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Tesi di Dottorato di Ricerca in co-tutela UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PARMA Dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio Sezione di Microbiologia Dottorato di Ricerca in Microbiologia e Virologia Coordinatore: Chiar.mo Prof. Carlo Chezzi XVII ciclo UNIVERSITÀ PARIS XII - VAL DE MARNE U.F.R. di Scienze Dottorato di Ricerca in “Sciences de la Vie et de la Santé” Disciplina: Biologia Cellulare e Molecolare Coordinatore: Chiar.mo Prof. Michel Goossens Aspetti morfologici e funzionali dei proteasomi durante il processo di differenziamento di cellule muscolari ed in corso di infezione da citomegalovirus umano in vitro Dottoranda Dr.ssa Silvia Covan Commissione Chiar.mo Prof. Carlo Chezzi Tutore (Università degli Studi di Parma) Chiar.mo Prof. Jean Foucrier Tutore (Università Paris XII – Val de Marne) Dr.ssa Isabelle Saint Girons Esaminatore (Institut Pasteur – Paris) Chiar.ma Prof.ssa Maria Paola Landini Relatore (Università degli Studi di Bologna)

Aspetti morfologici e funzionali dei proteasomi durante il ...doxa.u-pec.fr/theses/th0238220.pdf · indice -ii-1. riassunto pag. 2 2. presentazione della studio pag. 5 3. introduzione

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Tesi di Dottorato di Ricerca in co-tutela

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PARMA Dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio

Sezione di Microbiologia Dottorato di Ricerca in Microbiologia e Virologia

Coordinatore: Chiar.mo Prof. Carlo Chezzi XVII ciclo

UNIVERSITÀ PARIS XII - VAL DE MARNE U.F.R. di Scienze

Dottorato di Ricerca in “Sciences de la Vie et de la Santé” Disciplina: Biologia Cellulare e Molecolare

Coordinatore: Chiar.mo Prof. Michel Goossens

Aspetti morfologici e funzionali dei proteasomi durante il processo

di differenziamento di cellule muscolari ed in corso di infezione

da citomegalovirus umano in vitro

Dottoranda Dr.ssa Silvia Covan

Commissione

Chiar.mo Prof. Carlo Chezzi Tutore (Università degli Studi di Parma) Chiar.mo Prof. Jean Foucrier Tutore (Università Paris XII – Val de Marne) Dr.ssa Isabelle Saint Girons Esaminatore (Institut Pasteur – Paris) Chiar.ma Prof.ssa Maria Paola Landini Relatore (Università degli Studi di Bologna)

N. attribué par la bibliothèque .........................................................

Thèse de Doctorat en co-tutelle

UNIVERSITÉ DE PARME Département de Pathologie et Médecine de Laboratoire

Section de Microbiologie École Doctorale: Microbiologie et Virologie

Directeur: Pr. Carlo Chezzi XVII cycle

UNIVERSITÉ PARIS XII-VAL DE MARNE U.F.R. de Sciences

École Doctorale: Sciences de la Vie et de la Santé Discipline: Biologie Cellulaire et Moléculaire

Directeur: Pr. Michel Goossens

Présentée et soutenue publiquement

par

Silvia Covan

le 23 Mai 2006

Aspects morphologiques et fonctionnels des protéasomes

au cours de la différenciation des cellules musculaires et pendant

l’infection par le cytomégalovirus humain in vitro

JURY

Pr. Carlo Chezzi Directeur de thèse (Université de Parme) Pr. Jean Foucrier Directeur de thèse (Université Paris XII – Val de Marne) Dr. Isabelle Saint Girons Examinateur (Institut Pasteur – Paris) Pr. Maria Paola Landini Rapporteur (Université de Bologne)

Ai miei genitori

“Casa, il posto da cui non si può fuggire, il posto verso cui ruota la bussola

del cuore…..”

da La spiaggia rubata di Joanne Harris

Indice

INDICE

Indice

-II-

1. RIASSUNTO Pag. 2

2. PRESENTAZIONE DELLA STUDIO Pag. 5

3. INTRODUZIONE

3.1 IL PROTEASOMA Pag. 9

3.1.1 STRUTTURA DEL PROTEASOMA Pag. 9

3.1.2 IL PROTEASOMA 20S E I SUOI COMPLESSI REGOLATORI Pag. 10

3.1.3 IL SISTEMA UBIQUITINA-PROTEASOMA Pag. 12

3.1.4 FUNZIONI DEI PROTEASOMI Pag. 15

3.2 I MODELLI DI STUDIO Pag. 26

3.2.1 IL TESSUTO MUSCOLARE Pag. 26

3.2.2 CITOMEGALOVIRUS Pag. 37

4. OBIETTIVI DELLA RICERCA Pag. 50

5. MATERIALI E METODI

5.1 STUDIO DI LOCALIZZAZIONE INTRACELLULARE DEI PROTEASOMI Pag. 53

5.2 CLONAGGIO IN VETTORI PLASMIDICI Pag. 57

5.3 COLTURE CELLULARI Pag. 66

5.4 IMPIEGO DEI VETTORI PLASMIDICI Pag. 67

5.5 STRATEGIA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE DI VETTORI RETROVIRALI Pag. 73

5.6 PRODUZIONE E IMPIEGO DI PARTICELLE RETROVIRALI (ECOTROPICHE) Pag. 77

5.7 PRODUZIONE DI PARTICELLE RETROVIRALI (ANFOTROPICHE) Pag. 82

5.8 INFEZIONE DI FIBROBLASTI CON UNO STIPITE UMANO DI

CITOMEGALOVIRUS Pag. 84

6. RISULTATI

6.1 PRIMO MODELLO DI STUDIO: CELLULE MUSCOLARI E PROTEASOMI Pag. 88

6.1.1 I PROTEASOMI SONO DISTRIBUITI SECONDO UN PROFILO PSEUDO-SARCOMERICO NEL MUSCOLO SCHELETRICO

Pag. 88

6.1.2 IL PROFILO PSEUDO-SARCOMERICO DI SPECIFICI PROTEASOMI SI MODIFICA IN RAPPORTO ALL’ESTENSIONE DEL SARCOMERO IN VIVO

Pag. 90

6.1.3 UNA SIGNIFICATIVA QUANTITÀ DI PROTEASOMI È ASSOCIATA ALLE MIOFIBRILLE

Pag. 93

6.1.4 NON TUTTI I PROTEASOMI PRESENTI NELLE MIOFIBRILLE SONO ASSOCIATI AD ACTINA

Pag. 102

Indice

-III-

6.1.5 ALLESTIMENTO DI VETTORI DI ESPRESSIONE PER LE SEQUENZE GENICHE DI INTERESSE

Pag. 103

6.1.6 ESPRESSIONE DELLE PROTEINE DI FUSIONE ATTRAVERSO ESPERIMENTI DI TRASFEZIONE

Pag. 108

6.1.7 ALLESTIMENTO DI VETTORI RETROVIRALI PER LE SEQUENZE GENICHE DI INTERESSE

Pag. 116

6.1.8 PROFILO DI DISTRIBUZIONE DI SPECIFICI PROTEASOMI IN POPOLAZIONI DI CELLULE C2.7 CHE ESPRIMONO I COSTRUTTI DI INTERESSE

Pag. 127

6.2 SECONDO MODELLO DI STUDIO: FIBROBLASTI UMANI IN CORSO DI

INFEZIONE DA CITOMEGALOVIRUS IN VITRO E PROTEASOMI Pag. 130

6.2.1 LA FUNZIONE ENZIMATICA DEI PROTEASOMI È RILEVANTE AI FINI DELL’EVOLUZIONE DELL’INFEZIONE PRODUTTIVA DA CITOMEGALOVIRUS IN FIBROBLASTI MRC5

Pag. 130

6.2.2 L’ATTIVITÀ ENZIMATICA DEI PROTEASOMI RISULTA RILEVANTE SOLO IN ALCUNE FASI DEL CICLO CELLULARE, AI FINI DELL’EVOLUZIONE DELL’INFEZIONE PRODUTTIVA DA CITOMEGALOVIRUS IN FIBROBLASTI MRC5

Pag. 132

6.2.3 I PROTEASOMI SONO PRESENTI ANCHE A LIVELLO NUCLEOLARE A TEMPI PRECOCI DOPO L’INFEZIONE DI FIBROBLASTI MRC5 CON CITOMEGALOVIRUS UMANO

Pag. 138

6.2.4 PRODUZIONE DI VETTORI RETROVIRALI RECANTI LE SEQUENZE GENICHE PROTEASOMALI DI INTERESSE E IN GRADO DI INFETTARE CELLULE UMANE, A LORO VOLTA SUSCETTIBILI ALL’INFEZIONE DA CITOMEGALOVIRUS

Pag. 141

7. DISCUSSIONE Pag. 146

8. BIBLIOGRAFIA Pag. 165

9. RINGRAZIAMENTI Pag. 188

1. Riassunto

1. RIASSUNTO

1. Riassunto

-2-

Il lavoro sperimentale svolto ha preso in considerazione due differenti modelli di studio il

cui denominatore comune era rappresentato dai proteasomi. In riferimento al primo

modello, sono stati inizialmente effettuati esperimenti volti ad evidenziare la

localizzazione di specifici proteasomi nell’ambito della struttura sarcomerica nel tessuto

muscolare scheletrico di ratto e di allestire strumenti molecolari idonei allo studio della

distribuzione dei proteasomi durante il processo di differenziamento miogenico. Gli stessi

strumenti molecolari sono stati allestiti durante lo studio del secondo modello

sperimentale, il cui scopo è stato quello di valutare il coinvolgimento di suddetto

complesso multi-enzimatico in corso di infezione produttiva da citomegalovirus umano in

fibroblasti embrionali umani. In particolare, l’espressione di geni precocissimi virali è

stata inizialmente studiata in assenza o in presenza di uno specifico inibitore dell’attività

proteolitica dei proteasomi in monostrati di fibroblasti infettati non sincronizzati.

Successivamente, l’espressione di suddette proteine virali è stata valutata in monostrati di

fibroblasti infettati sincronizzati. Inoltre, è stata studiata la distribuzione intracellulare di

specifici proteasomi nel suddetto modello, allo scopo di verificare eventuali modificazioni

della stessa in corso di infezione produttiva da citomegalovirus umano.

Résumé de la thèse

Deux volets thématiques se rapportant à la biologie des protéasomes ont été abordés au

cours de ce travail de thèse. Le premier a consisté à préciser la localisation des

protéasomes au sein de la structure sarcomérique de muscles striés de rat et d’élaborer

des outils moléculaires appropriés, permettant de suivre la distribution des protéasomes

au cours de la différenciation myogénique. Ces mêmes outils ont également été élaborés

au cours de la deuxième partie du travail, qui a consisté à évaluer la participation de ces

complexes multicatalytiques lors de l’infection de fibroblastes par le cytomegalovirus

humain. L’expression des protéines virales très précoces a été étudiée dans les fibroblastes

synchronisés ou non au cours de l’infection, à la suite de l’utilisation ou non d’un

inhibiteur de la fonction protéolytique des protéasomes. On a aussi étudié la distribution

des protéasomes dans les cellules infectées, afin d’évaluer si celle-ci se modifiait au cours

de l’infection virale.

1. Riassunto

-3-

Thesis summary

Two different topics about proteasomes have been evaluated during this doctoral thesis.

In the first part we have showed the proteasome localization at the level of the sarcomeric

structure of rat skeletal muscle and we have developed useful molecular tools to follow

proteasome distribution during myogenic differentiation. The same tools have been

developed during the second part of this project. The goal of this work was to evaluate the

involvement of this multicatalytic complex in fibroblasts infected by human

cytomegalovirus. Viral immediate-early protein expression was studied using fibroblasts

synchronized or not during viral infection, using an inhibitor of the proteolytic activity of

proteasomes to examine the effects of the lack of this proteasomal function on viral

protein expression. In addition, we investigated the intracellular distribution of

proteasomes in infected cells with the aim to evaluate if proteasome distribution changed

during viral infection.

2. Presentazione dello studio

2. PRESENTAZIONE DELLO STUDIO

2. Presentazione dello studio

-5-

La problematica scientifica prescelta nel quadro di questa tesi si basa su un complesso

lavoro sperimentale, volto a mettere in luce la possibile partecipazione di complessi

molecolari assai rilevanti nell’economia cellulare, i proteasomi, in due condizioni

altamente “dinamiche” per la cellula, ossia il differenziamento muscolare e l’infezione

virale. Se l’intervento dei proteasomi in diverse funzioni regolatorie della cellula in

condizioni fisiologiche è supportato da numerosi dati di letteratura, ancora aperte e del

tutto incomplete rimangono le conoscenze volte a delucidare le modalità di intervento dei

proteasomi in eventi che comportino una cospicua alterazione del normale equilibrio

omeostatico cellulare, provocando, di conseguenza, una decisa e marcata rimodulazione

quali/quantitativa di diverse componenti molecolari.

In riferimento al primo modello di studio, traendo le premesse da dati sperimentali

precedentemente ottenuti dal nostro gruppo di ricerca e da quello del Prof. Jean Foucrier,

sono stati inizialmente effettuati esperimenti volti ad evidenziare la specifica

localizzazione di proteasomi in sezioni di muscolo scheletrico di ratto e in colture di

miofibrille allestite in vitro. I risultati ottenuti hanno evidenziato un profilo di

distribuzione di specifici proteasomi direttamente correlabile al grado di

estensione/contrazione del sarcomero; in particolare, grazie anche al supporto di studi di

immunoelettromicroscopia, è stata appurata la colocalizzazione della subunità α1/p27K

con la regione centrale dei microfilamenti di actina. Tali dati sono stati, inoltre, avvalorati

anche da studi effettuati su preparati di miofibrille precedentemente trattate con

gelsolina, sostanza in grado di rimuovere l’actina.

