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Argomento del Canto 5 Ingresso nella I Cornice. Dante osserva gli esempi di umiltà (Maria, David, l'imperatore Traiano). Incontro con le anime dei superbi. Apostrofe contro la superbia dei miseri cristiani. È la mattina di lunedì 11 aprile (o 28 marzo) del 1300, tra le dieci e le undici. Ingresso nella I Cornice (1-27) Dopo che Dante e Virgilio hanno attraversato la porta del Purgatorio, questa si richiude alle loro spalle con un forte stridore e il poeta si guarda bene dal voltarsi a guardare indietro, secondo le prescrizioni dell'angelo guardiano. I due iniziano a salire lungo una spaccatura nella roccia, che procede a zig-zag come un'onda che va e viene, per cui il maestro avverte Dante che occorre avanzare evitando le sporgenze più aguzze. Questo li costringe a procedere molto lentamente, cosicché arrivano al fondo del sentiero quando ormai la luna tocca l'orizzonte con la parte in ombra (circa alle 10 del mattino). I due poeti si ritrovano nella I Cornice del monte, che si presenta deserta e misura in larghezza tre volte un corpo umano, dalla parete rocciosa fino al vuoto. Dante guarda a destra e a sinistra, vedendo che la Cornice ha lo stesso aspetto fin dove arriva il suo sguardo. Esempi di umiltà: Maria (28-45) F. Zuccari, Esempi della I Cornice Dante e Virgilio non si sono ancora mossi, quando il discepolo si accorge che lo zoccolo della parete del monte, nel punto in cui essa è meno ripida, presenta dei bassorilievi di marmo bianco e intagliato con tale maestria che non solo Policleto, ma persino la natura ne sarebbe vinta. Uno di essi raffigura l'arcangelo Gabriele che viene sulla Terra portando l'annuncio della nascita di Gesù e la scultura è così realistica che sembra che dica proprio Ave. È rappresentata anche Maria che si sottomette alla volontà divina e pare che dica le parole Ecce ancilla Dei. Esempi di umiltà: re David (46-69) Virgilio, che ha Dante alla propria sinistra, lo invita a non osservare solo una scultura e così il discepolo allarga lo sguardo e vede, oltre l'esempio di Maria, un'altra storia scolpita nel bassorilievo. Dante oltrepassa Virgilio per osservarla meglio e vede che il marmo raffigura il carro che trasportò l'Arca Santa a Gerusalemme, preceduto dagli Ebrei disposti in sette cori. La scultura è così realistica che l'udito di Dante gli dice che le figure non cantano, mentre la vista glielo fa credere; anche il fumo dell'incenso è così veritiero che solo l'olfatto impedisce a Dante di credere che sia reale. L'Arca è preceduta dal re David, che danza con la veste umilmente alzata, mentre da un palazzo lo guarda la moglie Micòl, sprezzante e crucciata. Esempi di umiltà: Traiano e la vedova (70-96)

Argomento Del Canto 5

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Argomento del Canto 5

Ingresso nella I Cornice. Dante osserva gli esempi di umiltà (Maria, David, l'imperatore Traiano). Incontro con le anime dei superbi. Apostrofe contro la superbia dei miseri cristiani.

È la mattina di lunedì 11 aprile (o 28 marzo) del 1300, tra le dieci e le undici.

Ingresso nella I Cornice (1-27)

Dopo che Dante e Virgilio hanno attraversato la porta del Purgatorio, questa si richiude alle loro spalle con un forte stridore e il poeta si guarda bene dal voltarsi a guardare indietro, secondo le prescrizioni dell'angelo guardiano. I due iniziano a salire lungo una spaccatura nella roccia, che procede a zig-zag come un'onda che va e viene, per cui il maestro avverte Dante che occorre avanzare evitando le sporgenze più aguzze. Questo li costringe a procedere molto lentamente, cosicché arrivano al fondo del sentiero quando ormai la luna tocca l'orizzonte con la parte in ombra (circa alle 10 del mattino). I due poeti si ritrovano nella I Cornice del monte, che si presenta deserta e misura in larghezza tre volte un corpo umano, dalla parete rocciosa fino al vuoto. Dante guarda a destra e a sinistra, vedendo che la Cornice ha lo stesso aspetto fin dove arriva il suo sguardo.

Esempi di umiltà: Maria (28-45)

F. Zuccari, Esempi della I Cornice

Dante e Virgilio non si sono ancora mossi, quando il discepolo si accorge che lo zoccolo della parete del monte, nel punto in cui essa è meno ripida, presenta dei bassorilievi di marmo bianco e intagliato con tale maestria che non solo Policleto, ma persino la natura ne sarebbe vinta. Uno di essi raffigura l'arcangelo Gabriele che viene sulla Terra portando l'annuncio della nascita di Gesù e la scultura è così realistica che sembra che dica proprio Ave. È rappresentata anche Maria che si sottomette alla volontà divina e pare che dica le parole Ecce ancilla Dei.

Esempi di umiltà: re David (46-69)

Virgilio, che ha Dante alla propria sinistra, lo invita a non osservare solo una scultura e così il discepolo allarga lo sguardo e vede, oltre l'esempio di Maria, un'altra storia scolpita nel bassorilievo. Dante oltrepassa Virgilio per osservarla meglio e vede che il marmo raffigura il carro che trasportò l'Arca Santa a Gerusalemme, preceduto dagli Ebrei disposti in sette cori. La scultura è così realistica che l'udito di Dante gli dice che le figure non cantano, mentre la vista glielo fa credere; anche il fumo dell'incenso è così veritiero che solo l'olfatto impedisce a Dante di credere che sia reale. L'Arca è preceduta dal re David, che danza con la veste umilmente alzata, mentre da un palazzo lo guarda la moglie Micòl, sprezzante e crucciata.

Esempi di umiltà: Traiano e la vedova (70-96)

G. Doré, Traiano

Dante si muove dal punto in cui si trova e vede scolpita un'altra storia nel bianco marmo, proprio accanto a Micòl. Qui è rappresentata la gloria dell'imperatore Traiano, che spinse papa Gregorio a pregare per la sua salvezza: l'imperatore è raffigurato a cavallo, mentre una vedova gli si avvicina in lacrime. Intorno a lui è pieno di cavalieri che levano al cielo le insegne imperiali a forma di aquila d'oro, che sembrano muoversi al vento. Sembra che la vedova si rivolga a Traiano e gli chieda giustizia per il figlio ucciso, mentre l'imperatore risponde di attendere il suo ritorno. La vedova ribatte che Traiano potrebbe non tornare, e lui replica che il suo successore le darà soddisfazione. La vedova ricorda al principe che se un

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altro farà del bene al suo posto a lui non verrà alcun vantaggio e Traiano accetta allora di fare giustizia prima di partire, poiché prova pietà per la donna. Solo Dio, osserva Dante, può aver prodotto tali sculture, che non si sono mai viste sulla Terra e che sembrano parlare anche se non lo fanno.

Incontro con i superbi (97-139)

Due cariatidi di palazzo Puoti, Verona

Mentre Dante è attento a osservare le sculture che raffigurano esempi di umiltà, Virgilio gli sussurra che molte anime (i superbi) si avvicinano a passi lenti e saranno loro a indirizzarli verso la Cornice successiva. Dante volge subito lo sguardo, curioso di vedere queste anime, ma avverte il lettore che ciò che dirà non deve distoglierlo dai buoni propositi, dal momento che la pena è assai dura ma, nel peggiore dei casi, non può protrarsi oltre il Giorno del Giudizio. Dante chiede spiegazioni a Virgilio, perché le figure che vede non gli sembrano anime umane, così non sa che pensare. Il maestro spiega che la loro pena li obbliga a camminare curvi al suolo e lui stesso è stato incerto al primo sguardo. Dante è invitato comunque a guardar meglio e osservare le anime che procedono sotto il peso di enormi massi.

Dante prorompe in una violenta invettiva contro i cristiani superbi, che hanno la mente ottenebrata e procedono all'indietro, senza capire che noi siamo come vermi destinati a formare una farfalla angelica e a volare verso la giustizia divina. Perché invece l'animo umano insuperbisce e fa sì che l'anima resti una sorta di insetto non pienamente formato? Le anime dei superbi sono simili a quelle sculture (le cariatidi) che talvolta, nell'architettura romanica, sostengono con le spalle un soffitto a guisa di mensola, e piegano le ginocchia così da far nascere affanno a chi le osserva. I superbi hanno lo stesso aspetto, essendo piegati sotto il peso del macigno che li fa curvare in maggiore o minor misura, e quello che sembra più paziente pare dire: «Non ne posso più».

Interpretazione complessiva

Il Canto descrive l'ingresso dei due poeti nella I Cornice ed è dedicato in gran parte agli esempi di umiltà scolpiti nel bassorilievo alla base della parete del monte, mentre nell'ultima parte sono presentati i superbi e la loro pena (camminano curvi sotto dei pesanti macigni, in modo tale che anche il più paziente sembra al limite della sopportazione). L'apertura mostra Dante e Virgilio che accedono alla Cornice salendo lungo una via scavata nella roccia, che procede a zig-zag e li obbliga a camminare lentamente per evitare gli spuntoni di roccia; è questa l'interpretazione più probabile, anche se alcuni hanno ipotizzato che la roccia si muova effettivamente come un'onda, fenomeno che però Dante dovrebbe spiegare in modo più dettagliato (il sentiero tortuoso è simbolo della via ardua e difficoltosa che conduce alla salvezza, con un chiaro riferimento all'ascesa al primo balzo del Canto IV, vv. 31 ss.). La salita richiede molto tempo, visto che i due arrivano nella I Cornice quando sono circa le dieci di mattina, e una volta qui ci sono mostrati gli esempi di umiltà (cioè della virtù opposta a quella del peccato che si sconta nella Cornice), che si presentano in forma di sculture su dei bassorilievi di marmo posti sullo zoccolo della parete rocciosa, in modo che i superbi possano vederli.

Gli esempi sono tre, partendo come sempre da quello di Maria Vergine (l'Annunciazione recatale dall'arcangelo Gabriele), cui segue quello biblico di David (e al quale fa da contrappunto la moglie Micòl, dispettosa e trista per l'umiltà del sovrano) e quello classico di Traiano, la leggenda della vedova che chiede giustizia divenuta un luogo comune della letteratura medievale e all'origine della presunta salvezza dell'imperatore pagano (cui Dante dà credito, poiché includerà Traiano tra gli spiriti giusti del VI Cielo). Dante sottolinea a più riprese che tali sculture sono frutto dell'arte divina, quindi superano non solo la maestria del più grande artista classico (lo scultore greco Policleto), ma addirittura la natura che è a sua volta creazione divina. È il preannuncio di un discorso sull'arte che Dante ha già iniziato col rimprovero di Catone nel Canto II e riprenderà nel Canto XI col il discorso di Oderisi da Gubbio, che toccherà non solo le arti figurative come la miniatura o la pittura ma anche la poesia: Dante qui ribadisce che queste sculture sono estremamente realistiche, come mai potrebbero esserlo opere realizzate da artisti umani, tanto che esse ingannano la vista e sollecitano altri sensi come l'udito o l'olfatto. L'arcangelo Gabriele e Maria sembrano davvero parlare, così come le schiere di Ebrei che accompagnano l'Arca Santa sembrano cantare e solo l'udito smentisce l'impressione di Dante, mentre la vista lo ingannerebbe; allo stesso modo il fumo degli incensi raffigurato inganna l'olfatto, mentre l'esempio di Traiano e della vedova si trasforma agli occhi del poeta in una sorta di sacra rappresentazione, con attori

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in carne e ossa che si muovono sulla scena e dialogano, mentre gli stendardi con l'aquila imperiale paiono sventolare al vento. Dante sottolinea che ciò è possibile in quanto è frutto dell'arte divina, mentre l'arte umana non sarebbe certo in grado di riprodurre la realtà in modo così fedele; obiettivo dell'arte è quello di fornire insegnamenti agli uomini e non gareggiare follemente con Dio o la natura, per cui è da condannare ogni intento edonistico dell'opera d'arte così come la superbia degli artisti, oggetto del discorso di Oderisi nel Canto seguente e che tocca lo stesso Dante molto da vicino.

Una similitudine tratta dalla scultura è ancora usata per descrivere la pena dei superbi, che sembrano a Dante quelle cariatidi che, specie nell'architettura delle chiese romaniche, rappresentavano come capitelli figure umane o bestiali che sostenevano l'architrave (e facevano nascere con la finzione un autentico affanno in colui che le osservava). I superbi sono addirittura stravolti sotto il peso degli enormi macigni, per cui Dante da un lato rassicura il lettore e gli ricorda che tale pena, per quanto dura, cesserà il Giorno del Giudizio, dall'altro accusa duramente i superbi cristian, miseri lassi, che credono presuntuosamente di saper tutto e finiscono per camminare all'indietro. Gli uomini sono come vermi per la loro imperfetta fisicità, destinati a formare una angelica farfalla (l'anima libera dal peccato) purché non vengano distolti dalla loro superbia, che li fa restare antomata in difetto, insetti non pienamente sviluppati. L'insistenza sulla pericolosità della superbia e sulla durezza della sua punizione in Purgatorio, che si svilupperà anche nel Canto XII con i numerosi esempi del peccato punito, si spiega col fatto che questo è il peccato capitale più grave e che più lega l'uomo alla terra, nonché con la considerazione che proprio la superbia era stata all'origine della ribellione di Lucifero e, quindi, del male nel mondo (ciò spiega anche l'ampio risalto dato da Dante ai risvolti di tale peccato nel campo artistico, in cui lui come si è detto si sente particolarmente coinvolto).

Note e passi controversi

I vv. 7-12 indicano probabilmente che il sentiero scavato nella roccia procede tortuosamente, per cui Virgilio avverte Dante che occorre salire evitando le sporgenze e accostandosi alle rientranze (accostarsi / ...al lato che si parte); suggestiva ma poco convincente l'ipotesi che la roccia si muova effettivamente.

Lo scemo de la luna (v. 14) è la parte in ombra del disco lunare, che è la prima a toccare l'orizzonte quando la luna cala dopo il plenilunio: poiché la luna tramonta circa quattro ore dopo l'alba, sono più o meno le 10 del mattino.

I vv. 29-30 indicano con ogni probabilità che lo zoccolo della parete rocciosa del monte ha minor ripidezza (che dritto di salita aveva manco), quindi non è perpendicolare al pavimento della Cornice ma inclinato a 45 gradi circa, in modo che le anime dei superbi, pur chinate, possano vedere gli esempi scolpiti.

Policleto, citato al v. 32 come supremo esempio di arte classica, era noto nel Medioevo essendo citato varie volte dagli scrittori latini.

I vv. 55-57 descrivono la traslazione dell'Arca Santa dalla casa di Abinedab a Gerusalemme, narrata in II Reg., VI, 1-16; il v. 57 allude al fatto che Oza, uno dei condottieri del carro, toccò l'Arca in pericolo di cadere e fu folgorato da Dio, in quanto solo ai sacerdoti era permesso toccarla. Il benedetto vaso (v. 64) è ancora l'Arca.

L'umile salmista (v. 65) è re David, che secondo il racconto biblico precedeva l'Arca danzando con la veste alzata in segno di umiltà (trescando indica una danza compiuta a salti, come il «trescone» popolare). Micòl è indispettita dal fatto che David si mortifichi in tal modo e Dio la punisce con la sterilità.

La leggenda di Traiano e della vedova (vv. 73-93) era molto diffusa nel Medioevo e forse traeva origine da una scultura presente in molti archi romani, raffigurante un imperatore romano a cavallo e una donna inginocchiata accanto a lui, simbolo di una provincia sottomessa. Ciò aveva originato un'altra leggenda, quella di papa Gregorio Magno che, commosso dall'episodio, pregò intensamente per Traiano fino ad ottenerne la salvezza (la gran vittoria del v. 75), fatto accettato da molti teologi.

