibile che circonda ogni individuoattribuendogli uno spaio d’azione specifico.

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26. Il sapere della scrittura Scripta manent, dicevano i latini, sottolineando come la scrittura permanga nel tempo: scrivere significafissare su un supporto materiale parole, segni che a loro volta evocano concetti e suoni immateriali, consentedi immagazzinare informazioni al di fuori del corpo umano. La scrittura venne "inventata" solo due volte nella storia: presso i sumeri nel 3000 a.C. e dagli indianimesoamericani nel 600 a.C., in aree dove l’agricoltura si sviluppò per prima. "Inventata" nel senso di creatadal nulla, la scrittura si diffuse grazie a processi di re-invenzione e di imitazione. Sono 3 le tipologie di scrittura individuate: le scritture pittografiche, fatte di segni fortemente realistici, che riproducono fedelmente oggetti ed eventiche vogliono evocare; le scritture logografiche o ideografiche, nelle quali l’immagine risulta meno realistica, sempre piùschematica e rinvia a uno o più concetti; le scritture alfabetiche, in cui i segni grafici rinviano a dei suoni che prescindono da qualunque significato, eche lo acquistano solo grazie alla loro combinazione. Ciò che però è importane non è tanto la struttura della scrittura, quanto il ruolo sociale che assolve. Esistonosocietà che conoscono la scrittura e che tuttavia non hanno mai dato vita a uno stato burocratico, ma nonesistono stati burocratici senza scrittura: la burocrazia si fonda sulla scrittura e dà vita a un sistema chepermette di controllare in modo capillare popolazione e territorio. Anche analizzando il rapporto tra scritturae religione, si nota come le religioni tradizionali, trasmesse oralmente, lascino spazio al cambiamento,mentre la religione scritta diventa esclusiva, assoluta, contribuendo a diffondere anche l’idea di "una"religione. Codificando riti e culti, la scrittura trasmette un senso di appartenenza a una comunità ben piùampia di quella frequentata da ogni individuo, travalica i confini etnici e si fa universale: contribuisce allanascita di comunità immaginate, cioè gruppi di persone che non hanno mai interagito faccia a faccia ma chefiniscono per condividere un’idea comune. La scrittura ha spesso esercitato un certo fascino sulle popolazioni illetterate; l’impatto delle religioni scrittesu quelle orali ha dato il via a una lettura di carattere evoluzionista, con il binomio scritto/orale pari acolto/ignorante. Nel passato la scrittura era appannaggio di pochi, in genere di una casta sacerdotale o diun’elite politica. Il saper leggere e scrivere consente di controllare norme e leggi, conferendo quindi potere.La carta e i caratteri mobili erano già stati inventati in Cina prima di Gutenberg, ma non avevano avutogrande diffusione, sia perché i caratteri cinesi sono tantissimi, sia perché il potere in Cina si basava propriosulla conoscenza della scrittura e non si aveva nessun interesse a diffonderlo. Quando nel 1455 in Europa sidiffondono i caratteri mobili, siamo in un’epoca segnata dalla riforma protestante che prevedeva la letturadiretta dei testi sacri, con la conseguente esigenza di diffondere la Bibbia e l’alfabetizzazione della gente.

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27. Verba volant non semper Quello che siamo soliti definire come "tradizione orale" è un insieme di forme espressive diverse percontenuto e per contestualizzazione. Esistono testimonianze collettive ripetute pubblicamente davanti a ungruppo di persone, dove dovrà essere esposta con criteri e modi condivisi da tutti i presenti, dando una sortadi versione ufficiale del fatto narrato: queste saranno suscettibili di distorsioni e adattamenti da parte di chidetiene il potere. Se la tradizione è patrimonio di un gruppo ristretto di persone, sacerdoti, stregoni, membridi una casta o di una società segreta, sarà probabilmente più precisa e fedele alla testimonianza iniziale dallaquale è nata. Nella tradizione orale narratore e narrazione costituiscono una sorta di binomio inscindibile: il ruolo delnarratore coincide spesso con un certo tipo di autorità, sia costituita che informale, data dalla parola. Èquesta che dà l’esatta dimensione sociale di chi parla e che ribadisce l’ordine strutturale della comunità. L’espressione orale è però legata a una componente gestuale e perciò diventa teatrale. Il narratore nonrealizza il suo racconto solamente con le parole, ma dando vita a una performance gestuale, mimica e vocaletesa a sottolineare e a rendere più efficace la storia. La parola contribuisce a stabilire la gerarchia tra chiparla, ma anche tra oratori e pubblico, con un’importante funzione normativa. Altra caratteristica delle società letterate è l’importanza dell’occhio rispetto agli altri sensi, mentre nellesocietà illetterate è la loro capacità mnemonica, grazie alla quale è possibile ricostruire avvenimenti lontaninel tempo, tramandati di generazione in generazione. L’espressione della memoria è spesso il frutto di unprocesso non solo personale, ma anche collettivo e sociale, e in ogni caso la memoria opera anche larimozione, dimenticando o tralasciando gli episodi più tristi della propria storia. Se dalle fonti scritte èsemplice ricostruire la sequenza temporale dei fatti e collocare più o meno esattamente i periodi, dalletestimonianze orali emergono due dimensioni distinte del tempo e della sua percezione: da un lato ladimensione soggettiva, svincolata dagli avvenimenti storici e basata sui ritmi della propria famiglia e deipropri eventi personali, dall’altra il tempo collettivo, che ripropone dei dati che potremmo definire piùoggettivi, condivisi da tutta la comunità e legittimati dalla tradizione. Non sono solo i racconti a dare vita alla tradizione orale, ma anche i canti legati alle rispettive danze: ci sonocanti per i giovani che devono essere iniziati, per gli adulti, canti legati a una professione. Esistono melodieche possono essere cantate solo quando si raggiunge l’età giusta: sottolinea l’importanza di tale forma diespressione, che contribuisce a riaffermare nelle occasioni pubbliche i diversi ruoli e la posizione di ogniindividuo all’interno della struttura. Esistono anche canti di tipo storico, che rievocano eventi del passato,arricchiti continuamente con elementi della storia recente, diventando cronache. E poi ci sono i proverbi, lacui arte è praticata presso molte popolazioni: sintesi estrema di un concetto, serve per mettere in guardia eammonire che trasgredisce le regole fondamentali sulle quali si basa la società. I proverbi fanno parte dellinguaggio comune, e hanno il compito di fornire un tono di maggiore autorevolezza al discorso: richiamarsial proverbio significa rifarsi alle parole degli anziani e degli antenati.

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28. Segni per ricordare Continuiamo a chiamare orali tradizioni e culture che fanno un uso costante e articolato dell’immagine: dire"senza scrittura" significa mettere in evidenza quello che manca, entrando a far parte di un atteggiamentoetnocentrico. L’oralità non è una non scrittura, ma qualcosa di diverso, che viene comunque accompagnatadall’immagine. Quelle espressioni figurative, definite semplici decorazioni o pittografie, hanno una funzioneche va al di là dell’estetica, diventando un vero e proprio linguaggio che crea sequenze e intervalli utili amemorizzare concetti, fatti e storie. Lo sguardo non è neutro, mette in moto una serie di relazioni checoinvolgono anche l’aspetto biologico dell’essere umano: l’immagine è un prodotto biologicamentenecessario. Percepire significa proiettare un’immagine latente di sé, ed è grazie a questa relazione tra corpo,mente e realtà esterna che nasce l’uso mnemonico dell’immagine.

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29. Nuove oralità Esiste uno scarto tra il linguaggio scritto e quello parlato: l’errore orale è ammesso, tollerato, mentre lascrittura congela e crea gli errori. Quello nel web, però, è uno spazio virtuale, non fisico, dove nonpercepiamo le parole allo stesso modo di come lo percepiremmo se fossero scritte nella carta, anche perché,mentre le lettere vengono conservate per anni, spesso le mail vengono cancellate non appena vengono lette:sono strumenti di comunicazione, ma non oggetti da conservare. Emerge quindi un senso di aleatorietà,ancora più accentuato negli sms, dove i segni vengono ridotti a un minimo indispensabile per lacomprensione. La virtualità stride con la permanenza, con la durata, con la fissità, non vale la pena diinvestire nell’estetica della scrittura, che perde la sua proprietà evocativa e si riduce a mera comunicazione,a servizio, che comporta anche un minore potere espressivo, ridotto a pochi segni indispensabili. Da unpunto di vista formale il linguaggio di queste nuove forme di scrittura si fa sempre più simile a quello orale,un’oralità funzionale, che di quella vera non ha il lato percettivo ed emotivo, dal momento che non c’è ilfaccia a faccia. La scrittura è un’invenzione culturale che ha segnato l’inizio di uno stadio chiamato civiltà:ormai, però, stiamo diventando sempre più orali.

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30. Studio antropologico: produrre, scambiare, consumare Che viva come parassita sfruttando ciò che la natura gli fornisce, che agisca sull’ambiente per spremernerisorse, l’uomo è costretto per sopravvivere a operare al fine di ricavare e trasformare beni di sostentamento,manufatti e servizi più o meno indispensabili e che possono produrre reddito: tutte cose che rientrano nellacategoria "economia". L’uomo è un po' tutti e due: per sostentarsi ha bisogno di cibo, per ripararsi dal freddo deve confezionareabiti e costruire abitazioni, e per realizzare tutto ciò ha bisogno di attrezzi, utilizzando sempre risorsenaturali. Può agire nel modo più semplice della caccia-raccolta, che procura il cibo grazie a un’attività,sessualmente connotata, che vede gli uomini recarsi a caccia e le donne dedicarsi alla raccolta di piante,bacche, frutti, tuberi che crescono spontanei. La caccia non viene sostituita ovunque dall’agricoltura, inseguito alla sedentarizzazione: non è naturale per tutti cercare una dimora fissa, come viene testimoniata daituareg, dai lapponi, dagli inuit e dagli aborigeni australiani. La vita dei cacciatori-raccoglitori non erasegnata da ristrettezze, anche perché il fatto di raccogliere e di non coltivare li porta ad avere una dieta piùvaria e quindi più sana. Il passaggio all’agricoltura avviene laddove le condizioni erano particolarmente favorevoli, e nasce nellacosiddetta mezzaluna fertile della regione che va dall’antico Egitto alla Mesopotamia: qui, oltre allecondizioni climatiche favorevoli, si trovano in natura la maggior parte delle piante domesticabili. Il processodi domesticazione, che attraverso la selezione consente di rendere più produttive le piante selvatiche, è allabase del boom agricolo avvenuto nel Neolitico, con un processo simile per quanto riguarda gli animali. Da parassita della natura l’uomo si trasforma in produttore stanziale, causando profondi mutamentinell’organizzazione sociale e politica: il modello agricolo impone stanzialità e determina una maggioredensità di popolazione, che ovviamente richiede una sempre più complessa organizzazione e stratificazione,ma comporta anche più malattie e più rapidità di contagio. Anche l’allevamento richiede spesso la praticadel nomadismo o della transumanza, così da sfruttare al meglio i diversi piani o spazi ecologici ai fini delpascolo: il pastoralismo nomade viene oggi considerato come un ramo specializzato dell’attività agricola,per meglio sfruttare le terre aride. Società nomadi pastorali si trovano in Africa (peul, tuareg e somali), inAsia (tibetani, kazaki, kirghisi, beduini), in Europa (lapponi e samoiedi) e in America meridionale (gruppiandini). I pastori, in genere, intrattengono un rapporto di complementarità e conflittualità con gli agricoltori,poiché si trovano a sfruttare in modo diverso gli stessi terreni. Se in alcune regioni l’attività pastorale si èsviluppata in zone aride o semiaride, dove non potrebbe mai operare anche l’agricoltura, in altre regioni ledue attività occupano gli stessi spazi. L’esistenza errante non pregiudica però i contatti con i gruppisedentari, con i quali i pastori intrattengono scambi: la dieta ricca di proteine dei pastori nomadi viene cosìintegrata con cereali ottenuti dallo scambio con agricoltori incontrati. I nomadi quindi non potrebbero maivivere da soli, ma il fatto di essere mobili ne fa una categoria che sfugge alle classificazioni di chi conduceuna vita sedentaria e desta sospetti, tanto che vengono appellati in modo dispregiativo, si pensa non abbianovoglia di lavorare, rubino e non hanno dimora fissa.

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31. Studio antropologico: vendere, scambiare Le società primitive non vivevano un’esistenza lurida, brutale e corta: si garantivano la sussistenza con unminimo impegno e spesso si trovavano ad avere un surplus da scambiare con altri gruppi, come cibi diversida quelli soliti o manufatti in cui si era particolarmente abili nello fabbricare. Lo scambio, che sia di beni odi forza lavoro, è un aspetto non solo economico ma anche relazionale dei rapporti tra esseri umani e traesseri umani e cose. Può avvenire con il baratto, con l’intermediazione di denaro o altri oggetti con funzionedi moneta, occasionalmente o in luoghi deputati allo scambio. Dallo storico dell’economia Karl Polanyi vengono individuate 3 modalità di integrazione dell’economia: 1.reciprocità: implica una situazione di egualitarismo e viene praticata in società dove non esistono leggi cheregolano vendita e acquisto. Lo scambio avviene sulla base della simmetria e spesso è la parentela a fornirela struttura di riferimento per le transazioni. Al suo interno è a sua volta diviso in 3 tipi: reciprocitàgeneralizzata (non si tiene una contabilità precisa del valore dei beni o dei servizi scambiati e non ci siattende una contropartita immediata, come nel dono), reciprocità equilibrata (le parti scambiano beni eservizi di uguale valore), reciprocità negativa (quando una delle parti vuole ottenere dall’altra qualcosa,senza dare nulla o dando meno di quanto richiesto); 2.redistribuzione: per essere messa in atto necessita di una struttura centralizzata di potere. Un capo, unsovrano, uno Stato ricevono beni e denaro da parte di tutti i componenti del gruppo, e successivamentedovranno provvedere a ridistribuirli secondo modalità più o meno eque previste dalla loro società: accadenel big man polinesiano, ma anche nel nostro apparato fiscale che si occupa di raccogliere il denaro delleimposte per poi ridistribuirlo sotto forma di servizi ai cittadini; 3.scambio di mercato o commercio calcolato: la trasformazione della rivoluzione industriale segna lospartiacque tra i diversi tipi di economie e civiltà. Il capitalismo viene considerato come un’anomalia storicain quanto muta la sostanza dei rapporti economici precedenti che si fondavano soprattutto sui rapportisociali, mentre qui sono questi che vengono determinati dai rapporti economici. In seguito alla rivoluzione industriale scompare la tradizionale società commerciale, i cui fondamentipoggiavano sulle risorse auree internazionali, mentre la produzione, grazie all’introduzione della macchina,prende il sopravvento sull’attività mercantile: nascono le cosiddette "merci fittizie" come la terra, il lavoro,la moneta, che diventano oggetto di compravendita e sottoposti alle leggi del mercato autoregolato. Icapitalisti, come i big men, spingono gli uomini a imprese collettive, ma a differenza dei primi comprano laforza lavoro, pagandola sulla base delle valutazioni imposte dalla legge della domanda e dell’offerta. Ilcalcolo viene fatto sulla base di un intermediario costituito dal denaro, e il valore dei beni o dei serviziscambiati dipende dal loro valore di mercato. Queste tre forme di scambio non si escludono necessariamentea vicenda, ma spesso convivono all’interno di ogni società, all’interno delle quali viene data la priorità a unadelle modalità, assegnandole la funzione di integrare l’economia. Nelle società occidentali è ormai ilmercato a svolgere tale ruolo, ma non significa che non esistano forme di economia mercantile in societàtradizionali e forme di reciprocità in società capitalistiche.

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32. Studio antropologico: il dono è economia? Donare è un gesto economico? Se ne occupa Mauss, con un modello apparentemente semplice. L’atto deldonare si fonda su 3 fasi fondamentali: donare, ricevere, restituire. Cosa spinge gli uomini a donare? E cosali spinge a restituire, visto che non sono tenuti a farlo? Secondo il paradigma utilitarista, l’individuo tende a perseguire il proprio interesse individuale. Taleconcezione deriva dall’idea che il rapporto sociale può e deve essere compreso come la risultantedell’intrecciarsi dei calcoli effettuati dai singoli individui; secondo il paradigma collettivista, l’individuoviene visto come assoggettato alle regole della sua cultura e della sua società. In questo caso è la cultura afar sì che gli uomini si scambino doni affinchè la società possa continuare ad esistere: sono quindi i legamisociali che spingono gli uomini a donare. Dipingendo gli esseri umani come individualisti e tesi solo a soddisfare i propri interessi, si pensa cheabbiano caratteristiche predeterminate di egoismo, quasi genetiche; nel caso dei collettivisti, si arriva aconcludere che cultura e società preesistono all’individuo. Per non cadere nella contraddizione, Caillèpropone un terzo paradigma, il paradigma del dono, ponendo la questione quasi in termini di scommessa: sefosse proprio il dono l’elemento attraverso cui gli uomini creano la loro società? Il dono diventa promotoredi relazioni; ciò che apre la strada al dono è la volontà degli uomini di creare rapporti sociali, perché l’uomonon si accontenta di vivere nella società e di riprodurla come gli altri animali sociali, ma deve produrre lasocietà per vivere. Questo paradigma non propone solo il dono come elemento fondante della societàprimaria, ma costringe a spostare in avanti il livello di lettura del valore di beni e servizi. Nell’economiaclassica, si sostiene che beni e servizi da un lato hanno un valore determinato dai bisogni che riescono asoddisfare (valore d’uso), dall’altro valgono in base alla quantità di denaro o di altri beni e servizi che siriescono ad acquistare (valore di scambio): accettando il terzo paradigma, bisogna aggiungere che esiste unaltro tipo di valore, quello legato alla capacità che hanno beni e servizi, se donati, di creare e riprodurrerelazioni sociali, che potrebbe essere chiamato valore di legame (il legame diventa più importante del benestesso). Il dono diventa quindi una prestazione di beni o servizi effettuata al fine di creare, alimentare o ricreare illegame sociale tra le persone, senza nessuna garanzia di restituzione. Il dono implica una forte dose dilibertà: c’è l’obbligo di restituire, ma modi e tempi non sono rigidi, anche perché si tratta di un obbligomorale, non perseguibile per legge né sanzionabile. Il valore del dono sta nell’assenza di garanzie da partedel donatore, che presuppone quindi una grande fiducia negli altri. Il valore del controdono sta nella libertà:più l’altro è libero di scegliere, più sarà prezioso quello che ci donerà. La sua esasperazione, però, puòarrivare a mettere in moto un processo opposto: un ritardo eccessivo o un dono inferiore a quello ricevutosuscitano disagio e generano un asimmetria nel rapporto, arrivando ad essere un’arma di distruzione, cheverrà usato per colpire, umiliare, distruggere il rivale (ad esempio, il caso dei potlatch, dove i protagonistifacevano a gara a chi riusciva ad offrire di più). Altra situazione si ha nel caso di donazioni a fondazioni oassociazioni di beneficenza dove il donatore a volte non conosce personalmente il destinatario, non creandoquindi alcun legame diretto. Debito è una parola che non amiamo, perché lo si associa alla sfera economica, mentre il dono rientra nellasfera affettiva: donando, però, si genera debito, creando uno squilibrio. Dono e controdono dovrebberoportare a un equilibrio, ma allo stesso tempo generano una sorta di conflitto permanente: l’equilibrio di ungruppo non nasce per forza da uno stato di inerzia, ma da una serie di conflitti interni controllati.

