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Accademia di Belle Arti di Roma A.A. 2006/07
Lorenzo Bruschini
ARTE E ANIMALITÀ
Cattedra di Tecniche dell’Incisione Corso di Pittura
Salvatore Armando Marchese Prof Andrea Volo
ARTE E ANIMALITÀ
E, forse, anche la sfera più luminosa delle relazioni col divino dipende, in qualche modo, da quella – più oscura – che ci separa dall`animale.
Giorgio Agamben
INDICE
Introduzione
1 Oltre i miti di fondazione: arte parietale e animalità
1.1 Considerazioni sull`arte preistorica p.1
1.2 L`arte dell`uomo primordiale p.2
1.3 Il grande animale p.9
2 Occidente e animalità: dalla zoofisiognomica alla zooantropologia
2.1 L`animale specchio dell`uomo p.15
2.2 Storia della fisiognomica animale p.19
2.3 Zooantropologia p.49
3 Animali da pensare
3.1 Gilles Deleuze e il divenire-animale p.54
3.2 L`aperto. L`uomo e l`animale secondo Giorgio Agamben p.58
4 Artisti ed animalità
4.1 Francisco Goya : Los Caprichos p.61
4.2 Il bestiario surrealista p.66
4.2.1 Loplop: Max Ernst e il suo doppio p.68
4.2.2 Victor Brauner p.74
4.2.3 Tori e cavalli in Pablo Picasso p.77
4.2.4 André Masson p.83
4.2.5 Salvador Dalì p.86
4.2.6 Alberto Savinio p.89
4.2.7 Mino Maccari p.93
4.3 L`animalità nell`opera di Francis Bacon p.95
5 L`animale nell`arte contemporanea
5.1 Considerazioni introduttive p.98
5.2 Joseph Beuys p.102
Conclusioni p.118
Indice delle figure p.119
Bibliografia p.121
Introduzione
Attraverso questa tesi ho cercato di approfondire il tema dell`animalità
nell`arte. Trattandosi di un tema complesso, che chiama in causa la relazione
dell`uomo con gli animali, ho tentato di osservare il fenomeno da diverse angolature,
talvolta completamente indipendenti, altrove complementari o anche in
contraddizione tra loro. Ho fatto riferimento a discipline diverse quali la storia
dell`arte, la filosofia, la psicoanalisi, la zooantropologia e la paleontologia e ho
potuto così verificare le incertezze e le esitazioni dell`uomo di fronte a questo tema.
L`animalità, come si vedrà, è stata e continua ad essere periodicamente
considerata come qualcosa di opposto all`umanità, da respingere. Sovente è stata
usata come un criterio per distinguere l`uomo dall`animale, ed è stata abitualmente
attribuita di preferenza alla bestia. Ma la si può anche ritenere una qualità comune ai
due. Certamente essa viene a seconda dei casi respinta o accettata dall`uomo, ma è
impossibile ignorarla.
Nel Primo Capitolo, scavalcando i miti di fondazione della pittura e della
scultura riportati da Plinio il Vecchio, mostrerò l`importanza decisiva che la
relazione con gli animali ha avuto per la genesi dell`espressione dell`uomo attraverso
il segno e la pittura. Due diverse autorevoli interpretazioni circa le decorazioni
parietali della pittura preistorica, oltre a sfatare l`idea comune, secondo cui nelle
grotte si tratterebbe della rappresentazione di scene di caccia, permettono di superare
una visione antropocentrica e autarchica della nascita dell`arte e di riflettere
sull`impulso originario che l`animalità ha dato all`attività espressiva dell`uomo.
Nuove discipline quali l`etologia umana e la zooantropologia, che studiano l`uomo in
quanto animale e la relazione dell`uomo con gli animali, hanno dimostrato come
vada riconosciuta l`importanza di questa relazione nello sviluppo della cultura
umana, al di là di qualsiasi lettura mitica che l’uomo occidentale ha dato dello
sviluppo culturale, come il mito di Prometeo.
Proporrò dunque l`ipotesi di Emilio Villa circa il senso originario della
presenza animale nelle prime manifestazioni umane, che egli collega al tema del
sacrificio. L`autore mostra anche l`attualità che l`animalità può ancora avere
nell`espressione artistica. Riferirò poi di un`ipotesi distinta, quella di Benoît
Berthou, che analizza il concetto di animalità nell`arte parietale secondo un`altra
interessante prospettiva, mostrandoci un`umanità preistorica altrettanto incerta di
quella contemporanea riguardo alla definizione di un limite tra uomo e animali,
ricercato attraverso il segno.
Cancellato successivamente dai miti di fondazione delle arti plastiche,
l`animale persiste però nelle teorie e nelle pratiche artistiche. L`animale e per suo
tramite il mostro hanno tradizionalmente rivestito un duplice ruolo nell`arte: un ruolo
simbolico e morale, in quanto specchio dei vizi e delle virtù umane, e un ruolo
metaforico, in quanto emblema di una presa di posizione, di volta in volta metafisica,
politica e/o filosofica. Di fatto, è stato e rimane uno dei temi maggiori dell`intera
storia dell`arte, e nel corso dei secoli si rinvengono numerosissimi ed importanti
esempi, sia di carattere allegorico, come per esempio i bestiari, sia di carattere
realistico, come l`arte animalista, sia di tipo misto, come nel genere della natura
morta, che partecipa di entrambi. Nel Secondo Capitolo analizzerò il modo in cui
l`uomo ha pensato nella nostra cultura la sua relazione con gli animali. La storia
della fisiognomica animale (zoofisiognomica) indicherà l`impatto, gravido di
conseguenze, che il pensiero aristotelico circa la separazione tra l`animale e l`umano
ha avuto nel contesto dell`evoluzione del pensiero occidentale, permeando la nostra
cultura ed influenzando l`intera storia delle vicende sociali, politiche, religiose ed
artistiche fino ai drammi del Novecento e oltre. La relazione tra l`uomo e gli animali
è poi il campo di studio privilegiato di una nuova disciplina, la zooantropologia, di
cui introdurrò brevemente le principali caratteristiche.
Il concetto di animalità è stato dunque ed è tuttora oggetto di riflessione da
parte di importanti filosofi: per quanto attiene al presente, darò conto nel Terzo
Capitolo delle osservazioni di due importanti pensatori al riguardo, Gilles Deleuze e
Giorgio Agamben. Prendendo spunto dalla celebre affermazione di Claude Lévi-
Strauss, secondo cui l’animale nella storia dell’uomo non è buono solo da mangiare,
ma è anche buono da pensare, vedremo come il francese Gilles Deleuze abbia
concepito il concetto del divenire-animale rivolgendolo in particolare all`opera di
Francis Bacon e per altri versi all`arte astratta. Per il filosofo italiano Giorgio
Agamben la riflessione sull`uomo e sull`animale, travalicando i confini dell`arte, si
pone come un`urgenza improrogabile.
Nel Quarto Capitolo, dopo un approfondimento introduttivo sull`opera
grafica di Francisco Goya, qui considerato per l`uso del simbolismo animale che
caratterizza i Capricci, l`attenzione viene posta sul concetto di animalità, così come
si è incarnato in alcune espressioni artistiche del Novecento e nell`arte
contemporanea. Senza avere l`obiettivo di effettuare l`inventario delle innumerevoli
circostanze in cui gli artisti nel Novecento e in questo inizio di XXI secolo si siano
rivolti agli animali o all`animalità nel contesto della loro espressione, lo studio sarà
piuttosto riferito ad alcuni esempi circoscritti, che ben esprimono alcune interessanti
modalità di espressione artistica tramite il ricorso all`animalità.
Nel Surrealismo il ricorso al simbolismo animale e alle molteplici ibridazioni
che ne scaturiscono si collega strettamente alla nascita della psicoanalisi con i suoi
simboli. Saranno analizzate nello specifico le caratteristiche del “bestiario
surrealista” per quanto concerne l`opera di Max Ernst, Victor Brauner, Pablo
Picasso, Salvador Dalì, ed André Masson. Per l`Italia saranno analizzate alcune
opere di Alberto Savinio e di Mino Maccari.
Il concetto di animalità subisce diverse declinazioni: si vedrà in quale modo
esso si sia incarnato nell`opera di Francis Bacon. Farò nuovamente riferimento in
questo caso alle osservazioni di Gilles Deleuze.
Nel Quinto Capitolo tratterò dell`animalità nell`arte contemporanea. Oggi
pratiche artistiche quali la performance e l`azione, con l`animale “partner”, o
l`installazione, con l`animale “oggetto”, si associano al cambiamento della
rappresentazione classica degli animali e del loro simbolismo e veicolano sovente un
obiettivo etico e/o politico. Inoltre è attualmente giocoforza rivedere la posizione
dell`uomo contemporaneo rispetto agli animali stessi, così come rispetto all`intero
regno vivente, e sembra necessario abbandonare la definizione ormai classica
dell`uomo come “altro” dall`animale.
Nello specifico, attraverso l`analisi del pensiero e del lavoro di Joseph Beuys,
prenderò in esame l`utilizzo, tipico dell`arte contemporanea, dell`animale sia vivo
che morto all`interno dell`opera, con le implicazioni che tali pratiche fanno nascere.
1
CAPITOLO PRIMO
Oltre i miti di fondazione: arte parietale e animalità
1.1 Considerazioni sull`arte preistorica
Nell`arte preistorica, e in modo più specifico nell`arte parietale, l`arte delle
caverne, la figura animale è onnipresente. Peraltro solo l`animale è raffigurato nelle
grotte, e questo a svantaggio degli altri soggetti: il contesto naturale è assente; non vi
si trova alcun vegetale; l`uomo è soltanto abbozzato, e la sua rappresentazione non
raggiunge mai la chiarezza delle figure animali.
Di fronte a questa egemonìa della figura animale, alcuni paleontologi e
pensatori hanno fatto delle ipotesi sui rapporti tra animalità ed umanità nell`arte
parietale.
L`abate Breuil parlò così per primo di “magia della caccia”, mettendo
l`accento sull`empatia esistente tra l`uomo e l`animale. Questa interpretazione va
però incontro a numerosi ostacoli: gli animali che comportano dei “segni” che
possano evocare delle frecce o delle ferite sono rari; gli animali più rappresentati
sono i grandi erbivori come il cavallo, il bisonte o il toro, non gli animali più
consumati, ovvero le capre e gli stambecchi.
Riporto nei seguenti paragrafi due visioni dell`arte paleolitica, due
interpretazioni distinte circa il significato che la raffigurazione di animali nelle grotte
può avere avuto per l`uomo preistorico. Ritengo le due diverse interpretazioni
estremamente attuali per la definizione di una ricerca artistica in riferimento
all`animalità, per la luce che gettano l`una sulle pulsioni primarie del gesto artistico,
l`altra sul bisogno più che mai attuale di riflettere sull`esistenza o meno di un limite
tra uomo e animale.
2
1.2 L`arte dell`uomo primordiale
Secondo il poeta e critico d`arte Emilio Villa (Milano 1914 – Roma 2003) la
zoomorfia e la teriomorfia paleolitiche, nel loro complesso e nelle loro ragioni,
costituiscono la presentazione di esecuzioni sacrificali di natura simbolica, ovvero,
per il pensiero dell`uomo paleolitico, di una natura non solo analoga ma interamente
identica al sacrificio rituale concreto (Villa, 2005). Per esempio, riferendosi alle
grandi opere ideografiche della grotta palermitana dell`Addaura (fig. 1), Villa vi
scorge la rappresentazione di un sacrificio umano, forse per autostrangolamento, con
allestimenti rituali di carattere acrobatico-funerario: in essa le due figure umane,
soggetto e oggetto del sacrificio, si presentano forse come ittiomorfiche, inducendo
Villa a pensare che ciò possa avere un rapporto con la pesca preistorica del tonno.
1.
Ma non si tratta di una scena magica, quanto piuttosto della dimostrazione
che il mondo della pesca è parte integrante della concezione del sacrificio: e perciò si
avrà un uomo-pesce. L`uomo-uccello appare invece in uno scomparto tra i più
suggestivi delle grotte di Lascaux, in una scena che per Villa figura un sacrificio di
3
intenzione funeraria (fig. 2). L`animale colpito, da cui colano fiotti di sangue, e
l`uomo, un cadavere al di sotto dell`animale, formano un unico contesto. Il bisonte
ha la testa fortemente incassata e contorta, ripiegata sul petto. Sotto il ventre ha forse
una fuoriuscita di materia viscerale, o forse una massa scrotale espressa
enfaticamente. Il pelo è irto al di sotto della testa, mentre i segni sul collo e sulla
groppa potrebbero essere dei “tagli” simbolici inerenti al sacrificio. L`uomo appare
con la testa di uccello e mani da palmipede (ha solo quattro dita), è spettrale e vuoto.
L`ideogramma è intensificato dalla raffigurazione di un uccello, appostato più in
basso al suo fianco, da cui forse cola un rivolo di sangue.
2.
La differenza stilistica tra il grande bisonte e l`uomo è di natura espressiva, e
va attribuita al fatto che l`animale è rappresentato ancora come “vitale” e
4
vitalizzante, mentre l`uomo è “cadavere”, privo di vita, per Villa è il morto che
attende dal sangue della vittima il nutrimento rigeneratore. Anche l`uccello è di
natura simbolica: deve essere stato sacrificato per symbolum, come sembra
dimostrare il segno di una freccia uncinata volto in direzione del piccolo animale.
Anche l`uomo è visto parzialmente sotto forma di uccello, e ciò lo inserisce nella
sfera della immaginazione funeraria.
Sempre in riferimento alle pitture delle grotte di Lascaux, Villa osserva come
le celebri “scacchiere” policrome, impropriamente definite “blasoni” di Lascaux,
rappresentino tombe multiple. Le tombe giustapposte a scacchiera, o la tomba
singola, sopra le quali scende simbolicamente il sangue della vittima per trasferire la
vita al morto (o al malato) si inseriscono nel contesto del sacrificio funerario o
terapeutico. Esse sarebbero strutture simboliche sepolcrali, che si riferiscono a fosse
per sepolture “rannicchiate” o per sepolture “verticali”.
L`autore specifica che il sacrificio preistorico non può essere inteso come
“religioso”, né come magico, o mitico o animistico. Il sacrificio presitorico è
“nutritorio” e “uccisorio”: le sue finalità sono esclusivamente inerenti alla propria
natura di espressione e di simbolo. Non vi è rapporto col divino o con lo spirito. E`
un dinamismo “nutritorio” ad animare il sacrificio preistorico: per Villa si può
supporre un rapporto “distruzione-creazione”, “uccisione-rigenerazione”.
L`iniziativa dell`uomo primordiale è del tutto offensiva: il coltello di silice, il
bastone da scavo, il cuneo grondante sangue o che incide la pietra, sono tutti
strumenti per aggredire ed uccidere, non per difendersi. Uccidere è l`esperienza
assoluta del primo vivente, come ferire, entrare, penetrare, estrarre, sviscerare,
espellere. L`atto di uccidere appare legato agli impulsi primari della fecondità e
come ogni atto umano primario, una volta ripetuto intensivamente finisce per
istituirsi in rito e di conseguenza in culto. L`intero pantheon figurale dell`uomo
paleolitico sembrerebbe inteso alla espletazione di quel rito, il culto sacrificale, il
sacrificium. L`arte paleolitica nella sua complessità ideografico-simbolica trae potere
dall`uccidere sacrificale. Il sacrificio è fonte espressiva, emissione violenta di
energia. Il sacrificare è ristabilire equilibri di energia minacciati dal loro stesso
dinamismo.
5
“Con l`azione concreta del sacrificio, uccisione dell`animale o dell`uomo da
parte dell`uomo, l`uomo mette in moto l`essenza stessa del reale, ricostituisce,
rigenera il mondo”. Nella caverna l`uomo paleolitico non effettua mai il sacrificio
autentico (sembra che nessuna belva sia mai entrata viva in una caverna), bensì
quello simbolico. Ma per lui non c`è differenza di sostanza tra l`animale in carne ed
ossa e la figura dell`animale, cioè il suo simbolo. Essi sono la manifestazione di
un`unica e medesima sostanza che è il divino, il mondo. Dunque l`uomo disteso sotto
al bisonte può essere letto come un rito sacrificale, celebrato simbolicamente sulla
parete per un morto (forse il morto era stato portato nella grotta, o vi era sepolto). I
morti devono essere nutriti dalla carne e dal sangue di una divinità. La bestia, oggetto
e soggetto dell`atto sacrificale, è il “Nutrimento Assoluto”, è perciò bestia-dio. Per
“divino” l`uomo primordiale intende Nutrimento Perenne, per “Dio” intende il
Nutriente-Nutritivo Assoluto. E allora l`uomo primordiale, “consumatore” del
divino, mimando interiormente e simbolicamente con il gesto grafico la solennità
dell`uccisione, del massacro, rigenera continuamente l`omogeneità uomo-dio, ha in
mano l`azione definitiva “divinizzante”. Per l`uomo di allora mangiare l`uomo è il
Nutrimento, così come mangiare la bestia equivale ad accrescere, ampliare,
risospingere la vita. Non doveva neanche esistere secondo Villa la “paura di esser
mangiati”, tanto questo doveva coincidere con urgenze vitalistiche del tutto naturali.
Se dunque di arte si può parlare in riferimento alle manifestazioni dell`uomo
paleolitico, si dovrà farlo per l`autore nel senso di un`arte che ferisce il mondo, il
divino; un`arte come strumento sacrificale. E il “segno” costituisce la
manifestazione primitiva, l`antecedente del simbolo. Il “segno” come un taglio o una
incisione, una ferita o una lacerazione, determina una fuoriuscita di sostanza dal
corpo ferito: si pone quindi come simbolo dell`iniziativa dell`uccidere nel
compimento simbolico del rito sacrificale. Per Villa gli animali e gli esseri viventi
che l`arte paleolitica ci ha lasciato portano quasi tutti i segni della violenza
sacrificale. Ma secondo l`autore non si tratta in nessun caso della narrazione di
episodi di caccia, ma sempre e in ogni caso di celebrazione del rito sacrificale. Il
segno in quanto segmento puro e gruppi di segmenti trae sempre la sua origine dalla
violenza originaria, dall`uccidere come azione unica e pura. Il taglio segue gli
impulsi della violenza, configura l`intensità di un`azione, quella del lacerare, che in
6
origine ebbe per strumento anche l`unghia. Lo strumento dell`incisione (di pietra, di
osso, di avorio o di legno) agisce sulla carne nel rito concreto; nel rito simbolico
agisce invece sulla pietra, che è il corpo del mondo (la pietra è divinità, così come
porzioni di divinità sono le parti degli animali come l`osso e l`avorio). L`uomo
allora scarnifica la pietra incidendovi dei segni (così come scarnificava l`animale e
seppelliva la salma scarnificata, secondo un usanza giunta fino ai tempi “storici” – e
la carne doveva essere servita al banchetto funebre) fino a quando la potenza
dell`azione simbolica si perfezionerà e il segno inciso lascerà il posto a quello
dipinto. Affievolendosi così l`analogia realistica (nel senso del gesto), il simbolo si
accresce di intensità. Se la lacerazione dell`animale scolpito con taglio profondo
porta ancora il ricordo della violenza attiva sul corpo dell`animale vero, la traccia
dipinta è un simbolo puro del segno originario, la violenza è contenuta, affinata, ma è
anche più mentale. Più l`uomo attiva mentalmente la forza del simbolo, più il segno
si inaridisce e si affievolisce, e viceversa, fino al punto in cui la pittura, che
riproduce il mondo a due dimensioni, sostituisce la ritualità sacrificale con un
simbolo di superiore efficacia sacramentale, come il sacramento dell`eucarestia nel
culto cattolico sostituisce con un sacramento-simbolo l`azione sacrificale di tipo
cannibalistico. È stato il segno stesso per Villa a creare il modo di liberarsi per fare
una conquista: dilatandosi fino a divenire contorno. Il segno traccia e così definisce
sulla stessa pietra divina (corpo del mondo) il dominio del divino percepito e
finalmente raffigurato: la forma animale e la forma umana. Facendosi contorno, il
segno conserva una propria ferocia: ogni porzione identificata della figura è al
contempo atto e vita. “Le corna sono vita, le gambe sono vita, i visceri sono vita.”
Una testimonianza dell`identità tra segno e contorno Villa la indica in molti
documenti paleolitici, tra cui l`animale del ciottolo proveniente da La Colombière
(Alta Savoia), mammut o renna, equide o bovide, che si esalta dentro l`intricatissimo
contesto del segno sacrificale puro (fig. 3).
Lo stesso segno sacrificale fortemente iterato si può tramutare in una
suggestione figurativa: dal segno iterato emergerà la figurazione del pelame o delle
ciniere. Da un certo punto in poi il pelo degli animali entrerà nella figurazione,
spesso i segni sono tracce di lacerazioni sacrificali e pelo, criniera. I segni della
lacerazione sacrificale sembrano seguire l`intenzione di sezionamento anatomico sul
7
ventre e sul collo sulla renna di Les Combarelles, in modo che azione e simbolo si
manifestano come una medesima realtà. Dunque, concependo la violenza come
elemento interno di un meccanismo naturale di passaggi da uno stato energetico
all`altro, il sacrificio diviene un atto “nutritivo” che permette di ristabilire
l`equilibrio. Di sostituzione in sostituzione si giunge alla decisione di dare la forma,
che comporta il trasferimento della “veemenza” in quello che sarà il “campo
estetico”.
3.
Per Villa il simbolo primordiale era soprattutto espansione e iterazione di un
segno, della cui immediatezza e concretezza partecipava: un segno che non mirava a
descrivere né a comunicare, ma che costituiva la celebrazione di un atto violento, che
è quello dell`uccidere, del sacrificio mediante il quale l`uomo non spiegava né
imitava la realtà esterna, ma affermava la propria partecipazione a un Tutto divino,
affermando al tempo stesso la propria capacità di generare forme non rispondenti ad
un uso meramente pratico, come avviene anche nel caso dell`amigdala. Tale
manufatto, espressione e testimonianza degli uomini di quelle ere lontane
(quaternaria, pleistocenica e olocenica), indica per l`autore una intenzionalità
complessa: concepita per uccidere e procurarsi nutrimento per il sostentamento, essa
8
è anche e senza contraddizione strumento di “chirurgia sacrificale”, ovvero oggetto
liturgico, forse anche merce di scambio e certamente opera artistica. Tale artefatto
va infatti inteso come una grande dichiarazione da parte dell`uomo, che produce uno
strumento come amplificazione della sua struttura anatomica. Di più, l`uomo offre
una manifestazione unica: inscrive sullo strumento primordiale i segni della sua
mente che organizza. Se era necessario che lo strumento avesse una punta o una
lama, non si può dire lo stesso dei segni che reca incisi, quelle scheggiature che
mostrano esplicitamente una facoltà di concepire, individuare e intensificare la
natura ritmica dello spazio.
Considerazioni sull`arte attuale
Tutta l`opera di Emilio Villa suggerisce il recupero quasi alchemico di una
cosmogonìa del non visibile come metafora dell`esistenza, che trova nel percorso di
A. Burri e degli artisti di Origine un referente esemplare. Il gruppo artistico Origine,
costituitosi nel 1949 tra Milano e Roma e formato da M. Ballocco, A.Burri ed E.
Colla sosteneva, nel quadro del dibattito italiano del secondo dopoguerra tra
formalisti e realisti, il ritorno a una sintassi primaria di forme e colori lontano da
compiacimenti decorativi. Nello specifico, tramite le riflessioni sull`arte parietale
l`autore intende restituire al simbolo decaduto, ovvero all`arte del nostro tempo,
l`energia e l`incanto dei quali era espressione l`arte primordiale. Il simbolo attuale
per Villa, che scrive intorno alla metà degli anni Sessanta, è impoverito e minacciato
dall`avanzata del concetto e del nostro modo di intendere la Storia. Egli aspira invece
ad un`arte che non smarrisca per strada la propria primigenia “veemenza”.
La relazione tra arte parietale e attuale si fa molto sottile. Qualcosa accomuna l`uomo
di quelle epoche lontane con l`uomo contemporaneo. L`autocreazione dell`uomo
avviene a partire da una incorporazione fisico-alimentare dell`animale: “ […] l`uomo
eseguisce se medesimo traendo fuori di sé l`animale, dopo averlo inghiottito.
L`uomo ha dentro l`animale; se ne libera, per sacrificarlo e restituirlo alla vita,
uccidendolo, con il segno”. Il fatto determinante è quello del digerire: “[…] per
l`uomo paleolitico si deve dire ‘l`uomo ha digerito l`animale’ ”. L`animale ucciso
“con il segno” e così sostituito, sembra sempre con il segno (ovvero al di là
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dell`uccisione simbolica) potere, in alternativa, risorgere intatto. La restituzione sta
nell`uso restitutivo del linguaggio simbolico, ovvero nell`uso poetico della parola.
L`animale da restituire in vita costituisce per Villa un compito artistico attuale e
collegato alle ragioni dell`inconscio. Equivalenza tra operosità artistica e vissuto
erotico, sublimazione della violenza, pratica individuale della sovranità da parte di
un creatore che riassume narcisisticamente in sé il valore della sua opera.
1.3 Il grande animale
Secondo un`altra prospettiva, lo studioso francese Benoît Berthou fa notare
come le figure animali dell`arte parietale appaiano concatenate nel contesto di
sovrapposizioni, combinazioni e associazioni: un`animalità mostrata in modo
confuso e labirintico (Berthou, 2001). Per questo autore si è lontani dalla sainteté di
cui parlava George Bataille o dall`idea di sacrificio che risuona in Villa. Nel mezzo
di questa matassa, le rappresentazioni dell`uomo hanno una posizione discreta e
originale: i segnali, i simboli, le tracce sarebbero i segni di una umanità smarrita
nell`estrema confusione dell`animalità.
In effetti certe parti delle grotte sono occupate da figure maestosamente
inserite, presentate in una fissità che per l`autore si deve senza dubbio ad una
sainteté. Ma altrove la figura animale è presa in un disordine che rimette in questione
la sua leggibilità: essa diviene l`oggetto di una vera e propria interferenza o disturbo.
È in particolare il caso delle sovrapposizioni intensive di figure: nella grotta di
Gargas si trova su una zona murale piana un insieme di più di trenta figure incise e
sovrapposte. La rappresentazione di un grande toro copre quasi tutta la superficie e
delle altre figure vengono ad inscriversi al di sopra e dentro questa figura. Non
temendo affatto la confusione dell`insieme, l`uomo paleolitico ha inoltre tracciato
delle linee di striature e di tratti paralleli, che sovraccaricano ulteriormente la
composizione e la rendono quasi illeggibile.
Esmpi di questo tipo non sono rari nell`arte parietale: il “Grand Plafond” di
Rouffignac, la “Conque aux cerfs” di Peche-Merle… Più estesamente, la figura
animale è l`oggetto di ogni sorta di incrocio: combinazioni, quella tra cavallo e
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bisonte la più frequente; spezzettamento, come nel treno posteriore di cavallo a
Font-de-Gaume e nella testa di leonessa alle Combarelles; e poi ibridazione, quando
due “parti” di animali formano una creatura ibrida. L`animalità non esiste senza
intersezione; è trattata secondo la modalità della matassa, della confusione. Per
riprendere i termini di Jean-Louis Schefer, “il mondo animale è un labirinto di forme,
tutte le specie confuse, è una massa orientata di movimenti, è un grande animale,
gonfio di tutte le specie” (Schefer, 1999). Ed è proprio questo “grande animale” che
rappresenta per Berthou uno degli aspetti più enigmatici di questa arte preistorica,
che accenna ad un altro rapporto con l`animalità. In altre epoche, ed in altre forme
artistiche, l`animale è apparso come una creatura generatrice di senso e di ordine per
l`uomo: è presentato secondo una gerarchia, e la figura di un animale dato
cristallizza certe pratiche. Nell`arte parietale la figura animale è all`inverso legata
alla forma del labirinto, che rende, per definizione, qualunque orientamento
problematico. Essa ammette l`erranza piuttosto che la spazializzazione, mette
l`accento sul cammino più che sulla localizzazione. In questo labirinto grafico
occorre leggere l`immagine, seguire una linea che disegna la colonna vertebrale di un
toro, ma, se lo sguardo cambia direzione, si scopre il collo di un cavallo. L`animale
appare nel garbuglio; la sua forma stessa non è che una configurazione di intrecci.
4.
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Non occorre pertanto secondo l`autore confondere labirinto e disordine.
Questo intrico di figure richiede una sicura padronanza del disegno e una paziente
osservazione della natura. Si tratta di tracciare l`animale in tre o quattro tratti, di
suggerire la bestia tracciando una colonna vertebrale: occorre una certa maestria per
restituire nel chiuso della caverna la silhouette di un erbivoro. Il disordine di queste
composizioni è d`altronde soltanto apparente. Per esempio, nel “Grand Plafond” di
Rouffignac cinquanta figure sono disposte tra due archi di cerchio formati da figure
di cavalli e di stambecchi (fig. 4). Le figure centrali sono ora illeggibili ma per
Berthou si può supporre che la rappresentazione a grandezza naturale di un cavallo
“accogliesse” delle altre figure, come lascerebbe intendere la presenza di un
mammouth, appena abbozzato, e delle corna di bisonte. La forma della matassa non
è dunque vana, ma rivela un progetto. Nella grotta, l`animalità non è mai presentata
come qualcosa di organizzato: non si trova nessun gregge, nessun branco. La fila di
cavalli di Lascaux non conta che tre individui e non costituisce un`immagine fedele
del loro comportamento sociale. L`animale appare “de-territorializzato” e
rappresentato al di fuori di qualunque quadro naturale e sociale, ed è qualche volta
posizionato con la testa in basso, come se non fosse legato alla terra dalla forza di
gravità. Al contrario, l`animalità intera viene presentata tramite una “propagazione”,
come se si trattasse di pensare delle connessioni grafiche tra specie animali, di
pensare la loro confusione piuttosto che le loro distinzioni. Ciò che si tratta di
rappresentare è proprio questo grande animale, forte dell’incontro di tutta una fauna,
pieno di tutte le forme delle bestie, ma ugualmente di tutti i movimenti.