Le aguglie ne l'oro (v. 80) sono le aquile in campo d'oro degli stendardi romani, che Dante immaginava come vessilli in panno simili agli stendardi medievali e perciò mossi dal vento.

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L'espressione visibile parlare (v. 95) è propriamente una sinestesia, che sottolinea l'assoluto realismo delle sculture.

La frase ciascun si picchia (v. 120) può indicare che i superbi si battono il petto, oppure avere valore impersonale (ognuno di loro è tormentato dalla giustizia divina).

La forma antomata, «insetti» è un grecismo che deriva da un falso plurale, sulla base di vocaboli come problemata, dogmata, ecc. (il plur. greco, éntoma, era ritenuto sing.). Alcuni mss. leggono entomata.

Il termine pazienza (v. 138) vuol dire «capacità di sopportazione», ma è stato anche interpretato come «sofferenza» (quindi, in tal caso, l'anima che soffre di più sembra dire che non può sopportare oltre).

Argomento del Canto 1

Proemio della Cantica; Dante e Virgilio arrivano sulla spiaggia del Purgatorio. Dante vede le quattro stelle. Apparizione di Catone Uticense. Virgilio prega Catone di ammettere Dante al Purgatorio, poi cinge il discepolo col giunco.

È la mattina di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, all'alba.

Proemio della Cantica (1-12)

La nave dell'ingegno di Dante si appresta a lasciare il mare crudele dell'Inferno e a percorrere acque migliori, poiché il poeta sta per cantare del secondo regno dell'Oltretomba (il Purgatorio) in cui l'anima umana si purifica e diventa degna di salire al cielo. La poesia morta deve quindi risorgere e Dante invoca le Muse, in particolare Calliope, perché lo assistano con lo stesso canto con cui vinsero sulle figlie di Pierio trasformandole in gazze.

Dante osserva le quattro stelle. Catone (13-39)

G. Doré, La spiaggia del Purgatorio

L'aria, pura fino all'orizzonte, ha un bel colore di zaffiro orientale e restituisce a Dante la gioia di osservarlo, non appena lui e Virgilio sono usciti fuori dall'Inferno che ha rattristato lo sguardo e il cuore del poeta. La stella Venere illumina tutto l'oriente, offuscando con la sua luce la costellazione dei Pesci che la segue. Dante si volta alla sua destra osservando il cielo australe, e vede quattro stelle che nessuno ha mai visto eccetto i primi progenitori. Il cielo sembra gioire della loro luce e l'emisfero settentrionale dovrebbe dolersi dell'esserne privato.

Non appena Dante distoglie lo sguardo dalle stelle, rivolgendosi al cielo boreale da cui è ormai tramontato il Carro dell'Orsa Maggiore, vede accanto a sé un vecchio (Catone) dall'aspetto molto autorevole. Ha la barba lunga e brizzolata, come i suoi capelli dei quali due lunghe trecce ricadono sul petto. La luce delle quattro stelle illumina il suo volto, tanto che Dante lo vede come se fosse di fronte al sole.

Rimprovero di Catone e risposta di Virgilio (40-84)

G.B. Langetti, suicidio di Catone

Il vecchio si rivolge subito ai due poeti chiedendo chi essi siano, scambiandoli per due dannati che risalendo il corso del fiume sotterraneo sono fuggiti dall'Inferno. Chiede chi li abbia guidati fin lì, facendoli uscire dalle profondità della Terra, domandandosi se le leggi infernali siano prive di valore o se in Cielo sia stato deciso che i dannati possono accedere al Purgatorio. A questo punto Virgilio afferra Dante e lo induce a inchinarsi di fronte a Catone, abbassando lo sguardo in segno di deferenza. Quindi il poeta latino risponde di non essere venuto lì di sua iniziativa, ma di esserne stato incaricato da una beata (Beatrice)

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che gli aveva chiesto di soccorrere Dante e fargli da guida. In ogni caso, poiché Catone vuole maggiori spiegazioni, Virgilio sarà ben lieto di dargliele: dichiara che Dante non è ancora morto, anche se per i suoi peccati ha rischiato seriamente la dannazione; Virgilio fu inviato a lui per salvarlo e non c'era altro modo se non percorrere questa strada. Gli ha mostrato tutti i dannati e adesso intende mostrargli le anime dei penitenti che si purificano sotto il controllo di Catone. Sarebbe lungo spiegare tutte le vicissitudini passate all'Inferno: il viaggio dantesco è voluto da Dio e Catone dovrebbe gradire la sua venuta, dal momento che Dante cerca la libertà che è preziosa, come sa chi per essa rinuncia alla vita. Catone, che in nome di essa si suicidò a Utica pur essendo destinato al Paradiso, dovrebbe saperlo bene. Virgilio ribadisce che le leggi di Dio non sono state infrante, poiché Dante non è morto e lui proviene dal Limbo dove si trova la moglie di Catone, Marzia, che è ancora innamorata di lui. Virgilio prega Catone di lasciarli andare in nome dell'amore per la moglie, promettendo di parlare di lui alla donna una volta che sarà tornato nel Limbo.

Replica di Catone a Virgilio (85-111)

Catone risponde di aver molto amato Marzia in vita, tanto che la donna ottenne sempre da lui ciò che voleva, ma adesso che è confinata al di là dell'Acheronte non può più commuoverlo, in forza di una legge che fu stabilita quando lui fu tratto fuori dal Limbo. Tuttavia, poiché Virgilio afferma di essere guidato da una donna del Paradiso, è sufficiente invocare quest'ultima e non c'è bisogno di ricorrere a lusinghe. Catone invita dunque i due poeti a proseguire, ma raccomanda Virgilio di cingere i fianchi di Dante con un giunco liscio e di lavargli il viso, togliendo da esso ogni segno dell'Inferno, poiché non sarebbe opportuno presentarsi in quello stato davanti all'angelo guardiano alla porta del Purgatorio. L'isola su cui sorge la montagna, nelle sue parti più basse dov'è battuta dalle onde, è piena di giunchi che crescono nel fango, in quanto tale pianta è l'unica che può crescere lì col suo fusto flessibile. Dopo che i due avranno compiuto tale rito non dovranno tornare in questa direzione, ma seguire il corso del sole che sta sorgendo e trovare così un facile accesso al monte. Alla fine delle sue parole Catone svanisce e Dante si alza senza parlare, accostandosi a Virgilio.

Virgilio lava il viso di Dante e lo cinge con un giunco (112-136)

S. Botticelli, La spiaggia del Purgatorio

Virgilio dice a Dante di seguire i suoi passi e lo invita a tornare indietro, lungo il pendio che da lì conduce alla parte bassa della spiaggia. È ormai quasi l'alba e sta facendo giorno, così che Dante può guardare in lontananza il tremolio della superficie del mare. Lui e Virgilio proseguono sulla spiaggia deserta, come qualcuno che finalmente torna alla strada che aveva perso: giungono in un punto in cui la rugiada è all'ombra e ancora non evapora. Virgilio pone entrambe le mani sull'erba bagnata e Dante, che ha capito cosa vuol fare il maestro, gli porge le guance bagnate ancora di lacrime. Virgilio gli lava il viso e lo fa tornare del colore che l'Inferno aveva coperto, quindi i due raggiungono il bagnasciuga e il maestro estrae dal suolo un giunco, col quale cinge i fianchi di Dante proprio come Catone gli aveva chiesto di fare. Con grande meraviglia di Dante, là dove Virgilio ha strappato il giunco ne rinasce subito un altro.

Interpretazione complessiva

Il Canto si apre col proemio della II Cantica, in modo analogo al Canto II dell'Inferno in cui Dante aveva invocato genericamente le Muse: qui il poeta chiede l'assistenza di Calliope, la Musa della poesia epica che dovrà guidare la navicella del suo ingegno in un mare meno «crudele» di quello dell'Inferno che si è lasciato alle spalle (la metafora della poesia come di una nave che solca il mare era un tòpos già della letteratura classica e tornerà nell'esordio del Canto II del Paradiso). Rispetto al proemio dell'Inferno, quello del Purgatorio è più ampio e si arricchisce del mito delle figlie del re della Tessaglia Pierio, che osarono sfidare le Muse nel canto e furono vinte proprio da Calliope, venendo poi trasformate in uccelli dal verso sgraziato (le piche, cioè le gazze); Dante avvisa il lettore dell'innalzamento della materia rispetto alla I Cantica, ma ribadisce ulteriormente che il suo canto dovrà essere assistito dall'ispirazione divina, di cui le Muse sono personificazione, e che la sua poesia non avrà certo l'ardire di gareggiare follemente con Dio nel descrivere la dimensione dell'Oltretomba, troppo elevata per essere pianemente compresa dall'intelletto umano (è la concezione dell'arte del Medioevo che tornerà a più riprese nel corso della Cantica, nonché un preannuncio della poetica dell'inesprimibile che sarà al centro del Paradiso).

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Il primo dato che si offre al poeta è visivo, in quanto lui e Virgilio sono tornati all'aperto dopo la terribile discesa all'Inferno e Dante può respirare di nuovo aria pura, ammirando il cielo prima dell'alba che è di un bell'azzurro intenso; è la mattina di Pasqua, il giorno della liturgia che segna la Resurrezione di Cristo e la vittoria sul peccato, mentre Dante sta per intraprendere l'ascesa del Purgatorio che avrà per lui lo stesso effetto. Nel cielo non ancora illuminato dal sole brillano quattro stelle, la cui luce intensa colpisce Dante e gli fa compiangere l'emisfero settentrionale che non ha mai visto quella costellazione: nonostante vari tentativi di identificarla (alcuni hanno pensato alla Croce del Sud, forse nota a Dante attraverso cronache di viaggio), è probabile che le stelle simboleggino le quattro virtù cadinali, ovvero fortezza, prudenza, temperanza e giustizia, il cui pieno possesso è condizione indispensabile per il conseguimento della grazia e, quindi, della salvezza eterna. Possedere le virtù cardinali permette di raggiungere la felicità terrena, a sua volta rappresentata dal colle che Dante aveva invano tentato di scalare nel Canto I dell'Inferno, mentre ora c'è un altro monte che dovrà ascendere con la guida di Virgilio, allegoria della ragione che alla felicità terrena deve condurre; il paesaggio di questo episodio ricorda volutamente quello del Canto iniziale dell'Inferno, fatto che lo stesso Dante ribadisce nei versi finali dicendo che gli sembra di tornare a la perduta strada, che altro non è se non la diritta via che aveva smarrito e che lo aveva fatto perdere nella selva oscura.

La luce delle stelle illumina del resto anche il volto di Catone l'Uticense, il custode del Purgatorio che accoglie i due poeti accusandoli di essere dannati appena fuggiti dall'Inferno: la sua presenza in questo luogo e con il ruolo di custode del secondo regno ha creato molti dubbi fra i commentatori, in quanto sembra assai strano che un pagano, per giunta nemico di Cesare e morto suicida, possa trovarsi tra le anime salve (è Virgilio a dichiarare che la vesta, il corpo lasciato da Catone ad Utica risplenderà il Giorno del Giudizio, quando sarà ammesso in Paradiso). In realtà Dante riserva a lui questo ruolo sulla scorta di una lunga tradizione antica, che riconosceva in Catone un altissimo esempio di vita morale e dignitosa, anche fra gli scrittori cristiani che addirittura interpretavano allegoricamente la vicenda personale sua e della moglie Marzia. Dante, più semplicemente, vede in lui il simbolo di chi lotta tenacemente per la libertà politica e ne fa il simbolo della lotta per la libertà dal peccato, che è il motivo essenziale nella rappresentazione del Purgatorio; Catone è anche un esempio di salvezza clamorosa e inattesa dovuta al giudizio divino imperscrutabile, come si è visto in alcuni casi nell'Inferno (Brunetto Latini, Guido da Montefeltro) e come si vedrà nel caso ancor più «scandaloso» rappresentato da Manfredi, protagonista del Canto III. Del resto Dante afferma chiamaramente che Catone è stato nel Limbo fino a quando Cristo trionfante non lo ha tratto fuori insieme ai patriarchi biblici, quindi nonostante la sua condotta peccaminosa era già collocato fra gli antichi spiriti che si erano distinti per il possesso delle virtù terrene, come Virgilio; e la sua descrizione lo accosta proprio a un patriarca, con i suoi lunghi capelli e la barba che Dante trovava peraltro nella rappresentazione che di lui offre Lucano nel Bellum Civile (II, 373-374).

I rimproveri di Catone ai due poeti danno modo a Virgilio di riepilogare le vicende della I Cantica in una sorta di breve flashback, forse a beneficio dei lettori che non avevano letto tutto l'Inferno, e il suo discorso è un'abile suasoria con tanto di captatio benevolentiae in cui il poeta latino ricorda a Catone il suo sucidio come atto di suprema protesta per la libertà politica, gli rammenta che lui è comunque salvo e cita la moglie Marzia che lui ha conosciuto nel Limbo, promettendo di parlarle di lui se Catone li ammetterà nel Purgatorio. Il discorso di Virgilio è sostanzialmente inutile, dal momento che il viaggio di Dante è voluto da Dio e non può certo essere ostacolato da Catone, il quale infatti si affretta a dire che Marzia non ha più alcun potere su di lui e che la sola donna a legittimare il viaggio di Dante è Beatrice, che dal cielo guida i suoi passi verso la grazia. Dante può quindi procedere, ma non prima di aver compiuto un duplice atto rituale: prima di presentarsi all'angelo guardiano dovrà lavare il viso, sporco del fumo dell'Inferno e delle lacrime che l'hanno segnato in più di un'occasione, e dovrà anche cingere i fianchi di un giunco liscio, in segno di umiltà e sottomissione alla volontà divina. Il giunco è la sola pianta a crescere sul bagnasciuga della spiaggia del Purgatorio, in quanto col suo fusto flessibile asseconda il battere delle onde (segno anch'esso di sottomissione, come dimostra il fatto che il giunco è poi definito umile pianta); Dante se ne deve cingere i fianchi dopo essersi già liberato da un'altra corda, che era servita a Virgilio per richiamare Gerione alla cine del Canto XVI dell'Inferno. Non sappiamo se la cosa sia casuale o abbia un preciso significato allegorico, ma il rito conclude il Canto preannunciando ciò che avverrà negli episodi successivi e segnando il passaggio ad un luogo retto da leggi del tutto diverse rispetto a quelle del doloroso regno: la pianta strappata da Virgilio rinasce immediatamente tale qual era, il che riempie Dante di meraviglia e ci fa capire che gli orrori dell'Inferno sono definitivamente alle spalle (giova ricordare in quale ben diversa atmosfera Dante aveva strappato un altro ramoscello, quello di un albero della selva dei suicidi, dalla quale siamo evidentemente lontanissimi).

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Argomento del Canto 2

Ancora sulla spiaggia del Purgatorio. Apparizione dell'angelo nocchiero. Incontro con le anime dei penitenti, tra i quali c'è il musico Casella. Canto di Casella e rimprovero di Catone. Fuga di Dante e Virgilio.

È la mattina di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, all'alba.

Descrizione dell'alba. Apparizione dell'angelo (1-36)

Il sole sta ormai tramontando all'orizzonte di Gerusalemme, il cui cerchio meridiano sovrasta la città col suo punto più alto, e la notte, che gira opposta al sole, sorge dal Gange nella costellazione della Bilancia, in cui non si trova più quando essa supera per durata il giorno; così sulla spiaggia del Purgatorio l'aurora diventa da rossa progressivamente arancione. Dante e Virgilio sono ancora sul bagnasciuga, pensando al cammino che devono intraprendere, quando al poeta pare di vedere sul mare una luce simile a quella di Marte quando è velato dai vapori che lo avvolgono, che si muove rapidissima verso la riva. Dante distoglie un attimo lo sguardo per parlare a Virgilio, e quando torna a guardare la luce la vede più splendente e più grande. In seguito ai lati di essa compare qualcosa di bianco e un altro biancore al di sotto: il maestro resta in silenzio, fino a quando capisce che il primo biancore sono delle ali e allora grida a Dante di inginocchiarsi e di unire le mani in preghiera, perché si avvicina un angelo del Paradiso. Virgilio spiega a Dante che l'angelo non usa remi né vele o altri strumenti umani, ma tiene le ali aperte e dritte verso il cielo, fendendo l'aria con penne eterne che non cadono mai.

