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tudi e documenti S Aspetti della politica culturale del fascismo: il dibattito sul corporativismo e l’economia politica* Intorno alla tematica del rapporto fra cultura italiana e fascismo è in corso, fin dalla caduta del regime, un dibattito che solo negli ultimi anni è divenuto serra- to, contribuendo a mettere in discussione e superare consolidate e consolanti cer- tezze e a porre al centro dell’attenzione, in maniera più o meno esplicita, il tema stesso della collocazione degli intellettuali all’interno della società italiana e del- la lotta politica e sociale che in essa si è sviluppata in questo secolo. Posizioni diametralmente opposte vengono sostenute e suggerite, non senza un elemento di partecipazione etica e politica che è connaturato a questo tipo di di- spute, sia che si tratti, per alcuni, di tratteggiare un periodo di storia vissuto e sofferto o, per altri, di porre in discussione globalmente una tradizione che si avverte gravata dei caratteri di autoritarismo e conservatorismo che protendono ancora pesantemente sull’oggi la loro ipoteca. Vengono cosi riproposte, in ma- niera più articolata e sfrondate degli originali elementi dogmatici, le vecchie tesi di derivazione crociana che negavano ogni legittimità storica all’uso di locuzioni come « cultura fascista », in quanto la vera cultura avrebbe continuato a vivere di vita propria sotto e nonostante il fascismo, e vengono altresì formulate tesi che, assumendo quale chiave di lettura una « continuità » di segno opposto, sottoli- neano i caratteri di milizia reazionaria e, poi, di servile subalternità della cultura al regime dominante, non senza eccedere, talvolta, in argomentazioni di carattere moralistico che possono essere fuorviami in sede storica. Fra questi due estremi si delinea un ampio ventaglio di posizioni differenziate e diversamente articolate ’. Nuoce a questi contributi il carattere sovente astratto e quasi sempre volto a una definizione complessiva dell’argomento, che è un limite che risulta amplificato dal- l’assenza di una gamma esauriente di studi parziali e settoriali sui diversi aspetti del problema. Ma il limite maggiore di questi saggi di storia della cultura italiana * Si riproduce, con lievi modifiche e aggiornamenti, il testo di un articolo che sarà pubbli- cato in Polonia in un volume miscellaneo sui rapporti tra cultura, fascismo e seconda guerra mondiale, in preparazione di un convegno internazionale sull’influenza della seconda guerra mondiale sulla cultura dei paesi belligeranti e occupati organizzato dall’Accademia polacca delle scienze e dal Comitato polacco di storia della seconda guerra mondiale. 1 Si veda, per tutti questi testi, l ’introduzione di E ugenio G arin alla sua raccolta di saggi Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, 1974, che contiene anche un equilibrato riesame critico della questione.

Aspetti della politica culturale del fascismo: il dibattito sul

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Aspetti della politica culturale del fascismo: il dibattito sul corporativismo e l’economia politica*

Intorno alla tematica del rapporto fra cultura italiana e fascismo è in corso, fin dalla caduta del regime, un dibattito che solo negli ultimi anni è divenuto serra­to, contribuendo a mettere in discussione e superare consolidate e consolanti cer­tezze e a porre al centro dell’attenzione, in maniera più o meno esplicita, il tema stesso della collocazione degli intellettuali all’interno della società italiana e del­la lotta politica e sociale che in essa si è sviluppata in questo secolo.

Posizioni diametralmente opposte vengono sostenute e suggerite, non senza un elemento di partecipazione etica e politica che è connaturato a questo tipo di di­spute, sia che si tratti, per alcuni, di tratteggiare un periodo di storia vissuto e sofferto o, per altri, di porre in discussione globalmente una tradizione che si avverte gravata dei caratteri di autoritarismo e conservatorismo che protendono ancora pesantemente sull’oggi la loro ipoteca. Vengono cosi riproposte, in ma­niera più articolata e sfrondate degli originali elementi dogmatici, le vecchie tesi di derivazione crociana che negavano ogni legittimità storica all’uso di locuzioni come « cultura fascista », in quanto la vera cultura avrebbe continuato a vivere di vita propria sotto e nonostante il fascismo, e vengono altresì formulate tesi che, assumendo quale chiave di lettura una « continuità » di segno opposto, sottoli­neano i caratteri di milizia reazionaria e, poi, di servile subalternità della cultura al regime dominante, non senza eccedere, talvolta, in argomentazioni di carattere moralistico che possono essere fuorviami in sede storica. Fra questi due estremi si delinea un ampio ventaglio di posizioni differenziate e diversamente articolate ’.

Nuoce a questi contributi il carattere sovente astratto e quasi sempre volto a una definizione complessiva dell’argomento, che è un limite che risulta amplificato dal­l’assenza di una gamma esauriente di studi parziali e settoriali sui diversi aspetti del problema. Ma il limite maggiore di questi saggi di storia della cultura italiana

* Si riproduce, con lievi modifiche e aggiornamenti, i l testo di un articolo che sarà pubbli­cato in Polonia in un volume miscellaneo sui rapporti tra cultura, fascismo e seconda guerra mondiale, in preparazione di un convegno internazionale sull’influenza della seconda guerra mondiale sulla cultura dei paesi belligeranti e occupati organizzato dall’Accademia polacca delle scienze e dal Comitato polacco di storia della seconda guerra mondiale.1 Si veda, per tu tti questi testi, l ’introduzione di E u g e n i o G a r i n alla sua raccolta di saggi Intellettuali italiani del X X secolo, Roma, 1974, che contiene anche un equilibrato riesame critico della questione.

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è forse connaturato alle stesse caratteristiche di fondo della nostra « cultura » convenzionale, che finiscono per riverberarsi in maniera inconsapevole e incolpe­vole sugli stessi storici e critici di essa.A u n o s t u d i o a p p r o f o n d i t o e v e r s a t i l e d e l c o m e n a c q u e r o e s i s v i l u p p a r o n o i m o v i m e n t i c h e t r a s f o r m a r o n o l e c o s c i e n z e e l e r e a l t à d e l p a s s a t o — è s t a t o s c r i t t o r e c e n t e m e n t e i n u n l i b r o i m p o r t a n t e c h e n o n h a s o l l e v a t o p u r t r o p p o l ’ i n t e r e s s e e l e d i s c u s s i o n i c h e m e r i t a v a — è d ’ o s t a ­c o l o l a n o s t r a t r a d i z i o n e u m a n i s t i c a , c h e t e n d e c o n t i n u a m e n t e a s v i a r e l a r i c e r c a d i s t o r i a c u l t u r a l e s u l t e r r e n o d e l l a s t o r i a l e t t e r a r i a , e l a t r a d i z i o n e f ì l o s o f i c o - d o g m a t i c a , c h e t e n d e a r i t r a r l a e c o n f i n a r l a a i g r a n d i p r o b l e m i d e l l a f i l o s o f i a 2 .

L’esempio piu significativo che si può formulare, significativo proprio perché rife­rito a un’opera fondamentale e insostituibile e non a una delle banali e frequenti compilazioni di luoghi comuni, è quello delle Cronache di filosofia italiana 1900- 1943 di Eugenio Garin, nelle quali i nomi di Pareto e Pantaleoni non vengono mai citati. Si tratta, pure, di presenze che nella cultura italiana del ’900 hanno contato in maniera costante e duratura, influenzando e determinando lo svolgi­mento e gli esiti di interi settori della nostra cultura, meritando senza dubbio di essere poste accanto a quelle di Croce e Gentile da chi voglia offrire un quadro piu realistico e variegato di quello che realmente è stato il dibattito ideologico e culturale del novecento italiano, non riassumibile nella ricostruzione delle vi­cende connesse all’incontro, allo scontro e alla separazione dei due grandi numi tutelari del neoidealismo italiano e al dipartirsi di scuole differenziate ad essi ri- chiamantesi.Forse anche in virtu di tali limiti non ha trovato sufficiente spazio in questa sto­riografia l ’attenzione al dibattito sorto fra le due guerre intorno al tema del cor­porativismo, volta a volta ridotto a mero bluff propagandistico, sopravvalutato e caricato di significati trasparentemente allusivi a tematiche odierne3. Nato sul

2 G i u s e p p e A r e , Economia e politica nell’Italia liberale (1890-1913), B o l o g n a , 1 9 7 4 , p p . 9 - 1 0 ; l ’ a r g o m e n t a z i o n e è r i p r e s a d a l l i b r o d i F r a n c o V e n t u r i , Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, T o r i n o , 1 9 6 9 , p p . 3 - 4 , c h e c o s t i t u i s c e , p e r a l t r a e p o c a , u n e s e m p i o d i s t o r i a d e l l a c u l t u r a s e n z a c o m p a r t i m e n t i s t a g n i e s p e c i a l i s m i e s a s p e r a t i .3 N o n s i p u ò f a r e a m e n o d i n o t a r e c o m e s o v e n t e l e t e o r i z z a z i o n i s u l l ’ a r g o m e n t o m o s t r i n o d i m u o v e r s i s u u n a b a s e d i d o c u m e n t a z i o n e a s s a i l a b i l e . S i v e d a q u a n t o è s t a t o s c r i t t o d i r e ­c e n t e a p r o p o s i t o d e l c o n v e g n o d i F e r r a r a e d e l t e m a d e i « g i o v a n i » i n u n s a g g i o p u r e r i c c o d i s p u n t i v a l i d i : « S u l l a r e l a z i o n e d i S p i r i t o s i a c c e n d e s u b i t o l a d i s c u s s i o n e p o l e m i c a ; a d i f e n ­d e r n e l e t e s i s o n o — n o n c a s u a l m e n t e — s o p r a t t u t t o i g i o v a n i : M a s s i m o F o v e l , S e r g i o P a - n u n z i o e A g o s t i n o N a s t i , c h e , d i f e n d e n d o a s p a d a t r a t t a l a p o s i z i o n e d i S p i r i t o , g i u n g e f i n o a l p u n t o d i s o s t e n e r e c h e n è l u i n è g l i a l t r i g i o v a n i c h e p r e n d o n o p a r t e a l c o n v e g n o f e r r a r e s e t e m o n o l e i d e e n u o v e [ . . . ] » ( R o b e r t o R a c i n a r o , Intellettuali e fascismo, i n « C r i t i c a m a r x i ­s t a » , a . X I I I , g e n n a i o - f e b b r a i o 1 9 7 5 , n . 1 , p . 2 0 4 ) . P a n u n z i o e F o v e l e r a t u t t ’ a l t r o c h e « g i o ­v a n i » , e n o n s o l o a n a g r a f i c a m e n t e , i n q u a n t o p r o v e n i v a n o d a e s p e r i e n z e p o l i t i c h e e c u l t u r a l i t r a v a g l i a t e e c o n t r a d d i t t o r i e ; m a , a l d i l à d i q u e s t o , l a l o r o c o l l o c a z i o n e n e l d i b a t t i t o d i F e r r a r a f u a s s a i d i v e r s a d a q u e l l a c h e v i e n e l o r o a t t r i b u i t a . S e F o v e l a v e v a t e n u t o a d i s t i n g u e r s i d a l l e p o s i z i o n i d i S p i r i t o , P a n u n z i o a v e v a s f e r r a t o c o n t r o d i e s s e u n o d e g l i a t t a c c h i p i u v i o l e n t i e c o m p l e s s i v i r e g i s t r a t i i n q u e l l a a s s i s e ( c f r . M i n i s t e r o d e l l e C o r p o r a z i o n i , A t t i del secondo convegno di studi sindacali e corporativi, R o m a , 1 9 3 2 , v o l . I l i , p p . 1 2 3 - 1 3 6 ) . È i n t e r e s s a n t e r i c o s t r u i r e l ’ o r i g i n e d i q u e s t a s v i s t a , c h e n o n è n u o v a n e l l a l e t t e r a t u r a s u l c o r p o r a t i v i s m o . E s s a d e r i v a p e r c e r t o d a l l i b r o d i R . Z a n g r a n d i , I l lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, M i l a n o , 1 9 6 2 , p . 4 6 3 e s i r i s c o n t r a a d i s t a n z a d i m o l t i a n n i , a d e s e m p i o , i n C l a u d i o S c h w a r z e n b e r g , I l sindacalismo fascista, M i l a n o , 1 9 7 2 , p p . 6 2 - 6 3 . I n r e a l t à l e s o f f e r t e m a s p e s s o i m p r e c i s e m e m o r i e d i Z a n g r a n d i c o s t i t u i s c o n o t u t t o r a l ’ u n i c a t r a t t a z i o n e o r g a n i c a d i a l c u n i t e m i f o n d a m e n t a l i d e l l a s t o r i o g r a f i a s u l f a s c i s m o ( s i p e n s i a l t e m a d e i « g i o v a n i » ) e s e r c i t a n d o l a l o r o i n f l u e n z a a n c h e s u c h i c o s c i e n t e m e n t e r i t i e n e d i m u o v e r s i