In una fase successiva della ricerca, sono stati allestiti strumenti molecolari idonei a potere

essere utilizzati, in prospettiva futura, per lo studio della distribuzione dinamica dei

proteasomi in cellule viventi. Per la messa a punto di tali strumenti, alcune sequenze

geniche codificanti per specifiche subunità proteasomali sono state fuse con sequenze

codificanti per proteine fluorescenti naturali, verificandone poi, attraverso differenti

metodi, la funzionalità con esperimenti di trasfezione in cellule CHO e nella linea

cellulare miogenica di topo C2.7; in tal modo, si è potuto verificare che le suddette

proteine di fusione venivano utilizzate per la formazione di nuovi complessi

proteasomali. Sulla base di questi risultati è possibile affermare che l’utilizzo di tali

costrutti per studi su aspetti morfologici e funzionali riguardanti i proteasomi può essere

considerato come rappresentativo del complesso proteasomale vero e proprio, in cui essi

vengono incorporati.

2. Presentazione dello studio

-6-

Le sequenze codificanti per le proteine di fusione sono state successivamente clonate in un

vettore retrovirale, utilizzato poi per eseguire esperimenti di trasfezione della linea

cellulare Bosc-23, allo scopo di consentire la produzione di particelle retrovirali defettive

contenenti i costrutti di interesse e impiegate in seguito per eseguire infezioni della linea

miogenica C2.7. In tal modo, sono state ottenute popolazioni di cellule C2.7 in grado di

esprimere stabilmente le sequenze geniche per le proteine di fusione, che hanno

consentito di dimostrare la presenza delle stesse a livello di proteasomi 20S. In parallelo,

tali costrutti molecolari sono stati valutati anche dal punto di vista della funzione

enzimatica, anch’essa preservata nei complessi proteasomali in cui gli stessi costrutti sono

inclusi. Sono state eseguite quindi osservazioni in microscopia a fluorescenza di

monostrati di cellule C2.7 in grado di esprimere stabilmente i costrutti di interesse; il

segnale di fluorescenza relativo alle proteine di fusione era presente sia nel

compartimento citoplasmatico che in quello nucleare delle suddette cellule, con intensità

decisamente maggiore in quest’ultimo distretto. Inoltre, la fluorescenza riscontrata a

livello del nucleo, in alcuni casi, appariva di tipo granulare e concentrata a livello di

specifiche regioni nucleari; tale distribuzione sembrava accentuarsi nei nuclei dei miotubi,

rispetto a quelli dello stadio mioblastico.

Il secondo modello preso in considerazione per lo studio dei proteasomi ha previsto

l’impiego di cellule fibroblastiche umane (MRC5) per lo studio dell’infezione virale in

vitro da parte di uno stipite umano di citomegalovirus (AD169).

L’espressione dei prodotti maggiori dei geni precocissimi virali IE1 e IE2 è stata

inizialmente studiata in assenza o in presenza di uno specifico inibitore dei proteasomi,

denominato MG132. Il trattamento con MG132 determina una significativa riduzione

dell’espressione dei geni IE già a tempi molto precoci di infezione. L’effetto inibitorio

della sostanza non risulta peraltro della stessa entità per tutte le cellule del monostrato,

suggerendo che l’eventuale inibizione possa esprimersi con differente efficacia

dipendentemente dalla fase del ciclo cellulare in cui l’infezione ha avuto inizio. Le cellule

MRC5 sono state quindi sincronizzate mediante applicazione di uno specifico protocollo

sperimentale. I dati ottenuti hanno dimostrato che, in cellule infettate e non trattate,

l’espressione nucleare delle proteine virali precocissime era buona qualora l’infezione

virale prendesse avvio nell’ambito della fase G1 e decisamente incrementata a livello della

transizione G1/S; essa appariva invece di minore entità in S ed in G2/M. L’intervento

della funzione proteasomale, a sua volta, sembrava maggiormente rilevante in fase G1 ed

alla transizione G1/S.

2. Presentazione dello studio

-7-

Al fine di evidenziare la distribuzione intracellulare di specifiche subunità proteasomali in

corso di infezione virale, è stato effettuato uno studio in microscopia confocale su sezioni

focali di cellule MRC5. I risultati ottenuti hanno evidenziato che i proteasomi si

localizzano principalmente a livello nucleare a tempi precocissimi dopo l’infezione virale,

con accumulo anche nella regione nucleolare di un numero significativo di cellule

infettate; tali esperimenti hanno, inoltre, evidenziato l’esistenza di una colocalizzazione

tra le proteine virali precocissime e specifici proteasomi, spesso presenti con una

distribuzione peculiare in assetto “granulare” e a volte evidenziabili anche in aree peri-

nucleolari.

L’allestimento di strumenti molecolari idonei allo studio dei proteasomi in cellule

suscettibili all’infezione da citomegalovirus ha portato all’elaborazione di particelle

retrovirali defettive recanti le sequenze proteasomali di interesse; successivamente, le

particelle ottenute sono state impiegate per l’infezione di fibroblasti di polmone

embrionale umano immortalizzati (MRC5-hTERT). Sono state eseguite quindi

osservazioni in microscopia a fluorescenza di monostrati di cellule MRC5-hTERT in grado

di esprimere stabilmente i costrutti di interesse; si è, in tal modo, appurato che il segnale

di fluorescenza delle proteine di fusione prescelte era localizzato sia nel compartimento

citoplasmatico che in quello nucleare, ma in quest’ultimo appariva più brillante ed

intenso, con distribuzione spesso granulare; come atteso, il segnale di fluorescenza era

assente a livello del distretto nucleolare. Il confronto del profilo di distribuzione

proteasomale con quello rilevato in cellule MRC5-hTERT non ingegnerizzate ha

consentito di evidenziare che i profili sono sovrapponibili.

I dati ottenuti evidenziano la complessità di rapporti che intercorrono tra proteasomi e

specifici distretti cellulari, quali il nucleo ed il citoplasma, a loro volta articolati in una

serie di compartimenti, ciascuno dei quali con precise collocazioni spaziali e funzionali, e

rendono ragione della complessità di eventi che regolano il differenziamento cellulare,

come anche dei rapporti che intercorrono tra virus e cellula ospite. In particolare, nel caso

del modello di infezione virale preso in considerazione in questo studio, la messa in

evidenza di compartimenti cellulari e di componenti di citomegalovirus che risultino

spazialmente e funzionalmente correlati con il complesso proteasomale, soprattutto a

tempi precocissimi dall’inizio dell’infezione, potrebbe apportare un contributo importante

alla individuazione di quei meccanismi volti ad imprimere una direzione di scelta, tra

ciclo litico e latenza, al rapporto tra citomegalovirus e cellula ospite.

3. Introduzione

3. INTRODUZIONE

3. Introduzione

-9-

a b

c d

Figura 1: Rappresentazione schematica del proteasoma 20S.

3.1 IL PROTEASOMA

I proteasomi sono complessi multi-enzimatici ad elevato peso molecolare (circa 2000kDa

per il complesso con costante di sedimentazione 26S), caratterizzati da una struttura

quaternaria altamente conservata nel corso dell’evoluzione; in particolare, l’aspetto

morfologico dei proteasomi è stato messo in evidenza da diversi studi cristallografici

effettuati in riferimento agli archeobatteri (Löwe J. et al., 1995), ai lieviti (Groll M. et al.,

1997; Groll M. et al., 2000) e, più recentemente, ai mammiferi (Unno M. et al., 2002). I

proteasomi 26S costituiscono il principale sistema di degradazione proteica non

lisosomiale presente nelle cellule eucariote a livello del nucleo, del citoplasma, del reticolo

endoplasmatico liscio e della superficie delle membrane cellulari; la concentrazione di tali

particelle può, inoltre, variare considerevolmente in funzione del tipo di cellula

(Nothwang H.G. et al., 1992; Coux O. et al., 1996; Voges D. et al., 1999). I substrati proteici

da degradare ad opera del proteasoma 26S sono generalmente, anche se non sempre,

preventivamente “etichettati” attraverso il legame covalente con una proteina detta

ubiquitina.

3.1.1 STRUTTURA DEL PROTEASOMA 20S La particella “core”, denominata proteasoma 20S (700kDa), rappresenta la struttura di

base responsabile dell’attività catalitica. Tali particelle sono state identificate per la prima

volta in cellule HeLa mediante l’impiego di tecniche di microscopia elettronica, come

subcomplessi di ribonucleoproteine (RNP) associate alla frazione citoplasmatica di RNA

messaggeri non coinvolti nella traduzione (Schmid H.P. et al., 1984).

Il proteasoma 20S è una struttura a cilindro di 14,8 nm di lunghezza e di 11,3 nm di

diametro, formata da quattro anelli sovrapposti

[Figura 1, pannelli a e b], ciascuno dei quali

costituito da sette subunità che delimitano una

cavità centrale [Figura 1, pannelli c e d]. In

particolare, i due anelli più esterni contengono

subunità di tipo α e quelli più interni subunità

di tipo β; queste ultime racchiudono i siti

catalitici dove i polipeptidi vengono degradati

nelle varie componenti aminoacidiche.

3. Introduzione

-10-

Nell’ambito degli archeobatteri è stata individuata una sola subunità di tipo α e una sola

subunità di tipo β; al contrario, negli eucarioti inferiori, come ad esempio nei lieviti, sono

state evidenziate sette subunità di tipo α e sette di tipo β, ciascuna delle quali codificata da

un gene differente.

Negli eucarioti superiori, più precisamente nei mammiferi, il proteasoma 20S è costituito

da 7 subunità di tipo α e 10 di tipo β. Tre delle subunità β (β1i, β2i e β5i) sono specifiche

del cosiddetto “immunoproteasoma”; in particolare, queste componenti sostituiscono tre

delle subunità definite costitutive (β1, β2 e β5). Le citochine, quali ad esempio IFN-γ e

TNF-α, inducono la sostituzione delle subunità β1, β2 e β5 con le subunità ad esse

strettamente correlate: β1i, β2i e β5i (chiamate anche LMP2, LMP10 e LMP7,

rispettivamente) (Groettrup M. et al., 2001a). Esistono pertanto almeno quattro tipi di

proteasoma 20S: un proteasoma costitutivo contenente le subunità β1, β2 e β5,

l’immunoproteasoma contenente le tre subunità inducibili β1i, β2i e β5i e proteasomi

“ibridi” composti da β1i, β2i e β5 o β1, β2 e β5i. I quattro tipi di proteasoma sono, inoltre,

associati alle subunità β3, β4, β6 e β7. L’attività dell’immunoproteasoma sembra essere

correlata alla produzione dei peptidi antigenici presentati dal complesso maggiore di

istocompatibilità di classe I (Rock K.L. et al, 1994; Groettrup M. et al., 2001b; Kloetzel P.M.,

2001).

3.1.2 IL PROTEASOMA 20S E I SUOI COMPLESSI REGOLATORI

Alle due estremità del proteasoma 20S si possono legare complessi ad attività regolatoria

(complessi PA200, PA28/11S e PA700/19S), che consentono l’apertura della cavità

centrale del proteasoma 20S, attivando in questo modo la funzione proteolitica (Förster A.

et al., 2003) [Figura 2].

Figura 2: Il proteasoma 20S e i suoi complessi regolatori. Ricostruzione tridimensionale delle strutture ottenute in microscopia elettronica (a, b, c: immagini ottenute da “Baumeister W. et al., 1998”; d: immagine ottenuta da “Ortega J. et al., 2005”).

3. Introduzione

-11-

Il complesso regolatore PA700 (o complesso 19S), associato alla particella core 20S, forma

il complesso molecolare di ordine superiore 26S (DeMartino G.N. and Slaughter C.A.,

1999). Questo complesso regolatore è formato da due porzioni denominate “Base” e

“Lid”, ciascuna delle quali è costituita da 8 differenti subunità che variano, in dimensioni,

da 24 a 106kDa. In particolare, la porzione definita “Base”, legata all’anello contenente

subunità di tipo α del proteasoma 20S, è costituita da sei subunità che presentano

un’attività ATPasica a cui è associata la funzione ATP - dipendente del proteasoma 26S,

mentre la porzione “Lid” è più esterna e in alcuni casi può dissociarsi, con conseguente

formazione di un complesso residuo tronco. Quest’ultimo complesso interviene più

frequentemente nella degradazione di substrati non legati a molecole di ubiquitina.

Numerose proteine e fattori ausiliari, quali ad esempio le proteine “chaperone” [per

esempio quelle appartenenti alla famiglia “Heat-shock proteins” (Hsp) 70], cooperano con

il sistema ubiquitina-proteasoma per la rimozione di proteine danneggiate o denaturate

che non possono più essere utilizzate. In particolare, le proteine “chaperone” appartenenti

alla famiglia Hsp70 sono state trovate in associazione al complesso 19S, grazie al legame

che instaurano con alcuni cofattori quale, ad esempio, la proteina BAG-1 (“Bcl2-associated

athano-gene”) (Luders J. et al., 2000; Esser C. et al., 2004). Nello specifico, il complesso

regolatore 19S permette il riconoscimento dei substrati ubiquitinati e di altri potenziali

substrati, consentendo l’apertura della cavità centrale del proteasoma 20S e,

contemporaneamente, la denaturazione dei substrati ubiquitinati e non ubiquitinati. Tali

funzioni richiedono elevati livelli di energia che viene fornita dalle sei subunità della

porzione “Base”, che presentano attività ATPasica.