Incontro con le anime dei penitenti (37-75)

G. Doré, Le anime dei penitenti

Man mano che l'angelo si avvicina e diventa più visibile a Dante, questi non riesce a sostenerne lo sguardo e deve volgere gli occhi a terra. Poi il nocchiero celeste viene a riva spingendo una barchetta così leggera che non affonda minimamente nell'acqua; l'angelo sta a poppa e nella barca di sono più di cento anime, che intonano a una voce il Salmo In exitu Israel de Aegytpo. L'angelo fa loro il segno della croce, quindi le anime si gettano sulla spiaggia e il nocchiero riparte con la stessa velocità con cui è giunto. La folla delle anime si guarda intorno, come qualcuno inesperto di un luogo, mentre il sole è ormai alto e la costellazione di Capricorno sta già declinando dalla metà del cielo. I nuovi arrivati si rivolgono ai due poeti chiedendo di mostrargli la via per il monte, ma Virgilio li informa che anch'essi sono appena arrivati in quel luogo, attraverso una via talmente aspra che l'ascesa del monte sembrerà uno scherzo. Le anime si accorgono che Dante respira ed è vivo, impallidendo per lo stupore: esse si accalcano intorno a lui per la curiosità, come fa la gente attorno al messaggero che porta notizie di pace, quasi dimenticandosi di accedere al monte per purificarsi dai loro peccati.

Incontro con Casella (76-111)

Dante vede una della anime farsi avanti per abbracciarlo, il che spinge il poeta a fare altrettanto, ma i suoi tre tentativi vanno a vuoto in quanto le braccia attraversano lo spirito, inconsistente, e tornano al suo petto. Dante è stupito e l'anima sorride, invitandolo a separarsi dagli altri penitenti. Il poeta lo segue e i due si appartano, finché Dante lo riconosce come l'amico Casella e lo prega di fermarsi un poco a parlargli: il penitente risponde dicendo che gli vuole bene da morto come da vivo, e gli chiede perché si trova in quel luogo. Dante risponde che fa questo viaggio per salvarsi l'anima e chiede a sua volta a Casella perché giunga solo ora in Purgatorio dopo la sua morte. Il penitente spiega che non gli è stato fatto alcun torto se l'angelo nocchiero gli ha negato più volte di condurlo lì, poiché la sua volontà è conforme a quella di Dio. In realtà, spiega, da tre mesi l'angelo ha raccolto tutti quelli che hanno voluto salire sulla barca: è stato allora che Casella è stato preso alla foce del Tevere, dove si raccolgono tutte le anime non destinate all'Inferno e dove l'angelo si è diretto dopo aver lasciato la spiaggia del Purgatorio. A questo punto Dante prega Casella, se una nuova legge non glielo vieta, di confortarlo col suo canto come faceva quand'era in vita, poiché il poeta è giunto lì con tutto il corpo ed è quindi particolarmente affaticato.

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Il canto di Casella. Rimprovero di Catone (112-133)

S. Martini, Musici (B. Inf. Assisi)

Casella inizia a intonare la canzone Amor che ne la mente mi ragiona, cantando con tale dolcezza che essa è ancora presente nell'animo di Dante. Non solo lui, ma anche Virgilio e tutte le anime stanno ad ascoltare il canto di Casella, contenti e appagati come se non avessero altri pensieri. Sono tutti attenti alle note, quando ricompare all'improvviso Catone che rimprovera aspramente le anime, accusandole di lentezza e negligenza e spronandole a correre al monte per purificarsi dai peccati che impediscono loro di vedere Dio. Le anime fuggono disordinatamente verso il monte, come quando i colombi, che stanno beccando tranquillamente il loro pasto, sono spaventati da qualcosa e volano via d'improvviso, e anche i due poeti scappano allo stesso modo.

Interpretazione complessiva

Il Canto è strutturalmente diviso in due parti, che corrispondono all'arrivo dell'angelo nocchiero con la barca dei penitenti e all'incontro col musico Casella, che si conclude col rimprovero di Catone che, come si vedrà, non è privo di significato allegorico. L'episodio è aperto dall'ampia e complessa descrizione astronomica dell'alba, che rappresenta un piccolo proemio dopo quello della Cantica del Canto I: Dante descrive il sole e la notte come due figure astronomiche che percorrono la stessa strada ai punti opposti del cielo, per cui il sole sta tramontando sull'orizzonte di Gerusalemme e la notte spunta sul Gange, il punto estremo dell'Occidente; essa è in congiunzione con la costellazione della Bilancia che, metaforicamente, tiene in mano, mentre le cade di mano quando supera in durata il giorno (vuol dire che dopo l'equinozio di autunno è il sole ad essere in congiunzione con la Bilancia). L'immagine si completa con quella dell'Aurora, personificata come la dea classica, che è rossastra quando il sole sta per sorgere e diventa giallo-arancione ora che sull'orizzonte del Purgatorio è l'alba. La metafora astronomica proseguirà a metà circa del Canto, quando Dante spiegherà che il sole è salito nel cielo tanto da aver cacciato il Capricorno dallo zenit, dardeggiando con le sue saette ogni punto della spiaggia.

A questo inizio stilisticamente sostenuto segue poi l'apparizione dell'angelo nocchiero, non a caso introdotta anch'essa da un'immagine astronomica (quella di Marte che rosseggia talvolta nel cielo del mattino, temperato dai vapori che lo avvolgono). È il primo incontro con un ministro celeste e la sua apparizione avviene per gradi, con la descrizione della luce che si muove rapidissima, del biancore che appare ai suoi lati (le ali) e al di sotto (la veste), infine con Virgilio che invita Dante a inginocchiarsi in segno di riverenza poiché ormai vedrà di sì fatti officiali. Quasi tutti i commentatori hanno sottolineato l'enorme differenza tra questo traghettatore e il nocchiero infernale Caronte, che trasportava le anime dannate al di là dell'Acheronte: l'angelo non usa strumenti umani, non ha remi né vele, si limita a spingere da poppa la barca che non affonda nell'acqua e dentro la quale più di cento anime intonano il Salmo che rievoca la fuga degli Ebrei dall'Egitto (il fatto era interpretato come allegoria della liberazione dal peccato). Il vasello snelletto è leggiero è il lieve legno che dovrà portare Dante in Purgatorio, come lo stesso Caronte gli aveva predetto in Inf., III, 91-93 e da esso le anime si accalcano sulla riva, inesperte del luogo e incerte sulla direzione da prendere; si stupiscono nel vedere che Dante è vivo e gli si accalcano intorno come un messaggero che porta buone notizie (è uno schema che si ripeterà più volte nei primi Canti del Purgatorio, in totale difformità dagli incontri con i dannati che erano dominati da sentimenti ben diversi).

L'incontro con l'amico e musico fiorentino Casella è il primo colloquio con l'anima di un penitente nel secondo regno, e l'episodio costituisce una pausa narrativa caratterizzata da grande serenità e pace dopo l'asprezza della discesa attraverso l'Inferno. Al di là della difficile identificazione del personaggio, su cui si sono fatte varie congetture, il dato significativo è il grande affetto che egli ancora dimostra a Dante (che tenta inutilmente tre volte di abbracciarlo, con evidente imitazione di due passi virgiliani), mentre l'incontro dà modo a Dante di puntualizzare alcune cose fondamentali circa il destino delle anime non dirette all'Inferno: è Casella a spiegare che le anime salve si raccolgono alla foce del Tevere, dove l'angelo raccoglie chi lui vuole e quando vuole, secondo la imperscrutabile volontà divina, il che giustifica il fatto che lui giunga solo ora in Purgatorio (la cosa aveva stupito Dante, che lo sapeva morto da qualche mese). L'indizione per l'anno 1300 del Giubileo da parte di Bonifacio VIII ha permesso a tutte le anime di salire sulla barca ed è per questo che Casella ha potuto fare il suo arrivo in Purgatorio: Dante gli chiede di cantare per lui, per confortarlo della fatica del viaggio che sta compiendo, e l'amico esaudisce la sua

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preghiera intonando la canzone Amor che ne la mente mi ragiona (quella commentata nel III Trattato del Convivio), che probabilmente lui stesso aveva musicato. La canzone, forse dedicata inizialmente a Beatrice e rientrante nei canoni dello Stilnovo, nel Convivio era stata reinterpretata allegoricamente alla luce della donna gentile e della Filosofia, quindi rimanda al periodo del cosiddetto «traviamento» di Dante e del peccato che la stessa Beatrice gli rifaccerà nei Canti finali del Purgatorio; il canto di Casella è così melodioso che tutti, incluso Virgilio, si attardano ad ascoltarne le note, come se nessun altro pensiero toccasse loro la mente, avvinti dal potere della musica che Dante, proprio nel Convivio, descriveva come irresistibile.

È a questo punto che si inserisce il duro rimprovero di Catone, che riappare all'improvviso e mette fine al canto esortando gli spiriti a non essere lenti, a non peccare di negligenza indugiando ad ascoltare la bella musica invece di correre al monte per iniziare il percorso di purificazione. Il richiamo non è casuale e si comprende alla luce del significato che alla musica e all'arte in genere era assegnato nel Medioevo: fine dell'arte non è quello di dare piacere o quetar tutte le voglie dando appagamento all'anima, come per lo più ritiene la concezione moderna, bensì quello di fornire un utile ammaestramento e insegnamento di carattere morale per raggiungere la salvezza. Ogni manifestazione artistica che distolga l'animo umano dai suoi doveri e lo appaghi inducendo a dimenticarsi dei propri obblighi non solo è disdicevole, ma addirittura pericolosa sul piano religioso: in questo senso va interpretato il rimprovero di Catone, così come la reazione delle anime che scappano disordinatamente verso il monte (inclusi Dante e Virgilio); il fatto che la canzone scelta da Dante fosse dedicata alla Filosofia e sia tratta dal Convivio non è forse del tutto casuale, poiché è probabile che quell'opera costituisse un tentativo pericoloso sul piano dottrinale di arrivare alla verità non attraverso la grazia e la teologia, ma esclusivamente con l'uso della ragione umana. Dante respinge quindi qualsiasi concezione dell'arte, inclusa la poesia, di carattere puramente edonistico e non finalizzata alla salvezza spirituale, come del resto già aveva fatto nell'episodio di Paolo e Francesca che stavano leggendo per diletto la storia di Lancillotto e Ginevra ed erano caduti nel peccato: il canto solitario di Casella si contrappone a quello del Salmo che tutte le anime avevano intonato a una voce, il cui scopo non era però quello di consolare l'anima afflitta ma celebrare la liberazione dal peccato e dai vincoli terreni (e un analogo discorso sull'arte, soprattutto su quella figurativa e sulla poesia, verrà affrontato anche nei Canti X, XI e XII dedicati ai ai superbi della I Cornice, per comprendere il quale sarà indispensabile tener presente proprio la natura morale del richiamo di Catone).

Argomento del Canto 3

Ancora sulla spiaggia del Purgatorio. Discorso di Virgilio sulla giustizia divina. Incontro con le anime dei contumaci. Colloquio con Manfredi di Svevia.

È la mattina di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, alle sette.

Ripresa del cammino (1-18)

Dopo i rimproveri di Catone e la fuga precipitosa delle anime verso la montagna, Dante si stringe a Virgilio, senza la cui guida fidata non potrebbe certo proseguire il viaggio. Il maestro sembra essere punto dalla propria coscienza, così monda e dignitosa che anche il più piccolo errore le provoca un forte rimorso. Quando Virgilio prende a camminare senza la fretta che toglie decoro a ogni gesto, Dante inizia a guardarsi attorno e osserva la montagna, che si erge verso il cielo più alta di qualunque altra. Il sole brilla rossastro dietro di lui e proietta l'ombra davanti, dal momento che Dante ne scherma i raggi col proprio corpo.

Paura di Dante e rimprovero di Virgilio (19-45)

Dante vede all'improvviso che c'è solo la sua ombra sul terreno e non quella di Virgilio, quindi si volta a lato col terrore di essere abbandonato: il maestro ovviamente è lì e lo rimprovera perché continua a diffidare e non crede che sia accanto a lui per guidarlo. Virgilio spiega che il corpo mortale nel quale lui faceva ombra riposa a Napoli, dove fu traslato da Brindisi e dove adesso è già sera, quindi Dante non deve stupirsi che la sua anima non proietti un'ombra proprio come i cieli non fanno schermo al passaggio della luce. La giustizia divina fa in modo che i corpi inconsistenti delle anime soffrano tormenti fisici, in un modo che non vuole che si sveli agli uomini, per cui è folle chi spera con la sola ragione umana di poter capire i misteri della fede. La gente deve accontentarsi di ciò che è stato rivelato, perché se avesse

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potuto veder tutto non sarebbe stato necessario che Gesù nascesse. Grandi filosofi hanno desiderato vanamente di conoscere questi misteri, e il loro ingegno glielo avrebbe permesso se ciò fosse stato possibile, mentre ora tale desiderio è la loro pena. Virgilio parla di Aristotele, di Platone e molti altri; poi resta in silenzio, china la fronte e rimane turbato.

Incontro coi contumaci (46-102)

G. Doré, Le anime dei contumaci

I due poeti intanto sono giunti ai piedi del monte: la parete è così ripida che è impossibile scalarla, tanto che la roccia più impervia della Liguria sarebbe un'agevole scala al confronto. Virgilio si ferma e si chiede da quale parte ci sia un accesso più facile al monte; e mentre lui riflette guardando a terra, e Dante osserva in alto la montagna, da sinistra appare un gruppo di anime che si muovono lentissime verso di loro. Virgilio esorta il discepolo ad andare verso di esse poiché si muovono piano, e lo invita a rafforzare la speranza poiché saranno loro a fornire indicazioni. Dopo mille passi le anime sono ancora molto lontane, quando esse si accorgono dei due poeti e si stringono alla roccia. Virgilio chiede loro dove sia l'accesso al monte, dal momento che essi non vogliono perdere tempo. Le anime iniziano ad avanzare, simili alle pecorelle che escono dal recinto una dietro l'altra senza sapere dove vanno e perché, poi le prime vedono che Dante proietta l'ombra e si arrestano, tirandosi indietro e inducendo le altre a fare lo stesso. Virgilio le rassicura dicendo che Dante è effettivamente vivo, ma non è certo contro il volere divino che egli cerca di scalare il monte. I penitenti fanno cenno con le mani di tornare indietro e procedere nella loro stessa direzione.

Incontro con Manfredi (103-145)

Battaglia di Benevento, min. del XIV sec.

Una delle anime si rivolge a Dante e lo invita a guardarlo, per capire se lo ha mai visto sulla Terra. Il poeta lo osserva e lo guarda con attenzione, vedendo che è biondo, bello e di nobile aspetto, e ha uno dei sopraccigli diviso da un colpo. Dopo che il poeta gli ha risposto di non averlo mai visto, il penitente gli mostra una piaga che gli attraversa la parte alta del petto, quindi di presenta come Manfredi di Svevia, nipote dell'imperatrice Costanza d'Altavilla. Egli prega Dante, quando sarà tornato nel mondo, di dire a sua figlia Costanza la verità sul suo stato ultraterreno. Manfredi racconta che dopo essere stato colpito a morte nella battaglia di Benevento, piangendo si pentì dei suoi peccati e nonostante le sue colpe fossero gravissime fu perdonato dalla grazia divina. Male fece il vescovo di Cosenza, istigato da papa Clemente IV, a far disseppellire il suo corpo che giaceva sotto un mucchio di pietre vicino a un ponte e a farlo trasportare a lume spento fuori dai confini del regno di Napoli, lungo il fiume Liri. La scomunica della Chiesa infatti non impedisce di salvarsi finché c'è un po' di speranza, anche se chi muore in contumacia deve poi attendere nell'Antipurgatorio un tempo superiore trenta volte al periodo trascorso come scomunicato, a meno che qualcuno con le sue preghiere non accorci questo periodo. Manfredi prega dunque Dante di rivelare tutto questo alla figlia Costanza, perché lei con le sue preghiere abbrevi la sua permanenza nell'Antipurgatorio.