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terreno dell’economia politica e della critica ai presupposti tradizionali di questa scienza, tale dibattito diveniva ben presto luogo di confluenza dei piu disparati filoni della « ideologia italiana », coinvolgendo nel fuoco della polemica (suscita­ta da una mole sorprendente di pubblicazioni e ravvivata dalla circostanza non trascurabile di essere l ’unico tema intorno al quale in quegli anni si potesse di­scutere con una certa libertà, in assenza di direttive univoche da parte del regime) nazionalisti e cattolici, filosofi gentiliani e sociologhi paretiani, economisti liberi­sti e socialisti rinnegati, giovani formatisi alla scuola del regime e anziani uomi­ni di cultura che credevano di aver trovato la via per un duplice e definitivo su­peramento degli aborriti sistemi economici di tipo liberale e socialista, attraverso un meccanismo politico e istituzionale che consentisse la composizione della lot­ta di classe e la collaborazione delle categorie produttive sotto l ’egida dello stato e nel « superiore » interesse della nazione.

Dall’esame di questo dibattito, delineatosi non solo in virtu di germinazione spon­tanea e di confluenza armonica di tendenze culturali preesistenti, ma anche gra­zie all’intervento massiccio e coordinato di uomini e organizzazioni del regime, può forse emergere una delle chiavi per superare l ’impasse storiografica in cui versa la discussione sul rapporto tra cultura e fascismo, muoventesi nei termini che in maniera generalissima abbiamo riassunto.Se sussistono infatti il dubbio e la disputa intorno all’esistenza storica di una cultura fascista (controversia sulla quale non ci interessa qui prendere posizione) anche per le accezioni diverse che lo stesso termine cultura può conoscere nella mente di chi intorno ad essa discorre, ci sembra che non possa essere in alcun modo negata l ’esistenza di una politica culturale del fascismo, che sul terreno cor­porativo trovò, almeno negli anni che vanno dalla costituzione del regime ditta­toriale al 1934, l ’esplicazione piu ambiziosa e maggiormente ricca di risultati, an­che quanto a diffusione internazionale4.

Bottai e l’attività culturale del ministero delle Corporazioni

Generalmente vien fatto risalire al 1929 l ’inizio del dibattito sul corporativismo e del suo successo fra gli intellettuali; se è vero che solo con la crisi del ’29 al fenomeno fu comunemente attribuito il valore di una « terza via » fra capitalismo e socialismo e conobbe su questa base un’ampia fortuna nel mondo capitalistico, ci sembra più giusto fissarne il termine cronologico al discorso di Pesaro e alla

in un’ottica opposta. L ’operazione preliminare per andare oltre Zangrandi dovrebbe comunque necessariamente consistere nel ripercorrere quelle vicende col massimo rigore filologico; molto importante, da questo punto di vista, i l lavoro su scala regionale di M a r i n a A d d i s S a b a ,

Gioventù Italiana del Littorio, La stampa dei giovani nella guerra fascista, prefazione di U. Alfassio Grimaldi, Milano, 1973.4 Ci limiteremo, nelle pagine che seguono, a ripercorrere alcuni momenti del dibattito sul corporativismo, senza alcuna pretesa di organicità. L ’organizzazione e la gestione della campagna corporativa non esauriscono, ovviamente, tutti gli aspetti della politica culturale fascista: su un momento particolarmente importante di essa cfr. G a b r i e l e T u r i , I l progetto dell’Enciclopedia Italiana: l ’organizzazione del consenso fra gli intellettuali, in « Studi Stori­ci », a. X II I , 1972, n. 1, pp. 93-152.

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successiva deflazione, cioè a quel clima suscitato dalla svolta della politica econo­mica fascista che rese possibile il dispiegarsi della pubblicistica relativa al cor­porativismo e la concreta assunzione delle sue fortune da parte del regime. Alla data del 1929 il nucleo dell’ideologia corporativa fascista, nei suoi vari aspetti e nelle sue varie tendenze e specificazioni, era già costituito.

Peraltro, di una « politica culturale » del fascismo si può cominciare a parlare solo dopo la costituzione del ministero delle Corporazioni, rappresentando i pre­cedenti momenti di aggregazione fascista nel campo della cultura null’altro che una prosecuzione della lotta di partito sul terreno culturale (è il caso del mani­festo degli intellettuali fascisti redatto da Giovanni Gentile e dall’Istituto na­zionale fascista di cultura), senza l ’impianto istituzionale e le velleità egemoniche che solo l ’esistenza di un regime poteva consentire. Questo ministero, privo per molti anni dello strumento specifico di intervento nella società da cui prendeva il nome (le corporazioni sarebbero state istituite soltanto nel 1934, per vivere di vita stentata e niente affatto incisiva sui meccanismi dell’eco­nomia nazionale), sotto la guida di Giuseppe Bottai, dal 6 novembre 1926 sottosegretario di Mussolini ma in pratica titolare del ministero stesso, tese ad assumere un ruolo ambizioso di cerniera fra lo stato e le masse inquadrate nei sindacati e di vero e proprio ministero della politica economica del regime che coordinasse l ’attività di tutti gli altri ministeri economici, superando così le nebu­lose attribuzioni di mediazione nei conflitti di lavoro che esso sembrava destinato ad assumere, senza peraltro disporre, come si è detto, degli strumenti adeguati. Un solo relativo successo, puramente concorrenziale, fu su questo terreno otte­nuto con l ’esautoramento del sindacato, concretizzatosi nello « sbloccamento » della confederazione sindacale fascista attuato nel ’28, dopo una campagna anti­sindacale alla quale Bottai e la sua rivista « Critica fascista » diedero un apporto rilevante, e che contribuì ad allontanare i sindacalisti dal vivo del dibattito cor­porativo, fattore che, aggiunto alla parallela diffidente perplessità di vasti settori confindustriali, valse a delimitare e circoscrivere in maniera duratura le caratte­ristiche di un dibattito che vide impegnati molto poco i rappresentanti delle forze portanti dello sviluppo economico italiano (e rispetto al quale lo stesso Mussolini si tenne per lo più in disparte, a differenza di quanto accadeva per altri miti coltivati dal regime).

Se la corporazione era stata infatti la bandiera di Rossoni e dei sindacalisti nei primi anni del fascismo, aveva perso ogni fascino per essi dopo il patto di pa­lazzo Vidoni e l ’affossamento di ogni speranza di corporazione unica; nel corso della polemica del ’28 i sindacalisti maturarono una vera e propria ostilità nei confronti del corporativismo e dei suoi teorici, tanto più in quanto questi ultimi erano organizzati e sostenuti dal ministero delle Corporazioni. Di fatto i sinda­calisti si estraniarono dal dibattito intorno al corporativismo, presi com’erano dalla lotta per la sopravvivenza delle loro organizzazioni e della relativa autono­mia che ancora ad esse veniva concessa (immediatamente successiva allo sblocca­mento fu la nuova sconfitta sul tema dei « fiduciari di fabbrica »), limitandosi ad intervenire solo quando vedevano ulteriormente minacciate le loro posizioni dagli sviluppi e dalle accentuazioni della « dottrina corporativa » e dai limitatissimi provvedimenti connessi alla sua attuazione.

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Ma, al di là degli obiettivi politici di grande portata che Bottai si prefiggeva e che non riuscì a conseguire, anche perché fu bruscamente rimosso nel luglio ’32 dal­l ’incarico di ministro che ricopriva dal 12 settembre 1929, in questi anni il mini­stero delle Corporazioni assunse soprattutto un ruolo di suscitatore e coordinatore della politica culturale fascista nei settori delle scienze giuridiche ed economiche, riuscendo ad attrarre e organizzare le forze più attive, per lo più giovanili, sorte all’interno del movimento sindacale e corporativo, esautorando anche in questo il sindacato. E non può non essere riconosciuto all’opera di Bottai come orga­nizzatore di cultura il tentativo, coerentemente espresso in tutta la sua vicenda politica, di operare un distacco fra le origini squadristiche del movimento fascista e la sua nuova dimensione di partito di governo, distacco che andava sancito e compiutamente realizzato anche attraverso una dignità culturale e una autonomia di pensiero: e indubbiamente quanto fu prodotto da e attraverso Bottai fu ciò che più si avvicinò a questi traguardi5. Tale ruolo di direzione culturale fu pre­minente all’interno del regime almeno fino alla costituzione, nel ’34, del sotto­segretariato per la Stampa e la Propaganda, elevato l ’anno successivo a ministero e quindi trasformato nel famoso e screditato ministero della Cultura popolare: evoluzione che coincise anche con uno svilimento della capacità di presa del fasci­smo sul mondo dell’alta cultura e con un abbandono sostanziale delle sue velleità egemoniche di lungo respiro, per appagarsi di una grigia routine di censura pre­ventiva sugli organi di stampa e di una politica di mance fondata sulla corruzione spicciola degli intellettuali consapevolmente cinica e senza prospettive ambiziose6.I l primo atto del nuovo ministero nel campo culturale fu la creazione di una rivista, « I l diritto del lavoro », che dal gennaio 1927 avrebbe costituito la tri­buna più importante e influente per gli orientamenti del regime nel settore giu­ridico, creazione avvenuta a ridosso dell’approvazione di quella Carta del Lavoro della quale possiamo oggi attribuire la paternità a Rocco7, e che rifletteva tanto la demagogia sociale dell’autore quanto quell’« ottimismo giuridico » che tante volte sarebbe stato rimproverato a Rocco e che avrebbe informato di sè gran parte della generazione dei corporativism, convinti che la realtà economica e sociale fosse modificabile per decreto.Rispetto alla successiva penetrazione fascista nel campo dell’economia politica, si può rilevare che nel settore giuridico essa fu assai meno contrastata e potè

s Cfr. S a b i n o C a s s e s e , Un programmatore degli anni '30: Giuseppe Bottai, in « Politica del diritto », a. I, 1970, n. 3, pp. 404 sgg.; di qualche utilità può essere anche la consultazione dell’antologia di Scritti di B o t t a i , curata da R. Bartolozzi e R. Del Giudice (Bologna, 1965) in maniera purtroppo acritica e senza presentare quasi mai i testi nella loro integrità. U tili osservazioni, non sempre condivisibili, su Bottai e sulla sua attività di organizzatore di cul­tura, sono in L u i s a M a n g o n i , L ’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo-, Bari, 1974; ma il libro della Mangoni, per la sua importanza, merita una attenzione critica di più ampio respiro che qui non è consentita.6 Si vedano ora, su molteplici aspetti della politica culturale fascista, le note di M a r i o

I s n e n g h i , Per la storia delle istituzioni culturali fasciste, in « Belfagor », a. XXX, maggio 1975, pp. 248-275.7 Cfr. R e n z o d e F e l i c e , Mussolini i l fascista, Torino, 1968, vol. I I , pp. 525-548; sulla particolare natura della Carta del Lavoro, a mezza via fra dichiarazione programmatica e testo normativo, cfr. i l saggio di U m b e r t o R o m a g n o l i , I l diritto sindacale corporativo e i suoi in­terpreti (Appunti per una storia delle idee giuridiche), in « Storia contemporanea », a.I, mar­zo 1970, n. 11.