L’animale è così correntemente raffigurato in una varietà di attitudini, come
lo mostra particolarmente un rilievo della grotta di Lascaux effettuato dall’Abate
Glory, che egli ha intitolato “cinematica” del cavallo. L`animale è raffigurato al
trotto, al galoppo, al passo… I preistorici hanno voluto cogliere i movimenti più
correnti degli animali, rappresentare una creatura che dispieghi un`attività nel suo
ambiente: il cavallo effettua un gorgheggio, gratta il suolo prima di lanciarsi.
Questa “cinematica” si inscrive così in un lavoro intellettuale tipico dei “pensieri
primitivi”, caratterizzato da ciò che Lévy-Strauss presenta ne “Il pensiero selvaggio”
come una vera e propria “scienza del concreto”, ovvero un appetito di conoscenza
obiettiva e un`attenzione sostenuta verso le proprietà del reale. Ma ciò non impedisce
12
che, se vi è uno sforzo naturalista nell`arte parietale, esso è enigmatico: c`è un
naturalismo senza natura e senza gravità, che intreccia e mette in sospensione delle
fedeli riproduzioni di animali. Il grande animale della grotta è impregnato di questo
insieme di posizioni e attitudini di fronte al mondo: spiare, cacciare, combattere,
avanzare… Per l`autore, quel che si osserva qui è un modo di essere nello spazio, un
modo di prendere la misura del proprio ambiente, una facoltà di gestire e di
condividere degli spazi vitali. E forse il volto di questa animalità paleolitica si può
intravedere nella testa del bisonte che fa la guardia all`ingresso della grotta di
Bernifal, nelle cerve che si fiutano su una parete di Font-de-Gaume, o nel cavallo
che nitrisce a Lascaux… L`animalità sarebbe allora rappresentata sotto l`aspetto
della confusione e della varietà, della profusione e dell`animazione, e non come un
insieme di creature immobili, dai limiti e dalle specie chiaramente definiti. Si pone
dunque altrimenti il problema per questo artista primitivo: non si tratta di far apparire
l`animale nell`evidenza di una mimesis, nella maestà di una rappresentazione.
Per Georges Bataille, è precisamente questa capacità di figurarsi le cose ed il
mondo che distingue l`uomo dall`animale. Non vi sarebbe alcun paesaggio in un
mondo in cui gli occhi che si aprono ad esso non apprendano quello che vedono. Lo
sguardo dell`animale non vede nulla, poiché solo l`uomo, la coscienza, può secondo
Bataille vedere veramente, ed è questo ciò che lo distingue dalla bestia. Ora, l`uomo
di Lascaux non è preoccupato del paesaggio: talvolta una traccia naturale tra i
blocchi rocciosi è utilizzata come una linea di terra per presentare una fila di animali,
ma non si trova nessun procedimento che denoti la volontà di abbracciare una
qualunque estensione, di situarsi di fronte ad un`entità così massiccia come un
“mondo”. È innegabile che la figura esiste, e raggiunge una magnificenza ben
illustrata dalle pitture della “sala dei tori” di Lascaux, ma tutto avviene come se non
fosse quello il problema per i paleolitici. Tutto avviene, secondo Berthou, come se
l`arte parietale non costituisse un`impresa di figurazione del reale e del mondo
animale, non si attaccasse a questa “adesione” indelebile della coscienza alle cose.
C`è qualche paradosso nel sostenere che la figura sia un mezzo, uno strumento di
interpretazione, ma questo paradosso invita l`autore a ripensare l`umanità e
l`animalità in termini diversi rispetto a Georges Bataille.
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Il posto della forma della figura umana si inscrive in questo stesso paradosso:
essa è notevolmente assente. Le figure umane sono in numero minimo rispetto alle
figure animali, e rompono con il naturalismo di queste ultime: si riducono talvolta
ad un cerchio, due quadrati e una curva, come nel caso del “fantasma” di Marsoulas.
Altrove, l`uomo è rappresentato come una creatura ibrida: personaggio cornuto nella
grotta di Trois-Frères, uomo col becco a Lascaux… Per contro, l`uomo ha dei
rappresentanti nella grotta: mani, in positivo e in negativo, tracce digitali, incisioni
parallele, numerosi segni dalle forme molto diverse – aviformi, claviformi, tettiformi
- che accompagnano spesso le figure animali (fig. 5). L`uomo non è presente in
questo corpus animale se non per “metonimìa” – gli uomini sono dei peni, le
femmine delle vulve e delle curve – o per una sorta di stratagemma formale. Mai
raffigurato, l`uomo è rappresentato da tutto un sistema grafico.
5.
Così, nella grande composizione di Gargas, si trovano molteplici serie di
striature, di linee di tratti parallele. Nella confusione dell`affresco, l`uomo fa dei
bastoni, dispone degli elementi ritmici. Si scoprono simili serie di tratti altrove nella
grotta, così come un gran numero di mani in positivo dalle forme variegate: in un
caso, si vedono tre dita; altrove manca una falange. L`uomo si contenta di interventi
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enigmatici e discreti, che contrastano con l`onnipresenza delle figure animali.
L`abate Breuil aveva suggerito che certi dei segni disposti nella grotta di Niaux
potessero costituire una sorta di segnaletica di avvertimenti per segnalare i pericoli
della grotta. Per quanto contestabile, questa interpretazione suggerisce che questi
simboli avessero una funzione originale, un ruolo di faro, di indicatore,
nell`immensità della grotta. I “segni” dell`uomo avrebbero allora un ruolo discreto di
segnale, servirebbero all`orientamento.
La questione è allora: perché la rappresentazione dell`uomo prende la forma
di una segnaletica? Perché l`uomo ha dei rappresentanti senza essere mai
rappresentato? In effetti, tutto avviene come se, in seno al grande animale, l`uomo,
così come si fa in un disegno, lasciasse una zona chiara per bilanciare un insieme
sovraccarico. Tale zona di “riserva” si staglia sul fondo di un materiale abbondante e
onnipresente, ma si tratta di svincolarsi dalla rappresentazione di questo materiale
più che di imporsi ad esso, di segnalarsi più che di mettersi in evidenza. La zona di
“riserva”, questo spazio bianco, mostra un`assenza, indica la presenza di colui che
non vuole o non può apparire. Per questi tempi primitivi secondo Berthou,
l`animalità non è un problema di figurazione o di espiazione, si tratta in misura
maggiore di un “continente”, di una estensione biologica che necessita di segnali e di
riferimenti, che occorre mappare per poterla misurare. L`animalità non è mostrata
come “altro” dall`uomo: essa è presentata evocando una comunanza tra le specie e
gli interventi umani. E questo grande animale sarebbe la figura di un`animalità
abbondante e onnipresente di cui occorre prendere la misura, in seno alla quale
l`uomo deve pensare se stesso.
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CAPITOLO SECONDO
Occidente e animalità: dalla zoofisiognomica alla zooantropologia
2.1 L`animale specchio dell`uomo
Nella cultura l`animale esiste sempre attraverso l`uomo, sia che si tratti di
animale domestico che selvatico. L`uomo definisce tutte le categorie degli animali in
base a ciò che le distingue dal genere umano, e tutto nel nostro linguaggio esprime
un rapporto gerarchico stabilito e sempre riaffermato nei secoli. Come vedremo più
avanti, solo il tramonto dell`antropocentrismo e la nascita di nuove prospettive di
analisi della relazione tra uomo e animali ha portato a una nuova visione di questa
gerarchia.
L`umanità, sempre incerta su se stessa fino all`arroganza, non ha potuto
fondare la definizione di se stessa se non su ciò che essa rifiuta: la propria animalità.
È interessante chiedersi come gli artisti si siano figurati la coppia ancestrale uomo-
animale, ovvero come attraverso le rappresentazioni visive essi abbiano stabilito dei
legami tra queste due categorie di esseri viventi. Gli artisti guardano spesso l`uomo
come un animale e reciprocamente l`animale come un uomo, ristabilendo la
circolarità, la continuità e la complementarietà fra le specie.
Ma anche gli artisti, come tutti gli uomini, non possono escludersi da questa
relazione. L`arte, attività umana per eccellenza, sovente rimanda a comportamenti
animali e l`artista stesso si compiace a immaginarsi sotto forma di bestie
emblematiche del suo potere o della sua impotenza.
D`altronde, qualunque sia il carattere di queste immagini, esse rimandano sempre chi
le osserva a se stesso.
Ma è certamente nella figura dell`Altro che si scoprirà l`animalità, nei tratti
del proprio vicino. Questo è il senso della fisiognomica animale, interpretazione dei
tratti del viso in base alla loro similitudine con quelli degli animali. L`animale
diviene in questo senso l`intermediario tra l`individuo e l`Altro.
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L`animale è stato spesso percepito come un lontano antenato, che fa di lui
ugualmente un essere superiore tramite il suo collegamento ancestrale con le
mitologie e con i miti di fondazione delle civiltà. È il passato dell`uomo, tanto è vero
che ciascuno di noi lotta contro la sua bestialità istintiva, contro la sua animalità
primordiale, temendo che essa possa riemergere più frequentemente di quanto già
non avvenga nelle varie vicende di cronaca nera o di guerra. I “crimini contro
l`umanità” commessi da “bestie selvagge” o “mostri” che vivono tra noi, fanno
rinascere ogni volta la paura di vedere la nostra animalità prendere il sopravvento, il
timore di un ritorno alla bestia, non privo di un certo fascino per l`orrore. Tale
rapimento che nasce di fronte allo spettacolo della bestialità, sia di origine umana che
animale, è un sentimento che fa vacillare la nostra umanità. L`enigma che la sfinge
pose a Edipo, la cui vita era alla mercé del mostro ibrido, era quello di identificare
qual è l`animale che cammina a quattro zampe, poi a due, infine a tre: la sfinge
domandava all`uomo di identificarsi, al rischio della sua vita. È ancora al prezzo
della loro vita che i giovani sacrificati si addentravano nel labirinto di Minosse, dove
li attendeva il Minotauro, altro mostro ibrido. Questo prodotto di un`unione bestiale
rappresenta per Michel Foucault lo “specchio della morte e della nascita, luogo
profondo e inaccessibile di tutte le metamorfosi”.
I racconti leggendari di fondazione risuonano di questa essenza animale
tramite la figura della metamorfosi. I miti, quando stabiliscono l`identità delle civiltà,
sovente rinviano l`uomo ad un`origine fantasmatica e “bestiale”. Si è creduto di
riconoscere delle rappresentazioni di tali ibridazioni sulle pareti delle grotte decorate
di animali selvaggi. Tutte le mitologie comunque vi si riferiscono. I Greci
accoppiano gli uomini e gli dei, spesso trasformati in animali per mascherare il loro
statuto divino, non umano. Tra gli exploits amorosi di Zeus, il cigno di Leda, l`aquila
di Ganimede o il toro di Europa sono le incarnazioni mitologiche di questi rapimenti
che elevano gli uomini a se stessi, al punto che essi si prestano a queste unioni
“contro natura”. Da queste talvolta nascono gli eroi, uomini che beneficiano di poteri
divini. Essi hanno permesso all`umanità di sopravvivere alle calamità o di acquisire
dei vantaggi indispensabili all`esistenza.
17
Altre civiltà
In numerose civiltà il confronto con l`animale è un rito di passaggio, che si
tratti di sacrificarlo, combatterlo o per accoppiarvisi. La cerimonia tradizionale della
circoncisione presso i Masai in Africa associa questa mutilazione rituale al sacrificio
di un bue o di una pecora, la cui pelle servirà a raccogliere il sangue dell`adolescente.
Così la caratteristica distintiva che integra l`individuo al gruppo è associata al
sacrificio di un animale. Questo atto sembra dover separare il giovane adulto dal suo
passato affinché divenga un membro della comunità.
Sono ancora gli animali che, il giorno dei funerali presso i Leshei dell`Assam
in India, vengono sacrificati affinché la loro anima possa guidare quella del defunto,
aiutandolo a ritrovarsi sulla via delle reincarnazioni. Maschere e costumi rituali
operano talvolta la metamorfosi degli attori di tali cerimonie, conferendo loro una
natura divina.
Il “pensiero selvaggio” delle religioni cosiddette primitive identifica
volentieri l`uomo a degli animali che gli conferiscono una parte dei loro poteri. È da
questa ibridazione e da questa unione che nascono la conoscenza e il potere magico
degli sciamani. Attraverso il riferimento ad alcune specie con le quali si identificano,
le tribù potenziano i propri tratti identitari. Nella Grecia antica, Clistene caratterizza
le tribù doriche grazie a dei riferimenti animali, definendoli asini e maiali. Ma al di là
di questi dati precisi, le identificazioni animali delle etnìe passano senza dubbio
attraverso altri fattori rivelatori della dimensione inconscia. L`istinto sessuale è
spesso il più evidente elemento dell`animalità dell`uomo. Le unioni “bestiali”, che
uniscono esseri umani e animali, non sono esclusivi della mitologia greca. I Gilyak,
popolazione dell`isola Sakhalin al largo tra Russia e Giappone, credevano che un
uomo colpevole di “bestialità” venisse mutato in bestia, stabilendo così fermamente
il loro limite di umanità. Altre culture fanno di queste unioni un mito fondatore della
loro identità o di quella di un altro gruppo. Gli Eschimesi dell`Isola di Victoria
ritengono che gli uomini bianchi siano nati da una donna fecondata da cani. Si vede
qui come l`esistenza di un`altra razza o di un altro popolo caratterizzato da una
fisionomia differente venga spiegato tramite un`ibridazione (Baridon, Guedron,
2004).
18
Mitologia ed animali
Che si tratti di rendere conto della nascita o della morte, della formazione
delle società o dei pericoli che la minacciano, i miti esplorano nelle relazioni con
l`animale i lineamenti dell`umanità. Se i miti hanno una tale persistenza nella storia
delle civiltà, è proprio perché essi ne impregnano in modo durevole l`immaginario.
Non è all`intelligenza che essi si rivolgono: conferendo un`immagine a racconti
incredibili di favole, di genealogie di divinità, delle loro rivalità e dei loro amori, i
miti finiscono per fecondare le culture e le civiltà.
Tali immagini acquisiscono tanta più forza quanto più esse sono ripetute,
reinterpretate dalla letteratura o rappresentate dalle arti visive. Il progetto delle
Metamorfosi di Ovidio, inesauribile repertorio iconografico dell`arte occidentale, fu
di riscrivere in una lingua poetica la mitologia greco-romana e il momento in cui gli
uomini e gli dei cambiano di forma. Ciascuno di questi momenti è il pretesto per la
narrazione di una storia. È ancora la potenza evocatrice delle immagini che qui si
manifesta. Nulla di sorprendente allora se le descrizioni di queste metamorfosi
abbiano fornito altrettanti soggetti agli artisti. Essi utilizzarono in questo tipo di
produzione, ma anche nel ritratto e in altri generi, questo immaginario del mito.
Inoltre si appoggiarono su una lunga tradizione che aveva teorizzato le analogie tra le
apparenze umane e animali. Queste partecipavano, come ogni scienza divinatoria,
della volontà di interpretare la forma umana tramite il riferimento alle caratteristiche
degli animali. I comportamenti distintivi di ciascuna specie, assunti a criteri
psicologici, si ritroveranno nell`indizio formale della loro presenza nell`uomo. Il
raggiungimento della forma umana perfetta, come l`Apollo del Belvedere, è appunto
quella che non rinvia ad alcun riferimento animale. Lo studio degli zoomorfismi
umani fu dunque il mezzo privilegiato per apprezzare il grado di compimento delle
qualità dell`umanità in rapporto a quelle dell`animalità.
19
2.2 Storia della fisiognomica animale
L`idea che l`osservazione del mondo animale potesse fornire delle chiavi per
la comprensione dell`uomo era già acquisita a partire dall`Antichità. Nei suoi scritti
consacrati alle scienze naturali, Aristotele testimonia del posto preponderante che
occupava allora il sapere analogico, in quanto strumento utile per conoscere la parte
invisibile dell`essere. Se dissezionare un corpo umano era vietato, non era lo stesso
nei confronti dei cadaveri di maiali, scimmie o cani. Si poteva ben giudicare delle
parti interne dell`uomo attraverso le somiglianze che esse presentavano con quelle di
altri animali. Per lo meno per le parti situate al livello del ventre e del basso ventre,
considerate le più “animali”, nella misura in cui assicuravano le funzioni di
sussistenza e di riproduzione. C`è un fatto che colpisce, come attestano i primi scritti
che hanno per oggetto la conoscenza del carattere e delle inclinazioni degli uomini
tramite l'osservazione del loro aspetto e del loro comportamento: l`analisi del
funzionamento dell`anima umana fu ugualmente caratterizzato da questa
focalizzazione sull`animale, ben presente nella Storia degli animali di Aristotele.
“Esistono in effetti, presso la maggior parte degli animali, delle tracce di questi stati
dell`anima che, nell`uomo, si manifestano in un modo più differenziato. Poiché
docilità o ferocia, dolcezza o fermezza, coraggio o vigliaccheria, paura o sicurezza,
intrepidità o furbizia, e, sul piano intellettuale, una certa sagacia, sono queste delle
somiglianze che si ritrovano presso un gran numero di animali, e che ricordano le
somiglianze organiche di cui abbiamo trattato” (cit. in Baridon, Guedron, 2004).
I fondatori della fisiognomica animale hanno così affermato che le
somiglianze morfologiche esistenti tra alcuni tipi umani e certe specie animali
rivelino nei primi delle caratteristiche psicologiche o morali, collegate agli animali
ai quali essi sono imparentati.
Un trattato a lungo attribuito ad Aristotele considera che delle narici molto
larghe e schiacciate, come quelle dei buoi, annuncino la pigrizia; un naso grande
come quello dei maiali, la stupidità; dei nasi appuntiti, come quelli dei cani, l`umore
collerico; il naso camuso, come i leoni, la magnanimità; il naso aquilino, come le
aquile, l`audacia. Appare così un principio fondamentale e costantemente
riaffermato lungo la storia: l`opposizione manichea tra il bene e il male, il forte e il
20
debole, il coraggioso e il pauroso, il virile e l`effeminato… L`efficacia di queste
categorie sarà rafforzata dalla complementarietà dei due sistemi di rappresentazione,
l`uno fondato sull`immagine, l`altro sul testo.
A partire dal Medio Evo, mentre la fisiognomica penetrava in Occidente con
le prime traduzioni dei trattati antichi e arabi, la tradizione scolastica imponeva a
poco a poco dei paralleli tra i temperamenti, i peccati e gli animali, mortali e viziati
per natura. Considerati come altrettanti abbozzi imperfetti dell`uomo, gli animali
furono a poco a poco integrati in una sorta di bestiario moralizzato, che attraverso
differenti proiezioni antropomorfe, rimandava l`immagine di passioni o di difetti
tipicamente umani. Allo stesso tempo, delle figure zoomorfe e degli esempi di
espressioni del volto cominciarono ad apparire nei trattati d`arte medievali e nelle
raccolte di modelli utilizzati dagli artisti. Jurgis Baltrusajtis (1903-1988), storico
dell`arte francese di origine lituana, ha analizzato le modalità con cui queste forme
siano proliferate e si siano diversificate nelle decorazioni scolpite o nei margini dei
manoscritti. Senza dubbio le molteplici analogie e i confronti tra elementi umani e
animali propri dell`arte medievale non interessano unicamente il capriccio
ornamentale. Il principio secondo cui la prossimità morfologica di certe categorie di
esseri umani con alcuni animali permette di valutare il loro valore e il loro
comportamento, poteva effettivamente essere rivisto all`interno di un programma
didattico e morale. I Padri della Chiesa non avevano affermato che con la Caduta
l`uomo aveva perduto la sua perfezione originale per cadere nell`imperfezione degli
animali? Nel diritto ebraico l`adulterio, la sodomìa e la pederastìa erano già
assimilati alla bestialità. Messi sullo stesso piano dell`omicidio volontario, questi
“crimini” si vedevano sanzionati con la pena di morte. Sembra logico che, nella sua
impresa di fortificazione della famiglia e di consacrazione del matrimonio, il
Cristianesimo abbia vigilato a mantenere questa “tradizione dell`anatema”.
Ovviamente non era necessario che un pittore o uno scultore fossero impregnati di
teorie fisiognomiche perché dotassero i loro avversari di fede diversa di teste di bruti
bestiali. Nelle arti figurative, queste analogie non avevano sovente che un valore
generico. Ma appunto, le molteplici combinazioni di elementi antropomorfi e
zoomorfi nella rappresentazione del male procedevano da un simbolismo morale che
rinviava alla vulnerabilità del nostro essere spirituale, minacciato dal peccato. Non è
21
un caso certamente il fatto che San Tommaso d`Aquino abbia voluto liberare i corpi
dei risorti da qualunque funzione animale (Agamben, 2002). Ciò nondimeno va
ricordato che un suo contemporaneo, il poeta Reinmar von Zweter, ha descritto
l`immagine dell`uomo perfetto prestandogli degli occhi di struzzo e un collo di gru,
due orecchie di maiale e un cuore di leone, mani come artigli d`aquila e di grifone,
piedi come zampe d`orso. Gli occhi di struzzo, spiega, guardano amabilmente, i
maiali hanno l`udito piu` fine di tutti gli animali, il leone è la più nobile delle bestie,
l`orso la più furiosa, gli artigli del grifone mantengono stretto tutto ciò che
prendono, le zampe d’aquila sono generose e giuste, e il collo della gru è il segno
della riflessione (Baridon, L., Guedron, M., 2004).
L`ambivalenza che ogni rappresentazione che confronti l`uomo all`animalità
sembra generare vale per il testo come per l`immagine. Quando gli artisti medievali
dovevano mostrare i peccati capitali, potevano evocare il leone per la Collera, il
rospo per l`Avarizia, il cane per l`Invidia, il pavone per l`Orgoglio, il caprone per la
Lussuria, l`asino per la Pigrizia, il falco per la Gola. Ma l`associazione dell`uomo
all`animale non era univoca e rimandava talvolta a un contenuto perfettamente
positivo attraverso il simbolismo delle Virtù Cardinali e delle figure allegoriche della
Prudenza, della Castità o della Saggezza, per non parlare di questa o quella
rappresentazione di un San Cristoforo cinocefalo o di evangelisti animalizzati
ispirati alle visioni di Ezechiele. D`altro canto, poiché il volto non aveva se non
eccezionalmente la funzione di fissare un carattere individuale, questa associazione
si faceva generalmente in modo emblematico o allegorico. Certe fisionomie
caratterizzate circolavano comunque tramite le monete e le medaglie. Esse fornivano
delle informazioni sui tratti del volto di imperatori o di altre figure rese celebri dagli
storici e presentavano spesso dei caratteri zoomorfi.
Svetonio, nelle Vite dei dodici Cesari, aveva accompagnato ciascuna
biografia di imperatore con la descrizione del suo aspetto fisico. Nella misura in cui
il lettore vi trovava dei numerosi paralleli con il carattere, le azioni e i tratti dei
personaggi, egli poteva essere tentato di leggere questa opera e le altre concepite
secondo lo stesso principio come altrettante gallerie fisiognomiche. Poco a poco,
Caligola finì per divenire il tipo della crudeltà, Vitellio della voracità, Claudio
dell`imbecillità e via di seguito. Inoltre, quando vennero rappresentati sopra delle
22
monete, alcuni Cesari si videro associati a degli animali simbolici incaricati di
corrispondere all`interpretazione delle fonti testuali.
Con il Rinascimento i principi della fisiognomica comparata hanno
conosciuto un’estensione senza precedenti in Europa e hanno influito direttamente su
alcuni aspetti della produzione artistica. Come mostrato dalla caratterizzazione
molto forzata delle fisionomie nei grandi cicli narrativi e dalla nascita del ritratto
come genere autonomo, la società medievale di tipo comunitario ha allora
progressivamente ceduto il passo alla società moderna, piuttosto individualista, in cui
l`uomo si è posto come soggetto di studio e riflessione. Si può senza dubbio
affermare che il modo di utilizzare le analogie zoologiche nelle arti visive sia
sensibilmente evoluto nel corso del periodo. A partire dal Quattrocento appaiono
effettivamente alcuni esempi di composizioni dipinte in cui si rivelano assimilazioni
visive tra le figure di santi e gli animali che servivano loro da attributo. È comunque
nel campo del ritratto individuale che il principio dell`analogia animale ha allora
conosciuto le sue applicazioni più originali. Essendo la nascita del ritratto ormai
legata ad un`analisi più diretta della realtà oggettiva delle fisionomie, si potrebbe
pensare che le analogie zoologiche non dovessero più prendervi parte. Ma così
facendo si dimenticherebbe che le nuove immagini concepite dai pittori e dagli
scultori dovevano non soltanto fissare i tratti degli individui, ma anche evocare la
loro anima, ovvero elevare i modelli fino ad una tipologia la cui commemorazione
era ritenuta altamente legittima. Per alcuni teorici umanisti poi, le arti visive
dovevano sforzarsi di rimandare a dati talmente impalpabili come il temperamento o
gli slanci dell`anima degli esseri umani, per poter così pretendere di superare il
proprio statuto di arti meccaniche. Alla fine, impegnandosi a ricostruire il carattere
del loro modello tramite il ricordo che ne avevano, i ritrattisti optarono spesso per
delle soluzioni di compromesso. Si è spesso osservato che a differenza dei loro
colleghi fiamminghi, i ritrattisti italiani hanno instaurato un rapporto diretto tra
l`osservatore e il personaggio ritratto solo a partire dalla seconda metà del XV sec.,
privilegiando fin là una presentazione di profilo che restava molto vicina alle formule
del gotico internazionale. Ma è così sorprendente che, dovendo celebrare gli
individui che rappresentavano, ovvero evocare le loro qualità morali, questi artisti
abbiano scelto di sfruttare le soluzioni formali offerte dalla glittica (l`arte di incidere
23
pietre preziose) e dalla numismatica? L`interesse che alcuni di loro hanno
manifestato per il principio secondo cui la somiglianza dell`uomo con qualche
animale condizioni il suo carattere e gli conferisca delle inclinazioni vicine a a
quelle della specie di cui è il riflesso, ha portato ad esiti incontestabili. Ispirati alla
celebrazione dei grandi uomini cara all`Antichità classica, il Gattamelata di
Donatello e, in maniera ancora più evidente, il Colleoni di Verrocchio sono tra gli
esempi piu gloriosi in questo senso. In queste due statue equestri, che presentano
entrambe un condottiero ucciso nel momento in cui l`artista veniva incaricato della
committenza, il volto dell`eroe mercenario corrisponde al tipo leonino: lo sguardo
cupo, il naso regolare, le labbra sottili a sottolineare una bocca energica e larga, gli
conferiscono una grande espressione di forza e di inflessibilità.
6. 7.
È noto che, da Pisanello a Leonardo, il topos che associa il combattente
feroce al leone coraggioso ha conosciuto molto successo. Ciò è evidente ancora di
più nel busto di Cosimo I che Cellini ha realizzato verso il 1545-47. Animato da una
24
vita interiore molto intensa, questo ritratto esplicitamente “leonino” mostra che la
tendenza all`approfondimento dell`osservazione e della rappresentazione psicologica
non ha per nulla impedito ad alcuni artisti di proseguire sulla via delle analogie
zoologiche. Schematizzando, si può affermare che si vennero ormai a definire due
tendenze o approcci suscettibili a volte di incrociarsi: un primo approccio, collegato
alla funzione sociale del personaggio rappresentato, che privilegiava il tipo ideale a
costo di una spersonalizzazione del modello; un secondo approccio, più psicologico,
che aveva piuttosto per obiettivo di svelarne la specificità.
Interferenze e distorsioni
Nel 1528 Dürer aveva assegnato una funzione originale alla teoria delle
proporzioni umane: essa doveva non tanto fornire un canone di bellezza universale,
ma permettergli di produrre, partendo dalla variazione delle misure, ogni sorta di
figure possibili, tra cui i volti “leonini” e “canini”. Temeva però che una
applicazione eccessiva di tali analogie potesse condurre a un sistema irrazionale:
affemare che qualcuno abbia l`aria di un leone o di un orso, non equivale a giudicarlo
a partire da un`espressione piuttosto che da una sicura parentela fisica? Gli scritti di
Dürer indicano che la riflessione teorica sulle arti visive era sul punto di integrare
esplicitamente la questione della fisiognomica. Se, nei Quaderni, Leonardo aveva già
evocato la possibilità di elaborare una sorta di segnaletica del volto, è nel 1504, al
momento in cui questi lavorava alla Battaglia di Anghiari, che apparve il De
sculptura di Pomponius Gauricus, prima opera di teoria dell`arte che consacrasse un
capitolo intero al soggetto.
Tornando alle comparazioni zoomorfe care alla tradizione aristotelica,
Gauricus pretende che grazie a questa scienza gli artisti potranno ridare un volto ai
grandi uomini del passato i cui tratti del volto non ci sono pervenuti. Sarà sufficiente
ai pittori, scultori ed incisori di invertire il processo abituale dei fisiognomici,
ricostruendo il ritratto fisico a partire da quello morale che i vari testi o testimonianze
scritte hanno lasciato di un personaggio celebre. La sua opera segna
incontestabilmente una data impotante nella storia dei rapporti tra fisiognomca e arti
25
visive. Ma è nel 1586, con la pubblicazione del De umana physiognomia di
Giambattista Della Porta che la possibilità di dedurre il carattere di un personaggio a
partire dal confronto morfologico venne per la prima volta affermato con il sostegno
delle immagini. Questo trattato, che doveva conoscere numerose edizioni e
traduzioni, riprendeva la teoria già sviluppata nelle fisiognomiche antiche. Deve in
gran parte il suo successo alle numerose illustrazioni che l`accompagnano (fig. 8 - 9).
8.