Interpretazione complessiva

Il Canto si divide strutturalmente in tre parti, che corrispondono al rimprovero di Virgilio a Dante (1-45), all'incontro con le anime dei contumaci (46-102) e al colloquio col protagonista dell'episodio, Manfredi di Svevia (103-145). I tre momenti sono strettamente legati dal punto di vista tematico, perché ruotano intorno al complesso e delicato problema della grazia e della giustizia divina imperscrutabile: la paura di Dante che crede di essere abbandonato poiché non vede l'ombra di Virgilio accanto alla sua (una situazione che non poteva presentarsi all'Inferno, nel buio delle viscere della Terra) provoca il rimprovero di Virgilio che spiega il carattere inconsistente e umbratile delle anime, sottolineando però il fatto che la volontà divina fa in modo che questi corpi aerei possano subire pene e tormenti fisici. Come ciò possa avvenire è inspiegabile con la sola ragione umana, il che dà modo al maestro di pronunciare un duro rimprovero a tutti coloro che hanno la folle pretesa di svelare i misteri della fede con l'ausilio del solo intelletto. È un tema centrale nel poema, già affrontato nell'episodio di Ulisse (il cui folle volo oltre le colonne d'Ercole costituiva il superamento dei limiti della ragione umana, peccaminoso e punito con la

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morte) e alla base probabilmente del «traviamento» che ha condotto Dante nella selva: la ragione può condurci alla sola felicità terrena, al possesso delle virtù cardinali che non assicurano la salvezza eterna per la quale è indispensabile la grazia divina. Nello sfogo di Virgilio c'è anche il suo dramma personale, di un uomo saggio che è vissuto in modo retto ma non ha conosciuto Dio ed è quindi relegato per sempre nel Limbo senza alcuna possibilità di redenzione; gli uomini non possono conoscere tutto e per le questioni di fede devono accontentarsi del quia, di ciò che è stato rivelato, senza la pretesa di spiegare con l'intelletto ciò che non è razionalmente spiegabile (come cercarono di fare i filosofi pagani, tra i quali Virgilio include forse anche se stesso, esclusi per sempre dalla redenzione in base al giudizio divino che è appunto imperscrutabile, inesplicabile col solo ausilio della ragione).

La giustizia divina ha invece salvato il gruppo di anime che i due poeti incontrano successivamente, dopo essersi fermati di fronte alla parete scoscesa e inaccessibile del monte che sembra invalicabile a chi va sanz'ala: sono le anime dei contumaci, di coloro che sono morti dopo essere stati scomunicati dalla Chiesa e devono trascorrere un tempo lunghissimo nell'Antipurgatorio prima di poter accedere alle Cornici (fra loro Dante incontrerà Manfredi). L'episodio è come un intermezzo narrativo posto tra la parte iniziale, molto sostenuta stilisticamente, e il successivo colloquio col re di Sicilia, caratterizzato dall'estrema lentezza con cui si muovono le anime e dalla similitudine delle pecorelle che escono dal recinto una dietro l'altra, senza sapere dove vanno e perché. È stato osservato che questo paragone non è casuale, sia perché la pecora è animale simbolo di mansuetudine ed è spesso citato nei Vangeli come immagine del buon fedele cristiano, sia soprattutto perché l'attitudine di queste anime (il fatto di muoversi senza opporre resistenza, senza sapere dove vanno) è la traduzione visiva del discorso fatto prima da Virgilio, del dovere del cristiano di accontentarsi del quia lasciandosi guidare dai ministri della Chiesa verso la salvezza, senza avere la pretesa intellettuale di veder tutto (al contrario della capra, animale anch'esso citato spesso nei Vangeli come l'esempio opposto e caratterizzato da riottosità e selvatichezza, immagine del cattivo fedele che si ribella all'autorità della Chiesa: cfr. XXVII, 76 ss., dove le capre sono definite rapide e proterve / sovra le cime). Il paragone acquista ancor più significato se si pensa che queste sono appunto le anime degli scomunicati, che per motivi giusti o sbagliati si sono ribellati all'autorità della Chiesa e non hanno certo dimostrato mansuetudine quand'erano in vita.

Tra loro c'è anche Manfredi e il suo personaggio consente a Dante di fare un importante discorso intorno alla salvezza e alla giustizia divina, che opera una sintesi tra la prima e la seconda parte del Canto. Da un lato, infatti, il re svevo è il cattivo cristiano che si è mostrato riottoso all'autorità ecclesiastica e che per motivi politici si è attirato la punizione della Chiesa (questo indipendentemente dal giudizio che Dante può dare sulla sua vicenda), ma al tempo stesso è salvo in Purgatorio e rappresenta dunque un esempio clamoroso e inatteso di come la grazia divina possa beneficare anche un personaggio che con la sua fama è stato posto fuori dalla comunità del fedeli. Manfredi rappresenta un vero e proprio «scandalo», ben più di Catone in quanto il sovrano era un protagonista della storia recente dell'Italia di Dante: morto violentemente a Benevento, scomunicato dalla Chiesa come ribelle all'autorità papale, colpito dalla durissima pubblicistica guelfa che lo dipingeva come una specie di Anticristo (essendo anche figlio illegittimo di Federico II), tutto lasciava presupporre che fosse dannato all'Inferno, mentre il suo sincero pentimento in punto di morte gli ha guadagnato la salvezza e lo colloca tra le anime del Purgatorio. Dante vuole affermare che la giustizia divina si muove secondo criteri che non sono sempre evidenti al mondo e che il destino ultraterreno degli uomini dipende non solo dalle loro azioni terrene (i peccati di Manfredi erano stati, per sua stessa ammissione, orrendi), ma soprattutto dalla sincerità del loro pentimento che solo Dio può leggere nel profondo del cuore (è il caso opposto a quello di Guido da Montefeltro, che tutti credevano salvo perché fattosi francescano, ma che invece è dannato perché il suo pentimento non era sincero). La polemica di Dante è quindi rivolta contro le istituzioni ecclestiastiche corrotte, che si arrogano il diritto di stabilire in modo irrevocabile il destino ultraterreno dei loro nemici, mentre solo Dio può sapere con certezza se uno, dopo la morte, sia salvo o dannato: le parole di Manfredi sono rivolte soprattutto alla figlia Costanza, che sapendo della sua salvezza può pregare per lui e accorciare il periodo di attesa nell'Antipurgatorio (il che è un'ulteriore polemica contro la Chiesa che lucrava sulle preghiere per i defunti, che invece sono demandate alla fede dei congiunti rimasti in vita). Lo «scandalo» di Manfredi riafferma dunque il discorso di Virgilio in apertura di Canto, ovvero il fatto che l'uomo non può sapere tutto e che c'è un limite alla ragione umana, per cui la giustizia divina non è sempre spiegabile razionalmente o alla luce soltanto delle azioni pubbliche di un personaggio: occorre l'umiltà, anche da parte di papi e vescovi, di rimettersi al giudizio divino, come ha fatto Manfredi che non ha parole astiose nei confronti di chi (come papa Clemente IV o il vescovo di Cosenza) ha disseppellito i suoi resti e li ha dispersi come si usava fare con gli scomunicati. Il tema della giustizia divina è ovviamente al centro del poema e presenterà altri esempi di salvezze inattese, come quella di Bonconte da Montefeltro o di Rifeo e

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Traiano in Paradiso, ed è parte della durissima polemica contro le istituzioni della Chiesa corrotte che grande spazio avrà specie nella III Cantica, in particolare nei Canti XIX-XX che si svolgeranno nel Cielo di Giove dove si manifestano gli spiriti che hanno operato in nome della giustizia.

Il Canto dedicato a Casella è l'ennesima dimostrazione che nell'ambito della Commedia la migliore poesia s'impone là dove Dante tratta non i contenuti religiosi ma quelli morali: qui l'amicizia dei tempi giovanili con un artista amante della musica, suonata e cantata.

Il Canto pare un inno alla gioia di vivere, espressa dal canto comune, improvvisamente interrotto da un'istanza superiore, di tipo religioso, impersonificata da Catone. L'incongruenza sta nel fatto che mentre Catone era pagano e qui rappresenta un'esigenza di perfezione cristiana, Casella invece, ch'era cristiano, qui ama godere della bellezza artistica come fosse un pagano.

Lo stesso si verifica nel modo di descrivere i protagonisti dell'episodio: l'angelo di luce, emissario di dio, è semplicemente straordinario, meraviglioso, ma muto, impersonale, quasi indifferente ai travagli delle coscienze individuali dei defunti, come se stesse svolgendo una funzione di tipo amministrativo, di intermediazione. Le anime invece appaiono meste, non sanno bene dove andare, sembrano come smarrite, sperdute e subito si entusiasmano al vedere Dante e Virgilio, specie il primo che pare ancora in carne ed ossa a motivo del suo respiro. E' grande l'umanità con cui vengono descritte.

La vera condizione umana non è quella infernale dei disperati, ancorché tra questi il lettore ne avrebbe messi molti quanto meno in purgatorio, e neppure quella paradisiaca dei credenti nel dio della chiesa romana, ma è quella di chi conserva la libertà di agire, di poter realizzare autonomamente la propria umanità.

Lasciando ora perdere la contorta perifrasi astronomica (2) che apre il Canto, e che a null'altro è servita se non a rendere edotto il lettore che si sta uscendo dalle tenebre dell'inferno per entrare nell'aurora del paradiso, la cui luce, al momento, è ancora tenue essendo ancora lungo il percorso da fare, vediamo di nuovo la figura dell'angelo, poiché è la prima a venire descritta.

L'angelo, che sta a poppa del vascello, sembra farlo volare alla velocità della luce ed è egli stesso fascio di luce, globo luminoso, di colore intensissimo, che va assumendo lentamente una forma particolare, distinguibile. Due macchie bianche laterali diventano ali. Dante, pur essendo imbevuto com'è di teologia, non riesce subito a identificare quella forma, ha bisogno dell'intervento di Virgilio, che, ben sapendo che quell'emissario rappresenta il potere divino, si allarma e grida a Dante d'inginocchiarsi. Un poeta pagano dice a un poeta cristiano come comportarsi davanti a un'esperienza mistica, che di mistico poi ha ben poco, se non la straordinarietà della visione, della sua non naturalità terrestre.

Anche il Pascoli s'è accorto di questa cosa, ma siccome è un latinista e sa bene quanto Dante si senta debitore nei confronti dell'Eneide di Virgilio, specie per le prime due Cantiche, non se ne preoccupa e non intravvede nella richiesta di Virgilio un qualcosa di puerile se non di idolatrico, e preferisce invece contrapporre l'angelo nocchiero a Ulisse, che navigava nello stesso mare, seguendo "virtute e conoscenza". Navigava in vista d'una "nuova terra", addirittura - azzarda il Pascoli - verso la stessa montagna del purgatorio, essendo collocata da Dante nell'emisfero australe, senza però riuscire a trovarla, in quanto le onde lo sommersero. E il fallimento fu dovuto proprio al fatto che la sua azione aveva come ultimo movente l'arbitrio personale (che rese "folle il suo volo"): non c'era vera virtù umana, come in Catone Uticense, che porta le anime verso il monte del purgatorio, per quanto anche Catone,

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essendo un suicida, non possa rappresentare la virtù retta da dio. D'altra parte anche Virgilio, nella Commedia, rappresenta l'umana conoscenza senza la luce della teologia.

Pascoli non contrappone soltanto l'azione degli uomini senza la fede (Ulisse) alla contemplazione dell'angelo, ma anche quest'ultima all'azione traghettatrice di Caronte, che nell'inferno non può servirsi della croce, come strumento di salvezza, al cospetto di anime che bestemmiano dio.

In realtà a noi appare che qui Dante sia come un uomo schiacciato da un potere infinitamente superiore, che lo sovrasta sotto ogni punto di vista. Appare come un uomo sconcertato, neppure tanto sicuro di dover eseguire alla lettera quanto il suo "duca" in quel momento gli chiede. Infatti non scrive che eseguì prontamente l'ordine gridato. E' ancora troppo abituato all'umanità dei rapporti "infernali" di cui ha appena fatto esperienza.

A proposito di questo, la prima parte del Canto delinea anche un altro tipo di contrasto, quello tra l'anima scientifica di Dante, interessata all'astronomia e alla geografia, e l'anima mistica, interessata alla teologia. Nel primo caso egli fa "scienza" (nei limiti del suo tempo), nel secondo sembra che faccia "fantascienza".

La figura dell'angelo infatti rappresenta un esempio di perfezione divina: è velocissimo, in grado di spostarsi in maniera prodigiosa da un punto all'altro dell'oltretomba dei non condannati alla pena eterna, usando semplicemente le proprie ali come remi e vele allo stesso tempo, completamente diverse da qualunque mezzo umano, aventi la caratteristica (aristotelica) della immutevolezza, della durata, della perfezione tecnica. Sono ali che lo rendono migliore di Ulisse - dirà il Pascoli - proprio perché la sua sicurezza non è umana ma divina. Di qui la possibilità di guidare con estrema disinvoltura il proprio vascello, che prodigiosamente sta addirittura sopra il pelo dell'acqua. Con la differenza però - ma questo Dante non lo dice e neppure il Pascoli - che per Ulisse i marinai erano compagni d'arme e d'avventure, per quanto usati per soddisfare i propri capricci, mentre qui l'angelo si comporta come uno scrupoloso burocrate di dio.

Di fronte a così tanta forza divina, Virgilio non ha dubbi nel chiedere a viva voce al poeta d'inginocchiarsi tenendo giunte le mani, come un servo davanti al suo padrone, un pio credente al cospetto di un'autorità religiosa, riconoscendogli quindi tutto il potere che gli compete. Dante ascolta in silenzio, ma non fa quel che gli viene detto, perché sa che il suo spirito è superiore a quello di Virgilio, avendo maggiore coscienza della libertà umana. Anche perché vuol rendersi conto di persona dell'identità di quella strana "cosa" bianca, tanto informe quanto veloce, somigliante più a un uccello che a un essere umano.

Quand'essa gli si avvicina, è così accecante da dar fastidio, al punto che Dante è costretto a tenere gli occhi bassi. Ma la cosa strana è che quel "nocchiero celeste" non è minimamente interessato alla presenza di due quei estranei, non si ferma a parlare con loro, non li saluta, non indica neppure la strada del viaggio: pur vendendoli in difficoltà o pur sapendo che lo sono, non spiega loro nulla. Egli è soltanto il pilota di una nave molto "snella e leggera", colma di oltre cento anime destinate al paradiso, ma passando prima per la via del purgatorio, anime che cantano, all'unisono, il salmo 114 (113 A), già ben disposte a credere nella maestà divina.

Dunque son tutti veloci, tutti si spostano alla velocità della luce, visto che sono tutti nella stessa barca, eppure uno solo brilla di luce propria, l'unico a non apparire "umano", l'unico che, al vedere Dante e Virgilio, non dirà una parola, non esprimerà il benché minimo sentimento, come fosse un robot che

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esegue il volere altrui senza discutere. Dopo aver fatto scendere le anime sulla spiaggia, e quindi dopo aver visto i due poeti, quello se ne ritorna donde era venuto, senza fare altro, senza dire nulla, come se la sua identità coincidesse con la sua funzione, col suo mandato, come se la sua magnificenza gli fosse stata semplicemente imposta da una volontà superiore e quindi fosse estrinseca alla sua persona, se pur di "persona" si può parlare (Dante, non senza ironia, lo chiama "uccel divino"). L'unica cosa che fa, prima di andarsene velocemente, è quella di benedire le anime spiaggiate, come fosse un sacerdote al cospetto di crociati in procinto d'andare in guerra.