Nelle cellule dei mammiferi è stato identificato anche un altro complesso attivatore della

funzione peptidasica del proteasoma 20S, che è stato denominato PA28 (alternativamente

11S REG) (Song X. et al., 1996; Hill C.P. et al., 2002). Tale complesso è ATP indipendente ed

è in grado di incrementare di più di cento volte la velocità di idrolisi di alcuni piccoli

peptidi da parte del proteasoma 20S, piuttosto che la degradazione di proteine come, al

contrario, si osserva per il complesso regolatore 19S (Dubiel W. et al., 1992; Ma C.P. et al.,

1992). Il complesso PA28 è costituito da tre subunità omologhe, di circa 28kDa ciascuna,

denominate PA28α, PA28β e PA28γ. Le subunità PA28α e PA28β possono associarsi e

dare luogo a complessi di tipo eteromerico (Ahn K. et al., 1996; Knowlton J.R. et al., 1997;

Zhang Z. et al., 1998; Zhang Z. et al., 1999), mentre la subunità PA28γ porta alla

formazione di complessi di tipo omomerico (Realini C. et al., 1997). Il complesso PA28αβ è

indotto dalla presenza della citochina IFN-γ e da condizioni patologiche quale, ad

3. Introduzione

-12-

esempio, un infezione virale; tale complesso è stato localizzato, in particolare, nel

compartimento citoplasmatico in molti tessuti, come ad esempio nel tessuto cerebrale. Tali

osservazioni suggeriscono che i complessi PA28αβ, associati al proteasoma 20S (in

particolare qualora sia costituito dalle tre subunità inducibili, a formare

l’immunoproteasoma), possano avere un ruolo di spicco nella risposta immunitaria e,

nello specifico, nella produzione di peptidi antigenici di piccole dimensioni, costituiti da

circa 6-8 aminoacidi, successivamente presentati dal complesso maggiore di

istocompatibilità di classe I. I dati di letteratura attualmente disponibili sono contrastanti

per quanto concerne il possibile coinvolgimento dei suddetti complessi nell’assemblaggio

dell’immunoproteasoma e, più in generale, nella presentazione dell’antigene, facendo

supporre piuttosto un loro coinvolgimento limitatamente alla presentazione di specifici

epitopi antigenici (Murata S. et al., 2001). Al contrario, i complessi regolatori PA28,

costituiti da sole subunità di tipo γ (PA28γ), non vengono attivati dalla presenza di

citochine e la loro produzione può venire notevolmente ridotta in corso di infezione

(Masson P. et al., 2001; Khan S. et al., 2001). La localizzazione del complesso PA28γ è

prevalentemente di tipo nucleare; inoltre esso è stato riscontrato in quantità più elevate

nel tessuto cerebrale. È stato ipotizzato un possibile coinvolgimento del complesso PA28γ

nell’inibizione del processo di apoptosi, fatto che giustificherebbe gli elevati livelli del

suddetto complesso regolatore rilevati nel tessuto cerebrale, dal momento che, come è

noto, i neuroni sono caratterizzati da sistemi in grado di impedire l’autodistruzione dei

medesimi (Rechsteiner M. and Hill C.P., 2005). Recentemente sono stati osservati

particolari “ibridi” contenenti un complesso 11S e un complesso 19S associati ad uno

stesso proteasoma 20S, suggerendo che i due complessi regolatori possano avere un ruolo

complementare (Hendil K.B. et al., 1998).

In questi ultimi anni è stato identificato mediante microscopia elettronica un ulteriore

complesso regolatore del proteasoma 20S, denominato PA200 (200KDa). Nonostante i dati

di letteratura siano ancora frammentari, sono state osservate interazioni tra il suddetto

complesso e differenti componenti cellulari coinvolti nei meccanismi di riparazione del

DNA (Ustrell V. et al., 2002; Ortega J. et al., 2005).

3.1.3 IL SISTEMA UBIQUITINA-PROTEASOMA

La cellule eucariote hanno sviluppato diverse strategie per eliminare le proteine mal

assemblate o non più funzionali, oppure semplicemente per diminuire la concentrazione

intracellulare di una certa specie proteica. In particolare, l’interazione covalente tra

3. Introduzione

-13-

ubiquitina, una proteina di 76 aminoacidi (circa 9KDa), ed il gruppo C-terminale di

residui di lisina del substrato, indirizza le molecole a diversi destini, tra cui i più

conosciuti sono la degradazione mediata dal proteasoma 26S, l’endocitosi con

conseguente degradazione del substrato mediata dai lisosomi e la modificazione delle

funzioni proteiche.

Il processo biochimico inizia con l’attivazione dell’ubiquitina mediante l’enzima E1

(“ubiquitin-activating”) e in presenza di ATP, a cui fa seguito il trasferimento

dell’ubiquitina attivata al residuo cisteinico del sito attivo dell’enzima E2 (“ubiquitin-

conjugating”), con formazione di un tioestere. La fase finale prevede che il complesso E2-

E3 catalizzi, mediante un isopeptide, il legame tra il C-terminale dell’ubiquitina e i residui

di lisina del substrato [Figure 3 e 4]. In molti casi la stessa ubiquitina subisce il processo di

ubiquitinizzazione causando la formazione di catene di poli-ubiquitina dove la lisina

collocata in posizione 48 e il gruppo C-terminale dell’ubiquitina successiva sono connessi

tra di loro.

Esistono due tipologie funzionalmente distinte di E3 (“ubiquitin-protein ligase”): l’enzima

con il dominio “HECT” (esempio NEDD4) che trasferisce l’ubiquitina al substrato

mediante la formazione di un intermedio tioestere covalente (E3-ubiquitina) e l’enzima

con il dominio “RING” (esempio APC/C “anaphase promoting complex/cyclosome” o

SCF “Skp1-Cullin-F-box protein”) che trasferisce le molecole di ubiquitina da E2 al

substrato, agendo come una proteina adattatrice. La varietà di enzimi compresi nella

famiglia E3 fornisce la necessaria specificità funzionale degli stessi nel determinare quale

proteina possa essere modificata (Ciechanover A. et al., 2000; Glickman M.H. and

Ciechanover A., 2001).

La poli-ubiquitinizzazione è una modificazione del substrato strettamente correlata alla

successiva degradazione effettuata tramite l’intervento del proteasoma 26S, mentre la

mono-ubiquitinizzazione è associata a diverse altre funzioni cellulari indipendenti dal

proteasoma come, ad esempio, la regolazione del traffico proteico intracellulare. In

alternativa, sono stati descritti casi in cui la degradazione mediata dal proteasoma 26S è

ubiquitina-indipendente (Murakami Y. et al., 2000).

3. Introduzione

-14-

Figura 3: Marcatura del substrato con ubiquitina e relativi enzimi di ubiquitinizzazione (immagine ottenuta dal sito internet: www.bostonbiochem.com).

Una volta avvenuto il riconoscimento a livello del complesso regolatore del proteasoma

26S, la proteina viene privata delle catene di poli-ubiquitina che verranno utilizzate per

marcare altre proteine bersaglio, mentre il substrato viene denaturato per consentirne

l’entrata nella cavità centrale del proteasoma e per essere successivamente sottoposto a

degradazione [Figura 4]. La rimozione dell’ubiquitina è effettuata dagli enzimi di

deubiquitinizzazione, di cui si conoscono due distinte famiglie (Hough R. et al., 1986). Il

sito attivo del proteasoma è rappresentato da treonine attive, che costituiscono tre delle

subunità di tipo β. Le treonine sono responsabili del taglio proteolitico per cessione del

loro gruppo ossidrilico. In particolare, nel proteasoma 20S sono state caratterizzate cinque

attività peptidasiche (“chymotrypsin-like”, “trypsin-like”, “post-glutamyl peptide

hydrolyzing” o PGPH, “branched chain amino acid-preferring” e “small neutral amino

acid- preferring”) (Attaix D. et al., 2002).

3. Introduzione

-15-

Figura 4: Rappresentazione schematica del processo di degradazione delle proteine mediato dai proteasomi 26S (immagine ottenuta dal sito internet: www.bostonbiochem.com).

3.1.4 FUNZIONI DEI PROTEASOMI

L’interesse rivolto verso i proteasomi, complessi proteici ubiquitari ed altamente

conservati nel corso dell’evoluzione, non risiede nella funzione enzimatica di proteolisi in

sé, in quanto questo sarebbe un modo non esaustivo per definire il ruolo che questi

complessi molecolari assumono nell’ambito dell’economia cellulare.

La proteolisi mediata dai proteasomi è infatti una funzione essenziale non solo per il ruolo

da tempo noto nell’eliminazione di proteine anomale o in sovrannumero, ma anche per il

ruolo che svolge nell’ambito della maturazione di precursori in proteine biologicamente

attive e, negli eucarioti superiori, nel reclutamento di peptidi antigenici per il complesso

maggiore di istocompatibilità di classe I. Il ruolo che i proteasomi hanno nel controllo

dell’omeostasi proteica va inquadrato in un’ottica più ampia, in quanto si applica a

numerosi processi cruciali nell’ambito del metabolismo cellulare. Nello specifico,

l’espletamento dell’attività enzimatica del proteasoma garantisce, in maniera altamente

specifica e regolata, il mantenimento di livelli intracellulari sempre adeguati di numerose

proteine che controllano, a loro volta, processi biologici quali la proliferazione e il

differenziamento (in particolare le cicline ed altri complessi proteici che intervengono

nell’evoluzione del ciclo cellulare), l’apoptosi e la risposta a stimoli o insulti extracellulari,

quali un’infezione virale (Orlowski R.Z., 1999; Grimm L.M. and Osborne B.A., 2000; Mann

3. Introduzione

-16-

C. and Hilt W., 2000; Yew P.R., 2001; Naujokat C. and Hoffmann S., 2002). Nell’ambito dei

molteplici processi in cui è richiesta l’attività enzimatica dei proteasomi, verranno in

questa sezione considerati in maggior dettaglio i meccanismi di controllo che operano a

livello del ciclo cellulare, evento che, come già ricordato, è alla base della proliferazione e

del differenziamento cellulare; su quest’ultimo, in particolare, si impernia uno dei due

modelli presi in considerazione in questo studio, ossia il differenziamento di cellule

muscolari in vitro.

Analogamente, vengono anche riportati esempi di interventi regolatori operati da

proteasomi in situazioni patologiche, quali un‘infezione virale, tenendo presente che il

secondo modello allo studio prende in considerazione l’infezione produttiva da

citomegalovirus umano in sistemi cellulari in vitro. È anche importante sottolineare che un

numero considerevole di dati di letteratura supporta l’intervento da parte del suddetto

virus sul ciclo cellulare, modificandone l’andamento a suo favore. Tali osservazioni

rendono plausibile ipotizzare un concomitante ruolo dei proteasomi nell’ambito del ciclo

replicativo di citomegalovirus (Dittmer D. and Mocarski E.S., 1997; Salvant B.S. et al., 1998;

Sinclair J. et al., 2000; Kalejta R.F. and Shenk T., 2002).

Il ciclo cellulare: punti di regolazione e ruolo dei proteasomi

La progressione del ciclo cellulare è regolata da una serie di fattori geneticamente

caratterizzati, che controllano la divisione cellulare; questi possono a loro volta essere

modulati da fattori endogeni o esogeni, quali i cosiddetti fattori di crescita, che sono in

grado di modificare l’evoluzione del ciclo di divisione. Il ciclo cellulare si articola

abitualmente in quattro fasi: nel corso della prima fase (fase G1) la cellula svolge le sue

normali funzioni metaboliche, si nutre e cresce in volume preparandosi, in un certo senso,

alla fase successiva (fase S), che è quella più impegnativa dal punto di vista energetico. In

quest’ultima fase, viene duplicato il DNA cellulare, così come tutte le altre strutture

cellulari. Terminata la fase S, la cellula intraprende una ulteriore fase di preparazione

(fase G2). Nel loro insieme, le suddette fasi costituiscono l’interfase, che sfocerà nella

divisione cellulare o mitosi (fase M), composta a sua volta da profase, metafase, anafase,

telofase e citochinesi.

Ognuna delle fasi del ciclo cellulare è caratterizzata da numerosi eventi che si susseguono

in maniera estremamente ordinata, grazie ad elaborati meccanismi di regolazione che ne

controllano l’evoluzione. Un ruolo chiave nella regolazione del ciclo cellulare è svolto

dalla fosforilazione e defosforilazione di substrati proteici da parte di specifiche chinasi.

3. Introduzione

-17-

In particolare, nelle cellule somatiche degli eucarioti, le serina-treonina chinasi ciclina-

dipendenti, o cdk, sono deputate a questo ruolo. L’attività di queste chinasi è a sua volta

soggetta ad una serie di complessi meccanismi di controllo. Le subunità catalitiche cdk si

legano a specifiche proteine a funzione regolatoria denominate cicline (A, B, D ed E), per

formare un complesso attivo ciclina-cdk. La formazione, l’attivazione ed il

disassemblamento del complesso ciclina-cdk rappresentano l’evento pilota che guida la

cellula attraverso il ciclo cellulare. Le cicline che intervengono nelle diversi fasi del ciclo

cellulare sono sottoposte serialmente a sintesi e degradazione; in concomitanza, l’attività

delle cdk è regolata positivamente o negativamente, in stretta dipendenza dal progredire

del ciclo cellulare. Tali fluttuazioni di attività delle cdk portano a cambiamenti ciclici nella

fosforilazione di proteine intracellulari, quali appunto le cicline, che danno l’avvio o

regolano l’evoluzione dei maggiori eventi del ciclo cellulare (replicazione del DNA, mitosi

e citochinesi). I cambiamenti ciclici nell’attività delle cdk sono a loro volta regolati dalle

cicline e da piccole proteine (quali ad esempio p16, p15, p18, p19, che appartengono alla

famiglia “INK4 - inhibitors of cdk4” e p21Cip1, p27Kip1, che appartengono, invece, alla

famiglia “Cip/Kip - cdk interacting protein/kinase inhibitory protein”), tutte con funzioni

di inibitori delle chinasi ciclina-dipendenti. Esse formano complessi di natura non

covalente con i dimeri ciclina-cdk, causandone l’inattivazione e rendendo pertanto

possibile un controllo negativo della proliferazione cellulare (Koepp D.M. et al., 1999;

Mann C. and Hilt W., 2000; Yew R.P., 2001).