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33. Studio antropologico: la moneta Diversi tipi di moneta caratterizzavano gli scambi commerciali di ogni parte: barre di ferro, fili di rame,rafia, monete di sale, conchiglie, che non impedivano però che esistessero anche altre forme di baratto o discambio personale. La moneta è un portatore di valore e consente un possesso a distanza, ma è portatrice disegni, permettendo una separazione spaziale tra la proprietà e il proprietario. Le due facce della monetarappresentano le due forme di organizzazione che le consentono di operare e svolgere le sue funzioni: il latodella testa esprime il simbolo dell’autorità che ha emesso la moneta, il lato della croce solitamente ha unacifra, che è il valore stesso della moneta; ci ricordano che la moneta è un oggetto capace di entrare inrelazioni di tipo diverso esprimendo un valore quantitativo, ma anche che in origine è una relazione trapersone. La sua presenza non implica automaticamente un passaggio a scambi impersonali, dal momento che nonagisce da sola, ma sono gli esseri umani ad assegnarle una funzione che non è sempre la stessa. Su moltimercati, vige la regole della contrattazione, che mette in gioco i due contendenti che tentano di stabilire uncompromesso tra le parti in campo: rimane quindi un incontro tra persone. Non è dunque l’assenza di denaroo di mercanti che differenzia il dono dal mercato, ma l’obiettivo fondamentale dell’atto: si tratta di farnascere e nutrire con lo scambio un rapporto sociale che rafforza i debiti di ciascuno verso tutti, e non disoddisfare bisogni o accumulare valore materializzato, senza lasciare traccia personale nei rapporti tra gliattori dello scambio. Nella contrapposizione tra scambi personalizzati e anonimi, si prediligono i primi: il denaro era strumento dilibertà, un’opportunità per ampliare il raggio di azione individuale e la propria cerchia di affari, ma è ancheuna minaccia all’ordine morale. L’anonimato della moneta conduce alle relazioni impersonali caratteristichedei mercati, che porterebbe alla dissoluzione delle comunità: in certi casi, però, gli individui, grazie allamoneta, riescono a svincolarsi talvolta dalle reti gerarchiche e parentali che implicano diversi tipi diobbligazioni. In una società è indispensabile che esistano diversi tipi di scambio, da quelli più vicini al dono a quelli perfini commerciali, che spesso convivono: il mercato e il dono. Il mercato era una transazione che in se stessanon richiedeva relazioni personali a lungo termine, che quindi poteva essere sfruttata il più possibile: lamoneta ha permesso nuove strategie di commercio, ma non ha annullato il dono. Si parla quindi di sistemiparalleli e complementari, che rappresentano uno il canale per creare vincoli e legami sociali, l’altro lanecessaria valvola di sfogo per aggirarli.

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34. Studio antropologico: l’economia Agli antropologi il termine economia non piace, perché sono influenzati dall’ottica europea che vede l’uomocome un essere razionale che agisce perseguendo fini utilitaristici, e quindi profondamente egoistico, mentreperò sono colpiti dalla malattia cosiddetta "bongo-bonghismo", secondo cui ogni volta che si tenta dicostruire una teoria generale, ci sarà sempre qualcuno che dirà che nella tribù di Bongo-Bongo le cose vannodiversamente. Fino a che gli antropologi si limitavano a descrivere i diversi sistemi di produzione o discambio, tutto è andato bene: i problemi sono iniziati quando si è tentato, attraverso il modello comparativo,di trovare modelli generali, gli antropologi economici si sono divisi in due fazioni, i formalisti contro isostanzialisti, che portano dietro di loro un’altra dicotomia, universalisti/relativisti. Per i formalisti erapossibile applicare i metodi di analisi economica a qualsiasi gruppo umano, in quanto l’uomo agisce sempree comunque come essere razionale che cerca di massimizzare il profitto. Per i sostanzialisti, invece, ciò nonera possibile in quanto ogni tipo di attività umana è inserita all’interno di un sistema di valori, attraverso cuigli individui non sempre perseguono il massimo guadagno, ma a volte rispondono a valori morali chepossono portare in direzione diversa. In tali società l’economia è moralmente vincolata ad altre forme diespressione culturale, è quindi incastonata nella società e non esterna a essa e alle sue regole morali.

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35. Studio antropologico: lo sviluppo nella società occidentale La parola sviluppo è ormai usata da tutti, con il fine di distinguere le società moderne da quelle che le hannoprecedute o quelle ricche da quelle sottosviluppate. In realtà, lo sviluppo come lo concepiamo noi non è altroche l’espansione planetaria del sistema di mercato. Il concetto di sviluppo svolge per la società occidentalela stessa funzione dei miti di fondazione delle società primitive: lo sviluppo è il mito fondante della società,senza di esso il sistema crollerebbe, con i suoi vangeli, la sua fede, i suoi incontri per sperare in un futuromigliore per tutti. La problematica dello sviluppo è inscritta nell’immaginario occidentale e ne costituisce ilmito fondante. Il concetto di sviluppo affonda le sue radici nell’illuminismo e nell’evoluzionismo sociale: il primo, con lasua fede incrollabile nell’uomo e nella sua capacità di creare un progresso infinito, ha progettato solide basisu cui poggiare i pilastri della credenza sviluppistica, i secondi assimilarono lo sviluppo umano a quellonaturale, dal che si deduceva che il cammino verso la civiltà era uno solo. Però, l’obiettivo di elevare tutti gliesseri umani al tenore di vita di noi occidentali è materialmente irrealizzabile, considerando anche che inmolte società non esiste neanche un termine che lo equivalga: in Guinea equatoriale, si usa un termine cheequivale sia a crescere che a morire, in Ruanda si usa il verbo marciare, spostarsi, senza però nessunadirezione prestabilita, in wolof l’equivalente è stato identificato con la voce del capo, in Camerun di linguaeton lo traducono con il sogno del bianco, in morè non esiste proprio un equivalente. Il termine sviluppocosì come lo concepiamo noi è la metafora di un processo naturale che applichiamo ai fenomeni sociali,come se quello che è vero per uno è vero anche per l’altro, amputata per altro: un organismo naturale nasce,cresce fino a raggiungere un apice e poi declina fino a morire, mentre lo sviluppo non finisce mai. Non sitiene quindi conto della storia, che non segue criteri regolari: nessuna legge naturale prevede che unvillaggio debba per forza diventare una grande città. Naturalizzare la storia significa non tenere conto di tuttigli eventi di natura umana che determinano cambiamenti di rotta nelle strategie delle società umane. Lo sviluppo non è un aspetto inevitabile della storia, che anzi presenta periodi quasi stazionari, e ildinamismo di questo periodo è forse un’eccezione. Negli ultimi tempi, di fronte ai palesi fallimenti dellepolitiche di sviluppo, si sono aggiunti nuovi termini come durevole, sostenibile, umano, compatibile, perdare nuovo respiro a un concetto in debito d’ossigeno. Viene messo in luce da Georgescu-Roegen ilparadosso su cui si fonda il dogma del tecnicismo moderno e il conseguente modello di sviluppo che nederiva. Tale modello, figlio del pensiero economico occidentale, ruota in un sistema chiuso che tiene contosolamente della produzione e del consumo, senza metterlo in connessione con la biosfera.

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36. Studio antropologico: Dio, io e lo zio L’antropologo si occupa soprattutto di studiare le relazioni, e quelle di parentela sono le principali, tramite lequali gli esseri umani organizzano le relazioni sociali: per questo si dice che l’antropologo si occupa dellozio. Non esiste società che non abbia regolamentato i rapporti tra genitori e figli, tra partner sessuali ecc, conmaniere però diverse: questo diventa la chiave di lettura di una società e rende possibile una comparazionesu larga scala. Tutte le forme di parentela vivono a cavallo tra natura e cultura: affondano le radici nellanatura, ma non si riducono a questo. L’unico gruppo sociale che non si riduce ulteriormente è quello dellamadre e i suoi figli: con l’intervento di un maschio nell’atto della fecondazione, è sufficiente allariproduzione della specie, e viene trasformato dall’atto del matrimonio, non indispensabile per lariproduzione, ha trasformarlo da atto puramente biologico a una creazione sociale e a renderla duratura neltempo. La parentela nasce quindi dall’intersezione fra due rapporti biologici fondamentali: il legame difiliazione tra madre e figlio e il legame di coppia tra maschio e femmina, che nasce quando il maschio offrela sua paternità alla prole della femmina, dando luogo al terzo legame, quello della paternità. I cuccioli dell’uomo, a differenza di quelli animali, hanno bisogno di un lungo periodo di convivenza con igenitori prima di essere indipendenti: il matrimonio prolunga l’essenza fisica dell’atto sessuale,trasformandolo in una pratica culturale con una serie di norme. Il matrimonio definisce le condizioni in cuiun uomo e una donna possono intrattenere relazioni sessuali e gestire i loro beni, regola il processo diallevamento dei figli e stabilisce privilegi e doveri legati a queste condizioni, serve a trasmettere alla proleuno status sociale e a determinare un legame socialmente significativo tra i gruppi domestici del marito edella moglie. Esistono, però, anche altri vincoli su cui gli individui basano le loro relazioni, che possono superare perintensità quelli parentali, ma dal diritto, che sia consuetudinario o scritto, sono presi in considerazione quelli,solo loro fanno giurisprudenza.

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37. Studio antropologico: esogamia, endogamia Il matrimonio contribuisce ad allargare la sfera di legami parentali al di fuori della cerchia dei consanguineio parenti collaterali, dando vita a relazioni con parenti acquisiti o affini: crea una parentela sociale più estesadi quella puramente biologica, niente di "naturale", e ogni società è libera di fissare regole su chi si può, sideve o è meglio sposare. Nella società occidentale la scelta del coniuge è libera e legata a fattori personali,mentre in altre culture ci sono norme che regolano o condizionano le possibilità di matrimonio, vincolandoloa certi contesti: in alcuni casi vige l’esogamia, cioè sposarsi con una donna esterna al proprio gruppo diappartenenza, sociale o territoriale, in altri casi vige l’endogamia, meno diffusa, che consiste nel contrarrematrimonio con donne appartenenti al proprio gruppo. Esempi di endogamia vengono dalla società indiana suddivisa in caste (jati) gerarchicamente ordinate edeterminate dalla nascita, esteso anche alla sottocaste, caratterizzate da una professione comune o da uncredo politico, con lo scopo di determinare, rafforzare e mantenere in vita la separazione tra le diverse castee a istituzionalizzare i concetti di impurità e purezza. Nel caso di matrimonio misto accade che i trasgressorivengano processati da un tribunale di casta e talvolta espulsi dalla casta, se quello con la casta più alta è ilpadre, i figli avranno la sua casta, in caso contrario prenderanno la casta più bassa in assoluto, senza tenereconto di quelle dei genitori. Nelle caste endogamiche c’è comunque un principio di esogamia: se è obbligosposare un pari casta, non deve appartenere allo stesso gotha, cioè i suoi quattro nonni non devono portaregli stessi cognomi dei nonni del coniuge. In altri casi, invece, è più una tendenza, legata a giudizi di valore. Più diffusa l’esogamia: presso la maggior parte delle società patrilineari, l’esogamia riguarda i parenti daparte del padre e quindi il divieto di contrarre matrimonio loro. In molti casi la consuetudine di cercare unasposa al di fuori del proprio gruppo serve per stemperare o ad annullare la competizione che nascerebbe nelcaso in cui i giovani dovessero contendersi le ragazze dello stesso gruppo. L’usanza di sposare i proprinemici diventa un sistema per creare nuove alleanze, ed è possibile avvenga anche uno "scambio di spose",di modo che ci si trovi ad avere sorelle residenti nel gruppo opposto, limitando così la possibilità di scontro.Sotto il profilo demografico presenta alcuni vantaggi culturali e sociali: i gruppi di dimensione ridotta,praticando l’endogamia, si troverebbero, in caso di una serie di nascite maschili, in una situazione di fortedisparità tra i sessi che li porterebbe all’estinzione; garantisce quindi un maggiore successo riproduttivo,dando origine a nuove alleanze tra gruppi diversi che a loro volta creano infrastrutture destinate a formare labase di società sempre più complesse e strutturate.

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38. Studio antropologico: il problema dell’incesto La forma di endogamia più ristretta è l’incesto, anche se si tende ad evitarlo nella maggior parte dellesocietà: non è tabu o proibito, ma è la morale che lo trova riprovevole. La differenza tra proibizionedell’incesto ed esogamia è che la prima riguarda i rapporti sessuali, la seconda le scelte matrimoniali.Essendo le donne un bene indispensabile ma scarso, e vista la tendenza dei maschi alla poliginia, non ci sipuò permettere di rimanere senza moglie. Padri e fratelli sarebbero però stati costretti a rinunciare alcontrollo delle loro figlie e sorelle in favore del gruppo. Un uomo però può intrattenere rapporti sessuali conuna figlia senza che a questa sia impedito sposare un altro uomo: l’incesto risulta dannoso perché impediscelo sviluppo di una rete allargata di relazioni sociali, oltre al fatto che se una donna avesse un figlio da suopadre sarebbe allo stesso madre e sorella del bambino, portando a confondere i ruoli sociali con quellibiologici. Altro problema è che l’incrocio tra consanguinei porterebbe a risultati genetici disastrosi, ma nonè l’unico motivo per cui non si è diffuso l’incesto, e anzi viene visto come un tabu: se si pensa alle societàprimitive e alle condizioni di vita dell’epoca, si capisce che i tempi di pubertà, di matrimonio e di morte noncoincidevano, e quindi era impossibile che il figlio si accoppiasse con la madre (magari già morta) o unfratello con la sorella (se maggiore, probabilmente era già sposata, se era minore, era ancora in una fase diprepubertà, e quindi inutile da sposare).

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39. Studio antropologico: la poligamia Le diverse regole matrimoniali determinano anche con quanti partner si può contrarre matrimonio: lapoligamia è presente nel 90% delle culture del pianeta ed è divisa in due forme, la poliginia (un marito evarie moglie) e la poliandria (una moglie e vari mariti). La poliginia è quella più diffusa, e anche se è autorizzata presso molte culture, non sempre è comune, ma èappannaggio dei più abbienti. La differenza di diffusione maggiore della poliginia rispetto alla poliandria havari motivi: in tutte le società sono i maschi ad avere più diritti e a occupare una posizione preminente, e ledonne sono in un numero superiore a quello degli uomini, che sono impegnati in altre attività pericolose, epoi un uomo può avere quattro figli da quattro mogli contemporaneamente, cosa che invece non puòaccadere con la donna. In quest’ultimo caso la poliginia è più legata alla riproduzione che non all’economia,e prevale in contesti dove le risorse principali sono umane rispetto a contesti dove prevalgono le risorse ditipo ambientale: più mogli si hanno, più figli si mettono al mondo, più terra si può coltivare, per averemaggiori guadagni e ancora più mogli. In alcune società amazzoniche vige il sororale: un uomo, sposandouna donna, acquisisce il diritto di sposarne anche le sorelle. I rapporti tra diverse mogli di uno stesso marito sono spesso conflittuali e fonte di tensione: per regolarne irapporti, vige tra le co-mogli una gerarchia basata sull’età, dalla più anziana alla più giovane. La pratica della poliandria è rara e solo in pochissimi casi la si riscontra: due si trovano in India. Il primo èquello dei toda dell’India meridionale, il secondo, nel passato, tra i nayar del Malabar: la maggior parte degliuomini di questa popolazione erano appartenenti a una casta di guerrieri e venivano impiegati a tempo pienodai signori locali, trascorrendo gran parte del tempo in accampamenti militari o in battaglia. Le donne nayarandavano spesso a servire nelle abitazioni dei brahmini e venivano prese come concubine dagli uomini diquella casta, considerato un grande privilegio. Queste donne potevano avere dei figli dai loro padroni, maprima della pubertà venivano "sposate" a un uomo di un lignaggio con il quale il loro lignaggio intrattenevarapporti preferenziali. Terminato il periodo del servizio militare gli uomini tornavano al loro villaggio, comepure le ragazze, che a quel punto vedevano annullarsi il matrimonio precedente e potevano avere fino a 12amanti o mariti, che avevano tutti il diritto di visitarla, ma "aspettando il loro turno": questo per garantireuna riserva sicura per la riproduzione. Nel Tibet era diffuso un matrimonio poliandrico adelfico: la donnasposa un uomo e tutti i suoi fratelli, e il più anziano domina gli altri come fosse il padre, regolando cosìl’accesso sessuale alla moglie. Presso alcune popolazioni esiste il levirato, istituzione che ha lo scopo di mantenere in vita l’alleanza natadal matrimonio: se la donna rimane vedova potrà risposarsi con il fratello del marito defunto o con un suofiglio, che prenderà il posto del defunto; gli eventuali figli nati dalla seconda unione saranno consideratieredi del defunto. Tra i nuer esiste addirittura il matrimonio con un defunto: se un uomo muore prima diavere avuto la possibilità di sposarsi e avere dei figli, un suo fratello più giovane sposerà colei che sarebbestata sua moglie, che sarà però considerata moglie del defunto, come pure i suoi figli. L’istituzione, oltre adevidenziare il legame tra fratelli, contribuisce a rafforzare l’unità del lignaggio e a mantenere il principio diformazione dei gruppi di discendenza, alla base di molte società. Meno diffusa la pratica del sororato, doveun uomo vedovo dovrà sposare una sorella della moglie defunta.