Quelle erano anime di cristiani che, a quanto pare, conoscevano a memoria l'inno pasquale anticotestamentario ed erano in grado di cantarlo in coro, come fossero in chiesa (nel purgatorio s'incontreranno spesso gruppi di persone), ma che, nonostante questo, non sapevano ancora cosa fare. Chi fossero e da dove provenissero non è dato sapere. All'inizio del Canto, Dante aveva scritto che stava appena diventando giorno. Ora, nonostante la scena osservata sia stata brevissima, lo dice di nuovo: il sole stava rischiarando ogni cosa, come per voler dire che le anime erano uscite dal buio della schiavitù e stavano entrando nella luce della libertà. Il salmo indica il riscatto degli oppressi ed è strano che qui per godersi il paradiso debbano fare anticamera nel purgatorio.

Ancora più strano è il fatto che esse, appena sbarcate sulla spiaggia, da dove poi dovranno scalare il monte del purgatorio, non sappiano dove andare, non essendo state consegnate immediatamente a nessuno in particolare (nella fattispecie doveva essere Catone, ma apparirà solo alla fine del Canto). Sono anime contente perché hanno cantato insieme sul vascello ben guidato dall'angelo, ma ora son come spaesate e addirittura chiedono ai due poeti che vedono sulla spiaggia quale sia il percorso da fare per raggiungere il "monte della purificazione", di cui devono aver saputo qualcosa dallo stesso angelo. Sanno quello che devono fare (purificarsi) ma non il come. Brutta questa concezione dell'oppresso, che ha sempre bisogno di qualcuno che gli dica come comportarsi.

Virgilio spiega loro che, con l'amico Dante, sono giunti lì passando per un inferno ultraterreno non per quello della vita mondana, per cui non possono aiutarli, benché sia convinto che, rispetto alle difficoltà già incontrate, la salita sul monte sarà un gioco da ragazzi. Dante però non può star lì a guardare, deve trovare un pretesto per intervenire, non può limitarsi a fare erudite descrizioni geo-astronomiche e fanta-scientifiche. E l'occasione la trova, in maniera geniale, nel suo stesso alito.

L'anime, che si fuor di me accorte, / per lo spirare, ch'i' era ancor vivo, / maravigliando diventaro smorte. Non vedono propriamente l'alito, come accade quando l'aria è molto fredda, ma vedono che respira come un essere umano (bisognoso di ossigeno, che a quanto pare non manca nell'aldilà). Le anime diventarono "smorte", cioè impallidirono, pur essendo senza corpo. Loro, umane, si meravigliano di una caratteristica umana; loro, appena morte, si stupiscono di ciò che non le appartiene più: il respirare. Non respirano come umani, però impallidiscono, come l'angelo certamente non avrebbe mai potuto fare, forse non solo perché sovrumano ma anche perché perfettamente consapevole di tutto.

Ora le anime sembrano come gli ebrei che nell'ingresso messianico di Gerusalemme stesero i loro mantelli al passaggio del Cristo. Ecco trovata l'occasione per sentirsi al centro dell'attenzione. In questa maniera il poeta può nel contempo chiarire il motivo per cui quella moltitudine si trovi proprio lì e non in paradiso.

Sono anime spontanee, curiose, forse un po' istintive, dimentiche che il loro compito non è quello d'intrattenersi a chiacchierare con una persona insolita, che non dovrebbe esser lì assolutamente e che ricorda tanto il loro passato, che invece devono dimenticare, se vogliono davvero purificarsi. Questo modo d'intendere la "purificazione", la liberazione dei propri limiti, l'ascesi personale ricorda molto gli ingressi

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dei novizi nei conventi, cui veniva interdetto qualunque rapporto coi familiari, cui veniva imposta una rottura totale e definitiva col proprio passato. Nel mondo laico si verificano ancora cose del genere in certi ambienti militari di carriera. Per diventare qualcuno devi prima dimenticare quel che sei.

L'incontro con una di quelle anime, Casella, è toccante, umanissimo, così emotivamente forte che ha indotto il Pascoli a scriverci sopra un lungo commento. Casella è l'anima che più di ogni altra avrebbe voglia di accedere al monte della salvezza eterna, perché da tempo avrebbe voluto farlo; senonché dall'angelo gli era stato impedito, per motivi che neppure l'angelo sapeva. Eppure è proprio lui che ora gli si fa avanti con l'intenzione di abbracciarlo, avendolo perfettamente riconosciuto. E la cosa, a causa della diversità della sostanza (materiale in Dante, spirituale in Casella) dei corpi, ovviamente non gli riesce.

Qui sono diverse le domande che vien spontaneo porsi.

Se Casella è in grado di rendersi conto che Dante è ancora vivo, nel senso terreno della parola, perché tenta di abbracciarlo sapendo di non poterlo fare in maniera "fisica"?

S'è Dante s'è accorto subito che non poteva abbracciarlo, essendo Casella solo un'ombra spirituale, perché ha cercato di farlo per altre due volte?

Avendo già attraversato tutto l'inferno, possibile che Dante non si fosse ancora reso conto che le anime nell'aldilà erano solo ombre evanescenti?

Dante abbraccia l'ombra senza sapere chi fosse, solo perché gli pareva di dover ricambiare così l'affetto che quella gli mostrava, oppure lo fa proprio perché l'aveva riconosciuta? o forse l'abbraccia perché ingannato dal fatto che l'aspetto di lei dava l'impressione che fosse non un'ombra ma una persona reale?

Dante e Casella si conoscevano bene e anzi dovevano essere stati molto amici se il trasporto e l'entusiasmo che li prende non li fa ragionare sugli impedimenti oggettivi che li separavano senza rimedio. Casella lo riconosce subito e, siccome era molto tempo che non lo vedeva, non resiste alla tentazione di fargli capire la propria contentezza, dimentico che nella maniera scelta (il contatto fisico) non avrebbe potuto dimostrare alcunché. Questo deve farci pensare che Casella non fosse morto da molto tempo, non avendo egli ancora interiorizzato le caratteristiche dominanti dell'ambiente in cui vive.

A Dante invece, nonostante dica a se stesso che l'aspetto delle persone resta immutato nell'aldilà, ci vuole un po' di tempo per poterlo riconoscere. Forse l'aspetto che ricordava non era esattamente lo stesso che in quel momento vedeva. Forse l'abbraccia soltanto per empatia, perché dopo tanto dolore costatato coi propri occhi nell'inferno, ha bisogno di un contatto umano. Fatto sta che il riconoscimento avviene solo dopo che quell'anima si palesa per quello che è, solo dopo ch'essa si rende conto che non può cercare con l'amico di gioventù il rapporto di un tempo.

Sconsolato Casella sembra voler riprendere il tentativo di cercare il monte della purificazione, ma Dante lo prega di fermarsi un po' con lui, ricordandogli l'affetto che li legava, e quegli accetta molto volentieri. Uno avrà pensato ch'era passato troppo tempo per poter tornare indietro, l'altro non avrà resistito all'idea di rievocare qualcosa di irrimediabilmente perduto.

Purtroppo noi non sappiamo nulla di Casella, neppure se visse a Firenze o a Pistoia (forse morì poco prima del 1300), per cui non riusciamo a capire sino in fondo il motivo della domanda circostanziata che ora Dante gli rivolge: "Com'è possibile che sia passato così tanto tempo dal giorno della tua morte a questo momento di purificazione?". Quanto tempo sia quel "tanta ora tolta" di cui parla il poeta non possiamo

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saperlo. Certamente non poca. Ma cosa significa "tanto" in una dimensione in cui secondo le Scritture "un giorno è come mille anni"? Pascoli suggerisce di pensare che il Casella fosse morto molto giovane.

La cosa che non si capisce è il motivo per cui una persona così umanamente sensibile, così poeticamente toccante, non abbia incontrato i favori delle istanze superiori, per il traghettamento verso la foce del Tevere, che qui, come noto, rappresenta la chiesa romana, maestra di verità e via di salvezza. Casella dice che l'angelo "prende nella sua barca quando e quelli che vuole", conformemente alla volontà divina.

Qui è molto strano che Dante, pur così ben disposto ad abbracciare Casella, abbia deciso di punirlo, posticipando di molto l'inizio della sua purificazione. Ancora più strano ch'egli abbia voluto premiarlo in concomitanza col giubileo del 1300, indetto dal suo peggior nemico, papa Bonifacio VIII, messo all'inferno.

Ad un certo punto Dante fa dire a Casella un'affermazione da potersi considerare politicamente grave: "Da tre mesi in qua (cioè da quando è cominciato il giubileo sulla terra) l'angelo nocchiero prende nella sua barca, senza opporsi, chiunque voglia entrarvi". Dunque le anime hanno fortunosamente avuto la possibilità di redimersi in maniera più facile, essendo stato indetto sulla terra un giubileo universale da uno dei papi più fanatici della teocrazia. Che bisogno aveva Dante di fare questa professione integralistica della fede? E perché mettere in bocca questa professione al suo caro amico di gioventù? Cosa si può dedurre, che Casella sia stato certamente un ottimo cantore ma non esattamente un buon cristiano? Casella, che non dà una spiegazione esauriente della sua ritardata beatitudine, sta fruendo di un favore immeritato o comunque inaspettato?

Siamo davvero così lontani dal vero quando diciamo che Dante ha voluto elogiare Casella come artista ma non ha voluto premiarlo come cristiano? E non è sconcertante vedere Casella premiato da dio a causa del giubileo bandìto dal peggior nemico di Dante? La stessa risposta che Dante dà a Casella: "Faccio questo viaggio per poi ripeterlo" presenta un che di convenzionale d'apparire quasi fastidioso o comunque di poco convincente. E' evidente infatti ch'egli, una volta morto, non avrebbe certo voluto ritornare all'inferno (da cui peraltro, secondo la concezione cattolica medievale, non sarebbe più potuto uscire), né andare in paradiso passando per il purgatorio. Non poteva certo essere questo il destino di un perseguitato per motivi politici e che per gli stessi motivi aveva già messo nel suo Inferno tutti i suoi peggiori avversari.

Più che una risposta davvero motivata, la frase di Dante sembra una bugia di circostanza, probabilmente dettata dal fatto che qualunque altra risposta avrebbe rischiato d'apparire fuori luogo. Non poteva certo dire d'essere lì per curiosità (sarebbe stata una sfrontatezza al cospetto delle tragedie delle anime infernali), né che stava cercando una conferma ultraterrena ai dogmi della fede (sarebbe apparso un miscredente) e neppure che gli era stato concesso un "viaggio premio" dal padre eterno a motivo della sua ottima professione di fede, superiore a quella di tanti papi teocrati.

Insomma con la sua risposta a Casella, Dante fa una professione di umiltà poco convincente. Pare anzi che non si rivolga neppure a Casella ma a un generico lettore che, dopo aver letto l'Inferno, s'era risentito della pretesa che Dante aveva di giudicare le persone come se fosse dio onnipotente (non a caso dopo la pubblicazione della prima opera, a Firenze il governo dei Neri gli rinnovò la condanna a morte). Se non s'avesse timore d'esagerare si potrebbe addirittura sostenere che pare un po' ridicolo che un uomo in grado di giudicare su un aspetto così delicato come il destino ultraterreno, faccia capire al suo amico di gioventù, che certo non sarà stato ferrato in teologia come lui, ma che non per questo era uno stupido, che il suo viaggio anticipato lo aiuterà a rifarlo nel momento cruciale della sua vita, in quanto così potrà capire meglio l'esigenza del ravvedimento morale.

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Sa davvero fosse stata questa la motivazione del viaggio, Dante sarebbe apparso al lettore come un privilegiato. Perché proprio a lui dio avrebbe voluto concedere l'onore di vedere anticipatamente quanto attende il genere umano? Non era Dante già un buon cristiano? Perché questa pretesa ingiustificata? Non era già stato detto nei vangeli che un qualunque rapporto con l'aldilà non serve a nessuno, poiché chi non ascolta "Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti si persuaderebbe"(Lc 16,31)?

Si potrebbe addirittura pensare che Dante abbia descritto l'oltremondo proprio per dimostrare allo scetticismo che aveva maturato, in materia di fede religiosa, la sua infondatezza morale, ontologica. Un politico cattolico come lui, andato profondamente in crisi per le note vicende che l'avevano colpito, non avrebbe forse potuto descrivere una situazione ultraterrena come ultima chance da concedere alla fede? La fede impossibile nelle vicende terrene, poteva ritrovare un suo significato nella vita d'oltretomba. La Commedia è dunque il testo della disperazione della fede? della sua inevitabile obsolescenza rispetto ai tempi borghesi che s'impongono?

Insieme, da giovani, erano fautori del Dolce Stil Novo: uno scriveva, l'altro suonava e insieme cantavano appassionati l'amore per le donne, angelicate, certo, ma carnali. Anzi lo stesso Dante pare si cimentasse in suoni e canti di sua composizione, che faceva poi ascoltare a giovani come Casella. Ora che si sono ritrovati che cosa cantano? Il verso chiarificatore è il 112: "Amor che ne la mente mi ragiona", che è il primo verso della canzone commentata nel III trattato del Convivio. L'oggetto è la filosofia, ritratta come una donna gentile. In quel frangente i due non potevano cantare che qualcosa di astratto. E ci piace qui osservare come la parte migliore di questo Canto del purgatorio sia proprio quella meno religiosa, quella in cui i due godono nel ricordare il tempo passato, vissuto nella spensieratezza della gioventù.

Tuttavia qui sembra esserci qualcosa di più e di peggio, almeno a carico di Casella. Ci pare anzitutto d'aver capito che mentre nell'inferno ci finivano, sul piano religioso, quelli che non riconoscevano altro dio che se stessi, nel purgatorio invece ci finiscono le mezze figure, quelle che formalmente sono ligie al dovere religioso ma che nella sostanza risultano piuttosto indifferenti, oggi diremmo "agnostiche". E la coscienza religiosa di Dante (del Dante clericale beninteso, non di quello umanista) deve per forza intervenire. E lo farà in due modi.

La domanda che Casella gli aveva rivolto, ingenuamente: "Ma tu perché, ancora vivo, fai questo viaggio?", rivolta a un uomo politicamente sconfitto, non poteva che apparire fastidiosa, per cui Dante la rimanda al mittente, dopo aver risposto nella maniera convenzionale vista sopra: "E tu come mai ci hai messo così tanto tempo, dopo la tua morte, a giungere alla soglia del monte della purificazione?".

Dante qui ha in mente il proprio passato toscano, fiorentino, che guarda senza dubbio con rimpianto, ma anche con l'orgoglio di un uomo, un politico, che non ha voluto piegarsi a illeciti compromessi. Non potrebbe tornare indietro neanche volendo, non tornerebbe a Firenze neanche se lo richiamassero, anche perché sa benissimo che se lo facessero gli imporrebbero delle condizioni inaccettabili.

Casella, se ci pensiamo bene, non può essere veramente abbracciato da lui, ma soltanto visto a distanza. Casella rappresenta infatti quella parte di Firenze che avrebbe potuto fare di più per lui ma che non lo fece, per timore di compromettersi. Sicché Dante finge di meravigliarsi che il suo amico d'un tempo si trovi ancora bloccato nel suo iter ultraterreno, anche se ora, in virtù del giubileo, può finalmente intraprendere la strada che lo porterà in paradiso. Dunque non per meriti propri, in quanto Casella era un pavido, ma per il bene che altri in vita gli avranno voluto, dimostrandolo con l'acquistare le indulgenze, egli si salverà.

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Dante insomma sembra voglia far capire che la gente come Casella, per quanto amica fosse, non fu abbastanza coraggiosa da sostenerlo nei momenti politicamente più difficili, e anche ora che è morta non ha, secondo lui, meriti sufficienti per ottenere la grazia divina, almeno non senza un concorso esterno.

La bellezza del Canto sta però proprio in questo, che Dante, pur non apprezzando politicamente Casella, lo stima molto volentieri come artista, anche perché gli fa ricordare la sua giovinezza. In fondo deve giustificare il motivo per cui lo ha messo in purgatorio e non all'inferno, seppur nel girone più leggero. Dante fa cantare l'amico per rievocare la gioventù perduta, il ricordo della patria, e non si è risentito quando quello aveva usato le parole "t'amai" senza aggiungere altro, cioè nessun riferimento alle sue ben note e tristissime vicende politiche.

