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MARCO DERAMO LA PULIZIA EPISTEMOLOGICA CONFONDERE IL RAZIONALISMO CON LO SCIENTISMO. E' QUESTO UNO DEI LIMITI DEL VOLUME "IMPOSTURE INTELLETTUALI" Un testo che ignora la crisi di alcune discipline scientifiche e la scienza come industria pesante. Un nuovo intervento sul libro di Alan Sokal e Jean Bricmont Lo scherzo è bello quando dura poco. Viene voglia di dare il consiglio delle mamme a quel gradevole commensale che è Alan Sokal nelle cene estive. Tre anni fa, questo fisico della New York University ideò una beffa di una qualche genialità ai danni della corrente accademica variamente chiamata post-strutturalismo, decostruzionismo, post- modernismo. Propose a "Social Text" - autorevole di rivista di cultural studies - un saggio infarcito di cazzate mostruose (scusate il termine, ma è l'unico adeguato), un cumulo di insensatezze scientifiche, a cominciare dal titolo "Trasgredire le frontiere: verso un'ermeneutica trasformativa della gravità quantistica", e tutte corroborate da citazioni (quelle lì sì che erano esatte) di vari maestri francesi e americani: Stanley Aronowitz , Gilles Deleuze , Jacques Derrida , Félix Guattari ,Sandra Harding , Katehrine Hayles , Luce Irigaray , Jacques Lacan , Andrew Ross , Michel Serres , e l'elenco è ancora lungo. La rivista ignara (e ignorante) pubblicò il saggio. Pochi giorni dopo Sokal rivelò la beffa. Si scatenò una polemica che rimbalzò sulle prime pagine del New York Times e del Los Angeles Times. Quando resi conto della vicenda sulle colonne del manifesto, ci fu anche un botta e risposta tra Sokal e me. Fin qui, la beffa iniettò una boccata d'aria fresca nell'accademismo di maniera, svelò al mondo quel che tutti sapevamo ma che nessuno aveva dimostrato: e cioè che un certo tipo di saggistica è molto disinvolto, per usare un eufemismo. E che molte cosiddette "teorie" erano tutto fumo e che l'arrosto era bruciato da tempo. Ma poi Alan Sokal non ha resistito alla tentazione di usare tutti gli scarti della beffa, cioè tutto il materiale di citazioni che non aveva potuto immettere nella parodia originaria. Allora, con un complice belga (anch'egli fisico, Jean Bricmont), ha redatto un volume (Imposture intellettuali) che questa primavera è stato infine tradotto in Italia. Il Sole 24 ore vi si è gettato sopra, usandolo come arma strumentale per un'operazione di "pulizia epistemologica", di una violenza paragonabile a pulizie balcaniche. I lettori del manifesto hanno già potuto leggere due pareri sul libro di Sokal e Bricmont, quello di Franco Voltaggio (il 6 giugno) e, soprattutto, quello di Marcello Cini (30 maggio) con il quale sono assolutamente d'accordo e a cui rinvio. Perciò vorrei solo aggiungere alcune notazioni a margine. La prima è che la parodia originaria di Sokal constava in tutto di 31 pagine di testo e di 12 di bibliografia. Il libro attuale è di 300 pagine. Inevitabilmente, nella dilatazione va persa una delle doti migliori del saggio del '96, e cioè la sua levità, ora soppiantata da una certa puntigliosa, fastidiosa tendenza a usare matita blu e matita rossa. Da qui il consiglio con cui ho iniziato quest'articolo. Non solo: per moltiplicare per sei la lunghezza del testo, è necessario anche sestuplicarne le ambizioni, con effetti che possono rivelarsi catastrofici. E in effetti, per giustificare la lunghezza e la minuziosità del testo, è stato necessario presentarla come una "operazione teorica" tesa a rafforzare il razionalismo critico contro il relativismo cognitivo, e in generale contro una corrente dominante della filosofia contemporanea. La

articoli e recensioni su "Imposture intellettuali" di Sokal e Bricmont

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raccolta di articoli sulla polemica suscitata da "imposture intellettuali" di Sokal e Bricmont

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MARCO DERAMO LA PULIZIA EPISTEMOLOGICA

CONFONDERE IL RAZIONALISMO CON LO SCIENTISMO. E' QUESTO UNO DEI LIMITI DEL VOLUME "IMPOSTURE INTELLETTUALI" Un testo che ignora la crisi di alcune discipline scientifiche e la scienza come industria pesante. Un nuovo intervento sul libro di Alan Sokal e Jean Bricmont

Lo scherzo è bello quando dura poco. Viene voglia di dare il consiglio delle mamme a quel gradevole commensale che è Alan Sokal nelle cene estive. Tre anni fa, questo fisico della New York University ideò una beffa di una qualche genialità ai danni della corrente accademica variamente chiamata post-strutturalismo, decostruzionismo, post-modernismo. Propose a "Social Text" - autorevole di rivista di cultural studies - un saggio infarcito di cazzate mostruose (scusate il termine, ma è l'unico adeguato), un cumulo di insensatezze scientifiche, a cominciare dal titolo "Trasgredire le frontiere: verso un'ermeneutica trasformativa della gravità quantistica", e tutte corroborate da citazioni (quelle lì sì che erano esatte) di vari maestri francesi e americani: Stanley Aronowitz, Gilles Deleuze, Jacques Derrida, Félix Guattari,Sandra Harding, Katehrine Hayles, Luce Irigaray, Jacques Lacan, Andrew Ross, Michel Serres, e l'elenco è ancora lungo. La rivista ignara (e ignorante) pubblicò il saggio. Pochi giorni dopo Sokal rivelò la beffa. Si scatenò una polemica che rimbalzò sulle prime pagine del New York Times e del Los Angeles Times. Quando resi conto della vicenda sulle colonne del manifesto, ci fu anche un botta e risposta tra Sokal e me. Fin qui, la beffa iniettò una boccata d'aria fresca nell'accademismo di maniera, svelò al mondo quel che tutti sapevamo ma che nessuno aveva dimostrato: e cioè che un certo tipo di saggistica è molto disinvolto, per usare un eufemismo. E che molte cosiddette "teorie" erano tutto fumo e che l'arrosto era bruciato da tempo. Ma poi Alan Sokal non ha resistito alla tentazione di usare tutti gli scarti della beffa, cioè tutto il materiale di citazioni che non aveva potuto immettere nella parodia originaria. Allora, con un complice belga (anch'egli fisico, Jean Bricmont), ha redatto un volume (Imposture intellettuali) che questa primavera è stato infine tradotto in Italia. Il Sole 24 ore vi si è gettato sopra, usandolo come arma strumentale per un'operazione di "pulizia epistemologica", di una violenza paragonabile a pulizie balcaniche. I lettori del manifesto hanno già potuto leggere due pareri sul libro di Sokal e Bricmont, quello di Franco Voltaggio (il 6 giugno) e, soprattutto, quello di Marcello Cini (30 maggio) con il quale sono assolutamente d'accordo e a cui rinvio. Perciò vorrei solo aggiungere alcune notazioni a margine. La prima è che la parodia originaria di Sokal constava in tutto di 31 pagine di testo e di 12 di bibliografia. Il libro attuale è di 300 pagine. Inevitabilmente, nella dilatazione va persa una delle doti migliori del saggio del '96, e cioè la sua levità, ora soppiantata da una certa puntigliosa, fastidiosa tendenza a usare matita blu e matita rossa. Da qui il consiglio con cui ho iniziato quest'articolo. Non solo: per moltiplicare per sei la lunghezza del testo, è necessario anche sestuplicarne le ambizioni, con effetti che possono rivelarsi catastrofici. E in effetti, per giustificare la lunghezza e la minuziosità del testo, è stato necessario presentarla come una "operazione teorica" tesa a rafforzare il razionalismo critico contro il relativismo cognitivo, e in generale contro una corrente dominante della filosofia contemporanea. La

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domanda allora è: Sokal e Bricmont conseguono oppure no l'obiettivo che si prefiggono, e cioè lanciare una controffensiva contro l'irrazionalismo e irrobustire l'arsenale del razionalismo critico? Se ne può dubitare. Ecco alcune ragioni, dalle meno importanti alle più serie: 1) tagliando fuori tutti gli avversari americani (attaccati nella parodia originaria), e concentrandosi solo sul bersaglio francese, il libro diventa involontariamente complice dell'offensiva francofoba lanciata da qualche anno dalla destra americana per dimostrare l'assurdità di tutto ciò che è francese, e volta a presentare lo stato transalpino come un esempio aberrante di burocrazia tardosovietica. Qui la haute culture francese è derisa come haute couture o haute cuisine, tutta scena. 2) Poiché è centrata sulle assurdità scientifiche dei vari autori, l'argomentazione lascia fuori i pensatori più importanti a cui si richiama questa corrente, e cioè Jacques Derrida e Michel Foucault, per il semplice fatto che loro di baggianate scientifiche ne hanno scritte poche: ma è assurdo sparare contro una corrente filosofica senza prendere di mira i suoi padri fondatori. Ciò vuol dire che usare la matita rossa sull'uso improprio di nozioni scientifiche non è un modo molto efficace per smantellare per esempio il "decostruzionismo" derridiano. 3) Questa lacuna va in dietro nel tempo, per cui molto spazio è dedicato a Henri Bergson che ha cianciato in lungo e in largo di relatività einsteiniana, ma che è solo una figura minore nella gigantesca battaglia teorica sviluppatasi attorno al razionalismo e, per di più, non è il vero maestro di tutti coloro che aborrono scienza e metodo scientifico: costoro si rifanno a padri ben più nobili, come Friedrich Nietzsche e Martin Heidegger. Era infatti Nietzsche che aveva in odio i numeri (la riduzione del quale al quanto): "La scoperta delle leggi dei numeri è stata fatta in base all'errore già in origine dominante che vi siano più cose uguali (ma in realtà non c'è niente di uguale) o che perlomeno ci siano cose" (Umano, troppo umano). E' sempre Nietzsche che dice: "Quello di 'cercare la regola' è il primo istinto di chi conosce, mentre naturalmente per il fatto che si sia trovata la regola niente è ancora 'conosciuto'. Da qui la superstizione dei fisici: dove possono perseverare, cioè dove la regolarità dei fenomeni consente di applicare formule abbreviate, credono che si sia conosciuto.... La paura dell'incalcolabile come istinto segreto della scienza". Quanto ad Heidegger, una lettura suggerita è il paragrafo 69b di Essere e tempo, in cui egli analizza "l'emergere della fisica matematica. L'elemento decisivo non consiste in una considerazione più alta dell'osservazione dei 'fatti' né nell"impiego' della matematica nella determinazione dei processi naturali ma nel progetto matematico della natura stessa". Se uno vuole conseguire i propri scopi, deve almeno scegliersi i nemici giusti. 4) Per una sorta d'ironia crudele, il libro di Sokal e Bricmont appare dopo la fine della guerra fredda, quando cui i fisici conoscono una gravissima crisi di status sociale, come scriveva su Physics Today un grande fisico, Leo Kadanoff: "Qualunque cosa facciamo, nulla può verosimilmente arrestare il nostro declino in numero, sostegno, o valore sociale (...) negli ultimi decenni la scienza ha ricevuto un'alta considerazione ed è stata al centro dell'interesse e dell'attenzione sociali. Non dovremmo essere sorpresi se quest'anomalia scomparirà". Il fatto è che la ricerca scientifica è diventata una "industria pesante" con migliaia e migliaia di addetti per un singolo progetto. E' molto difficile sostenere che una teoria scientifica non è un costrutto sociale, quando per verificare un particolare di cronodinamica quantistica bisogna - come ha cercato di fare il mentore di Sokal, Steven Weinberg - chiedere ai contribuenti americani di sborsare 8 miliardi di dollari di tasse per finanziare un superacceleratore e, per decidere, bisogna applicare un criterio di utilità