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40. Studio antropologico: la discendenza Tra le funzioni del matrimonio c’è la regolamentazione della gestione dei beni rispetto al coniuge e ai figli.Questi ultimi ricevono in eredità dai genitori beni materiali e uno status sociale sulla base di una linea didiscendenza stabilita. Non tutte le società, però, considerano uguale l’apporto dei due genitori nel momentoin cui occorre determinare la discendenza dei figli. Una delle più diffuse regole di discendenza è quellaunilineare, secondo la quale diritti, doveri e privilegi vengono trasmessi ai figli solo lungo la linea paterna osolo lungo la linea materna. Presenta due forme ben caratterizzate: quella patrilineare, dove è il padre atrasmettere eredità e status, e quella matrilineare, dove è invece la madre a trasmetterle. Ciò non significache siano le donne a gestire il controllo dei beni, ma fungono solo da polo per il passaggio di beni allagenerazione successiva. In questo caso, beni e status di un uomo non andranno a suo figlio, ma al figlio dellasorella. Esistono poi alcuni gruppi in cui la discendenza è doppia o bilineare, come nella nostra società opresso gli yako della Nigeria. Oltre a stabilire legami di alleanza orizzontali e sincronici, il matrimonio innesca relazioni di filiazioneverticali e diacroniche tra generazioni diverse: il risultato è il formarsi di linee di discendenza, checostituiscono la base di gruppi che hanno al loro interno generazioni presenti e passate e che fungono damodelli organizzativi della società. Tali gruppi vengono chiamati lignaggi e clan: il primo è un gruppo didiscendenza patrilineare o matrilineare i cui membri possono ricostruire le proprie relazioni di discendenza(è quindi un gruppo storicizzato e non molto profondo nel tempo, circa 4-5 generazioni); il secondo è ungruppi la cui origine si perde in un passato lontano, a volte mitico, con al suo interno individui che siriconoscono in un antenato o in una coppia di antenati comuni.

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41. Studio antropologico: la residenza Ma il matrimonio non crea solo relazioni sociali, ma determina anche gli spazi di azione degli individui: glisposi abbandonano le rispettive abitazioni paterne per vivere in una loro casa, ma non è ovunque così, dalmomento che la diversità dei modelli incide sulla formazione dei gruppi domestici che contribuiscono adaggiungere o sottrarre individui al gruppo residenziale. Presso comunità molto piccole può essere applicatoun modello nato locale, dove gli sposi continuano a risiedere ognuno presso i propri genitori: l’unità diresidenza coincide con quella dei consanguinei. Il sistema di residenza detto bilocale, i coniugi vivonoalternativamente presso il gruppo dello sposo e poi presso quello della sposa; in quello detto ambilocale,decidono di vivere stabilimento con l’uno o l’altro gruppo: questi due gruppi sono caratteristici delle societàdi cacciatori-raccoglitori come i khoisan del deserto del Kalahari, per i quali la flessibilità è una necessitàfondamentale in quanto le risorse su cui si basa la loro sussistenza sono di localizzazione variabile. Èevidente però che nella maggioranza delle società il modello residenziale è incentrato sulla figura del marito:dipende dal fatto che le società patrilineari sono circa 4 volte superiori a quelle matrilineari. Nella maggior parte dei casi la sposa abbandona la propria famiglia e si trasferisce presso il gruppo deiparenti del marito (residenza virilocale), e in certi casi in cui è importante mantenere stretti i legami tra imaschi andrà addirittura a risiedere nella casa del padre del marito (residenza patrilocale): è necessariofavorire al massimo la cooperazione tra i maschi più che quella tra donne. In alcune società a discendenza matrilineare è l’uomo a lasciare la propria famiglia per trasferirsi presso ilgruppo dei parenti della moglie (residenza uxorilocale), oppure presso l’abitazione di sua madre (residenzamatrilocale). Poiché sono generalmente gli uomini a detenere il potere, negli ultimi due sistemi non vedonodi buon occhio che siano i maschi ad abbandonare la casa al momento del matrimonio, ma esiste unasoluzione che permette di attenuare le tensioni della matrilocalità: la cosiddetta residenza avunculocale,dove lo sposo va a vivere presso lo zio materno (fratello di sua madre), e la sposa lo raggiunge, andandosiquindi a creare gruppi di maschi con interessi comuni, che continueranno a governare gli affari all’internodel gruppo matrilineare.

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42. Studio antropologico: manipolare la parentela Questi modelli ovviamente non sono rigidi, ma sono malleabili, dal momento che sono legati alcomportamento: ci sono casi in cui una ragazza di casta elevata ma decaduta venga fatta sposare con unragazzo di casta inferiore ma abbiente; presso i nuer, se ci sono due giovani che vorrebbero sposarsi ma nonpotrebbero contrarre matrimonio perché appartengono a due gruppi "incompatibili", è prevista un’azionesimbolica che spezzi la parentela, la interrompa, consentendo così ai due di sposarsi regolarmente; in certipaesini italiani la Chiesa concedeva dispense per sposarsi tra cugini primi, considerata incestuoso. Un altro fattore che influisce sulla parentela e sulla discendenza è la schiavitù: schiavo è colui a cui è statarecisa la parentela, dal momento che i suoi figli appartengono al padrone che ne può disporre a suopiacimento. Lo schiavo è inserito nel processo produttivo ma è escluso dal processo riproduttivo, in quantoimpossibilitato a risocializzare sé e i suoi discendenti. Pur essendo patrilineari, i nuer consentono a unadonna abbiente di fondare un proprio lignaggio; se una donna con molti capi di bestiame è sterile, puòchiedere in sposa una donna, che avrà un amante: i figli che nasceranno da tale unione saranno figli delladonna sterile, che avrà così una discendenza. Si possono creare dei legami di parentela anche a prescindere dai vincoli di discendenza o dal matrimonio:molte popolazioni prevedono patti di sangue che danno vita a rapporti di parentela tra gli adepti, oppure siistituiscono forme di comparatico più o meno rituale attraverso le quali alcune famiglie si legano a uominipotenti; presso molte società islamiche si viene a creare una parentela di latte: se un bambino viene allattatoda una donna che non sia la madre, l’evento rende la nutrice pari a una madre e tutti i suoi parenti allastregua dei parenti consanguinei. Anche l’adozione è una forma di manipolazione e di creazione di legamiparentali, svincolati dalla riproduzione: in alcune società è regolamentata per via giuridica, in altre dal dirittoconsuetudinario. La pratica è quasi automatica in caso di morte dei genitori, ma a volte può essere avviataper altri motivi: far studiare un figlio in città presso i parenti, per esempio. Esistono anche pratiche per far annullare i legami parentali: le dispense della Chiesa che annullano il gradodi parentela tra cugini o il matrimonio, un padre può diseredare un figlio, una moglie può essere ripudiata,un figlio può non essere riconosciuto dal padre. La scienza, inoltre, crea non pochi problemi di studio sulla parentela: con le tecniche dell’inseminazione èpossibile per una donna avere un figlio concepito con lo sperma di un altro uomo che non sia suo marito,oppure può proprio non averlo il marito, dando vita a una famiglia monogenitore, o ancora ospitare nelproprio utero l’ovulo fecondato di un’altra donna. Altre novità sono le famiglie allargate e le famiglieallungate, dove i figli rimangono per più tempo a casa dei genitori per la precarietà e la mancanza di lavoro.

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43. Darsi delle regole Animale sociale per necessità, l’uomo vive in gruppo ed è quindi costretto a darsi delle regole, a limitare gliimpulsi soggettivi ed egoisti per il bene comune. La creazione delle regole è un’opera degli uomini, e leregole stesse sono frutto di un continuo lavoro di aggiustamento, adattamento, distruzione, ricostruzione; persua natura l’uomo è costretto a fare politica, a organizzare i rapporti con i suoi simili sulla base di normecondivise e con la necessità di farle rispettare. Essendo culturali, le forme di organizzazione sociale sonodiverse e numerose, che vanno da un grado minimo di organizzazione e di governo a entità strutturate efortemente gerarchizzate. Nel 1940 escono due opere fondamentali per le organizzazioni politiche, chesaranno l’inizio di una lunga serie di studi incentrati sulle strutture di governo, portando alla formazione di 3diversi approcci principali: 1. genetico: carattere evoluzionista, si pone come finalità la ricerca delle origini delle varie forme diorganizzazione e la loro evoluzione nel tempo; pone l’accento sulle dimensioni delle società e sulla loroorganizzazione spaziale: l’organizzazione territoriale sarebbe il fondamento della politica di una società, el’ambito del politico agisce soprattutto all’interno di un determinato territorio e ne determinal’organizzazione; 2. struttural funzionalista: definisce l’organizzazione politica come l’aspetto dell’organizzazionecomplessiva che assicura lo stabilirsi e il mantenimento della cooperazione interna e dell’indipendenzaesterna; l’approccio è teso a individuare le forme delle istituzioni politiche e fondato sull’idea che ogniistituzione contribuisce a mantenere una società in equilibrio; l’accento viene spostato sulle funzioni chel’ambito politico svolge; 3. dinamista: le società sono organismi in perpetuo conflitto interno, e l’attenzione è puntata sui processi esulle dinamiche tra le componenti della società; il potere politico appare come un prodotto dellacompetizione e come un mezzo per contenderla. Esiste anche un approccio di tipo strutturalista, che studia più le caratteristiche formali delle istituzionipolitiche, ma è un approccio fortemente astratto, che riguarda più il sistema delle idee che il sistema politicoreale. Le società hanno forme di diseguaglianza, di asimmetria, di gerarchia, e ovunque esiste una qualchemodalità di dominio o di controllo da parte di qualcuno sugli altri. In quanto essere sociale, l’uomo èattraversato da legami differenti, pubblici e privati, e marchiato da una serie di ruoli fondati su status, ceto,casta, autorità: alcuni di questi ruoli e legami sono ascritti, altri sono acquisiti. È importante la differenza traautorità (diritto riconosciuto a una persona o a un gruppo, grazie al consenso della società, di prendere delledecisioni che riguardano altri membri della società, implicando un certo grado di legittimazione) e potere(prevede, con diverse gradazioni e modalità, una maggiore asimmetria di rapporti tra chi lo detiene e chi neè sottoposto, e può addirittura sopperire con la forza la mancata legittimazione). Da Lucy Mair viene proposto uno schema di tre tipologie di organizzazione: 1a) governo minimale: piccole società dove l’autorità è conferita a poche persone ed è tendenzialmentedebole; 2a) governo diffuso: alla vita pubblica partecipa di solito la popolazione maschile adulta, ma esistono delleistituzioni come i sistemi di classi di età che assicurano la gestione pubblica;

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3a) governo statale: potere centralizzato e molto più differenziato rispetto alle forme precedenti.

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44. La politica nelle relazioni interpersonali Sintetizza la presa di coscienza del fatto che la politica non si esprime solo nei palazzi del potere, ma inizianelle relazioni interpersonali, soprattutto in quelle piccole società dove l’organizzazione politica si fonda sulprincipio di parentela e che rientrano nell’ambito del governo minimale. Popolazioni di cacciatori-agricoltorisono organizzate in bande, gruppi ristretti, tra la trentina e il centinaio di individui, legati tra di loro davincoli parentali: in genere si dividono in due metà patrilineari tra le quali vigono regole di scambiomatrimoniale. L’economia si basa quasi sempre sull’attività di caccia e raccolta e prevede una divisionesessuale del lavoro: i maschi si occupano della caccia, le donne della raccolta. Tutto ciò implica la praticadel nomadismo o del seminomadismo; le bande si muovono all’interno di un determinato territorio, da cuispesso prendono il nome, un territorio non definito con precisione e privo di confini reali, aperto anche adaltri. Le relazioni parentali forniscono la base delle gerarchie interne e determinano i fattori di integrazionetra gli individui del gruppo; le decisioni vengono prese dal consiglio degli uomini, all’interno del quale il pianziano esprime una posizione di autorevolezza, anche se questo non gli conferisce alcuna forma di potere,come nessuna forma di potere viene espressa dal consiglio, dal momento che non esistono forme coercitiveper il singolo. Tali società vengono definite egualitarie, ma non è esattamente così, dal momento che ledonne sono escluse dal consiglio e non partecipano direttamente alle decisioni del gruppo. La strutturaorganizzativa delle bande non si limita ai legami parentali e territoriali, ma prevede anche l’istituzione disodalizi tra bande diverse, come i sodalizi per classi di età o per generazioni, che estendono la rete dellerelazioni al di fuori della ristretta cerchia dei parenti: politica e parentela si possono intrecciare. La politica della parentela non è un’esclusiva dei piccoli gruppi: i nuer del Sudan meridionale vengonodescritti come una società che non aveva capi. Appariva impossibile che una comunità di 300.000 individuipotesse gestirsi senza avere dei referenti politici definiti, soprattutto nel periodo storico del colonialismo edell’indirect rule. I nuer, quando agiscono politicamente (cioè affrontano decisioni inerenti la sfera comunee collettiva) lo fanno sulla base della loro appartenenza a unità di parentela come i lignaggi, o meglio isegmenti di lignaggi e i clan. Secondo Kuper, invece, i nuer costruiscono le proprie relazioni sociali sullavicinanza territoriale, non esistendo neppure una parola in nuer che traduca la parola clan. Siamo di fronte a un conflitto tra il punto di vista etico (rappresentazione dei medesimi fenomeni ad operadel ricercatore, ottica scientifica o dell’osservatore) ed emico (punto di vista degli attori sociali, lorocredenze e loro valori, la cosiddetta ottica del nativo): non sempre le costruzioni logiche degli studiosicoincidono effettivamente con la percezione che gli attori hanno della loro organizzazione politica.

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45. La figura del Capo Molte società invece hanno un capo, figura che manca alle società acefale e alle bande seminomadi, ed èl’espressione di un’asimmetria, in quanto ha prerogative e privilegi che gli altri non hanno: può esercitare ilpotere, cosa che i suoi sottomessi non possono fare. La parola capo quindi indica un individuo che detieneuna funzione di comando, con diverse modalità: i capi anuak del Sudan risolvono le dispute ma non hannonessuna forma di governo; gli shilluk, sempre del Sudan, regna ma non governa; presso i kachin dellaBirmania ogni villaggio ha un capo, mentre altri villaggi si riuniscono costituendo un "grappolo di villaggi",tra i quali il più anziano e il suo capo è superiore a tutti gli altri; tra i cheyenne del Colorado e del Dakota,ogni accampamento aveva un capo, mentre quando si riunivano era un consiglio di capi e la Società deiguerrieri a comandare sulla popolazione; presso gli inuit il capo è colui che si distingue nell’abilitàvenatoria, che verrà ascoltato nelle decisioni relative alla caccia, ma non per forza anche in altri contesti. In alcune società un capo esercita l’autorità senza avere la forza necessaria per imporla, diventando quindiun regolatore di dispute all’interno di un contesto sociale limitato. La sua funzione principale è di mantenerel’ordine attraverso la risoluzione delle controversie, dev’essere quindi un buon oratore, che non è solo unodei requisiti, ma anche uno dei doveri che deve assolvere in quanto capo. Ciò non vale solo per lepopolazioni tribali, ma anche nell’ambito della politica e del governo: presso gli antichi romani l’arte dellaretorica era un’arma di persuasione, e in ogni dibattito democratico la parola è fondamentale. Il capo è innanzitutto un paciere, un mediatore,e svolge questo ruolo grazie alla sua posizione esterna allarete sociale, posizione che gli deriva proprio dal rapporto asimmetrico che ha con il resto della società: sistabilisce un contratto tra il capo e la comunità, dove la comunità sa che il capo deve qualcosa, perché ricevea sua volta qualcosa dalla comunità. L’azione del capo deve essere pubblica e diretta verso l’interacomunità, senza mai privilegiare un gruppo, una famiglia, un individuo: per questo in molti casi si ha uncapo straniero alla popolazione che comanda, che può essere frutto di una conquista o di un assorbimento diindividui esterni ai quali è affidato il ruolo dell’autorità in funzione della loro neutralità verso le relazionilocali. L’asimmetria può essere espressa sul piano dell’età o dello status, da particolari abilità nella caccia,nel combattimento o nello svolgimento di altre attività, oppure da una spiccata attitudine a risolvere conflitti;può esprimersi su un piano matrimoniale, ed è per questo che Clastres sostiene che la sfera politica è esternaa quello che la società stessa fonda, cioè lo scambio di doni e di donne. La sua diversità rispetto al resto delgruppo si può esprimere anche dal punto di vista economico, dal momento che ha il compito di accumulare eridistribuire beni e deve essere sempre generoso, come nel caso dei big men della Nuova Guinea odell’Amazzonia, la cui carriera si fonda sulla sua capacità di tessere relazioni favorevoli e sull’abilitànell’intraprendere scambi sia di tipo materiale che di carattere sociale, deve per forza mostrarsi generoso,offrire banchetti alla popolazione per ottenere e rafforzare il consenso nei suoi confronti. È una sorta di votodi scambio: accumula beni in quantità, stringe alleanze (anche grazie a matrimoni favorevoli), elargiscericchezze e cibo; il suo status non è ereditario, e quindi deve competere con altri uomini che cercano diprendersi la carica. I rituali sacrificali, i grandi banchetti offerti hanno anche l’effetto di distruggerel’eccesso di ricchezza che potrebbe concentrarsi nelle mani di un individuo, garantendo una certa equitàridistribuendo alla società beni e ricchezze. Fino a quando rimane a livello di villaggi o tribù, l’azione del capo si traduce in una sorta di influenzapiuttosto che in un esercizio del potere vero e proprio. Tribù non è un concetto ben definito, concentrandoorganizzazioni più grandi di una banda o di un villaggio, ma più piccole di uno Stato: generalmente indicaun insieme integrato di individui, più numeroso di quello della banda, basato su gruppi di discendenza; più

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tribù si possono alleare per dare origine a una formazione politica integrata più ampia, definita con iltermine dominio. Con il dominio nasce la società non egualitaria, l’asimmetria non è più privilegio di unsolo capo, ma di un’elite, la burocrazia. La sempre maggiore specializzazione del lavoro e la crescitacontinua della popolazione da gestire comportano la creazione di nuovi status gerarchici.