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svilupparsi su un terreno molto più propizio, utilizzando la tradizione di idee improntate a un paternalismo autoritario molto vicine alle future realizzazioni fasciste che, oltre a Rocco, uomini come Santi Romano, Giuseppe Messina e Ludovico Barassi avevano messo in circolazione dal primo decennio del secolo, talvolta professando propensioni corporative ante litteram. Nei primi anni del regime fu infatti il settore giuridico quello in cui la politica culturale del fascismo ottenne i risultati per essa più lusinghieri, e verso il quale profuse le cure maggio­ri. Ancora nel 1930, al primo Convegno di studi sindacali e corporativi svoltosi a Roma, le relazioni e le discussioni di carattere giuridico avrebbero avuto la pre­minenza, fino a schiacciare lo stesso dibattito economico, non senza lamentele da parte di taluni economisti.Un giurista fascista fra i più impegnati animatori dell’esperienza dei « gruppi di competenza » sorta nell’ambito del partito fascista al tempo del primo governo Mussolini, Carlo Costamagna, sarebbe divenuto il 20 dicembre 1927 titolare della prima cattedra di diritto corporativo istituita in Italia, inaugurata da Bottai nella sua quabtà di sottosegretario alle Corporazioni, nella « fascistissima » Fer­rara, dando l ’avvio a una pratica sempre più diffusa negli anni successivi di pene- trazione nella cultura e nella scuola italiane. Fu la scelta delle cattedre « fasciste » una linea che non riscosse unanimità di consensi, se nel 1930 Giovanni Gentile, tracciando un primo bilancio di questa attività, poteva scrivere:Non voglio far dispiacere a nessuno; ma i l metodo adottato o che si vuole adottare, non solo non è il più adatto, ma è i l più contrario allo scopo che si vuol raggiungere. Non si tratta di aggiungere, ma di trasformare. I l fascismo è come la religione: la quale in una scuola non è, e non può essere, una materia di insegnamento da aggiungere alle altre; perché se le altre non sono religiose, la religione aggiuntavi non vi starà in funzione di religione [...]. I l fascismo non sarà una religione, ma è pure uno spirito nuovo e una concezione totalitaria [...] la quale investe tutta la vita, e deve perciò governare tutto i l pensiero. [...] La Facoltà fascista, sì, ci vuole, ma dev’essere la stessa Facoltà di Giurisprudenza, la stessa Facoltà di scienze poli­tiche, la stessa Facoltà di lettere.Perché si vogliono le nuove istituzioni? Si dice: perché le vecchie sono detenute da uomini di vecchia mentalità; e occorrono uomini nuovi, ai quali perciò conviene, almeno in un periodo transitorio, aprir l ’adito all’insegnamento con nuove Facoltà e nuove cattedre. E perciò, anche questa volta, questione di persone. Ma, senza dire che tante volte per avere questi uomini nuovi, bisogna chiudere un occhio sulla loro preparazione scientifica e didattica, e talvolta magari tu tt’e due, con grave discredito della nuova scienza nell’ambiente universitario e demo­ralizzazione conseguente dei giovani indotti a considerare questi nuovi insegnamenti come la scuola minorum gentium ; rimane sempre un inconveniente essenziale. Ed è quello di creare artificialmente quel che non si può ottenere naturalmente; e contentarsi quasi di appendere a una pianta sterile fru tti non suoi*.

Lo stesso Bottai alcuni anni dopo, informando Mussofini sullo stato di quella Scuola superiore di scienze corporative che egli dirigeva a Pisa e che, a giudicare dall’impegno personale profuso nella sua creazione e gestione, doveva stargli particolarmente a cuore, sottolineava aspetti non certo esaltanti della vita di quella che pure era, fra le scuole create dal fascismo, una scuola « modello »: il numero degli iscritti era in diminuzione, il titolo rilasciato alla fine dei corsi praticamente inutilizzabile nei concorsi ordinari e, seppure il « fervore intellettua­le » degli allievi era sempre alto, essi dimostravano una « soverchia preoccupa-

' G i o v a n n i G e n t i l e , Fascismo e Università, in « Politica sociale », a. I, luglio-agosto 1929, n. 4-5, pp. 333-336.

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zione dell’avvenire » che li portava a « calcolare troppo utilitaristicamente ciò che è immediatamente redditizio negli studi » 9.

Tale pratica proseguì, se pure in sordina, nel corso degli anni, affiancandosi alla pressione sulle cattedre e sugli istituti tradizionali esercitata sia attraverso stru­menti coercitivi clamorosi ma inefficaci, come il giuramento di fedeltà imposto ai professori universitari al quale solo 11 cattedratici rifiutarono di piegarsi, provvedimento dal quale il regime ottenne un indubbio successo propagandistico, per l’esiguità appunto dei rifiuti, ma da cui, per la stessa ragione, non ottenne la selezione forse sperata, sia attraverso metodi di condizionamento e di acqui­sizione del consenso più raffinati che un regime autoritario ma non privo di dut­tilità e accortezza nei rapporti con il mondo della cultura non aveva difficoltà ad escogitare e mettere in atto.

Fin dal ’29 esisteva, comunque, una rete non trascurabile di cattedre e scuole richiamantesi alle nuove discipline « corporative » I0. Lo stesso Bottai veniva nominato, nel ’30, professore stabile di politica ed economia corporativa nell’uni­versità di Pisa, dove fondava la scuola di perfezionamento già ricordata; analoga esperienza compiva nel ’36 a Roma. A Pisa il ministro delle Corporazioni fon­dava e dirigeva una rivista, l ’« Archivio di studi corporativi » che si poneva quale rassegna eclettica e aperta ai contributi delle tendenze più varie muoventesi all’interno del dibattito corporativo, collocandosi al fianco delle riviste più carat­terizzate e militanti (come, per non citare che le maggiori, i « Nuovi studi di diritto, economia e politica » dei gentiliani Spirito e VolpicelH, i « Nuovi proble­mi di politica, storia ed economia » che Nello Quilici e Giulio Colamarino avreb­bero fondato a Ferrara alla fine del 1930, « Lo Stato » di Carlo Costamagna e Ettore Rosboch, la « Politica sociale » di Renato Trevisani, e la rivista « Econo­mia » che accentuava il suo carattere corporativo con l ’ingresso nel comitato direttivo di Gino Arias, agiografo ufficiale delle « realizzazioni » corporative sul « Popolo d’Italia » e su « Gerarchia », organi personali di Mussolini).Tra le iniziative editoriali più importanti promosse da Bottai, almeno due vanno qui richiamate. La prima è la collana della scuola di Pisa, pubblicata presso la casa editrice Sansoni di Firenze (di cui era proprietario Giovanni Gentile), com­

9 Lettera di Bottai a Mussolini del 20 dicembre 1933 (Archivio centrale dello stato, Presi­denza del Consiglio, Rubrica n. 1, 1931-1933, Pisa: Università-Scuole, fase. 5, sottof. I. 11915). Nell’ambito della Scuola pisana era stato fondato nel 1931 il Collegio Mussolini, che offriva agli studenti e ai laureati che lo frequentavano « speciali e forti incentivi allo studio, molte­plici opportunità di lavoro nel Collegio stesso e nei laboratori della Scuola, e soprattutto un ambiente nel quale si contemperfavano) i l raccoglimento propizio alla maturazione delle idee e la vivace adesione ai problemi politico-sociali della rivoluzione fascista », secondo quanto affermava Widar Cesarmi Sforza nella prefazione a un volume che raccoglieva le elaborazioni dei migliori allievi di quel collegio ( N i c o l a P i n t o , A n t o n i n o R u s s o , M a r i o F e r r a r i A g g r a ­

d i , D a n i l o d e ’ C o c c i , V i t t o r i o O t t a v i a n o , Saggi di studi corporativi, Pisa, 1939, p . V I ) .

Nel 1932 veniva costituito anche un « Osservatorio economico », annesso alla scuola, destinato alla documentazione sulle esperienze economiche degli altri paesi.10 Per una esposizione sintetica ma completa di queste iniziative al 1929, si veda l ’articolo di G. B o t t a i , L ’attività culturale del Ministero delle Corporazioni, in « Rassegna economica dell’Europa mediorientale », gennaio 1929, n. 1, pp. 6-8; alcuni cenni molto schematici sulla Scuola di perfezionamento in scienze corporative di Ferrara sono in A l e s s a n d r o V i ­s c o n t i , La storia dell’Università di Ferrara (1931-1950), Bologna, 1950, pp. 209-211.