I complessi ciclina-cdk attivi guidano la cellula da una fase all’altra del ciclo cellulare

attraverso punti di regolazione o “checkpoints”, in cui un particolare corredo di substrati

proteici viene fosforilato. Esistono quattro “checkpoints” nell’ambito del ciclo cellulare, in

particolare in fase G1, G1/S, G2 e M [Figura 5].

La corretta progressione attraverso le varie fasi del ciclo cellulare è dunque dipendente da

una sequenza ordinata di eventi mirati, quali principalmente la replicazione del DNA, la

formazione del fuso mitotico e la divisione nucleare, che sfociano nella divisione cellulare.

Al fine di coordinare l’evoluzione di tali eventi, le cellule eucariote hanno messo a punto

un sistema di regolazione molto raffinato, che è basato, come già menzionato, sull’attività

di regolazione positiva o negativa delle chinasi ciclina-dipendenti. Queste ultime

rappresentano quindi il fulcro attorno al quale ruotano tutti gli “ingranaggi” del ciclo

cellulare, attraverso un processo reversibile di fosforilazione di proteine che intervengono

nella fasi critiche, quali la replicazione del DNA o la condensazione dei cromosomi, e che

risulta direttamente effettuato a livello delle suddette proteine, oppure attraverso

3. Introduzione

-18-

l’attivazione di altre chinasi effettrici (Morgan D.O., 1995; Lees E., 1995; Morgan D.O.,

1997; Nigg E.A., 2001).

Figura 5: Le fasi del ciclo cellulare e relativi punti di regolazione (frecce tratteggiate) (immagine ottenuta dal sito internet: www.users.unimi.it).

Dal momento che i suddetti eventi sono sostanzialmente reversibili, la necessaria

direzionalità delle fasi del ciclo cellulare, ovvero la garanzia di un graduale passaggio,

temporalmente cadenzato, da uno stadio a quello successivo (senza possibilità di ritorno),

deve essere garantito da altre tipologie di meccanismi. In tale ottica, il processo di

degradazione proteica regolata attraverso l’intervento del complesso ubiquitina-

proteasoma rappresenta “la soluzione” mirata ed ideale alla problematica sopra esposta.

In effetti, la rimozione di proteine necessarie in una fase precedente del ciclo cellulare,

mediante rapida degradazione di proteine bersaglio a lento ritmo di sintesi, consente

l’espletamento di un evento irreversibile di “non-ritorno” e garantisce al contempo

l’avanzamento del ciclo verso la fase successiva.

Nell’ambito di questa strategia, il primo bersaglio è rappresentato dalle cicline (ovvero le

subunità che attivano, a loro volta, le cdk), il cui graduale accumulo e rapida

degradazione ad opera del sistema ubiquitina-proteasoma ha un’azione modulante

sull’attività delle cdk stesse, imprimendo il ritmo corretto all’ ”orologio” del ciclo cellulare

(Mann C. and Hilt W., 2000; Yew R.P., 2001).

Analogamente, anche altre proteine che intervengono a differenti livelli di regolazione

sono sottoposte a degradazione proteica mediata dal proteasoma, sempre attraverso una

classica “etichettatura” delle proteine stesse tramite poli-ubiquitinizzazione. Quest’ultima,

come già evidenziato in questa sezione introduttiva, richiede l’azione combinata di enzimi

che legano l’ubiquitina (E2), così come di quelli che operano il legame tra ubiquitina e

3. Introduzione

-19-

substrato proteico da degradare (ubiquitina-ligasi o E3). La specificità della proteolisi

ubiquitina-dipendente è legata proprio all’ubiquitinizzazione del substrato; questo rende

ragione del fatto che gli enzimi ubiquitina-ligasi abbiano un ruolo chiave in molti processi

vitali, tra cui il ciclo cellulare.

In particolare, due complessi enzimatici di tipo E3 svolgono la loro attività nell’ambito del

suddetto processo: il cosiddetto “complesso promotore di anafase” o “ciclosoma”

(“APC/C”) e “SCF” (“Skp1/Cullin/F-box protein”), come di seguito dettagliato.

Per quel che riguarda il ruolo delle cicline, a cominciare dalla fase di “ingresso” nel ciclo

cellulare, è da notare che la sintesi delle cicline D (D1, D2 e D3) è attivata da fattori di

crescita che stimolano il rientro nel ciclo cellulare dalla fase di quiescenza o fase G0. Tali

cicline hanno un tempo di vita media molto breve e i loro livelli diminuiscono

rapidamente quando il fattore di crescita è rimosso. La perdita di ciclina D può innescare

l’uscita della cellula dal ciclo cellulare, con susseguente rientro in fase G0. Le cdk 4 e 6 si

legano con la ciclina di tipo D formando eterodimeri che sono in grado di entrare nel

nucleo, dove vengono fosforilati da una chinasi attivante le cdk. I complessi ciclina D-

cdk4, 6 e, successivamente, ciclina E-cdk2, nell’ambito della transizione G1/S, fosforilano

sequenzialmente la proteina del retinoblastoma (pRb) [Figura 6]. La proteina pRb agisce

durante la fase G1, reprimendo la trascrizione dei geni coinvolti nella regolazione della

progressione del ciclo cellulare verso la fase S. Tale proteina non si lega direttamente al

DNA, ma svolge il suo compito di repressore della trascrizione genica interagendo ed

inibendo l’attività di alcuni fattori di trascrizione, i più studiati dei quali appartengono

alla famiglia dei fattori di trascrizionali E2F (Hiebert S.W. et al., 1992; Helin K. et al., 1993).

I siti di legame per i fattori E2F sono stati identificati nei promotori di molti geni coinvolti

nella regolazione del ciclo cellulare, come quelli per le cicline D1, E ed A e quelli

codificanti per le proteine p107 (famiglia pRb), E2F1, 4 e 5, cdk2 e cdc2 e, infine, per

enzimi coinvolti nella sintesi del DNA come, ad esempio, la timidino-chinasi, la

deidrofolato-reduttasi, la DNA-polimerasi α e cdc6 (Lipinski M.M. and Jacks T., 1999). La

iperfosforilazione di pRb porta ad una riduzione dell’affinità di tale proteina per il fattore

di trascrizione E2F di tipo 1-4, a cui è legata, in cellule quiescenti o nella fase iniziale G1,

nella forma non fosforilata, inducendo il rilascio di E2F e la dissociazione dei complessi di

repressione. Una volta liberate, le proteine E2F attivano la trascrizione dei geni necessari

per la progressione del ciclo cellulare in fase S (Weintraub S.J. et al., 1992; Weintraub S.J. et

al., 1995).

3. Introduzione

-20-

E2F inattivo

trascrizione inibita

E2F attivo

trascrizione attiva

Figura 6: Fattori di regolazione che intervengono nella progressione del ciclo cellulare verso la fase S (immagine ottenuta dal sito internet: www.users.unimi.it). La proteina pRb subisce differenti fosforilazioni durante la progressione del ciclo cellulare

verso la fase S ed ancora verso le fasi G2/M. Molti dei gruppi fosfato vengono invece

rimossi quando la cellula rientra nelle fasi G0/G1. Le forme ipofosforilate predominano in

G0 e nella fase G1 precoce, mentre le forme più fosforilate sono presenti nelle fasi S, G2 ed

M. Ulteriori livelli di fosforilazione possono essere raggiunti dipendentemente dal tipo di

cellula considerata. Il complesso ciclina A-cdk2 si forma durante la fase S e gioca

anch’esso un ruolo importante nella progressione della duplicazione del DNA,

mantenendo la proteina pRb nella forma fosforilata. Il complesso ciclina B-cdk1 è

necessario per rendere possibile l’ingresso in mitosi (si veda paragrafo successivo); i livelli

di ciclina B sono mantenuti bassi durante la fase S dal complesso APC/C, che con la sua

attività di ubiquitina-ligasi (E3) ne causa la degradazione mediata dai proteasomi. Alla

fine della fase S, il complesso ciclina A-cdk2 inattiva il complesso APC/C, fosforilando la

subunità Cdh1 e permettendo, inoltre, l’accumulo di ciclina B e la formazione del

complesso ciclinaB-cdk1, il quale favorisce, a sua volta, la progressione del ciclo cellulare

verso la fase M (Lukas C. et al., 1999). In particolare, l’ingresso in mitosi/meiosi è

consentito solo in presenza del fattore “Maturation Promoting Factor “ (MPF). Questo

fattore è costituito da due tipi di subunità: una ad attività chinasica costitutiva (cdk1, detta

anche cdc2), che fosforila i residui di serina e treonina delle proteine bersaglio ed una

seconda, ciclina B, necessaria per l’attivazione dell’attività chinasica stessa, ma sintetizzata

solo nelle fasi che precedono la mitosi, vale a dire a partire dalla fine della fase S. La

ciclina B, una volta sintetizzata, si coniuga immediatamente alla subunità cdk1

preesistente, inducendo la fosforilazione di molti substrati quali le chinasi, alcune

3. Introduzione

-21-

componenti del citoscheletro, diverse proteine secretorie ed altre proteine che

intervengono nella regolazione del ciclo cellulare. Inoltre, la subunità catalitica cdk1 è

importante per la segregazione del materiale cellulare tra le cellule figlie durante il

processo di divisione cellulare. Data la rilevanza delle funzioni espletate dalla suddetta

subunità è evidente che la sua attività sia finemente regolata, in particolare, attraverso un

processo di fosforilazione a livello di specifici aminoacidi. In effetti, una volta avvenuta la

sintesi di ciclina B, cdk1 viene fosforilata a livello di treonina 161 e tale modificazione

porta all’attivazione delle funzioni di chinasi. D’altra parte, cdk1 può essere fosforilata

anche in posizione treonina 14 e tirosina 15 dall’azione di specifici enzimi, con

conseguente inattivazione del complesso ciclina B-cdk1. Tale inattivazione consente alla

cellula di raggiungere la transizione G2/M, con elevati livelli del complesso ciclina B-cdk1

mantenuto nella forma inattiva. Alcuni sistemi intracellulari hanno il compito di verificare

che tutto sia pronto per la fase successiva di mitosi o meiosi e, una volta che ciò è stato

verificato, tali sistemi attivano la fosfatasi cdc25, che defosforila i residui aminoacidici in

treonina 14 e tirosina 15 di cdk1, attivando il complesso MPF. L’attivazione del complesso

ciclina B-cdk1 porta alla fosforilazione dell’istone H1, con conseguente condensazione

della cromatina, fosforilazione delle lamine e successiva rottura dell’involucro nucleare;

inoltre si osserva anche la concomitante disaggregazione dell’apparato del Golgi e del

reticolo endoplasmatico e, infine, instabilità dei microtubuli con successiva formazione

del fuso mitotico. Una volta completata la fase di mitosi/meiosi, la cellula induce la

degradazione di ciclina B, inattivando cdk1. La degradazione della suddetta proteina

avviene mediante un meccanismo di proteolisi ubiquitina-dipendente, grazie alla

presenza di sequenze aminoacidiche (denominate, nel loro insieme, “destruction box”)

contenute nella regione N-terminale delle cicline. Come già evidenziato, sono state

descritte due tipologie di enzimi ubiquitina-ligasi E3, che sono responsabili della

ubiquitinizzazione delle cicline, vale a dire il complesso APC/C o, in alternativa, il

complesso SCF. In particolare, la proteina APC/C si presenta sotto due forme, definite

sulla base del cosiddetto fattore di specificità Cdc20 o, alternativamente, Cdh1, necessario

per l’attivazione di APC/C. Il complesso APC/C-Cdc20 è attivo esclusivamente durante

la fase di mitosi del ciclo cellulare e la sua funzione è importante per la segregazione dei

cromosomi e per la transizione del ciclo cellulare da metafase ad anafase. In anafase tale

complesso viene sostituito dal complesso APC/C-Cdh1 che rimane attivo fino alla fase

G1/S e la cui funzione è essenziale per la progressione del ciclo cellulare in fase S, in cui

ha inizio la replicazione del DNA cellulare. Inoltre, tale complesso è attivo in cellule

3. Introduzione

-22-

differenziate e in cellule in stato quiescente, risultando importante anche per il

mantenimento delle stesse in fase G0 (Harper J.W. et al., 2002; Peters J.M., 2002). Mentre i

complessi ubiquitina-ligasi di tipo APC/C sono attivi principalmente durante le fasi M e

G1 del ciclo cellulare, quelli di tipo SCF appaiono più versatili, intervenendo a molteplici

stadi del ciclo cellulare e svolgendo diversi ruoli di regolazione, oltre a quello principale

di modulazione dell’attività di cdk (Vodermaier C., 2004) [Figura 7].

Figura 7: Ruolo delle ubiquitina-ligasi APC/C e SCF1 nell’ambito del ciclo cellulare (immagine tratta da “Vodermaier H.C., 2004”).

Altro fattore di rilievo nella regolazione del ciclo cellulare è la proteina p53, che ha il

compito di controllare (specialmente in fase G1) se sono avvenute mutazioni o alterazioni

a carico del DNA. In tali circostanze, i livelli di p53 aumentano, consentendo alla suddetta

proteina di provvedere a riparare il DNA, sfruttando a proprio vantaggio il parallelo

blocco del ciclo cellulare. Se tuttavia il danno a carico del DNA è troppo grave, p53 fa sì

che la cellula vada incontro a morte programmata (apoptosi).