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46. Creazione di uno Stato Gli antropologi si occupano anche delle società complesse, nelle quali la struttura politica dominante èquella dello Stato, con le sue diverse tipologie: grandi imperi dell’antichità assiro-babilonesi, egiziano,romano, i grandi imperi maya, inca, atzechi, quelli medioevali, come quello cinese, i regni africani, imoderni Stati-nazione, che caratterizzano la geografia politica contemporanea,  e che presentano notevolidifferenze nella gestione del potere. L’Europa conta numerose monarchie costituzionali e nel resto delmondo ci sono ancora monarchie assolute (Arabia Saudita per esempio), repubbliche presidenziali erepubbliche parlamentari, senza dimenticare i regimi dittatoriali. Ciò che caratterizza un sistema statale è ilmonopolio della forza: qualunque Stato ha a sua disposizione un apparato coercitivo, che ricorre alla forzaper combattere la violenza o l’opposizione e per dare sicurezza ai cittadini, la burocrazia si fa più complessae articolata e controlla gran parte dell’esistenza degli individui, come l’esercito e la polizia controllano ilterritorio. Per costruire uno Stato non è sufficiente mettere in campo le forze necessarie a controllare militarmentel’ordine pubblico e garantire la sicurezza: bisogna creare un’ideologia che estenda a tutti l’idea di unacomunità non percepibile quotidianamente, dal momento che in uno Stato non sono possibili rapporti face toface, ha confini troppo grandi per poterla frequentare, è da immaginare. Nel passato il bisogno di un’ideacomune e superiore si aveva con l’intrecciarsi del potere politico alla religione, ora è grazie ai mezzi dicomunicazione moderni che è stato possibile creare le cosiddette "comunità immaginate": gruppi di personeche non hanno mai interagito faccia a faccia ma che finiscono per condividere un’idea comune. Perché unostato esista occorre che i suoi abitanti ci credano, e affinchè lo facciano il potere politico deve convincerli.

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47. Il problema delle origini Le dimensioni delle comunità sono state utilizzate per creare una sorta di scala progressiva che conduce dalpiccolo al grande, dal semplice al complesso, concentrandosi sulle cause che hanno dato il via alla nascita diformazioni politiche più o meno articolate e a stratificazioni gerarchiche più o meno accentuate. L’emergeredi strutture di potere sempre più complesse è legato al modello della produzione economica: la nascitadell’agricoltura e dell’allevamento sono state le principali cause della sedentarizzazione e della produzionedi un surplus alimentare che consente di mantenere individui, svincolati dal processo di produzione, che sioccupano di amministrare una comunità sempre più grande dedicandosi a compiti specifici, specializzati,come gestire la cosa pubblica, la religione, produrre tecnologia e arte. L’individuo, che prima assolveva dasolo a tutti i propri bisogni principali, si trova a fare i conti con una restrizione del suo raggio di azione afavore di una progressiva specializzazione. Una maggiore produzione di cibo e di beni provoca un aumentodella popolazione, che causa e necessita di una maggiore produzione di cibo, portando alla progressivacomplessificazione delle società coinvolte nel processo. La crescita demografica comporta anche unospostamento di popolazioni in cerca di nuove terre da sfruttare. Una delle condizioni individuate quale fattore di evoluzione verso un’integrazione superiore tra gruppiresidenziali diversi è la cosiddetta circoscrizione sociale, una condizione di accerchiamento dovuta allapresenza di gruppi circostanti che esercitano una pressione demografica sui gruppi che risiedono al centrodel territorio, portando a una collaborazione maggiore nei villaggi centrali rispetto a quelli periferici. Un’altra condizione individuata è quella della circoscrizione ambientale: una particolare caratteristica delterritorio in cui l’area coltivabile, abitata da una o più popolazioni, risulta delimitata da regioni nonproduttiva o di difficile accesso. La crescita demografica si scontra quindi con l’impossibilità di espandersisul territorio, e si rende necessario un incremento di produttività o l’assoggettamento di alcuni villaggi daparte di altri. In queste condizioni si costituiscono delle coalizioni economico-militari tra villaggi diversi chedanno vita a una prima forma di integrazione superiore, la chefferie. Un’ulteriore aggregazione di dominidarà vita a un regno, un impero, uno Stato. La creazione di società sempre più numerose nate dalla fusione di piccoli gruppi e il sempre maggiore gradodi complessità del sistema politico sono dovuti non tanto alla crescita demografica, quanto alla densità dellapopolazione; l’adozione del modello agricolo ha reso necessario un incremento di produttività, ottenibilecon un processo di irrigazione; oltre al fatto che spinge le società a diventare sedentarie e a generareeccedenze che servono per mantenere capi, burocrati ed eserciti, e inoltre ha ritmi stagionali, che portano icontadini al lavoro pubblico quando la stagione è ferma; l’acqua è un bene comune e collettivo, e perregolamentarne l’accesso occorre una gestione centralizzata che progettasse e realizzasse un sistema irriguocomplessivo e che la distribuisse in parti eque. Anche il fattore economico necessita di una strutturaorganizzativa complessa: mentre nelle piccole società i trasferimenti di beni avvengono per baratto, in quellegrandi gli scambi avvengono anche sulla lunga distanza, tramite intermediari, rendendosi necessariol’utilizzo di mezzi portatori di valore come la moneta o forme di assegni, oltre a regole comuni e condivise.Mantenere un apparato politico, militare e giudiziario ha dei costi, e uno Stato deve imporre delle tasse, chevengono restituite sotto forma di servizi: un’economia di tipo ridistributivo. Ormai non si studiano più solo i piccoli villaggi, ma anche le nostre società, con l’antropologia politica,soprattutto nell’analisi della democrazia e delle altre forme politiche che, pur non essendo elettive, possonoessere ricondotte alla democrazia, considerato che democrazia è principalmente discussione pubblica. Inalcuni villaggi africani le assemblee collettive vedono la partecipazione di tutti gli uomini, e spesso le

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decisioni vengono prese in modo collettivo, e non con un voto segreto come nel mondo occidentale.

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48. Definizione di gruppi e comunità Animale sociale per eccellenza, l’uomo vive in gruppi più o meno ampi e strutturati, ma dal momento chedurante un’indagine si parla con un individui e famiglie e non comunità, è difficile percepire sensorialmentei confini di quel gruppo, ma li si può solo dedurre dalle spiegazioni fornite dai locali, ma è anche vero chenel momento in cui si decide a studiare un gruppo, si è già deciso che quello è un gruppo con le suecaratteristiche. L’antropologia si sviluppa in età coloniale e sono state le amministrazioni coloniali acontribuire a rendere statici i panorami etnici, limitando i movimenti, imponendo la pace e tracciandoconfini netti dove prima non c’erano: da qua nasce il concetto classico di etnia. Ogni antropologo, inoltre,cerca di definire il gruppo che sta studiando sulla base degli elementi che lo distinguono dagli altri gruppi edalle altre comunità, contribuendo a renderlo unico e il più originale possibile. L’etnia è stata in molti casidefinita sulla base di un’origine comune, e anche qua si opera una negazione della storia, negando agli altriuna capacità negoziale e politica di trasformazioni e riducendoli ad essere succubi dei loro legami di sanguee discendenza. In molti casi definire le etnie non corrisponde alla realtà vissuta: tutti i gruppi si definiscono,ma con una linea che non è impermeabile.

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49. L’etnia rivisitata Fino agli anni Sessanta i gruppi etnici venivano definiti sulla base di dati ascritti (origine comune, linguacomune, territorio), senza tenere in conto come gli individui stessi si percepissero in relazione a quel gruppo.Il gruppo etnico è stato presentato come un gruppo chiuso, discendente da un antenato comune e aventeun’origine comune che possiede una cultura omogenea e che parka una stessa lingua, senza però studiarneveramente l’etnia. La tribù è un’unità sociale i cui membri affermano di formare un’unità sociale, il gruppo acui determinati individui pensano di appartenere esiste nel momento in cui quegli individui pensano cheesista. Un’etnia o  una tribù sono un insieme di individui, i quali condividono o pensano di condividere unaserie di elementi come lingua, religione, tradizioni, assimilabili al termine "cultura". Ma anche la cultura e lalingua non sono criteri infallibili per l’identificazione tribale, poiché sono suscettibili di gradi e sfumaturementre la concezione tribale tende a una cristallizzazione più netta: si è o no parte della tribù. Non è sullabase di valutazioni e attribuzioni esterne che va definito un gruppo, un individuo agisce come intestatario divari ruoli e li porta tutti su di sé anche quando uno di questi si trova ad essere determinante. Occorre quindiosservare la funzione e l’azione in relazione al contesto sociale. L’etnia è soprattutto una categoria diappartenenza la cui permanenza dipende dalla definizione di un confine che ribadisce la differenza culturalenei confronti degli altri gruppi, è un elemento circostanziale, suscettibile di variazioni nel tempo. La purezzaoriginaria è un mito, ogni società umana ha inglobato o ceduto elementi culturali. Anche il meticciato è statala condizione originaria, non il prodotto di scambi. Per Cohen invece l’etnicità è una questione di grado, caratterizzata da una forte dinamicità e legata alcomportamento degli individui. I gruppi etnici sono quindi gruppi d’interesse, e i loro confini coincidonocon quelli degli interessi stessi, suscettibili di mutazioni.

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50. Comunità piccole, grandi, immaginate La distinzione in etnie porta a relegare gli altri in  una sorta di primitivismo, come una guerra etnicapresuppone una guerra che si conduce perché si è diversi. È stata formulata la dicotomia Gemeinschaft /Gesellschaft (gruppi comunitari / gruppi associativi): la prima è dominata dalla parentela e da vincoli moraliche producono una relativa omogeneità di comportamento e un ordine sociale relativamente stabile, laseconda è un ordine sociale dominato da relazioni sociale interpersonali, come nelle società urbane eindustriali. Serve per distinguere la piccola comunità dalla grande comunità o società: rapporti tra gliindividui face to face, scarsa differenziazione dei ruoli, status ascritti, definibilità da parte dell’osservatore.La comunità va intesa non tanto nel suo senso lessicale, ma in quello dell’utilizzo che ne viene fatto dai suoicomponenti, dall’utilizzo: più che chiederci perché, bisogna chiedersi come. Una comunità crea inevitabilmente analogie e differenze: i suoi membri devono avere qualcosa in comune edevono distinguersi da quelli di un’altra comunità. La coscienza della comunità è incapsulata nellapercezione dei suoi confini, percezione che nasce dall’esperienza. Le norme della comunità non sono regoleistituzionalizzate, ma danno indicazioni di comportamento che influenzano i membri della comunità stessa.La comunità è quell’entità a cui uno appartiene, più grande della famiglia e più ridotta dell’astrazionedefinita come società, è il gruppo minimo capace di autoriprodursi, di trasmettere un’idea di cultura e diappartenenza alle generazioni successive. Non è solo un’entità territoriale; ne esistono di molto vaste, comequelle che fanno riferimento alle religioni o alle ideologie: si tratta di comunità i cui membri non vivono inuna realtà contigua, i loro rapporti non sono personali o face to face, ma sono accomunati da un’idea, dasimboli, che devono essere immaginati per far esistere la comunità. Nasce la comunità immaginata, resepossibili dalla diffusione del capitalismo a stampa (la diffusione su scala industriale dell’editoria e laconseguente alfabetizzazione di massa) e del capitalismo elettronico, che portarono a capire che in postianche molto lontani e mai conosciuti c’erano persone che condividevano i nostri stessi pensieri, portandoall’idea di appartenere a una comunità molto più ampia di quella del proprio villaggio, che per esisterenecessita della costruzione da parte di un qualche gruppo in grado di farlo.

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51. Costruire identità Il termine identità nella lingua italiana non ha plurale, che porta quindi a pensare una sola identità, checoincide con quella etnica o nazionale. Un gruppo umano diventa etnia, popolo o nazione non sulla base didati ascritti, ma per via di un processo e di conseguenza organizza il mondo sulla base di un’alterità creata,che definisce il confine noi/loro. Molte popolazioni addirittura si chiamano "gli uomini", come se solo loroavessero questa caratteristica. La produzione dello straniero è un processo che oltrepassa i confini cheabbiamo creato, definendolo come chi non si adatta alle mappe cognitive, morali o estetiche del mondo, econ la sua semplice presenza rende opaco ciò che dovrebbe essere trasparente. Siamo ciò che gli altri nonsono, portando l’identità a un fatto relazionale, che si costruisce e si negozia continuamente, un processocostante in cui noi si fonda sul non essere altro. Bisogna inoltre considerare che le tradizioni molto spesso cele creiamo noi, con il processo chiamato filiazione inversa, secondo la quale sono i figli a generare i propripadri, per far diventare naturale quello che potrebbe non esserlo. I richiami alle origine e alla purezza sonoin realtà proiezioni all’indietro di aspirazioni attuali, come richieste di autonomia, interessi locali, ambizionidi leader, sono delle "retroproiezioni camuffate". Ogni identità locale si costruisce connettendosi a deisignificanti globali dei quali non può fare a meno: anche la tipica opposizione locale/globale perde di forzanel momento in cui ci si rende conto che il locale più che primordiale è proteiforme; i flussi attuali permeanoi molti locali del mondo di elementi globali, innescando un processo dialettico continuo. Le identità sono inscritte in un processo storico continuo e sono in mutamento perenne, anche se spesso, allabase di tali cambiamenti ci sono rapporti di forza che costringono gli individui a schierarsi, a darsiun’identità che in una situazione egualitaria non avrebbero dovuto mettere in atto. Se in alcuni casi l’identitàviene imposta, in negativo, al più debole, in altri viene proposta in positivo come ideale vincente enecessario alla sopravvivenza, ma bisogna produrre una retorica che escluda gli altri e che giustifichil’esistenza di un noi, senza considerare se sulla base di eventi storici: ciò che conta è che l’idea di tali fattisia condivisa.

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52. Nazione e nazionalismi Chi produce questa retorica è chi ha il potere di produrla, sfruttando i mezzi di comunicazione da lorogestiti, presentando la cultura come un pacchetto compatto con valori e tradizioni definiti, localizzati e legatial concetto di Stato-nazione o di entità territoriali auspicate: cultura legata al territorio contrappostaall’anticultura di chi viene da fuori. Tale atteggiamento è dovuto in gran parte alla cosiddetta "biopoliticadello Stato moderno", in virtù della quale i diritti dell’uomo inteso universalmente sono soppiantati da quellidel cittadino, sottoposti alla sovranità nazionale. Con una finzione che trasforma la nascita in nazione, idiritti finiscono per essere attribuiti all’uomo solo nella misura in cui egli è il fondamento del cittadino: irifugiati e gli immigrati rappresentano perciò un elemento inquietante, perché spezzano la continuità trauomo e cittadino, tra natività e nazionalità. Creare identità significa anche negarla agli altri, agli esclusi, lasciando emergere una linea di demarcazionetra chi possiederebbe naturalmente la nazionalità di un Paese e i non nazionali: ne è la prova il fatto che, peressere accettati nella comunità, bisogna acquisire una nazionalità, la nostra. L’accesso alla nazionalitàavviene in 3 modalità: 1.jus sanguinis: per discendenza; 2.jus soli: per nascita; 3.naturalizzazione: in seguito ad acquisito domicilio. La storia è spesso manipolata dalle élite, e l’identità evocata da chi sta al potere si fonda spesso sulla storia,su una storia, su quella storia: per costruire un’identità occorre sì una forte dose di memoria, ma anche unaforte dose di oblio. Una nazione è una società unita da un errore comune riguardo alle proprie origini e dauna comune avversione nei confronti dei vicini.