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posta per lo più di antologie su temi di attualità bruciante, quali la crisi econo­mica capitalistica e le esperienze di economia programmata: la collaborazione di studiosi di varia nazionalità, acquisiti all’ideologia corporativa o simpatizzanti per essa, assicurava all’iniziativa un valore propagandistico non indifferente sul piano nazionale, facendo apparire la soluzione italiana come la più moderna e universalmente ammirata risposta ai problemi d’ordine mondiale emergenti dalla crisi11. Con spegiudicatezza ancora maggiore Bottai avrebbe operato pubblicando nella stessa collana scritti di Stalin, Molotov e altri dirigenti sovietici, nell’intento sia di guidare e orientare un interesse per l ’esperienza sovietica che si sapeva non frenabile con censure troppo rigide, sia di spacciare quella esperienza come una sorta di « fascismo imperfetto », i cui motivi di validità universale sarebbero stati già sussunti e integrati in una forma superiore dal corporativismo italiano 11 I2.L ’altra iniziativa degna di nota è l ’assunzione da parte di Bottai, assieme a Cele­stino Arena, della cura della « Nuova collana degli economisti » della casa edi­trice UTET di Torino 13 che si riallacciava a una tradizione prestigiosa e stretta- mente intrecciata alla stessa storia del pensiero politico italiano risorgimentale e postunitario, e che dal 1932 avrebbe preso a pubblicare, in volumi dall’impo­stazione spesso confusa e incoerente, testi di grande valore e attualità (ricorde­remo, fra i meno consueti, testi di Schumpeter, Beveridge, Webb, Hicks, nonché lo scritto di Antonio Labriola In memoria del Manifesto dei Comunisti e lo stesso testo del Manifesto di Marx ed Engels) 14.La stessa scelta dell’Arena quale condirettore della collana era indicativa dei me­todi di Bottai. Era questi un economista che nel periodo della crisi Matteotti aveva simpatizzato per la democrazia amendoliana, firmando anche uno dei molti documenti di intellettuali che chiedevano l ’intervento della Corona per il ripri­stino delle libertà statutarie, atteggiamento che gli sarebbe stato in seguito aspra­mente rinfacciato da riviste che, come « La vita italiana » di Giovanni Preziosi, si erano assunte un compito di vigilanza delatoria all’interno del regime. Ma la

11 Cfr. La crisi del capitalismo, scritti di P i r o u , S o m b a r t , D u r b i n , P a t t e r s o n , S p i r i t o ,

con appendice bibliografica di G. B r u g u i e r (1933); L ’economia programmatica, scritti di B r o ­

c a r d , D o b b e r t , H o b s o n , L a n d a u e r , L o r w i n , S p i r i t o , appendice bibliografica di B r u g u i e r

(1933); Nuove esperienze economiche, scritti di B e c k e r a t h , C o l e , C o n d l i f f e , D o b b e r t , L o r ­

w i n , N a g a o , S p i r i t o (1935). Tutte le antologie erano brevemente introdotte da Bottai.12 bolscevismo e capitalismo, prefazione di G. Bottai, Firenze, 1934, comprendeva il rap­porto di Stalin al X V II Congresso del PC (b) dell’URSS e scritti di M o l o t o v , K u y b u s c e v e G r i n k o (commissario per le finanze dell’URSS al tempo della pubblicazione). Si veda, anche l ’antologia L ’economia sovietica, curata l ’anno successivo da Gerhard Dobbert con prefazione di Alberto de’ Stefani.13 Tra i curatori delle diverse sezioni di quella collana troviamo i nomi di A ttilio Garino- Canina, Gino Arias, Gustavo Del Vecchio, Giovanni Demaria, Giorgio Mortara, Guglielmo Masci, Giuseppe Ugo Papi, Gino Borgatta, Mauro Fasiani, Roberto Michels, con il netto pre­dominio, come si vede, dei liberisti fiancheggiatori del fascismo sui fascisti veri e propri.14 Delle tre edizioni del Manifesto pubblicate in epoca fascista (unica pubblicazione di testi di Marx ed Engels in generale) due furono promosse da Bottai: nel X II volume (curato dal Michels) della collana UTET citata, frammisto al saggio di Labriola ma anche a testi di Max Weber, Pareto, Simmel e finanche Achille Loria, e ne Le Carte dei diritti, primo volume cu­rato da Felice Battaglia nel 1934 della collana « Classici del liberismo e del socialismo » che Bottai curava, con Spirito e Volpicelli, per la casa editrice Sansoni. La terza e più nota edizione fu promossa da Croce nel ’38 in appendice alla ristampa del saggio di Labriola per la casa editrice Laterza di Bari.

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rivista di Bottai « Critica fascista », recensendo nel ’28 un libro di Arena, ormai convertitosi al fascismo, dopo aver sottolineato lo sforzo compiuto dall’autore per riscattare il suo passato democratico, aveva scritto significativamente:Anche se questo debba non tornare comodo a molti di noi, non si può ammettere che scrittori e intellettuali già dell’altra sponda, accettato che abbiano con prove indubbie il regime, riman­gano in eterna situazione di reprobi e in una costante inferiorità morale che mortifichi i l loro studio e i l loro contributo. Certamente non sarà dato loro un compito direttivo politico, nè il comando di una legione, ma si avrà cura di sfruttare e incanalare le felici attitudini dello studio e l ’inestimabile patrimonio delle conoscenze acquisite [...] ls.

Parole queste in certo senso programmatiche della politica culturale del fascismo, a cui i responsabili di essa avrebbero tenuto fede pur istituendo diversi livelli di integrabilità, variabili a seconda della distanza del punto di provenienza degli interessati. AU’ex-riformista Rinaldo Rigola fu consentito di pubblicare una rivista di fiancheggiamento alle « realizzazioni sociali » del fascismo, i « Problemi del lavoro », ma in veste di tollerato più che di integrato, sempre esposto alle am­monizioni e agli attacchi della stampa del regime. Eguale sorte fu riservata al- l ’ex-comunista Nicola Bombacci e alla sua « La verità », fino all’estrema abiezione della repubblica di Salò, nella quale Bombacci guadagnò il privilegio di venire giustiziato accanto ai gerarchi che lo avevano foraggiato e umiliato per tanti anni.Si trattava di figure inutilizzabili per il loro passato, se non come ingenue esem­plificazioni di una relativissima pluralità di voci da sbandierare all’estero; radi­calmente diverso era invece il caso delle competenze e delle intelligenze sulle quali il regime aveva realmente la possibilità di contare. Gioverà ricordare che anche Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe, dirigendo di fatto rispettivamente l ’Enciclopedia italiana e l ’Istituto per gli studi di politica internazionale, due istituzioni a diverso titolo fondamentali della politica culturale fascista, mostra­rono la stessa « liberalità » di Bottai, pur nei confronti di intellettuali con minore intensità o punto ravveduti.

Scienza economica e corporativismo

I l carattere astratto e generico della disputa intorno al corporativismo fu spesso sottolineato nel corso dello svolgimento del dibattito. Ad esempio Einaudi affer­mò a chiare lettere, in polemica con Spirito:Si discute, si, tra gli adepti della Chiesa economica, ma non su quei primi principi dell’egoismo, dell ’homo oeconomicus, della libera concorrenza, da cui i laici immaginano siano gli econo­misti tanto preoccupati “ . 15 16

15 « Critica fascista », 15 ottobre 1928, n. 20, pp. 399-400 (recensione di U g o D ’A n d r e a

a C e l e s t i n o A r e n a , Mussolini e la sua opera. La politica sociale, Roma, 1928).16 L u i g i E i n a u d i , Se esista, storicamente, la pretesa repugnanza degli economisti verso il concetto dello Stato produttore, nei « Nuovi studi di diritto, economia e politica », a. IV , 1930, fase. 5, riprodotto anche in U g o S p i r i t o , I l corporativismo, Firenze, 1970, da cui abbia­mo tratto la citazione a p. 272.

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In realtà lo stesso Einaudi non sarebbe stato alieno dal ricorrere spesso a questo tipo di argomentazioni, ponendosi sullo stesso terreno che abitualmente depre­cava: non solo e non tanto impegnandosi in polemiche di carattere elevato e distaccato come quella intrecciata con Benedetto Croce intorno ai concetti di « liberismo » e « liberalismo », ma anche e soprattutto negli interventi politici e ideologici in difesa dei principi del libero mercato che avrebbe compiuto nel dopoguerra contrastando le timide velleità programmatrici che in quell’epoca sa­rebbero emerse 17.Ma ciò che più conta rilevare è che questo tipo di discussione, malgrado la sua astrattezza, o forse proprio in virtù di essa, segnava l ’intreccio fra economia e po­litica sul terreno della battaglia ideologica risultando in grado, proprio per la sua genericità e per la riducibilità a concetti elementari e idee-forza delle argomen­tazioni adottate, di coinvolgere e mobilitare vasti settori di opinione pubblica intellettuale e di quadri intermedi del partito e dello stato fascisti, come già era avvenuto, in altro quadro politico, nel corso della polemica fra liberisti e prote­zionisti (dominata dai primi sul piano culturale ma vinta dai secondi sul piano dell’influenza sulle scelte economiche nazionali) nei decenni precedenti, e che costituiva come il retroterra implicito o esplicito di molte delle nuove discussioni accese intorno all’ipotesi corporativa. Proprio la ricorrente controversia intorno alla validità e alla stessa « moralità » della figura tradizionale dell 'homo oeco- nomicus, evocata da Einaudi nel passo citato, simboleggiava meglio di ogni al­tro esempio la continuità fra vecchio e nuovo antiliberismo. Nel fuoco delle battaglie protezionistiche, che avevano reso possibile l ’ingresso nell’agone poli­tico italiano dei movimenti nazionalistico-demagogici della piccola borghesia, tale polemica aveva già dato vita a una diffusa « forma di moralismo economico vacuo e inconcludente » I8 19, accomunando in una sostanziale identità di dissenso nazionalisti, cattolici e idealisti. Un mediocre economista e pubblicista, che rias­sumeva in sé gli elementi più banali e correnti delle tendenze citate, Gino Arias, aveva nel 1919 delineato l ’odiata figura dell’homo oeconomicus in termini che sintetizzavano efficacemente la polemica dei suoi detrattori:

[...] il soggetto dell’attività economica è l ’individuo, anzi un certo individuo, immutato ed immutabile, eterno come la Divinità; è l ’uomo, anzi è l ’uomo, eppure invano cercheresti il giorno della sua nascita e non sapresti se è vivo o se è morto. Non vive certo come tu tti gli altri uomini, ma riman lì senza moto e senz’anima; passioni non ne ha, sentimenti neanche e di pensieri non ne ha avuto mai che uno solo: strappare ai suoi simili i l più che si può, dando in cambio il meno che si può “ .

I corporativisti delle varie tendenze, concentrando il fuoco contro il facile ber­saglio della filosofia edonistica che era implicita nelle teorie degli economisti « puri » (e che aveva trovato in Italia il suo momento di maggiore e più chiara esplicitazione nella prefazione di Maffeo Pantaleoni ai suoi Principii di economia pura, della quale Gramsci scrisse che poteva attagliarsi anche ad un libro di

17 C f r . i testi einaudiani e crociani raccolti in Liberismo e liberalismo, a cura di Paolo Sola­ri, Milano-Napoli, 1957.15 A n t o n i o G r a m s c i , I l materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Torino, 1948, p. 267.19 G. A r i a s , L o Stato e l ’Economia, « Politica », a.I, 16 giugno 1919.

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cucina) mostrarono di non cogliere il carattere di astrazione storicamente deter­minata dell’ipotesi àcll’komo oeconomicus, che costituiva la sua validità in quan­to descrizione di una determinata forma di società20. Pure una polemica siffatta, condotta nei termini qui delineati, conobbe in questo periodo una grande dif­fusione, e momenti di vera e propria drammaticità negli anni 1931-’32 21 22. Molti altri esempi dello stesso tipo potrebbero venire avanzati, procedendo nell’esame dei vari aspetti del dibattito corporativo. La verità è che i responsabili della poli­tica culturale del fascismo, e Bottai in particolare, si resero pienamente conto del valore politico della mediazione culturale che gli economisti esercitavano e dell’importanza dell’egemonia e del controllo su un settore della cultura nel quale si dibattevano e si elaboravano, per divulgarli attraverso canali di pubblicizza­zione che raggiungevano le masse e contribuivano a formare la pubblica opinione, i principi e i fondamenti costitutivi della stessa ideologia dei rapporti sociali e dell’organizzazione della società; di qui scaturivano la quantità e la qualità sem­pre crescente degli strumenti di penetrazione culturale di cui il fascismo si for­niva su questo terreno, e le stesse caratteristiche dell’organizzazione del dibat­tito sul corporativismo, che non fu mai affidato alla spontaneità delle forze in campo, ma fu sempre orientato dall’alto, in maniera più o meno discreta, in base alle esigenze dettate dagli sviluppi del dibattito stesso, o dal quadro politico nazio­nale e internazionale in cui la politica del regime si muoveva.Lo stesso esordio del dibattito cosciente e organizzato intorno al corporativismo rientrava all’interno di queste caratteristiche, nascendo da una presa di posizione di « Critica fascista » che nel marzo 1928, dopo aver affermato che nel gruppo di scienze su cui il fascismo aveva fino ad allora operato non figurava l’economia politica, dichiarava che i tempi erano maturi per una penetrazione fascista in quella scienza « cardine fondamentale della vita sociale dei popoli », per rinno­varla profondamente e superare « quella che i liberali chiamano economia politica e che noi chiamiamo economia liberale », per poi concludere, in tono di sfida:i l fascismo non si arresterà neppure di fronte a questa complessa battaglia, e [...] i l fantoccio della libertà economica non lo turberà, così come non lo ha turbato i l fantoccio della libertà politica “ .