Largamente fondate sulla giustapposizione di teste di uomini e di animali,
esse hanno fissato delle tipologie particolarmente feconde. Gli uomini il cui naso
evochi il becco di un rapace, i cui occhi siano vivi e scintillanti e il mento
all`indietro, accedono alla dignità e all`ardire dell`aquila. Quelli che hanno un volto
piccolo e giallastro come quello delle scimmie sono falsi, cattivi e viziosi. La testa
squadrata e massiccia come quella di un toro indica la forza fisica piuttosto che la
superiorità dello spirito. Le orecchie allungate e la fronte pronunciata come quelle
dell`asino, la stupidaggine. Alcuni tipi, il più sovente anonimi, si vedono associare ad
alcune caratteristiche fisiche delle pulsioni animali. Della Porta evoca così il caso del
suo fattore, la cui bocca era simile a quella dei montoni, segno inconfondibile
secondo lui di golosità e di imbecillità. Le analogie positive riguardano dapprima dei
personaggi celebri. Socrate è comparato a un cervo, la cui fronte spaziosa segnala
una grande sicurezza di giudizio, e Platone a un cane da caccia prudente, che rinvia
26
alla sagacia del filosofo ateniese. Gli imperatori romani sono esaminati attraverso le
rappresentazioni incise di busti o di medaglie in funzione delle descrizioni di
Svetonio. Della Porta ricorda per esempio il modo in cui il grande storico evoca
Cesare – la bocca sempre umida, le narici dilatate – e vi vede i segni di una
propensione all`impeto, che egli ritrova nella fisionomia del cavallo. Si vede come
l`interferenza delle fonti testuali e visive poteva spingere a rivelare il carattere degli
uomini secondo due punti di vista complementari: la mitizzazione e la denigrazione.
Su quest`ultimo punto, si ricordi che a partire dalla prima metà del XVI sec,
quando si moltiplicavano le rappresentazioni di creature ibride di cui numerosi testi
raccontavano la favolosa scoperta, il processo di zoomorfizzazione degli individui
era divenuto una delle armi essenziali degli incisori satirici e fu particolarmente
usato dai riformatori protestanti in lotta contro il papato. La polivalenza del ricorso
alle analogie zoologiche è in ogni caso sensibile in Della Porta: comparabile al
becco di un`aquila, il naso di Galba annuncia la sua maestà; meno fortunato, Vitellio
si vede rapportato al gufo a causa della grandezza della sua testa, indice della sua
viltà e della sua timidezza (fig. 9).
Senza dubbio non era nelle intenzioni dell`autore di indurre ad
un`interpretazione esclusivamente fisiognomica dei grandi uomini del passato: gli
scritti degli storici restavano indispensabili a chiunque volesse farsi un`idea precisa
della loro personalità. Ma è con quest`opera che, per la prima volta, le comparazioni
zoomorfe furono dimostrate tramite delle immagini di una così grande efficacia.
A partire dal XVII secolo le osservazioni fisiognomiche investirono
definitivamente il campo artistico, mostrando al tempo stesso una forte propensione a
privilegiare lo studio delle passioni, ovvero i sentimenti effimeri, a detrimento dei
caratteri fissi. Ciò detto, la voga delle analogie animali non doveva però affievolirsi,
testimoniando persino di una certa continuità tra il Rinascimento e l`età classica,
anche se si rilevava un`inclinazione verso le rappresentazioni dei tipi comici e
grotteschi.
È vero che, a partire dalla fine del Rinascimento, il principio delle
illustrazioni del De umana physiognomia aveva potuto incoraggiare ogni sorta di
associazione tra uomini e bestie, uomini e piante, e uomini e oggetti inanimati.
Hanno avuto un impatto anche sulla moda delle grottesche manieriste o delle
27
immagini paradossali, spesso composte di elementi privati del loro senso e aperte a
molteplici interpretazioni. La filiazione tra i disegni di Leonardo da Vinci e le
famose “teste composte” di Arcimboldo è stata ugualmente evocata. In effetti, così
come il gioco formale del bestiario fantastico, costituito da creature composte di
forme umane e animali sapientemente intrecciate, il principio della deformazione del
volto tramite espressioni o tratti animali si era mantenuto nelle botteghe milanesi,
incoraggiando la produzione e la diffusione di immagini di uomini-leoni, di uomini-
anatra o di uomini-asini pronti a sedurre gli amatori di “curiosità” (Baridon,
Guedron, 2004). E anche se questi esercizi formali non possono essere considerati
come delle caricature, il principio delle analogie e delle trasformazioni che essi
mettono in opera venne inevitabilmente sfruttato dagli inventori del genere.
9
Ciò si osserva a partire dagli anni 1594-1600, nel momento in cui, praticando
il ritratto carico, gioco grafico divenuto estremamente popolare in Italia, Annibale e
Agostino Carracci mettono a punto la caricatura nel senso moderno, liberandosi a
ogni sorta di distorsione fisiognomica. Gli esempi di volti animalizzati che gli sono
attribuiti testimoniano ancora una volta circa l`influenza diretta dell`opera di Della
Porta e della conoscenza degli studi leonardeschi. È chiaro che, impiegando questo
28
procedimento, Annibale e Agostino intendevano rendere più agevolmente
ricostruibili le caratteristiche fisiche dei loro personaggi e così svelarne la loro
natura profonda.
Giustapposizioni e ibridazioni
I teorici dell`età classica hanno particolarmente insistito su ciò che distingue
gli accidenti temporanei, che modellano l`apparenza dei volti, dagli accidenti
abituali che rivelano il carattere permanente. È da questo approccio che procede la
serie di celebri disegni di Charles Le Brun in cui alcune categorie di esseri umani
sono imparentate con delle teste animali (fig. 10).
10.
Questi disegni erano destinati ad illustrare la conferenza pronunciata
all`Accademia Reale di pittura e di scultura il 7 e il 28 marzo 1671. Le rare
testimonianze pervenute di questa conferenza sembrano confermare questo legame
29
verso l`antica tradizione fisiognomica. Le Brun ha tentato di valutare le qualità
morali degli esseri umani seguendo l`orientamento degli occhi e delle sopracciglia e
a partire da linee geometriche molto semplici. In molti disegni, le linee formano dei
triangoli i cui angoli più o meno aperti servono a misurare i vari gradi dello spirito di
ciascuna specie animale o di un tipo d’individuo che vi è imparentato. Determinante
è l`angolo formato dall`asse degli occhi e delle sopracciglia a seconda che si elevi
verso la fronte per avvicinarsi all`anima o, al contrario, che discenda verso il naso e
la bocca, le parti animali del volto. È dunque a partire dall`osservazione dei differenti
assi della testa che Le Brun ha creduto di poter risalire al carattere e alle attitudini
degli uomini e degli animali.
Si possono effettivamente trovare delle somiglianze tra Le Brun e Della Porta
laddove l`osservazione riprende il principio del rapporto quasi sistematico tra ogni
faccia animalizzata e la caratteristica ad essa associata: l`uomo-leone con l`audacia,
l`uomo-lepre con la timidezza, l`uomo-orso con la pigrizia, etc.
Contemporaneo di Della Porta, Montaigne, che aveva adottato una posizione
di continuità tra l`uomo e l`animale, comparava le azioni degli uomini a quelle degli
animali, eliminando così ogni distinzione radicale tra i due. Come Voltaire due
secoli più tardi, egli aveva sottolineato che a causa di un incorreggibile orgoglio
l`uomo si era persuaso di possedere una natura infinitamente superiore a quella degli
altri appartenenti al regno animale. Per Montaigne, le bestie erano soggette alla forza
dell`immaginazione, erano in grado di comunicare tra loro i propri pensieri così
come gli uomini, e di usare un linguaggio naturale, sapevano distinguere ciò che
poteva guarirle dalle malattie e si mostravano perfino capaci di apprendimento.
Osservando precisamente che le bestie sono sprovviste di un linguaggio che
permetta loro di esprimere un pensiero o delle emozioni, Cartesio doveva introdurre
invece una forte rottura tra animalità e umanità. Ormai ridotti a esseri meccanici
senza anima, gli animali non comunicavano più se non attraverso dei movimenti
naturali, dei segni delle passioni, che potevano facilmente essere imitati da macchine.
E in seguito tutti coloro che si sforzeranno di mantenere la maggior distanza
possibile tra l`uomo e gli animali cercheranno generalmente di ridurre
considerevolmente il registro delle loro espressioni. Detto ciò, i disegni fisiognomici
di Le Brun sembrano derivare meno dalle asserzioni di Cartesio che non dalle
30
suggestioni di La Rochefoucauld o La Fontaine sulla questione, spesso dibattuta
intorno al 1670, del rapporto tra gli uomini e gli animali. A volte disegnati al tratto
semplice di contorno, a volte modellati con più cura, di una potenza più plastica che
grafica, i suoi uomini-leoni, uomini-capre, uomini-aquile e altri sono fortemente
bestializzati, mentre ogni animale di riferimento mostra un`espressione di
intelligenza che si concentra nella resa degli occhi e delle arcate sopraccigliari. Non
derivando dalla caricatura né dal mostruoso, queste creature ambigue emanano
qualcosa di affascinante, e si può intuire l`interesse che questo soggetto doveva
suscitare in quella epoca: se era possibile vedere nella configurazione esteriore del
corpo degli animali i segni incontestabili dei loro costumi e del loro temperamento –
la robustezza e la nervosità del leone, indici della sua forza; l`agilità e la delicatezza
del leopardo, espressione della sua duplicità; l`aspetto feroce e brutale dell`orso,
segno della sua crudeltà, etc. – non si sarebbe potuto fare lo stesso con l`uomo? Non
diveniva attraente la possibilità di dedurre delle congetture a partire da segni fissi e
permanenti che caratterizzano i differenti aspetti fisici degli uomini? Non era così
inoltre che il pittore trovava uno dei mezzi più efficaci per rispondere alla questione
del ut pictura poesis?
Ai confini della specie umana
Per alcuni studiosi, il secolo dei Lumi sarebbe povero di analogie zoomorfe,
costretto tra un XVII secolo dominato dall`esempio di Le Brun e un XIX secolo
caratterizzato da una “mania” per gli animali. E se è vero che il periodo in questione
manifesta un gusto evidente per gli animali mascherati da uomini, sembra che le
prime opere che partecipano della tendenza fisiognomica del XVIII secolo non
facciano quasi più riferimento ai raffronti che avevano decretato il successo dello
Pseudo-Aristotele e dei suoi emuli. Certe opere invitano comunque ad attenuare il
proposito. È così per il Trattato della figura umana attribuito a Rubens e pubblicato
da Pierre Aveline nel 1773; vi si trovano in effetti alcune tavole incise che giocano
sui raffronti tra alcune teste scolpite ispirate alla statuaria antica e quelle di animali
“nobili” come il leone, il toro o il cavallo. L`autore del testo che accompagna queste
31
illustrazioni considera che l`uomo è un composto degli elementi dell`universo
comuni a tutti gli animali. Ciascun individuo, assicura, è caratterizzato da una
somiglianza dominante che influisce sul suo carattere. È sufficiente del resto
avventurarsi al di fuori del campo ristretto della letteratura fisiognomica per
accorgersi che la questione dei legami tra umanità e animalità non è probabilmente
mai stata altrettanto dibattuta.
È noto che per Rousseau è tramite l`utilizzo degli utensili e lo sviluppo del
giudizio riflessivo che l`uomo è potuto emergere dall`animalità. Secondo l`autore del
Contratto sociale, tale evoluzione ha allontanato l`uomo dalla propria pienezza
originale e dalla sua natura primaria. Buffon, che Rousseau aveva letto con
attenzione, lo affermava: “Tutto indica nell`uomo, persino nell`aspetto esteriore, la
sua superiorità sugli altri esseri viventi; si mantiene in posizione dritta ed elevata; la
sua attitudine è quella del comando; la sua testa guarda il cielo e presenta un volto
nobile sul quale sono impressi il carattere e la dignità; l`immagine dell`anima vi è
dipinta tramite la fisionomia, l`eccellenza della sua natura filtra attraverso gli organi
materiali e anima i tratti del suo volto; il suo andamento ardito annuncia la sua
nobiltà e il suo rango…” (cit. in Baridon, Guedron, 2004). Secondo il celebre
naturalista, solo l`uomo è capace di emettere un giudizio, di ricordarsi degli
avvenimenti e di proiettarsi nell`avvenire. Tali facoltà, legate alla sua propensione al
perfezionamento e al progresso, lo distinguono nettamente dalle bestie, poiché
queste sono sottomesse al proprio istinto e, conseguentemente, sono incapaci di
modificare il proprio comportamento. Occorre nondimeno sottolineare che Buffon e i
suoi contemporanei hanno anche prestato ogni sorta di carattere tipicamente umano
agli animali che studiavano: “nobiltà” al leone, “coraggio” al bue, “indegnità”
all`asino, etc. In effetti, anche se vedeva una differenza essenziale tra la scimmia e
l`uomo, il suo secolo è stato anche quello nel corso del quale, contro la reificazione
cartesiana dell`animale in macchina animata, autori come Maupertius, Réamur e
Condillac hanno agito per il diritto delle bestie dotate di sensibilità ed intelligenza.
Voltaire così difendeva le posizioni di Locke contro quelle di Cartesio: comparate un
bambino di quattro anni , che non sa fare nulla, con un gatto di sei settimane o con un
cane da caccia di un anno e mezzo, e sarete portati a credere che sia il piccolo
dell`uomo l`automa. La questione di sapere se la natura umana fosse
32
fondamentalmente diversa da quella dell`animale si poneva con sempre maggiore
intensità. Questa differenza era soltanto quantitativa? Era dovuta a un grado più o
meno elevato di intelligenza?
L`applicazione del dualismo ereditato da Cartesio non era stata senza
conseguenze sulla percezione degli esseri ibridi. Le sirene, i cinocefali, i satiri e altri
prodigi della natura cominciarono in effetti ad essere considerati come dei mostri o
come degli animali male interpretati. Sulla medesima linea, si era giunti fino a
invocare il carattere bestiale di certi popoli per rifiutare loro lo statuto di esseri
umani. Se i Pigmei, di cui parlava già Aristotele, furono a volte guardati come
intermediari tra i primati e l`uomo e se gli Eschimesi o i Lapponi sembravano
rivelare un` “alterità animale” che suscitava al tempo stesso sentimenti di repulsione
e di commiserazione, è nei confronti degli Ottentotti, come si può constatare
nell`articolo che fu loro consacrato da Jaucourt sull`Enciclopedia, che si cristallizzò
ogni repulsione (Baridon, Guedron, 2004). Non sapendo bene dove situare questi
esseri “intermedi”, quelli che li avevano osservati tentavano di farne la descrizione
ricorrendo ai vecchi paragoni con il regno animale: l`Ottentotto aveva le orbite
infossate, le orecchie, il corpo e le membra pelosi, i suoi capelli somigliavano alla
pelliccia di una pecora nera, emanava un odore spregevole, la sua femmina era dotata
di un`escrescenza di pelle dura al livello del pube. Inoltre, non solo gli uomini
dell`Illuminismo dibattevano circa l`umanità dei bifolchi o degli Ottentotti
chiedendosi se alcune scimmie antropomorfe fossero effettivamente delle scimmie –
nel dubbio Rousseau stesso le comparava ai satiri degli antichi e agli uomini silvestri
del Rinascimento – ma alcuni di loro arrivavano a insinuare che forse, oltre il velo
delle convenzioni e della dissimulazione, ogni individuo potesse rivelare un fondo di
animalità suscettibile di riemergere in ogni momento. L`animale, mediatore ideale
tra l`uomo e la natura, permetteva così di mostrare il “selvaggio” nascosto nel
fondo di ciascun essere “civilizzato”. Si può pensare che la moltiplicazione delle
storie dei bambini-lupo, l`apparizione degli uomini-orso, così come il successo delle
esposizioni di bambini selvaggi a partire dagli anni Sessanta del Settecento, riflettano
molto bene questo tipo di questioni. L`esistenza di tali creature non tendeva a
mostrare la labilità delle frontiere tra l`umano e l`animalità? Non testimoniava
dell`instabilità dell`umano? Nel Sogno di D`Alembert Diderot mette in scena un
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saggio colpito da una febbre che lo conduce ad esprimere le ipotesi più audaci, tra
cui quella della continuità delle specie. Vi si intravede una natura affascinante,
capace di sperimentare delle combinazioni libere da qualunque piano divino
rigorosamente prestabilito, in un certo modo una natura artista.
È senza dubbio difficile stabilire con certezza quanto questi dibattiti abbiano
potuto influire sulle arti visive del XVIII secolo. Eppure, osservando l`opera di Füssli
per esempio, è difficile aderire al mito dell`artista rinchiuso nel suo studio, tagliato
fuori da ogni contatto con il contesto culturale nel quale viveva. Si potrebbero
evocare anche: il Tiepolo degli Scherzi, in cui i maghi orientali impegnati in qualche
rito inquietante sono a volte provvisti di volti dai tratti animali; le scimmie del
Fragonard anatomista, che sembra essersi impregnato delle fantasmagorie occulte
del suo tempo; oppure l`ossessione della configurazione della bocca e delle labbra in
rapporto alle teste di certi animali nelle teste dello scultore austriaco Xaver
Messerschmidt; o ancora le creature bestiali che popolano le composizioni di Goya.
L`impatto della tassonomia delle specie, dei lunghi dibattiti circa l`origine dei mostri,
della voga della cranioscopia, delle teorie fisiognomiche e del magnetismo animale
non si è certo limitato al campo dell`illustrazione scientifica.
Per quanto concerne la fisiognomica zoologica, il campo d`espressione in cui
essa si è più largamente manifestata è stato quello dell`immagine satirica,
particolarmente nella Francia rivoluzionaria: l`animalizzazione del corpo è divenuta,
attraverso la caricatura, un metodo corrente per denunciare le deficienze politiche e
sociali. Così la tradizione fisiognomica ha conosciuto una voga senza precedenti
negli anni intorno al 1789. La caricatura come mezzo per identificare e denunciare le
malefatte di un personaggio tramite l`accentuazione dei suoi tratti era una pratica
ancora assai poco estesa: si faceva più generalmente ricorso a dei procedimenti in cui
era frequente l`uso di oggetti e di animali. Con la caricatura rivoluzionaria e
controrivoluzionaria i disegnatori esplorano un bestiario iconico assai variegato dove
le scimmie, le volpi, gli asini, i cavalli, i serpenti, i maiali, i cammelli e i tacchini
permettono di investire certi personaggi-tipo di un carico allegorico. Così un
quadrupede dalla testardaggine ostinata serviva a ridicolizzare l`armata
controrivoluzionaria. Le scimmie potevano rappresentare degli uomini di legge, le
volpi inquisitrici dei funzionari della polizia, i maiali dei finanzieri avidi. I
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disegnatori di queste caricature pretendevano così di rivelare il vero carattere delle
loro vittime, utilizzando largamente il principio della corrispondenza zoomorfa tra
l`aspetto fisico e il contenuto morale per stigmatizzare i componenti della Famiglia
Reale. A questi furono così conferiti numerosi riferimenti alla tigre, al lupo, al
falcone, alla scimmia, alla pantera o al leopardo. Fu senza dubbio la coppia costituita
da Luigi XVI e Maria Antonietta ad inspirare le associazioni più blasfeme.
All`impotenza del re corrispondeva la voracità e il desiderio della sua insaziabile
sposa, la quale, assimilata al rango degli animali più feroci, svelava così la propria
disumanità. Più ridicolo che pericoloso, Luigi XVI venne retrocesso al livello di
animale castrato da ingrassare prima di essere sgozzato, un volgare maiale da
carnevale, ovvero un tacchino. Il messaggio, continuamente ripetuto nelle caricature
e nelle brochures dell`epoca non può essere più chiaro: la coppia reale non è più in
grado di incarnare l`ordine politico e sociale. A loro volta, i controrivoluzionari si
impadronirono delle figure della bestialità per rivolgerle contro i propri avversari.
Tra gli altri, Robespierre fu associato a un gatto selvatico, Marat ad un uccello
notturno. La lista degli animali politici doveva considerevolmente allungarsi a partire
dal XVIII secolo. Al punto che Napoleone, nelle caricature inglesi, venne
rappresentato come un Corsican spider (ragno della Corsica), che inghiotte delle
mosche assunte a simbolo delle nazioni europee. Il fenomeno ha continuato ad
amplificarsi, senza tuttavia conoscere profondi mutamenti. Dopo il 1830 ha
raggiunto forse il suo apogeo con Daumier o Grandville. Questi artisti tentarono di
screditare un regime che riduceva la libertà di stampa. I parlamentari divennero degli
alienati per Daumier, degli animali da cortile o dei rappresentanti impagliati di specie
curiose per Grandville. Si vede dunque come l`influenza della storia naturale sia
stata forte in un momento chiave della storia francese che ha segnato l`inizio dell`era
moderna.
L`animale, la macchina e l`evoluzione
La rivoluzione industriale ha fatto evolvere rapidamente il complesso delle
relazioni tra l`uomo e gli animali sotto il segno della macchina, la “bestia d`acciaio”,
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il totem delle società moderne. In una certa misura, le macchine hanno a poco a poco
liberato gli animali dalla loro funzione di produttori di energia naturale, ma allo
stesso tempo le condizioni di vita dei cavalli e degli animali da bestiame si sono
degradate. Questo complicato fenomeno ha allontanato prima di tutto gli animali
dall`uomo, ma ha permesso anche di dare ad alcuni di loro uno statuto sconosciuto a
un gran numero di esseri umani. Si vide così svilupparsi presso i borghesi europei un
gusto che persiste ancora oggi per gli animali da compagnia, privilegio dei re e degli
aristocratici. Per quanto concerne la città industriale, viene a formarsi una nuova
coppia, il cane con il padrone, con una somiglianza tra i due che i caricaturisti
dell`epoca si compiacevano di esaltare. Allontanatosi dalla natura e da un rapporto
tradizionale di tipo utilitarista con le bestie, il cittadino delle grandi città instaurava
con il suo animale dei legami sentimentali di un nuovo tipo. Furono d`altronde gli
animali domestici ad essere oggetto di protezione da parte di alcune società inglesi,
tedesche e francesi. Battere il proprio cane divenne il segno di uno stato di inciviltà:
occorreva da allora in poi essere “umani” con le bestie. Un grande intellettuale
dell`epoca come Victor Hugo si prodigò per la creazione della “Società francese di
protezione degli animali”.
Quanto agli animali selvaggi degli altri continenti, ci si era abituati a
conoscerli con Buffon, ma gli esploratori e i naturalisti del XIX secolo rilevavano
ogni anno delle nuove specie. Esse popolavano le immaginazioni umane di mostri
ben più reali di quelli riportati nei racconti di antichi viaggiatori come Marco Polo.
Queste nuove specie affascinavano non tanto perché parevano in via di estinzione,
ma poiché incarnavano la potenza selvaggia, così come la fauna e i popoli che le
circondavano. Questi animali arrivarono ben presto in Europa. L`orang-outang Jack
divenne una celebrità. Più affascinanti ancora divennero gli animali feroci, i leoni del
“Giardino delle piante” di Parigi, disegnati da artisti romantici e animalisti, come
Delacroix; ancora di più lo divennero le bestie mostrate alle folle durante le fiere.
Alcune litografie rendono conto di questo immaginario, in cui si integrano perfino
dei mostri ibridi. Esse permisero di familiarizzare con l`incredibile diversità della
fauna mondiale, che trovava agli occhi dei caricaturisti il suo contraltare nella folla
delle grandi città. In questa epoca inoltre vengono aperte al pubblico le collezioni di
storia naturale, conferendo una dimensione artistica alla tassidermia.
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Alla bestia selvaggia va aggiunto poi l`animale utile, produttivo. Il cavallo dei
calessi era al centro di un dibattito sollevato da chi protestava contro la sorte penosa
che lo attendeva; allo stesso tempo però si vedeva assegnare l`utile destino di
divenire carne da macello. La nascita dell`industria della carne e la creazione dei
grandi centri per il macello si accompagnarono ad una razionalizzazione incessante
tesa a perfezionare le razze animali. La zootecnia si sviluppò a partire dal 1850 con il
generoso obiettivo di sfamare tutti gli uomini.
È da sottolineare come le nuove condizioni che l`uomo riservava all`animale
non erano che il riflesso dello statuto che l`essere umano assegnava a se stesso. La
macchina effettuava una parte dei lavori spiacevoli, ma essa era ugualmente una
mangiatrice di uomini in quanto alienava il proletariato. Queste nuove situazioni
sociali contribuirono a determinare una rivoluzione scientifica, filosofica ed
epistemologica. Essa ci conduce dalla storia naturale alla sociobiologia implicando
un`evoluzione rapida della concezione del posto dell`uomo nella Natura. Rendendo
evidente il fatto che l`insieme delle forme di vita, almeno nel loro stato attuale, non
mostravano più una creazione divina, i naturalisti fecero dell`uomo il responsabile
del suo dominio sull`insieme del mondo animale. Le tesi darwiniane, in particolare la
selezione naturale, servirono presto non solo a legittimare questo fatto, ma
determinarono ugualmente un modello di sviluppo basato sul colonialismo, lo
sfruttamento o lo sradicamento degli esseri umani giudicati inadatti alla società
tecnica e mercantile che andava costruendosi.
I dibattiti in Europa e in particolare in Francia furono numerosi, stimolando
l’immaginario degli uomini del XIX secolo, che cercavano nella natura il modello di
un`organizzazione considerata come perfetta. Le dottrine successive di filosofia
naturale opposero i partigiani delle concezioni unitarie ai classificatori. Nel primo
caso l`uomo sottolineava la sua appartenenza all`insieme del regno vivente; nel
secondo invece, sulla scia di Linneo, rinforzava la sua originalità e perfino il suo
predominio, conferendosi il ruolo di ordinatore della Creazione. La straordinaria
diffusione delle idee scientifiche nella cultura europea diede vita ad una letteratura
di divulgazione molto diversificata e capace di sedurre ogni categoria di lettori.
Progressivamente, nel corso della seconda metà del XIX secolo, la tesi darwiniana
era entrata nel linguaggio comune sotto forma di formule semplicistiche e
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sorprendenti come “l`uomo discende dalla scimmia”, inaudite per l`epoca ma rese
più plausibili dalle coeve scoperte paleontologiche. E nonostante tale parentela gli
apparisse ingombrante, occorreva pure che l`uomo accettasse di non essere più
direttamente imparentato con Dio ma con dei quadrumani. Ben presto, i primi fossili
di ominidi vennero a confortare queste teorie permettendo a ciascuno di ritrovare in
questi uomini primitivi dei caratteri scimmieschi evidenti.
La diffusione di queste idee eccitava ancora di più l`immaginazione in quanto
avveniva spesso con il supporto delle immagini, più o meno serie. L`accesso
all`attualità scientifica era in effetti favorito dall`emergere di nuove tecniche di
edizione che permettevano di riprodurre delle illustrazioni e di collegarle
direttamente al testo, nello stesso volume, ovvero sulla pagina stessa. La litografia e
la xilografia permettevano la proliferazione dei libri illustrati. La fotografia venne
progressivamente a incrementare l`uso considerevole di immagini relative ad ogni
campo, compreso quello del ritratto. A partire dal 1850 ciascuno voleva e poteva
avere il proprio ritratto. Questo però non era sempre vantaggioso per il modello. Gli
artisti, che vedevano evidentemente nella fotografia un concorrente micidiale,
stigmatizzarono il carattere bestiale, poiché non idealizzato, dei ritratti fotografici.
Balzac pretendeva perfino che ciascuno scatto preso di una persona le sottraesse al
contempo una parte di umanità. Cancellando i caratteri individuali e annichilendo, a
causa dei lunghi tempi di posa, il gioco delle espressioni, il ritratto fotografico alle
sue origini trasformava ciascun uomo o donna in un semplice rappresentante della
propria specie. Lo spettro dell`animalità minacciava l`umanità, con una forza
accresciuta dal fatto che la riproducibilità delle immagini ne imponeva l'evidenza ad
un gran numero di sguardi.
Nella seconda metà del XIX secolo la diffusione delle tesi di Charles Darwin,
e più ancora la loro ricezione deformata da successive semplificazioni, fece dunque
accentuare il fenomeno. L`uomo ridivenne, nel bene e nel male, un animale e,
appoggiandosi sulla teoria della selezione naturale, la sociobiologia non tardò a
proporre di reggere le società umane su dei modelli naturali. Da allora in poi, i
comportamenti degli animali furono usati nell`elaborazione di teorie sociali e
politiche che intendevano preparare una società perfettamente efficiente, in quanto
basata su delle verità profondamente radicate negli istinti primordiali.
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Charles Darwin nei suoi lavori tesi a comparare le espressioni umane con
quelle animali, metteva in evidenza delle parentele che non erano soltanto originali o
profondamente nascoste nell`anatomia: esse si ritrovavano in ogni inflessione della
forma della bocca, in ciascun movimento dei muscoli del viso. Il padre della teoria
dell`evoluzione distingueva i movimenti abituali acquisiti ereditariamente e le azioni
riflesse. Ma mostrava che questi due tipi di movimenti erano legati e che avevano
l`uno e l`altro un`origine animale. Secondo Darwin, “il fatto che certe espressioni
siano comuni a delle specie distinte ancorché imparentate, come i movimenti degli
stessi muscoli facciali durante il riso nell`uomo e in alcune scimmie, diviene un
poco più comprensibile se crediamo che essi discendono da un antenato comune.” E
perfino se questi propositi mirano a provare l`esistenza di questo antenato generico e
non a caratterizzare dei comportamenti individuali, essi sembrano giustificare la
mania per gli animali inaugurata mezzo secolo prima e tutta la tradizione
fisiognomica.
Il fascino per l`animalità
Sotto una forma più o meno scientifica, la fisiognomica perdurò e conobbe persino
una popolarità senza precedenti. Venata di intuitivo buon senso e di tentazioni
divinatorie, essa si accompagna nei secoli allo sviluppo dello studio anatomico,
giungendo così ai Physiognomische Fragmenten (Frammenti di Fisiognomica) di
Lavater, che ebbero larga diffusione e furono più volte editi lungo tutto il XIX
secolo. Lavater (1741 – 1801) fu teologo, convinto come Della Porta che esistano
delle sottili armonie tra anima e corpo; unisce al sentimento religioso la tendenza
illuministica all`osservazione “scientifica” del mondo naturale. Convinto che la virtù
abbellisca ed il vizio deformi, trovò corrispondenze tra uomini ed animali, tra i tratti
del volto e le passioni dell`anima, tra i membri di una stessa comunità nazionale.