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marginalista se finanziare la vaccinazione gratuita a tutti i bambini americani oppure un supercollider per verificare una teoria fisica. 5) Sokal e Bricmont parlano come se la matematica non avesse conosciuto in questo secolo una gravissima crisi dei fondamenti, come se il programma di Hilbert non fosse fallito e come se quel Bertrand Russellche citano a ogni piè sospinto non avesse clamorosamente mancato l'obiettivo che si era prefisso insieme a Whitehead, e cioè di dare una base logica "certa" alla matematica. E' molto difficile attaccare il pensiero debole, quando ormai da decenni viviamo in una situazione di "matematica debole", in cui cioè i matematici continuano a fare il proprio lavoro, anche se - dopo Kurt Gödel, ma soprattutto dopo Paul Cohen - sanno che la propria disciplina poggia su fondamenta di argilla. 6) Sarebbe stato più generoso da parte di Sokal e Bricmont se avessero applicato il loro metodo per andare a spulciare le centinaia di articoli in cui la comunità dei fisici ha accettato per mesi l'idea della fusione fredda "riscoprendola" in decine di laboratori in tutto il mondo. E non sarebbe male se si chiedessero quanto vale una teoria, come quella della fisica nucleare, che rimane disarmata di fronte a un fenomeno, la fusione fredda dei nuclei, che contraddice 60 anni di calcoli, secondo cui a meno di 100 milioni di gradi centigradi, di fusione neanche a parlarne. Sokal e Bricmont potrebbero guardare qualche trave nell'occhio della fisica e dare un giudizio spassionato sulla teoria delle superstringhe, di cui il premio Nobel Sheldon Glashow ha scritto: "La contemplazione delle superstringhe può evolvere in un'attività da esercitarsi in scuole di divinità da futuri equivalenti di teologi medievali". 7) Più in generale, il fatto che alcuni autori storpino le citazioni scientifiche è sì o no una spiegazione sufficiente a capire come mai il razionalismo è stato messo alle corde nel ring delle idee? Intanto andrebbe distinto tra razionalismo e scientismo. Una persona può benissimo essere razionalista, ma non per questo scientista e riduzionista. In secondo luogo, non sarà proprio la riduzione del razionalismo a scientismo che ne ha provocato la sconfitta? così è avvenuto in architettura dove l'estremismo funzionalista del Bauhaus, manifestatosi in un'orribile edilizia popolare, ha portato acqua al mulino del più orrido rococò post-moderno. Qui si entra in un argomento molto grave. Non credo che a provocare quello che altrove ho chiamato "il problema della credulità alla fine del XX secolo", basti l'analfabetismo scientifico addotto dai nostri autori. In modo assai curioso infatti, la tesi di Sokal e Bricmont riecheggia quella libertina del '600, per cui le tre grandi religioni erano opera di tre impostori (Mosè, Gesù, Maometto) che hanno abbindolato il mondo (Trattato dei tre impostori, Einaudi). Nel nostro caso, a Mosè va sostituito Jacques Lacan, a Gesù Luce Irigaray e a Maometto Gilles Deleuze che hanno abbindolato il mondo (accademico). Un atteggiamento davvero razionalista mi fa invece ritenere che, se tanti si fanno abbindolare, ci deve essere qualche ragione che li spinge a ciò, e non solo l'abilità da prestigiatore degli impostori. Mi sembra piuttosto che la deriva irrazionalistica delle società moderne trovi il suo motore proprio nell'evoluzione dei rapporti tra scienza e società, nel mutato modo di funzionare della ricerca scientifica, negli effetti indesiderati della divisione del lavoro intellettuale (nelle conseguenze non volute degli specialismi), come ho cercato di argomentare nell'ultimo capitolo di Lo sciamano in elicottero. Il New Age non sarà mica colpa di Deleuze e Lacan? Non sarà a causa di Paul Virillo e Julia Kristevache oggi la sette religiose si diffondono e ognuna di esse ha più adepti di quanti militanti abbia il movimento operaio di tutto il mondo messo insieme? Addossare la responsabilità dell'irrazionalismo all'analfabetismo scientifico ci impedisce di vedere l'estrema gravità del problema. No,

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non ci siamo, non è proprio così che si evita la deriva irrazionalista. P.S. A pagina 31 di Imposture intelelttuali, viene sinceramente da ridere quando, dopo una strampalata frase di Lacan sul sesso maschile, Sokal e Bricmont osservano: "E' preoccupante, confessiamolo pure, vedere il nostro organo erettile identificato con -1". E' assai meno divertente quando, dopo una altrettanto strampalata citazione di Luce Irigaray su solidità/fluidità, i due si chiedono: "Ma Irigaray è nata in Belgio: non conosce il simbolo della città?" (cioè il puttino nudo col pisello di fuori che fa pipì). Ecco, il libro Imposture intellettuali sta alla parodia del '96 come la seconda battuta sta alla prima: nella prima fa, nella seconda strafa. FRANCO VOLTAGGIO CONTAGIATI DA NEWTON

CONSIDERAZIONI SULL'ACCUSA DI SOKAL E BRICMONT DI USO IMPROPRIO DEL CAPITALE SCIENTIFICO DA PARTE DEI "PHILOSOPHES" "E' impossibile impedire ai filosofi di sfruttare l'immensa ricchezza conoscitiva della scienza moderna. Ma, per impostare correttamente il rapporto, è necessario partire dalla genesi delle teorie scientifiche"

Nel 1770 apparve in Francia un libro, Le système de la nature, a lungo considerato una delle "bibbie" del materialismo dei philosophes. L'autore, il barone Paul-Henry Thiry d'Holbach, sosteneva che "la conservazione... è il fine comune verso il quale tutte le energie, le forze, le facoltà degli esseri sembrano continuamente dirette. I fisici hanno chiamato questa tendenza a direzione gravitazione su di sé; Newton la chiama forza d'inerzia; i moralisti l'hanno chiamata nell'uomo amore di sé, il quale non è altro che la tendenza a conservarsi, il desiderio della felicità, l'amore del benessere e del piacere, la prontezza a cogliere ciò che è favorevole al suo essere e l'avversione rilevante per tutto ciò che lo turba e lo minaccia". (Il sistema della natura, a cura di Antimo Negri, Utet, 1978). Da questa tesi d'Holbach derivava alcune conseguenze politiche cruciali; l'uomo è necessitato a seguire la "legge naturale" dell'amore di sé, cioè a perseguire la felicità; il regime politico va perciò pensato come un potere organizzato che garantisca a tutti i cittadini la libertà indispensabile per essere felici; un regime che attenti alla libertà e felicità universale è, perciò, non solamente dispotico, ma anche e soprattutto contro natura. Quella di d'Holbach era, sotto il profilo epistemologico, un'operazione certamente bizzarra. L'amore di sé e la forza di inerzia sono due principî distinti, che traggono legittimazione da due differenti contesti, l'uno, quello opinabile e storicamente condizionato dei postulati della morale, l'altro, quello verificabile della teoria fisica newtoniana. E tuttavia, mi pare, sarebbe per lo meno ingeneroso contestare il modo di procedere di d'Holbach. L'interesse primario del philosophe non era scientifico e neppure speculativo, ma politico: si trattava di combattere una battaglia di lungo periodo per la messa a punto dei "diritti naturali" dell'uomo. In quel tempo, la fisica di Newton godeva di un immenso prestigio. Allora perché non valersene a fini politici? Sei anni dopo, nell'incipit della Dichiarazione d'indipendenza degli Stati uniti d'America, tra i diritti fondamentale dell'uomo era esplicitamente richiamato il diritto "al conseguimento della felicità". Difficile stabilire con sicurezza se Jefferson, l'autore della Dichiarazione, avesse letto il Système di d'Holbach, ma è ragionevole pensare che, al