3. Introduzione

-23-

La proteina p53 è un fattore di trascrizione che induce la sintesi ex novo della proteina

p21Cip1 (famiglia “CIP/KIP: cdk interacting protein/kinase inhibitory protein”), in grado

di bloccare l’azione della proteina “proliferating cell nuclear antigen” (PCNA), necessaria

alla formazione della forcella di sostegno richiesta dall’enzima DNA polimerasi durante la

duplicazione del DNA in fase S (El-Deiry W.S. et al., 1994; Luo Y. et al., 1995). Inoltre,

p21Cip1 blocca direttamente i complessi attivati di ciclina D-cdk4 e ciclina D-cdk6 durante

il superamento del punto di restrizione nella fase G1 [Figura 5].

Infezione virale e proteasomi

I proteasomi, il cui intervento è, come già sottolineato, cruciale nella regolazione

dell’omeostasi proteica, vengono sempre più spesso evocati in letteratura anche per il loro

ruolo nell’ambito del ciclo replicativo di numerosi virus che infettano l’uomo. Tale

intervento non è univoco, ma varia dipendentemente dal tipo di virus (es. virus a DNA o

ad RNA, replicazione nucleare o citoplasmatica), come era logico attendersi, dato il ruolo

multifunzionale attribuito ai proteasomi e data la loro collocazione sia a livello

citoplasmatico che nucleare.

Nell’ambito dei virus a DNA, per esempio, è stata messa in evidenza la capacità, da parte

della proteina virale precocissima di Herpes simplex denominata Vmw110, di indurre la

disgregazione dei domìni nucleari ND10 mediante l’attività proteolitica dei proteasomi,

con lo scopo di dirigere l’infezione virale verso il ciclo litico, mentre la mancata

disgregazione dei suddetti domìni consentirebbe un’evoluzione dell’infezione

preferenzialmente verso una condizione di latenza (Everett R.D. et al., 1998). In corso di

infezione virale con papillomavirus umano di tipo 16, è stato osservato che la proteina

virale E7 si lega con alta efficienza alla proteina pRb nella forma ipofosforilata, causando

conseguentemente la rimozione del complesso pRB-E2F e promuovendo, pertanto, la

progressione del ciclo cellulare in fase G1/S. Tuttavia, la proteina E7 è anche in grado di

indurre la degradazione della proteina pRb mediante l’attivazione del proteasoma 26S. In

particolare, è stata osservata una interazione tra una specifica subunità del complesso

regolatore 19S dotata di attività ATPasica e la proteina E7, che funge da tramite tra il

proteasoma 26S e la proteina pRb. L’instaurarsi di questo singolare legame porta alla

degradazione della proteina pRb senza l’intervento del sistema di ubiquitinizzazione.

Parallelamente a quanto appena descritto per la proteina pRb, la proteina E7 può indurre

la degradazione di altre proteine cellulari, quali p130 e p107, che possiedono una elevata

omologia di sequenza con la proteina pRb. Inoltre, è stato osservato che la stessa proteina

3. Introduzione

-24-

E7 può essere sottoposta ad ubiquitinizzazione ed essere successivamente degradata dal

proteasoma 26S (Boyer S.N. et al., 1996; Berezutskaya E. et al., 1997; Jones D.L. and Münger

K., 1997; Reinstein E. et al., 2000; Gonzalez S.L. et al., 2001).

Per quel che riguarda i virus ad RNA, recentemente è stato osservato come la proteina

non strutturale NS3 del virus dell’epatite C (HCV), che svolge un ruolo cruciale nel

meccanismo di rielaborazione delle poliproteine virali, nella replicazione dell’RNA virale

e nella traduzione, sia in grado di legarsi direttamente alla subunità LMP7

dell’immunoproteasoma. Tale legame fa sì che l’attività peptidasica della proteina virale

induca una marcata riduzione della attività del proteasoma. Tale meccanismo andrebbe

ad interferire con il meccanismo di rielaborazione degli antigeni virali per la

presentazione mediata dal complesso maggiore di istocompatibilità di classe I,

proteggendo pertanto il virus HCV dal sistema immunitario dell’organismo ospite e

consentendo una infezione persistente del virus (Khu Y.L. et al., 2004). Similmente, la

proteina virale Tat di HIV-1 e HIV-2 è in grado di inibire l’attività peptidasica del

proteasoma 20S, interferendo con il legame tra il proteasoma 20S e il complesso regolatore

PA28 e non consentendo, pertanto, la formazione di peptidi virali per la presentazione

dell’antigene da parte del complesso maggiore di istocompatibilità di classe I (Seeger M. et

al., 1997). Tuttavia, tale proteina è in grado di incrementare parallelamente la

degradazione di substrati proteici mediata dall’attività del proteasoma 26S.

Dati di letteratura attestano che un intervento del sistema ubiquitina-proteasoma sembra

essere richiesto nell’ambito di eventi cruciali, precoci o tardivi (quali endocitosi e

maturazione-gemmazione), del ciclo replicativo di diverse famiglie virali. Nello specifico,

è stato dimostrato l’intervento dei proteasomi nell’ambito del processo di

internalizzazione del virus influenza, che prevede il passaggio pH-dipendente del virus

attraverso endosomi; l’inibizione della funzione proteolitica mediata da proteasomi

porterebbe al sequestro del virus nel citoplasma, impedendone l’ingresso nel nucleo e la

conseguente evoluzione del suo ciclo replicativo. Tale intervento da parte del sistema

ubiquitina-proteasoma sul processo di endocitosi del virus influenza sembra essere anche

estremamente mirato, in quanto non si verifica per altri virus, non correlati al virus

influenza, quali il virus Semliki Forest (Togaviridae) ed il virus della stomatite vescicolare

(Rhabdoviridae) (Khor R. et al., 2003).

Per quel che riguarda gli eventi tardivi del ciclo di replicazione virale, dati sperimentali

supportano un intervento dei proteasomi nell’ambito dei processi di maturazione e

rilascio dei retrovirus HIV-1 e HIV-2. In particolare, è stata dimostrata un’interazione

3. Introduzione

-25-

funzionale del sistema proteasoma-ubiquitina nel processo di maturazione della

poliproteina Gag, operato dalla proteasi virale. In tale accezione, l’intervento congiunto

dei proteasomi non sembra peraltro interferire con la funzione proteasica virus-specifica;

al contrario, l’assenza della suddetta funzione proteasomale porterebbe ad una ridotta

efficacia del processo di gemmazione, così come ad una significativa diminuzione di

progenie virale infettante (Schubert U. et al., 2000). Analogo intervento da parte dei

proteasomi è stato chiamato in causa per il virus della stomatite vescicolare e per il virus

della rabbia (Rhabdoviridae), le cui proteine di matrice medierebbero il legame con residui

aminoacidici di enzimi di tipo E3 (ubiquitina-ligasi), innescando poi l’attività enzimatica

dei proteasomi, coinvolta nel favorire la gemmazione dei suddetti virus (Harty R.N. et al.,

2001).

3. Introduzione

-26-

3.2 I MODELLI DI STUDIO

3.2.1 IL TESSUTO MUSCOLARE

Caratteristiche generali

Nei vertebrati esistono tre tipi ben distinti di tessuto muscolare: il tessuto muscolare

viscerale, cardiaco e scheletrico. Essi differiscono sia per la struttura delle fibre che li

compongono, che per il modo con cui esse sono organizzate nell’ambito del tessuto;

caratteristica comune a tutte le fibre muscolari è, comunque, la presenza in esse di un

apparato contrattile costituito da filamenti proteici denominati microfilamenti.

- Il tessuto muscolare scheletrico è responsabile del movimento dello scheletro e di organi

come il bulbo oculare e la lingua. I muscoli scheletrici sono spesso definiti muscoli

volontari poiché possono essere controllati dalla volontà.

- Il tessuto muscolare viscerale forma la componente muscolare di strutture quali i vasi

sanguigni, il tratto gastrointestinale, l’utero e la vescica. Poiché questi tipi di muscoli

sono sotto il controllo del sistema nervoso autonomo, essi sono descritti come muscoli

involontari.

- Il tessuto muscolare cardiaco ha caratteristiche funzionali e strutturali intermedie tra quelle

dei due tipi precedenti (muscolo scheletrico involontario), ed è responsabile della

continua e ritmica contrattilità del cuore.

Muscolo scheletrico e sua embriogenesi

Il muscolo scheletrico è costituito da fibre derivanti dall’associazione di cellule molto

allungate, non ramificate, cilindriche, caratterizzate dalla presenza di numerosi nuclei

appiattiti, che risultano disposti quasi ad intervalli regolari e sono localizzati appena sotto

la membrana che avvolge le fibre (sarcolemma).

Durante l’embriogenesi, le cellule mesodermiche dei miotomi si differenziano in

mioblasti, che sono cellule a morfologia allungata, mononucleate e capaci di dividersi per

mitosi. Successivamente, i mioblasti vanno incontro a fusione formando cellule

multinucleate sempre più lunghe, chiamate miotubi. La sintesi delle proteine contrattili

inizia dopo la fusione dei mioblasti; i nuclei dei mioblasti si dispongono dapprima lungo

l’asse centrale del miotubo e, in seguito alla formazione di ulteriori proteine contrattili,

vengono spinti verso la periferia, con formazione della miofibra. Il processo di sviluppo

del muscolo, insieme a quello di innervazione, è quasi del tutto completato alla nascita. La

3. Introduzione

-27-

successiva crescita avviene pertanto per aumento di volume del citoplasma delle cellule

muscolari. Le cellule muscolari mature risultano altamente differenziate e, in seguito a un

eventuale danno muscolare, hanno una limitata capacità di riparazione e rigenerazione;

tuttavia, alcune cellule mononucleate, chiamate cellule satelliti, rimangono localizzate tra

la membrana basale e la membrana citoplasmatica delle fibre muscolari. Le cellule satelliti

sono responsabili dello sviluppo del muscolo; inoltre, quando esso viene danneggiato, tali

cellule vengono indotte a differenziarsi e a fondersi per ricostituire le fibre del muscolo

leso. Queste cellule possono essere coltivate e indotte a differenziarsi anche in vitro (Nag

A.C. and Foster J.D., 1981; Morgan J.E. and Partridge T.A., 2003; Chargé S.B.P. and

Rudnicki M.A., 2004; Dhawan J. and Rando T.A., 2005; Sherwood R.I. and Wagers A.J.,

2006).

Struttura e composizione del muscolo scheletrico

Il muscolo scheletrico è formato da un ventre muscolare, in cui si trovano fasci di fibre

muscolari e due tendini connettivali con cui il muscolo si inserisce sulle ossa. Le fibre

muscolari scheletriche sono allungate e del tutto particolari per struttura e caratteristiche

funzionali. Esse sono riunite in fasci allungati chiamati fascicoli; un delicato tessuto

connettivo (endomisio) occupa gli spazi tra le singole fibre muscolari. I fascicoli sono

circondati da un tessuto connettivo lasso chiamato perimisio. Generalmente, i muscoli

sono composti da molti fascicoli e l’intera massa muscolare è rivestita da un denso

connettivo esterno (epimisio). Grossi vasi ematici e nervi entrano attraverso l’epimisio e si

dividono, per ramificarsi attraverso il muscolo, nel perimisio e nell’endomisio. Ogni fibra

muscolare è delimitata da una membrana (sarcolemma) e al suo interno si trova il

citoplasma (sarcoplasma), contenente numerosi nuclei. Il volume di ogni fibra muscolare

è, tuttavia, quasi interamente occupato dall’apparato contrattile, costituito da numerose

subunità filamentose disposte in modo parallelo nel sarcoplasma (miofibrille), alla cui

struttura è dovuta la striatura trasversa dell’intera fibra muscolare [Figura 8 ].

3. Introduzione

-28-

Figura 8: Struttura e composizione del muscolo scheletrico (immagine tratta dal “Dizionario Enciclopedico di Scienze Mediche e Biologiche e di Biotecnologie”, Zanichelli, 2ª ed, 2003).

Per permettere la contrazione sincrona di tutti i sarcomeri di una fibra muscolare, un

sistema di estroflessioni tubulari della membrana plasmatica si estende trasversalmente

alla cellula muscolare per circondare ogni miofibrilla a livello della regione di giunzione

tra le cosiddette bande A ed I [Figura 9]. Nell’ambito della fibra muscolare è pertanto

presente un sistema tubulare, denominato sistema T, il cui lume è continuo con lo spazio

extracellulare. Strettamente associati, ma non connessi con il sistema T, sono due sistemi

di membrane completamente derivanti dal reticolo endoplasmatico liscio che formano il

cosiddetto reticolo sarcoplamatico. Il reticolo sarcoplasmatico si ramifica, a sua volta, per

formare una rete di membrane che avvolge ogni miofibrilla. Ogni tubulo T, assieme ai due

sistemi associati del reticolo sarcoplasmatico, chiamati cisterne terminali, forma una triade

a livello della giunzione delle bande A ed I di ogni sarcomero.

Le miofibrille (diametro compreso tra 0,5 e 2 µm) sono separate le une dalle altre da una

piccola quantità di sarcoplasma contenente mitocondri, orientati in modo parallelo alle

miofibrille. Ogni miofibrilla è formata da proteine contrattili, disposte in modo ordinato;

questa disposizione è responsabile della striatura longitudinale. Le striature della fibra

sono formate da bande I, isotrope in luce polarizzata, chiare e larghe, alternate a bande A

scure, anisotrope in luce polarizzata. La banda I è divisa da fini linee scure elettrodense

chiamate linee Z; inoltre, sono presenti linee con densità intermedia rispetto alla banda I e

alla regione laterale della banda A, che si localizzano nella parte centrale di quest’ultima e

prendono il nome di banda H o stria di Hensen. Infine, sempre nella regione centrale della

3. Introduzione

-29-

banda A, in posizione mediana, si trova la linea M, un tempo definita mesofragma.