Condusse studi sul volto, sul capo e sulle mani, passando anche in rassegna le
fisionomie dei grandi uomini del passato e proponendosi come fine ultimo quello di
migliorare moralmente l`umanità.
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Tra il Settecento e l`Ottocento Gall inventa la frenologia, la quale si basa
sulla convinzione che tutte le facoltà mentali, le tendenze, gli istinti e i sentimenti
hanno la loro rappresentazione sulla superficie del cervello. Si propone di
riconoscere le molteplici disposizioni intellettuali e morali dell`uomo e degli animali
dalla configurazione del loro cranio. Ricerca le “bozze” che, in punti diversi del
cranio, esprimono il prevalere dell`una o dell`altra facoltà. Hegel la critica poiché
avverte come il discorso sul cranio o sulla fisionomia potrebbe portare a marchiare
un individuo e un`intera razza. La craniologia e la frenologia di Gall e di Spurzheim,
che si dicevano fondate sulla conoscenza anatomica del cervello umano, ne
deducevano dunque dei dati relativi al carattere. Queste nuove pratiche riscoprirono
in parte la tradizione fisiognomica e, ancora più importante, ritrovarono delle
analogie con l`animale. Non occorreva altro perché la diffusione di queste “scienze”
innescasse una straordinaria proliferazione di caricature che rivestivano con abiti
umani le bestie alla moda, o al contrario, mettevano a nudo la bestialità di personaggi
celebri dell`epoca. Al di là della satira sociale, questo rinnovamento della
fisiognomica permetteva di vendere grandi tirature di guide e di manuali per la scelta
dello sposo e della sposa o di riconoscere il volto di un ladro o di un ciarlatano, etc.
Alcuni dei loro autori pretendevano sinceramente una reale scientificità. Gli
innumerevoli manuali di divulgazione consacrati alla fisiognomica hanno così
assicurato una larga diffusione di questi criteri zoomorfi.
Il tedesco Sophus Schack, sulla scia di Lavater, intitolò la sua opera
Physiognomische Studien e ne consacrò la metà alla zoofisiognomica. Immagini alla
mano, comparava Talleyrand ad una volpe, un vecchio disertore ad un orso,
l`alienato idiota ad un topo pauroso e furtivo, il “domestico muto” a un merluzzo.
(Baridon, Guedron, 2004)
Nel contesto particolare della Francia dove il criminale era prima di tutto
considerato come un essere privo di ragione al momento del suo atto delittuoso, nelle
prigioni e negli asili i frenologi si adoperavano a riconoscere i tratti di una bestialità
ancora più facile da diagnosticare in quanto segnalata da un verdetto. Nella
convinzione che la mostruosità morale fosse la conseguenza di quella fisica, un
esperto dell`epoca, H. Bruyeres, riportava nella sua opera una serie di ritratti di
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uomini, ancora più inquietanti in quanto i loro volti portavano già i segni della
prigionia.
In una certa misura ciò era il segnale di una inquietudine sociale più
profonda. In un`epoca in cui i movimenti rivoluzionari mettevano in pericolo la
crescita economica della grande borghesia e gli attentati anarchici colpivano a caso,
sulle città si affacciava lo spettro della degenerazione. La città stessa ne sarebbe
stata la causa, offrendo nella più grande promiscuità il lusso e la miseria, la bellezza
e l`orrore. Era precisamente a causa del fatto che l`uomo aveva abbandonato il
proprio ambiente naturale che la sua parte animale, senza più regole, minacciava ad
ogni istante di risorgere e di mutarlo in mostro. Cesare Lombroso e Max Nordau,
intorno al 1900, ne vedevano i segnali negli alienati e nei delinquenti, ma anche nella
vita artistica. Cesare Lombroso (1835 – 1909) è stato il fondatore dell`antropologia
criminale, ed ha elaborato una teoria della delinquenza come espressione di una
particolare conformazione strutturale. Fedele ad un concetto naturalistico dell`uomo
in quanto organismo vincolato da legami genealogici a tutta la restante serie degli
esseri viventi, egli considerava l`azione dell`ereditarietà unitamente a quella
dell`ambiente. In seguito alle sue ricerche ha creato la teoria dell`atavismo, secondo
la quale nel delinquente sarebbero presenti caratteri ancestrali, o meglio il
delinquente sarebbe un soggetto il cui sviluppo si è arrestato a stadi evolutivi
passati: dunque il delinquente per Lombroso è un anormale, nel quale si trovano
caratteri abnormi anatomici, biologici e psicologici, molti dei quali di carattere
atavico. Perciò, poiché questi caratteri si ritrovano associati negli animali, nei
primitivi e nei selvaggi ad azioni criminose, il crimine è una disposizione naturale.
Seguace di Lombroso, Max Nordau (1849 – 1923) immaginò di aver trovato i
segni di questo atavismo in molti poeti, pittori e figure letterarie dei suoi giorni,
principalmente tra gli appartenenti al simbolismo e all`impressionismo. Egli propose
la sua teoria al pubblico nel libro del 1892 Entartung (Degenerazione). Le teorie di
Lombroso non sono molto considerate al giorno d'oggi, e senza di esse la teoria di
Nordau crolla. Comunque, secondo Max Nordau l`artista, per i suoi costumi o per gli
atteggiamenti eccentrici che lo distinguevano, incarnava queste irregolarità della
salute, della morale e dell`intelligenza, che ben spiegavano la relazione tra genio e
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follia. Ma nel dire questo in fondo non faceva che seguire gli artisti stessi, i quali
rivendicavano sempre di più una certa brutalità animale.
Durante il Rinascimento, e in particolare nel XVI secolo, certi artisti,
soprattutto italiani, utilizzarono l`animale come emblema personale seguendo in ciò
Pomponius Gauricus. Tale identificazione comportava spesso un atteggiamento
eccentrico e una sessualità condannata dalla Chiesa. Il Sodoma ( ?1477 – 1549)
scioccava non soltanto per la sua rivendicazione omosessuale, ma anche per il suo
modo di abbigliarsi e per il suo comportamento stravagante, con cui rivaleggiava con
gli animali. Lo scultore bronzista Leone Leoni (1509 – 1590) trovava nel proprio
nome un`identificazione naturale che giustificava il suo carattere. I pittori in generale
furono identificati con la scimmia, secondo il topos peggiorativo della pittura simia
naturae (scimmia della natura). A partire dal XVIII secolo gli artisti si
rappresentarono con il proprio animale domestico, come Hogarth con il suo cane
Trump. L`apogeo del fenomeno si situa probabilmente all`inizio del XX secolo
quando, rivendicando la degenerazione di cui venivano accusati, gli artisti divennero
i catalizzatori dello stato selvaggio dell`uomo e del suo primitivismo, appellandosi
alla brutalità dei “Fauves”. Oggi ancora, periodicamente, l`artista si mette in scena
come animale, a volte in modo ostentato, tanto sembra acquisito nel pubblico che si
tratta di una prova del suo genio, allo stesso modo di una sessualità esasperata, un
aspetto non curato, un linguaggio osceno, etc.
I lavori di Freud hanno giocato un ruolo fondamentale in questa rivalutazione
della parte animale dell`uomo. Se la fisiognomica e la frenologia, che si possono
considerare come pratiche che in parte preannunciavano la psicologia moderna,
conducevano a svalutarla, la psicanalisi ne rivelò il carattere consustanziale. Il fatto
che la natura profonda dell`individuo risiedesse in parte in un inconscio che si
mostrava solo nei sogni e che poteva talvolta condurre alla follia o agli atti più
insensati, avallò l`identificazione dell`artista con un essere che avesse salvaguardato
la propria animalità. Il surrealismo, scegliendo deliberatamente il versante
dell`immaginario, diede vita ad un vero e proprio bestiario e creò dei nuovi mostri
ibridi. Utilizzò, come testimonia soprattutto l`opera di Max Ernst, delle tecniche
allucinatorie, in cui il fortuito e il premeditato si associano per sollecitare i poteri
dell`immaginazione e generare degli ammirevoli ibridi. Esso riscoprì gli artisti
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interessati agli animali del XIX secolo e in particolare Grandville. Gli artisti del
gruppo Cobra cercarono di recuperare nell`animale una forza istintiva capace di
liberare l`immaginazione. Karel Appel davanti alla sua tela si comparava ad una
tigre, e dichiarò di aver sognato tutta la vita di “dipingere l`uomo nella dimensione
dell`animale e l`animale nella dimensione dell`uomo, con sullo sfondo l`idea di una
confusa realtà mitologica, paradisiaca […]”, con “il ricordo di qualche dimensione
armoniosa, dimenticata, nascosta nella memoria o velata”. Asger Jorn stimava che
“gli animali, come dei maghi o degli artisti, parevano vedere tutto in termini di segni
sensoriali o sensazioni piene di significato” (cit. in Baridon, Guedron, 2004). Francis
Bacon muta l`uomo in bestia e lo mette in gabbia. In generale quindi, la psicanalisi
ha autorizzato gli artisti a rivendicare per se stessi e a fare accettare agli altri
questa parte di animalità che era stata fino ad allora negata. Rodin, all`inizio del
XX secolo, pretendeva che l`artista, nel guardare i suoi modelli umani, vi scrutasse
“lo spirito ripiegato dell`animale”. Sfortunatamente, tale presa di coscienza non
impedì le peggiori atrocità come se la bestialità ne fosse uscita legittimata. George
Bataille presentiva nel 1929 che la metamorfosi dell`uomo in animale contenesse un
violento istinto di morte il quale, facendo sorgere la bestia dall`essere, lo avrebbe
ridotto alla sua sola apparenza umana.
Il bestiario dell`odio
Nonostante l`animalità fosse stata riabilitata, essa continuava ad alimentare
una rete di analogie il più delle volte dispregiative. La fisiognomica continuò ad
interessare un vasto pubblico sotto delle forme editoriali commerciali che giocavano
e giocano tuttora con la credulità dei lettori. I manuali di psicologia popolari
amalgamano volentieri i simboli cristiani, l`astrologia e i dati fisiognomici. Questa
tradizione sembra dover essere continuamente riattivata. Gerard Encausse, detto
Papus (1865 – 1916), considerava che gli individui si ripartissero in quattro categorie
corrispondenti ai quattro evangelisti e ai loro “geroglifici” animali. Il mago Scemani
invitava i suoi lettori a disegnare grossolanamente i volti che incontravano per
scovarvi la somiglianza animale, da studiare a partire dall`angolo facciale e dalla
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frenologia. La morfopsicologia, che studia la personalità attraverso i tratti del volto,
pur fondandosi su criteri scientifici più solidi, ricorse talvolta a delle comparazioni
con gli animali.
Eppure, anche avendo riabilitato l`animalità dell`uomo, il XX secolo sembra
caratterizzarsi per la preoccupazione di evidenziarne la sua bestialità. La Prima
Guerra Mondiale mostrò ai combattenti e in particolare agli artisti il valore derisorio
che si attribuiva ormai alla vita umana. Tra le due guerre erano certo numerosi, sia
tra gli artisti che tra i politici, coloro che aspiravano a costruire un “uomo nuovo”,
ma erano probabilmente gli indizi di una perdita di umanità che essi sentivano.
Secondo un`altra ipotesi, la prossimità della morte poteva sembrare a questa
generazione come l`ultimo momento di confronto con la sostanza dell`uomo, come
se la paura della morte fosse il solo momento in cui vedere sorgere la quintessenza
della natura umana, tra lo stadio della vita animale e quello del cadavere. Questa
visione sembra veicolare una concezione pessimista dell`umanità, la quale si
rivelerebbe soltanto nell`istante in cui si confronta con se stessa, in un processo di
autodistruzione in cui ben poche specie animali si avventurano.
Uno scrittore che ha vissuto la medesima esperienza della guerra considerava
ugualmente che l`essere umano avesse solo un valore animale. Inoltre non intendeva
riconoscere ad alcuni se non la qualità di parassiti, larve o vermi. Louis-Ferdinand
Céline (1894 – 1961) illustra il suo antisemitismo con metafore animali che
assimilano gli ebrei a dei “parassiti”, dei “mostri”, degli “ibridi falliti” che sarebbero
le vittime soltanto delle proprie degenerazioni. Nell’ ”allevamento umano” Céline
attribuisce la qualità di agnelli agli ariani che sarebbero le vittime! Questa visione
assurda non partecipa soltanto di una concezione assai pessimistica dell`essere
umano, che viene assimilato in generale alla larva. Essa reclama lo sradicamento
degli ebrei che erano da tempo abbassati al rango di animali impuri. Ma mai prima
di allora, in questo gioco al massacro delle identificazioni zoomorfe, non ci si era
così ostinati ad assimilarli ai vermi e ad assegnare loro un`esistenza senza volto e
senza sguardo. Non erano quasi neanche più degli animali.
In questo Céline non faceva che seguire una fin troppo lunga tradizione
recuperata da Adolf Hitler, che nel Mein Kampf ricorreva al medesimo “bestiario” e,
più in generale, a una concezione della storia fondata su rapporti di forza. In effetti,
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secondo lui, le grandi civiltà si erano costituite non grazie ad un migliore padronanza
della tecnica, ma sottomettendo le popolazioni sconfitte per ridurle al rango di bestie
da soma. Questo programma, come si sa, venne applicato e le sue conseguenze
naturali furono l`assimilazione di quelli che erano considerati come degli inferiori a
degli animali da usare per il lavoro, da sterminare con gas insetticidi ed inceneriti
come degli organismi impuri. Qualche mese di internamento era sufficiente infatti a
trasformare questi esseri umani, al punto che alcuni di loro si vedevano come insetti.
Nello stesso tempo, il III Reich fu il primo stato a promulgare delle leggi per
proteggere gli animali domestici in modo estremamente efficace. In questo campo,
come nella gestione del capitale umano, il nazismo voleva scegliere quelli che
meritavano di essere preservati, migliorati geneticamente e riprodotti. Walter Darré,
Führer dei contadini del Reich, pensava che saper riconoscere le razze umane fosse
un dono innato del tutto comparabile a quello di certi allevatori di bestiame
particolarmente “connaisseurs”. Quanto agli animali selvatici, precisamente poiché
l`uomo non ha potuto addomesticarli, beneficiano da parte di questo regime della
stessa benevolenza, soprattutto se possono servire da emblemi. L`aquila tedesca ne è
un esempio. Hitler stesso amava identificarsi con il lupo, scegliendo quasi sempre
per quartier generale dei luoghi il cui nome evocasse l`animale selvatico. La sua
solitudine contribuiva a disegnare l`immagine di colui che si era dato la missione, in
quanto artista supremo, di sacrificarsi per compiere l`opera perfetta modellando il
popolo tedesco.
L`epoca era dunque cupa e piena di mostri malauguratamente reali, accaniti
contro l`umanità, la cultura e la civiltà. I sopravvissuti dai campi di concentramento,
come Primo Levi, hanno testimoniato dell`incredibile “bestialità” e del sadismo
sfrenato dei loro carnefici, della animalizzazione delle vittime, tosate e
immatricolate prima di essere abbattute o appese a ganci da macelleria. Per
denunciare questi mostri troppo umani, in un vano tentativo di destabilizzazione e di
resistenza, gli artisti hanno spesso scelto la formula più incisiva agli occhi della
maggioranza degli uomini: quella dell`analogia allegorica tra l`Uomo e la Bestia.
Così alle sottili ibridazioni freudiane praticate in tempo di pace sono state
preferite le combinazioni tradizionali, divenute popolari da secoli o inscritte nella
nota araldica nazionale: quella dell`uomo con testa di maiale come simbolo della più
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bassa animalità, o a testa di aquila, immediatamente identificata con il demone
nazista. Nel 1936 John Heartfield comparava il Führer ad un avvoltoio. Nella grande
allegoria della notte germanica de “I sette peccati capitali” (1933, Karlsruhe,
Stadtliche Kunsthalle) di Otto Dix, si vede sorgere, dietro il piccolo Hitler a cavallo
di una vecchia strega, un Minotauro diabolico che brandisce una spada, con la bava
alla bocca (fig. 11).
11.
A partire dal 1935 tutta l`opera di Ernst è tesa alla denuncia della barbarie
dilagante attraverso la distorsione dei grandi miti germanici. Le nere foreste
romantiche si trasformano in orde di chimere, le città si pietrificano in una visione
premonitrice (“La città pietrificata”, 1935). Ugualmente la grande allegoria
denominata ironicamente “L`angelo del focolare” del 1937 vede rappresentato il
Reich sotto forma di aquile ed avvoltoi.
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Meno tradizionale, la tecnica del collage ha allora mostrato la sua efficacia.
Servendosi di testi e di immagini naziste per una contro-propaganda che si serviva
della caricatura politica, John Heartfield ha colpito nell`immaginario, conferendo
teste di maiale o di iene ai dignitari nazisti ed ai grandi capitalisti. Con le sue
fotografie, accostando immagini ritagliate a messaggi contraddittori, e facendo
esplodere in smorfie i volti, l`ex foto-montatore ha ugualmente testimoniato
dell`oscillazione irreversibile della civiltà verso la barbarie. E il fotomontaggio, fin là
accantonato nelle delicate ricerche oniriche e poetiche, è divenuto l`arma più
temibile, poiché la più diffusa, contro la menzogna totalitaria.
12.
Persistenza della zoofisiognomica
Nonostante queste testimonianze drammatiche, al giorno d`oggi gli
illustratori, i pubblicitari e i caricaturisti ci fanno ancora ridere quando assimilano
l`essere umano ad un (altro) animale. Questa straordinaria permanenza del principio
della fisiognomica si spiega senza dubbio con la dilagante tendenza alla
antropomorfizzazione. Certo l`antichità abbonda di esempi che testimoniano
l`anzianità del fenomeno; eppure mai l`animale è stato così strettamente assimilato
all`uomo quanto nell`epoca contemporanea. Gli animali da compagnia,
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estremamente numerosi nelle società occidentali, hanno i loro canali televisivi, i loro
centri di benessere, i loro psichiatri, etc. L`animale domestico è divenuto l`immagine
fantasmatica del suo padrone, raro ed elegante nei quartieri chic, pitbull terrificante
nelle periferie degradate. L`insieme del processo di domesticazione mira infatti a
modellare l`animale affinché risponda ai desideri del suo proprietario. Se alcuni tra
loro vogliono mostrare la propria potenza dominando un cane cattivo, la maggior
parte cerca al contrario un individuo di cui prendersi cura come di un figlio, da cui
dipende l`elaborazione di razze di animali di taglia piccola da appartamento.
L`uomo-animale
Dal dopoguerra ad oggi, nonostante il pullulare di animali nella
documentaristica, nell’iconografia, nell’immaginario, è stata sancita la
desertificazione della presenza animale nella “cittadella” dell’uomo. L’icona animale
si è diffusa a macchia d’olio nella cultura proprio per compensare la scomparsa
dell’animale in carne e ossa dall’ecosistema umano, ma in realtà incentivando la
sostituzione.
Se la zootecnia ha sfruttato le mutazioni spontanee del patrimonio genetico di
una specie, la genetica è oggi capace di modificarlo volontariamente. L`allevamento
degli animali da macello è direttamente chiamato in causa, ma la medicina
ugualmente poiché è già possibile rendere compatibili gli organi di certi animali con
il sistema immunitario umano. Queste bestie transgeniche forniranno il materiale per
scongiurare la penuria di organi. Esse salveranno delle vite umane, che non saranno
così più completamente umane. L`uomo di domani vincerà forse una parte del suo
destino di animale mortale sradicando le malattie e allungando la durata della sua
vita. Per far ciò, paradossalmente, gli sarà necessario ricevere in lui una parte di
animale. Questa ibridazione gli permetterà di raggiungere questo stato che sembra
averlo sempre ossessionato: essere un uomo-animale.
48
Considerazioni conclusive sulla zoofisiognomica
La breve storia, riportata nei paragrafi precedenti, dei momenti chiave della
rappresentazione e della raffigurazione dell`uomo-animale, ha mostrato che questo
fenomeno è costitutivo della percezione dell`Altro e dell`identità umana in generale.
Determina al tempo stesso il nostro rapporto con la natura tramite la scienza e tramite
l`arte e le nostre relazioni sociali o affettive in seno al gruppo cui apparteniamo.
Nessuno potrebbe mai sfuggire a questo fenomeno, come vittima o come
osservatore, nessuna epoca l`ha ignorato e sotto forme differenti lo si ritrova in tutte
le culture, che si fondino su religioni sciamaniche, animiste o monoteiste. La sua
persistenza nella storia della cultura occidentale non esclude una certa diversità che
conduce a porsi la questione delle forme e delle rappresentazioni che esso ha potuto
prendere. I testi antichi di fondazione ci sono pervenuti senza immagini che li
illustrino, il che non esclude che essi potessero averne. Ma toccò al Rinascimento,
con l`apparizione della stampa e dell`incisione, non soltanto di rifarli vivere ma
anche di illustrarli. Ed è evidentemente sotto questa forma che queste idee hanno
conosciuto il più grande sviluppo ed hanno potuto plasmare le nostre mentalità per
condizionare il nostro sguardo. Sembra dunque che la fisiognomica animale passi per
la modalità visiva e, prima ancora che i testi che la codificavano rinviassero a delle
immagini, la potenza evocativa che essi celavano le faceva nascere nello spirito del
lettore. La letteratura ha d`altronde sempre fatto ricorso con successo a queste
analogie espresse dalla metafora.
Esprimendosi tramite la metafora o l`analogia, la fisiognomica animale si
oppone alla razionalità, che di diritto ci si attenderebbe dall`essere umano. Essa
sembra corrispondere ad un vuoto dello spirito, un cedimento della ragione che fa
nascere la somiglianza animale nello sguardo sull`Altro. Gli artisti, utilizzando il
potere di far nascere o rinascere delle immagini di questo tipo, hanno il più delle
volte reso un cattivo servizio all`essere umano ed usato strumentalmente l'animale.
Tali immagini hanno permesso all`uomo di proiettare sui suoi simili dei
determinismi animali che veicolavano delle classificazioni implicite e
discriminatorie, sia rispetto agli uomini che agli animali. Lungi dal riabilitare
l`animale, hanno più spesso abbassato l`uomo al rango della bestia. D`altronde gli
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artisti che si sono specializzati nei temi animalistici, quelli cioè che mostrano
l`animale il più indipendente possibile dall`uomo, hanno solo raramente messo
all`opera questa fisiognomica. Tale tipo di pratica artistica assoggetta di certo
l`animale all`uomo, ma preserva il secondo dal giudizio che si conferisce al primo.
Una prova dell`uso eminentemente sociale delle immagini zoofisiognomiche
risiede senza dubbio nel loro modo di diffusione. A partire dal Rinascimento, la
stampa venne usata per illustrare il trattato di Della Porta. I disegni di Le Brun
furono riprodotti e largamente diffusi, i Physiognomische Fragmenten di Lavater
sarebbero stati molto meno letti senza le loro illustrazioni sempre più numerose
nelle successive edizioni. La litografia nel XVIII secolo, i multipli tecnici
dell`illustrazione nel XIX secolo e presto la fotografia e il fotomontaggio hanno
contribuito a rafforzare lo sviluppo di questo fenomeno. Infine il morphing nato dalle
pratiche video incoraggia oggi ogni sorta di distorsione dell`immagine umana,
riaffermando senza tregua la sua parentela animale per proiettarla sugli schermi
catodici del mondo intero, nel caleidoscopio allucinatorio della pubblicità. In essa,
come anche nell`arte, l'animale e in senso concettuale l'animalità risultano
particolarmente efficaci nel catalizzare l'attenzione per la loro caratteristica, messa in
luce da recenti studi, di essere un ipersegno all`interno del campo visuale. (Eibl-
Eibesfeldt, 2001)
2.3 Zooantropologia
La zooantropologia è una nuova disciplina nata alla fine degli anni Ottanta,
che ha come obiettivo di ricerca lo studio del rapporto uomo-animale e la valutazione
dei contributi apportati all’uomo da questa relazione.
Prima di delineare le principali caratteristiche di questa scienza, sarà
interessante osservare la lettura mitica che l’uomo occidentale ha dato dello sviluppo
culturale, cioè la visione fondante della nostra civiltà, in modo da notare come nel
mito vengano enfatizzati quei tratti che disgiungono la nostra specie dall’alterità
animale.
50
Il mito di Prometeo
Gli antichi inventarono numerose leggende rispetto all’origine della stirpe
umana. In particolare, a partire dal V secolo a.C. si diffuse la leggenda secondo cui i
primi uomini fossero stati formati da qualche Divinità con la terra. Più tardi tale
Divinità venne identificata in Prometeo, il quale avrebbe formato uomini e bestie con
il limo e con l’acqua, mentre Atena avrebbe spirato in essi il soffio vitale, l’anima.
Come intorno all’origine, numerose erano anche le opinioni intorno alle
condizioni dei primi uomini: secondo alcune leggende essi avevano vissuto in uno
stato di felicità e conoscevano gli dei; secondo altre essi erano al principio degli
esseri rozzi e senza agi, condizione da cui si sarebbero liberati progredendo a poco a
poco con l’aiuto degli dei. (Ramorino, 1988)
Tra le leggende relative agli inizi della cultura umana vi è dunque quella di
Prometeo. Prometeo è un titano, figlio di Giàpeto e padre di Deucalione; egli rubò
dal cielo il fuoco e ne fece dono agli uomini insegnandone loro l’uso. A lui si deve
la cultura umana, poiché non solo rese possibili alcuni agi della vita ma anche lo
sviluppo delle arti e dell’industria. Perciò Prometeo, accanto ad Efesto ed Atena, era
considerato tra gli dei promotori del progresso umano. Per questo furto che
profanava gli dei, Zeus lo punì facendolo incatenare su una rupe nei monti della
Scizia e ordinando che ogni giorno un’aquila gli rodesse il fegato (sede di ogni
cattiva cupidigia), che però di notte guariva perché venisse sottoposto al supplizio il
giorno seguente. Fu liberato alla fine da Eracle, l’uomo che con lotte e fatiche di ogni
genere aveva vinto la vita terrestre e si era avvicinato all’Olimpo. Questi infatti
uccise l’aquila e spezzò le catene. Prometeo si riconciliò poi con Zeus grazie al
sacrificio volontario del centauro Chirone, che accettò di morire in luogo di
Prometeo stesso.
Prometeo è la personificazione dell’ingegno umano, che troppo fiducioso in
se stesso si ribella agli dei e usurpa quello che spetterebbe loro, pur beneficiando così
la società umana.
Il mito prometeico è il punto di partenza della visione autarchica dello sviluppo
culturale. Nel mito infatti l’animale è dotato di virtù biologiche che non gli rendono
necessaria la cultura o il progresso tecnico, mentre l’uomo è incompleto e va dunque
51
sostenuto o emendato dalla tecnica. Il processo che ha dato vita allo sviluppo
culturale si sarebbe realizzato allora in piena autonomia, senza contributi esterni
all’uomo (e alla divinità). Invece occorre riconoscere il contributo della relazione con
gli animali nello sviluppo culturale dell’uomo. In questa visione autarchica infatti
l’animale fa da sfondo permettendo l’enfatizzazione dell’uomo. Ma come arriva
l’uomo a percepire la propria inefficienza tecnica? Come misura tale inefficienza?
Da dove originano i suoi sogni e le sue ambizioni? Dalla relazione con gli animali,
dall’assimilazione degli animali nella kosmopolis umana. L’uomo deve aver
introiettato caratteristiche della natura o della forma animale, deve aver attribuito
loro un significato e fatto proprie alcune caratteristiche. Intendendo per teriomorfo
ciò che ha forma animale in quanto categoria polivalente e polisemica, la
zooantropologia intende verificare come tale categoria si presti a questa opera di
costruzione identitaria dell’uomo: per essa dunque il teriomorfo è un operatore
antropopoietico.
Zooantropologia: quadro teorico
Fondamento della ricerca zooantropologica è il ritenere che non sia possibile
comprendere l’uomo nelle sue caratteristiche ontogenetiche e culturali prescindendo
dal contributo referenziale offerto dall’alterità animale (Marchesini, 2005). È
necessario allora comprendere le caratteristiche dell’uomo attraverso la relazione con
gli animali. La zooantropologia ritiene l’eterospecifico (ovvero l'appartenente ad
un`altra specie) come soggetto, ossia un’entità in grado di dialogare con l’uomo, e
come diverso, ossia come un essere capace di contaminare l’uomo. Si intende per
“referenza animale” il valore-contributo apportato dall’alterità animale in questo
dialogo. La referenza animale è pertanto il presupposto più importante e l’obiettivo
centrale della ricerca zooantropologica. Per tale motivo possiamo dire che la
zooantropologia è lo studio della referenza animale. Per la zooantropologia pertanto
è necessario salvaguardare il carattere di alterità proprio dell`eterospecifico
rispettando i suoi caratteri di soggettività (non reificare ovvero trasformare
l’eterospecifico in oggetto) e di diversità dall’uomo (non antropomorfizzare
52
l’eterospecifico). Solo il titolo di alterità dà voce all’animale ovvero gli riconosce
quella specificità che sta alla base del suo potenziale di referenza. Maggiore è il
riconoscimento dell`alterità animale e maggiori saranno le possibilità di referenza.
La nascita della zooantropologia rappresenta un evento significativo nel panorama
di analisi del rapporto uomo-animale, inserendosi a pieno titolo in quella marcia di
avvicinamento alla conoscenza degli animali inaugurata dall’evoluzionismo
darwiniano e proseguita dalla ricerca delle scienze comportamentali e cognitive.