Resta strano però che Dante gli chieda se la "nuova legge" ultraterrena non gli abbia tolto "memoria o uso all'amoroso canto", avendolo già poc'anzi sentito cantare un salmo insieme alle altre anime. Dante dunque stava pensando che nell'aldilà si potessero cantare solo inni e salmi religiosi e non anche melodie più profane? E allora perché gli chiede una cosa che non potrebbe fare? O forse vuol farci capire che l'oltretomba immaginato dalla chiesa è di un'insopportabile tristezza, di una durezza assai poco umana? Gli aveva forse chiesto di cantare un canto provenzale, stilnovista, che alla chiesa d'allora poteva facilmente apparire licenzioso, solo per far capire al lettore chi era Casella? chi era stato Casella per la sua giovinezza in Firenze? Possibile che a un cattolico come Dante un canto profano possa giovare meglio alla sua stanchezza del viaggio infernale, che non un canto religioso? Li aveva sentiti cantare con gioia un salmo: perché non chiedergliene un altro? Se lo chiede anche il Pascoli: "Qual nuova legge può togliere al cantore morto di cantare d'amore?".

Pascoli dice che Casella morì da giovane, perché "gracile e malato", ed era "mesto, dolcemente mesto". Se anche il Pascoli avesse ragione, non avrebbe però saputo cogliere il motivo per cui Dante lo mette in purgatorio invece che in paradiso. La Commedia non era stata scritta da un intellettuale cattolico "organico" all'establishment, ma da un politico del partito guelfo di parte bianca, che ad un certo punto era diventato ghibellino. La Commedia era stata scritta da un uomo politicamente sconfitto, che nutriva un senso di revanche nei confronti degli avversari che l'avevano obbligato all'esilio e minacciato di morte. Nei confronti di Casella non può tenere solo un comportamento etico e religioso, deve inevitabilmente averne uno anche di tipo politico, come sempre ha fatto nel corso del viaggio infernale.

L'atteggiamento per così dire "istituzionale", nel Canto, viene tenuto dall'angelo nocchiero e da Catone, che certamente non potevano permettere a Casella d'intonare un canto amoroso. Ma anche Dante non può limitarsi a tenere un atteggiamento personale, favorevole al canto amoroso, in ricordo della passata gioventù. Dante ha bisogno di far vedere sia la propria opposizione all'istituzione ecclesiastica, di cui è però costretto a riconoscere il potere politico (espresso qui dall'angelo e da Catone), sia la propria criticità nei confronti di chi non ha voluto opporsi come lui, politicamente, al potere della chiesa. E' evidente infatti che Casella non poteva essere messo in purgatorio soltanto in quanto "cantore amoroso": se anche la chiesa romana l'avesse fatto, lui vi si sarebbe opposto, e infatti chiede a Casella di cantare un canto profano. In realtà Casella viene messo in purgatorio in quanto politicamente indifferente alle sorti dell'amico Dante. Casella era stato un cantore amoroso pavido.

Il secondo modo che usa Dante per far capire a Casella il motivo per cui s'è sentito in dovere in metterlo in purgatorio è quello di far entrare improvvisamente in scena il vecchio e dignitoso Catone, che subito accusa le anime d'essere "pigre": "che negligenza! che ritardo è questo?". Catone il suicida per amore della democrazia, l'anti-Cesare per definizione, qui rimprovera le anime di non essere abbastanza risolute nel combattere le proprie debolezze. Ecco dunque rappresentata l'etica religiosa in contrapposizione

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all'estetica. Il Sapegno dirà che nell'Antipurgatorio si assiste, con Casella, "alla liberazione dalla bellezza della terra"(La Divina Commedia, Purgatorio, Biblioteca Treccani, p. 411).

"Correte dunque alla montagna - grida Catone - a spogliarvi di quella scorza che impedisce a Dio di manifestarsi in voi". Queste anime umane, che avevano già sofferto sulla terra per colpa della chiesa, sono destinate a subire ancora altri rimproveri, altre imposizioni, come ben dimostra in questo Canto il fatto che, pur avendo avuto scarso gusto per la fede, quand'erano in vita, sono ora costrette a cantare inni religiosi, a dimenticare il loro passato e a non perdere tempo con l'arte. A queste ombre diafane anche nell'animo, che camminano senza saper bene la meta, occorre che qualcuno gliela indichi con precisione.

Pascoli tuttavia, da qual finissimo interprete di Dante è, s'è accorto che il momento del canto profano, intonato da Casella, era così struggente che l'interruzione da parte di Catone appare come un atto sacrilego. Pascoli aveva capito che il cattolicesimo di Dante, pur ben presente sul piano ideale, si stava progressivamente stemperando in una visione più laica della vita, favorita peraltro dalla sua permanenza presso la corte ravennate. Forse avrebbe anche potuto aggiungere che in questo Canto la laicizzazione non promana soltanto da questo attaccamento estetico, emotivo, per il canto amoroso, ma anche e soprattutto dal fatto ch'egli aveva chiesto di eseguirlo in un luogo inappropriato, secondo i canoni ecclesiastici, dove cioè i sentimenti dell'amore devono essere purificati dal fuoco della fede, dove la passione dei sensi deve stemperarsi nella contemplazione mistica della beatitudine divina.

Non c'è solo - come sostiene il Pascoli - un'esperienza nostalgica del sentimento giovanile dell'amore, ma anche la constatazione del suo fallimento come dimensione naturale della vita. Catone infatti viene a interromperlo in nome di valori ritenuti superiori, che a quello stesso amore impongono gravose espiazioni spirituali. Là dove Dante registra la vittoria della fede, deve anche registrare la sconfitta dell'amore umano, incapace di vero bene. Solo che quanto più sale verso il paradiso, tanto meno le persone appaiono reali. Vengono come mitizzate, circondate da un'aureola di santità che ne ipostatizza le virtù, quelle più conformi all'ideologia religiosa.

Ecco ora abbiamo scoperto che un Canto all'apparenza del tutto impolitico, incentrato sugli umani sentimenti, contiene in realtà un duro giudizio etico e quindi anche indirettamente politico nei confronti di chi viene giudicato bisognoso di penitenza non per aver fatto qualcosa di male, ma per non aver fatto nulla di socialmente rilevante, di moralmente significativo.

Il Canto dedicato a Casella è l'ennesima dimostrazione che nell'ambito della Commedia la migliore poesia s'impone là dove Dante tratta non i contenuti religiosi ma quelli morali: qui l'amicizia dei tempi giovanili con un artista amante della musica, suonata e cantata.

Il Canto pare un inno alla gioia di vivere, espressa dal canto comune, improvvisamente interrotto da un'istanza superiore, di tipo religioso, impersonificata da Catone. L'incongruenza sta nel fatto che mentre Catone era pagano e qui rappresenta un'esigenza di perfezione cristiana, Casella invece, ch'era cristiano, qui ama godere della bellezza artistica come fosse un pagano.

Lo stesso si verifica nel modo di descrivere i protagonisti dell'episodio: l'angelo di luce, emissario di dio, è semplicemente straordinario, meraviglioso, ma muto, impersonale, quasi indifferente ai travagli delle coscienze individuali dei defunti, come se stesse svolgendo una funzione di tipo amministrativo, di intermediazione. Le anime invece appaiono meste, non sanno bene dove andare, sembrano come smarrite, sperdute e subito si entusiasmano al vedere Dante e Virgilio, specie il primo che pare ancora in carne ed ossa a motivo del suo respiro. E' grande l'umanità con cui vengono descritte.

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La vera condizione umana non è quella infernale dei disperati, ancorché tra questi il lettore ne avrebbe messi molti quanto meno in purgatorio, e neppure quella paradisiaca dei credenti nel dio della chiesa romana, ma è quella di chi conserva la libertà di agire, di poter realizzare autonomamente la propria umanità.

Lasciando ora perdere la contorta perifrasi astronomica (2) che apre il Canto, e che a null'altro è servita se non a rendere edotto il lettore che si sta uscendo dalle tenebre dell'inferno per entrare nell'aurora del paradiso, la cui luce, al momento, è ancora tenue essendo ancora lungo il percorso da fare, vediamo di nuovo la figura dell'angelo, poiché è la prima a venire descritta.

L'angelo, che sta a poppa del vascello, sembra farlo volare alla velocità della luce ed è egli stesso fascio di luce, globo luminoso, di colore intensissimo, che va assumendo lentamente una forma particolare, distinguibile. Due macchie bianche laterali diventano ali. Dante, pur essendo imbevuto com'è di teologia, non riesce subito a identificare quella forma, ha bisogno dell'intervento di Virgilio, che, ben sapendo che quell'emissario rappresenta il potere divino, si allarma e grida a Dante d'inginocchiarsi. Un poeta pagano dice a un poeta cristiano come comportarsi davanti a un'esperienza mistica, che di mistico poi ha ben poco, se non la straordinarietà della visione, della sua non naturalità terrestre.

Anche il Pascoli s'è accorto di questa cosa, ma siccome è un latinista e sa bene quanto Dante si senta debitore nei confronti dell'Eneide di Virgilio, specie per le prime due Cantiche, non se ne preoccupa e non intravvede nella richiesta di Virgilio un qualcosa di puerile se non di idolatrico, e preferisce invece contrapporre l'angelo nocchiero a Ulisse, che navigava nello stesso mare, seguendo "virtute e conoscenza". Navigava in vista d'una "nuova terra", addirittura - azzarda il Pascoli - verso la stessa montagna del purgatorio, essendo collocata da Dante nell'emisfero australe, senza però riuscire a trovarla, in quanto le onde lo sommersero. E il fallimento fu dovuto proprio al fatto che la sua azione aveva come ultimo movente l'arbitrio personale (che rese "folle il suo volo"): non c'era vera virtù umana, come in Catone Uticense, che porta le anime verso il monte del purgatorio, per quanto anche Catone, essendo un suicida, non possa rappresentare la virtù retta da dio. D'altra parte anche Virgilio, nella Commedia, rappresenta l'umana conoscenza senza la luce della teologia.

Pascoli non contrappone soltanto l'azione degli uomini senza la fede (Ulisse) alla contemplazione dell'angelo, ma anche quest'ultima all'azione traghettatrice di Caronte, che nell'inferno non può servirsi della croce, come strumento di salvezza, al cospetto di anime che bestemmiano dio.

In realtà a noi appare che qui Dante sia come un uomo schiacciato da un potere infinitamente superiore, che lo sovrasta sotto ogni punto di vista. Appare come un uomo sconcertato, neppure tanto sicuro di dover eseguire alla lettera quanto il suo "duca" in quel momento gli chiede. Infatti non scrive che eseguì prontamente l'ordine gridato. E' ancora troppo abituato all'umanità dei rapporti "infernali" di cui ha appena fatto esperienza.

A proposito di questo, la prima parte del Canto delinea anche un altro tipo di contrasto, quello tra l'anima scientifica di Dante, interessata all'astronomia e alla geografia, e l'anima mistica, interessata alla teologia. Nel primo caso egli fa "scienza" (nei limiti del suo tempo), nel secondo sembra che faccia "fantascienza".

La figura dell'angelo infatti rappresenta un esempio di perfezione divina: è velocissimo, in grado di spostarsi in maniera prodigiosa da un punto all'altro dell'oltretomba dei non condannati alla pena eterna, usando semplicemente le proprie ali come remi e vele allo stesso tempo, completamente diverse da qualunque mezzo umano, aventi la caratteristica (aristotelica) della immutevolezza, della durata, della perfezione tecnica. Sono ali che lo rendono migliore di Ulisse - dirà il Pascoli - proprio perché la sua sicurezza non è umana ma divina. Di qui la possibilità di guidare con estrema disinvoltura il proprio vascello, che prodigiosamente sta addirittura sopra il pelo dell'acqua. Con la differenza però - ma questo Dante non lo dice e neppure il Pascoli - che per Ulisse i marinai erano compagni d'arme e d'avventure, per quanto usati per soddisfare i propri capricci, mentre qui l'angelo si comporta come uno scrupoloso burocrate di dio.

Di fronte a così tanta forza divina, Virgilio non ha dubbi nel chiedere a viva voce al poeta d'inginocchiarsi tenendo giunte le mani, come un servo davanti al suo padrone, un pio credente al cospetto di un'autorità religiosa, riconoscendogli quindi tutto il potere che gli compete. Dante ascolta in silenzio, ma non fa quel che gli viene detto, perché sa che il suo spirito è superiore a quello di Virgilio, avendo maggiore coscienza della libertà umana. Anche perché vuol rendersi conto di persona dell'identità di quella strana "cosa" bianca, tanto informe quanto veloce, somigliante più a un uccello che a un essere umano.

Quand'essa gli si avvicina, è così accecante da dar fastidio, al punto che Dante è costretto a tenere gli occhi bassi. Ma la cosa strana è che quel "nocchiero celeste" non è minimamente interessato alla

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presenza di due quei estranei, non si ferma a parlare con loro, non li saluta, non indica neppure la strada del viaggio: pur vendendoli in difficoltà o pur sapendo che lo sono, non spiega loro nulla. Egli è soltanto il pilota di una nave molto "snella e leggera", colma di oltre cento anime destinate al paradiso, ma passando prima per la via del purgatorio, anime che cantano, all'unisono, il salmo 114 (113 A), già ben disposte a credere nella maestà divina.

Dunque son tutti veloci, tutti si spostano alla velocità della luce, visto che sono tutti nella stessa barca, eppure uno solo brilla di luce propria, l'unico a non apparire "umano", l'unico che, al vedere Dante e Virgilio, non dirà una parola, non esprimerà il benché minimo sentimento, come fosse un robot che esegue il volere altrui senza discutere. Dopo aver fatto scendere le anime sulla spiaggia, e quindi dopo aver visto i due poeti, quello se ne ritorna donde era venuto, senza fare altro, senza dire nulla, come se la sua identità coincidesse con la sua funzione, col suo mandato, come se la sua magnificenza gli fosse stata semplicemente imposta da una volontà superiore e quindi fosse estrinseca alla sua persona, se pur di "persona" si può parlare (Dante, non senza ironia, lo chiama "uccel divino"). L'unica cosa che fa, prima di andarsene velocemente, è quella di benedire le anime spiaggiate, come fosse un sacerdote al cospetto di crociati in procinto d'andare in guerra.

Quelle erano anime di cristiani che, a quanto pare, conoscevano a memoria l'inno pasquale anticotestamentario ed erano in grado di cantarlo in coro, come fossero in chiesa (nel purgatorio s'incontreranno spesso gruppi di persone), ma che, nonostante questo, non sapevano ancora cosa fare. Chi fossero e da dove provenissero non è dato sapere. All'inizio del Canto, Dante aveva scritto che stava appena diventando giorno. Ora, nonostante la scena osservata sia stata brevissima, lo dice di nuovo: il sole stava rischiarando ogni cosa, come per voler dire che le anime erano uscite dal buio della schiavitù e stavano entrando nella luce della libertà. Il salmo indica il riscatto degli oppressi ed è strano che qui per godersi il paradiso debbano fare anticamera nel purgatorio.

Ancora più strano è il fatto che esse, appena sbarcate sulla spiaggia, da dove poi dovranno scalare il monte del purgatorio, non sappiano dove andare, non essendo state consegnate immediatamente a nessuno in particolare (nella fattispecie doveva essere Catone, ma apparirà solo alla fine del Canto). Sono anime contente perché hanno cantato insieme sul vascello ben guidato dall'angelo, ma ora son come spaesate e addirittura chiedono ai due poeti che vedono sulla spiaggia quale sia il percorso da fare per raggiungere il "monte della purificazione", di cui devono aver saputo qualcosa dallo stesso angelo. Sanno quello che devono fare (purificarsi) ma non il come. Brutta questa concezione dell'oppresso, che ha sempre bisogno di qualcuno che gli dica come comportarsi.