I l primo intervento si aveva nel maggio 1928 ad opera di Gaetano Napolitano, un mediocre pubblicista « corporativo » che trasferiva sulle colonne di « Critica fascista » una polemica con Lello Gangemi che si era già sviluppata in altra sede e che sarebbe proseguita nel corso degli anni, tingendosi anche di caratteri per­sonalistici, e che sarebbe riemersa nel corso del convegno di Ferrara23.

20 Ancora Gramsci, annotava in margine a questa polemica che « l ’economia classica è la sola ‘ storicista ’ sotto l ’apparenza delle sue astrazioni e del suo linguaggio matematico, mentre proprio lo Spirito dissolve lo storicismo e annega la realtà economica in un diluvio di parole e di astrazioni » { I l materialismo storico, cit., p. 274).21 Cfr., per alcuni riferimenti bibliografici sommari, i l nostro saggio Ugo Spirito e i l corpo­rativismo, in «Studi Storici», a.XIV, 1973, n. 1, pp. 80-81.22 Economia e fascismo, « Critica fascista », 15 marzo 1928 (editoriale).23 G a e t a n o N a p o l i t a n o , Principi economici vecchi e nuovi, in « Critica fascista », mag­gio 1928, pp. 165-167. I l Napolitano era stato autore di un Corso di economia politica svolto sui principi della Carta del Lavoro, Roma, 1927, che recava in appendice uno scritto di Bottai {Aspetto economico della Carta del Lavoro)-, i l suo volume era stato criticato dal Gangemi

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I l Napolitano affermava l ’esigenza di staccare i principi liberali dalle leggi del­l ’economia politica con le quali venivano fino ad allora confusi, e di separare nettamente il sistema economico corporativo da quello comunista e da quello liberale; il fascismo aveva sostituito alla « legge barbara della libera concorrenza e della lotta [...] quella nuova e cristiana della collaborazione », alla cieca legge della domanda e dell’offerta aveva opposto « il vigile intervento dello Stato », alla legge ipotetica dell’equilibrio economico generale « l ’altra dell’equità econo­mica reale » ecc... per cui il principio ispiratore della nuova scienza economica poteva definirsi la ricerca del « massimo di utilità [...] mediante la disciplina uni­taria delle pubbliche e private attività, in armonia con gli interessi superiori della Nazione ».Una nota redazionale chiariva che « Critica fascista » aveva inteso in ottem­peranza all’indirizzo professato nell’editoriale del 15 marzo dare la parola « al camerata Napolitano » per un’autodifesa che trovava sostanzialmente solidale la rivista, e invitava a intervenire Gangemi e quanti altri volessero interloquire nella discussione. Gangemi replicava affermando che non aveva mai inteso negare « l ’inevitabile avvento dei nuovi istituti ed ordinamenti » imposti dalla vita economica e perseguiti dal fascismo, ma che su questi andava riflettuto con cura « al fine di averli strumenti fattivi di controllo antidemagogico e non organi pra­ticamente inutili o vessatori o demagogici ». La ricerca e l ’accettazione del nuovo non implicavano, comunque, la messa in mora della scienza tradizionale e delle sue leggi, che erano leggi generali applicate da qualsiasi sistema economico, nè la pretesa di edificare un sistema economico fascista e corporativista:

I l fascismo, realizzatore ed attualista, non è scienza, ma è intelligenza per ben conoscere e valutare le scienze [...] i l mondo economico non si può regolare artificialmente a capriccio del socialismo o del primo utopista di altro genere che si sogna di trasformare questo vecchio mondo indurito dagli errori24.

Non esisteva una economia fascista, come non esisteva una economia liberale, in quanto « l ’economia è quella che è ed il fascismo è soprattutto propulsore formidabile di ogni singola attività umana ». Se i fatti mostravano un innegabile ampliarsi della sfera d’intervento dello stato, ciò non contrastava con i dettami della scienza economica, ma al contrario andava interpretato come intervento riequilibratore dell’armonia del mercato:[...] tutta questa attività dello Stato non può essere qualificata come un intervento diretto, ma bensì creazione di quell’atmosfera a mezzo del corporativismo entro la quale i singoli produttori si muovono liberamente e più proficuamente nell’interesse nazionale. In poche pa­role, l ’attività dello Stato in questo campo ha la funzione preziosissima di abbattere e distrug­gere tu tti gli ostacoli di qualsiasi natura che si frappongano al libero sviluppo dell’Economia della Patria, rispettando le ragioni dell’Economia!

s u « B i b l i o g r a f i a f a s c i s t a » , 1 9 2 8 , n . 1 , p . 2 3 e p o i , c o n p i ù a m p i e z z a , s u « L a V i t a I t a ­l i a n a » , g e n n a i o - f e b b r a i o 1 9 2 8 , p p . 8 3 s g g . L a s o s t a n z a d i q u e s t o i n t e r v e n t o e r a g i à s t a ­t a a n t i c i p a t a d a l N a p o l i t a n o c o n u n o s c r i t t o s u « I l d i r i t t o d e l l a v o r o » (La nozione di econo­mia corporativa), g e n n a i o - f e b b r a i o 1 9 2 8 , p p . 5 3 s g g .24 L e l l o G a n g e m i , Principi economici vecchi ed eternamente nuovi, i n « C r i t i c a f a s c i s t a » , 1 5 m a g g i o 1 9 2 8 , n . 1 0 , p p . 1 8 2 - 1 8 5 . G a n g e m i e r a s t a t o n e g l i a n n i 1 9 2 0 - 2 2 f u n z i o n a r i o d e l l a C o n f i n d u s t r i a e s u c c e s s i v a m e n t e c a p o d e l l ’ U f f i c i o S t a m p a d e l m i n i s t e r o d e l l e F i n a n z e .

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Aspetti della politica culturale del fascismo 15

Apparentemente mediatrice era la posizione del paretiano Ettore Lolini, il cui contributo la rivista presentava come « forse definitivo » per la risoluzione della disputa; egli infatti criticava quanto di anacronistico gli sembrava presente nelle concezioni degli economisti liberali che si attardavano a difendere una sorpassata accezione della legge psicologica del minimo mezzo, senza accorgersi che il mondo moderno era, sì, dominato da essa, ma nelle nuove forme della lotta economica fra nazioni e fra grandi gruppi e categorie di produttori25. Ma nella definizione dei compiti statuali del nuovo erigendo regime economico, il Lolini negava implici­tamente le velleità di costruzione di una scienza economica nuova, non individua­listica, che stavano alla base della polemica:

Lo Stato Corporativo dovrà [...] lasciare liberi di svolgersi, attraverso l ’attività privata, tutti quegli egoismi individuali e di categoria, che si risolvono in gare di capacità o concorrenza economica, senza sboccare a monopoli e privilegi economici, perché l ’aumento della produzione e i l progresso economico nazionale non saranno possibili se non attraverso la molla dell’inte­resse personale

sì che il Gangemi poteva calorosamente assentire alle sue tesi26.Se si eccettua un lungo e incoerente intervento di Fovel, che esponeva i risultati a cui era pervenuto nella ricerca di una « teoria economica pura del corporati­vismo »27, risultava netta la prevalenza nel dibattito dei difensori della scienza economica tradizionale.Gustavo Del Vecchio assicurava che il fascismo non era più lontano dagli inse­gnamenti classici dell’economia di quanto non fossero stati i governi precedenti e che d’altronde, se pure qualche iniziativa fascista era contraria agli insegna- menti della scienza, ciò non era un male irreparabile né per il regime né per la teoria, poiché le teorie si applicavano per tentativi e attraverso inevitabili oscil­lazioni, e tutti i regimi adottavano in pratica il sano empirismo che respingevano a livello dottrinale: anche per questo era risibile sostenere la connessione tra il liberismo e il liberalismo culminante nella democrazia parlamentare, ché « le linee fondamentali immutabili » della scienza economica quali erano state segnate due secoli prima dai fisiocrati non erano suscettibili di strumentalizzazione politica, nè potevano essere sostituite da nuovi principi ispirantisi a qualsivoglia ideologia28. Con decisione ancora maggiore Alfonso de’ Pietri Tonelli negava ogni autonoma validità teorica al corporativismo:L ’economia razionale e la politica economica sono conoscenza e rientrano nel campo della pura attività spirituale. I l fascismo è azione e rientra nel campo dell’attività pratica. [...] In quanto pura scienza, l ’economia razionale e la politica economica non possono essere liberali né socia­

25 E t t o r e L o l i n i , Dall’economia individualista all’economia corporativa, in « Critica fa­scista », I luglio 1928, n. 13, pp. 242-245.24 L. G., Chiarificazione necessaria: i l discorso 'Bottai sul Bilancio delle Corporazioni e un articolo di Lolini, in « La vita italiana », giugno 1928, pp. 358-360.27 N. M. F o v e l , Scienza economica ed economica corporativa, in « Critica fascista », n. 18, 15 settembre 1928, pp. 340 sgg. e n. 20, 15 ottobre, pp. 392 sgg.21 G u s t a v o D e l V e c c h i o , L ’economia del fascismo, « Critica fascista », n. 14, 15 lu­glio 1928, pp. 263-264; una nota redazionale, oltre ad esprimere il compiacimento della rivista per l ’intervento di uno studioso della fama di Del Vecchio, riconosceva che la distinzione di questi ribadita fra la scienza economica e « la varietà delle tendenze e delle dottrine politiche » sembrava raccogliere i maggiori suffragi nel corso dell’inchiesta.

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listiche, né fascistiche. Tali aggettivi implicano i l riferimento ad idealità, norme ed azioni pra­tiche, che non sono più soltanto conoscenza. [...] In quanto uomini di studio, i l cultore del­l ’economia razionale e quello della politica economica, possono conoscere o no i movimenti sociali, quali i l liberalismo, i l socialismo, i l fascismo. I l parteggiare, i l consigliare, l ’operare in tal campo, va oltre la pura conoscenza. Reciprocamente, in quanto uomini di parte e di azione, i l liberale, i l socialista, i l fascista non possono che conoscere o ignorare, come le altre scienze della società e della natura, ciò che può anche importare poco o nulla ai fini pratici di quei movimenti25.