Con la zooantropologia si iniziano infatti a studiare i fattori che guidano il
rapporto dell’uomo con le altre specie, e in particolare: le direttrici orientative e
affiliative verso l’alterità animale; i piani e i significati della relazione interspecifica;
le dimensioni di interscambio e transazione che si vengono ad attivare in tale
rapporto; le conseguenze antropopoietiche (ovvero di costruzione dell’identità
umana) dell’incontro-confronto con l’eterospecifico. Conoscere l’ampia gamma di
rapporti e di rimandi che ci legano all’alterità animale è molto importante, perché
offre un piano articolato di interpretazione circa il nostro bisogno di riferirci
all’animale per realizzare in pieno le nostre qualità. Studiare il piano relazionale di
rapporto con l'eterospecifico significa individuare un nuovo orizzonte di spiegazione
e di applicazione che vada oltre il consueto “utilizzo dell’animale oggetto” –
dall’eclatante uso strumentale-performativo fino alle forme meno esplicite di uso
simbolico – o il più insidioso “utilizzo surrogatorio” dell’animale sostituto di un
essere umano assente, dove accanto all’antropomorfizzazione vi è la negazione della
specificità dell’animale e del bisogno dell’uomo proprio della diversità animale.
Tracciare un profilo del ruolo ricoperto dagli animali in ogni momento della vita
dell'individuo, significa come prima cosa ammettere che l'animale abbia un posto
preciso nell'ontologia umana. Presupposto della zooantropologia è considerare la
relazione uomo-animale e la referenza che ne consegue un contributo non
sostituibile. Tale assunzione implica di conseguenza l'adoperarsi per capire le
caratteristiche di questa funzione e le possibili applicazioni. Per la zooantropologia
perdere la relazione con l’alterità animale significa gettare un’ipoteca sull’antropo-
poiesi. D’altro canto con la zooantropologia non solo si diminuisce la distanza che
separa la nostra specie dalle altre ma si afferma il carattere insostituibile della
presenza animale nella vita dell’uomo o, meglio, nella definizione dell’essere umano.
53
Prende corpo cioè l’idea che la referenza animale sia indispensabile per la
realizzazione della persona nelle sue diverse componenti espressive, formative e
assistenziali. Se pertanto la biologia evoluzionista ha rivendicato un legame
filogenetico tra uomo e animale, la zooantropologia sottolinea un nesso altrettanto
forte, ma questa volta di tipo ontogenetico, posto nel cuore stesso del nostro essere
umani: nel divenire uomo. Nello specifico di questa tesi, il contributo interessante
di questa disciplina rispetto al tema dei rapporti tra arte e animalità risiede in primo
luogo nel fatto che essa riconosce il debito dell`arte umana verso l'estetica animale,
seppure esso si eserciti spesso a livello subliminale: infatti i significanti del mondo
animale plasmano molti aspetti della creatività umana, a prescindere dalle
iconografie zoomorfe facilmente individuabili. Si hanno infatti cromie ispirate a
livree animali, archetipi morfologici ispirati alle qualità visive e tattili dei tessuti
animali, modelli espressivi come la deinomorfia, metafore come quella del volo e vai
dicendo. In secondo luogo, la zooantropologia riconosce il contributo fondante che la
relazione con gli animali ha avuto per lo sviluppo culturale: in particolare i primi
soggetti dell`arte umana sono animali. Per quanto il concetto di arte risulti secondo
alcuni studiosi prematuro se riferito all`epoca paleolitica, è comunque innegabile che
l'alterità animale abbia influenzato l'espressione attraverso il gesto ed il segno negli
uomini preistorici, come descritto nel primo capitolo. In terzo luogo, la
zooantropologia e l'etologia umana mostrano che l`animale è un ipersegno; secondo
diversi studi infatti (Eibl-Eibesfeldt, 2001) l'uomo tende ad identificare con facilità
le forme animali nascoste in contesti molto intricati e a interpretare sagome senza
forma precisa in termini di morfologie animali: si dimostra così biologicamente che
l`animale possiede una valenza eccezionale e prioritaria all`interno di un contesto
visivo. Tale meccanismo è peraltro sfruttato dalla pubblicità. Infine, la
zooantropologia conferisce una base “scientifica” alla realizzazione di opere
artistiche in cui l'animale venga considerato un partner attivo, superando per esempio
le critiche di sciamanesimo mosse a Joseph Beuys (confr. quinto capitolo).
54
CAPITOLO TERZO
Animali da pensare
3.1 Gilles Deleuze e il divenire-animale
Il pensiero del filosofo francese Gilles Deleuze (Parigi 1925-1995) può essere
considerato come la riproposizione di alcuni momenti tradizionali della storia della
filosofia (il materialismo di Lucrezio, il panteismo di Spinoza, l`empirismo di Hume,
il vitalismo di Bergson) al fine di suffragare la critica nietzscheana del platonismo, e
del cristianesimo come platonismo volgarizzato.
Alla impostazione platonica che afferma uno spiccato dualismo tra materia e spirito,
Deleuze contrappone anzitutto un superamento del dualismo in una visione che
concepisce il reale come una molteplicità di piani rispetto a cui non si può far valere
la distinzione tra materia e spirito. Coerentemente con l`impostazione di Nietzsche
che vede la filosofia non come critica bensì come creazione di valori nuovi, Deleuze
ne deriva una visione della filosofia come creazione di concetti, e una omologia di
procedure tra arte e filosofia.
Oltre il divenire-animale
Come riferisce Alain Cournot, riportando numerosi estratti da opere del
filosofo francese qui citati (Cournot, 2001), Gilles Deleuze ama le bestie
“ripugnanti” come le zecche, i pidocchi, i ragni. I gatti, i cani non lo interessano: in
quanto animali domestici, familiari e confidenziali, essi rappresentano un rapporto
troppo umano dell`uomo con l`animale, da cui non nasce nulla (a parte
l`istupidimento). L`uomo invece deve entrare in un rapporto animale con l`animale.
Le zecche e i pidocchi sono affascinanti secondo Deleuze poiché creano un territorio.
Gli animali non domestici hanno un loro proprio mondo. Per marcare il suo
territorio, per la sua conservazione o la sua estensione, l`animale si limita a tre cose:
55
le linee, i colori ed i canti, quel che Deleuze chiama le “tre determinazioni dell`arte”
o “l`arte allo stato puro”.
L`artista deve territorializzarsi. Dentro e fuori dal suo territorio, “de-
territorializzandosi”, egli è in questo stato animale, in un “divenire animale”. Il
linguaggio è per Deleuze un terreno privilegiato di sperimentazione: un autore come
Kafka per esempio è preso in concatenazioni da uomo ad animale, straniero nella
sua stessa lingua. Lo scrittore porta la scrittura al limite che separa il linguaggio e
l`animalità, l`uomo e l`animale. Scrivere è essere alle frontiere dell`animalità.
L`immaginazione vi si trova confrontata con i suoi stessi limiti, si fa violenza per
tentare di raggiungere una disumanità propria del corpo e dello spirito umano, ma
che non poteva emergere senza questa esperienza dell`animalità.
I passaggi dall`uomo all`animale sono pensati in termini di divenire. Delle
forze fanno traballare l`identità, delle metamorfosi si moltiplicano permettendo la
deviazione da una territorialità troppo ordinata.
Il divenire-animale forza questi passaggi da uno stato all`altro, senza
fissazione né corrispondenza, in una coesistenza che permette di valicare le soglie
della percezione, della creazione. Umanità, animalità si decompongono, si
mescolano, si modificano. Esse fanno emergere una linea di fuga, fuga da tutto ciò
che era troppo umano, per scappare come l`animale da ciò che era troppo familiare.
Deleuze riviene spesso su questo processo, che non appare né come
l`appropriazione dell`animale da parte dell`uomo né l`inverso. Non sono “dei
fenomeni di imitazione, né di assimilazione, ma di doppia cattura, di evoluzione non
parallela, di nozze tra due regni”. Uomo e animale si destinano reciprocamente,
facendo sparire i contorni dell`uno come dell`altro, forzandoli a confondersi in
metamorfosi che non rappresentano più né l`uno né l`altro. Delle linee nascono da
questi movimenti. Le forme spariscono. Il fondo si mescola alla miscela, rendendo
caotici i contorni di queste materie in divenire.
Nella pittura di Bacon per esempio, il divenire-animale fa entrare in
variazione due o più termini. Traccia in uno stesso tempo più forme che coesistono
fino al difforme, al mostruoso: delle forze tirano ciò che può esservi di umano in un
volto verso ciò che può esserci di bestiale o di animale, mantenendo allo stesso
tempo qualche carattere proprio di un volto o della corporeità umana. Tutti questi
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“stiramenti” rendono la tela qualcosa che disturba per l`impossibilità di decidere, di
delimitare ciò che è dell`uno e dell`altro. Così i quadri di Bacon costituiscono una
“zona di indiscernibilità, di indecidibilità tra l`uomo e l`animale”. Il divenire fa
entrare in un “mondo affascinante dove l`identità dell`io è perduta, non a beneficio
dell`identità dell`Uno o dell`identità del Tutto, ma a vantaggio di una molteplicità
intensa e di un potere di metamorfosi, dove giocano gli uni negli altri dei rapporti di
potenza”.
Ogni riferimento scompare per una mobilità che permette la confusione delle
forme, senza comparazione possibile, o allora in una tale molteplicità che esse non
possono che essere equivocate. Se l`animalità promana dall`opera, non è certo per
una somiglianza, raffigurata attraverso delle forme. Essa è sentita attraverso le
deformazioni, le tensioni delle forze tra i colori, le forme e i fondi. Qualcosa passa
dall`uno all`altro, senza che ci sia trasformazione, e questo qualcosa non può essere
precisato altrimenti che come sensazione. La sensazione porta il divenire-animale,
essa si immerge nella realtà di queste deformazioni, che non sono più solamente
riprodotte, ma tramutate in divenire dalla forza delle sensazioni. I corpi svaniscono
per lasciar trasparire delle forze brute, che ciò sia per la violenza delle deformazioni,
delle malformazioni, o per il sorgere degli sfondi che invadono i corpi.
La sensazione forza dei passaggi che non si possono dominare verso ciò che è
senza nome né significato, in un vivere intenso. Fare il movimento, tracciare le linee
di fuga in tutta la sua positività. Divenire animale è “varcare una soglia, raggiungere
un continuum di intensità che non hanno più valore se non in se stesse, trovare un
mondo di intensità pure, dove tutte le forme si disfanno, tutte le significazioni anche,
significanti e significati, a vantaggio di una materia non formata, di flussi de-
territorializzati, di segni significanti”. Tutto è disfatto, non si sa più cosa è, chi è chi,
chi è cosa, dell`uomo e dell`animale, e non è d`altronde importante fare queste
demarcazioni. Al contrario, nessun antropomorfismo né zoomorfismo nel divenire-
animale di Deleuze: meno siamo in una riconoscibilità possibile bensì nella
sensazione, più il passaggio al limite può essere intenso e destabilizzante. Solo la
sperimentazione conta, e si cerca di prolungare tramite connessioni e proliferazioni
questo movimento di trasformazione. Non è questione di rivenire a sé, restare
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identico, ma di decomporsi, di deviare dai due modelli, uomo e animale, fino
all`indeterminazione.
Questo processo non può essere considerato come passato: non si è mai
diventati animali, ma si è presi in un divenire-animale. Ora, la messa in variazione o
la ripetizione di questo processo non può prolungarsi, secondo Deleuze,
indefinitamente. La linea di fuga nel divenire-animale finisce sempre con un farsi ri-
territorializzare, come se il pericolo della figura, della comparazione, della metafora
in luogo della metamorfosi rivenisse a bloccare il movimento. Il divenire-animale
apparirebbe dunque come una “via senza uscita”.
Ma per Deleuze l`uscita esiste e consiste nello spingere il divenire-animale
verso il divenire-impercettibile, “un assoluto che è un tutt`uno con il divenire stesso
o con il processo”. Il divenire-impercettibile inasprisce ogni sorta di divenire non
umano dell`uomo, e il corpo è trattato e malmenato al punto da togliere quel che la
carne può avere di corporeo. “La carne è solo il rivelatore che scompare in ciò che
rivela: il composto delle sensazioni”. L`animalità sarebbe così superata,
scomparirebbe ed un`altra linea di fuga sarebbe creata: l`arte tenderebbe a
rappresentare solo delle forze, senza che alcun elemento possa derivare dall`uomo o
dall`animale. E la pittura astratta, “sensazione, nient`altro che sensazione”, sarebbe
per Deleuze una possibilità di sostituire al divenire-animale una disposizione più
complessa, verso una rappresentazione dove l`indiscernibile sarebbe ancora più
intenso.
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3.2 L`aperto. L`uomo e l`animale secondo Giorgio Agamben
Giorgio Agamben (Roma, 1942), filosofo italiano, ha rivolto la sua attenzione
soprattutto a temi estetici e politici, risentendo dell`influenza di pensatori tedeschi
(Heidegger, Benjamin) e francesi (Foucault, Deleuze, Nancy). Centro della sua
riflessione può essere considerato lo statuto dell`umano, nella sua dimensione
linguistica e temporale, naturale e culturale, biologica e politica.
Per Agamben il conflitto politico determinante, che ne influenza ogni altro
nella nostra cultura, è quello fra l`animalità e l`umanità dell`uomo.
Egli intende domandarsi in quale modo nella nostra cultura l`uomo sia stato
separato dal non-uomo e l`animale dall`umano. In effetti, da quando la metafisica
aristotelica ha definito il principio del vivente, questo tema è stato sempre dibattutto,
eppure oggi secondo Agamben, proprio in quanto è necessario prendere atto del
tramonto dell`antropocentrismo, che per secoli ha definito nella tradizione
occidentale la distinzione tra il corpo e l`anima, tra la vita animale e il logos, tra il
naturale e il soprannaturale, occorre interrogarsi in modo nuovo su quale sia la soglia
critica oltre la quale si ha l`umano, quella soglia che distingue e al tempo stesso
avvicina umanità e animalità dell`uomo.
Nel testo L`aperto. L`uomo e l`animale Agamben si interroga sul futuro
dell`uomo. Prende spunto da una miniatura di una Bibbia Ebraica del XIII secolo
conservata nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, che raffigura la visione di
Ezechiele e il banchetto messianico dei giusti nell`ultimo giorno: in particolare, il
miniaturista ha rappresentato i giusti non con sembianze umane, bensì con teste
animali. Perché, si chiede Agamben, i rappresentanti dell`umanità compiuta sono
raffigurati con teste animali? Secondo la tradizione rabbinica, essi sono i giusti
ancora in vita al momento della venuta del Messia, il che non giustifica la
rappresentazione con volti animaleschi. Allora la raffigurazione teromorfica rimanda
piuttosto alla tenebrosa parentela fra macrocosmo animale e microcosmo umano,
secondo la tradizione manichea. Seguendo questa interpretazione, Agamben ipotizza
che l`artista del manoscritto dell`Ambrosiana abbia voluto intendere che,
nell`ultimo giorno, i rapporti fra gli animali e gli uomini si comporranno in una
nuova forma e che l'uomo stesso si riconcilierà con la sua natura animale.
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Dopo aver mostrato i limiti e le ragioni del tramonto della visione antropocentrica ed
aristotelica dell`uomo, Agamben suggerisce che non occorre tentare di tracciare i
contorni di una nuova creatura, che rischierebbe di essere alrettanto mitologica
quanto l`altra.
Come sarà allora l`uomo alla fine della storia? Per Agamben, sulla scia di
Heidegger, sono possibili due scenari. In un caso l'uomo poststorico cerca di
governare la propria animalità e prenderla in carico attraverso la tecnica. Nell`altro
caso, l'uomo si appropria della sua stessa animalità, che non resta nascosta né fatta
oggetto di dominio, ma è pensata come tale, come puro abbandono. In questo senso,
Agamben si richiama a Benjamin, il quale ha tentato di delineare il rapporto
dell`uomo moderno con la natura rispetto a quello dell`uomo antico col cosmo, che
aveva il suo luogo nell`ebbrezza. Il luogo proprio di questo rapporto è invece, per
l'uomo moderno, la tecnica, ma non secondo l'idea comune del dominio dell`uomo
sulla natura. Piuttosto per Benjamin né l'uomo deve dominare la natura, né la natura
l'uomo. Inoltre, egli evoca l'immagine di questa vita che si è emancipata dalla sua
relazione colla natura solo a patto di perdere il proprio mistero: ed è l'appagamento
sessuale che recide, senza scioglierlo, il legame segreto che unisce l'uomo alla vita.
“L'appagamento sessuale sgrava l'uomo dal suo mistero, che non sta nella sessualità,
ma che nell`appagamento di questa, e forse soltanto in esso, viene non sciolto: reciso.
È paragonabile al vincolo che unisce l'uomo alla vita. La donna lo recide, l'uomo
diventa libero per la morte, perché la sua vita ha perduto il mistero. Con ciò egli
perviene alla rinascita e come l'amata lo affranca dall`incantesimo della madre, così,
più letteralmente, la donna lo stacca dalla madre terra, è la levatrice cui tocca
recidere quel cordone ombelicale che il mistero della natura ha intrecciato” (cit. in
Agamben, 2002).
L'Autore si riferisce poi ad un`opera tarda di Tiziano, Ninfa e pastore, in cui i
due protagonisti, pur nella situazione di otium, sono eroticamente legati, in una
relazione che suggerisce che essi abbiano mangiato dall`albero della conoscenza. La
ninfa è distesa sopra una pelle di pantera, simbolo di libidine, ed ha i fianchi nudi. Il
pastore le sta accanto, il flauto staccato dalle labbra. Poco oltre nel quadro si vede
sullo sfondo un albero fulminato, per metà secco e per metà verde: un animale
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sollevatosi sulle zampe posteriori, capra o cerbiatto, ne sta brucando le foglie.
Voluttà e amore, come testimoniato dall`albero per metà rifiorito, non
prefigurerebbero allora soltanto la morte e il peccato. Se anche nell`appagamento
sessuale i due amanti hanno conosciuto qualcosa che non avrebbero dovuto sapere,
perdendo così il loro mistero, essi sono ancora impenetrabili, ma accedono a una
nuova vita più beata, né animale né umana. “Non la natura viene raggiunta
nell`appagamento – ma come è simboleggiato dall`animale che s`impenna accanto
all`albero della vita e della conoscenza, uno stadio superiore, al di là tranto della
natura che della conoscenza, del velamento che dello svelamento.” (ibid.)
Nel rendere inoperosa la macchina antropologica, che per secoli ha articolato
nella nostra cultura qualunque produzione di concetti, Agamben non vuole dunque
proporre nuove e più pregnanti articolazioni, quanto piuttosto mostrare il vuoto
centrale, “lo iato che separa – nell`uomo – l`uomo e l`animale, rischiarsi in questo
vuoto.” L'uomo alla fine della storia sarà allora una figura della “grande ignoranza”,
che accede ad uno stato superiore, al di là tanto della natura che della conoscenza.
61
CAPITOLO QUARTO
Artisti ed animalità
4.1 Francisco Goya: Los Caprichos
Si è visto che sovente l`animale è stato utilizzato, secondo una visione
antropocentrica, come termine di paragone negativo al quale assimilare un nemico,
mostrando al tempo stesso il valore implicito che la cultura conferiva all`animale
stesso. Si è creduto di ravvisare negli animali vizi e virtù simili a quelli dell`uomo.
Nel 1799, anno in cui ottiene la nomina a primo pittore di corte, Francisco
Goya y Lucientes (1746 – 1828) pubblica I Capricci, una serie di ottanta stampe che
lo farà conoscere in Francia ed in Gran Bretagna. In esse Goya convoglia ed esprime
con fantasia di volta in volta drammatica o beffarda la rivolta contro ogni genere di
superstizione, di malvagità, di oppressione.
La genesi di questo lavoro fu senza dubbio lenta e molti autori ritengono che
occorra collegarla alle crisi dovute alla malattia del 1792 che, determinando la sua
sordità, finì per isolare l`artista dalla società del tempo. È in effetti poco dopo questa
crisi che Goya decise di rifugiarsi in se stesso e di dare libero corso al “capriccio e
all`invenzione”. Verosimilmente incoraggiato dalla cerchia degli ilustrados che
frequentava allora, volle eseguire una serie di incisioni satiriche in cui esprimerà i
suoi sogni, le sue fantasie, ed il suo punto di vista critico sulla società del tempo.
L`episodio del suo soggiorno a San Lucar de Barrameda con la duchessa d`Alba, nel
maggio 1796, ha senza dubbio ugualmente influito sulla serie. Una grande parte delle
incisioni doveva essere già preparata nel 1797, poiché un prospetto che annunciava
la pubblicazione di settantadue stampe vide la luce quell`anno. Ma la forma sotto cui
noi conosciamo oggi la serie fu resa nota il 6 febbraio 1799, nel Diario de Madrid,
come una “ collezione di incisioni dai soggetti capricciosi, inventati ed incisi ad
acquaforte da Don Francisco Goya”.
Le tavole dei Capricci testimoniano non soltanto di una grande padronanza
della tecnica dell`acquaforte, un procedimento col quale Goya ha lavorato le sue
figure ripassandole talvolta col bulino o con la puntasecca, ma anche di quella
62
dell`acquatinta, in particolare per gli sfondi. Questa tecnica gli ha permesso di
giocare con i contrasti tra il disegno semplificato e dinamico dell`acquaforte e la
monotonia impalpabile dell`acquatinta, ottenendo così degli intensi effetti di
chiaroscuro, allorché delle forme di pura luce emergono dalle zone di ombra.
13.
La tematica generale mescola, senza ordine apparente, delle scene di magia e
di stregoneria con delle satire in cui le preoccupazioni morali e sociali sono evidenti.
Nei due casi, la parte animale dell`essere umano svolge sovente un ruolo essenziale,
permettendo di rivelare il sottosuolo della sua anima così come i comportamenti
sociali più vili. Nel Capriccio n. 19 l`evocazione dell`universo della prostituzione è
l`occasione per mostrare differenti specie di “uccelli spregevoli” – dei militari, dei
civili, e dei monaci – attratti da una mezzana e spennati da giovani donne come delle
volgari pernici (fig.13).
Ma la sorte della creatura alata che appare nel Capriccio n. 21 (fig. 14) non è
certo più invidiabile poiché essa si ritrova circondata da tre individui dalla testa e
dalle zampe di belva, che rappresentano l`amministrazione della giustizia, i
63
cancellieri e i segretari della curia. Il gruppo più numeroso all`interno della serie è
quello degli asini, un animale che permette a Goya di attaccare delle personalità
influenti della società – aristocratici, professori, medici, artisti servili, dirigenti
politici e sfruttatori del popolo – dei quali denuncia l`ignoranza, la stupidità e la
vanità.
14. 15.
Le tavole di Goya mostrano tutte un intento di satira sociale e confortano
l`artista nel suo ruolo di moralista. È prima di tutto l`insegnamento tradizionale ad
essere fortemente criticato riconducendolo ad un`attività da somari (Capriccio n.37 –
fig.15): se il maestro è un asino, può insegnare a ragliare…
Alla scimmia che strimpella la chitarra (fig. 16), evocazione dei cattivi
musicisti accompagnati dalla loro claque, risponde nel Capriccio n. 38 un asino
seduto in modo confortevole, l`orecchio teso, simbolo dei falsi connaisseurs
totalmente ignoranti. Persino gli asini applaudono la brutta musica per seguire la
moda, quando vedono degli altri che dicono “brabisimo”!
64
Il Capriccio n. 39 è una notevole acquatinta in cui, attraverso un asino vestito
da gentiluomo che mostra orgogliosamente allo spettatore la sua linea di
discendenza, Goya ridicolizza l`ossessione per l'araldica e per la genealogia dei
“nuovi ricchi” della sua epoca (fig. 17). La tavola successiva (Capriccio n. 40) ha
evidentemente una risonanza privata: infatti Goya se la prende ferocemente con i
medici, che qualifica di ignoranza e pedanteria rappresentandoli come degli asini,
poiché egli aveva personalmente avuto a che fare con loro (fig. 18).
16. 17.
Essi si erano mostrati incapaci di diagnosticare correttamente la malattia di
cui Goya ebbe a sopportare le conseguenze fino alla fine della sua vita. Infine,
quando l`artista spagnolo schernisce i suoi colleghi pittori, è accusandoli di giocare
alle scimmie-cortigiane, nel tentativo di adulare i committenti che, per conto loro, si
comportano come asini vanitosi (Capriccio n. 41 – fig. 19).
65
Questo breve esame di alcune tavole dei Capricci ha mostrato l`uso che Goya
ha fatto della forma animale, caricandola di significati negativi allo scopo di colpire
sarcasticamente alcuni aspetti della società del suo tempo.
18. 19.
66
4.2 Il bestiario surrealista
Il surrealismo: cenni storici
Nel campo delle arti visive è al 1924 che si fa risalire la nascita ufficiale del
surrealismo. Centrale fu la figura del pittore André Masson il quale, giunto a Parigi
due anni prima, aveva iniziato dal 1923 (anno in cui incontrò André Breton) ad
eseguire i primi disegni automatici. Espose nel 1924 alla Galérie Simon e allo stesso
anno risalgono la pubblicazione del Manifesto del surrealismo di Breton e l`uscita
del primo numero della rivista La Révolution Surréaliste con illustrazioni di Max
Ernst (i cui collage già dal 1920 anticipavano il surrealismo negli aspetti più
visionari), dello stesso Masson, di Man Ray e Pablo Picasso. Per quest`ultimo si può
parlare di un`inclinazione verso il surrealismo più che di una vera e lunga adesione.
Nel Manifesto, il surrealismo viene così definito: “Automatismo psichico
puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in
qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pensiero, in
assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni
preoccupazione estetica o morale […]. Il surrealismo si fonda sull`idea di un grado di
realtà superiore connesso a certe forme d`associazione finora trascurate,
sull`onnipotenza del sogno, sul gioco disinteressato del pensiero. Tende a liquidare
definitivamente tutti gli altri meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella
risoluzione dei principali problemi della vita”.
Si è visto come fino alla nascita della psicoanalisi e allo sfruttamento
dell`inconscio in termini artistici da parte dei surrealisti, il tema delle analogie tra
uomo e animale sia stato analizzato dalle ricerche sulla fisiognomica, secondo uno
zoomorfismo che trasformava alternativamente gli uomini in bestie e le bestie in
uomini.
Prima del surrealismo e della psicoanalisi, Charles Baudelaire (1821 – 1867),
grande ammiratore dei volti animaleschi di Daumier, è stato il primo ad intuire quale
vantaggio “gli interpreti della vita moderna” potessero trarre dalla fusione tra uomo e
animale: si poteva rappresentare l`uomo in tutta la sua brutalità fisica e morale e,
67
tramite la maschera del mostro, porre la questione dell`altro. Un`alterità che il poeta
percepiva come costitutiva del dramma dell`artista, del suo essere al mondo, poiché
l`artista è tale a condizione di essere doppio e di non ignorare alcun fenomeno della
sua doppia natura.
Mezzo secolo dopo la morte del poeta francese, le pitture di Dalì all`epoca del
Jeu Lugubre (1929) e i film di Luis Buñuel abbondano dei medesimi animali presenti
nei Fleurs du Mal – formiche, uccelli – scelti per la repulsione che possono generare.
Insetti o carogne in decomposizione comportano un fascino per uno stato diverso e
sono forse l`esempio per eccellenza nell`arte moderna di un momento in cui
l`animale è pensato secondo una visione che supera la semplice allegoria e si
presenta abitato da morte e sessualità.
Con il surrealismo emerge l'idea dell`animale come archetipo radicato
nell`inconscio, le cui manifestazioni nella dimensione onirica sono tanto fantastiche
quanto imprevedibili. Visualizzare questi fenomeni significa abbandonarsi a
modalità di “automatismo psichico”.
L`immaginario surrealista venne inoltre alimentato dall`uso del collage, il
quale favoriva tramite la manipolazione delle immagini il tema dell`ibridazione.
Senza stilare la lista del bestiario surrealista, si consideri che il minotauro di Picasso
apparve dapprima, nel 1928, appunto sotto forma di collage e che la figura di Loplop,
“il superiore tra gli uccelli” di Max Ernst fu prodotto tramite i suoi primi collages
dada.
I pittori surrealisti cercavano ovunque il meraviglioso e le sue metamorfosi.
Cacciatori di emozioni, erano affascinati dagli animali: infatti per la loro unione di
istinto e nudità, gli animali spaventavano (e spaventano) la ragione pensante. Nel
nutrito catalogo di immagini che i surrealisti fecero sorgere dalle tenebre, ancora si
intende l`assordante silenzio degli asini morti gettati da Luis Buñuel e Salvador Dalì
sulla tastiera muta di Un chien andalous. Altrettanto premonitore, il furore del Lupo-
tavolo di Victor Brauner, creato alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, mostra
“che c`è del selvaggio nell`aria” (André Breton): impossessatisi ormai persino del
più banale dei mobili, i lupi sono ormai ovunque intorno a noi.
Roger Caillois (1913 – 1978), poliedrico intellettuale ed entomologo che ha
operato nel contesto delle correnti surrealiste, ha esplorato la creatività del mondo
68
degli insetti, attribuendo alle loro livree fantasiose il valore di arte a tutti gli effetti.
Per questo studioso la natura pictrix non è inferiore alla creatività umana, soltanto la
prima si distingue per il fatto di sviluppare il suo estro con diverse modalità: mentre
l'artista umano agisce individualmente e deliberatamente, l'arte degli insetti consiste
in una sorta di “energia autoplastica” che modella il genoma di una specie in tempi
dilatatissimi: “…l'ipotesi porta a immaginare che esista, tra gli esseri viventi in
generale, una ‘tendenza’ a produrre dei disegni colorati e che questa tendenza
produca in particolare, alle due estremità della scala evolutiva, le ali della farfalla e i
quadri dei pittori” (Caillois, 1998).
Saranno considerati di seguito alcuni artisti particolarmente significativi della
cerchia surrealista o in qualche misura influenzati da essa. Tra di essi: Ernst,
Brauner, Picasso, Dalì, Masson, Savinio. Si tratta di artisti che si sono liberati degli
stereotipi dell`incubo e del fantastico per creare i loro propri mostri dalla figura
ibrida, all`incrocio tra fantasmi personali e mitologie universali. Si tratta in alcuni
casi di mostri che portano “la morte negli occhi”, riflesso dello spavento che
accompagna il passaggio dall`infanzia all`età adulta, dalla vita alla morte, dalla
civiltà alla barbarie. Per l'Italia sarà analizzata in questo senso anche l'opera di Mino
Maccari e di Salvatore Marchese.