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pari del filosofo francese, fosse influenzato dalla tendenza comune dell'epoca di adottare il lessico e gli strumenti concettuali dei fisici, soprattutto di Newton, per trovare conferme agli ideali della morale e della politica. Non occorrerebbe qui ricordare l'enorme importanza che ebbe la codificazione di un principio della "naturalità" del diritto a esser felici in una legge fondamentale. Se lo faccio è per porre un interrogativo di indole generale: la legittimazione dell'uso della scienza a fini politici o etici va giudicata in sé, sulla scorta del puntuale controllo della correttezza nell'uso di termini e concetti, o piuttosto in riferimento ai risultati derivanti da questo uso? Se i contemporanei di Newton non avessero creduto di intravedere nelle severe pagine dei Principia la luce di una nuova moralità, sarebbe stato possibile ad Alexander Pope scrivere i celebri versi: "Natura e sue leggi nella notte giaceansi; Dio disse: Newton sia e ogni cosa fu luce"? Questa riflessione mi è stata provocata dalla lettura del tanto discusso saggio di Alan Sokal e Jean Bricmont, Imposture intellettuali (Garzanti, L. . 30.000). Imposture intellettuali è, come hanno riconosciuto due studiosi tanto lontani, quanto a formazione e destinazione professionale, Gianni Vattimo (La Stampa, 20 maggio) e Marcello Cini (il manifesto, 30 maggio), un'opera utilissima che pone giustamente l'accento sulla faciloneria con cui protagonisti di spicco del pensiero contemporaneo si valgono del linguaggio e delle suggestioni delle scienze e che, coerentemente, invita a reimpostare il rapporto tra scienza e pensiero speculativo. Ma è proprio questo il punto. Al di là del legittimo invito a evitare grossolane approssimazioni, a non cedere a tentazioni di accorpamento acritico tra contenuti scientifici e dati speculativi, sino a che punto è possibile contestare a filosofi, psicologi e sociologi, lo sfruttamento improprio, cioè filosofico, delle scienze? E' probabile che molte delle osservazioni del sociologo della scienza Bruno Latournon siano pertinenti, così come è sicuro che la validità di una teoria scientifica va misurata con i parametri propri del contesto specifico di riferimento e non con criteri ad essa estranei. Ma è possibile negare che la scienza sia, come sostiene Latour, un'impresa sociale, così come è possibile confutare talune certezze storiche, quale, tanto per fare un esempio a noi vicino, la coincidenza tra alcuni settori della ricerca applicata, come il laser, e il dramma della guerra nel Vietnam? Ammesso che sia praticabile la messa a punto di un metodo che instauri un'era di relazioni corrette tra scienziati e filosofi, non c'è forse il rischio di dar vita a un'epistemologia altrettanto ingombrante quanto quella che ci ha preceduto, dalla teoria della falsificazione di Popper a quella delle rivoluzioni scientifiche di Kuhn, per non parlare dell'anarchismo metodologico di Feyerabend? Una epistemologia che, come correttamente puntualizzano Sokal e Bricmont, spesso fallisce il suo bersaglio, magari perdendosi dietro a verità banali e a falsità vistose, potrebbe essere migliorata da un minuzioso programma di ricerche inteso a produrre nuove regole metodologiche? Non lo so, ma lo ritengo davvero poco probabile. Semmai, i ricercatori di campo, che pure toccano questioni già in se stesse speculative, come accade ormai da tempo in molte ricerche della bio-medicina, dovrebbero affinare taluni dei loro strumenti concettuali, quali i concetti di fatto, metodo e verità come chiarisce assai bene Cini nel suo articolo. Personalmente ci sentiamo un po' poveri per il fatto di non disporre di una laurea in fisica e in biologia. Perché, per contro, per gli autori di Imposture intellettuali, non avere una laurea in filosofia (o più semplicemente saperne poco) dovrebbe essere un titolo di merito? E' praticamente impossibile - un'impossibilità che confina con l'illiceità - impedire ai

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filosofi di professione di sfruttare l'immensa ricchezza conoscitiva della scienza moderna. In realtà le teorie scientifiche, indipendentemente dal fatto che siano scientificamente corrette o non, producono una vera e propria area di contagio culturale dalla quale è assai difficile restare immuni. Il contagio può essere responsabile della proliferazione di molte sciocchezze, che si condannano da sé, soprattutto se veicolano una sorta di terrorismo culturale qual è quello presente in taluni esponenti del pensiero postmoderno, ma possono, per altri versi, modificare la nostra visione del mondo nel senso di produrre una nuova conoscenza, una conoscenza che, spesso, è all'origine delle suggestioni da cui nasce un'esistenza interamente e fruttuosamente dedicata alla scienza. L'elaborazione del lutto, un processo notissimo in psicoanalisi e suffragato, alla sua origine, da procedure unicamente supportate dal training psicoanalitico - sulla cui validità scientifica tanti, da Popper a Grünbaum, sollevarono dubbi - è stata, tra molte altre, un fecondo orizzonte di evocazione al cui interno sono proliferate ricerche, empiricamente validate, sul rapporto tra sofferenza psicologica (di stress psicogeno) e processi biochimici di immunodepressione e immunosoppressione. In realtà c'è un modo, questo sì intrinsecamente corretto, con il quale raccogliere l'invito degli autori di Imposture intellettuali a procedere su nuove basi per impostare correttamente il rapporto tra pensiero speculativo (filosofico, psicologico, sociologico) e le scienze. Consiste, a mio parere, nel sostituire la filosofia della scienza, nell'accezione convenzionale e accademica del termine, con la storia della scienza, ponendo al centro, non il contesto della scoperta ma quello della genesi di una teoria scientifica. L'esame della genesi di una teoria scientifica non ha nulla a che vedere con il controllo di qualità della teoria. Il filosofo non è competente a effettuarlo. Se anche lo fa, non può che operare con le procedure canoniche del contesto di riferimento, tanto è vero che è possibile studiare le leggi del moto uniforme di Galilei o la meccanica di Newton, senza averne letto le opere. Sotto questo aspetto, parrebbe vero che "il misticismo e le pratiche alchemiche di Newton, ad esempio, sono importanti per la storia della scienza e la storia del pensiero umano in generale, ma non altrettanto per la fisica" (Sokal e Bricmont). A noi interessa proprio quello che, secondo i due autori, non dovrebbe che interessare marginalmente il fisico. Scoprire che la teoria dello spazio e del tempo sono tributarie di un'opera puramente teologica come l'Enchyridium di More sembra, ci perdonino Sokal e Bricmont, una scoperta, se non altrettanto essenziale quanto quella della gravità, almeno altrettanto significativa. Significativa di che cosa? Di una teologia che intendeva trovare non nell'edificazione religiosa, ma nelle certezze della natura, la prova dell'esistenza di Dio. Newton fu letteralmente contagiato da More e finì con il trasferire di peso le argomentazioni del neoplatonico di Cambridge nello "Scholium Generale" che precede i Principia, un'opera che, se deve la sua validità scientifica a ragioni puramente fisiche, ha la sua genesi in una preoccupazione di natura teologica. Ora, siamo veramente sicuri che un giovane fisico non abbia davvero bisogno della conoscenza, sia pure approssimativa, del mondo ideologico di Newton per comprenderne la meccanica? Chi può escludere, in linea di principio, che andando, come non può non andare, oltre Newton non sia costretto a ripercorrere tutti i nodi problematici già affrontati da Newton? La storia di una teoria o di una disciplina scientifica riveste un mero rilievo filosofico o non è, assai spesso, uno stimolo cruciale per appropriarsi di una certa precisa modalità (qui quella fisica) per avvicinarsi ai fenomeni? Sostituendosi alla filosofia della scienza, la storia della scienza conserva tuttavia di

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questa una tensione filosofica, una tensione che non intende manifestarsi nell'invenzione di un metodo con il quale insegnare agli scienziati a fare scienza, ma, piuttosto, ad abituarli a vedere che ogni momento della ricerca è una ricapitolazione di tutto un passato. Il fisico di professione è, implicitamente, l'attore di un processo autobiografico nel corso del quale una disciplina o una teoria non traccia le linee unicamente di quanto l'ha proceduta ma di un intero mondo di affetti, idee e concetti presenti in un preciso spazio storico-culturale. C'è una diffusa paura della scienza, uno "spaventoso spavento" alimentato non solo dall'estrema difficoltà, per un profano, di usare gli strumenti concettuali dei disciplinari, ma anche dall'alone di splendido e disumano isolamento in cui sono percepiti gli scienziati. Un'esplorazione della storicità della scienza, fatta con tutte le cautele e non confondibile con un illegittimo controllo di qualità, potrebbe produrre taluni benefici risultati: contribuire a riconsegnare la scienza alla società, eliminando terrori e diffidenze e facendo proliferare suggestioni che possano avviare alla conoscenza scientifica i giovani; soprattutto farebbe della comunità scientifica del pianeta una nuova "provincia pedagogica", per dirla con Goethe, in cui l'uomo sarebbe educato a riprendere possesso di una ragione che, sia pure a torto, gli appare come estraniata e sequestrata dalla scienza. ANNA MARIA MERLO POLEMICHE: SCIENZE UMANE,TROPPO UMANE

Quando la scienza giudica la filosofia in nome del buon senso. Ovvero l'"Affaire Sokal" secondo Yves Jenneret

L'"affaire Sokal", scoppiato due anni fa e che, da allora, continua ad essere all'origine di una valanga di interventi - sia negli Usa che in Europa - è stato ben di più di uno "scherzo" fatto da un fisico alle scienze umane. Dietro la "prova" fornita dal fisico statunitense Alan Sokal sul fatto che i cultural studies producono testi gratuitamente incomprensibili, che fanno ricorso a una terminolgia scientifica inappropriata e che, infine, diffondono pericolose idee di relativismo scientifico e ideologico, c'è un dibattito di fondo della nostra società: nato all'interno della sinistra americana, riguarda questioni come la democrazia, le relazioni tra i saperi, l'importanza della diffusione delle conoscenze nelle società contemporanee. E' questo sfondo che Yves Jeanneret, specialista di scienze dell'informazione e della comunicazione (è professore all'università di Lilla), mette in luce nel suo libro, appena pubblicato dalle edizioni Puf, L'Affaire Sokal ou la querelle des impostures (274 pag., 148 FF). In breve, ricordiamo che cosa è l'"affaire Sokal": il fisico Alan Sokal, professore alla New York University, propone e fa pubblicare da una delle più prestigiose riviste di cultural studies - Social Text(primavera-estate 1996) - un articolo dal titolo "Trasgredire le frontiere. Verso un'ermeneutica trasformativa della gravitazione quantistica". Poco dopo, lo stesso Sokal pubblica su una rivista scientifica - Lingua franca (maggio-giugno 1996) - un secondo articolo, intitolato "Un fisico fa un esperimento con i Cultural Studies". Qui Sokal denuncia: nel primo articolo su Social Text ho scritto un saggio infarcito di citazioni scientifiche inappropriate, ho utilizzato concetti erronei presi in prestito alle scienze esatte, il tutto scritto in un gergo "postmoderno".