Di fronte a una presa di posizione così esplicita, la rivista dichiarava il suo dis­senso e si riservava di concludere il dibattito alla luce dei contenuti offerti dagli intervenuti: il che non sarebbe poi di fatto avvenuto, ché all’ultimo intervento del giovane industriale Benigno Crespi, presentato come espressione dell’ultima generazione del mondo industriale, « sensibile alle idee nuove e pronta alle loro applicazioni », e che in realtà non si spingeva al di là di banali affermazioni di buona volontà e di esortazioni al produttivismo, non seguiva alcuna conclusione, forse per l ’imbarazzo dei redattori di fronte a una discussione che aveva assunto una piega diversa da quella auspicata e che aveva rivelato la debolezza, anche sul piano puramente propagandistico, di una tendenza « corporativista » ancora insufficientemente protetta e programmata, come sarebbe avvenuto negli anni successivi, con largo dispendio di mezzi e con larga mobilitazione di tribune appositamente costituite.

Abbiamo voluto riassumere con una certa ampiezza, al di là del suo intrinseco valore, questo dibattito iniziale, non solo perché esso segnava il punto di par­tenza della lunga diatriba fra corporativism e liberisti, ma anche perché in esso sono esemplarmente contenuti, malgrado l ’assenza delle voci che acquisteranno maggiore risonanza per l ’eccentricità e il radicalismo delle posizioni sostenute (pensiamo soprattutto ad Ugo Spirito), alcuni elementi di fondo e caratteristici che permarranno in tutto il corso della disputa. Vi è, da parte dei sostenitori della nuova dottrina, l ’incapacità di uscire dalla genericità delle affermazioni di prin­cipio e di trovare appiglio in altri dati della realtà che non fossero gli asseriti indirizzi della politica economica del regime, ai quali con altrettanta sicurezza gli esponenti della scienza economica tradizionale potevano rifarsi, senza rinun­ciare alla fedeltà incondizionata ai principi, ritenuti naturali e immutabili, del­l ’economia politica classica. Ma si delinea già, in nuce, l ’atteggiamento della poli­tica culturale fascista, quale emergerà con nettezza al termine degli inani tentativi di costituire una « nuova » scienza economica fondata sul principio corporativo e in grado di esercitare, in maniera totalitaria, l ’egemonia sul quadro culturale nazionale: l ’appagarsi, in pratica, del consenso alla politica economica del regime tributato, con maggiore o minore convinzione, dagli economisti, per lasciarli liberi di proseguire senza sostanziali mutamenti o accentuazioni gli studi e le elabora­zioni tradizionali che conducevano nelle università e sulle riviste specializzate.Dietro l ’influsso delle ripercussioni, anche teoriche, della grande crisi e sull’onda delle suggestioni delle grandi esperienze, pur difformi, di programmazione econo­mica, il dibattito conoscerà punte di innegabile interesse, ma il suo livello medio,

” A l f o n s o d e ’ P i e t r i T o n e l l i , Scienza e pratica sociale, « Critica fascista », n. 20, 15 ottobre 1928, pp. 389-390.

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amplificato e riprodotto da una innumerevole serie di organi pubblicistici, risulterà immutato, se non peggiorato.' Così pure risulterà immutato, salvo poche e spe­cifiche eccezioni, quel costante divorzio tra la parola e il fatto che è stato segna­lato come caratteristica di fondo della vita del regime 30.

D o p o l ’ a b o l i z i o n e d e l l a s f e r a p o l i t i c a d e m o c r a t i c a r e s t a s o l o l a v i t a e c o n o m i c a ; i l c a p i t a l i s m o o r g a n i z z a t o n e i d i v e r s i s e t t o r i d e l l ’ i n d u s t r i a d i v e n t a l ’ i n t e r a s o c i e t à . Q u e s t a è l a s o l u z i o n e f a s c i s t a 31.

Nessuno meglio di Karl Polanyi aveva saputo sintetizzare, nel 1935, le conclu­sioni logiche a cui poteva giungere un osservatore straniero provvisto di acu­tezza intellettuale e non disposto a farsi fuorviare dalla propaganda, fascista o filofascista, sulla « terza via ». Ma si trattava pur sempre di un giudizio che si fondava sui dati di questa propaganda, ancorché capovolti nel segno, piuttosto che sui dati della realtà.Sulla realtà effettuale dell’evoluzione economica e dei rapporti sociali negli anni della grande crisi il corporativismo e le corporazioni vere e proprie, quando fu­rono istituite, incisero poco o nulla. I fenomeni più delicati e destinati a pesare sulla struttura della società italiana che si delinearono in quel periodo, come la costituzione dell’IM I e dell’IRI, la riforma bancaria del ’36 e, in genere, il tipo di risposta alla crisi non dissimile in Italia, se pure provvista di una sua origina­lità, rispetto alle soluzioni maturate in altri paesi capitalistici, si determinarono completamente al di fuori delle strutture corporative, senza neppure che al loro interno si discutesse (se non per approvare a cose fatte) degli indirizzi da se­guire32. I l corporativismo restò soprattutto fenomeno conchiuso e circoscritto nel terreno ideologico, sul quale era nato e si era sviluppato.Gli stessi temi fondamentali dell’economia e della società italiana non riuscirono a trovare posto all’interno di questa pubblicistica. Nulla di lontanamente parago­nabile alle riflessioni di Gramsci sulla questione meridionale o alla Storia della grande industria che il giovane Rodolfo Morandi scriveva in quegli anni venne prodotto nel clima culturale del corporativismo fascista. Si può forse dire che la realtà straniera fu esaminata con occhi più attenti e più pronti che non quella ita­liana. In questa letteratura si possono trovare riferimenti più frequenti alla valle del Tennessee o alle steppe siberiane che non al latifondo siciliano o alle molteplici drammatiche situazioni delle regioni italiane più arretrate. Negli anni della crisi si poteva infatti registrare una attenzione rinnovata e qualitativamente diversa, non più esclusivamente propagandistica, verso le grandi esperienze eco­nomiche straniere; non solo nei confronti degli Stati Uniti, osservati di volta in volta con l ’apprensione di chi si sente sodale o con la gioia repressa di chi assiste

30 V i t t o r i o F o a , Le strutture economiche e la politica economica del regime fascista, in Fascismo e antifascismo (1918-1936). Lezioni e testimonianze, Milano, 1962, vol. I, p. 281.31 K a r l P o l a n y i , The Essence of Fascism, in Christianity and the Social Revolution, a cura di J. Lewis, K. Polanyi e K. Kitchin, London, 1935, p. 392.32 Cfr. S a b i n o C a s s e s e , Corporazioni e intervento pubblico nell’economia, in « Quaderni storici delle Marche», a. IV , 1968, n. 9, pp. 402-457; per uno dei pochi studi sul funziona­mento dell’apparato corporativo post-1934, si veda l ’introduzione di A. Aquarone e M. Vernas- sa alla raccolta di saggi I I regime fascista, Bologna, 1974.

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al crollo di un avversario, morale oltre che politico, ma anche, sempre più spesso, con la tendenza implicita a registrare e accreditare una evoluzione « corporativa » dell’economia americana, sì che la formula del Roosevelt « fascista » circolante nel Comintern trovava una involontaria conferma in Italia33, ma soprattutto nei confronti dell’Unione Sovietica, già da tempo osservata con ambivalente senti­mento di attrazione-repulsione. In questi anni l ’interesse per l ’Unione Sovietica e il suo piano quinquennale è costante e assai più ampio che in passato e, seppure le condanne globali e apodittiche e gli scritti di propaganda appaiono sempre do­minanti nel quadro di questa pubblicistica, aumentano sensibilmente le voci che tendono a evidenziare un parallelismo storico fra la rivoluzione sovietica e la « rivoluzione » fascista e ad isolare piano quinquennale ed economia corporativa come fenomeni rivoluzionari e innovatori in lotta entrambi contro un mondo in declino.Anche i momenti più controversi del riformismo europeo, come il Plan du Travail di Henri De Man, conobbero ampia recezione nell’Italia fascista. Croce in per­sona e l ’allievo più eccentrico di Gentile, Ugo Spirito, si fecero editori delle sue opere, il primo per riproporre, fin nel titolo adottato per la traduzione itabana del Zur Psychologie des Sozialismus, la sua vecchia e costante opera in direzione del « superamento del marxismo »34, il secondo per trarre conferma, dalla stessa bnea adottata da un importante partito operaio d’Europa, della tendenza inelut­tabile al corporativismo che gli pareva all’ordine del giorno nei fatti economici e politici dell’epoca35. Di tutto questo lavorio intellettuale e di tutto questo interesse per le esperienze internazionali nessuno può negare, ovviamente, l ’im­portanza, nè il fattore di sprovincializzazione che, al di là dell’influsso diretto e delle intenzioni degli operatori culturali che a questa materia presiedevano, può essersi imposto nella formazione dei fruitori di questo materiale: fatto sta che tutto questo aveva come corrispettivo una ignoranza drammatica dei termini reali della situazione italiana, che si rivelerà in tutta la sua gravità negli anni dell’immediata ricostruzione postbellica.

Ruralizzazione e industrializzazione

D’altronde se volessimo guardare al momento in cui con maggiore intensità fu­rono toccate, nel quadro del dibattito pubblicistico di quegli anni, alcune que­

33 C f r . F r a n c o C a t a l a n o , New Deal e corporativismo fascista di fronte alle conseguenze della grande crisi, in « I l movimento di liberazione in Italia », n. 87, aprile-giugno 1967.34 I I testo citato di De Man (del 1926) fu pubblicato in italiano con il titolo I I superamento del marxismo (suggerito da Croce e accettato dall’autore) dalla casa editrice Laterza di Bari nel 1 9 2 9 . La stessa casa avrebbe pubblicato nel ’ 3 1 un nuovo volume del D e M a n , La gioia del lavoro.35 H . D e M a n , I l Piano del lavoro, Firenze, 1935, con saggio introduttivo di Ugo Spirito, traduzione e note di Delio Cantimori; per Spirito i l Piano De Man rappresentava « una delle forme più evolute e meno dogmatiche dell’idea socialista » ed esaminarlo voleva dire porre in evidenza « quel punto critico, raggiunto il quale i l socialismo deve degenerare e morire ovvero sopravvivere convertendosi nel corporativismo ». Per altri aspetti della « fortuna » italiana del De Man, si veda A l d o A g o s t i , Le matrici revisioniste della « pianificazione demo­cratica »: i l pianismo, in « Classe », giugno 1969, n. 1, pp. 241-260.

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stioni di fondo degli indirizzi della politica economica fascista, ci accorgeremmo paradossalmente che esso era solo indirettamente e in senso lato attinente ai temi specifici dell’organizzazione corporativa dello stato e della società. Ci riferiamo al dibattito tra fautori della ruralizzazione e dell’industrializzazione e alla sua specificazione polemica occorsa nel 193036.

Nel primo fascicolo dell’« Archivio di studi corporativi » di Bottai, Ugo Spirito pubblicava un articolo dal titolo Ruralizzazione o industrializzazione? nel quale coglieva le contraddizioni insite nella politica economica fascista, allorché questa affermava essere l ’aumento della popolazione e il massimo sviluppo dell’agricol­tura le sue finalità dominanti: in realtà la politica di ruralizzazione, lungi dal con­sentire l ’incremento demografico, ne era — secondo Spirito — l ’ostacolo mag­giore, perché il reddito decrescente della terra non avrebbe mai consentito un aumento della ricchezza nazionale proporzionale all’aumento della popolazione 37. Industria e progresso o industria e civiltà erano « termini equipollenti », e sarebbe risultato un anacronismo un paese prevalentemente agricolo, appoggiato cioè su quello che è solo il primo gradino della vita economica; un tale indirizzo sarebbe anche stato in contrasto con le velleità della politica estera italiana: economia agricola era « sinonimo di economia patriarcale, antiespansionistica, antimperia­listica per eccellenza » 38.