4.2.1 Loplop: Max Ernst e il suo doppio
Il pittore e scultore tedesco Max Ernst (Brühl 1891 – Parigi 1976) dopo gli
studi di filosofia, di psichiatria e di storia dell`arte e i primi contatti con il Blaue
Reiter, giunse, grazie alla scoperta di De Chirico e di Freud, ad elaborare una sua
particolare versione del dadaismo a Colonia. Trovò nel collage – e in generale
nell`accostamento di immagini estranee fra loro e di natura assolutamente diversa, la
tecnica più adeguata per formalizzare quell`idea di spaesamento sistematico che
ricercava. Entrato in contatto con Breton, si trasferì a Parigi nel 1921, cominciando
nello stesso anno ad applicare alla pittura il medesimo principio compositivo del
collage. Mise inoltre a punto le tecniche del frottage e della decalcomania, che
assieme al collage e al grattage sono tali per Ernst da determinare la creazione delle
69
immagini al di là delle inibizioni: “Il frottage non è altro che un mezzo tecnico per
aumentare le facoltà allucinatorie dello spirito, affinché si manifestino
automaticamente delle ‘visioni’, un modo per disfarsi della propria cecità” (cit. in
Marchesini, Andersen, 2003).
I lavori di Max Ernst sono peraltro caratterizzati da una multiformità di
metamorfosi animali e vegetali, vicine ad un`idea di biomorfismo.
Per quanto concerne il tema dell`animalità nell`opera di Max Ernst, che egli
ha declinato in numerose varianti, mi soffermerò in particolare sulla creazione,
tramite il riferimento ad un animale, di un doppio immaginario dell`artista: Loplop.
Loplop
È verso il 1930 che appare nell`opera di Max Ernst una figura dominante,
enigmatica, che prende la forma di un uccello e presenta anche qualche tratto del suo
creatore: l`uccello Loplop.
Loplop è suscettibile di tutte le metamorfosi: passando dal regno animale al
regno degli oggetti, gallo o serpente, si muta spesso in cavalletto da pittura per far
vedere allo spettatore i collages più diversi e inattesi, fino a presentare lui stesso le
proprie trasformazioni, in un vertiginoso sdoppiamento. La nascita e le mutazioni di
Loplop sono viste dallo storico dell`arte Werner Spies come punti di convergenza di
questioni necessarie e ossessive per Ernst, che permettono di definire non solo il
posto del surrealismo nell`arte dell XX sec., ma anche il significato dell`arte stessa
per Ernst (Spies, 1997).
Il neologismo “Loplop”, che designa tutto un ciclo dell`opera e ha suscitato
numerose interpretazioni, risale alla fine degli anni Venti. In generale, per le scelte
dei suoi titoli, Max Ernst si inspirava agli incontri con il linguaggio che l`avevano
sorpreso o divertito. Vi convergono reminiscenze di letture freudiane e pensieri
onirici. Per Loplop si tratta, in un primo senso triviale, del riferimento a Ferdinand
Lop, “poeta pubblico” e oggetto di battute degli studenti parigini: negli anni Trenta,
il grido di “Lop-Lop” non smetteva di echeggiare nel Quartiere Latino. La simmetria
delle due sillabe inoltre ricordava certamente ad Ernst la parola “dada” o l’Ubu di
70
Jarry. Il nome “Loplop” compare dapprima dodici volte nel romanzo-collage La
Femme 100 têtes, di cui Loplop è al tempo stesso l`attore ed il narratore. Poi, di
colpo, Max Ernst si identifica con “Loplop, il superiore tra gli uccelli”, “fantasma
privato incatenato a Max Ernst, talvolta alleato, ma sempre di sesso maschile” (ibid.).
20.
Anche se occorre attendere la fine degli anni Venti perché la creatura alata
venga battezzata Loplop, Max Ernst aveva già mostrato alcuni anni prima la sua
tendenza ad identificarsi con gli uccelli. L’identificazione con Loplop si inscrive
dunque in una mitologia personale, e i suoi amici surrealisti vi hanno presto
intravisto un alter ego dell`artista.
Se il neologismo appare nel 1929, è all`anno seguente che risalgono i collages
con lo stesso nome. L`interesse principale dei collages Loplop consiste, al di là del
fatto di essere una variazione antropomorfica di una tematica costruttivista e cubista,
nel fatto che riflettono la figura dell`artista e le sue concezioni estetiche.
Per esempio nella serie Loplop sono molto rappresentate le mani (figg. 20 –
21). La predominanza delle mani, sprovviste del corpo e che conducono una vita
indipendente, riveste un significato: essa è strettamente legata alle considerazioni
teoriche che Max Ernst ha elaborato nel suo trattato Comment on force l`inspiration.
Nei suoi collages, Max Ernst solleva costantemente la questione del lavoro fatto a
71
mano. Durante il periodo dada ricorreva a dei procedimenti per nascondere
all`occhio dello spettatore la tecnica del collage, tanto più che all`epoca essi non
avevano alcun valore di mercato. Come notato da Aragon, il collage rappresentava
infatti una provocazione aggressiva per la clientela tradizionale degli amatori d`arte:
la povertà dei mezzi impiegati ed il carattere riproducibile rischiavano di essere
ripugnanti per i collezionisti, per i quali la pittura era una forma di adulazione. Per
Aragon il collage permetterebbe ai pittori di affrancarsi da questo
“addomesticamento” attraverso i soldi, poiché esso è povero. Anche se per molto
tempo ancora, secondo Aragon, se ne negherà il valore, perché sembra facilmente
riproducibile e ciascuno crede di poter fare altrettanto (ibid.).
Durante gli anni consacrati ai collages Loplop, Max Ernst studia gli scritti di
Leonardo da Vinci. “L`ordinare è opera signorile, l`operare è atto servile”: questa
citazione dal Codice Atlantico ben si applica anche ad Ernst, il quale ha sempre
preferito la parte dell’ordinare. Allora le mani di Loplop sono probabilmente intese a
prendersi gioco dell`artefatto prodotto dalla mano umana.
21.
La compilazione e la combinazione (tecniche indirette) si sostituiscono al
lavoro diretto, e i gesti di Loplop sono gesti di introduzione, di dimostrazione. Forse
72
per questo Loplop non appare mai nel suo atelier: soltanto nel 1940 vi si lascia
sorprendere, nella tela Le Surréalisme et la Peinture.
22.
Inoltre Loplop présente, titolo ricorrente della serie, si riferisce a un gesto di
oggettivazione: l`artista indica delle immagini all`interno dell`immagine e le rende
materiali. Percepibili in maniera isolata, gli elementi incitano lo spettatore ad
adottare una visione simultanea, e questo effetto è possibile perché i collages Loplop
sono concepiti per la prima volta come dei collages che integrano deliberatamente la
rottura tra livelli di comprensione e diversità dei materiali. La struttura dei Loplop
introduce nel mezzo di espressione del collage una nuova qualità, quella
dell`isolamento. I precedenti collages, le incisioni riprese a pittura e le tavole previste
per La Femme 100 têtes tendevano ad una giustapposizione senza traccia del taglio
tra i differenti elementi ed evitavano gli spazi vuoti, garantendo l`illusione destinata
allo spettatore. Ora nei collages Loplop ogni mezzo espressivo parla di se stesso,
libero dalle costrizioni dell`omogeneità. Lo spettatore deve ormai percepire la
diversità delle fonti impiegate: il mescolamento delle tecniche (disegno, collage,
frottage, grattage, fotografia, in alcuni casi anche bassorilievo) attiva la sua visione.
Dunque Max Ernst sia nei collages che nelle tele antropomorfe della stessa
epoca, cercava di precisare le sue concezioni estetiche in seno al gruppo surrealista
73
e la struttura schematica del personaggio Loplop, sempre presentato in nuove
varianti, gli permette di passare in rassegna tutto il suo repertorio di tecniche e di
temi. Ad avallare questa interpretazione sta poi il fatto che Max Ernst si è opposto
categoricamente al fatto che si vedessero nelle sue opere i prodotti del suo inconscio
e delle sue rimozioni da analizzare, e se vi è un riferimento a Freud, esso è dovuto
all`intento di conferire al lavoro una maggiore ambiguità (Spies, 1997).
74
4.2.2 Victor Brauner
Artista d`avanguardia, Victor Brauner (1903 Piatra Neamtz – 1966 Parigi),
dopo l`adolescenza passata a Bucarest e segnata dall`influenza del padre, è spinto a
partire dalla Romania quando il Fascismo si rafforza. Al suo arrivo a Parigi incontra
Yves Tanguy, che lo introduce nella cerchia di André Breton. Le influenze allora si
moltiplicano. A partire dal 1931 la sua ossessione si focalizza su delle figure
premonitrici. Nel 1934 espone alla Galérie Pierre e parteciperà a tutte le esposizioni
surrealiste. Il suo universo è già in preda a dei soggetti tormentati. Dal 1935 al 1938
rientra in Romania e dipinge su piccoli formati facili da trasportare. Nel 1938 in
seguito ad una rissa a Parigi perde l`occhio sinistro.
23.
Durante la Seconda Guerra Mondiale soggiorna nei Pirenei Orientali, a
Marsiglia e poi sulle Alpi. Lavora allora essenzialmente alla scultura e scopre la
pittura all`encausto su legno. A metà strada tra reale e immaginario, la sua mitologia
personale si incarna innanzitutto nel personaggio di Monsieur K, poi creerà la
75
Chimera dal duplice profilo, il personaggio del Licantropo e la serie di opere
autobiografiche: le Onomatomanies. Rompe con i surrealisti nel 1948. Negli anni
Cinquanta lavora con Matta e realizza il ciclo dei Rétractés, poi subisce l`influenza
della filosofia di Heidegger nelle sue tele nere dove la morte è onnipresente. Le sue
ultime opere sono dei grandi formati dall`iconografia di ispirazione esoterica.
Brauner e gli animali
La cosmogonia di Brauner è carica di figure ibride alle quali sono prestati
molteplici significati. La gnosi, le mitologie, l`astrologia così come tutte le forme di
pensiero dell`uomo che sfuggono alle scienze razionali sono convocate, incrociando
all`infinito i livelli di significati al punto che non trovano una coerenza propria se
non all`interno della sua opera. Da questo bestiario onirico dove coesistono
improbabili ibridi, come lo spettacolare Tavolo-lupo (fig. 24) o le mostruose
Anatomie del desiderio, si sprigionano numerose figure che accoppiano l`uomo e
l`animale.
24.
76
Esse non cercano di isolare o stigmatizzare dei tratti del carattere umano, ma
esprimono il dualismo tra il cosciente e l`incosciente, tra l`intelletto ed i desideri
rimossi. La ricongiunzione dei due livelli di percezione conferisce all`essere ibrido
delle potenzialità di apprendimento del mondo illimitate.
Così, la figura totemica ricorrente nell`opera di Brauner, Tot in tot, mostra un essere
dotato di una testa metà umana metà animale, ma i cui due volti condividono il
medesimo occhio (fig. 23). Allo stesso modo, la chimera, presa in prestito dalla
mitologia greco-romana, gli fornisce un`altra manifestazione di questa dualità.
Questo bestiario è regolarmente alimentato dalle visioni sonnamboliche dell`artista,
simboleggiate dalla figura di Strigoï, la Sonnambula, creatura del sonno e della notte
la cui chioma si trasforma in un animale inquietante. La testa del mostro ed il volto
della sacerdotessa, staccato dal suo corpo, costituiscono le due estremità di un
medesimo organismo che evoca anche Ouroboros, il serpente dal volto umano che si
morde la coda, simbolo dell`infinito e della continuità ristabilita tra l`essere nascosto
e l`essere visibile.
77
4.2.3 Tori e cavalli in Pablo Picasso
Dall`inizio alla fine del suo percorso artistico, tori e toreri abbondano nella
produzione di Pablo Picasso (Malaga 1881 – Mougins 1973), quasi si trattasse di un
centro “nevralgico” della sua poetica. A partire da uno dei suoi primi quadri,
Picador (1890) di Malaga, fino ad arrivare agli ultimi matador di fantasia, i cui
costumi ricordano Goya e che hanno il volto già oscurato e gli occhi rovesciati
dall`agonia: il Torero del 17 novembre 1970 e il Torero del 12 aprile 1971 sono
l`immagine del pittore stesso di fronte alla morte.
Il tema si confonde inoltre con la figura del padre, José Ruiz Blasco, pittore di
piccioni. Nei vari articoli consacrati all`opera di Picasso degli anni `50 e `60, Michel
Leiris ricollega l`identificazione tra pittore e corrida al rito di passaggio iniziatico
che avrebbe inaugurato la carriera dell`artista. Un ricordo d`infanzia mitico,
probabilmente apocrifo e costruito su misura dall`amico etnologo recita: “Figlio di
un pittore, Picasso ama raccontare che quando era ancora molto giovane, suo padre
gli consegnò un giorno, cerimoniosamente, la sua tavolozza e i suoi pennelli, come
un matador più vecchio che affidi la spada al novizio che egli consacra.”
Nessuna identificazione in Picasso con i prestigiosi toreri spagnoli che comunque
ammirava. Egli si inscrive deliberatamente nel solco tracciato dai suoi due maestri,
Goya e Manet, i quali, rifiutando il genere celebrativo tradizionale, preferiscono
rappresentare il torero morto. L`eclatante quadro di Picasso Corrida: la morte del
torero (Boisgeloup, 19 settembre 1933) riportato nella figura 25 riprende l`immagine
del fantoccio disarticolato, umiliato dalla bestia, disegnato da Goya, che aveva visto
“il grande Pepe Hillo gettato a terra, caricato sulle corna come un fantoccio
sventrato”. Riportato in una vertiginosa composizione, il volto ripiegato del torero è
ridotto ad una minuscola macchia rosa, schiacciata tra il muso massiccio, smisurato
del toro ed il collo elastico, disteso del cavallo bianco.
Una replica successiva del motivo del 1955, il dittico con Torero sollevato e
Picador sollevato, riprendendo la radicale scorciatoia panoramica del celebre Torero
morto di Manet, perderà definitivamente, con l`esclusione del cavallo, il carattere di
78
orrore e di caos, per concentrarsi sulla figura del torero, simbolo della sofferenza
dell`artista.
D`altra parte, contrariamente alla realtà, il toro non muore mai nelle corride di
Picasso. Esso è l`artista stesso, il domatore della sua donna torera, la quale porta i
tratti dell`amante Marie-Thérèse Walter in tutta una serie di messe in scena
apotropaiche. La Corrida: morte della donna torero (Boisgeloup, 6 settembre 1933
– fig. 26), fornisce le chiavi simboliche per la comprensione di questo “triangolo”
molto privato toro-cavallo-torero. Osserviamo le due immagini del Settembre 1933:
nell`una vediamo un toro che incorna il cavallo portando il torero sul dorso; nell`altra
vediamo un toro che, invece di essere sfinito (è trafitto dalle banderillas e la lama
della stoccata finale è conficcata nel collo), si ribella, fa fuggire toreri e matador e
solleva, in uno scenario degno del ratto di Europa, donna e cavallo intrecciati. Il
processo di identificazione diviene così più chiaro.
25.
È l`immagine di sé che Picasso proietta, quella di un uomo al tempo stesso
vittima e carnefice della donna, la quale ha il ruolo stereotipato dell`amante fatale.
Picasso trascrive così il suo eros, legando voluttà sessuale ed istinto di morte, che
viene così esorcizzato.
79
In effetti, di tutti i tori e i cavalli dipinti da Picasso, soltanto quelli di
Guernica, il grande quadro storico del XX secolo, non incarnano i suoi fantasmi
interiori, bensì la Storia, facendosi portatori di un valore universale. In questo
contesto invece, la figura del cavallo è associata al regno femminile. Essa appare
anche in un`immagine di estrema violenza, nella scena di corrida detta Le vittime
della vecchia collezione Niarchos, che raffigura un cavallo rovesciato, convulso e
grondante sangue, con le grandi zampe aperte sulla sua ferita, in una postura
apertamente erotica.
26.
L`assimilazione donna-cavallo si precisa in un carnet di disegni fatti a Cannes
nel luglio 1927. Soccombendo ad un toro dalle lunghe corna falliche, il cavallo soffre
e gode, il ventre tagliato da una ferita dalla forma di vulva dilatata, e la testa a guisa
di vagina dentata pronta a richiudersi sulla virilità dell`assalitore. Questo modello,
spesso ambiguo, ermafrodito o bisessuale, sfocerà nella serie dei turbanti ritratti
femminili del 1927-29, dominati da una forma molle ed informe, zoomorfa, quasi
una mantide castratrice, come nel Grande nudo con poltrona rossa del 5 maggio
1929 (fig. 27). Frequentemente analizzato come una testimonianza delle tensioni
80
coniugali di cui soffriva il pittore ed emblema del “continente nero” della sessualità
femminile, questo processo metamorfico deriva altresì dalla decostruzione dello stile
classico, figurativo, di cui il cavallo, come sottolineato da George Bataille nel 1929
in “Documents”, è precisamente l`emblema classico. Per inciso, Bataille era
favorevole ad un`arte dalle forme frenetiche, allucinatorie, trasgressive, che egli
ritrovava nelle metamorfosi di Picasso e di André Masson.
27.
In un disegno, a dire il vero unico, isolato, Toro colpito a morte, cavallo e
donna nuda del 10 luglio 1934, l`amalgama donna-cavallo si fa perfino totale,
trattandosi di una figura bicefala, donna e cavallo insieme.
Questa visione del cavallo come potenza infernale, quasi un`emanazione della
Gorgone, si ritroverà nel 1937 nei primi studi d`insieme su Guernica, in cui dalla
ferita del cavallo morente si vede uscire un piccolo Pegaso alato in linea col mito di
Perseo. Va poi svanendo nelle corride di Boisgeloup le quali, esclusivamente
centrate sulla coppia maledetta, sono di odine strettamente simbolico, prima di
trovare nella figura del Minotauro il suo corrispondente ideale.
81
Spesso interpretato banalmente come una sorta di alter ego del pittore
smarrito nel labirinto delle sue passioni, di volta in volta esorcizzate indossando la
maschera del vegliardo bestiale che soccombe di fronte alla freschezza della sua
giovane donna (Minotauromachia, 25 marzo 1935) o quella del violentatore preso tra
pulsione sessuale (Minotauro che violenta una donna, 28 giugno 1933 – fig. 28) ed
istinto di morte (Minotauro e cavallo, 6 dicembre 1933 – fig. 29), il Minotauro di
Picasso, come l`asino putrefatto di Dalì, rimanda all`alterità e all`angoscia della
morte.
28. 29.
Michel Leiris, seguendo un approccio più stimolante, interpreta il mostro
come metafora di uno stile in continua metamorfosi, che non si irrigidisce mai. Idea
che si riallaccia all`ipotesi di André Chastel, che considera la simbolica riunione
privata del pittore e della sua modella, mascherati da minotauro e cavallo, come
l`allegoria del suo combattimento contro la realtà, la natura, senza tregua reinventata:
“Per lui la pittura è una corrida”. Lo conferma il fatto che l`apparizione del
Minotauro coincide con una nuova mutazione formale della pittura di Picasso, che
tende verso una sorta di espressionismo patetico, amalgamando deformazioni cubiste
passate e distorsioni simboliche. Ne farà le spese la figura di Dora Maar, anch`ella
peraltro eminente creatrice di mostri. Colei che Picasso aveva percepito, secondo una
82
confidenza fatta a Françoise Gilot, come “una personalità kafkiana” (al punto che
decorerà con insetti i muri del loro appartamento), fu il bersaglio di un trattamento
sistematico di animalizzazione della figura. Rappresentata a partire dall`inizio della
loro relazione sotto forma di Arpia (Dora Maar in forma di uccello, 28 settembre
1936 – fig. 30), il suo carattere indipendente ed indomabile le costò la
rappresentazione in gatta afgana/camaleonte/orsa. Tramite una serie di ritratti
fortemente emotivi, ingabbiati in uno spazio da cella carceraria, di cui Bacon farà
tesoro, Dora Maar passa attraverso ogni sorta di mutazione ibrida: di volta in volta
donna-cane dal lungo muso, donna insetto e mantide religiosa dal vitino di vespa
strangolato da sadici corsetti. Picasso dà vita ad una figura ambivalente, al tempo
stesso attraente e vorace, malinconica e diabolica, che si ricollega alla sua ossessione
per la castrazione. La confusione, sperimentata anche da Dalì, tra voluttà sessuale e
nutritiva, di cui ha scritto Roger Caillois nel celebre saggio sulla mantide religosa
(Caillois, 1998), l`angoscia davanti al vampirismo amoroso, trovano lo sfogo più
bello nei ritratti di Dora in forma di ragno che tesse la sua tela, acconciata con elitre
enormi e ridicole (Dora Maar seduta su una poltrona di vimini, 29 aprile 1938 – fig.
31). Una doppia ossessione: del tempo e della morte.
30. 31.
83
4.2.4 André Masson
André Masson (Balagny 1896 – Parigi 1987), stabilitosi a Parigi nel 1922,
dopo un`iniziale periodo cubista entrò a far parte del gruppo dei surrealisti, dal quale
si distaccò nel 1929 in polemica con l`autoritaria gestione di A.Breton. Dal 1924
elaborò una scrittura “automatica” veloce e convulsa, trascrizione immediata degli
impulsi psichici. Metamorfosi, violenza, sofferenza psichica ed erotismo sono
tematiche ricorrenti della sua opera.
32.
Alla fine del 1929 visitò i mattatoi di Vaugirard e di La Villette con il
fotografo Eli Lotar, le cui immagini di zampe di maiale allineate e di frattaglie
saranno pubblicate da Bataille nella sua rivista “Documents”: questi infatti
proponeva l'assimilazione del mattatoio al tempio in quanto luogo del sacrificio
religioso. L`esperienza provocherà una vasta risonanza in Masson, che produrrà una
serie di immagini molto violente, ugualmente nutrite anche dalla lettura di
Lautréamont. Sulla scia dei suoi bestiari totemici degli anni 1925-28 con uomini-
uccello e uomini-pesce, come Lo squartatore del 1928 (Hamburger Kunsthalle),
84
dipinge dei “Massacri” in forma di rituali di sacrificio dallo stile spasmodico.
Illustrando nel 1933 il testo “Sacrifices” dello stesso Bataille, pubblicato nel 1936, si
ricollega con i temi a lui cari del Minotauro e del labirinto in una prospettiva nuova,
mescolando culto cristiano e culto mitriaco.
Come attesta la sontuosa e convulsa Pasiphae del 1945 (fig. 32), Eros non è
assente dalle “Mitologie” di Masson, così come l`influsso di Mitra. Nel 1936, in
Spagna, il pittore parla a Michel Leiris delle sue “mitologiche corride spagnole”
come di “visioni solari”. Resta ciononostante più vicino alla leggenda greca dove il
Minotauro è un mostro dall`energia cieca, spinto dalle sue pulsioni irrazionali verso
la morte.
L`impressionante figura totemica del 1938, Labirinto, mostra invece il
Minotauro come labirinto in sé, un`architettura di Dedalo che concentra tutte le forze
del cosmo (fig. 33).
33.
La guerra civile spagnola ha svolto il ruolo di detonatore per il risveglio della
classe intellettuale europea, facendo nascere una grande quantità di immagini
impegnate, di diversa qualità, a volte mediocri, altre volte eccelse. In alcuni disegni
antifascisti di Masson, nell`inevitabile solco de I disastri della guerra e dei
85
“Capricci” di Goya, e similmente al Picasso di Verità e menzogna di Franco,
Masson elabora immagini dei dittatori a colpi di analogie zoomorfe e di metafore
escatologiche. Ne Los regulares e ¡Nunca saciados! (1937) egli trasforma il suo
Minotauro in un`arma politica. Per “Acéphale”, la rivista creata da Bataille e Pierre
Klossowski, disegna un Minotauro che mette a ferro e a fuoco il mondo: templi
fracassati, corpi pugnalati e sventrati, cieli neri. Il Minotauro non lascia che rovine al
suo passaggio: allegoria della crisi della nostra civiltà che sprofonda nella barbarie,
in un universo dionisiaco “al di là del bene e del male”, che si crea distruggendosi.
Di tale tragica fatalità Masson darà una ulteriore interpretazione nella
scenografia de “La Numancia” di Cervantes, nella messa in scena di Jean-Louis
Barrault del 1937: l`opera fa riferimento alla eroica resistenza dei Numa a Roma, che
ricordava la lotta per la difesa della Spagna repubblicana. Nell`impressionante
fondale disegnato, Masson mostra un arido paesaggio, nel quale in primo piano
emerge un poderoso pugno chiuso, e davanti ad esso, su un piedistallo, la totemica
testa di un toro tra le cui corna sta incastonato un teschio.
86
4.2.5 Salvador Dalì
Sistematicamente rappresentato nell`atto di urlare di terrore, drizzando la
lingua tra i denti stretti, quasi nel furore del macello, come lo vuole la tradizione
antica, il cavallo, del quale abbiamo indicato i tratti femminili rispetto all`opera di
Picasso, evoca altri cavalli simbolici del bestiario surrealista. Per esempio le “Spose
del vento” 1927 di Max Ernst, immagini di sintesi tra visione apocalittica e gestualità
“automatica”, il cui carattere parossistico coincide con quello delle sue orde di
“Chimere nude” contemporanee, emblematiche secondo Breton del concetto di
“bellezza convulsa”.
34.
Dello stesso ordine è, per Salvador Dalì (Figueras, Gerona, 1904-1989),
l`apparizione di un cavallo bianco, translucido e convulso, nel ciclo autobiografico di
Guglielmo Tell, che rappresenta suo padre. Qui il pittore, intorno agli anni `30,
esorcizza il suo romanzo famigliare. In Guglielmo Tell (1930 – fig. 34) si vede il
cavallo furioso con la criniera al vento, saltare sopra uno strano ostacolo, costituito
87
da un piano coperto dalla carogna di un asino in decomposizione e brulicante di
insetti. Dal volto del pianista si vede emergere l`immagine che per Dalì identifica il
desiderio, una testa di leone che ruggisce. Il cavallo appare anche qui come una
figura castratrice, nel contesto di un`immagine che rinvia al complesso edipico, a
quello di castrazione e al senso di colpa.
Ne Il gioco lugubre donna e cavallo si fondono nell`alchimia delle
metamorfosi multiple di Dalì, in un vortice di sessi e di uccelli, di cappelli e di teste
(fig. 35). L`asino di Guglielmo Tell ricorda quello putrido e informe immortalato da
Dalì e Buñuel nel film Un chien andalou del 1929, la cui sequenza dei pianoforti
riempiti di carogne d`asino, con zampe, code, groppe ed escrementi che fuoriescono
dalla cassa armonica, era stata considerata altrettanto insostenibile quanto l`atto
iniziale dell`occhio tagliato.
35.
La presenza dell`asino nel film, che consacra la tempestosa amicizia fra il
pittore ed il cineasta e la fine dell`amicizia intima con il poeta Federico Garcìa
Lorca, infine la sua riapparizione lancinante nell`opera del catalano l`anno seguente,
88
depongono a favore di un`interpretazione dell`asino in quanto immagine di un
transfert, che resuscita il ricordo tradito del poeta. Era stato infatti con lui che Dalì
nel 1925 aveva costituito nella città universitaria di Madrid un movimento
studentesco derisoriamente chiamato “Putrefactos”, ad indicare nell`ambito letterario
i gruppi più conservatori, i difensori di un`estetica ormai vuota, insomma dei
cadaveri.
Nelle sue memorie intitolate La arboleda perdida, il poeta Rafael Alberti
testimonia di come Dalì si fosse appropriato del concetto di “putrefazione”.
Infilandosi nella pelle dell`asino abietto, Dalì dichiara guerra aperta al simbolo stesso
della “buona” letteratura spagnola, convenzionale e piena di buoni sentimenti:
l`amico del genere umano, l'eroe esemplare del romanzo popolare di Juan Ramòn
Jìménez, Platero y yo. “ Io sono l`anti - Juan Ramòn Jìménez, che è, mi sembra, il
capo supremo della putrefazione poetica, la sua putrefazione è la peggiore di tutte”;
così scrive a Garcìa Lorca in una lettera che preannuncia la loro separazione del 1928
conseguente al violento attacco di Dalì contro lo stile secondo lui altrettanto
“tradizionale” e conformista del suo vecchio condiscepolo.
“Distruggere e discreditare il mondo sensibile ed intellettuale” […]
“Sporcare tutto ciò che somiglia a dei buoni sentimenti, a dei sentimenti umanitari”:
il programma affisso da Dalì all`Ateneo di Barcellona nel 1930 non scalfirà
comunque le convinzioni di Lorca il quale, alla fine della sua vita, proclamava
sempre la sua ammirazione per Juan Ramòn Jìménez, “grande poeta lacerato dalla
realtà”, né la sua fedeltà ai temi puramente spagnoli e andalusi del folclore, ormai
disprezzati da un Dalì definitivamente passato alla causa dell`immaginario freudiano.
89
4.2.6 Alberto Savinio
Pitttore, scrittore e musicista, Alberto Savinio (Atene 1891- Roma 1952),
pseudonimo di Andrea de Chirico, svolse un`attività pittorica riferibile al
surrealismo, ma in realtà intesa soprattutto a dar forma ai due principi fondamentali
della poetica metafisica: la “spettralità” e l` “ironia”.
Negli anni Trenta a Parigi Savinio, vicino al Jean Cocteau ellenizzante
dell`Orfeo (1927) e all`universo metafisico del fratello Giorgio De Chirico, creò una
serie di quadri “automitologici”, secondo la definizione di Pia Vivarelli. Prendendo
in prestito dalla mitologia classica il suo bestiario simbolico, egli riprende delle
leggende antiche o cristiane per esorcizzare la sua infanzia e soprattutto la figura
della madre. Nel ciclo edipico dei Fils prodigues, si vedono personaggi dalla testa di
cervidi, muscolosi come statue antiche, ed immagini della madre come struzzo o
pellicano (La sposa fedele, 1930-31, fig. 36). La donna con testa di struzzo,
atteggiata come in una foto della madre dell`artista, ripresa in altri disegni e dipinti
del periodo, si spiega anche con le parole di Waldemar George: “ Se lo spettacolo di
essa fauna non risulta spaventoso, se esso non ha nulla in comune con i bestiari […]
è che Savinio si sforza di salvaguardare il primato morale dell`elemento umano. Le
creature che egli descrive non arieggiano l`aspetto delle bestie se non in ragione di
quella analogia dei generi e delle speci, di cui il pittore ha carpito il principio
interiore. […] Le maschere che portano i suoi personaggi hanno lo scopo di
identificarli” (George, 1933).