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In altri termini: ho prodotto un'impostura, per dimostrare che le scienze umane di oggi, dominate dai postmoderni, propongono una cultura fasulla. In seguito, Sokal pubblica in Francia, con il fisico belga Jean Bricmont, un libro che porta a fondo l'attacco (Impostures intellectuelles, Odile Jacob): presi di mira sono alcuni tra i principali studiosi francesi, Lacan, Foucault, Lyotard, Deleuze, Derrida, Kristeva. Il settimanale Le Nouvel Observateur pubblicherà una copertina dal titolo: "Gli intellettuali francesi sono degli impostori?". A Yves Jenneret abbiamo rivolto alcune domande. Come è stato possibile che a partire dallo scherzo di Sokal sia nato un caso mondiale? Ciò che ha di interessante l'affaire Sokal è il suo carattere di riscrittura permanente dell'avvenimento iniziale. La definisco una querelle più che una controversia, classica, accademica, su un problema preciso. Tutto parte qui dalla doppia pubblicazione di Sokal. Sokal trae una prima conclusione nel suo secondo articolo: se nel primo articolo sono state pubblicate delle stupidaggini, allora vuol dire che i curatori della prestigiosa rivista non sono seri. Bisogna prendere in considerazione il punto di partenza: il quadro universitario statunitense, in una disciplina - i cultural studies - che non ha equivalente in Europa occidentale (dove questo tipo di lavori vengono svolti nell'ambito della semiotica). Il dibattito si trasforma incessantemente e coinvolge tematiche numerose: il ruolo politico degli intellettuali, i mezzi per conoscere il mondo, il posto che ha la scienza nella società, la questione del "gergo", cioè di cosa significa impiegare parole complicate, se si possono prendere a prestito i termini delle scienze esatte per le scienze umane. In altri termini: i fisici hanno il diritto di giudicare la filosofia? I filosofi di giudicare i fisici? La discussione va avanti in contesti diversi: sia nelle riviste accedemiche statunitensi che nella stampa a grande diffusione. Poi si diffonde nella stampa europea, in particolare francese, perché gli autori francesi sono i più attaccati. Il tessuto connettivo del tutto è Internet. E, sia detto per inciso, in questo contesto, il ruolo di Internet non è stato altro che un appello al buon senso, a dimostrazione che un cittadino senza istituzioni non è altro che un semplice cliente. Al centro c'è la questione del controllo della diffusione e della legittimazione dei saperi? Per Sokal lo scandalo non viene dal fatto che chi lo attacca ha torto, ma dal fatto che ha troppa influenza. Di conseguenza, è l'ignoranza che arbitra tra i diversi saperi. E' un po' brutale, ma è così. Sokal diffonde la sensazione che "esiste la prova": in realtà, il suo articolo prova soltanto che esistono delle mode, che ci sono delle negligenze ecc. Ma lui vuole dimostrare, invece, che esiste una soluzione matematica all'influenza dei saperi. In questo contesto, si sogna un liguaggio civilizzato, trasparente. Una sorta di religione del sapere. Sokal fa una manovra editoriale, che però non ha lo stesso senso nelle scienze esatte e nelle scienze umane. Lei sostiene che la querelle è nata all'interno della sinistra americana. La sinistra statunitense è dilaniata tra due tendenze: una razionalista e l'altra multiculturale. Era in realtà il problema che ha affrontato il '68 in Francia. E' anche una battaglia economica per avere più soldi per i rispettivi istituti universitari. In Usa i postmoderni hanno una posizione editoriale e universitaria relativamente forte, che alcuni giudicano troppo forte. Contro di essi, Sokal invoca l'Illumismo, il XVIII secolo, una concezione della sinistra fondata sulla scienza e accusa i postmoderni francesi di distruggere la credenza nella ragione. E' evidentemente una lettura caricaturale della filosofia del XVIII secolo: certo,Diderot ha pubblicato l'Enciclopedia, capiva che la

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scienza era un elemento molto importante, ma al tempo stesso è stato anche un teorico della molteplicità delle culture. Nella stampa, poi, lo scontro di traduce semplicisticamente in una lotta tra la vera scienza e tra chi confonde tutto. Prendiamo Barthes e Foucault, su cui probabilmente si concentrerà nel futuro l'attacco: hanno cercato di fare un lavoro ad un tempo militante, letterario e scientifico. E' la possibilità di questa triplice appartenenza che viene messa in questione. La tolleranza all'alterità viene negata. Di qui anche, il successo della polemica. Lo stesso è successo con il processo Clinton-Lewinsky: una precipitazione verso processi in impostura, odio dell'alterità, proprio in un periodo in cui non si sentono altro che discorsi sulla comprensione dell'altro. La discussione sollevata dall'affaire riguarda soprattutto la questione del controllo dell'opinione pubblica, quindi tocca il cuore della democrazia? Sì, il fisico pretende di giudicare il filosofo in nome del buon senso. E' molto pericoloso. Sta succedendo anche con il "caso Bourdieu", c'è nell'opposione a Bourdieu una convergenza tra un certo scientismo e un certo anti-intellettualismo. Bourdieu è messo sotto accusa per aver invocato la scienza ma non essersi poi adeguato al metodo positivista. L'idea di fondo è: intellettuali, fate il vostro lavoro, ma non invadete il campo della politica. Diventa difficile difendere tutto ciò che è problematico, che rischia di mettere in questione lo statu quo. L'affaire Sokal ha messo in luce la volontà di liquidazione del carattere instabile e imbarazzante della parola delle scienze umane quando entra nello spazio pubblico tanto più pericolosa, poi, quando è sotto forma di un testo letterario di qualità. Viene anche usata una terminologia preocupante: il liguaggio postmoderno è "malattia", esiste una "guerra"... C'è un ruolo centrale dell'odio. Se si analizzano i testi c'è da avere i brividi. Come mai in un momento in cui si parla con tanta insistenza dei diritti dell'uomo, cresce l'esclusione sociale e si pratica la retorica dell'anatema? MAURIZIO FERRARIS IMPOSTURE INTELLETTUALI

Che cosa insegnerà Sokal all'Italia? "Se si racconta una storia, per quanto assurda o impossibile a un bambino, e chi la racconta è qualcuno che lui considera infallibile. (generalmente un genitore), la accetterà come verità rivelata e ne conserverà un ricordo immutato fino al momento in cui non sarà portato a rifletterci su. Il che può anche non succedere mai", scrive G.B. Shaw, nei suoi Scritti autobiografici (Archinto 1999). Non è detto che gli strutturalismi e post-strutturalisti presi di mira da Sokal e Bricmont fossero davvero in malafede; semplicemente, avevano delle idee confuse sulla matematica e la fisica, ed erano perciò le prime vittime della presunta impostura (si tenga presente che, ai suoi tempi come ai nostri, Kant è stato accusato di non intendersene di aritmetica, e Spinoza di geometria). Quello che è più interessante, semmai, è quanto spesso si abbia, tendenza a cercare il genitore infallibile nella Scienza (come se fosse una sola e cattiva, o almeno severa ma giusta, da blandire in qualche modo e da usare per i propri fini, fossero pure soltanto retorici o scettici). Il vero problema è, allora, non tanto l'"impostura", bensì la mancanza di fantasia e di autentica curiosità. filosofica por cui necessariamente la filosofia dovrebbe appellarsi

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alle scienze della natura (o alla matematica, che di per sé non è affatto una scienza della natura) per giustificare i propri asserti. In taluni casi è così, in altri no, e non c'è motivo per cercare a tutti i costi una complementarità (e non complementarietà come sistematicamente si legge nella traduzione italiana di Imposture intellettuali, Garzanti 1999, vedi Il Sole-24 Ore di Domenica scorsa). Un filosofo di formazione matematica come Husserl ha largamente fatto a meno della matematica nei suoi lavori, così come Derrida, che gli stessi Sokal e Bricmont mettono nel mazzo dei postmodernisti con motivato imbarazzo. Dentro al generale e irriflesso positivismo di chi cerca nella fisica e nella matematica una cauzione per la filosofia c'è però - e qui non si può non consentire con Sokal e Bricmont - una significativa differenza tra gli strutturalisti e i loro eredi post-strutturalisti. Per ì primi, richiamarsi a formalismi matematici equivaleva a dare peso scientifico alle argomentazioni; per i secondi, invece, si tratta di dimostrare la validità dì fondo del relativismo, di nuovo sulla scorta di un avallo scientifico che però in questo caso spiana la via a uno storicismo senza confini. Questo possiamo constatarlo soprattutto in Italia, dove il formalismo ha attecchito poco e male, mentre lo storicismo e il relativismo sono di casa (sarà dunque interessante vedere gli effetti e le reazioni aImposture intellettuali, che verrà presentato mercoledì prossimo a Milano presso la sala lauree della facoltà di scienze politiche, in via Conservatorio, alle ore 11, oltre che dallo stesso Sokal, da Gianni Vattimo,Alberto Martinelli e da Massarenti). Il ragionamento di fondo in Italia, è sempre quello: visto che "le ultime scoperte delle scienze dure" (ultime scoperte che il più delle volte risalgono agli inizi del secolo, che, fra pochissimo, diventerà il secolo scorso) avrebbero dimostrato che la realtà oggettiva è un mito, allora tutto si equivale, e per esempio, ribadire tesi scettiche come ai tempi di Berkeley o fare degli effettivi progressi in filosofia (chi ha detto che non è possibile?) sono la stessa cosa. Questo, se vogliamo, è proprio il Paradosso: la comunità postmoderna risulta affetta dalla tendenza a dire cose eterne; che sono poi cose che avrebbero potuto essere scritte trenta o cinquanta anni fa (o persino, cento o duecento anni fa): Come ai tempi di Novalis, si dice che il mondo deve diventare una favola; come ai tempi di Nietzsche si dice che è diventato una favola. Uno potrebbe osservare: "Può darsi. Comunque, è vero che lo si può leggere sui manuali. E allora? Noi siamo mica nell'Ottocento". Dal che si può trarre una morale: della scienza, soprattutto se relativistica, i postmodernisti finiscono per accettare tutto, tranne l'idea di progresso, che non è poi una mania, ma il semplice impegno di far compiere qualche passo in avanti alla propria disciplina. PIERRE JACOB La filosofia, il giornalismo, Sokal e Bricmont Conosciamo tutti il caso Sokal? Sokal, famoso fisico americano, nel 1996 pubblicò su *Social Text* uno "strano" articolo: venivano sostenute stravaganti interpretazioni di alcuni risultati della logica, della matematica e della fisica. Poco tempo dopo sulla rivista *Lingua Franca* apparve un altro articolo, sempre di Sokal, ancora più strano. L'autore affermava di essersi preso gioco, con l'articolo precedente, del mondo intellettuale umanistico. L'accusa partita da Sokal., poi sostenuta anche da Bricmont, si rivolgeva contro gli umanisti che si lasciano tentare dallo "scientismo"

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Nel 1996 la rivista di studi letterari americani Social Text pubblicava un articolo del fisico americano Alan Sokal, dal titolo misterioso: "Transgresser les frontières: vers une herméneutique transformative de la gravitation quantique". l'articolo offriva interpretazioni del tutto stravaganti di certi risultati della logica, delle matematiche e della fisica, invocando autorità di molti autori francesi celebri nel mondo delle scienze umane e della filosofia. Mi limiterò a fornirne due esempi succinti. Nell'articolo si affermava, ad esempio, che "il p di Euclide e il G di Newton, un tempo ritenuti costanti ed universali, sono ora percepiti nella loro ineluttabile storicità". In una nota che giocava sui molteplici significati dei termini "scelta" e "uguaglianza", si rimproverava ai matematici cosiddetti "liberali" di accogliere la teoria degli insiemi diZermelo-Fraenkel, la quale ammette due assiomi ritenuti "conformi alle sue origini liberali" (nell'accezione politica del termine): gli assiomi, per l'appunto, dell"'uguaglianza" e della "scelta"". Per "assioma dell'uguaglianza" bisogna intendere verosimilmente l'assioma dell'estensibilità". Nella teoria degli insiemi, tale assioma afferma semplicemente che se due insiemi sono composti dai medesimi elementi, essi sono uguali o identici l'uno all'altro. L'assioma della "scelta" afferma che data una serie di insiemi che si escludono a vicenda esiste sempre un insieme composto esattamente da un elemento appartenente a ciascuno degli insiemi della serie.