Né valevano come giustificazione di una politica di ruralizzazione gli argomenti di ordine morale e etico, quali quelli che, con nobiltà di accenti, presiedevano alla ideologia « ruralistica » di Arrigo Serpieri per il quale il fenomeno dell’inur­bamento era un dramma di dimensioni immani, che colpiva alla radice la solidità etnica e morale della nazione: con cruda insofferenza nei confronti della retorica ruraleggiante che dominava nella pubblicistica dell’epoca, Spirito affermava che la storia non l ’avevano fatta certo gli uomini della terra, e che Serpieri aveva torto nel contrapporre le virtù primitive dell’innocenza a quelle salde della con­sapevolezza, perché

L ’uomo che s’inurba è un po’ come il fanciullo che diventa adulto e perde, si, l ’ingenuità che lo faceva docile, ubbidiente e incapace di compiere i l male per l ’ignoranza di esso, ma acquista al tempo stesso la coscienza di una superiore vita spirituale, in cui i l contrasto tra il bene e il male è legge fondamentale e imprescindibile. [...] Rispettiamo i l contadino e cerchiamo di educarlo, ma non lo aduliamo attribuendogli una virtù che non può avere: altrimenti si in-

56 Cfr., su questa polemica, S i l v i o L a n a r o , Appunti sul fascismo « di sinistra ». La dottrina corporativa di Ugo Spirito, in « Belfagor », a.XXVI, 30 settembre 1971, pp. 577-599.37 Cfr. ora, con lo stesso titolo, ne II corporativismo, cit., pp. 447 sgg.3! Si vedano le analoghe annotazioni di Gramsci a proposito dell’ideologia ruralistica e anti- americanistica di Giuseppe Attilio Fanelli, che con la sua attività in difesa dell’artigianato quale espressione più schietta dell’indole degli italiani « portati nella bottega » rappresentava « l ’estrema destra retriva » nella situazione italiana: « È da notare che le ‘ idee ’ esposte dal Fanelli hanno avuto, in certi anni, una grande diffusione, ciò che era in curioso contrasto col programma ‘ demografico ’ da una parte, e col concetto di ‘nazione militare ’ dall’altra, poiché non si può pensare a cannoni e corazzate costruite da artigiani o alla motorizzazione coi carri a buoi, nè al programma di un’Italia ‘ artigiana ’ e militarmente impotente in mezzo a Stati altamente industrializzati con le relative conseguenze militari: tutto ciò dimostra che i grup­pi intellettuali che esprimevano queste lorianate in realtà s’infischiavano, non solo della logica, ma della vita nazionale, della politica e di tutto quanto » (A. G r a m s c i , Gli intellettuali e l ’or­ganizzazione della cultura. Torino, 1949, p. 189).

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dulge, anche senza averne la minima intenzione, alla retorica dei letterati o per lo meno al sentimento idillico e nostalgico del cittadino, che si affaccia di tanto in tanto e con animo intenerito al mondo della campagna. Quella superiore poesia è soltanto nella mente raffinata dell’uomo colto, e perciò cittadino “ .

Volere una industria fiorente senza grandi città era una contraddizione in termini: non era l ’urbanesimo che andava combattuto, bensì la sua forma « disorganica e tumultuaria »: l ’errore stava nel difendere la tradizione italiana dal processo di industrializzazione, invece di cercare « di industrializzarci secondo la nostra tradizione ». L’esempio più tipico di questa industria rispondente al carattere nazionale era, secondo Spirito, quella automobilistica, una industria fra le più elevate e perfette dal lato tecnico, per la quale occorreva un elemento uomo più preparato e intelligente, confermando così che il problema si spostava in realtà « dalla materia prima all’uomo ». In conclusione, l ’unica via non illusoria che poteva essere seguita per rivalutare l ’agricoltura e per scongiurare l ’abbandono della terra doveva essere « la progressiva attenuazione ed eliminazione di ogni differenza sostanziale tra la vita urbana e la vita rurale »: di qui le parole d’or­dine « industrializzazione ad oltranza » e « urbanizzazione delle campagne » che Spirito lanciava alla fine del suo articolo.Va tenuto conto, nel valutare questa presa di posizione, del fatto che la polemica tra i fautori dell’industrializzazione e quelli della ruralizzazione non era una ge­nerica e retorica disputa fra arcaicità e modernità; le ragioni dei sostenitori della ruralizzazione non affondavano del tutto le proprie radici nella retorica e nel passatismo, ma rispondevano a tendenze in qualche modo vitali nella società ita­liana, anticipando una diffusione generale del fenomeno che sarebbe avvenuta in Europa negli anni ’30 in coincidenza con la crisi e la stagnazione economica, al­lorché l ’agricoltura e la rendita agricola avrebbero assunto il valore di una « li­nea di resistenza » contro la penetrazione del commercio internazionale capitali­stico39 40; la società italiana anche in questo campo conosceva con un anticipo di tre-quattro anni le tendenze che si sarebbero affermate nelle società europee, a causa della precoce fase di stagnazione che la nostra economia aveva sofferto; e, se si pensa che la « bonifica integrale » fu l ’unico tentativo di pianificazione at­tuato nel ventennio (malgrado l ’ingente letteratura esornativa al riguardo) e

39 I I corporativismo, op. cit., pp. 453-454; Serpieri, al contrario, vedeva nella « ruralizzazio­ne » la chiave per un risanamento anche morale e civile dell’Italia: « [...] l ’uomo di Stato che guarda lontano, all’avvenire della patria, si accorge con turbamento profondo dei mali germi che si diffondono dalle mostruose agglomerazioni cittadine: vede i campi fatti deserti di vita, dove la pecora caccia gli uomini: vede le terre denudate dalla materna protezione delle selve, o abbandonate dalla quotidiana cura dell’agricoltore, che ritornano allo stato selvaggio, in preda alla furia distruggitrice delle acque; vede, più ancora, le belle numerose famiglie spezza­te; l ’egoismo irrompente anche nella più sacra delle funzioni umane, la generazione; vede gli uomini irrequieti, scontenti; tu tti gli egoismi individuali sfrenati, tutte le lotte inacerbite, tu tti i germi di disgregazione lanciati a minare la saldezza della compagine sociale. E vede anche, paurosamente, tutta la vita della Nazione appesa alla possibilità di approdo di qualche nave annonaria che viene di lontano, per portarci i l pane quotidiano; prodotto, forse, dalle braccia di figli della nostra terra, che emigrarono in cerca di fortuna. Sorge allora i l grido del ritorno alla terra-, ma è tardi. L ’acqua non risale naturalmente verso il monte: nè vi sono meccanismi abbastanza potenti per richiamare gli uomini che abbandonarono la terra alla tran­quilla e sobria vita rurale » (Problemi della terra nell’economia corporativa, Roma, 1929, pp. 109-110).* Cfr. Lucio V i l l a r i , I l capitalismo italiano del Novecento, Bari, 1972, p. 375.

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che essa fu varata nello stesso anno in cui l ’Unione Sovietica lanciò il suo primo piano quinquennale, si comprenderà come intorno alla « ruralizzazione » si foca­lizzassero intelligenze ed animi non sempre « retrivi », ma dotati, anzi, di una particolare sensibilità verso aspetti fra i più moderni della vita economica: tale era, ad esempio, Arrigo Serpieri, massimo teorico e artefice di quella politica (e si potrebbe scorgere in questo contrasto fra la modernità di impianto concet­tuale di essa e l ’incredibile arretratezza della sua realizzazione concreta, con quel vano invio di legioni di rurali a coltivare intensamente frumento per migliaia di ettari, un altro esempio di quella « eterogeneità dei fini » rispetto ai risultati, della quale ha scritto Emilio Sereni a proposito di Serpieri e della sua concezio­ne del ruolo della mezzadria nell’Italia fascista)41. Non vogbamo riferirci, par­lando di relativa modernità del fenomeno, ai suoi aspetti letterari e di costume: intorno alla ruralizzazione fu impostata e condotta una campagna di stampa che a un certo punto si rese autonoma rispetto al fine per il quale era stata lanciata ed esorbitò dai limiti di cassa di risonanza per aspetti particolari della politica del regime nei quali doveva essere circoscritta, continuando per inerzia e amplian­do costantemente la sua penetrazione, anche perché venne incontro a una situa­zione della cultura italiana particolarmente propizia per la recezione e lo sviluppo del tema, e a una conformazione sociale e territoriale del fascismo che favoriva il formarsi di sacche di contenimento regionali dell’irrequietezza e dello scom­posto velleitarismo piccolo-borghese all’interno delle quali una ideologia rurali- stica o « campagnola » assumeva ambizioni e portata ben più vaste di quelle circoscritte alla politica di ruralizzazione. È evidente che uomini come Serpieri, per i moventi e le problematiche da cui erano ispirati, non possono essere identi­ficati se non esteriormente con i coloriti interpreti dello Strapaese toscano, che, al di là del valore letterario dei loro scritti, assunsero un ruolo innegabilmente retrivo dal punto di vista politico e culturale (come quando incitavano gli italia­ni a preferire il rutto del loro pievano all’America con la sua boria, perché « die­tro l ’ultimo italiano / c’è cento secoli di storia ») non riscattato, ci sembra, dal­l ’ambiguo rivoluzionarismo verbale che li contraddistingueva e che ha suggerito a più d’uno una « rivalutazione » del loro ruolo nella cultura italiana di quegli anni.Che un contrasto reale e non fittizio investisse i termini dello sviluppo economi­co nazionale, ci sembra testimoniato dal contemporaneo e parallelo dipartirsi delle campagne di stampa per la « ruralizzazione » e delle analoghe campagne che ten­devano a creare nell’opinione pubblica e nei gruppi dirigenti il terreno adatto per l ’assunzione di programmi fordisti, entrambe, se pure con minore intensità, gratificate di appoggi concreti e « ufficiali » da parte del regime4Z.

“ Cfr. E. S e r e n i , L ’agricoltura in Toscana e la mezzadria nel regime fascista e l ’opera di Arrigo Serpieri, in La Toscana nel regime fascista (1922-1939), Firenze, 1971, vol. I, pp. 329- 337.42 A l di là di ogni mito, e a conferma della necessità d i un riscontro strutturale per ogni manifestazione ideologica, non si può non ricordare come proprio negli anni di avvio della politica di « ruralizzazione » l ’Italia cominciasse, prima in Europa, a costruire brevi tratti di autostrade.