Ciascuna miofibrilla è caratterizzata da segmenti uguali, che si ripetono regolarmente e

che prendono il nome di sarcomero. In particolare, il sarcomero (di dimensioni comprese

tra 2,5 e 3 µm) rappresenta l’unità contrattile della miofibrilla ed è compreso tra due linee

Z successive [Figura 9]. Il sarcomero è formato da due tipi di miofilamenti, differenziabili

in filamenti spessi e filamenti sottili.

Figura 9: Rappresentazione schematica del sarcomero (immagine ottenuta dal sito internet: www.accessexcellence.org).

I filamenti spessi, composti principalmente dalla proteina miosina, sono mantenuti tra

loro paralleli poiché sono ancorati a una zona principalmente rappresentata dalla linea M,

mentre i filamenti sottili, composti principalmente dalla proteina actina, sono connessi ad

una zona in cui si trova la linea Z.

La teoria dello “scorrimento dei filamenti” propone che, sotto l’influenza dell’energia

rilasciata dall’ATP, i filamenti spessi e sottili scorrano gli uni sugli altri, determinando

l’accorciamento del sarcomero. La miosina è una proteina ad elevato peso molecolare

(460kDa), caratterizzata da complesse molecole allungate in cui è possibile distinguere

una coda filamentosa e due teste affiancate tra loro, formate da una parte globosa

simmetrica [Figura 10]. Ogni miofilamento è composto da circa 200 molecole di miosina,

organizzate in modo che la “coda” delle molecole sia disposta secondo l’asse del

miofilamento spesso, mentre le “teste”, sostenute dai rispettivi “bracci articolati”,

sporgono ad intervalli regolari dal miofilamento. Le molecole miosiniche sono orientate in

modo contrapposto (coda a coda) rispetto alla metà di ogni miofilamento spesso, in

maniera tale da costituire due strutture speculari comprendenti un centinaio di molecole

3. Introduzione

-30-

ciascuna. In ciascuna metà di ogni miofilamento spesso le singole molecole di miosina

sono regolarmente spostate l’una rispetto all’altra in senso assiale e disposte secondo un

andamento a spirale [Figura 9].

Figura 10: Struttura della molecola di miosina.

I miofilamenti sottili sono costituiti da tre diverse proteine quali actina (43kDa),

tropomiosina (70kDa) e troponina (80kDa); l’actina è costituita a sua volta da molecole

globulari (G-actina) che tendono a legarsi in modo ordinato tra di loro, formando catene

filamentose di F-actina. Ogni miofilamento sottile comprende da 300 a 400 molecole di G-

actina disposte in due lunghe catene di F-actina, a volte organizzate a spirale a formare

una doppia elica. Dal lato in cui i miofilamenti sottili si legano alla linea Z, i due filamenti

di actina si separano e si ancorano alla linea Z in due distinti punti. Il legame è stabilito da

una particolare proteina, denominata α-actinina, intercalata tra le molecole di actina dei

filamenti sottili e le proteine costitutive della linea Z (principalmente desmina e

vimentina). Ogni molecola globulare di actina presenta, in una determinata regione della

sua superficie, un sito di legame ove sono localizzati gruppi chimici specifici capaci di

combinarsi con quelli presenti sulle “teste” di miosina e che risultano sporgenti dai

miofilamenti spessi, in modo da formare “ponti”. Le molecole di actina sono orientate “a

lisca di pesce” nelle due catene di ogni filamento sottile, con un’angolatura opposta nelle

due metà del sarcomero, in modo che i rispettivi “siti di legame” si trovino sempre

allineati con le “teste” miosiniche che pure sporgono dai filamenti spessi, con

un’angolatura opposta, nelle due metà del sarcomero. Il formarsi e il disaggregarsi dei

“ponti” tra le “teste” di miosina ed i siti di legame dell’actina rappresentano momenti

fondamentali nella contrazione del sarcomero.

Nel miofilamento sottile sono presenti, oltre all’actina, altre proteine che svolgono un

ruolo importante nella contrazione muscolare e sono definite accessorie o regolatorie,

3. Introduzione

-31-

quali ad esempio la tropomiosina e la troponina. La tropomiosina è costituita da molecole

a forma di lunghi bastoncelli, composti da due catene polipeptidiche strutturate ad α-

elica; la loro lunghezza è tale da estendersi lungo sette molecole di actina. Le suddette

catene polipetidiche di tropomiosina sono congiunte tra loro alle estremità, in modo da

costituire un filamento continuo; in ogni miofilamento sottile sono presenti due filamenti

di tropomiosina che decorrono nei due solchi (che rappresentano il “passo della spirale”)

esistenti tra le catene di actina. La troponina presenta molecole complesse,

approssimativamente globulari; nel miofilamento sottile ciascuna molecola di troponina è

legata ai filamenti di tropomiosina in vicinanza dei loro punti di giunzione. Ogni

molecola di troponina è composta da tre distinte subunità peptidiche, ciascuna delle quali

presenta differenti caratteristiche. La prima subunità (troponina T) è sede del legame con

la tropomiosina, la seconda subunità (troponina I) ha funzione inibitoria ed è in grado di

legare la G-actina e, infine, la terza subunità (troponina C) ha una elevata affinità per gli

ioni calcio e conferisce alla molecola troponinica il carattere di una calmodulina [Figura

11].

Figura 11: Disposizione delle proteine tropomiosina e troponina nel miofilamento sottile (immagine ottenuta dal sito internet: www.edoc.hu-berlin.de).

Infine, esistono altre proteine del miofilamento sottile che sono in stretto rapporto con le

linee Z, quali per esempio nebulina, proteina filamentosa “gigante” che decorre

parallelamente ai filamenti di actina, regolandone lo stato di polimerizzazione. Per quanto

concerne i miofilamenti spessi (costituiti da miosina), in prossimità della linea M sono

state rinvenute altre proteine, quali la proteina M, la miomesina, la creatina-fosfochinasi

muscolare, la proteina C, la proteina H e la titina (o connectina). Quest’ultima, è la più

grande proteina del sarcomero; essa attraversa tutto lo spazio tra la linea Z e la banda H e

appare estensibile nella regione della banda I, mentre è inestensibile nella regione della

banda A. La sua funzione è quella di stabilizzare la posizione dei miofilamenti nelle

3. Introduzione

-32-

miofibrille e di impedire una sovradistensione del sarcomero durante il processo di

rilasciamento, ovvero di impedire alle linee Z di allontanarsi tra di loro oltre una certa

misura (Clark K.A. et al., 2002).

La disposizione dei miofilamenti nei diversi tratti del sarcomero è tale per cui, in

condizioni di riposo, a livello della banda I vi sono solo miofilamenti sottili, nell’ambito

della banda A vi sono sia miofilamenti sottili che miofilamenti spessi, mentre nella banda

H vi sono solo miofilamenti spessi. Ove sono presenti sia miofilamenti sottili che

miofilamenti spessi, essi sono interposti secondo una simmetria esagonale: ogni

miofilamento spesso è infatti regolarmente delimitato da sei miofilamenti sottili ed ogni

miofilamento sottile è circondato, a sua volta, da tre miofilamenti spessi. L’elevata

estensibilità delle fibre muscolari non esprime una caratteristica meccanica dei

miofilamenti, che infatti hanno una lunghezza costante qualunque sia la lunghezza che

assume il sarcomero, ma è attribuibile, piuttosto, alla capacità dei miofilamenti di

modificare la loro reciproca posizione. Pertanto, quando il sarcomero si allunga o si

accorcia, i miofilamenti sottili scorrono negli spazi esistenti tra essi e quelli spessi, in

maniera tale che solo la lunghezza dei tratti in cui vi è sovrapposizione tra i miofilamenti

dei due tipi venga ad essere modificata. Ne risulta che, quando la fibra muscolare è

contratta, i miofilamenti sottili e quelli spessi sono ampiamente sovrapposti nella zona

“birifrangente” (e la banda H è molto ristretta), mentre quando essa è distesa i

miofilamenti sottili sono parzialmente o totalmente assenti dagli spazi tra quelli spessi (la

banda H è in questo caso più estesa e può occupare anche l’intera banda A) [Figura 12 ].

3. Introduzione

-33-

Figura 12: Rapporti spaziali tra i principali filamenti del sarcomero in condizioni di riposo e di contrazione.

Differenziamento muscolare e proteasomi

Il processo di miogenesi (in particolare, miogenesi murina) di frequente viene utilizzato

come modello per lo studio dei meccanismi di base che riguardano il differenziamento e

la morfogenesi, con particolare attenzione al coinvolgimento di elementi citoscheletrici e

di complessi ad essi associati.

L’uscita dal ciclo cellulare da parte di una cellula mioblastica coincide con l’inizio del

processo di differenziamento ed induce significative alterazioni a carico del profilo delle

proteine cellulari, con comparsa di alcune tipologie ed introduzione di nuove molecole

(Moran J.L. et al., 2002; Tomczak K.K. et al., 2004).; è pertanto possibile affermare che tale

obiettivo venga raggiunto sia mediante riprogrammazione genica ed espressione di

specifici mRNA, che mediante attività proteolitica.

Peraltro, il sistema proteolitico ubiquitina-proteasoma è stato il primo ad essere

caratterizzato in cellule muscolari da Goldberg A.L. e collaboratori (Fagan J.M. et al., 1997)

e sembra giocare un ruolo importante tra i numerosi fattori che intervengono nel controllo

del processo di differenziamento muscolare. Per lo studio del processo di

differenziamento miogenico in vitro, la fase iniziale prevede la coltivazione di mioblasti

proliferanti ed indifferenziati in terreno di coltura in presenza di siero. I fattori di crescita

3. Introduzione

-34-

presenti nel terreno di coltura promuovono la proliferazione dei mioblasti e ne

prevengono il differenziamento. Dopo una prima fase di proliferazione, i mioblasti sono

privati dei fattori di crescita (drastico abbassamento della percentuale di siero nel terreno

di coltura); in questo modo, essi escono definitivamente dal ciclo cellulare ed iniziano ad

esprimere geni muscolo-specifici (differenziamento biochimico). A questo stadio sono

chiamati miociti e, pur essendo ancora mononucleati, sono terminalmente differenziati, in

quanto non possono essere indotti nuovamente a dividersi mediante stimolazione con

fattori di crescita; i miociti mostrano, inoltre, anche una ridotta predisposizione

all’apoptosi. Successivamente, i miociti si fondono per formare grandi sincizi

multinucleati chiamati miotubi (differenziamento cellulare); il differenziamento ha

termine in pochi giorni (Walsh K. and Perlman H., 1997). Dal punto di vista molecolare, il

processo di differenziamento muscolare prevede una serie ordinata di eventi molecolari la

cui realizzazione è fondamentale sia per il raggiungimento dello stato post-mitotico, che

per l’espressione dei geni muscolo-specifici (Kitzmann M. and Fernandez A., 2001).

L’espressione genica muscolo-specifica è attivata dall’azione coordinata di due famiglie di

fattori trascrizionali miogenici: la famiglia bHLM (“basic helix-loop-helix”), che

comprende le molecole MyoD, Myf5, miogenina e MRF4, e la famiglia MEF-2 (“myocyte

enhancer factor 2”) (Weintraub H. et al., 1991; Weintraub H., 1993; Olson E.N. and Klein

W.H., 1994; Kitzmann M. and Fernandez A., 2001). Due componenti della famiglia bHLM,

ossia MyoD e Myf5, sono già presenti nei mioblasti proliferanti e indifferenziati; il loro

ruolo consiste nell’indirizzare il differenziamento delle cellule precursori proliferanti

esclusivamente nella direzione miogenica. I passaggi successivi della miogenesi

richiedono un altro fattore della famiglia bHLM, ossia miogenina. Quest’ultima proteina

coopera con i componenti della famiglia MEF-2 all’attivazione dell’espressione di molti

geni strutturali del muscolo scheletrico. Studi condotti sul differenziamento di mioblasti

in vitro hanno rivelato che l’espressione di miogenina viene indotta 24 ore dopo la

rimozione del siero dal terreno di coltura (Andrés V. and Walsh K., 1996).

Successivamente, queste cellule esprimono l’inibitore delle chinasi ciclina-dipendenti

p21Cip1 ed escono in modo permanente dal ciclo cellulare (Halevy O. et al., 1995). Una

volta che le cellule sono diventate post-mitotiche (circa 36-48 ore dopo la rimozione dei

fattori di crescita), viene indotta l’espressione di proteine miofibrillari, come miosina e

creatinina muscolare. I miociti post-mitotici completano infine il loro differenziamento

mediante fusione in miotubi multinucleati (Lassar A.B. et al., 1994; Lassar A.B. and

Munsterberg A., 1994). È da tempo noto che il prerequisito fondamentale, affinchè venga

3. Introduzione

-35-

indotta l’espressione dei geni muscolo-specifici, è l’uscita definitiva dal ciclo cellulare.

Infatti, ad eccezione della miogenina, la trascrizione dei geni specifici dello stato

differenziato si verifica esclusivamente in cellule post-mitotiche. In particolare, la proteina

pRb, che controlla il differenziamento muscolare, agisce, da un lato, arrestando le cellule

in G0, aumentando l’attività di trascrizione della proteina MyoD e contribuendo

all’accumulo di p21Cip1, e dall’altro, cooperando con MyoD nello stimolare l’attività

trascrizionale della famiglia dei fattori miogenici MEF-2 (David C. and Konieczni S.F.,

1995; Novitch B.G. et al., 1996; Novitch B.G. et al., 1999). Inoltre, è stato recentemente

osservato che i fattori di regolazione del muscolo formano eterodimeri con le cosiddette

proteine E, consentendo l’attivazione del processo di differenziamento miogenico

mediante il loro legame con specifiche sequenze denominate “E box”, presenti a livello

delle regioni regolatorie del promotore dei geni bersaglio del muscolo (Pownall M.E. et al.,

2002).