Virgilio spiega loro che, con l'amico Dante, sono giunti lì passando per un inferno ultraterreno non per quello della vita mondana, per cui non possono aiutarli, benché sia convinto che, rispetto alle difficoltà già incontrate, la salita sul monte sarà un gioco da ragazzi. Dante però non può star lì a guardare, deve trovare un pretesto per intervenire, non può limitarsi a fare erudite descrizioni geo-astronomiche e fanta-scientifiche. E l'occasione la trova, in maniera geniale, nel suo stesso alito.

L'anime, che si fuor di me accorte, / per lo spirare, ch'i' era ancor vivo, / maravigliando diventaro smorte. Non vedono propriamente l'alito, come accade quando l'aria è molto fredda, ma vedono che respira come un essere umano (bisognoso di ossigeno, che a quanto pare non manca nell'aldilà). Le anime diventarono "smorte", cioè impallidirono, pur essendo senza corpo. Loro, umane, si meravigliano di una caratteristica umana; loro, appena morte, si stupiscono di ciò che non le appartiene più: il respirare. Non respirano come umani, però impallidiscono, come l'angelo certamente non avrebbe mai potuto fare, forse non solo perché sovrumano ma anche perché perfettamente consapevole di tutto.

Ora le anime sembrano come gli ebrei che nell'ingresso messianico di Gerusalemme stesero i loro mantelli al passaggio del Cristo. Ecco trovata l'occasione per sentirsi al centro dell'attenzione. In questa maniera il poeta può nel contempo chiarire il motivo per cui quella moltitudine si trovi proprio lì e non in paradiso.

Sono anime spontanee, curiose, forse un po' istintive, dimentiche che il loro compito non è quello d'intrattenersi a chiacchierare con una persona insolita, che non dovrebbe esser lì assolutamente e che ricorda tanto il loro passato, che invece devono dimenticare, se vogliono davvero purificarsi. Questo modo d'intendere la "purificazione", la liberazione dei propri limiti, l'ascesi personale ricorda molto gli ingressi dei novizi nei conventi, cui veniva interdetto qualunque rapporto coi familiari, cui veniva imposta una rottura totale e definitiva col proprio passato. Nel mondo laico si verificano ancora cose del genere in certi ambienti militari di carriera. Per diventare qualcuno devi prima dimenticare quel che sei.

L'incontro con una di quelle anime, Casella, è toccante, umanissimo, così emotivamente forte che ha indotto il Pascoli a scriverci sopra un lungo commento. Casella è l'anima che più di ogni altra avrebbe voglia di accedere al monte della salvezza eterna, perché da tempo avrebbe voluto farlo; senonché

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dall'angelo gli era stato impedito, per motivi che neppure l'angelo sapeva. Eppure è proprio lui che ora gli si fa avanti con l'intenzione di abbracciarlo, avendolo perfettamente riconosciuto. E la cosa, a causa della diversità della sostanza (materiale in Dante, spirituale in Casella) dei corpi, ovviamente non gli riesce.

Qui sono diverse le domande che vien spontaneo porsi.

1. Se Casella è in grado di rendersi conto che Dante è ancora vivo, nel senso terreno della parola, perché tenta di abbracciarlo sapendo di non poterlo fare in maniera "fisica"?

2. S'è Dante s'è accorto subito che non poteva abbracciarlo, essendo Casella solo un'ombra spirituale, perché ha cercato di farlo per altre due volte?

3. Avendo già attraversato tutto l'inferno, possibile che Dante non si fosse ancora reso conto che le anime nell'aldilà erano solo ombre evanescenti?

4. Dante abbraccia l'ombra senza sapere chi fosse, solo perché gli pareva di dover ricambiare così l'affetto che quella gli mostrava, oppure lo fa proprio perché l'aveva riconosciuta? o forse l'abbraccia perché ingannato dal fatto che l'aspetto di lei dava l'impressione che fosse non un'ombra ma una persona reale?

Dante e Casella si conoscevano bene e anzi dovevano essere stati molto amici se il trasporto e l'entusiasmo che li prende non li fa ragionare sugli impedimenti oggettivi che li separavano senza rimedio. Casella lo riconosce subito e, siccome era molto tempo che non lo vedeva, non resiste alla tentazione di fargli capire la propria contentezza, dimentico che nella maniera scelta (il contatto fisico) non avrebbe potuto dimostrare alcunché. Questo deve farci pensare che Casella non fosse morto da molto tempo, non avendo egli ancora interiorizzato le caratteristiche dominanti dell'ambiente in cui vive.

A Dante invece, nonostante dica a se stesso che l'aspetto delle persone resta immutato nell'aldilà, ci vuole un po' di tempo per poterlo riconoscere. Forse l'aspetto che ricordava non era esattamente lo stesso che in quel momento vedeva. Forse l'abbraccia soltanto per empatia, perché dopo tanto dolore costatato coi propri occhi nell'inferno, ha bisogno di un contatto umano. Fatto sta che il riconoscimento avviene solo dopo che quell'anima si palesa per quello che è, solo dopo ch'essa si rende conto che non può cercare con l'amico di gioventù il rapporto di un tempo.

Sconsolato Casella sembra voler riprendere il tentativo di cercare il monte della purificazione, ma Dante lo prega di fermarsi un po' con lui, ricordandogli l'affetto che li legava, e quegli accetta molto volentieri. Uno avrà pensato ch'era passato troppo tempo per poter tornare indietro, l'altro non avrà resistito all'idea di rievocare qualcosa di irrimediabilmente perduto.

Purtroppo noi non sappiamo nulla di Casella, neppure se visse a Firenze o a Pistoia (forse morì poco prima del 1300), per cui non riusciamo a capire sino in fondo il motivo della domanda circostanziata che ora Dante gli rivolge: "Com'è possibile che sia passato così tanto tempo dal giorno della tua morte a questo momento di purificazione?". Quanto tempo sia quel "tanta ora tolta" di cui parla il poeta non possiamo saperlo. Certamente non poca. Ma cosa significa "tanto" in una dimensione in cui secondo le Scritture "un giorno è come mille anni"? Pascoli suggerisce di pensare che il Casella fosse morto molto giovane.

La cosa che non si capisce è il motivo per cui una persona così umanamente sensibile, così poeticamente toccante, non abbia incontrato i favori delle istanze superiori, per il traghettamento verso la foce del Tevere, che qui, come noto, rappresenta la chiesa romana, maestra di verità e via di salvezza. Casella dice che l'angelo "prende nella sua barca quando e quelli che vuole", conformemente alla volontà divina.

Qui è molto strano che Dante, pur così ben disposto ad abbracciare Casella, abbia deciso di punirlo, posticipando di molto l'inizio della sua purificazione. Ancora più strano ch'egli abbia voluto premiarlo in concomitanza col giubileo del 1300, indetto dal suo peggior nemico, papa Bonifacio VIII, messo all'inferno.

Ad un certo punto Dante fa dire a Casella un'affermazione da potersi considerare politicamente grave: "Da tre mesi in qua (cioè da quando è cominciato il giubileo sulla terra) l'angelo nocchiero prende nella sua barca, senza opporsi, chiunque voglia entrarvi". Dunque le anime hanno fortunosamente avuto la possibilità di redimersi in maniera più facile, essendo stato indetto sulla terra un giubileo universale da uno dei papi più fanatici della teocrazia. Che bisogno aveva Dante di fare questa professione integralistica della fede? E perché mettere in bocca questa professione al suo caro amico di gioventù? Cosa si può dedurre, che Casella sia stato certamente un ottimo cantore ma non esattamente un buon cristiano? Casella, che non dà una spiegazione esauriente della sua ritardata beatitudine, sta fruendo di un favore immeritato o comunque inaspettato?

Siamo davvero così lontani dal vero quando diciamo che Dante ha voluto elogiare Casella come artista ma non ha voluto premiarlo come cristiano? E non è sconcertante vedere Casella premiato da dio a causa del

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giubileo bandìto dal peggior nemico di Dante? La stessa risposta che Dante dà a Casella: "Faccio questo viaggio per poi ripeterlo" presenta un che di convenzionale d'apparire quasi fastidioso o comunque di poco convincente. E' evidente infatti ch'egli, una volta morto, non avrebbe certo voluto ritornare all'inferno (da cui peraltro, secondo la concezione cattolica medievale, non sarebbe più potuto uscire), né andare in paradiso passando per il purgatorio. Non poteva certo essere questo il destino di un perseguitato per motivi politici e che per gli stessi motivi aveva già messo nel suo Inferno tutti i suoi peggiori avversari.

Più che una risposta davvero motivata, la frase di Dante sembra una bugia di circostanza, probabilmente dettata dal fatto che qualunque altra risposta avrebbe rischiato d'apparire fuori luogo. Non poteva certo dire d'essere lì per curiosità (sarebbe stata una sfrontatezza al cospetto delle tragedie delle anime infernali), né che stava cercando una conferma ultraterrena ai dogmi della fede (sarebbe apparso un miscredente) e neppure che gli era stato concesso un "viaggio premio" dal padre eterno a motivo della sua ottima professione di fede, superiore a quella di tanti papi teocrati.

Insomma con la sua risposta a Casella, Dante fa una professione di umiltà poco convincente. Pare anzi che non si rivolga neppure a Casella ma a un generico lettore che, dopo aver letto l'Inferno, s'era risentito della pretesa che Dante aveva di giudicare le persone come se fosse dio onnipotente (non a caso dopo la pubblicazione della prima opera, a Firenze il governo dei Neri gli rinnovò la condanna a morte). Se non s'avesse timore d'esagerare si potrebbe addirittura sostenere che pare un po' ridicolo che un uomo in grado di giudicare su un aspetto così delicato come il destino ultraterreno, faccia capire al suo amico di gioventù, che certo non sarà stato ferrato in teologia come lui, ma che non per questo era uno stupido, che il suo viaggio anticipato lo aiuterà a rifarlo nel momento cruciale della sua vita, in quanto così potrà capire meglio l'esigenza del ravvedimento morale.

Sa davvero fosse stata questa la motivazione del viaggio, Dante sarebbe apparso al lettore come un privilegiato. Perché proprio a lui dio avrebbe voluto concedere l'onore di vedere anticipatamente quanto attende il genere umano? Non era Dante già un buon cristiano? Perché questa pretesa ingiustificata? Non era già stato detto nei vangeli che un qualunque rapporto con l'aldilà non serve a nessuno, poiché chi non ascolta "Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti si persuaderebbe"(Lc 16,31)?

Si potrebbe addirittura pensare che Dante abbia descritto l'oltremondo proprio per dimostrare allo scetticismo che aveva maturato, in materia di fede religiosa, la sua infondatezza morale, ontologica. Un politico cattolico come lui, andato profondamente in crisi per le note vicende che l'avevano colpito, non avrebbe forse potuto descrivere una situazione ultraterrena come ultima chance da concedere alla fede? La fede impossibile nelle vicende terrene, poteva ritrovare un suo significato nella vita d'oltretomba. La Commedia è dunque il testo della disperazione della fede? della sua inevitabile obsolescenza rispetto ai tempi borghesi che s'impongono?

Insieme, da giovani, erano fautori del Dolce Stil Novo: uno scriveva, l'altro suonava e insieme cantavano appassionati l'amore per le donne, angelicate, certo, ma carnali. Anzi lo stesso Dante pare si cimentasse in suoni e canti di sua composizione, che faceva poi ascoltare a giovani come Casella. Ora che si sono ritrovati che cosa cantano? Il verso chiarificatore è il 112: "Amor che ne la mente mi ragiona", che è il primo verso della canzone commentata nel III trattato del Convivio. L'oggetto è la filosofia, ritratta come una donna gentile. In quel frangente i due non potevano cantare che qualcosa di astratto. E ci piace qui osservare come la parte migliore di questo Canto del purgatorio sia proprio quella meno religiosa, quella in cui i due godono nel ricordare il tempo passato, vissuto nella spensieratezza della gioventù.

Tuttavia qui sembra esserci qualcosa di più e di peggio, almeno a carico di Casella. Ci pare anzitutto d'aver capito che mentre nell'inferno ci finivano, sul piano religioso, quelli che non riconoscevano altro dio che se stessi, nel purgatorio invece ci finiscono le mezze figure, quelle che formalmente sono ligie al dovere religioso ma che nella sostanza risultano piuttosto indifferenti, oggi diremmo "agnostiche". E la coscienza religiosa di Dante (del Dante clericale beninteso, non di quello umanista) deve per forza intervenire. E lo farà in due modi.

La domanda che Casella gli aveva rivolto, ingenuamente: "Ma tu perché, ancora vivo, fai questo viaggio?", rivolta a un uomo politicamente sconfitto, non poteva che apparire fastidiosa, per cui Dante la rimanda al mittente, dopo aver risposto nella maniera convenzionale vista sopra: "E tu come mai ci hai messo così tanto tempo, dopo la tua morte, a giungere alla soglia del monte della purificazione?".

Dante qui ha in mente il proprio passato toscano, fiorentino, che guarda senza dubbio con rimpianto, ma anche con l'orgoglio di un uomo, un politico, che non ha voluto piegarsi a illeciti compromessi. Non potrebbe tornare indietro neanche volendo, non tornerebbe a Firenze neanche se lo richiamassero, anche perché sa benissimo che se lo facessero gli imporrebbero delle condizioni inaccettabili.

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Casella, se ci pensiamo bene, non può essere veramente abbracciato da lui, ma soltanto visto a distanza. Casella rappresenta infatti quella parte di Firenze che avrebbe potuto fare di più per lui ma che non lo fece, per timore di compromettersi. Sicché Dante finge di meravigliarsi che il suo amico d'un tempo si trovi ancora bloccato nel suo iter ultraterreno, anche se ora, in virtù del giubileo, può finalmente intraprendere la strada che lo porterà in paradiso. Dunque non per meriti propri, in quanto Casella era un pavido, ma per il bene che altri in vita gli avranno voluto, dimostrandolo con l'acquistare le indulgenze, egli si salverà.

Dante insomma sembra voglia far capire che la gente come Casella, per quanto amica fosse, non fu abbastanza coraggiosa da sostenerlo nei momenti politicamente più difficili, e anche ora che è morta non ha, secondo lui, meriti sufficienti per ottenere la grazia divina, almeno non senza un concorso esterno.

La bellezza del Canto sta però proprio in questo, che Dante, pur non apprezzando politicamente Casella, lo stima molto volentieri come artista, anche perché gli fa ricordare la sua giovinezza. In fondo deve giustificare il motivo per cui lo ha messo in purgatorio e non all'inferno, seppur nel girone più leggero. Dante fa cantare l'amico per rievocare la gioventù perduta, il ricordo della patria, e non si è risentito quando quello aveva usato le parole "t'amai" senza aggiungere altro, cioè nessun riferimento alle sue ben note e tristissime vicende politiche.

Resta strano però che Dante gli chieda se la "nuova legge" ultraterrena non gli abbia tolto "memoria o uso all'amoroso canto", avendolo già poc'anzi sentito cantare un salmo insieme alle altre anime. Dante dunque stava pensando che nell'aldilà si potessero cantare solo inni e salmi religiosi e non anche melodie più profane? E allora perché gli chiede una cosa che non potrebbe fare? O forse vuol farci capire che l'oltretomba immaginato dalla chiesa è di un'insopportabile tristezza, di una durezza assai poco umana? Gli aveva forse chiesto di cantare un canto provenzale, stilnovista, che alla chiesa d'allora poteva facilmente apparire licenzioso, solo per far capire al lettore chi era Casella? chi era stato Casella per la sua giovinezza in Firenze? Possibile che a un cattolico come Dante un canto profano possa giovare meglio alla sua stanchezza del viaggio infernale, che non un canto religioso? Li aveva sentiti cantare con gioia un salmo: perché non chiedergliene un altro? Se lo chiede anche il Pascoli: "Qual nuova legge può togliere al cantore morto di cantare d'amore?".