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La contraddizione è meno stridente di quanto potrebbe sembrare, anche perché in Italia, a differenza che in altri paesi, la polemica contro il macchinismo non conobbe una fortuna e una penetrazione di massa negli anni della crisi. L’« ideo­logia del progresso » fu anche qui condannata e vilipesa, ma esisteva una robu­sta tradizione al riguardo, che accomunava nello stesso ripudio i « principi del- l ’89 », l ’evoluzionismo ottocentesco e la versione del marxismo accreditata in Italia; l ’interesse del regime esigeva però l ’esaltazione delle forze produttive, dell’intervento statale e delle sue realizzazioni nel campo delle opere pubbliche, per cui anche le forze culturali della « ruralizzazione » non spinsero a fondo in una propaganda radicale contro l ’industria e il macchinismo. I tentativi non man­carono, ma provennero quasi sempre da settori estranei alla politica culturale del regime: da certi ambienti clericali di provincia, tesi costantemente nello sforzo di dimostrare come si potesse essere più reazionari dei fascisti (ma non le voci ufficiali della cultura cattolica, ché anzi la rivista dei gesuiti « Civiltà cattolica » si trovò paradossalmente a difendere la civiltà moderna contro i nemici dell’ur­banesimo, e, nello stesso tempo, l ’Università Cattolica con la sua « Rivista inter­nazionale di scienze sociali » fornì una veste esteriormente moderna alle medie- valeggianti dottrine del corporativismo cattolico)43, e, va aggiunto, anche da al­cuni settori dell’antifascismo di formazione liberale, dai quali si levarono talvolta condanne globali della civiltà moderna, in ciò che di più caratteristico aveva as­sunto dopo la rivoluzione industriale, e auspici di ritorni all’industria individuale e « creativa » 44.Spirito combatteva dunque le ambiguità e le indecisioni che nel regime impediva­no il dispiegarsi del programma razionalizzatore e modernizzatore dell’economia italiana che egli, al pari degli americanisti, sentiva come missione dell’economia corporativa fascista; in questo ambito, la sua posizione acquisiva una indubbia originalità ed autonomia, non priva di accenti anticonformisti di particolare au­dacia, laddove manifestava a chiare lettere orientamenti che presso altre tribu­ne erano soltanto sottintesi. Abbiamo accennato alla sua opposizione alla ruraliz­zazione anche in nome dei programmi di espansione imperialistica del fascismo, che egli avallò sempre acriticamente, e, se si aggiunge che egli manifestò sempre la propria ostilità ad ogni politica autarchica, con o senza la giustificazione dello stato di necessità, la sua originalità assumerà maggiore rilievo; senza questi ele­menti risulterebbero incomprensibili affermazioni come quelle professate nel sag­gio del quale abbiamo trattato, a proposito della penetrazione del capitale stra­niero in Italia, che non potevano che colorirsi di un sapore blasfemo all’interno

43 Cfr. ad esempio su « Civiltà cattolica » del 17 agosto 1929 la recensione di A. Brucculeri S. J., l ’esperto abituale in « questioni corporative » della rivista, a L ‘artigianato di G. A. F a ­

n e l l i .

44 Cfr. ad esempio G i n a F e r r e r ò L o m b r o s o , Le tragedie del progresso, Torino, 1930; quan­to alla fortuna fra le due guerre di una ideologia antitecnicistica e della esaltazione dell’arti- gianato, cfr. M a u r i c e C r o u z e t , L'epoca contemporanea, Firenze, 1959, pp. 151-153, che in­dividua opportunamente le radici di simili atteggiamenti in un diffuso senso di sgomento di fronte al progresso materiale da parte di settori marginali di una società impreparata a rinno­varsi e ad adeguarsi alla nuova situazione, e documenta l ’estensione internazionale del feno­meno, che tocca anche e soprattutto le società industrialmente più avanzate (come risulta dalla legislazione degli armi della crisi negli Stati Uniti, in Germania e in Francia).

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di una pubblicistica che considerava questa come la peggiore iattura per l ’eco­nomia nazionale:

Una nazione che si sente forte non deve avere paura del capitale straniero e deve anzi deside­rarlo, come quello che contribuisce alla sua affermazione nel mondo15.

Il declino dell’ideologia corporativa

In seguito non si riprodussero momenti capaci, come questa polemica del 1930, di coinvolgere nella stessa misura gli indirizzi economici del regime là dove più sembravano popolari e acquisiti alla generalità della pubblica opinione; le posi­zioni di Spirito su questi temi non conobbero uno sviluppo ulteriore, nè le sue stesse tesi più note e discusse, quali quelle della « corporazione proprietaria » (sorta di azionariato operaio strutturato nel rispetto delle gerarchie acquisite) e del superamento delle contrapposizioni aprioristiche fra fascismo e bolscevismo in direzione di un arricchimento reciproco e competitivo dei due sistemi, pro­dotte entrambe con grande scandalo al Convegno di Ferrara del ’32, furono in grado, al di là del clamore sollevato e del rimescolamento di carte non disutile prodotto all’interno del dibattito corporativo, di porre l ’accento in forma critica su contraddizioni reali del regime, contribuendo anzi a rinsaldarne le basi.L’esistenza di una tendenza come quella che si richiamava all’esperienza dei « Nuo­vi studi » di Spirito e Volpicelli era infatti estremamente opportuna per il fasci­smo, laddove cooperava a mantenere al suo interno settori giovanili che non sem­bravano disposti ad appagarsi della più tradizionale e burocratica immagine del corporativismo quale emergeva dagli ordinamenti approvati e dai parziali e timidi tentativi di applicazione di essi: il regime consentì, almeno fino al ’35, che Spi­rito e Volpicelli offrissero a tutti costoro un surrogato di « bolscevismo », onde esorcizzare quello autentico. Inoltre Spirito, con la sua lunga e distruttiva pole­mica contro gli economisti, si era inserito in una vasta operazione di politica cul­turale che tendeva a ridurre l ’egemonia, ideale e concreta, degli economisti libe­risti nelle università italiane, al fine di favorire l ’inserimento in esse di una nuo­va generazione di economisti di tendenza corporativa e, nello stesso tempo, di assicurare più agevolmente al fascismo l ’adesione e il concreto e militante appog­gio degli stessi esponenti della scienza economica tradizionale resi più accomo­danti dalla minaccia che sembrava incombere sulle loro cattedre: operazione che, nei suoi elementi essenziali, riscosse, a nostro avviso, un notevole successo.

Infine, le stesse tesi di Spirito a Ferrara, oltre a imprimere una rilevante accele­razione al programma accennato, consentirono al fascismo di proiettare all’ester­no una sua immagine « democratica »: Bottai, che conosceva da tempo il testo della relazione, invece di servirsi della sua autorità di ministro per suggerire o imporre modifiche ai passi incriminabili, preparò con cura l ’esordio del suo di­scorso sul fascismo regime nel quale « si discute », tema che fu ampiamente ri- Il

45 I l corporativismo, cit. p. 459.

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preso dalla stampa estera, con non trascurabile successo propagandistico del re­gime.Illuminante per comprendere gli esiti della tendenza nata dall’esperienza dei « Nuovi studi », da molti interpretata come fondamento teorico di un mitico « fa­scismo di sinistra », è d’altronde la lettura della voce Rappresentanza, scritta nel 1935 da Arnaldo Volpicelli per l ’Enciclopedia italiana*6. In essa emergeva chia­ramente un atteggiamento che, dietro una apparente coerenza (stessi temi, stesso linguaggio degli anni precedenti) rivelava una supina accettazione degli orienta­menti ufficiali in campo politico ed economico, e un’opera di mistificazione a fa­vore di essi. Di fronte al problema se fosse realmente possibile l ’immedesimazio- ne assoluta di società e stato, Volpicelli affermava chela risposta a questa domanda è offerta in re dallo Stato corporativo fascista, quale esso viene delineandosi nell’ordine politico e istituzionale. Esso infatti si afferma e si attua sempre più come uno Stato coincidente con la stessa intera collettività nazionale corporativamente orga­nizzata.

L’utopia veniva posta come già realizzata; non c’era più una sia pur relativa spin­ta per la realizzazione di un programma, ma la contemplazione soddisfatta di uno « stato ideale » che si spacciava come ormai felicemente conseguito:L ’organizzazione corporativa del popolo costituisce insieme lo Stato e i l corpo sociale; l i esau­risce ed immedesima, in guisa che tra le due vecchie entità non resta, né è possibile, opposi­zione o distinzione alcuna. I l corpo sociale corporativamente organizzato è esso stesso lo Stato, e questo altro non è che l ’organizzazione sociale che si governa da sè (autogoverno delle Cor­porazioni) [...] Lo Stato corporativo fascista quale esso si delinea è uno Stato coincidente con la stessa e intera collettività, e non rappresentativo di essa. Perciò appunto davvero libero e generale.

Veniva alla luce in maniera fin troppo evidente, perché ormai preponderante, quel­la componente apologetica e mistificatoria che, in effetti, era sempre stata pre­sente negli scritti di Spirito e Volpicelli; e la fortuna di essi negli anni 1927-34 ci sembra riconducibile infatti, prima ancora che alla innegabile capacità di svi­luppare, nei momenti più felici, tutte le estreme implicazioni che si annidavano nel mito corporativo affermatosi nella cultura italiana negli anni del fascismo al potere, o ad una assai poco verisimile capacità di rappresentare spinte provenienti « dal basso », alla rispondenza della loro produzione dottrinaria alle esigenze poli­tiche del regime.Dopo le leggi del 1934, con le quali vennero istituite —■ come ebbe a scrivere Bottai — « le corporazioni senza corporativismo »46 47 questo tipo di letteratura non conobbe riflussi sul piano quantitativo ma vide ulteriormente diminuire la sua qualità e l ’interesse ad essa legato. Potremmo indicare schematicamente due tappe del suo sviluppo: quella degli anni della svolta imperialistica, nei quali il corporativismo fu interpretato e diffuso più che altro quale fattore di ordine e di potenza della compagine nazionale, e del quale non si riusciva più a parlare sen­za fare della retorica, e quella degli anni della guerra, nel corso dei quali, dopo

46 Cfr. anche il più ampio Legislazione e rappresentanza nello Stato corporativo fascista, in « Nuovi studi di diritto, economia e politica », 1935, fase. I - I I , di tenore analogo.47 G. B o t t a i , Verso il corporativismo democratico o verso una democrazia corporativa? in « I l diritto del lavoro », a. XXVI, 1952, n. 3-4.

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che la istituzione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni nel 1939 ebbe defi­nitivamente deluso quanti si erano illusi su un suo carattere, se non innovatore e rivoluzionario, quanto meno efficientistico e razionalizzatore, il mito corpora­tivo decadde vertiginosamente nella più ordinaria amministrazione. I l fascismo « repubblicano », asservito ai nazisti, non volle più nemmeno riassumere nel suo programma un ordinamento del quale doveva riconoscere il fallimento, puntando invece sulla demagogica e disperata proposta di « socializzazione » delle imprese.Per comprendere il conto nel quale era tenuto il corporativismo negli ultimi anni del regime, possiamo utilmente rifarci ancora a una voce d’enciclopedia del 1940, considerando questa forma letteraria come la più atta a cristallizzare gfi influssi e le suggestioni del momento nel quale è scritta, nonostante la volontà di « dura­re » che ad essa è connaturata: la voce « Corporativismo » nel Dizionario di Po­litica del PNF, affidata per la parte decisiva al ministro per l ’Agricoltura e fore­ste Giuseppe Tassinari, anziché a uno dei molti dottrinari ancora in attività.Lo scritto di Tassinari aveva quasi il sapore di un’epigrafe, riducendo la portata del corporativismo a semplice e non eccelso aspetto burocratico dello stato fa­scista e demolendo impietosamente, a distanza di molti anni, le tesi di quanti ave­vano scorto nel corporativismo uno strumento innovatore dello stato e della so­cietà:L ’ordinamento corporativo fascista non è altro se non l ’aspetto dell’ordinamento gerarchico delle volontà pubbliche, specializzate per la disciplina degli interessi economici e derivanti i l loro titolo di autorità dal ministero del pubblico bene che assolvono nella propria sfera.

Ecco quanto restava della « dottrina del secolo » nella sua ultima versione.

G i a n p a s q u a l e S a n t o m a s s i m o