Due mesi più tardi, nella rivista Lingua Franca, Sokal rivelava che l'articolo apparso in Social Text era una beffa escogitata al fine di dimostrare l'irresponsabilità intellettuale diffusa nelle riviste di ambito umanistico. Come affermato dal filosofo Paul Boghossian (Boghossian, 1996), la pubblicazione della parodia ideata da Sokal dimostra, da parte dei responsabili della rivista, "una sublime indifferenza al contenuto, alla verità., alla plausibilità (...) e all'intelligibilità" dei prodotti sottomessi alla loro accettazione. Nel settembre l997 è apparsa a Parigi un'opera firmata da Alan Sokal e dal fisico belga Jean Bricmont. dal titolo Impostures intellectuelles che da un anno e mezzo a questa parte ha fatto scorrere fiumi di inchiostro sulla stampa francese.

I due obiettivi di Sokal e Bricmont

In quest'opera fortemente mediatica, Alan Sokal e Jean Bricmont perseguono due distinti obiettivi: svelare i moventi della tentazione "scientista" degli umanisti e muovere una critica al relativismo epistemologico (da essi definito "relativismo cognitivo in filosofia della scienza" ). vale a dire l'interpretazione relativista delle teorie scientifiche. La demistificazione della tentazione "scientista" degli umanisti mi sembra assai salutare e condivido l'antipatia di Sokal e Bricmont per il relativismo epistemologico.

Da una parte, essi mettono efficacemente alla berlina la tentazione cui non hanno saputo resistere certi autori francesi di opere nel settore delle scienze umane: la tentazione "scientista" che minaccia gli umanisti. Lo "scientismo" è qualcosa di simile al culto, alla religione o alla venerazione della scienza e delle matematiche. Quella che io definisco tentazione "scientista" degli uomini di lettere ha a sua volta due facce: essa consiste, anzitutto, nel credere che un letterato, avvalendosi di un vocabolario preso a prestito dai risultati della logica, delle matematiche o della fisica - di cui egli stesso non comprende granché - può conferire alle proprie idee un sovrappiù di profondità e dignità

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intellettuale. A ciò si aggiunge la presunzione di credere che, trasponendoli nel suo ambito prediletto di azione. il letterato conferisca ai teoremi logici e matematici o alle teorie fisiche il loro significato autentico e un prestigio di cui mancavano in precedenza.

D'altra parte, Sokal e Bricmont si preoccupano, non senza ragione, per il successo crescente del relativismo epistemologico o dell'interpretazione relativistica delle teorie scientifiche nell'ambito della sociologia della scienza, Secondo uno degli slogan più diffusi negli "studi sociali delle scienze" (o "science studies") di cui Bruno Latour è un buon rappresentante francese (cfr. Latour., 1989), i fatti scientifici sono "costruzioni sociali" e le prove scientifiche sono il frutto di una "contrattazione sociale". Un fautore del relativismo epistemologico può affermare che, in ambito scientifico, la verità non esiste, che essa è relativa ad un gruppo, una cultura o una comunità. oppure che ci sono tante verità scientifiche quanti mondi diversi.

Chi afferma che in ambito scientifico la verità non esiste si espone evidentemente al dilemma di sapere se egli stesso crede alla verità di quello che dice. Se non ci crede, perché prenderlo sul serio? Se ci crede, ammette dunque che esistano delle verità. In questo caso, in virtù di quale manchevolezza le scienze dovrebbero per natura essere private del potere di velare la benché minima verità?

Chi ammette che ogni verità relativa ad una prospettiva o ad un gruppo particolare suppone che se io giudico vera un'affermazione e voi la giudicate falsa, e se noi apparteniamo a due gruppi diversi o le nostre prospettive sono diverse, non esiste un reale conflitto fra noi. Ciò che voi credete non contraddice realmente ciò che io credo. Chi afferma che ogni verità è relativa ad una specifica prospettiva deve riconoscere l'esistenza di una prospettiva in cui la propria concezione non è vera o nella quale la negazione della propria concezione è vera. In altri termini. non può pretendere di avere realmente ragione.

Quanto alla teoria secondo la quale esistono tante verità scientifiche quanti sono i mondi che ad esse corrispondono, essa è stata resa popolare da Kuhn (Kuhn, 1972) e Feyerabend (Feyerabend, 1975) sotto l'etichetta di 'incommensurabilità' fra teorie separate da un "mutamento di paradigma" -mutamento incarnato, ad esempio, dalla transizione fra geocentrismo ed eliocentrismo in cosmologia. Nella cosmologia geocentrica, la Terra è immobile al centro dell'universo e il Sole le ruota intorno. Nella cosmologia eliocentrica, è la Terra a ruotare intorno al Sole. Giudicare "incommensurabili" queste due teorie significa affermare che esse sono intraducibili l'una nell'altra. Kuhn paragona il passaggio dal geocentrismo all'eliocentrismo al mutamento perpetuo di Gestalt grazie al quale, in una stessa raffigurazione ambigua, un individuo può vedere sia due facce nere di profilo che si guardano su uno sfondo bianco, sia un vaso bianco su un fondo nero. Ma, secondo Kuhn,, a differenza di un cambiamento perpetuo di Gestalt, il passaggio da un paradigma scientifico all'altro è irreversibile: una volta divenuti sostenitori dell'eliocentrismo, non si può più comprendere la posizione geocentrica. Si tratta, evidentemente, di una tesi troppo forte: non si possono certo ritenere contemporaneamente vere due descrizioni cosmologiche reciprocamente incompatibili del sistema solare, come l'eliocentrismo e il geocentrismo.

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Ma chiunque aderisca ad una descrizione eliocentrica del sistema solare è certo in grado di comprendere la descrizione geocentrica. Alla tesi dell"'incommensurabilità" tra la meccanica newtoniana e la meccanica relativistica è stato obiettato che la meccanica newtoniana costituisce una buona approssimazione della meccanica relativistica e che la prima è deducibile dalla seconda, per il tramite di alcune ipotesi ausiliarie. In risposta a questa obiezione, Kuhn afferma che la meccanica newtoniana prima dell'apparizione della meccanica relativistica e la meccanica newtoniana dopo l'apparizione della meccanica relativistica sono due teorie distinte, perché prima non si sapeva che la meccanica newtoniana era deducibile, a certe condizioni, dalla meccanica relativistica, e ora invece lo si sa. Ma - come ha osservato il fisico teorico Steve Weinberg(Weinberg, 1998), ciò equivale a dire: "La bistecca che sto mangiando non è quella che ho comprato, perché so che la bistecca che sto mangiando è troppo cotta e non lo sapevo quando l'ho comprata".

I partigiani dell"'incommensurabilità" fra teorie separate da un cambiamento di paradigma, giungono fino a sostenere che al geocentrismo e all'eliocentrismo corrispondono "ontologie" o "mondi" diversi. Se così fosse, eliocentrismo e geocentrismo non sarebbero realmente due concezioni cosmologiche rivali e mutualmente incompatibili, dal momento che due teorie possono essere ritenute incompatibili solo se attribuiscono alle stesse entità proprietà che esse non possono rappresentare simultaneamente. Ora, la dottrina della pluralità dei mondi è stata inventata per risolvere, se non un falso problema., quanto meno un problema che non si pone realmente: è stata cioè inventata per spiegare il perché esistano, in ambito scientifico, controversie fra studiosi che, di fronte a certi dati dell'osservazione o a certe prove sperimentali, aderiscono a teorie incompatibili fra loro. Per inciso, i sociologi della scienza credono che, a meno di ricorrere alla "contrattazione sociale", la soluzione delle controversie scientifiche diverrebbe inesplicabile. Ma l'esistenza di controversie scientifiche si spiega naturalmente con il fatto che, in ambito scientifico. le teorie non discendono per deduzione dai dati dell'osservazione o da prove sperimentali: esse sono largamente "sottodeterminate" dai dati o dalle prove; le ingerenze che portano dai dati o dalle prove alle teorie sono sempre soggette ad un rischio,, poiché sono induttive e non deduttive. Per spiegare l'esistenza delle controversie scientifiche, non è necessario postulare una "pluralità di mondi". E a meno di supporre che solo le ingerenze deduttive siano probanti, non è più necessario invocare "contrattazioni sociali" per spiegare la soluzione delle controversie scientifiche. Al contrario, ciò che merita una spiegazione è piuttosto la preponderanza delle convergenze scientifiche. Tenuto conto del fatto che le teorie scientifiche sono "sottodeterminate" da prove o da dati favorevoli, la questione fondamentale sollevata dalla storia delle scienze esatte consiste nel comprendere come gli specialisti finiscano per accordarsi nel decidere quali osservazioni sono suscettibili di operare una discriminazione fra teorie scientifiche rivali e di determinare quali teorie vadano eliminate.

Sokal e Bricmont attribuiscono la qualifica post-moderno a chiunque soccomba alla tentazione "scientista" degli umanisti e aderisca inoltre al relativismo epistemologico. In altri termini, essi conferiscono alla nozione di "postmodernismo" il compito delicato di stabilire un ponte fra i loro due obiettivi: la demistificazione della tentazione "scientista"

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degli umanisti e la denuncia dei misfatti del relativismo epistemologico. Nonostante la mia simpatia per ciascuno dei due obiettivi di Sokal e Bricmont presi separatamente, non sono convinto che essi riescano efficacemente collegarli, né che gli autori di cui essi si fanno beffe aderiscano effettivamente al relativismo epistemologico: è poco plausibile che chi crede che la legittimità di un'opera nell'ambito delle scienze umane risulti accresciuta dal ricorso alle magie del vocabolario scientifico aderisca, al tempo stesso, al relativismo epistemologico. Comunque sia, il mio obiettivo non e quello di criticare Sokal e Bricmont. Ho constatato con sorpresa che, dopo l'apparizione di Impostures intellectuelles nell'autunno 1997 la demistificazione di quanto Sokal e Bricmont definiscono, a torto o a ragione, "postmodernismo" ha stimolato direttamente o indirettamente, sulle pagine culturali di Le Monde e di altri periodici, non poche sciocchezze da parte di cronisti e recensori di libri di filosofia e scienze umane. Eccone alcuni esempi.