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53. Identità migranti Sono saltati i confini che determinavano territori, culture, società; la globalizzazione ha prodotto una fratturatra il luogo di produzione di una cultura e quello o quelli della sua fruizione; l’immaginazione è divenuta unfatto collettivo e si è trasformata in un campo organizzato di pratiche sociali. Ne consegue unaframmentazione di universi culturali che mette in crisi ogni paradigma tradizionale delle scienze sociali, conpanorami sociali, etnici, culturali, politici ed economici dai confini sempre più confusi, sovrapposti eirregolari, che si riflettono l’uno nell’altro. La deterritorializzazione è una caratteristica del mondo moderno che, con la maggiore circolazione diinformazioni, dà vita a una serie di immaginari sempre più complessi, di scenari culturali prodotti e percepitidagli individui del pianeta, che danno vita a nuove identità. Si creano ideologie e abitudini universali, dellequali le comunità locali se ne appropriano trasformandole in un qualcosa di diverso dall’originale. Oltre alletre dimensioni dello spazio e di quella del tempo esiste una quinta dimensione, quella dell’immaginazione,nella quale l’umanità prende forma, che spesso nasce non da realtà oggettive, ma da un progetto comune icui fondamenti non sono per forza oggettivamente riconoscibili, quantificabili e coerenti con la storia dellacomunità che vi si identifica. Al disagio dello spazio tradizionale corrisponde anche una nuova concezionetemporale che nasce dal consumo: ogni oggetto ha una sua biografia che lo lega alla cultura che lo haprodotto, ma quando quell’oggetto va nelle mani di nuovi attori, la sua storia viene rimodellata a uso econsumo di quegli attori. Tutto ciò crea nuovi mercati, che creano nuovi bisogni e nuovi gusti che nasconodalla necessità dei fuoriusciti di mantenere un contatto con la madrepatria, anche se risulta inventata. Ilcapitalismo di oggi è frammentato e polverizzato, con forme diverse da luogo a luogo, tanto da indurrel’autore a chiedersi se si tratti di un sistema o se si ha di fronte un capitalismo disorganizzato e irregolare. La sovranità territoriale appare sempre meno sostenibile di fronte al dilagare di un’economia globalizzata edi società frammentarie e frammentate, con uno spazio sempre maggiore destinato al multiculturalismo: leminoranze si collegano ad aggregazioni più ampie su base etnica o religiosa, con ambizioni nazionaliste. Leidentità collettive sono il prodotto di narrazioni più o meno arbitrarie, non essenze primordialigeneticamente connesse agli individui.

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54. La società e la sua rappresentazione L’immaginazione è una delle caratteristiche salienti dell’uomo, ma non è sufficiente a mantenere in vital’idea di una comunità: c’è il bisogno di tradurre in eventi sensorialmente percettibili certe idee per poterlepensare come reali, c’è l’esigenza di rappresentarsi e di mettersi in scena. Ogni società prevede momenti dirappresentazione collettive (come le cerimonie per invocare la pioggia o quelle religiose), e partecipare aquella riunione è un modo per dichiarare la propria appartenenza, per contarsi e per far sapere chi fa partedella comunità e chi no. I rituali devono avere certe caratteristiche, essere codificati, presentare una certa ripetitività che ne affermi lapermanenza e la costanza nel tempo, e non sono solo un’esclusiva dei popoli tribali (bandiere, inni, paratemilitari..). La politica, lo sviluppo, l’economia e ogni altra ideologia moderna hanno bisogno di rituali e deiloro sacerdoti per essere percepiti come reali, rituali di rappresentanza o di ribellione, dove è importanterendere visibile il numero di chi sta da una determinata parte. Le comunità sono in gran parte immaginate,come pure la nazione, e entrambe hanno bisogno di essere reificate per essere percepite nella loro esistenzareale.

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55. La mano e il cervello Una delle maggiori differenze tra esseri umani e animali è che l’uomo è un animale che costruisce e fa usodi utensili: gli animali, tranne rarissime eccezioni, non si servono di nessun oggetto per svolgere operazionimanuali, ma utilizzano solo le parti del loro corpo, mentre l’uomo, non possedendo artigli, zanne, corazze oaltro per intaccare oggetti o corpi, deve supplire con tecniche esosomatiche (prodotte dall’uomo stesso, manon fanno parte del suo corpo), costruendo attrezzi che permettono di allungare il raggio d’azione delproprio corpo naturale e di aumentarne la forza d’urto o d’incisione. La costruzione e l’uso di utensili sonole caratteristiche che stanno alla base del cosiddetto Homo faber, messo a confronto con l’Homo sapiens: ilprimo fa riferimento a una manualità assai sviluppata, il secondo a una capacità di pensiero articolata, cheperò non si sono sviluppate insieme. Infatti, i primi utensili vengono datati un milione di anni primadell’uomo di Neanderthal, e si riscontra che la tecnicità coincide con l’acquisizione della posizione eretta,altro elemento considerato decisivo per assegnare lo status di essere umano. Questi individui sonoconsiderati uomini non per il cervello, ma per il corpo e la capacità di costruire utensili: è questo che fapensare che la manualità abbia preceduto lo sviluppo cerebrale, anche perché richiede più che altro areecerebrali ben organizzate. Altro dato è che l’acquisizione della posizione eretta coincide con una riduzione dei denti anteriori, poiché lafunzione che avevano prima i denti ora la acquisiscono gi utensili: hanno dato il via a un processo che haportato a due condizioni, non riscontrabili nelle scimmie, e cioè la libertà costante delle mani e laconnessione dell’utensile con un comportamento legato alla sopravvivenza alimentare. L’utensile nonappare come un elemento esterno, ma come il prodotto della mano stessa nel corso del suo movimento diliberazione, accrescendo la massa cerebrale via via che apprendevamo l’uso degli utensili e li miglioravamo.Il cervello ha quindi seguito il progresso delle mani sviluppando l’attività del pollice opponibile, checonsente di afferrare, manovrare e manipolare oggetti e materia.

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56. Invenzioni e necessità Anche se la storia dell’uomo è piena di scoperte che ne hanno cambiato la condizione, ci sono anche statemolte invenzioni che non hanno riscosso nessun successo (almeno nel momento in cui sono state generate), e altre che hanno avuto sviluppi imprevisti dai loro stessi inventori (la macchina a vapore di Watt, ilfonografo di Edison). Altre invenzioni, invece, nascono dalla curiosità di certi individui: il motore a scoppioa quattro tempi di Otto (che non era una necessità impellente al momento), la ruota (che rimase all’inizioprerogativa dei giocattoli, poiché non c’erano animali adatti al traino, o i caratteri mobili. La necessitàquindi sta alla base della diffusione di una scoperta, ma non sempre è lo stimolo per l’inventore, come latecnologia progredisce accumulando le esperienze di molti, non per atti isolati, e i suoi usi vengono alla lucemolto dopo. La buona diffusione di un’invenzione è spesso più importante dell’invenzione stessa: in molti casi leinnovazioni nascono per imitazione o re-invenzione (come per la scrittura). La tecnologia di un popolo è ilprodotto di scambi e prestiti con altri gruppi più che il frutto isolato e originale del genio locale; grazie a unaprecisa collocazione geografica, alcuni popoli hanno potuto ricevere più o meno facilmente le invenzioni dialtri, come ad esempio la civiltà islamica, in mezzo tra invenzioni cinesi e indiane e erede della tradizionegreca. La sedentarizzazione dovuta all’avvento dell’agricoltura fu decisiva perché rese possibilel’accumulazione di beni non trasportabili e creò classi sociali affrancate dalla produzione, ed è questo ilmotivo della preminenza storica dell’Eurasia: la tecnologia progredisce più rapidamente in società ricche dirisorse, con popolazioni numerose e divise in gruppi in competizione tra di loro, e soprattutto dove èpossibile combinare elementi diversi.

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57. Tecnologia ed energia Alla fine degli anni Quaranta l’antropologo americano Leslie White espresse una teoria coraggiosa checausò molte polemiche: propose una concezione della cultura quale sistema integrato e dinamico, il cuiaspetto più rilevante e determinante era dato dalla tecnologia, l’elemento più forte che segna le differenze trai diversi gruppi umani, che dipende però sempre dall’energia disponibile, chiave dell’evoluzione di unpopolo. I primi sistemi culturali sarebbero stati condannati a rimanere semplici, perché usavano solol’energia del corpo umano: è dall’evoluzione agricola e poi da quella industriale che determinarono unasvolta. Per tutta l’era fisiocratica le culture, sebbene si modellassero in seguito ai contatti con l’esterno, eranoopzioni fornite in gran parte dall’ambiente e dalla storia locale: gli apporti esterni c’erano, ma non eranodeterminanti se non in caso di violenza. La tecnologia ha moltiplicato gli effetti delle azioni umane,passando da attività di supporto prodotta dall’uomo a partner dinamico, che contribuisce a modificare lemotivazioni dell’uomo stesso. Tutti i limiti naturali verranno sovvertiti con la penetrazione della tecnologiae dall’interazione fra scienza e economia. La tecnologia ha quindi imposto un’accelerazione generale deimovimenti sia fisici che culturali, divenendo una lente attraverso cui osservare le relazioni interne edesterne, umane e ecologiche di una società, con i suoi rapporti di potere, la sua interazione con l’ambiente econ le altre società: questa interazione avviene su 3 livelli: 1) movimento; 2) uso di strumenti per l’attività privata e industriale; 3) abitazione. Per quanto riguarda i primi due, la costruzione di strumenti ha consentito all’uomo di moltiplicare la propriaforza e il proprio raggio d’azione, favorendo anche la circolazione di merci, che implica anche circolazioned’idee e di nuovi spunti per nuove invenzioni. L’ideazione e l’adozione delle macchine industriali hannorivoluzionato il sistema produttivo e trasformato radicalmente il modello sociale. La concezione del tempo edello spazio è mutata, separando lo spazio di lavoro da quello domestico e il tempo del lavoro da quello delriposo e della festa (nasce il tempo libero, nel senso che è liberato dal lavoro). La tecnologia, però, è statasoprattutto rivolta alla fabbricazione di armi sempre più robuste ed efficaci: la guerra ha sempre dato  unnotevole impulso alla tecnologia.

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58. L'uomo e la sua abitazione La casa è un universale condiviso dall’umanità intera: non esiste popolo che non abbia studiato un modo dichiudersi rispetto all’ambiente esterno, e non solo per le intemperie, ma anche per ripararsi dagli sguardialtrui e per delimitare spazi sociali d’azione. Ogni tipo di abitazione risponde non soltanto ad esigenze ditipo pratico, ma è anche un segno nello spazio ricco di simboli. La casa è il particolare tecnico più comune auomini e animali, la cui costruzione dipende spesso dalla natura, per quanto riguarda materiali e clima: siesprime la relazione tra cultura e natura. Sul piano tecnologico le diverse tipologie abitative si fondono sudue fattori principali: la disponibilità di materiali e le esigenze climatiche, più la trasportabilità per le societànomadi. Nella maggior parte delle società tradizionali e in quella occidentale prima della rivoluzione agricola, la casasi evolveva intorno a materie prime locali, dal momento che il trasporto era costoso o difficile da effettuare,con una profonda interazione con l’ambiente circostante. Un’abitazione non è solo una costruzione, ma sicarica di simboli e valori, esprimendo un concetto spaziale di appartenenza che non si limita all’edificio. Inmolti villaggi africani le abitazioni sono raggruppate in compound all’interno di un cortile recintato, che ègià casa, tant’è che ci si toglie le scarpe prima di entrarci; negli Stati Uniti esiste la balloon frame,costruzione di legno dal telaio molto leggero e dalla forma standardizzata, che corrisponde alle esigenze dimobilità che caratterizzano la sua popolazione, in modo da avere ovunque gli stessi spazi e la stessadisposizione. Diverso il concetto di casa nella società italiana, dove costituisce uno dei più importantiinvestimenti della vita, con una scelta lunga e laboriosa, con un’idea di stabilità, si investe economicamenteed emotivamente nell’abitazione. Nella lingua inglese abbiamo due parole per abitazione, house e home: laprima indica una costruzione qualsiasi, la seconda è carica di simbologie legate alla famiglia e alla vitadomestica, uno spazio fisico e simbolico. L’avere o non avere una casa determina l’inclusione o l’esclusione sociale, tanto che i barboni vengonochiamati "senza tetto" e in inglese "homeless", che indica anche la mancanza di un contesto domestico piùampio. Presso i walser del Monte Rosa, l’abitazione tradizionale è costruita in legno e poggia su una base dipietra contenente la cantina, con la stalla separata dal corpo della casa, per non condividere gli stessi spazicon gli animali, mentre la parte superiore della casa è costruita in tronchi appena squadrati con la tecnica delblockbau (tipica delle popolazioni di origine germanica), e in alto c’è una piccola apertura dettaseelenbaggen: quando un familiare moriva, l’apertura veniva liberata per far uscire l’anima del defunto, edopo veniva richiuso per evitare che tornasse a spaventare i vivi. I costruttori di tende da campeggio hannoscoperto la razionalità e l’efficacia della forma a igloo: dagli inuit viene costruito con blocchi di nevecompatta, disposti a cerchi sempre più stretti fino ad assumere la forma a cupola, assestando la temperaturaall’interno intorno agli 0 gradi, non poco rispetto all’esterno. Le moderne trasformazioni sociali edeconomiche, legate alle ricchezze del sottosuolo artico, hanno portato gli inuit verso una maggioresedentarizzazione, con nuove case in legno e la costruzione di nuovi centri abitati. Alcuni giovani lavoranopresso i grandi complessi estrattivi durante i mesi estivi per poi trascorrere il resto dell’anno all’interno degliigloo con le famiglie e lavorando come cacciatori, con un aumentare dei campi nomadi stagionali. Iboscimani kung, che abitano nel deserto del Kalahari, costruiscono ripari semisferici con materiali vegetali,dato il loro nomadismo, e sono le relazioni familiari a determinare la disposizione e le distanze tra le diversecapanne. Presso gli shuar delle regioni amazzoniche dell’Ecuador sono le relazioni sociali a determinareforma e disposizione dell’abitazione, chiamata jibarìa (a pianta ovale); simile situazione anche nel Ladakh,dove la casa (unico spazio non diviso da muri) presenta delle rigide divisioni sociali, con la zona del

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focolare riservata alle donne, lo spazio vicino al muro che da alla strada per gli uomini e gli ospiti, doveanche qui si trova una rigida gerarchia basata sul genere, importanza dell’ospite e età (l’uomo piùprestigioso siede accanto alla ruota di preghiera e viene servito per primo, per esempio). L’abitazione, quindi, diventa una metafora visibile della società, come ben si capisce nel caso della casalunga degli irochesi (popolo che vive nella regione dei Grandi Laghi tra USA e Canada), organizzati nella"lega delle cinque nazioni": l’intero territorio era un’unica grande abitazione comune in cui ardevano cinquefuochi, con villaggi dove c’erano le long house, abitazioni collettive per un massimo di 20 famiglie,orientate lungo l’asse est-ovest, per connettere lo spazio abitato con quello cosmico, e tetto, pareti epavimento riflettevano il cielo, il suolo e la terra, oltre a riproporre la divisione sociale in 3 gruppi di clanche rappresenterebbero l’umanità, mentre la porta orientale simboleggiava l’inizio di tutte le cose e quellaoccidentale, sempre chiusa, la fine di tutto. La casa, in molte lingue, diventa anche metafora di uno spazio più ampio di quello strettamente domestico,indicando familiarità, come quando diciamo "giocare in casa" o "sentirsi a casa".

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59. Tempo, orologi, calendari Il tempo in quanto entità calcolabile non esiste in natura, è una creazione umana, e come tale suscettibile diassumere caratteristiche diverse. Più che tempo, si dovrebbe parlare di percezione temporale, diversa dacultura a cultura. Perché gli uomini hanno bisogno di calcolare il tempo e di ridurlo in segmenti? Perchéquesto è indispensabile per le relazioni umane: solo attraverso un’organizzazione e una gestione del tempo èpossibile collocare un evento in relazione a un altro, stabilire un prima e un dopo, calcolare la durata tra duemomenti, pensare un futuro o un passato in relazione a un presente, utilizzando la relazione uomini-natura ela relazione uomini-società. Si può definire il fluire del tempo usando categorie formali (minuto, ora, giorno,settimana, mese, anno) o informali (per sempre, tra poco, indicanti con una certa approssimazione ladimensione temporale di riferimento, senza riportarla a un sistema codificato). La natura offre ottimi appigli:la ripetitività di alcuni fenomeni naturali è alla base della maggior parte dei sistemi di calcolo del tempo(arco del sole, fasi lunari, mutamento climatico delle stagioni..). I sistemi di calcolo danno vita a unaconcezione ciclica del tempo, fondata sulla ripetitività degli eventi, attribuita ai popoli primitivi,contrapposta a noi che abbiamo una concezione lineare del tempo legata alla storia, ma non è proprio così:non è che gli altri non concepiscono il tempo anche in modo lineare, come non è che noi non usiamo un’ideacircolare di tempo. Commerci, espansioni, viaggi, hanno fatto sì che molti popoli ancora oggi usino più diun calendario, in base alle esigenze del momento. La costruzione e i computo del tempo non si fondano solo sull’osservazione della natura, ma anche sullabase delle relazioni sociali, con elementi di confronto e ripetitività: ciò che si confronta sono soprattuttoesperienze legate al singolo individuo o alla comunità, ma bisogna ovviamente trovare dei punti diriferimento percepibili da tutti e in ogni momento. I dogon del Mali celebrano la cerimonia del sigi ogni 60anni, basando il loro calcolo sul periodo di rotazione della stella Sirio B; i mossi del Burkina Faso fanno unanuova intronizzazione del loro sovrano dopo 30 anni di regno; gli eschimesi, condizionati dalle esigenze dicaccia e dai movimenti degli animali selvatici, vivevano momenti di dispersione durante i mesi estivi eperiodi di contrazione in inverno, con una concezione del tempo basata su eventi sociali, piuttosto che sueventi naturali. Spesso è il lavoro a determinare la scansione temporale, come per i calendari contadini; avolte sono i cicli cerimoniali a segnare il tempo.