Pascoli dice che Casella morì da giovane, perché "gracile e malato", ed era "mesto, dolcemente mesto". Se anche il Pascoli avesse ragione, non avrebbe però saputo cogliere il motivo per cui Dante lo mette in purgatorio invece che in paradiso. La Commedia non era stata scritta da un intellettuale cattolico "organico" all'establishment, ma da un politico del partito guelfo di parte bianca, che ad un certo punto era diventato ghibellino. La Commedia era stata scritta da un uomo politicamente sconfitto, che nutriva un senso di revanche nei confronti degli avversari che l'avevano obbligato all'esilio e minacciato di morte. Nei confronti di Casella non può tenere solo un comportamento etico e religioso, deve inevitabilmente averne uno anche di tipo politico, come sempre ha fatto nel corso del viaggio infernale.

L'atteggiamento per così dire "istituzionale", nel Canto, viene tenuto dall'angelo nocchiero e da Catone, che certamente non potevano permettere a Casella d'intonare un canto amoroso. Ma anche Dante non può limitarsi a tenere un atteggiamento personale, favorevole al canto amoroso, in ricordo della passata gioventù. Dante ha bisogno di far vedere sia la propria opposizione all'istituzione ecclesiastica, di cui è però costretto a riconoscere il potere politico (espresso qui dall'angelo e da Catone), sia la propria criticità nei confronti di chi non ha voluto opporsi come lui, politicamente, al potere della chiesa. E' evidente infatti che Casella non poteva essere messo in purgatorio soltanto in quanto "cantore amoroso": se anche la chiesa romana l'avesse fatto, lui vi si sarebbe opposto, e infatti chiede a Casella di cantare un canto profano. In realtà Casella viene messo in purgatorio in quanto politicamente indifferente alle sorti dell'amico Dante. Casella era stato un cantore amoroso pavido.

Il secondo modo che usa Dante per far capire a Casella il motivo per cui s'è sentito in dovere in metterlo in purgatorio è quello di far entrare improvvisamente in scena il vecchio e dignitoso Catone, che subito accusa le anime d'essere "pigre": "che negligenza! che ritardo è questo?". Catone il suicida per amore della democrazia, l'anti-Cesare per definizione, qui rimprovera le anime di non essere abbastanza risolute nel combattere le proprie debolezze. Ecco dunque rappresentata l'etica religiosa in contrapposizione all'estetica. Il Sapegno dirà che nell'Antipurgatorio si assiste, con Casella, "alla liberazione dalla bellezza della terra"(La Divina Commedia,Purgatorio, Biblioteca Treccani, p. 411).

"Correte dunque alla montagna - grida Catone - a spogliarvi di quella scorza che impedisce a Dio di manifestarsi in voi". Queste anime umane, che avevano già sofferto sulla terra per colpa della chiesa, sono destinate a subire ancora altri rimproveri, altre imposizioni, come ben dimostra in questo Canto il fatto che, pur avendo avuto scarso gusto per la fede, quand'erano in vita, sono ora costrette a cantare inni religiosi, a dimenticare il loro passato e a non perdere tempo con l'arte. A queste ombre diafane

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anche nell'animo, che camminano senza saper bene la meta, occorre che qualcuno gliela indichi con precisione.

Pascoli tuttavia, da qual finissimo interprete di Dante è, s'è accorto che il momento del canto profano, intonato da Casella, era così struggente che l'interruzione da parte di Catone appare come un atto sacrilego. Pascoli aveva capito che il cattolicesimo di Dante, pur ben presente sul piano ideale, si stava progressivamente stemperando in una visione più laica della vita, favorita peraltro dalla sua permanenza presso la corte ravennate. Forse avrebbe anche potuto aggiungere che in questo Canto la laicizzazione non promana soltanto da questo attaccamento estetico, emotivo, per il canto amoroso, ma anche e soprattutto dal fatto ch'egli aveva chiesto di eseguirlo in un luogo inappropriato, secondo i canoni ecclesiastici, dove cioè i sentimenti dell'amore devono essere purificati dal fuoco della fede, dove la passione dei sensi deve stemperarsi nella contemplazione mistica della beatitudine divina.

Non c'è solo - come sostiene il Pascoli - un'esperienza nostalgica del sentimento giovanile dell'amore, ma anche la constatazione del suo fallimento come dimensione naturale della vita. Catone infatti viene a interromperlo in nome di valori ritenuti superiori, che a quello stesso amore impongono gravose espiazioni spirituali. Là dove Dante registra la vittoria della fede, deve anche registrare la sconfitta dell'amore umano, incapace di vero bene. Solo che quanto più sale verso il paradiso, tanto meno le persone appaiono reali. Vengono come mitizzate, circondate da un'aureola di santità che ne ipostatizza le virtù, quelle più conformi all'ideologia religiosa.

Ecco ora abbiamo scoperto che un Canto all'apparenza del tutto impolitico, incentrato sugli umani sentimenti, contiene in realtà un duro giudizio etico e quindi anche indirettamente politico nei confronti di chi viene giudicato bisognoso di penitenza non per aver fatto qualcosa di male, ma per non aver fatto nulla di socialmente rilevante, di moralmente significativo.

Terzo canto del Purgatorio

del professor Franco Caristo

Chi si accosta  alla lettura del Purgatorio -  che resta per il lettore non specialista  un’esperienza fascinosa

e un percorso  affascinante -  nota  con immediata impressione  le  tante diversità rispetto alla cantica

precedente: non solo strutturali -  la montagna che si staglia dal mare già rappresenta  simbolicamente

uno dei temi fondamentali  costitutivi  del Purgatorio, ovvero l’ascensione  del peccatore verso il

Paradiso celeste, ultima meta per il cristiano, che passa attraverso l’espiazione e il recupero della

originaria purezza -  ma anche tonale, poetica, topografica, dialogica, paesaggistica, relazionale, oltre che

morale. Nel Purgatorio  scopriamo anzitutto  il personaggio/poeta  Dante, viandante meno incerto, meno

icastico, meno  disposto al risentimento,meno legato alla dimensione individualistica e perciò meno

conflittuale con le anime, più razionale  e  umile, come si addice al discepolo che ha chiari gli scopi del

suo viaggio  e segue senza  atteggiamenti sconvenienti il maestro ( Virgilio ). 

Ritengo perciò che  siamo in presenza di una dimensione e disposizione morale e di uno stile poetico

nuovi, laddove  l’atmosfera e il paesaggio sono i primi indicatori del  passaggio tra i due regni –  l’alba, il

sole che sorge dal mare rosseggiante, il rito dell’abluzione, la piccoletta barca dell’angelo che conduce le

anime sulla spiaggia, la preghiera delle anime obbedienti e umili ( a differenza dei dannati trasportati da

Caron dimonio )  -  e sono elementi sostanziali  che si riverberano sullo stato d’animo  del  pellegrino

Dante  che comunque, al di là di una inevitabile affettuosità terrena che dimostra verso le anime

purgatoriali, non giustifica i peccatori  e non  arretra rispetto al suo codice morale ed etico che ha già

definito nell’Inferno. 

Il III canto  è, a mio parere, la sintesi di tutti i piani narratologici che trovano una consona  organizzazione

nella  Cantica e diventeranno vere e proprie  matrici  narrative dentro cui si snoda  il racconto post

eventum del viaggio compiuto in 7 giorni dal poeta.                                 Il canto interseca in tal modo  il

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piano  descrittivo - narrativo, il piano argomentativo- dottrinario, il piano lirico - evocativo, il piano

polemico, il piano morale : ma l’unità del canto, pur nella molteplicità degli elementi che lo compongono,

è fuori discussione, ed è data  certamente dalla funzione dello stesso Dante che personaggio vivo tra

anime di morti,  diventa protagonista  del racconto ( se pure condividendo il ruolo con Manfredi ).

L’inizio del canto, nella scena della dispersione delle anime nella “ campagna”  è strettamente correlato

alla fine del II canto, laddove Dante descrive l’improvvisa apparizione di Catone che sollecita le anime,

ferme ad ascoltare Casella, ad avviarsi verso il monte  del Purgatorio per la purificazione.  

Dante  avverte il peso di quell’invito e si avvicina a Virgilio ( che  nello snodo del canto assume la funzione

di contrappunto rispetto alla dichiarata posizione dottrinaria di Dante sul mistero che governa i piani di

Dio )  che gli appare preso dal rimorso per aver indugiato nell’ascoltare la canzone di Casella (  allegoria

della dimensione terrena che  scandisce inevitabilmente il tempo del Purgatorio ). Mentre il sole si alza

sull’orizzonte ( la notazione paesaggistica è importantissima perché  diventa simbolo di uno stato d’animo

rinnovato, più fiducioso – a differenza del buio infernale - ) Dante si guarda intorno tornando a riflettere

sul viaggio e sul luogo in cui si trova e  vede riflessa a terra la propria ombra, per questo si spaventa e

crede di essere stato abbandonato da Virgilio che lo rimprovera benevolmente e in un pacato monologo

gli chiarisce uno dei primi dubbi che il poeta fiorentino gli espone: perché le anime pur senza corpo

soffrono pene che richiedono un corpo?  ( vv.13 -31 ). La scena narrata attraverso  ritmi narrativi lenti –

l’endecasillabo è  estremamente frammentato -  condensa i due piani: quello descrittivo e quello

dottrinario. L’intervento del maestro Virgilio  è risoluto da magister  scholae delle Universitas e riguarda

uno dei problemi più discussi della dottrina della chiesa: l’imperscrutabilità delle decisioni di Dio  che non

implicano atteggiamenti razionalistici ma fideistici ( la fede smantella ogni ipotesi di approccio razionale

ai fenomeni e alle vicende  che la scienza umana provvisoriamente non riesce a comprendere ) . Il verso

“ State contenti umana gente al quia “ ( v. 36)  è la sintesi di questa subalternità della ragione rispetto

alla fede  e lo stesso Virgilio ( simbolo della conoscenza )  manifesta chiaramente i limiti  e le incertezze

per tutta l’ascesa alla vetta  del monte, tanto che quella sicurezza dimostrata nell’Inferno  comincia a

vacillare ( “ Or chi sa da qual man la costa sale “ v.51 ), riaffermata  dall’ immagine romantica di un

Virgilio dubbioso, che non può avere consiglio da se medesimo, e tiene il viso basso e si interroga su

quale  strada prendere per salire il monte del Purgatorio, segno indubitabile della sofferta accettazione

della limitatezza della conoscenza umana  che mi sembra  essere  uno dei  motivi conduttori del canto.

Improvvisa, mentre  i due pellegrini sono fermi, appare un schiera di anime  che procede lentamente

verso i due poeti, anime che, alla vista di Dante vivo perché  proietta la sua ombra in terra, si ammassano

spaventate lungo la parete rocciosa ( “ si strinser tutti ai duri massi  de l’alta ripa, e stetter fermi e

stretti “ vv. 60-61): sono esse ad indicare la via da prendere.   L’incontro con la prima schiera di anime –

gli scomunicati -  costrette a camminare continuamente a passi lenti attorno alle pendici del monte,  la

rappresentazione iconografica attraverso la similitudine delle pecorelle mansuete e “ timidette”,

l’incedere lento di  “ quella mandra fortunata”,  il tono  allocutivo cortese di   Virgilio ( “ O ben finiti, o già

spiriti eletti..” v. 72 )  sono senza dubbio la spia di un altro elemento tematico del canto: l’umiltà

cristiana (  la relazione  semantica tra la mansuetudine delle pecorelle, pregnante   nella simbologia

cristiana, e gli scomunicati che non ebbero umiltà in vita  è il dato più significativo  nella prospettiva

morale di Dante, il quale lascia intendere come anche nel Purgatorio  domini la legge

del contrappasso;  su un piano più generale voglio far notare anche il valore palesemente  polemico dei

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versi 72 -87; non vi è dubbio infatti che Dante  nel suo integralismo evangelico- religioso  intenda qui 

condannare  certa chiesa contemporanea  nella sua  dimensione  temporalistica  e mondana, articolata in

un sistema di potere che ha tradito  lo spirito del cristianesimo primitivo ; d’altra parte  la vicinanza di

Dante  al francescanesimo conferma proprio una scelta morale e religiosa scomoda, provocatoria e

anticonformista rispetto allo spirito dei tempi ).  

Umile è Dante pellegrino e discepolo, pacato e cortese  è Virgilio, umili sono le anime degli scomunicati, 

umile si mostrerà Manfredi :  l’umiltà resta per il poeta fiorentino la prima virtù per il  cristiano ( in

opposizione  anche alla cultura e alla mentalità classico-pagana laddove  prevalevano altre virtù )  che

riesce a  sconvolgere  consolidati  ruoli  sociali  e  cristallizzate  posizioni individuali  ( Francesco d’Assisi

resta l’insegnamento più efficace ) . Ma chi pratica l’umiltà, se il male prevale sul bene, se le  città italiane

sono continuamente in briga tra loro, se l’arrivismo e la sete dei guadagni  della borghesia hanno distrutto

l’ordine sociale e civile ? 

Così quelle anime rimasero impietrite  quando “ vider rotta la luce in terra dal mio destro canto, si che

l’ombra era da me a la grotta “ (vv.89-90 )  e, dopo aver indicato con il dorso della mano il cammino da

prendere, una di esse dice  a Dante : “ chiunque tu se’, così andando volgi l’ viso: pon mente se di là mi

vedesti unque” (vv 101-102).  Il poeta si ferma e lo guarda attentamente : non lo riconosce 

( “umilmente disdetto d’averlo mai visto “) così l’anima dichiara di essere Manfredi, figlio di Federico II,

ucciso da Carlo d’Angiò nella battaglia di Benevento nel 1266 che pone fine al dominio svevo in Italia.

I versi 105 -145   raccontano  l’incontro con quest’anima scomunicata – quindi emarginata dalla

comunione con la Chiesa, fatto grave se considerato all’interno della società medievale - e in una

alternanza di parti  evocative, descrittive,  storiche, liriche, polemiche, dottrinali, - proposte al lettore con 

la dovuta  pacatezza e senza le asprezze lessicali della prima cantica – Dante  rimarca ulteriormente la

sua posizione  di intellettuale cristiano non dogmatico, non ipocrita, autonomo nei suoi giudizi morali.

Manfredi di fatto descritto come un demonio dalla propaganda guelfa –  ma qui  il personaggio diventa

exemplum  in ossequio alla regola dell’arte come strumentum aedificationis-  è l’alter ego di  Dante, colui

che  attraverso il racconto della propria travagliata e deprecata vicenda esistenziale ( il disaccordo

politico con il papa,  la scomunica, la morte , l’assenza di sepoltura cristiana, la dispersione delle ossa per

volontà di Clemente IV e per azione del vescovo Pignatelli di Cosenza )  afferma  un principio  cardine

della teologia :  la misericordia di Dio che imperscrutabile nei suoi  fini  ( ritorna il tema del mistero

circa l’intervento di Dio nella storia degli  uomini )  agisce verso chiunque si penta della propria scellerata

condotta,  perdonando  anche il peggiore dei peccatori ( Manfredi dice :  ”  orribili furono li peccati  miei” )

:  al Dio biblico punitore fa largo il Dio giusto e misericordioso.

Ma  nelle stesse parole di Manfredi  è scoperta la polemica di Dante  contro la presunzione della Chiesa

che è  pronta a sanzionare il peccatore  con la “ maledizione”  basata molto spesso su ragioni terrene e

politiche ( come nel caso di Manfredi); è evidente allora  che tale giudizio e il conseguente castigo ( la

scomunica ) sono  spesso arbitrari e  nascono da odio personale  e da una errata interpretazione delle

scritture.  Dante  così  rivaluta il personaggio di Manfredi  e lo consegna alla memoria  dei lettori immerso

in un’aura di sublime compostezza regale, seducente nella sua nostalgia per la terra, per la figlia, per la

sua stessa memoria da difendere,  (  rivela a la  mia buona Costanza come m’hai visto e anche esto

divieto” )  nell’attesa della espiazione  e dell’ascesa in Paradiso.

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