Scientismo e metafora

Sulle pagine di Le Monde del 30 settembre 1997 (p. 27), due cronisti attribuivano a Sokal e Bricmont dottrine che nulla autorizza ad ascrivere loro. Marion van Renterghem accusava Sokal e Bricmont di condurre un'operazione scientista di svalutazione intellettuale" la cui "vera vittima" sarebbe niente meno che "il pensiero". Certo, Sokal e Bricmont contribuiscono a screditare gli autori di opere umanistiche che hanno ceduto alla tentazione scientista degli umanisti. A mio avviso, lo scientismo non consiste tanto nell'irridere coloro che cercano di adornarsi del prestigio di certi risultati logici, matematici o fisici senza preoccuparsi di comprenderli, quanto nel soccombere a questa stessa tentazione.

In un articolo intitolato "Au risque du scientifiquement correct" . pubblicato sulla stessa pagina di Le Monde, Roger-Pol Droit attribuiva a Sokal e Bricmont una

"concezione del pensiero" secondo la quale sarebbe reputato "privo di senso", "tutto ciò che non è enunciato matematicamente o verificato sperimentalmente". In realtà, Sokal e Bricmont non cercano affatto di incoraggiare gli specialisti delle scienze umane a sfruttare le risorse esoteriche della matematica o della fisica. Al contrario: essi ottengono piuttosto l'effetto opposto, giacché esigono, da parte di autori i cui temi non sono la logica, né le matematiche, né la fisica., bensì l'arte poetica, la fantasia, i turbamenti mentali o i sistemi politici, una giustificazione dei loro prestiti dal gergo della logica, delle matematiche o della fisica. Sono piuttosto coloro su cui si appunta la derisione di Sokal e Bricmont i quali sono inclini a supporre che un enunciato, se non è composto di termini appartenenti al lessico delle matematiche, non è in grado di esprimere una proposizione dotata di senso. Quanto alla tesi secondo la quale, a meno di essere stato verificato sperimentalmente, un enunciato non matematico sarebbe sprovvisto di senso, essa è assurda e nulla autorizza a pensare che Sokal e Bricmont vi aderiscano. Roger-Pol Droit voleva senza dubbio attribuire a Sokal e Bricmont la tesi secondo la quale un enunciato che non si presta all'esecuzione di un test sperimentale o non è verificabile sperimentalmente non esprime nessuna proposizione dotata di senso. Ma Sokal e Bricmont conoscono - come il loro libro documenta ampiamente - le obiezioni

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cui si espone questa tesi che fu, un tempo, difesa da fautori del positivismo logico, prima che essi vi rinunciassero soprattutto sotto i colpi delle critiche di Popper e che è nota con il nome di "criterio verificazionista della significazione cognitiva". Nulla autorizza a credere che Sokal e Bricmont aderiscano a questo criterio. Per inciso, essi non difendono neppure il criterio popperiano di "demarcazione" fra le proposizioni scientifiche e quelle non scientifiche, vale a dire la tesi secondo la quale ciò che distingue una proposizione scientifica da una non scientifica è che la prima, a differenza della seconda, può essere confutata da un esempio contrario.

Sokal e Bricmont hanno voltato dimostrare che un certo numero di autori in ambito umanistico hanno fatto riferimento a diversi risultati logici, matematici o fisici di cui in realtà non comprendevano il senso. Questa dimostrazione solleva tre interrogativi. Può essere ritenuta convincente? Se sì, bisogna trarne come conseguenza l'inutilità del contributo degli autori dediti alla filosofia e alle scienze umane? Infine, come spiegare la tentazione "scientista" degli umanisti? Nel numero di Le Monde del 30 settembre 1997 e in quello del 2 ottobre 1998, Roger-Pol Droit formula una risposta positiva alla prima domanda e una risposta negativa alla seconda, Possiamo giudicarlo coerente? Ognuno potrà valutare. Stando a ciò che riferisce Marion van Renterghem in Le Monde del 30 settembre 1997. Julia Kristeva\ suggerisce una risposta alla terza domanda: la tentazione (cui ella stessa ha ceduto) risponderebbe all'esigenza delle scienze umane di disporre di metafore. Nel Nouvel Observateur del 25 settembre 1997, ella scrive che, in ambito umanistico, la riflessione è più vicina alla metafora poetica che alla modellizzazione".

Ma che cos'è una metafora? Si tratta di una figura retorica che consiste nell'enunciare una frase sapendola letteralmente falsa. La falsità letterale di un enunciato metaforico consiste nel fatto che si attribuisce volutamente ad un'entità una qualità che essa non può avere. Si può ricorrere ad una metafora per un fine poetico, come attestano i primi due versi del celebre sonetto di Baudelaire intitolato "Corrispondenze"': "E' un tempio la Natura ove viventi pilastri a volte confuse parole mandano fuori". Ci si può anche servire di una metafora per uno scopo pragmatico: facilitare la comprensione di una serie di pensieri complessi che, a meno di essere comunicati indirettamente grazie all'impiego di una metafora, non potrebbero essere comunicati direttamente se non mediante un enunciato la cui complessità richiederebbe, da parte dell'ascoltatore, uno sforzo di comprensione assai oneroso. Supponiamo che un genitore dica ad un bambino: "La tua camera è un porcile". Un porcile è un luogo abitato da un maiale. Ciò che il locutore ha detto esplicitamente della camera di suo figlio è dunque letteralmente falso. Ma se il bambino sa che un porcile è un luogo caratterizzato dalla sporcizia che vi regna, grazie a questa frase letteralmente falsa il bambino capirà che l'adulto ha inteso comunicargli indirettamente che la sua camera era sporca. Una metafora può svolgere il suo ruolo poetico o pragmatico solo se il parlante (o l'autore) e il destinatario del messaggio sanno che ciò che essa esprime direttamente è letteralmente falso. Quando una madre dice al suo bambino: "La tua camera è un porcile", ella non si aspetta di trovare un maiale nel letto di suo figlio, né che suo figlio gliene mostri uno.

Ogni enunciato metaforico esprime sempre una proposizione letteralmente falsa? Questo è ciò di cui si potrebbe dubitare prendendo in considerazione un enunciato metaforico

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negativo come: "Jules non è un'aquila". Senza dubbio un siffatto enunciato esprime una proposizione, vera letteralmente. Tuttavia si può supporre che, enunciando una tale proposizione, il locutore non voglia semplicemente esprimere un truismo. Piuttosto egli vuol far comprendere indirettamente al suo interlocutore che, a suo avviso, la persona denominata "Jules" non è caratterizzata da spiccata intelligenza. Ora, per comprendere ciò che ha voluto indirettamente significare il locutore, il destinatario deve sapere che si può comunicare indirettamente il concetto che una persona è di un'intelligenza eccezionale enunciando una proposizione falsa letteralmente (e che consiste nell'attribuire alla persona la proprietà dell'essere aquila). Egli deve infine comprendere che è questo concetto che il locutore nega. Dunque, per determinare quale proposizione il locutore vuole negare, il destinatario deve formulare un concetto falso letteralmente.

Il metodo scientifico può avvalersi di metafore? La questione è difficile. E' innegabile che confronti e analogie congetturali giochino un ruolo centrale nella metodologia scientifica, come attestano gli esempi seguenti: nel XVII secolo i fisici meccanicisti paragonavano l'universo ad un orologio, in tempi più vicini a noi, Niels Bohr\ ha accostato le orbite degli elettroni attorno al loro nucleo atomico alla struttura del sistema solare, gli psicologi contemporanei confrontano volentieri il cervello umano con un computer digitale. Un confronto o un'analogia possono essere ritenuti letteralmente veri per certi aspetti e falsi per altri. Al pari dei pianeti del sistema solare che gravitano intorno al Sole, gli elettroni di un atomo gravitano intorno al suo nucleo. Ma, contrariamente al Sole, il nucleo di un atomo di idrogeno non emette fotoni. Ciò che limita il ruolo delle metafore propriamente dette in ambito scientifico è il fatto che chi usa una metafora sa di dire qualcosa di letteralmente falso. Ora, nelle scienze - ivi comprese le scienze umane, è raro che si esprima volontariamente una proposizione che si sa essere falsa.

In La Recherche, 299 (giugno 1997) e 304 (dicembre 1997), il fisico Jean-Marc Lévy-Leblond\ si è fatto difensore di una versione radicale del dualismo metodologico fra fisica e scienze umane. Per inciso, egli ritorce sui fisici l'accusa di "disinvoltura metodologica": a suo parere, ì fisici non hanno che da prendersela con se stessi se gli umanisti fraintendono il significato di termini come "big bang", "buchi neri" o "particelle incanto (charm)", che ì fisici prendono a prestito senza pudore dal linguaggio ordinario. Alla semplicità dei problemi affrontati in fisica e alla banalità del suo metodo sperimentale, egli oppone la complessità "incommensurabile delle scienze umane. Di conseguenza la "testualità" delle scienze umane sarebbe "di natura diversa rispetto a quella della fisica. Agli studiosi di ambito umanistico, qualora il metodo sperimentale sembrasse loro inadeguato.

Lévy-Leblond consiglia di lavorare "al cuore della lingua", di "mobilitare tutte le risorse dell'immaginario, tutti i riferimenti culturali, per tentare di far emergere effetti di senso ben più sottili" del "piatto consenso fra sperimentazione e teoria. Secondo Lévy-Leblond, Sokal e Bricmont sottovalutano gravemente queste difficoltà e "si ingannano totalmente sullo statuto del discorso nell'elaborazione del sapere". Sorvoliamo sul disprezzo mostrato da Jean-Marc Lévy-Leblond nei confronti della sperimentazione

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dove essa è possibile. Egli ha l'aria di credere che si possa al tempo stesso aderire al dualismo metodologico radicale fra scienze umane e scienze sperimentali e assegnare come obiettivo alle scienze umane l'"elaborazione di un sapere". Sapere significa avere ragioni fondate per reputare vera una proposizione (o un insieme di proposizioni). Jean-Marc Lévy-Leblond raccomanda che in ambito umanistico siano " mobilitati tutti i riferimenti culturali". Tutti? Quali sono i limiti di ciò che egli definisce "la cultura"? Crede davvero che mobilitando le risorse dell'astrologia, gli studiosi di discipline umanistiche contribuiranno all'elaborazione di un sapere?Dubito che l'astrologia possa partecipare all'elaborazione di un sapere umanistico e dubito che vi creda Jean-Marc Lévy-Leblond.