In particolare, l’attività di trascrizione dei fattori di regolazione del muscolo è

negativamente regolata da una famiglia di proteine denominate “inhibitors of

differentiation” (Id), la cui funzione è quella di inibire il legame dei suddetti fattori con il

DNA. Nello specifico, la proteina MyoD e la proteina E presentano una differente affinità

di legame nei confronti della proteina Id1; la proteina E è infatti caratterizzata da una

maggiore affinità per tale proteina, rispetto alla proteina MyoD. Il legame tra proteina E e

proteina Id1 consente a quest’ultima di inibire l’attività di trascrizione stimolata dalla

proteina MyoD muscolo-specifica. Nei mioblasti la proteina Id1 è presente in elevate

quantità inibendo pertanto la trascrizione dei geni muscolo-specifici, mediata dalla

proteina MyoD, con conseguente assenza delle proteine che intervengono nel processo di

differenziamento muscolare ed inibizione del passaggio da mioblasti proliferanti a

miotubi terminalmente differenziati (Sun X.H. et al., 1991; Jen Y. et al., 1992; Langlands K.

et al., 1997).

Le proteine MyoD e Id1 sono degradate dal sistema ubiquitina-dipendente mediato dal

proteasoma 26S (Abu Hatoum O. et al., 1998; Breitschopf K. et al., 1998; Ciechanover A. et

al., 1999; Floyd Z.E. et al., 2001; Lingbeck J.M. et al., 2003; Fajerman I. et al., 2004). Il legame

tra la proteina MyoD e la proteina Id1, oltre ad inibire l’attività trascrizionale di MyoD, la

rende probabilmente più suscettibili alla degradazione da parte dei proteasomi (Abu

Hatoum O. et al., 1998). Sun L. e collaboratori (Sun L. et al., 2005) hanno recentemente

suggerito che, nel corso del processo di differenziamento miogenico, i livelli cellulari delle

suddette proteine siano strettamente regolati da una combinazione di eventi che

3. Introduzione

-36-

prevedono, da un lato, la sintesi proteica e, dall’altro, la degradazione di tali proteine.

Inoltre, durante il processo di differenziamento muscolare, l’espressione delle proteine

MyoD e Id1 è strettamente associata a quella delle proteine E, che a loro volta sono

degradate attraverso il sistema ubiquitina-dipendente mediato dal proteasoma 26S (Kho

C.J. et al., 1997; Huggins G.S. et al., 1999). Per quanto concerne la localizzazione cellulare

dei proteasomi durante il processo di differenziamento muscolare, in letteratura sono

riportati dati alquanto contrastanti. Nello specifico, alcuni Autori hanno evidenziato una

localizzazione prettamente nucleare (Stauber W.T. et al., 1987), altri esclusivamente

citoplasmatica (Kamura K. et al. ,1988; Beyette J.R. and Mykles D.L., 1992; Kumamoto T. et

al., 2000), altri ancora, sia citoplasmatica che nucleare (Low P. et al., 2000).

Esperimenti di cinetica che si sono avvalsi di un anticorpo monoclonale diretto nei

confronti di una specifica subunità proteica del proteasoma 20S (α1/p27K), hanno inoltre

permesso di mettere in evidenza una distribuzione dinamica di tali complessi durante il

processo di differenziamento di cellule satelliti in vitro. In particolare, in cellule satelliti di

ratto allo stadio di mioblasti, la localizzazione dei proteasomi è risultata inizialmente di

tipo citoplasmatico e, in fasi più tardive, di tipo nucleare. Infine, durante la fase di fusione

dei mioblasti, la loro localizzazione è risultata nuovamente di tipo citoplasmatico, con un

profilo puntiforme, parzialmente sovrapponibile a quello dei microfilamenti di actina e

dei filamenti intermedi di tipo desmina; tale profilo assumeva successivamente una

organizzazione pseudo-sarcomerica in bande, che si sovrapponeva ai microfilamenti di

actina. In particolare, in colture di cellule satelliti di ratto in fase di fusione, i proteasomi

sembrano presentare questo tipo di organizzazione poco prima della formazione di una

struttura sarcomerica matura, messa in evidenza da marcatori di α-actina (Foucrier J. et

al., 1999). Questa organizzazione pseudo-sarcomerica è stata successivamente rilevata

anche in sezioni longitudinali di tessuto muscolare scheletrico e in colture primarie di

cardiomiociti ventricolari di ratto mediante l’impiego di sonde immunologiche dirette nei

confronti di due diverse subunità del proteasoma 20S (α1/p27K e α3/p29K). Inoltre, in

colture primarie di cellule muscolari lisce di aorta di ratto, in cui non si osserva

normalmente la formazione di una struttura sarcomerica, è stata in alcuni rari casi rilevata

la formazione di una struttura pseudo-sarcomerica del proteasoma mediante l’impiego di

sonde immunologiche dirette nei confronti di alcune specifiche subunità del proteasoma

20S (Foucrier J. et al., 2001). Sulla base di questi dati è stato recentemente ipotizzato che la

formazione di una struttura pseudo-sarcomerica da parte di specifici proteasomi possa

svolgere una particolare funzione nell’ambito del sarcomero, mediante l’instaurarsi di un

3. Introduzione

-37-

legame con alcuni degli elementi che controllano il processo di formazione del sarcomero,

rivalutando l’idea secondo la quale i proteasomi non sarebbero componenti proteiche

solubili nel citoplasma, ma bensì complessi molecolari associati a specifiche strutture

cellulari.

In effetti, una ormai sostanziosa mole di dati di letteratura avvalora l’ipotesi secondo la

quale la nozione spaziale, ovvero la specifica distribuzione di una molecola nell’ambito

dei diversi compartimenti cellulari, assume un’importanza analoga a quella della

funzione medesima, che non potrebbe espletarsi al di fuori di quel preciso distretto.

Pertanto, sebbene l’implicazione dei proteasomi nell’ambito della degradazione delle

proteine a livello muscolare sia ben documentata, i dati di letteratura attualmente

disponibili, relativi alla localizzazione dei proteasomi nel corso del processo di

differenziamento, sono ancora piuttosto frammentari e parziali. Lo studio della

localizzazione di specifici proteasomi a livello del tessuto muscolare scheletrico

rappresenta uno degli obiettivi di questo studio.

3.2.2 CITOMEGALOVIRUS

Caratteristiche generali

Il citomegalovirus umano (HCMV) viene ancora oggi considerato uno tra gli agenti

eziologici più importanti nell’indurre anomalie congenite e/o sequele neurologiche

tardive nel bambino, in seguito ad un’infezione primaria intrauterina. In aggiunta a

queste gravi patologie, HCMV costituisce un potenziale problema in altre particolari

condizioni come, ad esempio, in individui con infezione da HIV o in soggetti sottoposti a

trapianto d’organo ed in trattamento terapeutico immunosoppressivo.

Il citomegalovirus umano appartiene alla famiglia Herpesviridae, sottofamiglia

Betaherpesvirinae. HCMV mostra alcune caratteristiche biologiche distintive comuni a tutti

i betaherpesvirus come, ad esempio, uno spiccato tropismo per le ghiandole salivari, uno

spettro d’ospite molto ristretto ed una lenta crescita in cellule in coltura. HCMV si replica

in vitro in cellule fibroblastoidi con corredo cromosomico diploide e provenienti dalla

specie ospite naturale in vivo, mentre le cellule indifferenziate, trasformate o aneuploidi

non sono suscettibili all’infezione. D’altra parte, nell’infezione naturale non solo le cellule

fibroblastoidi, ma anche le cellule epiteliali, muscolari lisce ed endoteliali sono in grado di

sostenere un’infezione produttiva (Sinzger C. et al., 1995).

3. Introduzione

-38-

Il citomegalovirus ha dimensioni variabili (comprese tra 150 e 250 nm) e presenta un

capside a simmetria icosaedrica. Tale virus è, inoltre, rivestito da un involucro lasso,

denominato pericapside, composto principalmente da fosfolipidi e glicoproteine, al di

sotto del quale è presente un tegumento elettrodenso, costituito da materiale fibro-

granulare di natura proteica [Figura 13].

Figura 13: Rappresentazione schematica di citomegalovirus (immagine ottenuta dal sito internet: www.biografix.de).

I virioni presentano uno spiccato pleiomorfismo, dovuto non solo alla variabilità di

spessore del tegumento, ma anche alla possibile presenza di particelle difettive. In

particolare, si è visto che nelle cellule infettate è possibile riscontrare, oltre ai virioni

completi, altri due tipi di particelle virali defettive, chiamate “Dense Bodies” (DB) e “Non

Infectious Envelope Particles” (NIEP) (Sarov I. and Abady I., 1975; Irmiere A. and Gibson

W., 1983; Gibson W., 1996). I virus “DB”, provvisti di un pericapside uguale a quello dei

virioni maturi, sono privi sia di genoma virale, che di struttura capsidica interna. I virus

“NIEP” sono anch’essi privi del genoma, ma provvisti di capside, tegumento e

pericapside virale. Come per tutti i membri della famiglia Herpesviridae, il genoma di

citomegalovirus è costituito da un’unica molecola lineare di DNA a doppia elica, ma di

dimensioni maggiori rispetto agli altri herpesvirus.

nucleocapside

genoma

membrana

glicoproteine

tegumento

3. Introduzione

-39-

Le proteine virali

Nell’ambito delle proteine virali a funzione enzimatica, le più importanti proteine

regolatorie sono rappresentate dai prodotti di due diversi loci genici di HCMV; il locus

IE1/IE2 che codifica per una famiglia di proteine regolatorie denominate “Immediate

Early Modulators” (MIE) e il locus US3 codificante per una proteina immunomodulatoria.

A sua volta, l’attività delle proteine regolatorie virali potrebbe essere modulata da chinasi

(Gallina A. et al., 1999) e fosfatasi (Michelson S. et al., 1996) di origine cellulare, già

presenti nel virione maturo.

Dall’espressione dei geni precocissimi deriva il primo gruppo di proteine virali,

comprendente il complesso antigenico nucleare “Immediate-Early Antigens” (IEA),

composto da almeno due proteine principali: IE1p72 e IE2p86. Queste proteine

precocissime sono caratterizzate dalla presenza di una breve sequenza aminoacidica

comune codificata dall’esone 2 e dall’esone 3 della regione IE. Recentemente è stato

attribuito alla sequenza dell’esone 3 un ruolo di spicco nell’ambito della regolazione della

trascrizione, dell’espressione dei geni virali precoci e nella modulazione delle proteine,

quali ad esempio le cicline, che risultano direttamente coinvolte nella regolazione del ciclo

cellulare (White E.A. and Spector D.H., 2005).

IE2p86 rappresenta la più importante proteina con funzioni regolatorie codificata dal

virus (Spector D.H., 1996; Stenberg R.M., 1996). Il ruolo più rilevante di questa proteina

consiste nell’attivazione dell’espressione sia dei geni β che dei geni γ. Compito di IE2p86

è, inoltre, quello di assicurare che l’espressione dei geni, durante l’infezione, avvenga in

modo sequenziale e temporalmente regolato, oltre che di garantire la repressione

dell’espressione dei due geni α IE1/IE2 e, probabilmente, anche del gene US3, nelle fasi

tardive dell’infezione. I prodotti del gene IE2 funzionano quindi da attivatori

trascrizionali, coadiuvati in questa funzione dai prodotti del gene IE1 che ne promuovono

ulteriormente l’attività. Una funzione inedita è stata recentemente attribuita alla proteina

IE2p86, che risulta coinvolta nella regolazione dell’espressione dei geni che codificano per

proteine che agiscono come mediatori e regolatori dell’immunità innata, quali le citochine.

In corso di infezione virale, le cellule infettate sono in grado di rispondere all’infezione

mediante l’attivazione di citochine e chemochine pro-infiammatorie. In particolare, in

corso di infezione virale le prime citochine ad essere espresse e secrete sono l’interferone β

(IFN-β) e l’interferone α (IFN-α), il cui scopo è quello di bloccare la replicazione del

genoma virale in cellule infettate e nei tessuti circostanti. Inoltre, le cellule infettate

possono produrre chemochine la cui funzione è quella di consentire la rimozione degli

3. Introduzione

-40-

agenti virali mediante il richiamo di leucociti, di macrofagi, di cellule “Natural Killer”

(NK) e di cellule T al sito di infezione, potenziando, da un lato, l’attività citotossica che

caratterizza le cellule NK e T e, dall’altro, bloccando l’entrata degli agenti virali che

riconoscono i recettori per le chemochine.

Numerosi dati di letteratura mettono in evidenza che HCMV regola l’espressione

dell’interferone β (Zhu H. et al., 1998; Browne E.P. et al., 2001; Browne E.P. and Shenk T.,

2003; Taylor R.T. and Bresnahan W.A., 2005), di alcune chemochine, quali per esempio le

chemochine definite come “regulated upon activation normal T cell expressed and

secreted” (RANTES) (Abate D.A. et al., 2004; Browne E.P. et al., 2001; Browne E.P. and

Shenk T., 2003; Zhu H. et al., 1998; Gravel S.P. and Servant M.J., 2005; Schroeder M.B. and

Worthen G.S., 2001), di monociti indotti dall’interferone γ (“monokine induced by

interferon-γ” o “MIG”) (Abate D.A. et al., 2004; Browne E.P. et al., 2001; Browne E.P. and

Shenk T., 2003), delle proteine 1 e 2 di monociti chemiotattici (MCP-1 e -2) (Browne E.P.

and Shenk T., 2003; Hirsch A.J. and Shenk T., 1999), della proteina 1α di macrofagi indotti

dal processo infiammatorio (MIP-1α) (Abate D.A. et al., 2004; Browne E.P. et al., 2001) e,

infine, dell’interleuchina 8 (Browne E.P. and Shenk T., 2003; Compton T. et al., 2003a;

Craigen J.L. et al., 1997; Randolph-Habecker J.R. et al., 2002). L’espressione delle suddette

proteine risulta particolarmente pronunciata quando l’espressione dei geni virali di

HCMV è arrestata, facendo pertanto supporre che una o più proteine virali di nuova

sintesi possano bloccare attivamente l’espressione di questi geni (Browne E.P. et al., 2001;

Hirsch A.J. and Shenk T., 1999; Schroeder M.B. and Worthen G.S., 2001; Zhu H. et al.,

1997). Studi recenti hanno dimostrato che la proteina virale IE2p86 è in grado di impedire

l’induzione dell’interferone β in corso di infezione virale (Taylor R.T. and Bresnahan

W.A., 2005), di intervenire nella soppressione dell’induzione trascrizionale delle citochine

e, parallelamente, di causare un blocco dell’espressione dei geni che codificano per le

citochine e per le chemochine pro-infiammatorie in corso di infezione virale da HCMV

(Taylor R.T. and Bresnahan W.A., 2006).