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60. La fortuna dei nuer Tra i nuer ci sono due sistemi di calcolo del tempo: il primo, il tempo ecologico, basato sul ciclo naturale(archi temporali ridotti, nello spazio di un anno), il secondo, il tempo strutturale, basato sulla strutturasociale e sulle attività di comunità (avvenimenti con scadenze più lunghe). Il ciclo temporale dell’anno nuersi basa sulla periodicità delle attività lavorative, che dipendono dalle due stagioni principali: tot (periododelle piogge, tra metà marzo e metà settembre) e mai (stagione secca, tra la metà di settembre e la metà dimarzo). La divisione non coincide esattamente con i nostri concetti di siccità e piovosità, ma conl’atteggiamento che la gente assume nei confronti dell’ambiente: verso la metà di settembre i nuerabbandonano i villaggi e gli orti sulle alture per andare nella piana del fiume, che con la siccità scenderà epermetterà di catturare numerosi pesci, e se anche le piogge durano fino a metà ottobre, ci si inizia apreparare alla nuova fase. L’anno è diviso in 12 mesi e il nome di ogni mese coincide con un’attivitàparticolare svolta in quel periodo, con un inizio e una fine non determinati a priori, ma dall’andamentodell’attività. Non esistendo all’interno del giorno punti di riferimento, uno dei sistemi usati è quello disegnare con il dito la posizione del sole in quel momento. Ma il principale orologio durante il giorno è ilbestiame e le attività legate all’allevamento, che regolano la sequenza temporale della giornata. Il tempo non ha lo stesso valore nelle diverse stagioni: nella stagione secca si hanno termini più precisi perdefinire gli spazi temporali perché la vita è più regolare e monotona, nella stagione delle piogge ci sono piùdifficoltà, ma anche molte danze e feste; il tempo è quindi caratterizzato a seconda dello stato d’animo dellagente che ci vive. Dal momento che l’anno è la più grande unità di tempo concepita dai nuer, per ricordare lapropria storia i nuer si affidano alle nascite, alle morti, alle malattie e ai matrimoni della propria gente,grazie ai quali si sistemerà un dato avvenimento nell’arco del tempo. Anche le classi di età vengono in aiuto:un avvenimento è stato dopo la nascita della classe precedente a X e prima di quella seguente a X. Tutto haun ordine logico e non un sistema astratto che regola il tempo, tutto si svolge secondo una sequenza e unritmo che nasce dalla necessità.

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61. Il verme "annuale" delle Trobriand Qui la luna svolge un ruolo fondamentale nel calcolo del tempo: il calendario festivo è costruito sui ciclilunari, in base al quale si possono svolgere attività e cerimonie anche di notte se la luna è piena, altrimenti dinotte si rimane a casa. Il ciclo lunare inizia con il comparire della luna, che nella prima fase è chiamata "lunaacerba", mentre i giorni non hanno denominazione; dal decimo giorno la luna diventa "alta" e ogni giorno haun nome specifico, con i giorni di luna piena dedicati alle attività festive serali, dove la gente si incontra,danza e si scambiano doni; dal ventiduesimo giorno inizia il periodo della"grande oscurità" e i giornitornano ad essere anonimi. In ogni ciclo lunare ci sono 29-30 giorni e ogni anno è formato da 12-13 ciclilunari, anche se non ha né un inizio né una fine; alcuni mesi hanno un nome, ma varia di zona in zona,poiché non sono organizzati secondo un calendario astratto, ma determinati dai ritmi dell’agricoltura (è ilraccolto a determinare il mese). In un anno tropicale come quello ci sono 12.368 lunazioni, e poiché lamaggior parte dei calendari locali prevede 12 cicli lunari, ogni 3 anni si apporta una modifica, portando a 13i mesi di quell’anno. Per far ciò ci si affida a un anellide marino che depone le uova una volta all’annosempre nel periodo in cui c’è luna piena a Vakuta, isola dell’arcipelago, e si tiene una festa per celebrarel’evento. Se per caso non c’è il neonato verme, la festa viene rinviata e il mese ripetuto, ritrovandosi adavere un mese in più e compensando lo sfasamento rispetto alle fasi lunari.

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62. Tempo e spazio nel mercato africano In molte regioni dell’Africa il mercato è un punto di riferimento temporale, spaziale e sociale insostituibile:non è solo un luogo di compravendita e di scambio commerciale, ma è un luogo caratterizzato dall’intensacelebrazione di scambi sociali e diventa punto di incontro tra i membri dispersi della propria famiglia. Ilgrande albero al centro delle piazze è un vero e proprio arbre à palabre, dove gli anziani si riuniscono perlunghe discussioni e fumate di pipa. I mercati non determinano solo l’economia e il calendario, ma sono uncollegamento nelle comunicazioni di ogni tipo: vi si reca per bere birra, incontrare gente, divertirsi, il giornodel mercato è un giorno di festa, mentre gli affari commerciali vanno avanti. L’aspetto sociale del mercato èsottolineato dal suo carattere neutrale che emerge nel divieto di portare armi nello spazio designato. Pressomolte società africane tradizionali i mercati di una certa area formano un ciclo che rappresenta la settimanalocale: il calcolo del tempo breve si fonda sulla sequenza con cui si animano i mercati di una serie divillaggi, che danno il nome al loro giorno del mercato. Il calcolo del tempo è diverso rispetto a quello basato sui cicli ecologici, le stagioni, le piogge, le lune: lasettimana non ha riferimenti in nessun evento naturale e non è integrata con gli altri cicli legati alla luna e alsole. Una settimana è tale perché i essa i giorni hanno un ordine prefissato, un calcolo basato su fatti concretiche fanno riferimento a fenomeni sociali: il tempo del mercato indica un dominio entro il quale gli uominicontraggono obbligazioni, quindi più percettibile rispetto al tempo strutturale legato ai riti di passaggio equello ecologico delle stagioni, è un tempo voluto dall’uomo e creato dall’uomo. È particolarmentefunzionale in quanto si fonda su esperienze condivisibili dall’intera comunità e combina i fattoritempo/spazio: i mercati definiscono non solo una sequenza temporale, ma anche una determinata regionecome un’area di interazione cosciente; lo spazio tracciato è sociale, caratterizzato da una rete di relazioninella quale circolano non solo merci e beni ma anche i segni di solidarietà effettiva e di dipendenzaorganica. Nel giorno del mercato si assiste a una fase di contrazione della popolazione, e chi entra in unmercato di un altro gruppo, deve sapere che sta entrando nella sfera d’influenza di una certa comunità.

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63. Spazi, luoghi, paesaggi Il calcolo del tempo è vincolato anche a una gestione degli spazi: nell’organizzare le proprie relazioni,l’uomo organizza anche lo spazio attorno a sé sulla base di categorie culturali, diventa un prodotto delpensiero, un vuoto riempito dalle azioni umane. Non tutti definiscono il proprio spazio come facciamo noi,con i 4 punti cardinali: a Bali a questi si aggiunge il riferimento al centro e l’asse nord-sud si confonde conquello che unisce il lato della montagna al lato del mare, direzione che può mutare a seconda del latodell’isola in cui ci si trova; gli achuar dell’Amazzonia basano il loro orientamento sui corsi d’acqua cheattraversano il territorio e su alberi di una certa importanza, tana di pecari, depositi di argilla…; per gliaborigeni lo spazio è legato all’origine e agli antenati; per i dogon del Mali lo spazio nasce dalla creazione edalla cosmogonia: sono un esempio di antropomorfismo applicato alla struttura urbanistica, dal momentoche i villaggi visti dall’alto rappresentano il corpo umano scomposto nelle sue varie parti. La società di cacciatori-raccoglitori ha dato vita a forme di segnalazioni nello spazio naturale che fungonoda punti di riferimento, che danno vita a una vera mappa funzionale e pratica per i gruppi seminomadi.Molte società, invece, soprattutto le più grandi, sono caratterizzate da un centro e da una polarizzazione traquesto centro e la periferia, centro che non rappresenta solo una coordinata spaziale, ma anche unadimensione di tipo politico (nel caso di una capitale), economico (importanti centri di commercio o diproduzione), religioso (città sante). Lo spazio è determinato dall’insieme dei sistemi di relazione tra gliindividui di un gruppo e tra di loro e l’esterno (che è anche divino). Gli individui di una società ripartisconoculturalmente lo spazio in cui vivono, determinando per ogni area definita una serie di comportamentiprevisti e attesi, con nomi di luogo e punti di riferimento spaziale che danno l’idea di come si concepisce ilproprio spazio, costruito sulla base delle relazioni umane, e sotto questa base viene interpretato e letto. Ciòche noi chiamiamo paesaggio non è uno spazio puro, ma il prodotto della nostra interazione con quellospazio, con quell’ambiente: è costruito dallo sguardo, che modifica il modo di leggerlo, riportando il tuttoanche al pittoresco, all’estetica della pittura e che ovviamente varia a seconda della società, del grupposociale e del periodo storico. Se è vero che lo spazio è pensato dall’uomo, è altrettanto vero che a sua volta lo spazio diventa metaforadelle azioni umane, usando trasposizioni spaziali per indicare alcuni modi di agire e di pensare: sprofondare,risalire la china, arrampicata o arrampicatori sociali, a monte, devianza, scivolone, crollo… Lo spazio e lesue rappresentazioni, create dagli uomini, tornano buone da pensare per raccontare gesti e intendimentiumani, quasi a ribadire che gli uomini non si muovono in un vuoto, ma in uno spazio codificato.

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64. I cartografi delle Marshall Bastoncini di legno fissati tra di loro che danno vita a forme geometriche: le stick charts, realizzate perriprodurre lo spazio, fatto soprattutto di acqua, venti e onde, che rendono difficile la navigazione con lepiroghe a bilanciere. La rappresentazione dello spazio è una forma di scrittura, traduce in segni una realtàdiversa. Innanzitutto si pone il problema di una riduzione, secondo un procedimento analogico: il territoriodev’essere riportato in una scala minore e maneggiabile, sacrificando dimensioni, particolari e altri elementidello spazio originale. Occorre scegliere cosa è più significativo, scartando altri elementi. I navigatori delle Marshall hanno dato vita a un sistema di segni, realizzato attraverso nervature di foglie dipalma legate con fibre di cocco e arricchite con delle conchiglie, con due tipologie di mappe: la prima sonoquelle chiamate meddo (ricostruzione di porzioni di territorio più ridotte) e rebbelith (aree che comprendonogran parte dell’arcipelago), dove i bastoncini raffigurano le linee che i navigatori locali hanno sperimentatonei loro viaggi, con una grande precisione di distanze (3 indicatori di distanza, dove il primo indica ilmomento in cui si scorge l’atollo all’orizzonte, il secondo il punto da cui si vede la terra, il terzo quando sidistinguono gli alberi di palma); la seconda comprende i modelli chiamati mattang, applicabili a diversicontesti, con la funzione di trasmettere un modello che spiega la dinamica delle onde, con informazionigenerali, descrizione di un sistema, veri e propri corsi di geografia nautica. Saper navigare è indispensabilese si vive in un arcipelago, sapere che viene trasmesso a un giovane scelto da ogni navigatore.

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65. L’accelerazione nella società industrializzata La visione del "il tempo è denaro" ha dato il via a una forte accelerazione della percezione temporale dellesocietà industrializzate; tempo e spazio si fanno più ridotti, ma mantengono le loro proporzioni. L’attualetecnologia delle telecomunicazioni ha imposto un’ulteriore accelerazione generale dei movimenti fisici eculturali; il tempo, una volta monetizzato e ridotto a merce, è diventato un bene raro nella società urbana eindustriale, anche se spesso questa condizione di scarsità è generata dal guadagnare tempo, che però vienesaturato con altre attività ludiche o produttive che divorano il tempo. L’accelerazione è spesso più percepitache reale, la lentezza diviene un difetto da superare nell’epoca delle relazioni just in time. Le comunicazionimoderne fanno sì che i fatti diventino eventi planetari, perché coperti e esaltati dai media, arricchiti dallasurmodernità, accelerazione della storia in cui la rapidità ha annullato le distanze, il tempo prevale sullospazio: frequentati maggiormente, i luoghi perdono di spessore e finiscono per diventare sempre di piùsuperfici, i non luoghi, posti come supermarket, centri commerciali, contrapposti agli spazi antropologici,che intrecciano a loro sostanza con quella del territorio e delle persone che li abitano, dando vita a relazionidi tipo simbolico tra individui e ambiente. Questi spazi hanno in comune il fatto di non essere integrati con ilterritorio che li circonda e non intrattengono nessuna relazione di carattere identitario o storico con l’esterno,racchiudendo al loro interno diversità, ma in modo decontestualizzato, vissuti al presente e caratterizzati dauna fruizione accelerata e veloce. I treni ad alta velocità hanno soppiantato la locomotiva, mantenendo ilcarattere di simbolo della velocità come valore assoluto.

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66. Il tempo dell’antropologia Per aggirare il problema di vivere una situazione al presente e raccontarlo poi quando ormai è diventatopassato, si usava prima il presente etnografico tramite il quale si esponevano i dati ottenuti come fissati in untempo contemporaneo, che non prevedeva variazioni tanto nel passato quanto nel futuro delle popolazionidescritte; la storia era spesso ignorata o relegata al capitolo iniziale, separata dal contesto generale. L’effettoera quello di una immobilità storica, di una ripetitività di modelli tradizionali, di una quasi totale mancanzadi fattori di mutamenti, se non dovuti a cause esterne. Furono gli antropologi della Scuola di Manchester aintrodurre i processi e i mutamenti come chiave di lettura della società: processo significa tempo. Ilproblema è che l’altro viene spesso collocato in una sorta di dimensione temporale a noi lontana. La società occidentale ha costruito uno spazio e un tempo politici all’interno dei quali collocare gli schemidi una storia "a senso unico", che si fondano a loro volta sulla concezione giudaico-cristiana, talmenteradicata da apparire naturale: la contemporaneità dell’esperienza di terreno svanisce nell’esposizione finalenei testi, in quanto viene negata proprio la temporalità materiale della comunicazione attraverso illinguaggio, che ha segnato la pratica della ricerca del terreno. Spesso l’occidente ha proiettato l’Africa in untempo primitivo, utilizzandolo come specchio per riflettere, sia in positivo che in negativo, su se stesso e perrigenerarsi, uno specchio che ci dice quanto siamo migliori, avanzati, evoluti, che ci rassicura, grazie al fattodi essere altro da noi. L’antropologia si occupa di come la gente cerchi ostinatamente, anche contro forti pressioni, di mantenerepratiche passate e di come in altri casi sia pronta a rinunciare senza molti indugi ad altri comportamenti: sioccupa quindi della contemporaneità e della modernità di coloro che studia, anche se dopo esserereinterpretata dagli antropologi, può non sembrare così moderna. Ma ogni società e ogni era si presentairrimediabilmente moderna, e ciascuna ha le sue buone ragioni per essere così concepita.

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67. Le espressioni artistiche Quello che colpisce di più in una società sono le espressioni artistiche, che possono tradursi in oggettimateriali come sculture e dipinti, o in esibizioni corporee come la danza e il teatro, o in forme intangibilicome la poesia, la narrazione e il canto. L’arte è un gioco con la forma, che produce una trasformazione-rappresentazione esteticamente felice:questa è la definizione proposta da Alexander Alland. A un primo sguardo si potrebbe dire che l’idea di arteè universale, dal momento che non c’è popolo che non esprima idee, sentimenti, emozioni, attraversoqualche forma artistica, ma non tutti i popoli hanno l’idea di arte. Hanno in comune la capacità di crearepiacere, esprimendo dei sentimenti. Nella maggior parte delle lingue parlate non esiste un termine equivalente: in molti casi è inglobata nellareligione, nella struttura sociale, nel lavoro. Da alcuni anni l’Unesco ha inserito nella lista del patrimoniouniversale dell’umanità la nuova categoria dei "beni immateriali", tra i quali figurano il Canto dell’Ahellildall’Algeria, i tessuti di corteccia dell’Uganda, le maschere del Buthan, il canto polifonico georgiano, lamusica e la danza del Nicaragua, i disegni su sabbia delle Vanuato, il teatro siciliano dei pupi siciliani e ilcanto a tenores sardo. Inserendo forme diverse di espressione artistica, in gran parte provenienti da Paesinon occidentali, da un lato si conferisce pari dignità alla tradizione orale del Golfo di Guinea e alla città diVenezia e dall’altro si propone un’idea universale di arte, che si presuppone condivisa da tutte le società delpianeta. Gli uomini definiti artisti creano all’interno di coordinate culturali, perché il loro fine è dialogare con uncerto pubblico, esprimendo idee ed emozioni. Allo stesso modo il pubblico fruisce degli stimoli dell’artista,interpretandoli in un contesto culturale definito: non significa che un’opera debba rimanere confinataall’interno del proprio recinto di produzione, ma non sempre è traducibile nei suoi termini originali. Èdifficile per un europeo comprendere il complesso simbolismo dei dipinti degli aborigeni australiani, che inalcuni casi vanno osservati in movimento o danzando: i complessi intrecci di linee a punti contengonoinformazioni di carattere rituale, geografico e anatomico, e se non si hanno le dovute conoscenze culturali, sipuò al massimo gustare il valore estetico, senza comprenderne il vero significato. Alcune melodie indianepossono apparire noiose e monotone a un orecchio occidentale, poiché, a differenza del nostro su scale di 7note con 12 intervalli di un semitono, il loro modello armonico si fonda su 3 gamme analoghe, con unasuddivisione di 22° con un intervallo superiore al nostro a un quarto di tono. Esiste un’educazione al gusto che ha il graduale effetto di mascherare, inculcando nozioni arbitrarie,l’arbitrarietà delle nozioni inculcate: porta a un gusto non universale, ma culturalmente connotato; ogniforma espressiva si fonda su un certo grado di ripetizione di modelli precedenti, ed è questo che determina idifferenti stili, che però attribuiamo noi. L’arte è quindi impregnata di cultura, appartiene alla sua cultura; l’originalità non è un dato universale maculturale. In alcune società si tende a riprodurre schemi estetici tradizionali piuttosto che inventarne dinuovi, mentre in altre, nonostante la spinta all’innovazione, si deve comunque viaggiare in una gammaaccettabile, per evitare l’incomprensione. Parecchi studiosi hanno messo in luce come l’arte di un grupporiproduce o evoca la sua struttura sociale: nelle produzioni artistiche di società egualitarie di villaggio si notauna ripetizione di un singolo elemento e una forte tendenza alla simmetria (che richiama l’eguaglianza),mentre in quelle che nascono da contesti sociali più stratificati e articolati ci sono numerosi elementi diversitra di loro, spesso asimmetrici. Le religioni hanno svolto un ruolo importante, dando ispirazione a espressioni materiali e immateriali. In

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alcuni casi le istituzioni religiose sono state i primi committenti di opere d’arte (templi, sculture, dipinti..);musiche, danze e altri tipi di espressione sono legati a culti e a rituali religiosi in ogni angolo del mondo, inaltri hanno però un filtro (come nell’islam, dove vige il divieto di raffigurare la figura umana). Il riccocorpus delle maschere gelede, caratteristiche della cultura yoruba-nago (Togo, Benin, Nigeria), si divide indue gruppi: uno a carattere rituale-religioso (le maschere raffigurano simboli tradizionali, legati ai cultilocali), l’altro a carattere profano (con un grado più marcato di innovatività nelle forme), dove gli artistisono più liberi di sperimentare e di seguire i mutamenti della società. Modi di produzione, utilizzo e finalità dei prodotti della creatività possono essere diversi in diverse culture,come sono diversi i livelli di fruizione. Anche a causa della maggiore specializzazione, nel mondooccidentale l’arte è diventata un’attività elitaria e si tende sempre più a distinguere cosa è arte e cosa no. Latradizione classica occidentale escludeva dall’ambito artistico gli oggetti di uso quotidiano e pratico; si ègiunti ad adottare una concezione condivisa già da altre società, presso le quali la creatività estetica vieneapplicata a oggetti di uso comune.