La "malafede" di Bouveresse

Prenderò ora come esempio la recensione del libro di Jacques Bouveresse e Jean-Jacques Rosat, Le philosophe e le réel (Bouveresse e Rosat, 1998) , apparsa in *Le Monde des livres* del 18 dicembre 1998 (p. ix), a firma di \Roland Jaccard\. In questa recensione, che ho letto non senza un certo disgusto, si parla a lungo del personaggio Wittgenstein, ma senza dire nulla delle sue idee. Nel seguito, le affermazioni gratuite e prive della benché minima giustificazione, fanno a gara con le insinuazioni gratuite e con il cinismo, Ora, per alcuni aspetti. questa recensione richiama in una certa misura un paragrafo della cronaca dedicata da Roger-Pol Droit a Sokal e Bricmont in Le Monde des livres del 2 ottobre 1998 (p. vi).

Cominciamo dalle affermazioni gratuite. Jaccard si dichiara "preoccupato". Vediamo in cosa consiste la preoccupazione. Nel libro recensito da Jaccard, Jacques Bouveresse, che ha dedicato una parte importante del suoi scritti all'esegesi dell'opera dì Wìttgenstein, dichiara la sua diffidenza verso i rischi che la seduzione fa correre al filosofo. Ora, questa diffidenza sarebbe smentita da Wittgenstein stesso, il quale, afferma Jaccard, "ha saputo giocare l'arte della seduzione meglio di chiunque altro". Si può forse contrapporre lo stile aforistico dell'opera di Wittgenstein allo sue più esplicitamente argomentativo di altri filosofi di questo secolo. Ma lo stile aforistico dell'opera di Wittgenstein non basta per giustificare questa frase. Per di più., Jaccard rimprovera a Bouveresse il fatto di non aver accordato alle opere cinematografiche di Welles, Hawks o Kurosawa tutta l'importanza che meritano, mentre. il cinema "esercitò [sic] una vera passione"' su Wittgenstein. Sembra di sognare: quale aspetto fondamentale dell'opera filosofica di Wittgenstein (morto, va ricordato, nel 1951) dovrebbe, secondo Jaccard, essere illuminato dal suo gusto accertato per i film western? Quali idee filosofiche di Wittgenstein sono rimaste incomprensibili a Bouveresse in virtù della sua presunta indifferenza all'opera dei succitati cineastí? Se Jaccard si desse la pena di considerare queste due domande, credo che la sua preoccupazione si dissiperebbe. Alle affermazioni gratuite su Wittgenstein, Jaccard aggiunge un'insinuazione alla quale conferisce, definendola "ipotesi", una dignità del tutto superflua: ciò che sarebbe "mancato" a Bouveresse, è la "categoria del piacere"! Comunicando implicitamente al lettore la sua

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antipatia per il puritanesimo, Jaccard dà prova di un atteggiamento diffuso tra i cronisti di Le Monde. In effetti, nella sua cronaca del 2 ottobre 1998, tornando sull'affare Sokal, Roger-Pol Droit ha ritenuto illuminante l'istituzione di un accostamento fra il rapporto del procuratore americano Kenneth Starr sulle scappatelle di Bill Clinton e l'opera di Sokal e Bricmont: "Nel rapporto Starr e nell'accanimento Sokal" [sic], scriveva Roger-Pol Droit, si "possono vedere due facce del rigorismo puritano, due maniere di alimentare una certa immagine dell'odio". "Per diventare Wittgenstein", scrive quindi Jaccard, "bisogna correre dei rischi esistenziali", Sia pure. Ma nel libro di conversazioni da lui recensito, Bouveresse non lascia adito a dubbi: in nessun momento si confonde con Wittgenstein. La recensione di Jaccard culmina nel cinismo (nel senso comune del termine e non in quello della scuola dei Cinici dell'antichità) quando non trova niente di meglio da rimproverare a Bouveresse che la sua mancanza di "malafede".

Roland Jaccard può vantarsi di aver inventato un nuovo stile polemico. Prima di lui era una giusta contestazione rimproverare a un autore di essere in rnalafede. D'ora in poi - grazie a Roland Jaccard - si potrà rimproverare a un filosofo di mancare di rnalafede!

Derrida, Rorty e il realismo metafisico

Prenderò come ultimo esempio una recensione di buona qualità, che ho letto con piacere in Le Monde des livres del 27 novembre 1998: la recensione di Christian Delacampagne alla traduzione francese del libro di John Searle, La construction de la réalité socíale (1998). Fino al penultimo paragrafo. Christian Delacampagne informa chiaramente sull'opera di John Searle. Il penultimo paragrafo della recensione contiene, tuttavia, alcune singolari affermazioni.

La mia prima sorpresa è stata quella di apprendere che, per Christian Delacampagne, non si può che approvare Searle, quando afferma l'esistenza di una realtà indipendente dalla nostra coscienza, . ovvero quando difende la concezione classica secondo la quale la verità sarebbe il prodotto dell'adeguamento delle nostre rappresentazioni al mondo". La tesi metafisica dell'indipendenza della realtà non mentale rispetto allo spirito umano e la concezione della verità-corrispondenza sono, come lascia intendere Christian Delacampagne, due tesi realiste solidali l'un con l'altra. E Searle aderisce innegabilmente a queste due concezioni. Ma - come dimostra ampiamente la letteratura filosofica contemporanea - è errato lasciar intendere che queste dottrine poggino su argomenti e giustificazioni talmente inoppugnabili che nessun filosofo degno di tale nome sia disposto a ripudiarle. Chiunque provi della simpatia per il realismo metafisico riconoscerà facilmente che i suoi avversari sono numerosi e non sprovvisti di risorse.

La verità è la proprietà espressa dal termine "vero". A che genere di cose si riferisce la verità? A proposizioni, pensieri, credenze. teorie o enunciati che le esprimono, la verità possiede, come l'elettricità o l'eredità, una struttura profonda, misteriosa e nascosta che l'indagine scientifica sarà un giorno in grado di svelare? Tutte le proposizioni vere sono

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vere in virtù del fatto che esemplificano tutte una sola ed unica proprietà soggiacente più fondaimentale? Alcuni filosofi rispondono

categoricamente di no a questa domanda. Come Willard van Orman Quine e Paul Horwich, essi aderiscono ad una concezione della verità che definiscono "minimalista" o "deflazionista". La verità non è altro per loro che un puro e semplice "strumento di ascensione" (o di generalizzazione) semantica che consente di enunciare comodamente una serie di leggi logiche. In luogo di enunciare una serie infinita di antitesi come "Il cielo è blu o il cielo non è blu", si può formulare il principio del terzo escluso. dicendo: "Ogni proposizione è vera o falsa". Al contrario. gli "inflazionasti" suppongono che tutte le proposizioni vere siano come gli esseri viventi. Per quanto diversi nella forma o nell'apparenza - che si tratti di vegetali o di animali - tutti gli esseri viventi sono viventi in quanto composti di cellule il cui nucleo contiene molecole di DNA (acido desossiribonucleico). Essere composti di DNA è dunque una proprietà soggiacente fondamentale che spiega perché un essere vivente qualunque è vivente. Per un filosofo "inflazionista", ogni proposizione vera trae la sua verità dal fatto di esemplificare una proprietà soggiacente più fondamentale. Gli uni - i "verificazionisti" - suppongono che ciò che rende vera una proposizione è il fatto che essa è verificabile o compatibile con altre proposizioni. Gli altri - i realisti - suppongono che ciò che rende vera una proposizione è il fatto che essa corrisponde ad uno stato di cose. Contrariamente a ciò che suggerisce Christian Delacampagne, le possibilità di disaccordo non mancano dunque in materia di teoria della verità.

Dopo questa prima affermazione. sono stato ancora più sorpreso di apprendere dalla penna di Christian Delacampagne che sarebbe un errore attribuire "tesi diametralmente opposte a Jacques Derrida o a Richard Rorty -che non hanno mai sostenuto nulla di simile". A rigore, Christian Delacampagne non afferma espressamente che Jacques Derrida e Richard Rorty aderiscono al realismo metafisico e alla concezione della verità-corrispondenza. Ma giacché egli scrive che "non si può che approvare queste due dottrine difese da John Searle, negando che Jacques Derrida e Richard Rorty vi si oppongano, lascia intendere innegabilmente che vi aderiscano. Dubito che egli abbia ragione.

Non avendo sufficientemente "visitato" i suoi scritti, per riprendere il termine adoperato dallo stesso Jacques Derrida in Le Monde del 20 novembre 1997, non so se Jacques Derrida aderisca alla tesi metafisica dell'indipendenza della realtà rispetto allo spirito umano e alla concezione della verità-corrispondenza. Ma, lo ripeto, ne dubito. In questo articolo di Le Monde intitolato "Sokal et Bricmont ne sont pas sérieux", Jacques Derrida metteva in guardia coloro "che non hanno letto ciò che avrebbero dovuto leggere per misurare le (... ) difficoltà" celate dalla sua opera. Mi domando se Christian Delacampagne non abbia sottostimato queste difficoltà esegetiche quando lascia intendere che Jacques Derrida aderisce alla tesi metafisica dell'indipendenza della realtà non mentale rispetto allo spirito umano e alla concezione della verità-corrispondenza.

Ciò che so per certo, al contrario., è che Richard Rorty non prova alcuna simpatia per queste dottrine. L'opera di Rorty appartiene alla tradizione pragmatista i cui fautori si

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sforzano, in linea generale, di trovare una via intermedia fra il realismo metafisico e l'antirealismo, e per i quali la verità è imparentata con l'utile. Nei suoi scritti, Richard Rorty oscilla fra due inclinazioni. Talora cerca di confutare il realismo metafisico e la concezione della verità-corrispondenza. Talaltra, si sforza di superare l'antinomia fra realismo e antirealismo, e di dissolvere l'opposizione fra la concezione della verità-corrispondenza e la concezione della verità-coerenza, opposizione che reputa un contrasto sterile o un problema pseudo-metafisico.