L`inserimento di teste animali in composizioni tratte da fotografie
appartenenti all`archivio famigliare del pittore, rivela l`impossibilità di far riaffiorare
alla memoria veri valori; mette piuttosto a nudo la vacuità di un mondo borghese,
colto in momenti emblematici di rappresentazioni di se stesso, quali le foto ufficiali e
i ricevimenti fra amiche (Le due sorelle, 1932).
Montate come dei collages di Ernst, e similmente derivanti da fonti
eterogenee, sia dotte che popolari, queste figure in cui si combinano l`umano e
l`animale, al tempo stesso comiche ed inquietanti per la loro mostruosità, sono calate
dentro interni piccolo-borghesi. In queste messe in scena artificiali l`indagine
dell`inconscio, l`uso dei procedimenti tipicamente surrealisti di spaesamento e di
90
disordine inatteso, la conciliazione tra reale e fantastico, si uniscono e vengono
sublimate grazie ad un profondo senso di autoderisione, di ironia e di humour.
36.
“Dei ritratti da me dipinti, un critico ha detto che sono altrettanti giudizi. Non
mi si poteva fare lode maggiore. Il ritratto è una ‘rivelazione’. È la rivelazione del
personaggio. È ‘lui’ in condizioni di iperlucidità. È ‘lui’ come egli stesso non riuscirà
mai a vedersi nello specchio, come non riusciranno mai a vederlo i familiari, i
conoscenti, gli amici, coloro che lo incontrano per istrada e non sanno chi egli sia”
(“Nuova Enciclopedia – 20, Ritratto”, in “Domus”, settembre 1942, p.IV). “In quella
serie di mie pitture che figurano uomini con teste di animali, i più frivoli hanno
creduto ravvisare un`intenzione caricaturale, che assolutamente manca. Quelle mie
pitture sono ‘studi di carattere’; meglio ancora: ‘ritratti’. Perché il ritratto – il ‘vero’
ritratto – è la rivelazione dell`uomo nascosto. Il quale ora è un gatto, ora un cervo,
ora un maiale. Più di rado un leone. Ancora più di rado un`aquila […] Questa ‘verità’
tanto profonda, tanto terribile, tanto grave da portare, gli Egizi, temendo di
91
soccombere sotto il peso, la facevano portare ai loro dei” (“Nuova Enciclopedia”,
1977, p.44).
L`inserimento delle teste animali non altera l`integrità fisica dei corpi umani
in sé; l`accostamento delle due entità, umana e bestiale, è piuttosto un`operazione di
collage, da cui traspare una chiara intenzione ironica, capace di mettere a nudo la
vacuità del mondo borghese ottocentesco.
L`autoritratto del 1936 (fig. 37) sintetizza l`idea centrale della ritrattistica di
Savinio e la funzione che in essa svolge l`inserimento di teste di animali nella figura
umana. Se in altri dipinti con uomini dalle teste bestiali si può precisamente
individuare l`animale cui si riferisce il personaggio, la testa nell`autroritratto del
1936 non è invece così nitida da essere interpretabile in modo univoco.
37.
Da alcuni critici è stata vista come testa di gatto, da altri come testa di gufo o
di civetta e di volta in volta viene letta come allusione a un predominio
dell`intelligenza – della civetta come Pensiero parla lo stesso Savinio – ora come
segno di un Savinio-Gufo “notturno”. Se questo autoritratto si pone quindi in linea
92
generale sotto il segno della “rivelazione” del proprio carattere nascosto, la verità che
ne emerge riafferma ironicamente un`ambiguità di fondo del personaggio Savinio o
un suo persistente pudore di fronte a un completo svelamento di sé; e ironia,
ambiguità e pudore sono termini e concetti spesso correlati nelle riflessioni
dell`artista.
Savinio si rivolge poi al mondo mitico quale espressione esemplare di una
fase essenzialmente poetica e libera del sapere umano, precedente una razionalità
solo costrittiva della conoscenza e della società. Ed è proprio di questo momento
mitopoietico dell`umanità – e in particolar modo della mitologia greca – creare
divinità a misura d`uomo, espressioni delle forze interne alla stessa natura, come
confermato nella Nascita di Venere del 1950, dalla commistione di umano, di pesce e
di mantello fatto di onde. La fisicità e l`animalità degli dei saviniani non sarebbe di
per sé ironica, quindi; lo è nel consapevole stravolgimento dei modelli figurativi
tradizionali.
Nell`ultima opera dipinta da Savinio, Bal de Tetes, del 1952, che è anche
l`ultima delle metamorfosi di figure femminili con teste di animali, l`allusione, come
anche nei quadri degli anni Trenta e Quaranta, è diretta alla madre dell`artista. Nella
persistenza di una tematica e di una iconografia costante, è il mutamento del
linguaggio pittorico a fare luce sulla visione maturata dall`artista. In questa figura
femminile dalla testa di rapace permangono gli accenti di un`ostentata eleganza
mondana della società borghese, soprattutto riguardo alle vesti e agli ornamenti, ma
viene ad essere profondamente intaccata la saldezza plastica della forma, che si
scioglie in rivoli di colore divisi da profonde zone d`ombra o si aggroviglia, nella
parte centrale, in pesanti segni sovrapposti. Come accade per la realtà naturale (come
Savinio mostra in alcuni dipinti e bozzetti teatrali del 1950 e 1951) anche l`individuo
sembra sul punto di diventare materia magmatica e incontrollabile, in un processo di
decomposizione in cui l`unica nota di persistente vitalità è affidata alla testa
animale, in quest`opera la testa di un rapace. Si può quindi leggere quest`immagine
al di là del contenuto autobiografico, come emblematica di una più generale
condizione di crisi dell`uomo contemporaneo, osservata da un superiore principio di
autorità, alluso dal grande e fisso occhio del rapace.
93
4.2.7 Mino Maccari
Maccari (Siena 1898 – Roma 1989), pittore, incisore e scrittore, fondò nel
1924 con L. Longanesi “Il Selvaggio”, un periodico satirico di cui fu il principale
illustratore (fig. 38), dando forma a una pungente opposizione interna al regime
fascista. La sua opera, che spesso si configura come critica graffiante delle
consuetudini borghesi, si concreta in un disegno mordente e incisivo, in una
figurazione che si ricollega da una parte a Valori Plastici, dall`altra
all`espressionismo, a J.Ensor e a G.Grosz.
38. 39.
Invitato ad illustrare il libro di racconti Bestie del Novecento di Aldo
Palazzeschi, dà vita, in una serie di litografie dai colori accesi, ad un bestiario
personale in cui le associazioni surrealiste si uniscono ad una peculiare ironia, come
si evidenzia nella figura 39.
94
Vicino a Mino Maccari, Salvatore Marchese, pittore, incisore e scultore, ha
vissuto l`animalità secondo una modalità diversa: nell`opera di Marchese essa si
configura come bestialità (fig. 40); la si può intendere in senso deleuziano come
quell`energia animale, che scaturisce talvolta dall`uomo e che nella scultura qui
riportata dà forma ad un combattimento, tutto interiore e simbolico, tra l`artista e i
suoi fantasmi.
40.
95
4.3 L`animalità nell`opera di Francis Bacon
Gilles Deleuze ha affermato: “Bacon è un pittore religioso”. A sostegno di
questa ipotesi, i grandi quadri di macellerie simili a crocifissioni e le crocifissioni che
hanno l`aria di macellerie, ma anche le fonti fotografiche rivendicate dal pittore. Lo
stesso Francis Bacon (Dublino 1909 – Madrid 1992) ha affermato di essere stato
molto toccato dalle immagini dei mattatoi e della carne, che egli vedeva strettamente
legate al tema della crocifissione. Nel quadro Painting del 1946 la scena è una
macelleria: incombente sullo sfondo vi è una carcassa che è anche una crocifissione
senza testa; davanti a questa, sotto un ombrello, una figura che sembra essere quella
di un politico e in primo piano un`esposizione di quarti di carne (fig. 41).
41
Su uno dei suoi ultimi autoritratti, Bacon si rappresenta con una testa di
maiale, sfocata o imprecisa. Tramite un processo di avvicinamento, a partire da
repliche di Velazquez o Picasso, ogni volta sempre più deformate, rinchiuse,
degradate, egli finisce per raggiungere il suo obiettivo: mostrare che l`Uomo è
Animale, così come l`Animale è Uomo.
96
In Bacon l`uomo è abietto e l`animale è pietoso. Le sue immagini confuse di
un cane solitario, prigioniero di un guinzaglio (Man with dog, 1953) sono delle
testimonianze di pura sofferenza, che generano pietà e compassione. Nel 1944 i
Three studies for Figures at the Base of a Crucifixion della Tate Gallery di Londra,
vera e propria metafora della tortura, sono probabilmente derivati, secondo David
Sylvester, dalle figure biomorfe, alla soglia tra l`umano e l`animale, create da
Picasso negli anni Venti, così come dai suoi studi di crocifissioni del 1932. La
mostruosità delle figure imbavagliate e urlanti del trittico, ispirate alle Furie
dell`Orestiade di Eschilo, vera incarnazione di quel che Deleuze definisce in Bacon
divenire-animale, lo avvicina a una pittura contemporanea di Picasso, la Donna che
si pettina del 1940. I carnet di disegni risalenti all`epoca della guerra mostrano che
l`opera fu preceduta da disegni macabri di pezzi di carne e di ossa, e la donna
esibisce un corpo di prostituta sormontato da un cranio in cui si apre come un taglio
una bocca truccata e oscena.
Richiamandosi all`immaginario religioso del bue scorticato illustrato da
Rembrandt, Soutine e Chagall, Bacon riprende l`idea della confusione tra carne
animale e carne umana. In Painting la figura di scorticato che si ripara sotto un
ombrello è tagliata da parte a parte come la pelle del bue squartato: “Ogni uomo che
soffre è carne”, ha detto Bacon. La sua grande gola aperta è un`allegoria della
sofferenza e della deplorazione, riprese da Bacon dalla Strage degli innocenti di
Poussin e dall`immagine della bambinaia urlante della Corazzata Potëmkin di
Eisenstein, ma anche ricordando le figure di cavalli imploranti di Picasso, dalle
lunghe teste voltate verso il cielo.
Come detto precedentemente, per Deleuze, a proposito delle opere di Bacon,
“le deformazioni cui il corpo è sottoposto non rappresentano altro che i tratti animali
della testa. Non si tratta, tuttavia, di una semplice corrispondenza fra forme animali e
forme del volto (…) Del resto, neppure i lineamenti o i tratti animali rappresentano
semplici forme animali, ma sono piuttosto l`espressione di spiriti che animano le
parti ripulite, che tirano la testa, che individualizzano e qualificano la testa pure priva
del volto. (…) Può accadere che una testa d`uomo sia sostituta da un animale, ma
non si tratta, tuttavia, di un animale in quanto forma, piuttosto dell`animale in quanto
97
puro tratto, per esempio il tratto fremente di uccello che si avvita sulla regione del
volto ripulita (…) Può accadere che un animale reale, un cane per esempio, venga
rappresentato come l`ombra del suo padrone o che invece l`ombra umana assuma
un`esistenza animale autonoma e indeterminata. L`ombra fugge dal corpo come un
animale che esso custodiva nel suo intimo. In luogo di corrispondenze formali, la
pittura di Bacon contiene una zona di indiscernibilità, di indecidibilità che si
frappone fra l`essere uomo e animale. L`uomo diviene animale, ma non senza che
l`animale divenga spirito, spirito umano, spirito fisico dell`uomo raffigurato allo
specchio come Eumenide o Destino. Non si tratta mai di una pura combinazione di
forme; è piuttosto il fatto comune: il fatto comune dell`uomo e dell`animale, al punto
che anche la più isolata Figura baconiana costituisce già in sé una Figura accoppiata,
la Figura dell`uomo accoppiato al suo animale in una tauromachia latente.” (Deleuze,
1981)
98
CAPITOLO QUINTO
L`animale nell`arte contemporanea
5.1 Considerazioni introduttive
Abbiamo visto come gli animali fino alla prima parte del Novecento e a
conclusione di un processo plurimillenario, siano stati interpretati e utilizzati dagli
artisti e dalle diverse culture di volta in volta come veicoli di sentimenti umani, segni
del disordine e del dramma, specchi dello sdoppiamento dell`uomo, volti dell`Altro
che si intende riconoscere o negare, e immagine dell`uomo stesso di fronte alla
verità.
Si è anche visto, tramite l`analisi filosofica di Agamben e di Deleuze e alle
osservazioni di Villa e Berthou, quanto il dibattito sull`uomo, sull`animale e
sull`animalità, sia attuale, di un`importanza tale da travalicare i confini dell`arte
stessa.
Oltre alle considerazioni di natura filosofica, anche gli studi più recenti
avvenuti nel campo dell’etologia e della zooantropologia circa il rapporto tra l’uomo
e gli animali pongono delle questioni essenziali:
“Sono davvero prospettabili nuove cosmologie etologiche agli esordi del
Terzo Millennio? Già dalla fine di quello che ci siamo appena lasciati alle spalle i
rapporti tra noi uomini e (altre) specie animali sembrano profondamente mutati”
(E.Alleva, N. Tiliacos, 2003).
Numerosi studi già a partire dai primi anni novanta hanno mostrato come si
andasse assottigliando sempre più il limite tra umanità e mondo animale. Come si
riverbera tutto questo sul lavoro degli artisti?
Secondo C.G. Jung “l'artista è stato, in ogni tempo, lo strumento rivelatore
dello spirito della propria epoca. (…) Consciamente o inconsciamente, l'artista dà
forma ai caratteri e ai valori tipici del suo tempo, e resta, a sua volta, condizionato e
formato da questi.”
La questione che pongo è: c’è forse una relazione tra l’uso di animali vivi o
morti che si è fatto nell’arte degli ultimi decenni e la mutata coscienza dei rapporti
99
che intercorrono tra la nostra e le altre specie animali? Che cosa nasconde questa
ossessione per gli animali?
Lo vedremo in particolare rispetto all`opera di Joseph Beuys, un artista che ha
utilizzato gli animali sia vivi che morti nel proprio lavoro, ma in generale nell`arte
degli ultimi quarant`anni l`animalità ha giocato un ruolo estremamente importante:
come Beuys, che nella sua pratica artistica accordava un posto di primo piano alla
relazione con gli animali, numerosi artisti hanno fondato su questo tema la propria
ricerca, stabilendo con gli animali una relazione che di volta in volta si richiama alla
rappresentazione, all`impersonificazione, all`utilizzo delle bestie viventi o morte fino
alla creazione di nuove creature da laboratorio. Tra essi, solo per citarne alcuni: Ana
Mendieta, Annette Messager, Damien Hirst, Jannis Kounellis, Robert Rauchenberg,
Oleg Kulik, Eduardo Kac, Annette Messager. La lista dei soli artisti viventi che
attualmente operano con gli animali sarebbe assai numerosa. Prima di entrare nello
specifico dell`analisi dell`opera di Joseph Beuys, è interessante porre la domanda di
carattere generale: perché così tanti artisti si rivolgono agli animali?
L'animale e la realtà
Da una parte sembra che l`animale possa mettere in discussione l`idea di una
visione progressista dell`arte, liberando gli stessi artisti dalle coercizioni delle mode.
La presenza dell`animale si associa ai mezzi di espressione tradizionali quali il
disegno, l`incisione, la pittura e la scultura. Quasi che la forza vitale di cui l`animale
è testimone e portatore restituisse una nuova giovinezza a procedimenti artistici che
per altri versi stentano a trovare una loro attualità, fornendo agli artisti una possibilità
di inserimento concreto nell`arte contemporanea sfruttando tecniche tradizionali. Ma
l`animale ha da tempo conquistato anche i favori di tecniche innovative, a partire
dalla fotografia, e ha accompagnato l`emancipazione dei più recenti mezzi di
espressione artistica: al punto che lo si incontra nella performance, nelle installazioni
e nella videoarte. Così l`animale vivo, in carne e ossa, viene ad integrarsi nelle forme
artistiche più anticonformiste, generando imbarazzo sia nelle istituzioni preoccupate
di salvaguardare le belle arti quanto in quelle interessate alla tutela degli animali.
100
Questo trionfo dell`animale, nel nostro mondo senza più illusioni, non è
dovuto solo al fatto che esso sia il veicolo di valori morali, come è avvenuto per
secoli. Si tratta sovente di un indicatore credibile, capace di rendere conto in modo
realistico dell`entità del disastro in corso sul nostro pianeta, di additare le lobby
industriali e agroalimentari o il fenomeno della manipolazione genetica.
Inoltre, l`entità della presenza degli animali nell`espressione artistica del
nostro tempo è tale da generare un confronto naturale con un`altra epoca in cui gli
animali sono stati molto popolari, l`epoca dei bestiari, le opere didascaliche
medievali in cui sono descritte e raffigurate qualità e caratteristiche di animali sia
reali che fantastici (unicorno, sirena, ippogrifo), interpretati spesso come simboli di
verità religiose. Essi costituivano per gli artisti romanici e gotici inesauribili repertori
da cui attingere motivi di animali e mostri per la decorazione scultorea. In
quell`epoca, l`introduzione della stampa permise l`affermazione implacabile della
logica della trasmissione della conoscenza. Oggi, con i potenti media e con Internet,
è il sistema binario a dettare legge, dando forma ad espressioni artistiche che ne sono
l`espressione. Troncando, esso disegna ovunque una medesima linea di
demarcazione tra spirituale e materiale, tra bene e male, tra alto e basso. Sul filo del
rasoio, gli animali eludono qualsiasi rigidità e si fanno rappresentanti della
complessità del mondo sensibile, che con essi reinveste la scena artistica. Così li
ritroviamo vivi o impagliati, delicatamente modellati o fusi nel bronzo, immortalati
dalla fotografia o sapientemente composti di pixel, disegnati o dipinti: in ogni caso
essi mantengono una forza vitale propria ed un enigma che li mantiene impermeabili
alle convenzioni estetiche e alle mode.
Inoltre, in quanto grande dominatore degli schermi, l`animale mette davanti
agli occhi degli uomini la propria indegnità, le sue copule varie e diversificate, la sua
fondamentale immoralità. Si può dire che gli animali raggiungano quel che il
Marchese di Sade esigeva dai repubblicani contro il sopore dello “stato morale”: la
brutalità primitiva e insanabile dell`animale, il suo aspetto fisico, sono una
provocazione permanente, funzionale al raggiungimento dello “stato di insurrezione
necessario” rivendicato dal divino marchese.
101
Prova insistente di una natura demiurga, come sostiene Jacques Kerchache,
la stessa bellezza degli animali non si soddisfa di alcuna delle convenzioni della
“creazione”, neanche artistica: quando l`animale emerge, persino il più discretamente
possibile nell`opera d`arte più riuscita, di colpo non non c`è più niente da vedere se
non questa sua terribile nudità, quasi fosse il corpo del delitto. L`animale ruba la
piazza al suo potente creatore. Avendolo fatto entrare in scena, è l`artista stesso che
deve cancellarsi, compiacendosi al massimo nella propria negazione. L`osservatore
incidentale dell`opera poi, che la presenza dell`animale eleva temporaneamente a
cacciatore, si trova così costretto a sperimentare non solo il suo sguardo, ma
soprattutto il suo senso di ospitalità. La questione è: come accogliere la radicale
alterità di questo animale, il quale gli è allo stesso tempo così vicino e così lontano?
Se l`arte di oggi somiglia in qualcosa ad un Arca di Noè, è perché vi è un
urgenza. Che ne è oggi del suo rapporto con il reale e con il mistero? E della sua
funzione sociale?
Preso in prestito e piegato alle esigenze dell`antropomorfismo dall`industria
del disegno animato, trasformato in simulacro, presente nelle iconografie più
sdolcinate, manipolato dai tassadermisti più meticolosi, l`animale resta tale per
sempre. Continua a sfuggire ai suoi predatori come ai suoi protettori. Così come
l`arte stessa, l`animale osa ciò che è al di fuori della norma. Una risposta possibile
chiama in causa un`urgenza: in un momento in cui sempre di più l`uomo sta
perdendo il contatto con il reale, in una società che va verso la smaterializzazione,
l`animale sembra poter conservare all`uomo un sicuro ancoraggio con la realtà.
102
5.2 Joseph Beuys
Avevo un`idea di quel che sarebbe stato il comportamento del coyote. Avrebbe potuto essere diverso.
Joseph Beuys (Krenfeld 1921 – Düsseldorf 1986) è stato tra i più discussi e
insieme stimolanti artisti europei tra gli anni Sessanta e Settanta, operando a tutto
campo, realizzando sculture, disegni, dipinti, installazioni, performances (azioni) e
impegnandosi anche sul terreno della politica e delle battaglie ecologiste con
l`obiettivo di estendere il concetto di arte a ogni aspetto della vita e di consacrare
l`artista, tra predicatore e sciamano, come coscienza critica della società. Per Beuys
ogni individuo libero e creativo è un artista che contribuisce alla realizzazione di una
collettiva “scultura sociale” (Soziale Plastik); desiderava infatti allargare la nozione
di arte alle azioni più quotidiane, estenderla a degli eventi che rivelassero della
politica o del sociale. L`arte concepita come autodeterminazione creativa ed in
quanto processo che genera la creazione permetterebbe così di liberare l`uomo e di
condurlo verso una società alternativa.
La teoria plastica
La teoria plastica è una posizione estetica elaborata dall`artista ed
estrapolabile dalla maggior parte delle sue opere, al punto da costituire il fulcro della
sua produzione. Per plastica Beuys non intende tanto l`oggetto prodotto da
un`attività manuale, fisica, bensì il risultato del processo di sviluppo dall`informe-
caotico-amorfo alla forma-composizione-struttura cristallina. La teoria plastica è
stata applicata da Beuys a tutti i campi dello scibile e dell`esperibile umano fino a
diventare chiave di lettura di fenomeni che normalmente tendiamo a considerare
estranei o lontani alla dimensione estetica. Nella logica di Beuys però, la sfera della
vita e quella dell`arte funzionano in base agli stessi meccanismi. Anche alla sfera
della vita egli ha dunque applicato la teoria plastica in un senso ampio che egli ha
103
definito “concetto ampliato di arte”. Così facendo ha considerato processo plastico
tutto quanto l`uomo crea, realizza, inventa. Tutto diventa arte, anche la politica:
poiché essa si basa sull`arte oratoria, Beuys si è servito dello strumento verbale,
rilasciando interviste durante le quali ha trattato i suoi pensieri come se fossero delle
sculture da plasmare.
L`influsso di Steiner
Rudolph Steiner (1861 – 1925) è il fondatore dell`antroposofia. Essa è, in
breve, una disciplina che si fonda sulla convinzione che tutto l`esistente sia
analizzabile secondo processi analogici; presuppone l`esistenza di un mondo visibile
e di uno invisibile ma altrettanto reale; pretende inoltre di ricondurre lo spirituale
dell`uomo allo spirituale dell`universo. Richiamandosi in parte all`Idealismo tedesco,
Steiner è convinto che il processo conoscitivo, se adeguatamente impostato, non
conosca confini e che la realtà non sia che un graduale manifestarsi dello spirituale.
Applica metodi di analisi che vogliono essere scientifici.
È questo il contesto culturale cui Beuys ha consapevolmente aderito,
conferendo così un taglio particolare alla sua arte che, conformemente
all`impostazione steineriana, è un campo creato dall`uomo e si trova in una posizione
intermedia tra Idea (macrocosmo) e Realtà percepibile (microcosmo). Questo
giustifica in parte la sancita identificazione tra arte e vita estrapolabile da ogni opera
di Beuys e, di conseguenza, l`importanza attribuita a elementi autobiografici.
Lo strato simbolico esemplificato sugli animali
Mercurio è l`elemento di transizione tra uno stato e un altro, in grado di unire
i contrari, per esempio l`elemento femminile e quello maschile. Se in astrologia ed in
alchimia è mercuriale ciò che è capace di trasformazione, questo status è, nel mondo
104
artistico di Beuys, tipico della lepre, del cervo, del cigno; tra i materiali, inoltre, è
proprio del grasso, della cera e del miele (Liveriero Lavelli, 1995).
È importante riflettere sul ruolo rivestito da alcune specie animali
nell`immaginario beuysiano, perlomeno per poter capire le intenzioni dell`artista.
Per cominciare, ogni animale rimanda a realtà ben precise e univoche: esso
diviene simbolicamente espressione di significati con i quali il legame è
indissolubile. Tutti i processi “animici” stanno in un rapporto di influenza reciproca
con i processi fisiologici quali, per esempio, la respirazione e la circolazione
sanguigna. Il cuore rappresenta l`organo centrale che riunisce in sé tutti i processi
ritmici ed emozionali. Sono in particolare il cervo e la lepre ad essere collegati alle
forze sanguigne:
“Le corna ramificate dei cervidi, durante la crescita il sangue vi scorre fino
alle estremità. La loro conformazione esterna riprende in modo visibile eventi propri
dell`apparato circolatorio, suggerisce i cicli di sviluppo ormonale, le diramazioni del
sistema nervoso. Il cervo è animale ctonio, accompagnatore di anime nell`aldilà.
Indica poi, con la sua presenza l`incombere di un pericolo. È orgoglioso.” […] “La
lepre svolge un ruolo simile a quello del cervo, ma è molto più specializzata nelle
forze sanguigne: nella lepre la parte emblematica non è come nel cervo, quella
superiore, ma il suo baricentro è spostato in quella inferiore, suggerendo un rapporto
molto stretto con la donna, con il parto, con il ciclo mestruale e in ogni caso con tutte
le trasformazioni chimiche del sangue. Per me la lepre è il simbolo
dell`incarnazione.” (cit in Liveriero Lavelli, 1995)
Animali-organi
Joseph Beuys faceva dunque intervenire gli animali nelle sue azioni. Secondo
l`artista, la malattia della civilizzazione, la “malattia dell`organismo sociale”,
proviene particolarmente dalla perdita della Natura, e una delle soluzioni è di
ritrovare la nostra animalità, sempre presente ma repressa, tramite la mediazione
degli animali che possono ricollegarci nuovamente ad essa. Beuys dialoga con
l'animale in quanto rappresentante della propria specie e anche per andare oltre, per
105
entrare in contatto con l`anima collettiva di questa specie. La percezione di
quest`anima di gruppo apre la strada alla comprensione globale della realtà. Le
pietre, le piante, gli animali, forme di vita cosiddette inferiori, possono rendere
possibile l`accesso alle forme di vita cosiddette superiori. “Perché lavoro con degli
animali per mettere in evidenza delle energie invisibili? È perché si può dimostrare la
presenza di queste energie penetrando in un regno che l`uomo ha dimenticato e dove
sono all`opera delle potenze incommensurabili. E, quando cerco di conversare con lo
spirito di questa totalità di una specie animale, si pone la questione di sapere se si
potrebbe ugualmente comunicare con delle altre entità più alte… con queste divinità
e questi spiriti elementari…” (cit. in Tisdall, 1988).
In questo dialogo con l'animale c`è anche il problema della libertà. Gli
animali sono soggetti all`anima collettiva della loro specie e non possono agire
indipendentemente da essa. Altamente specializzati in campi determinati, sono
suscettibili di adattamento, certo, ma non possono, come l`uomo, sviluppare delle
nuove specializzazioni o dei nuovi modelli di pensiero. Dipendono da capi, cosa non
indispensabile per l`uomo. La loro situazione nell`evoluzione è fissata. L`uomo, al
contrario, è capace di esistere come individuo libero, perché la sua libertà risiede
nell`esercizio del suo pensiero. “L`essere umano non è, come l`animale, dipendente
dall`anima del gruppo: non può concepirsi se non come individuo libero.” (cit. in
Tisdall, 1988). È arrivato ad un punto dell`evoluzione in cui ha potuto rigettare
qualunque obbedienza verso i capi, le leggi del clan e le gerarchie degli dei. La
conoscenza di questa libertà coincide nel tempo con la crisi storico-critica, dove
l`impoverimento spirituale si accompagna al potere di distruggere il mondo. E il
paradosso di questa possibilità di libertà è che l`uomo, questo individuo libero,
confrontato alla società che ha creato, delega le sue responsabilità ad una minoranza
dirigente, il cui autoritarismo distruttivo e il cui potenziale distruttivo sono senza
eguali nella storia.
È anche il momento storico in cui una collaborazione con altre forme di vita
diviene più che mai necessaria. Solo, in virtù della sua libertà specifica, l'uomo può
stabilire delle interconnessioni tra le specie. “L`essere umano detiene la possibilità di
introdurre il cambiamento. Ha oggi la libertà di agire in funzione del carattere del
lupo o della volpe; domani, chissà? ”
106
L`animale poi rappresenta la nostra animalità poiché esso è la parte rinnegata,
la parte selvaggia e occultata dell`uomo. Per Beuys l`animale non è una maniera di
raccontare gli uomini, prestando loro le attitudini e le intenzioni dell`animale stesso,
servendosi di lui per mettere in scena un racconto secondo una modalità
antropocentrica. Si tratta al contrario di mostrare che, se il racconto può essere
metaforico, la presenza di un animale nelle opere è da prendere come una realtà e
un`entità a sé stante, intera, nella misura in cui l`uomo riconosce nell`animale non un
essere inferiore ma un anello della sua propria evoluzione, un rappresentante della
propria specie. Nelle quattro grandi tappe che sono per Beuys il mondo minerale, il
mondo vegetale, animale ed umano, l`evoluzione non va semplicemente dal più
semplice al più complesso, ma rimonta in senso inverso, in una involuzione di tipo
creativo tramite cui l`uomo assume ogni forma di vita. Responsabile di queste forme
di vita e di spirito, per quanto infime possano essere, l`artista non ha per missione
quella di ritrovare un qualunque paradiso perduto ma di creare a sua volta il mondo
lui stesso, così come tutte le cose e tutti gli esseri che esso contiene. Al tempo stesso
le azioni di Beuys sono in parte delle applicazioni di nozioni derivate dalle scienze
naturali ma soprattutto delle verbalizzazioni dei nostri rapporti col mondo vivente
di cui facciamo parte. È in questo senso che per Beuys gli animali sono un
frammento di noi stessi e possono essere considerati come i nostri “organi”.