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68. Arti pesanti, arti leggere I disegni conservati sulle pareti di grotte e ripari preistorici sono un segno evidente di come l’uomo abbiacercato fin dall’inizio di rappresentare ciò che vedeva e ciò che avrebbe voluto vedere. I graffiti e le pitturepreistoriche e le diverse forme di scultura non rappresentano solo scene realistiche, ma anche aspirazioni,sogni e credenze: l’idea di riprodurre realtà e pensiero con segni impressi nella materia o effimeri è moltoantica e con caratteristiche diverse. Da un punto di vista percettivo si dividono le arte in visive e non visive, da un lato della loro produzione inpiù o meno facile trasportabilità o sulla base dell’intangibilità o della materialità. Se le popolazionisedentarie possono produrre oggetti materiali anche di grandi dimensioni che segnano indelebilmente lospazio, la necessità di leggerezza dei nomadi, facilmente trasportabile, come la danza, la musica e la poesia.Musica e danza sono due forme espressive facilmente trasportabili: non esiste popolo al mondo che nonabbia prodotto una sua musica, che rispondono a logiche diverse, dal momento che la musica è un codiceche esprime linguaggi dissimili, adatti a situazioni diverse, umanamente organizzato, per il tempo dellafesta, per i funerali, per le celebrazioni solenni, per la guerra, per la caccia, per il semplice piacere estetico diascoltare dei suoni ritenuti gradevoli. La produzione musicale di un popolo può essere studiata sotto ilprofilo formale (analizzando le sequenze di suoni, ritmi, metrica) oppure sotto il profilo sociale (modalità diproduzione e di fruizione). In alcune società la produzione di musica è un fatto elitario, nel senso che solopochi specialisti sanno utilizzare i codici musicali, come ad esempio in India o in Giappone; in altre società,la conoscenza dei codici musicali è diffusa, come ad esempio in Africa, dove ognuno è musicista e partecipain modo attivo alle esibizioni pubbliche. Lo sviluppo tecnologico comporta un certo grado di esclusionesociale, e in ogni caso dove c’è maggiore complessità sociale il canto diventa più verboso e con unlinguaggio più complesso, e si arriva ad essere ascoltatori passivi. Da un punto di vista interpretativo, lamusica è un’ottima metafora delle contaminazioni culturali o meticciati, visto che è molto aperta a prestitiesterni: l’Africa qui ha operato una vera e propria colonizzazione, poiché molti dei generi musicalicontemporanei sono di matrice africana, fondati su una solida ritmica (rock, reggae, hip hop) su una scalapentatonica (blues); a sua volta è stata però contaminata, e la musica che si suona e si produce lì è unamusica che è partita con gli schiavi verso le Americhe e ha influenzato i generi locali, contemporaneamentericevendo influenze caraibiche, brasiliane e messicane. Come per il cibo, bisogna fare attenzione nel parlare di musica tradizionale (antica e radicata nel luogo dinascita): ci sono sempre dei cambiamenti nelle arti creative, e ciò che creiamo oggi, che è dunqueun’innovazione, nel tempo può consolidarsi in tradizione. Per quanto riguarda le espressioni plastiche, la loro produzione è strettamente connessa alla disponibilità dimateriali e al modello di vita, che documentano con il passare del tempo. Ad esempio, le statues colon(rappresentano i bianchi colonizzatori) non sono solo la testimonianza di un’epoca, ma offrono anche untratto innovativo, poiché vengono realizzate con le nuove vernici portate dai bianchi; oppure le statue gelededel Benin, dove via via si aggiungono nuove figure, come ad esempio il dottore con la siringa, fatta persensibilizzare la popolazione alla vaccinazione.

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69. I musei etnografici Molti musei etnografici d’Europa e America sono nati dai furti di oggetti sacri perpetrati ai danni dellepopolazioni: nel peggiore dei casi l’unico fine era il lucro, nel migliore dei casi c’era il desiderio diconoscenza e la volontà di preservare dall’usura del tempo oggetti che sarebbero andati distrutti. I più notisono il Museum of Mankind di Londra, il Quai Branly a Parigi o l’American Museum of Natural History aN.Y. I musei stessi possono diventare campo di ricerca per un antropologo: ogni percorso espositivo è unracconto in cui l’autore rivela il proprio pensiero, riflettendo su come siano gli occidentali a fare musei suglialtri, e non il contrario. I musei di inizio ‘900 erano organizzati in modo da raffigurare le varie tappe dell’evoluzione umana,secondo le teorie dell’epoca. Gli oggetti esposti erano presentati come il frutto di artisti ingenui e naturali, eall’arte etnica si attribuiva una carica sessuale forte, unita al potere di raffigurare idee collettive chenascevano da pulsioni primitive. Mettendo in mostra solo l’arte tradizionale, si da l’idea che la primitivitàsia relegata nel passato, quando invece è stato proprio grazie a ciò che l’arte contemporanea ha avviato deiprocessi che l’hanno rigenerata. Tanto per i musei etnografici quanto per le esposizioni temporanee si poneun problema di fondo: quanto sono arte questi oggetti, e quanto è giusto esporre arte proveniente da altriposti, dove magari non è considerata da esposizione. La valorizzazione dell’arte primitiva consiste neltrasferire i manufatti in un contesto artistico, come se diventasse arte solo trasferendosi in Occidente. Un oggetto etnografico diventa opera d’arte solo attraverso lo sguardo selezionatore dell’osservatoreoccidentale, e il valore di un’opera d’arte si basa sull’utilizzo di categorie predeterminate culturalmente. Lostudio dell’arte si incentra sulla vita e l’opera di individui che hanno un nome e sulla successione storica didistinti movimenti artistici. Nella stragrande maggioranza dei casi, invece, l’artista primitivo vieneconsiderato anonimo, un individuo privo di individualità che rappresenta idee collettive, ispirate da forze aldi fuori di lui: siccome non si conosce nulla di un autore, la sua opera viene considerata il prodotto di unacultura. Quando diciamo di un’opera che è un falso, presupponiamo che esista un originale autentico, maquesto è un concetto solo occidentale: può capitare che un artista faccia 3 maschere identiche per 3 ballerinidiversi. Inoltre, "deportando" gli oggetti, spesso subiscono una de umanizzazione, vengono ridotti a merci,privati dei loro legami sociali: vengono fatti per un motivo, non per essere esposti. Altro problema è la noncontestualizzazione degli oggetti: dal momento che ogni opera del genio umano è legata alla cultura che l’haprodotta, ogni esposizione sarà fuori luogo, mentre invece, intendendo l’arte come un valore universale,l’oggetto può vivere una sua vita indipendentemente dal luogo in cui si trova. Esporre oggetti etnografici èun po’come tradurre un testo da una lingua straniera: non esiste un modo giusto, qualunque sia la scelta, saràsempre il frutto di una interpretazione personale. Se si espone una maschera con molte informazioni, la sitrasforma in un oggetto etnografico; lasciandola senza informazioni, la si trasforma in un’opera d’arte cheparla da sola, da ammirare per il suo valore estetico e non per la sua funzione sociale.

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70. Arte per turisti Il turismo rappresenta una pratica in continua crescita e che rappresenta una nuova forma di incontro traoccidentali e nativi; il perno principale è quello dell’artigianato, concetto che si confonde con l’arte: fino ache punto è arte e fino a che punto è artigianato? Una linea di demarcazione si può tracciare quando siamoin presenza di forme di espressione creativa prodotte esclusivamente per i turisti, anche se questi oggettiricalcano in tutto e per tutto forme, linee e dimensioni di quelli originali. Lo stesso lo si può dire delle danzeo di altre forme di performance che vengono messe in scena per i turisti. Gesti, movenze, ritmi, sono glistessi, ma lo spirito e le motivazioni sono diversi (autenticità rappresentata): i locali mettono in mostraaspetti della loro cultura per i turisti, estraniandoli dalla pratica quotidiana per trasformarli in purarappresentazione fedele all’originale. Uno dei prodotti più evidenti dell’impatto turistico nei Paesi del Sud del mondo è il congelamento dellacreatività locale, poiché i turisti viaggiano per verificare se quello che sanno corrisponde alla realtà, e quindinon c’è più quella voglia di scoprire: ciò porta i locali a rappresentarsi come i turisti li pensano, e a produrregli oggetti che i turisti amano di più. Il turismo è una potenziale fonte di reddito, e i locali finiscono perseguire le leggi della domanda e dell’offerta e proporre quindi una loro offerta. Si passa, quindi, "dal rito al teatro": le danze si sono trasferite da una dimensione rituale a una dimensione dicarattere teatrale che non implica per forza una funzione sociale della danza, se non quella di divertire chi viassiste. Mentre la dimensione rituale è caratteristica delle società tradizionali e ne costituisce uno dei pilastrifondanti, le performance teatrali delle società occidentali non rientrano nella dimensione globale della nostravita, ma coinvolgono solo il tempo libero. In questi casi, la performance nasce comunque da una praticaesistente, ma ciò che li spinge a fare quell’evento non è una celebrazione, ma il denaro. Qui appare unacontraddizione, perché la messa in vendita di alcuni aspetti culturali è un effetto indotto dalla richiesta deglistessi turisti che cercano l’autentico.

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71. Credere e rappresentare Quella religiosa è una dimensione che coinvolge tutte le popolazioni, a volte non risulta neanche separata daaltre dimensioni esistenziali, intrecciandosi con esse, a volte occupa una sfera particolare. Con il termine religione tendiamo a definire un complesso di simboli, credenze e pratiche che servono adescrivere una relazione tra gli esseri umani e le entità non umane in cui essi credono e a cui attribuisconopoteri diversi. La dimensione religiosa si distingue dal senso comune perché si muove al di là delle realtàcaratteristiche della vita quotidiana tendendo a realtà molto più ampie che le correggono e le completano;differisce dalla scienza perché mette in dubbio quelle realtà quotidiane non sulla base di prove, ma in nomedi verità più forti: si crede a ciò che non si conosce. Il ruolo della religione è quello di fornire risposteall’incertezza della vita umana, a tutti quegli eventi e quegli aspetti della nostra esistenza che le nostreconoscenze non riescono a spiegare. Non si può negare questa dimensione, ma è difficile ridurre la religioneal solo ruolo di compensazione dei limiti del sapere umano, ma anzi mette in moto anche altre dinamiche ditipo sociale: una religione contribuisce a creare il senso di comunità del gruppo (religione deriva dal terminelatino religare, che significa tenere unito, legare), conferendo un senso di identità e mettendo in moto reti direlazioni privilegiate tra i membri del gruppo. Una religione si fonda su un certo numero di persone cheaderiscono e credono in una dottrina che definisce la relazione tra uomo e divinità. Totem è un termine che deriva da un’espressione ojibwa, lingua parlata sulle rive dei Grandi Laghinordamericani, e significa "fa parte della mia famiglia": il totem, spesso rappresentato da un animale,oggetto di culto e di rispetto, indicava un antenato mitico in cui si riconoscevano gli appartenenti a undeterminato clan. È reso sacro quindi dalla sua elezione, da parte di un gruppo umano, a simbolo chetrascende l’esistenza quotidiana, la realtà terrena, per assurgere a rappresentare l’origine mitica. Allo stessomodo, la croce per i cristiani rappresenta il sacrificio di Gesù, ma per un individuo che non sa nulla dellatradizione cristiana sarebbe un oggetto privo di significato. La dimensione sacrale e mitica fungono da catalizzatore sul piano sociale: i miti organizzano i simboli diuna credenza religiosa, i riti li rappresentano; i miti sono racconti dell’origine e della fondazione che imembri di una società si trasmettono di generazione in generazione, ma prima deve perdere ogni traccia diautorialità, poiché è una storia generale che esiste da sempre e spiega l’organizzazione dell’universoconosciuto, è lo strumento con cui si tenta di far fronte al disordine della storia. Per assolvere il loro compitodevono però essere rivitalizzati, resi visibili attraverso performance di carattere rituale: ogni culto habisogno del rituale, sia esso una processione, una preghiera collettiva, una danza sacra, un sacrificioanimale, una prova di forza, un banchetto, forme collettive a rendere percettibile l’esistenza del sacro. Lasua caratteristica fondamentale è la ripetitività: prevede una liturgia fatta di sequenze verbali, formulepredefinite, gesti e azioni codificati, che devono avvenire spesso in contesti specifici; gli spettatori sonoanche attori, in quanto partecipano attivamente ed emotivamente, esprimendo così la loro volontà a far partedi un ordine morale condiviso, che fa di loro una comunità.

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72. Pregare, invocare, danzare… L’attitudine degli esseri umani a rivolgersi a entità superiori da loro definite è universale, non esiste unpopolo senza dio, pur con caratteristiche, poteri, capacità e caratteri diversi. Alcuni popoli attribuiscono a undio unico (monoteisti) il merito di aver creato il mondo, altri sono politeisti, cioè il loro pantheon è più omeno affollato da divinità che svolgono ruoli diversi. Ci sono divinità raffigurate come onnipotenti eonniscienti, ma anche divinità meno perfette, che hanno poteri maggiori degli uomini, ma anche dei limiti:ad esempio, i navajo credono che sia importante recitare le preghiere nella forma più corretta possibile, manon si aspettano che vengano per forza esaudite; è il cosiddetto "dio pigro", che non sempre è pronto adascoltare le richieste degli uomini o non è sempre veloce: gli tsimshian del Pacifico battono i piedi per terrae mostrano i pugni chiusi alle divinità chiamandole schiave per rimproverarle del loro mancato intervento. Il mondo extraumano non è popolato solo da divinità, ma anche da esseri soprannaturali di origine umanacome gli spiriti degli antenati, che entrano a far parte di un mondo vicino a quello degli dei. In molte formedi culto ci sono spiriti non di origine umana, che non hanno però il carattere divino, come i santi delcristianesimo, che non sono divinità ma hanno caratteri diversi dall’umano. In molte culture, le dimensionidel mondo terreno e del mondo extraumano non sono così separati come da noi, ma possono incontrarsi,convivere, senza per questo annullare la distinzione tra vivi e morti, tra umani e divini (come nei libri diMarquez). Ogni società stabilisce dove tracciare la linea che divide il naturale dal soprannaturale, che nonsempre è un limite invalicabile; mettersi in relazioni con l’altra dimensione non è semplice e prevede l’usodi determinati codici e norme: si può dialogare tramite la preghiera o con la lettura di un codice ufficialecome la Bibbia, i Vangeli e il Corano, a volte accompagnate da sacrifici (reali o simbolici), che sono donipropiziatori agli dei. Le prove fisiche sono un altro medium per entrare in relazione con il soprannaturale(digiuno, sopportazione di prove dolorose auto inflitte, pellegrinaggi, mortificazioni corporali); la musica, ilritmo ripetuto, la danza possono provocare stati di trance, di estasi, che consentono di accedere a dimensionidiverse da quella quotidiana; anche le droghe possono essere utili per raggiungere la condizione estatica. Inalcuni casi il dialogo tra i due mondi è individuale, in altri collettivo, e la maggior parte dei culti prevedeuno o più intermediari tra gli uomini e le divinità: sacerdoti, per esempio, presenti sia nelle religioniistituzionali (addetti a tempo pieno che costituiscono una vera e propria professionalizzazione della praticareligiosa) sia nella pratica dei culti tradizionali. Abbiamo 4 tipologie di culto: 1. culti individuali: ogni individuo può considerarsi in grado di dialogare con le divinità, pur usando codici emodalità definite culturalmente dalla propria società, diffuso particolarmente tra i cacciatori-raccoglitori,casi comunque molto limitati e rari; 2. culti sciamanici: colui che si mette in relazione con l’aldilà in nome della comunità è un individuo,chiamato sciamano, che attraverso trance e possessione raggiunge stati di percezione particolari, dove riescea mettersi in comunicazione con le divinità; 3. culti comunitari: tipici di comunità più articolati, dove gli individui si radunano per celebrare il culto sullabase di classi di età, genere o secondo la genealogia; possono anche esserci figure che fungono daintermediari, ma non c’è nessun professionista del culto;

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4. culti ecclesiastici: presenza di un clero professionale a tempo pieno che da vita a una vera burocrazia,caratteristico delle società complesse dove le strutture ecclesiastiche si intrecciano con i sistemi politici, e avolte, come nelle teocrazie, coincidono con essi. Ogni religione esprime norme di comportamento e attiva forme di controllo sociale, la trasgressione vienepunita da sanzioni divine: sono i tabu religiosi le forme di controllo più diffuse, che possono tradursi sulpiano alimentare, sulle scelte matrimoniali, su norme comportamentali, su questioni di genere. L’uso più omeno strumentale delle religioni ha dato vita a forme di repressione, come l’Inquisizione o i talebani(imponevano alle donne il burqa, che potevano uscire di casa solo per fare la spesa e non potevano parlarecon gli uomini estranei alla famiglia, mentre gli uomini dovevano per forza avere la barba, non si potevaascoltare musica, giocare a carte e far volare gli aquiloni).