Per mostrare l'ostilità di Richard Rorty verso il realismo metafisico e la concezione della verità-corrispondenza. , prenderò a prestito da lui tre brevi citazioni. Come lascia intendere la presenza del termine inglese "mirror" (specchio) nel titolo della sua celebre opera Philosophy and the Mirror of Nature, Richard Rorty si leva in questo libro contro l'idea realista secondo la quale lo spirito umano aspira a riflettere (o a corrispondere a) una realtà indipendente da se stesso. A pagina 308 del libro, Rorty afferma che, in sostanza, il termine francese "vrai" significa approssimativamente "ciò che può essere difeso contro ogni obiezione". Ora, per l'appunto, un sostenitore della concezione realista della verità-corrispondenza obietterà a questa concezione d'ispirazione verificazionista del significato del termine "vero" che una proposizione può ben essere falsa se non corrisponde ai fatti, anche se nessun essere umano riuscirà mai a dimostrare che è falsa. Nel suo volume Consequences of pragmatism, Richard Rorty fa riferimento, per approvarla, alla concezione del pragmatista William James secondo cui il termine 'vero' somiglia al termine 'buono', nella misura in cui esso esprime una nozione normativa, vale a dire la nozione di un complimento reso agli enunciati che sono fonte di profitto e a quelli che sono compatibili con altri enunciati che sono fonte di profitto". Infine, in un capitolo dei suoi Philosophical Papers, intitolato "Le pragmatisme, Davidson et la verité", egli scrive, concordando nuovamente con William James: "Ai critici che gli obiettavano che una verità non è vera perché è utile, è utile perché è vera", James rispondeva che non avevano compreso la sua tesi secondo la quale 'vero' è espressione di approvazione e non un'espressione descrittiva adoperata per far riferimento ad uno stato di cose la cui esistenza spiegherebbe il successo di coloro le cui convinzioni sono vere. Secondo James, c'è una morale da trarre dal ripetuto insuccesso dei filosofi che ricercano la microstruttura della relazione di corrispondenza: semplicemente, non c'è nulla da scoprire e la verità non è una nozione esplicativa". E' dunque evidentemente errato pensare che Richard Rorty aderisca al realismo metafisico e alla concezione della verità-corrispondenza. E' azzardato attribuire a Jacques Derrida un'opinione determinata in proposito, ma è dubbio che egli vi aderisca. Perché un lettore attento come Christian Delacampagne ha dunque commesso questo errore? Lascerei da parte Richard Rorty ma per spiegare il fatto che Christian Delacampagne ha corso il rischio sconsiderato di attribuire a Jacques Derrida una dottrina cui è poco probabile che egli accordi la sua simpatia, presenterei la seguente congettura azzardata. La mia congettura si articola in due parti.

La prima parte ci riconduce a Sokal e Bricmont, i quali, come ho già detto, hanno efficacemente ridicolizzato certe tendenze di coloro che Christian Delacampagne si compiace di definire, a torto o a ragione, "i teorici della post-modernítà". Nella sua beffa (riprodotta nel libro di Sokal e Bricmont), Sokal aveva spigolato un'osservazione isolata

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di Jacques Derrida concernente, forse, la teoria della relatività generale. Ma nel resto del libro, Jacques Derrida è appena menzionato. In primo luogo si dimostra quindi che la critica dei "teorici della post-modernità" effettuata da Sokal e Bricmont costituisce ancora, più di un anno dopo la pubblicazione del libro, un contesto giornalistico abbastanza appropriato perché Christian Delacampagne abbia corso un primo rischio: quello di includere Jacques Derrida fra "i teorici della post-modernità". Jacques Derrida si riconosce fra "i teorici della 'post-modernità"? Lo ignoro. Ma poiché non figura fra i bersagli di Sokal e Bricmont, si può a buon diritto dubitare che sia fra quelli che hanno ceduto alla tentazione "scientista" degli umanisti e che sia un seguace del relativismo epistemologico. Per inciso, si può forse includere Richard Rorty fra i fautori del relativismo epistemologico, ma egli non ha certo mai ceduto alla tentazione "scientista" degli umanisti. In secondo luogo, John Searle, che è l'autore del libro recensito da Christian Delacampagne, ha in passato espressamente discusso e criticato gli scritti di Derrida (particolarmente in "The Word Turned Upside Down", nella New York Review of books del 27 ottobre 1983). Suppongo dunque che, in occasione di una recensione di un libro di John Searle, Christian Delacampagne abbia tenuto a dissociarsi dalle critiche di Searle e non abbia saputo trattenersi dall'esprimere la sua solidarietà a Derrida. A questo scopo, ha corso un secondo rischio: quello di prestare indirettamente a Jacques Derrida due dottrine metafisiche alle quali è poco probabile che egli aderisca: la tesi dell'indipendenza della realtà rispetto allo spirito umano e la concezione della verità-corrispondenza. Nel libro che Jaccard recensisce, Bouveresse scrive (p. 26): ""Non credo nella possibilità di conciliare le esigenze della produzione giornalistica con quelle del vero lavoro filosofico". Innegabilmente, le recenti recensioni di filosofia su un giornale come *Le Monde* confermano la diagnosi d Bouveresse.

LEARDO BOTTI Se i filosofi esagerano con le parole Sokal rivela le -"Imposture intellettuali" Nelle opere di Deleuze, Lacan e molti altri numerose idee scientifiche non esatte

Quando Edmund Husserl, il futuro fondatore della filosofia fenomenologica, era ancora un bambino, ricevette in regalo un piccolo coltello tascabile. Dopo un esame accurato ebbe però la sensazione che la lama non fosse abbastanza affilata. Era assolutamente necessario fare qualcosa. Iniziò ad affilare la lama, ma questa, sottoposta a un trattamento continuo e instancabile, divenne sempre più piccola, fino a scomparire... Depresso ma non scoraggiato, il vecchio Husserl raccontava questo episodio per descrivere il suo bisogno quasi fisico, carnale di una filosofia come scienza rigorosa. I tempi da allora sono mutati, e molte correnti filosofiche sono passate sotto i ponti: la tendenza ossessiva allo scavo e all'analisi infinita si è attenuata, con la transizione dall'universo della precisione al mondo del pressappoco. Molti filosofi avrebbero approfittato dell'allentamento del rigore e dell'appannamento dei confini concettuali per costruire fortune fasulle, edificate sulla confusione e la superficialità: questa l'accusa che Alan Sokal espone nel suo libro "Imposture intellettuali. Quale rapporto tra filosofia e scienza?" (scritto in collaborazione con Jean Bricmont, Garzanti). Come suggerisce il titolo, in questa antologia della rovescia Sokal riunisce le cantonate che autori come Lacan, Deleuze, Guattari, Kristeva, Irigaray hanno preso parlando di teorie fisiche

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e matematiche. Per suggestionare lettori e scrittori "ingenui", questi pensatori avrebbero cosparso le loro opere di concetti scientifici malcotti e maldigeriti. Ma sotto la sottile crosta di uno stile criptico e oracolare, secondo Sokal sono ben visibili le crepe di un pensiero basato più sulla fascinazione della parola che sulla costruzione di argomentazioni razionali. Accostando psicanalisi, sessualità e algebra, Lacan suggerisce ad esempio che "l'organo erettile viene a simbolizzare il luogo del godimento", rivelandosi "equivalente al -1 del significato prodotto prima, del godimento che esso restituisce attraverso il coefficiente del suo enunciato alla funzione di mancanza di significante: (-1)". E Felix Guattari, nel libro "Caosmosi" suppone che "l'esistenza, in quanto processo di deterritorializzazione, è un'operazione intermacchinica specifica che si sovrappone alla promozione di intensità esistenziali singolarizzabili". Ma di esempi simili é ricco tutto il libro. Lo stesso titolo, "Imposture intellettuali", ha scatenato una polemica furibonda, bruciando i ponti di ogni dialogo. Nel 1994, Alan Sokal, un fisico non ancora quarantenne dell'Università di New York, spedisce un saggio alla rivista americana "Social Text", realizzando una beffa simile a quella del falsi Modigliani in Italia. Costruito mettendo insieme assurdità e strafalcioni colossali presentati come risultati della meccanica quantistica, il saggio, pubblicato nella primavera del 1996 sotto il titolo "Transgreasing the boundaries. Toward a Transformative Hermeneutics of Quantum Theory", "dimostrava" che le più recenti ricerche in fisica confermano le tesi filosofiche dell'ermeneutica e del costruttivismo, sostanziando le "intuizioni " di autori come Derrida e Lyotard. Subito dopo la pubblicazione, Sokal denuncia la beffa sulla rivista "Lingua Franca", provocando grande scalpore e l'accusa di scatenare una caccia alle streghe contro la filosofia in nome di uno scientismo duro e puro. Ma, a più di tre anni dall'esplosione del Sokal, quale bilancio possiamo trarne? Secondo Massimo Mugnai, filosofo e storico della logica attento alle mistificazioni intellettuali, "Sokal ha messo in evidenza, demistificandoli, aspetti "curiosi" della filosofia continentale. Ma non trovo che il libro non abbia il respiro di un lavoro critico davvero fondamentale. Certo, anch'io ritengo che il pensiero di autori come Deleuze e Derrida sia confuso, fumoso, ampiamente sopravvalutato; ma le critiche a Thomas Kuhn mi sembrano fuori misura. Tutta la parte costruttiva, propositiva, è un po' debole, dilettantesca. Quando i filosofi si occupano di scienza, devono avere le carte in regole in questo campo Ma anche la filosofia è una disciplina tecnica, e prima dì affrontare temi filosofici anche lo scienziato deve prepararsi adeguatamente". Con valutazioni in parte diverse, il filosofo Alessandro Pagnini, dell'Università di Firenze, afferma che "c'è tra i filosofi francesi e italiani, tradizionalmente lontani dalla cultura scientifica, una tendenza a orecchiare dalla scienza, mutuandone tesi e stravolgendone il senso. Ma Deleuze, Foucault e il primo Derrida sono filosofi importanti. L'uso distorto di temi scientifici è proprio piuttosto dei loro epigoni". Trascinato dalla vis polemica, Sokal si è lanciato in un attacco forse troppo irruente e certamente troppo generico, inchiodando pensatori anche importanti a singoli passaggi infelici delle loro opere. Ma la reazione di chiusura e fastidio di molti filosofi preoccupa. La scienza senza la filosofia non è cieca, ma probabilmente la filosofia senza la scienza è vuota. E rischia di dissolversi.