Piuttosto che vedervi delle similitudini direttamente fisiche – anche se alcune sono
parzialmente corroborate dai trapianti di animali nell`uomo – bisognerebbe
comprendere anche lì metaforicamente una tale prassi, senza escludere il fatto che
essa si appoggia su delle basi fisiologiche, su di una continuità dell`evoluzione delle
specie poiché, per Beuys, l`uomo è prima di tutto un essere della natura e in seguito
della cultura.
Le azioni animaliste di Beuys devono dunque essere sempre comprese sotto
questi due aspetti, al tempo stesso oggettive in rapporto ai dati naturali, e soggettive
– ovvero fortemente soggettivistiche e senza alcun altro fondamento che quello della
parola sciamanica – quando sono sottomesse alla creatività dell`artista. Non si può
negare che noi facciamo parte delle innumerevoli specie animali, e dialogando con
gli animali Beuys ricrea l`animalità contenuta in ogni uomo. Eppure, non si tratta di
107
una regressione verso quello che i neurobiologi chiamano il “cervello rettile”, sede
delle pulsioni e delle violenze umane, piuttosto di una ricreazione e trasformazione
di questa parte di natura di cui siamo costituiti. Solo l`uomo ricorre alla violenza,
alla crudeltà, alla morbosità, nozioni culturali assenti nell`animale selvaggio che, di
per sé, è precisamente in una relazione naturale col suo ambiente: tutto quello che è e
che fa è naturale. Beninteso, Beuys è cosciente del fatto che il nostro sviluppo
culturale ci ha separato da questa relazione con la natura, e non si tratta di ritornare a
questo stato originario, ma di creare, a partire dalla nostra situazione nel mondo, una
libertà umana che possa essere comparabile con lo stato di natura presso l`animale.
Si tratta per Beuys di una forma di simbolizzazione, una plastica, secondo le sue
parole, dove gli scambi con gli animali sono realizzati in vista di umanizzare
l`uomo.
Certamente l`opera che ha preso corpo negli oggettti, nelle azioni, nelle
parole, è stata anche una sorte di redenzione della sua vita personale, e tramite ciò il
suo compimento: sappiamo che Beuys, che sarebbe divenuto più tardi il medecine
man, il guaritore, aveva dato numerose volte la morte a bordo del suo Stuka (caccia-
bombardiere) in quanto pilota nella Luftwaffe; dunque il suo interesse per ciò che
non era stato ancora infangato dall`uomo può essere ugualmente inteso come la
riconciliazione con la propria infanzia come con l`infanzia dell`umanità, che vedeva
incarnata negli animali. L`ontogenesi raggiungeva così la filogenesi e, dal punto di
vista della mitologia dell`artista, la sua vita e il suo mondo trovandosi in perfetta
coincidenza, la coscienza individuale diveniva la libertà umana (Lageira, 2001).
Anche l`idea del “bestiario illustrato” si applica bene all`opera di Beuys, che ha
ricreato il proprio mondo animale. Dai suoi primi disegni fino alle sue ultime azioni,
l`animale è un tema ricorrente e in effetti illustra materialmente e simbolicamente le
idee dell`artista. Oltre alla lepre, al cavallo e al coyote, si ritrovano anche il cervo, il
cigno, l`elefante, lo sciacallo, l`orso, il rinoceronte, la cicogna, il daino, l`alce, l`ape,
il pesce, la capra, la renna, il montone, gli uccelli e tanti altri. Il famoso episodio
tartaro, avventura o leggenda originaria dell`opera di Beuys, si inscrive già nella
instaurazione di una continuità tra mondo animale e umano, poiché sono delle parti
organiche di animali che contribuirono a salvare Beuys da una morte certa durante
l`inverno 1943, quando il suo aereo, abbattutto dalla DCA russa, si infranse dietro le
108
linee tedesche in Crimea: il racconto ci dice che Beuys deve la sua sopravvivenza a
un gruppo di nomadi tartari che scoprirono lo Stuka abbattuto e nella neve profonda
il pilota gravemente ferito. Dopo averlo trasportato in una delle loro tende, curarono
con dedizione quest`uomo il quale, per otto giorni, rimase incosciente, e alleviarono
le sue ferite molto gravi con del grasso animale, lo avvolsero con del feltro
(generalmente fabbricato con della pelle di lepre) per riscaldarlo e aiutarlo a
conservare il calore del corpo, e lo nutrirono con latte cagliato e formaggio. Questa
storia è stata molto probabilmente inventata da Beuys: la sua veridicità è stata messa
in discussione a partire dal 1980. Si può dire certamente che si tratti di un racconto
mitologico, la cui veridicità importa poco nella misura in cui serve a corroborare
retrospettivamente i lavori realizzati da Beuys durante gli anni Sessanta, e che faccia
parte ormai della sua opera. Esso andrebbe preso dunque come un fatto plastico
integrato al progetto estetico, un evento immaginario in seno alla finzione artistica.
Si può dire dunque che Beuys abbia estetizzato l`ordine naturale tramite degli
slittamenti continui dalla realtà al mito (Lageira, 2001).
Gli animali e le Azioni
Prima di analizzare nello specifico Coyote, I like America and America likes
me, ricordiamo alcune azioni di Beuys in cui sono comparsi degli animali.
La lepre apparve fisicamente nel 1963 nella prima azione Fluxus di Beuys
intitolata La Sinfonia siberiana, composta materialmente di un pianoforte, di
monticelli di argillla messi su quest`ultimo e nei quali erano stati piantati dei rami di
pino, e di un quadro nero al quale era sospesa una lepre morta. Dopo aver suonato
una delle sue composizioni, e mentre viene diffuso un brano di Satie, Beuys fa
partire un filo di ferro dal piano facendolo passare attraverso i monticelli di terra e lo
collega alla lepre, di cui ascolta poi il cuore, per terminare con qualche iscrizione sul
quadro.
Lo stesso anno a Copenaghen realizza un`altra azione, Il capo (rifatta nel
1964 a Berlino e in occasione della quale farà intendere una registrazione del bramito
del cervo con lo scopo di dimostrare “i suoi poteri sulle anime”), che si svolge dalle
109
quattro del pomeriggio a mezzanotte. Beuys è disteso nella galleria, avvolto in un
fodero di feltro di 2,25 cm di spessore, alle estremità del quale sono disposte due
lepri morte; due blocchi di margarina di 167 cm di lunghezza sono poste sul suolo e
contro i muri di sinistra e di destra, e a 165 cm dal suolo sono appese una ciocca di
capelli e due unghie, a lato di Beuys si trova il suo bastone avvolto in un altro fodero
di feltro. Mentre sono diffusi dei brani musicali di Andersen e Christiansen, si odono
ugualmente, grazie ad un microfono piazzato all`interno del fodero dove si trova
l`artista, i suoi grugniti, i suoi sibili, i battiti del suo cuore, il respiro, le lettere
dell`alfabeto pronunciate a caso. A mezzanotte, ad azione terminata, Beuys dialoga
col pubblico. In un`altra azione del 1963, Eurasia (l`Eurasia è la patria mitica
dell`artista, un luogo di passaggio delle migrazioni umane ed animali), interveniva
ugualmente una lepre morta le cui zampe erano attaccate a quattro lunghe e sottili
aste di legno, come dei trampoli, ed una quinta gli passava parallelamente lungo la
colonna vertebrale: Beuys la prendeva sul suo dorso, e scriveva delle cose su un
quadro nero.
L`azione di tre ore intitolata Come spiegare la pittura ad una lepre morta,
che si svolse nella galleria Schmela a Düsseldorf nel 1965, era chiusa al pubblico, il
quale poteva vederla soltanto attraverso la finestra o in una diffusione video. Beuys
era seduto su uno sgabello, la testa spalmata di miele e ricoperta di foglie d`oro, e
teneva una lepre morta tra le braccia, come si tiene un bambino. Sotto lo sgabello, il
quale aveva un piede ricoperto di feltro, c`erano due ossa in cui si trovavano dei
microfoni che permettevano di intendere Beuys che spiegava l`arte alla lepre,
passeggiando di quadro in quadro, ma in modo tale che le parole ed i suoni appena
udibili fossero incomprensibili per il pubblico. “La lepre è in rapporto diretto con la
nascita. Per me, la lepre è il simbolo dell`incarnazione […], si interra, si scava una
tana. Quel che fa la lepre, incarnarsi profondamente nella terra, l`uomo può farlo in
modo radicale solo grazie alla sua intelligenza, con l`aiuto della quale egli sfrega,
urta e scava la materia (la terra) al fine di penetrarne le leggi.” (cit. in Lageira, 2001)
L`azione Titus-Iphigenie, del 1969, metteva in scena un cavallo bianco vivo,
in piedi sopra una lastra di ferro. Degli altoparlanti diffondevano una lettura di
estratti del Titus-Andronicus di Shakespeare, e dell`Iphigenie auf Tauris di Goethe.
Di tanto in tanto, Beuys stesso declamava degli estratti dalle pièces e colpiva dei
110
cimbali; a ciò veniva ad aggiungersi il rumore degli zoccoli del cavallo che
grattavano la tavola di ferro, amplificato grazie ad un microfono.
Coyote, I like America and America likes me
In questa azione, che risale al 1974, Beuys, avvolto interamente nel feltro,
viene trasportato in ambulanza fino all`aereoporto di Düsseldorf da cui parte per
New York; giunto all`aereoporto Kennedy, sempre coperto di feltro e in ambulanza,
è trasportato alla galleria René Blok dove lo attende un coyote selvatico con il quale
resterà chiuso durante una settimana. All`inizio innervosito e sospettoso verso
l`intruso, smembrando il feltro con le sue zanne, il coyote finirà per stabilire dei
legami amichevoli con Beuys il quale, una volta terminata l`azione, ripartirà per
Dusseldorf nelle medesime condizioni del suo arrivo.
La chiave di Coyote è l`idea di trasformazione: trasformazione dell`ideologia
in idea di libertà; trasformazione del linguaggio in un concetto molto più profondo,
quello della più potente forza evolutiva; trasformazione del discorso in un dialogo di
energie ( passaggio dal discorso volontario a delle categorie nuove).
Nell`orchestrazione di Coyote, gli elementi generali erano: il tempo, il ritmo,
il movimento, il colore, la luce e il suono; e gli strumenti utilizzati: il bastone, i
guanti e la torcia elettrica – coperti di un tono scuro caro a Beuys – così come i due
grandi pezzi di feltro grigio, le pile rinnovate del Wall Street Journal, il triangolo e
la registrazione dei motori delle turbine.
Tutti questi strumenti erano già stati usati sotto delle forme e a degli stadi
diversi in altre attività di Beuys. Essi sono i fonemi del suo linguaggio, le parole del
suo vocabolario, forse dei “segni di riconoscimento” impiegati per mantenere una
continuità, al modo delle idee e dei temi che riappaiono sotto forme modulate e in
contesti differenti. Occorre vedervi una dimostrazione della plasticità potenziale del
linguaggio e un metodo relativo all`applicazione del già noto a situazioni nuove, man
mano che si presentano: “ Usa quello che hai già; non pensare che occorra trovare la
formula perfetta.” (cit. in Tisdall, 1988).
111
Questi elementi, tuttavia, sono ancora di più delle parole di un vocabolario.
Essi sono qui veicolo di esperienze, mezzi di trasmissione e di comunicazione.
Ciascuno di essi è portatore di numerosi strati di significato, sia specifico, sia
universale. Occorre vedervi non dei semplici simboli, ma dei sostituti di energie e
degli strumenti che permettono di rendere quei simboli percepibili e trasparenti. Non
si tratta mai di oggetti esoterici, ma di oggetti famigliari, quotidiani, presentati in
modo insolito e che acquisiscono in tal modo un nuovo insieme di connotazioni,
corrispondenti ad una nuova pratica di Beuys. È nello stesso senso che l`artista,
allorchè utilizza il linguaggio parlato, si sforza di infondere una risonanza ed un
senso nuovi a delle parole essenziali – come fraternità, democrazia, libertà – divenute
vuote astrazioni. Nella riabilitazione di queste parole, egli accorda altrettanta
importanza al modo in cui sono dette e a ciò che esse dicono: “Cantate: Democrazia”
(ibid.).
Il coyote
“Prima di tutto, ho portato sul posto il feltro; in seguito la paglia condotta col
coyote. Immediatamente, noi due facemmo lo scambio di questi due elementi: lui
andò a dormire nel mio territorio, ed io nel suo. Il coyote utilizzò il feltro, ed io la
paglia. Era quello che avevo previsto. Mi ero fatto un`idea di quale sarebbe stato il
comportamento del coyote…avrebbe potuto essere diverso. Ma tutto si è svolto bene.
Ho fatto, sembra, una giusta stima della congiuntura spirituale… ho stabilito
veramente un buon contatto con lui” (ibid.).
I due pezzi di feltro, benchè simili, avevano due funzioni distinte L`uno era la
forma, avvolgente e trasformabile; l`altro, l`equivalente della paglia, il cumulo da cui
emergeva la luce della lampada elettrica. Il feltro, che nelle azioni di Beuys riveste il
doppio ruolo di “isolante” in senso morale ed in senso termico, gioca qui un ruolo
specifico: isolando Beuys dal resto dell`America, e trasmettendo del calore
all`animale. “Il mio proposito era di tenere nelle mani i poteri dell`Occidente e di
apparire come un essere proveniente dall`anima del nostro gruppo. Dovevo
presentare al coyote un potere parallelo, ma anche mostrargli che era un essere
112
umano a parlargli, collaborando al tempo stesso con la divinità dell`anima del suo
gruppo. Perciò ho adottato dei comportamenti molto diversi: quello di un
personaggio ieratico, di un pastore; quando uscivo fuori dal feltro, quello di un uomo
completamente ordinario; oppure con il mio cappello completamente deformato,
quello di una vera figura da circo.
42.
“Volevo imprimere a tutto ciò un bel bilanciamento ritmato, prima di tutto
per ricordare al coyote ciò che si potrebbe chiamare la genialità specifica della sua
specie, poi per dimostrargli che anche lui detiene delle virtualità di libertà e che, per
la produzione di libertà, la sua collaborazione ci è necessaria ed importante.” (ibid.).
L`ambiguità dell`uso del feltro nelle azioni, sia in quanto isolante che come
generatore di energie, si esprime ugualmente nel bastone eurasiatico.
Perché gli accessori di Coyote erano dipinti di bruno? Perché occorreva che il
feltro fosse grigio? “ Questi colori, bruno e grigio, sono neutri. Sono, in effetti, dei
colori scoloriti. Il feltro, per esempio, non avrebbe potuto essere rosso e bianco. Il
mio intuito mi dice che ogni luminosità deve essere completamente occultata. Il
113
bruno è un rosso mascherato di un sovraccarico spesso – volontà di forma sculturale.
Il bruno è la terra, il rosso primario condensato, il calore tellurico, il sangue rappreso.
Grazie a questa condensazione e per contrasto, i colori della luce, o colori dello
spettro, risaltano e sono intensificati.” (ibid.).
Tra gli elementi dipinti di bruno vi era la lampada elettrica. “La lampada
elettrica era un`immagine dell`energia. All`inizio, c`era questa riserva di energia
accumulata e , in seguito, il suo indebolimento progressivo nel corso della giornata,
fino a quando non occorreva cambiare le pile. Ma si osservava una corrente contraria
curiosa: la corrente energetica del coyote andava nel senso opposto. Verso sera,
quando la luce della torcia elettrica e quella del giorno stavano declinando. Ciò che
colpiva era il modo in cui gli occhi del coyote si regolavano sulla luce della torcia e
il fatto che, sdraiato sul feltro, dirigeva sempre il suo sguardo nel senso dei raggi
luminosi. Il corpo della lampada era nascosto nel mucchio di feltro: “Non volevo
mostrarla in quanto apparecchio tecnico. Non doveva essere, in questo mucchio
grigio, che una fonte di luce, un astro, il chiarore di un sole declinante o la
luminosità vacillante delle stelle.” (ibid.).
Il bastone eurasiatico gli serviva da conduttore di energia. I differenti modi in
cui veniva tenuto in Coyote indicavano tre direzioni di corrente. “Il bastone divenne
il prolungamento della mia testa, che si inclinava davanti al coyote con una sorte di
venerazione. Non lo lasciavo con lo sguardo e mi giravo secondo la direzione dei
suoi minimi spostamenti. È così che venne alla luce l`idea di un orologio spirituale.
È importane sottolinearlo, perché, in ogni circostanza, senza eccezione, i miei atti si
regolarono in modo assoluto su quelli del coyote. Quando si avvicinava verso di me,
mi inchinavo davanti a lui; quando si accucciava, mi inginocchiavo; quando si
addormentava, cadevo al suolo. E quando si svegliava di soprassalto, mi rialzavo
anch`io di scatto gettando il feltro. È così che si svolgeva il ciclo.” (ibid.).
In quel momento, Beuys batteva bruscamente sul triangolo, “poiché vi era
generalmente un po` troppo nervosismo nell`atmosfera, Questo segnale
reintroduceva il ritmo semplice del ciclo e ristabiliva la regolarità del clima.” (ibid.).
In Coyote, c`erano due tipi di suoni: tre colpi secchi battuti sul triangolo,
seguiti da dieci secondi di silenzio, poi l`esplosione di un frastuono di turbine
durante venti secondi.
114
Il ruolo del triangolo era di interrompere ed armonizzare. Le turbine
servivano a trasmettere una vitalità caotica.
“Il triangolo era il segnale di un richiamo all`ordine della coscienza del
coyote. Contribuiva a ristabilire l`equilibrio dei suoi movimenti.
“Il fracasso delle turbine avea un rapporto con la nozione di energia
indeterminata. Ci si potrebbe vedere uno stretto parallelo con il mio uso del grasso
nelle mie sculture e nelle mie azioni, nel momento in cui io lo introduco, nella sua
non-consistenza caotica. Il triangolo ha proprio la forma dei contorni della parete
anteriore della Fettecke, o “angolo di grasso”, delle mie sculture: un triangolo
equilatero, nel quale l`indeterminato si integra totalmente ad una forma matematica
determinata.
“L`urlo delle turbine era anche l`eco della tecnologia dominante: l`energia
che resta senza impiego, l`energia che alla fine esercita, di conseguenza, degli effeti
caotici e distruttivi.” (ibid.).
Strumenti di libertà
Al termine di ciascun ciclo, Beuys gettava i suoi guanti dipinti di colore
bruno al coyote, che manifestò per questi “giochi” un affetto particolare.
“I guanti bruni rappresentavano le mie mani, la libertà di movimento di cui
l`uomo dispone grazie alle sue mani. Esse hanno infatti la possibilità di fare una
quantità di cose, di usare un`immensa varietà di strumenti. Esse possono colpire con
un martello, tagliare con un coltello, scrivere, modellare degli oggetti. L`universalità
delle attitudini è la caratteristica significante delle mani umane. Esse non sono
obbligate a specializzarsi, ed il ricco potenziale delle loro capacità deriva dal fanto
che ad una funzione specifica, come gli artigli dell`aquila. Gettando i miei guanti a
Little John, gli significavo che poteva giocare con le mie mani.
“L`universalità umana: il contrasto assoluto con il giornale finanziario, il
Wall Street Journal, il quale incarna senza ambiguità l`ultima rigidità cadaverica che
affligge il pensiero in merito al capitale (nel senso della tirannia esercitata dal denaro
e dal potere). Un sintomo dei nostri tempi… È anche un aspetto degli Stati Uniti. Ma
115
è ancora di più un`interpretazione del denaro e dell`economia, una fissazione
inorganica che non ha altro fine se non la produzione di beni materiali…
“Così terminava la sequenza; ma, poiché si trattava di una sequenza ciclica, si
poteva dire che fosse al tempo stesso una fine ed un inizio: la congiuntura che
generava il ciclo seguente. È l`istante in cui tutto ridiviene possibile e in cui un
nuovo ciclo si scatena.
“Tali erano gli strumenti di Coyote, e tale era il ciclo. Se lo facessi qui con un
orso, sarebbe differente. È vero… potrei farlo, qui, con un orso… ” (ibid.).
Considerazioni conclusive
I molteplici riferimenti e significati delle azioni di Beuys con gli animali
affondano nell`alchimia, nelle religioni, nei miti, nella filosofia e nelle scienze
naturali. Si possono tuttavia sottolineare alcuni tratti comuni fondamentali.
Innanzitutto la comunicazione con l`animale, sia che si tratti di linguaggio
gestuale o verbale, per la quale Beuys si presenta come il mediatore tra il mondo
animale ed il mondo umano, e tenta di far passare il messaggio spiritualista del
rispetto per ogni forma di vita. Per farlo, dobbiamo ricollegarci al regno animale di
cui facciamo parte, ed è per questa ragione che nelle azioni Beuys metteva dei
grugniti, dei suoni strani, delle grida, dei sibili, per avvicinarsi ad un linguaggio
animale che egli trasponeva e traduceva in linguaggio umano tramite la forma che
prendeva l`azione.
Un`altra parte importante di questo scambio è l`idea della responsabilità di
fronte agli animali e alla natura in generale. Nel 1966, Beuys aveva già fatto un
passo avanti in questo senso fondando il Partito politico degli animali, e nel 1978
venne redatta la Dichiarazione universale dei diritti dell`animale. “Perché lavoro con
degli animali per mettere in evidenza delle energie invisibili? È perché si può
dimostrare la presenza di queste energie penetrando in un regno che l`uomo ha
dimenticato e dove sono all`opera delle potenze incommensurabili, di considerevole
portata. E, allorché cerco di conversare con lo spirito di questa totalità di una specie
animale, si pone la questione di sapere se non si potrebbe ugualmente comunicare
116
con altre entità più alte… con queste divinità e questi spiriti elementari.” (cit. in
Tisdall, 1988) La comunicazione tra l`animale e l`uomo è resa possibile solo a
partire dal momento in cui quest`ultimo si responsabilizza nei confronti del primo, e
ciò poiché nel pensiero di Beuys l`idea di continuità e di concatenazione è
fondamentale.
La nostra responsabilità verso gli animali non è dunque un fatto di cultura ma
un fatto di natura: noi siamo una parte del mondo animale, gli organi-animali di
questo mondo. Largamente reinterpretati in termini plastici, i dati naturali sono resi
un poco deformati e irriconoscibili: i riferimenti legati all`iconografia artistica o al
simbolismo degli animali di cui si servirà Beuys nelle sue azioni sono certo delle
produzioni della cultura, ma piuttosto che prenderli soltanto come riferimenti e
convenzioni, egli li riattiva conferendogli un potere reale e vivente, nel senso che le
pratiche di Beuys non erano ai suoi occhi dei progetti unicamente formali e plastici,
ma un profondo impegno nella trasformazione della società e dell`uomo attraverso
l`arte.
Il rituale, lo sciamanesimo, la mitologia, l`alchimia, l`antroposofia, il
romanticismo, tutti questi tratti ricorrenti dell`opera di Beuys riappaiono nelle azioni
animaliste sotto la forma del sacro, del vitalismo, dell`energia, dell`istinto,
dell`emblema totemico, etc., per comporre la gigantesca scenografia del dramma
esistenziale.
Beuys ha sempre avuto la preoccupazione di riconciliare l`uomo con la
natura e con la sua natura rendendolo responsabile della sua libertà, nozione da
prendere qui in senso filosofico, e senza dubbio nel senso molto prossimo che gli
dava Heidegger quando parlava dell’essere-per-la-morte. In Beuys, questa idea è
fondata ontologicamente e si trova legata, come in Heidegger, alla verità dell`essere,
e singolarmente alla verità in arte. L`arte è per Beuys un`attività che permette di
respingere la sofferenza e la morte trovando la verità, e la pratica dell`arte in società
e tramite la società è una maniera di educare le persone perché esse possano
comprendere ed assumere questa libertà alla luce della verità dell`essere. In questa
prospettiva, per Beuys l`opera d`arte non può essere che generale o totale poiché
deve assumere tutte le specie e tutte le cose, essa deve assumere e salvare l`essere
stesso del mondo. Lavorando con i minerali, i vegetali, gli animali e gli esseri umani,
117
Beuys allargava la sua idea di scultura totale, che includeva, in un processo di
vivificazione personale, tutte le forme esistenti, dalla più piccola pietra al gruppo
umano più largo possibile, ovvero l`umanità. Al momento delle azioni con gli
animali, questi ultimi sono non soltanto i simboli di questa lotta dell`uomo con la
propria morte per la conquista della sua libertà, ma ne sono gli attori: la lepre può
simboleggiare il ciclo della vita e della morte, l`attraversamento della materia poi la
rinascita, ed il cavallo può essere compreso anch`esso come il simbolo della morte,
poiché conduce lo sciamano agli inferi.
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Conclusioni
A conclusione di questa tesi posso affermare che il legame profondo che ci
unisce agli altri animali traspare fortemente nell`espressione artistica: anche l`arte,
come numerose ulteriori produzioni culturali dell`uomo, se osservata al di là di una
visione antropocentrica, rivela un “debito” nei confronti degli animali.
Il termine animalità in effetti indica un concetto generale, che sta all`animale
così come il concetto di umanità sta all`uomo. Ma poiché anche l'uomo è un animale,
l'uno contiene l'altro e l'uomo stesso (con l'arte) trova posto all`interno di un
discorso sull`animalità.
Ho potuto così comprendere alcune delle più diffuse modalità con cui gli
artisti hanno inteso questa relazione. In primo luogo, sovente essi hanno visto negli
animali delle incarnazioni del sacro.
In alcuni casi gli artisti hanno utilizzato l'immagine animale per esaltare vizi e
virtù dell`umanità, in altri l'attenzione è stata posta sulla misteriosa parentela
anatomica, fisiologica e “caratteriale” tra l'uomo e le bestie.
Per altri versi il riferimento degli artisti all`animale è da intendersi nel senso
della ricerca o di un recupero di una energia di tipo animale.
Inoltre, per molti artisti questa relazione ha permesso la creazione di una
simbologia in grado di far emergere i propri fantasmi interiori fino a configurare una
mitologia di valore universale o archetipico, con riferimento a tematiche profonde,
quali per esempio la morte, la violenza e la sessualità. L'animale si presta infatti a
divenire metafora della vita e della morte, oltre a rimandare alla realtà sensibile.
Il processo è giunto con l'arte contemporanea fino alla possibilità di
considerare l'animale come un partner attivo nella costruzione dell`opera, integrando,
se non addirittura prefigurando, la coscienza scientifica dei rapporti interspecifici.
Ma poiché arte e scienza non collimano, la visione di Beuys, che intende
l'animale in quanto rappresentante della propria specie e tenta di entrare in contatto
con elementi spirituali di questa, sembra di nuovo rinviare a quella ricerca del sacro,
che dall`uomo primordiale in poi contraddistingue la relazione tra arte e animalità.
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Indice delle figure
1. Grotte dell`Addaura – 14.000 A.C.
2. Grotte di Lascaux – 18.000-15.000 A.C.
3. Ciottolo proveniente da La Colombière – 15.000 A.C.
4. Rilievo del Grand Plafond di Rouffignac – 13.000 A.C.
5. Grotte di Gargas – 35.000-10.000 A.C.
6. Verrocchio - Bartolomeo Colleoni – 1479-83
7. Benvenuto Cellini – Busto di Cosimo I – 1545-48
8. Giambattista Della Porta – Tavole dal De humana physiognomia – 1586
9. Giambattista Della Porta – Testa di Vitellio comparata con quella del gufo – 1586
10. Charles Le Brun – Rapporto della figura umana con quella dell`aquila – 1660-70
11. Otto Dix – I sette peccati capitali – 1933
12. John Heartfield – War and Corpses: The Last Hope of the Rich – 1932
13. Francisco Goya – Capriccio n. 19 – 1797
14. Francisco Goya – Capriccio n. 21 – 1797
15. Francisco Goya – Capriccio n. 37 – 1797
16. Francisco Goya – Capriccio n.38 – 1797
17. Francisco Goya – Capriccio n. 39 – 1797
18. Francisco Goya – Capriccio n. 40 – 1797
19. Francisco Goya – Capriccio n.41 – 1797
20. Max Ernst – Loplop présente – 1931
21. Max Ernst – Loplop présente – 1931-32
22. Max Ernst – Le Surréalisme et la Peinture – 1942
23. Victor Brauner – Recto: sans titre – 1945
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24. Victor Brauner – Tavolo-lupo – 1939-47
25. Pablo Picasso – Corrida: la morte del torero – 1933
26. Pablo Picasso – La Corrida: morte della donna torero – 1933
27. Pablo Picasso – Grande nudo con poltrona rossa – 1929
28. Pablo Picasso – Minotauro che violenta una donna –1933
29. Pablo Picasso – Minotauro e cavallo – 1933
30. Pablo Picasso – Dora Maar in forma di uccello – 1936
31. Pablo Picasso – Dora Maar seduta su una poltrona di vimini – 1938
32. André Masson – Pasiphae – 1945
33. André Masson – Labirinto – 1938
34. Salvador Dalì – Guglielmo Tell – 1930
35. Salvador Dalì – Il gioco lugubre – 1929
36. Alberto Savinio – La sposa fedele – 1930-31
37. Alberto Savinio – Autoritratto – 1936
38. Mino Maccari – Ilustrazione per Il Selvaggio
39. Mino Maccari – Tavola da Bestie del Novecento di Aldo Palazzeschi – 1951
40. Salvatore Marchese – Lotta di galli - 1980
41. Francis Bacon – Painting – 1941
42. Joseph Beuys – Coyote, I like America and America likes me – 1974
121
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