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73. Magia e stregoneria Esistono credenze, diverse dalla preghiera, che costringono il soprannaturale ad agire in un certo modo: è lamagia. Il mago è un individuo che può manipolare gli eventi soprannaturali per fini benefici o malefici,utilizzando materiali e oggetti: è questo che lo differenzia dalle streghe, stregoni e fattucchiere, che usano lasola forza del pensiero. Non è semplice tracciare il confine tra religione e magia, come per esempio il vodu(Golfo di Guinea e poi diffusosi ad Haiti), che possono essere letti sia in chiave religiosa che in chiavemagica. In molti casi alcuni culti si presentano come il prodotto di complessi sincretismi, dove si fondonoelementi di origine diversa: in parecchie religioni afroamericane (vodu, candomblè brasiliano, santeriacubana) elementi del mondo cristiano, come alcuni santi e la Madonna, e dei tradizionali si intreccianodando vita a nuove figure che hanno elementi diversi, fusi in un’identità nuova. La stregoneria spiega ciò che è molto lontano dalla normalità: può dare spiegazioni a eventi difficilmenteclassificabili con le categorie del quotidiano; è un insieme articolato di credenze che servono a interpretare ilmondo, fornendo indicazioni di un ordine morale, che possono contribuire a mantenere un ordine sociale,poiché incanala verso un nemico esterno le pulsioni disgregatrici che nascono dai conflitti interni. Le accusedi stregoneria servirebbero quindi a controllare le tensioni che possono nascere da situazioni intollerabili:decessi di parenti stretti, malattie, calamità naturali, divisioni interne a un gruppo… Si sviluppano anche insocietà dove non esistono istituzioni giudiziarie che provvedono a risolvere reati, ma è necessario che lagente creda nella stregoneria per formulare dei sospetti. Le credenze relative a magia o stregoneria vengono a volte usati per mettere in evidenza lo stato diarretratezza delle popolazioni che le praticano, per sottolineare l’irrazionalità, contrapposta alla presuntarazionalità occidentale, con un atteggiamento fortemente etnocentrico: i fatti di stregoneria letti all’internodel loro contesto risulteranno perfettamente coerenti con la logica di comportamento dei membri di quellacomunità.

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74. Divinità materiali Il termine animismo indica una concezione religiosa secondo la quale ogni cosa, gli alberi, i fiumi, le pietre,le montagne, sarebbe pervasa da un’anima divina, un determinato potere che risiede negli oggetti o indeterminate persone, i capi; l’attribuzione di poteri soprannaturali a entità materiali è presente anche in cultiistituzionalizzati, come l’acqua di Lourdes per i cattolici. Il paganesimo (culti non istituzionalizzati, privi di una struttura organizzata, limitata a piccoli gruppi) èveramente l’opposto del cristianesimo per 3 motivi: 1) assenza di contrapposizione tra spirito e corpo; 2) non istituisce la morale come principio esterno rispetto ai rapporti di forza che segnano la vita quotidiana; 3) ipotizza una continuità tra ordine biologico e ordine sociale. C’è un forte legame tra realtà fisica e dimensione spirituale, elemento comune a molti culti tradizionali, cheporta verso la dimensione rituale, grazie alla quale si identifica il paganesimo; dimensione che corre suldoppio binario del simbolo e della sua rappresentazione materiale: un sistema simbolico, rappresentazione eespressione di due tipi di realtà, quella sociale e quella fisica, e ha quindi per forza bisogno di oggetti. Iluoghi di culto tradizionali sono spesso oggetto di sacrifici animali: il fatto di raccogliere materia su materia(sangue e piume sugli oggetti) conferisce loro importanza. L’oggetto, chiamato feticcio, reifica il dio, lorende materiale, talmente tanto materiale che le statuette o i loro simulacri devono essere nutriti con offertedi cibo e bevande, poiché rappresentano allusivamente l’immagine del corpo umano: ma possiedono ancheuna loro forza vitale in quanto materia, che diventa quindi una componente essenziale per la creazione deidispositivi simbolici, creando la relazione tra ciò che sono e ciò che rappresentano. Ma non basta distruggerel’oggetti per distruggere la credenza: l’oggetto è importante, ma quello che è fondamentale è quella tensioneche si crea tra il concetto e l’oggetto che lo simboleggia, tensione che unisce le due facce della medaglia, eallo stesso tempo le oppone mettendole su due piani di percezione diversi. La materia pura è difficile dapensare, e perciò occorre darle una forma di vita, un’intelligenza.

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75. Quella cosa chiamata "cultura" Gli antropologi si avvalgono del metodo induttivo, cioè di un approccio secondo il quale leggi e principiconoscitivi vengono assunti in seguito a un’esperienza empirica: dopo aver soggiornato presso unacomunità, deve fare forma ai comportamenti individuali e di elementi che formano quelle che chiamiamo"cultura" o una "società", elementi che gli individui usano tutti i giorni, senza per forza pensarli comestrutturati in un insieme organico. Sono gli studiosi a dar loro forma, organizzandoli in ambiti, tipologie,categorie e conferendo loro a volte una coerenza che non sempre hanno. All’inizio si parlava di cultura al singolare: solo successivamente si iniziò a parlare di culture al plurale, incontrapposizione a una visione unilineare. Con il trascorrere del tempo l’accento si è spostato verso unarelazione dialettica tra individuo e gruppo, tra individuo e ambiente in cui vive. Le culture appaionomeccanismi diversi a seconda della chiave che si usa per avvicinarsi a esse. Sono molte le definizioni di cultura che ci sono state, tutte con una loro coerenza, ma alcune ne danno unavisione statica, altri corrono il rischio di reificarla: in generale è difficile perché la cultura è instabile,sfuggevole, propensa al cambiamento, con un carattere irregolare e casuale. L’aspetto dinamico vennemesso in evidenza dalla Scuola di Manchester, che propose un’analisi processuale anziché una fotografiadelle società, divenuto ancora più evidente nella realtà contemporanea, con i suoi flussi di popolazioni e ideeancora più rapidi e copiosi. L’idea di una comunità radicata su un territorio e di individui legati a una culturadeterminata da quella condizione è stata messa in crisi dal concetto di deterritorializzazione, cioè laproduzione di nuove culture fortemente sincretiche e di nuovi immaginari, da parte di chi si trova a vivere inrealtà lontane da quelle in cui è cresciuto. Negli ultimi anni si preferisce al termine cultura quello di agency, che indica la capacità degli individui aintervenire nei processi culturali opponendosi a determinate scelte, formulando e proponendo nuove opzioni,non previste dall’immaginario vigente. È molto difficile combinare la necessità di chiarezza, di precisione eun certo grado di assolutezza con l’altrettanto necessario grado di apertura e di indefinitezza a cui la realtàcostringe. Le culture sono come cantieri sempre aperti, nei quali si svolge una continua attività dimontaggio, smontaggio, costruzione, innovazione, partendo da materiali dati, disponibili sul posto, senzadisdegnare apporti esterni se funzionali, con la possibilità di trasformarli a seconda dei gusti degli abitanti.

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76. La comparazione fra modelli Uno degli strumenti fondamentali del lavoro è la comparazione, attuata già alla fine dell’800 daglievoluzionisti britannici che posero nella stessa sfera le diverse popolazioni al fine di compararle tra di loro:ebbero il merito di conferire a ogni gruppo umano del pianeta lo statuto di umanità, affrancandolodall’animalità o semianimalità che avevano prima, anche se li ponevano su diversi gradini della scalaevolutiva. La comparazione aveva già la funzione di rivelare l’eventuale esistenza di tratti comuni nelgenere umano, pur continuando a cercare regole, modelli, leggi che consentano di prevedere uncomportamento; si viaggia continuamente tra il particolare e l’universale. Ci si è però chiesto se fosse il casodi porre dei confini alla comparazione, per esempio circoscrivendo le variabili da comparare a unadeterminata area geografica; serve, per alcuni, a comprendere meglio le specificità locali; porta però a unaclassificazione statica, con modelli e processi astratti. Non è stato ancora totalmente abbandonato,specialmente nelle prospettive dell’ecologia culturale, del materialismo culturale e dello strutturalismo.Cercare le specificità di ogni gruppo rivendicandone la particolarità per poi compararne alcuni aspetti pertrovare una unità del genere umano è contradditorio solo in apparenza, dovuto dal fatto che bisogna tenereconto dei diversi posizionamenti e dei relativi punti di vista. Un approccio etico tenta di ricondurre i fatti a delle regole comuni, fondandosi sul presupposto che esistanoun sentire e un agire comuni alla base delle scelte umane, su cui è possibile trovare elementi dicomparazione. Un approccio emico invece è il perno attorno al quale ruotano gli approcci interpretativi (rendono difficile einutile la comparazione di fatti che non sarebbero comparabili per gli attori locali, perché percepitidiversamente) e dialogici (prevedono l’abbandono di ogni pretesa di oggettività e puntano l’attenzione piùsulla negoziazione tra ricercatore e nativo, la vera fonte dei dati). La visione antropologica è caratterizzata dalla continua oscillazione tra un anelito universalista e una difesadel particolare, tensione che trova soluzioni intermedie, come l’adozione di una comparazione debolefondata non su dati presunti come assoluti, ma sulle somiglianza di famiglie che permettono, con una certaelasticità, di comparare ciò che intuitivamente riteniamo essere comparabile mantenendo un atteggiamentodi utile tolleranza.

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77. Bricolage di significati Il problema di tradurre nel proprio linguaggio quelle espressioni culturali che vengono espresse nella culturadei locali non è solo linguistico, ma anche semiotico e simbolico: bisogna tradurre elementi culturali estraneiai nostri in termini da noi comprensibili. La traduzione richiede lunghi e complessi percorsi retorici e unutilizzo della metafora che restituiscano i significati originali di un concetto in termini a noi più consueti.Tutto ciò si basa però su un presupposto fondamentale, e cioè che esista una sorta di matrice comune cherenda possibile tradurre una cultura nei termini di un’altra: ogni sistema culturale si fonda su premesseparticolari, diverse le une dalle altre. Esiste in ogni cultura un dispositivo di transitività, dovuto alla capacitàche ogni linguaggio possiede di elaborare concetti nuovi, inventandosi nuovi termini e nuove modalitàcomunicative. I linguaggi sono meccanismi aperti e dinamici, perciò usando adeguatamente il linguaggio èsempre possibile tradurre un concetto da una lingua a un’altra. L’antropologo quindi smonta le cultura altrui per comprenderne gli elementi fondanti e il punto di vista dichi tali culture le produce e le vive; dispone poi tutti i pezzo del meccanismo per rimontarne il congegno,per cercare di renderlo funzionante: ciò comporta delle perdite e dei sacrifici inevitabili.

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78. I soggetti della scrittura Le ricerche iniziano e terminano dietro una scrivania, dove si progetta l’oggetto della ricerca, e poi si parte;al ritorno però molto spesso bisogna fare i conti con l’aver vissuto esperienze non pianificate. Nella prima fase dell’antropologia si è cercato di oggettivare il più possibile la ricerca per conferirle lo statusscientifico che non aveva questa disciplina, cercando di far assomigliare le monografie etnografiche a untrattato naturalistico. Questo tratto nasce però dalla scrittura, che deve tradurre un’esperienza umanacomplessa. Nelle monografie classiche il soggetto narrante appare come autore nella copertina, ma nel testoè ignoto, diventando un io invisibile, che sa e vede tutto senza mai partecipare ai fatti; utilizza la tecnicalinguistico-narrativa sul modello della monografia naturali. Elemento caratterizzante è il presenteetnografico, al verbo presente, che però congela l’immagine delle società sospendendole in una condizioneimmutabile e atemporale, annullando ogni dinamica interna, ogni processo di trasformazione, consolidandol’immagine di popolazioni statiche, immutabili, senza passato né futuro. Il presente che si vive sul campo èun presente condiviso, unico elemento che li accomuna: l’unico modo per evitare il più possibile il problemaè riportare il discorso del ricercatore in prima persona. La crisi dell’oggettività (anni ’80) è un segno deldisagio di un’epoca, in cui l’occidentalizzazione del mondo corrisponde all’indebolirsi delle certezzedell’Occidente sulla propria identità. Si aggiunge a tutto ciò un’altra soggettività, legata alle persone che lo accompagnano lungo il cammino sulcampo: non più sull’oggettività scientifica, quindi, ma sul terreno del dialogo, dove deve comparire anche ilricercatore, includendo anche le persone incontrate. La narrativa è fondamentale per stabilire le posizioniiniziali dei soggetti del testo (etnografo, nativo, lettore), che non devono essere eliminati o trascurati. Lascrittura è una necessità inevitabile, un sacrificio nel quale la vittima sacrificale deve soffrire il menopossibile, con una narrazione meno metaforica e più realistica, con un’assenza/ampiezza di confini dellanarrativa che permette di mostrare una realtà nelle sue molteplici sfaccettature, inclusa quella di chi scrive; ilracconto è un genere permeabile e indefinito, adatto a contenere tutte le diverse espressioni si un’esperienzaumana come la ricerca sul terreno. La narrazione non può fare a meno della presenza del ricercatore sulcampo in quanto fattore che altera la realtà locale con la sua presenza che crea curiosità e relazioni nuove epreferenziali e con l’indurre la gente del posto a parlare e a tentare di spiegare cose ovvie nella sua vita. Piùche decidere tra distacco e coinvolgimento, si tratta di dosarne le proporzioni, con uno sguardo sempre unpo’ da lontano, a metà strada tra il rigore oggettivo dello scienziato e l’empatia del romanziere. Il genere letterario-etnografico si adatta alla rappresentazione della vicenda antropologicamente grazie allasua capacità di connettere eventi, tempi e spazi diversi attraverso una trama costante e continua.

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Indice

1. Definizione di antropologia 1

2. Gli stadi della ricerca antropologica 2

3. Il diffusionismo, il funzionalismo e lo strutturalismo 3

4. Osservare e chiacchierare 5

5. Il corpo "innaturale" 6

6. Modellare il corpo 7

7. Oltre la pelle 8

8. Costruire generi 9

9. Donne e madri 10

10. Generi di mezzo 11

11. Coprire e scoprire il corpo 12

12. Il corpo dopo la morte 13

13. Studio antropologico: la nascita 14

14. Studio antropologico: i bambini 15

15. Studio antropologico: l’età collettiva 16

16. Studio antropologico: la malattia 17

17. Studio antropologico: la morte 18

18. Studio antropologico: pensare e mangiare 19

19. Il cibo: per gli dei, contro gli dei 20

20. Cibo come marchio 21

21. Il cibo "tradizionale" 22

22. Saper mangiare 23

23. Studio antropologico: parlare, per essere umani 24

24. Studio antropologico: la lingua che crea il mondo 25

25. Studio antropologico: comunicare altrimenti 26

26. Il sapere della scrittura 27

27. Verba volant non semper 28

28. Segni per ricordare 29

29. Nuove oralità 30

30. Studio antropologico: produrre, scambiare, consumare 31

31. Studio antropologico: vendere, scambiare 32

32. Studio antropologico: il dono è economia? 33

33. Studio antropologico: la moneta 34

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34. Studio antropologico: l’economia 35

35. Studio antropologico: lo sviluppo nella società occidentale 36

36. Studio antropologico: Dio, io e lo zio 37

37. Studio antropologico: esogamia, endogamia 38

38. Studio antropologico: il problema dell’incesto 39

39. Studio antropologico: la poligamia 40

40. Studio antropologico: la discendenza 41

41. Studio antropologico: la residenza 42

42. Studio antropologico: manipolare la parentela 43

43. Darsi delle regole 44

44. La politica nelle relazioni interpersonali 46

45. La figura del Capo 47

46. Creazione di uno Stato 49

47. Il problema delle origini 50

48. Definizione di gruppi e comunità 52

49. L’etnia rivisitata 53

50. Comunità piccole, grandi, immaginate 54

51. Costruire identità 55

52. Nazione e nazionalismi 56

53. Identità migranti 57

54. La società e la sua rappresentazione 58

55. La mano e il cervello 59

56. Invenzioni e necessità 60

57. Tecnologia ed energia 61

58. L'uomo e la sua abitazione 62

59. Tempo, orologi, calendari 64

60. La fortuna dei nuer 65

61. Il verme "annuale" delle Trobriand 66

62. Tempo e spazio nel mercato africano 67

63. Spazi, luoghi, paesaggi 68

64. I cartografi delle Marshall 69

65. L’accelerazione nella società industrializzata 70

66. Il tempo dell’antropologia 71

67. Le espressioni artistiche 72

68. Arti pesanti, arti leggere 74

69. I musei etnografici 75

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70. Arte per turisti 76

71. Credere e rappresentare 77

72. Pregare, invocare, danzare… 78

73. Magia e stregoneria 80

74. Divinità materiali 81

75. Quella cosa chiamata "cultura" 82

76. La comparazione fra modelli 83

77. Bricolage di significati 84

78. I soggetti della scrittura 85