Per quanto concerne la proteine IE1p72, è da sottolineare che non solo è in grado di

cooperare con la proteina IE2p86, ma anche di influenzare direttamente l’espressione

genica attraverso l’interazione con diversi fattori della trascrizione. IE1p72 è, inoltre,

coinvolta in numerosi processi cellulari quali, ad esempio: regolazione genica,

progressione del ciclo cellulare, trasduzione dei segnali, dispersione dei “PODs” (“PML

oncogenic domains” o “ND10” o “nuclear dots”) e apoptosi (Zhu H. et al., 1995; Ahn J.H.

and Hayward G.S., 1997; Muller S. and Dejean A., 1999; McElroy A.K. et al., 2000).

3. Introduzione

-41-

Sempre nell’ambito dell’espressione dei geni α, sono da evidenziare i diversi prodotti di

“splicing” codificati dal gene US3, che hanno caratteristiche di glicoproteine integrali di

membrana (Jones T.R. et al., 1995; Jones T.R. et al., 1996) e risultano coinvolti nella

diminuita espressione delle molecole del complesso maggiore di istocompatibilità di

classe I, ostacolandone sia il trasporto intracellulare che la maturazione. Il gene US3

rappresenta il primo gene virale, trascritto subito dopo l’inizio dell’infezione, che

contribuisce, insieme a numerose altre strategie attuate da HCMV, all’evasione della

risposta immunitaria (Liu W. et al., 2002).

I prodotti proteici dei geni precoci β includono antigeni virali a localizzazione nucleare

(“EA” o “Early Antigens”), antigeni virali con sede citoplasmatica (“ECA” o “Early

Cytoplasmic Antigens”), distribuiti sia nella regione perinucleare sia diffusamente nel

citoplasma, e, infine, proteine virali di membrana (“EMA” o “Early Membrane

Antigens”). Anche l’enzima DNA-polimerasi virale viene trascritto dai geni β.

Il complesso dei geni tardivi, trascritto dopo la replicazione del DNA virale, codifica per

le proteine strutturali che andranno a comporre il pericapside, il tegumento ed il capside

delle particelle virali.

Il pericapside virale è formato, come già accennato, da un doppio strato lipidico, tipico

delle membrane cellulari, in cui sono inseriti complessi glicoproteici virus-specifici, che

svolgono funzioni di rilievo in diversi processi, quali l’ingresso del virus nella cellula

ospite o, ancora, la risposta immunitaria, in quanto siti di legame per gli anticorpi

neutralizzanti. In particolare, sono due i principali complessi glicoproteici conservati in

tutti i sottogruppi della famiglia Herpesviridae (Britt W.J. and Mach M., 1996). Uno di

questi complessi viene codificato dal gene gB. Il gene gB viene trascritto in un mRNA

codificante per una proteina che, dopo glicosilazione e trasporto nell’apparato del Golgi,

subisce un taglio endoproteolitico che dà luogo ad un dimero della glicoproteina B (gB). Il

secondo complesso glicoproteico è formato dai prodotti di tre geni distinti: gH, gL e gO. Il

genoma di HCMV codifica, inoltre, per numerose proteine con caratteristiche tipiche delle

proteine transmembranarie, come la proteina “integrate membrane protein” (Lehner R. et

al., 1989), che potrebbero quindi rappresentare costituenti minori del pericapside virale ed

essere coinvolte nelle fasi di attacco e di ingresso del virus nella cellula ospite.

Il tegumento, o matrice, è costituito da 25 tipi diversi di proteine fosforilate, come

sottolineato dal prefisso pp (“phosphoprotein”) che le contraddistingue; tali proteine sono

altamente immunogene. Le più rappresentate sono: ppUL83 (pp65), ppUL32 (pp150),

ppUL99 (pp28), ppUL82 (pp71) e ppUL48 (“huge tegument protein”) (Bradshaw P.A. et

3. Introduzione

-42-

al., 1994; Gibson W., 1996). La funzione della maggior parte delle proteine che

compongono il tegumento rimane ignota; molte di queste sembrerebbero comunque

essere coinvolte nella regolazione dell’espressione genica come transattivatori

trascrizionali (Liu B. and Stinski M.F., 1992; Winkler M. et al., 1995; Romanowski M.J. et

al., 1997).

Due proteine del tegumento, la proteina pp150 (“BPP” o “Basic Phosphoprotein”) e la

proteina pp65 (“LMP” o “Lower Matrix Protein”), rappresentano le proteine più

abbondanti durante la replicazione virale. Nel loro insieme, le due proteine costituiscono

il 35% dell’intera massa proteica del virione.

Le proteine pp65 e pp150 sono entrambe bersagli per la fosforilazione attuata dalle chinasi

virioniche. Già nell’ambito della prima ora di infezione la proteina pp65 viene

velocemente traslocata verso il nucleo cellulare grazie a specifici segnali di localizzazione

nucleare. Tali segnali sono costituiti da brevi sequenze di aminoacidi basici, denominate

sequenze di localizzazione nucleare o “NLS”. È stato ipotizzato che queste sequenze

vengono riconosciute, probabilmente a livello citoplasmatico, da proteine con funzione

recettoriale che si legano ad esse trasportandole verso il poro nucleare. In questo processo

le nucleoporine svolgono un ruolo primario, riconoscendo le “NLS” insieme alle proteine

recettoriali a cui sono legate e consentendone il successivo passaggio attraverso il poro

nucleare. La proteina pp65 contiene due “NLS” funzionalmente e strutturalmente distinte,

che risultano localizzate all’estremità carbossi-terminale della proteina; inoltre,

presentano una sequenza addizionale che ne garantisce un efficace trasferimento in sede

nucleare. Il rapido trasporto verso il nucleo, unitamente alla dimostrata attività chinasica

della stessa fosfoproteina, lascia ipotizzare un coinvolgimento della proteina pp65 nella

regolazione della replicazione e dell’espressione genica virale. L’attività chinasica

mostrata dalla proteina pp65 potrebbe essere dovuta alla sua interazione con una chinasi

di derivazione cellulare (Roby C. and Gibson W., 1986; Gallina A. et al., 1999). È

sorprendente il fatto che la proteina pp65 sembri apparentemente superflua per la

replicazione di HCMV in colture cellulari (Schmolke S. et al., 1995), nonostante la sua

abbondanza e il fatto che la presenza di un RNA antisenso per pp65 sia in grado di

bloccare la replicazione del virus (Dal Monte P. et al., 1996). Di particolare rilevanza è la

dimostrazione di un’associazione della proteina pp65 ai cromosomi della cellula infettata

durante la metafase. Il significato di tale associazione resta ancora da indagare, ma

potrebbe essere collegato alla capacità di HCMV di indurre aberrazioni cromosomiche

(Dal Monte P. et al., 1996). Inoltre, tale proteina è in grado di indurre una inibizione

3. Introduzione

-43-

parziale dell’espressione di IFN β e di alcune chemochine in corso di infezione virale,

mentre non sembra essere coinvolta nella regolazione delle citochine pro-infiammatorie, a

differenza di quanto osservato per la proteina IE2p86 (Browne E.P. and Shenk T., 2003;

Abate D.A. et al., 2004; Taylor R.T. and Bresnahan W.A., 2006). La fosfoproteina pp65 è in

grado, inoltre, con un meccanismo per il momento non identificato, di interferire con la

presentazione antigenica delle proteine IE maggiori, denominate pUL122 e pUL123

(Gilbert M.J. et al., 1996).

Un’altra abbondante fosfoproteina del tegumento è la proteina pp71 (“UMP” o “Upper

Matrix Protein”), che costituisce un’importante transattivatore trascrizionale in grado di

attivare l’espressione del locus IE1/IE2 (Liu B. and Stinski M.F., 1992).

Il tegumento contiene, inoltre, numerose proteine funzionalmente non ancora

caratterizzate, come ad esempio la proteina pp28, relativamente abbondante e altamente

immunogena, che si localizza in prossimità della superficie capsidica del virione, e la

proteina pp130, che risulterebbe implicata nell’incapsidamento del genoma virale.

In associazione alle particelle virali purificate sono state osservate diverse proteine di

derivazione cellulare come β2-microglobulina, CD13 (aminopeptidasi N), fosfatasi I,

annexina II e actina; si ipotizza che tali associazioni potrebbero favorire rispettivamente

l’adsorbimento e il trasporto intracellulare del virus durante l’infezione della cellula

ospite (Baldick C.J. and Shenk T., 1996; Varnum S.M. et al., 2004).

Il capside virale è composto da sette tipi di proteine diverse: “MCP” (“Major Capsid

Protein”), che rappresenta il principale componente dei pentoni ed esoni capsidici, “mCP”

(“Minor Capsid Protein”), “mC-BP” (“Minor Capsid Binding Protein”), “SCP” (“Smallest

Capsid Protein”) e, infine, tre distinte proteine che svolgono funzioni diverse nella

costruzione del capside stesso. Di queste ultime tre proteine la più rappresentata è la

proteina “AP” (“Assembly Protein”), che deriva dalla scissione proteolitica del suo

precursore, operata da una proteina virale con attività proteasica, detta assemblina (Welch

A.R. et al., 1991). La proteina “AP” è presente solo nei capsidi virali privi di DNA (virus

“NIEP”) e non nelle particelle virali mature contenenti l’acido nucleico (Robson L. and

Gibson W., 1989); questo depone per un coinvolgimento attivo della stessa proteina nel

processo di incapsidamento del DNA virale.

Il genoma virale

Il genoma di HCMV, che ha una lunghezza compresa tra i 200 e 240 Kb e un peso

molecolare di 150-155x106 daltons, è formato da due sequenze nucleotidiche di lunghezza

3. Introduzione

-44-

diversa, UL e US, fiancheggiate da brevi sequenze di basi ripetute e invertite, indicate

rispettivamente come b (TRL/IRL) e c (IRS/TRS), che consentono l’organizzazione del

genoma in quattro forme isomeriche. Una sequenza ripetuta ma non invertita, definita

sequenza a, si colloca alle estremità della molecola di DNA. La stessa sequenza, ma con

orientamento invertito, si trova localizzata anche nel punto di congiunzione tra le due

sequenze UL ed US. Questa peculiare distribuzione della sequenza a promuove

l’inversione genomica. La sequenza a porta inoltre segnali di regolazione in cis, detti pac-1

e pac-2, altamente conservati in tutti gli herpesvirus e finalizzati al taglio e

all’incapsidamento del genoma virale (McVoy M.A. et al., 1998).

Ciclo di moltiplicazione virale

Lo studio del ciclo replicativo di HCMV è reso complesso dal fatto che tale virus, oltre a

dare luogo ad una infezione produttiva, può rimanere nelle cellule allo stato latente o

indurre in queste un’infezione di tipo persistente. Per quel che riguarda il ciclo litico

[Figura 14], l’attacco alla superficie cellulare è rapido ed efficiente, sia in cellule

permissive che in cellule non permissive, suggerendo una vasta distribuzione dei recettori

cellulari riconosciuti da HCMV. L’interazione tra virus e cellula ospite avviene mediante il

legame degli antirecettori virali a molecole di proteoglicano presenti sulla superficie della

membrana cellulare e a recettori cellulari addizionali (Boyle K.A. and Compton T., 1998;

Compton T. et al., 1993). All’iniziale interazione con i recettori cellulari seguono

l’adsorbimento e la penetrazione del virus che coinvolgono recettori cellulari

abbondantemente rappresentati ma scarsamente caratterizzati.

Figura 14: Il ciclo replicativo di citomegalovirus umano (immagine ottenuta dal sito internet: www.biografix.de).

RE

N

G

3. Introduzione

-45-

Mentre i complessi recettoriali cellulari restano ancora da identificare, gli antirecettori

virali sono rappresentati, con ogni probabilità, dalle glicoproteine gB e gH/gL (Kinzler

E.R. and Compton T., 2005).

La penetrazione del virus è mediata dalla fusione del pericapside virale con la membrana

cellulare, processo che risulta indipendente dall’abbassamento del pH (Compton T. et al.,

1992) e che, probabilmente, coinvolge in prima istanza il complesso glicoproteico virale

gH/gL (Keay S. and Baldwin B., 1991).

Successivamente alla penetrazione nella cellula ospite, il nucleocapside virale si muove

rapidamente verso il nucleo. Il ciclo replicativo di HCMV avviene, infatti,

prevalentemente a livello nucleare, dove il genoma virale circolarizzato, grazie alla

presenza delle strutture palindromiche alle sue estremità, viene trascritto da idonei

enzimi cellulari.

HCMV ha un ciclo replicativo assai lento e induce nelle cellule infettate caratteristiche

modificazioni che portano ad un aumento delle dimensioni cellulari, oltre alla comparsa

di inclusioni nucleari e citoplasmatiche, alle quali il virus deve il suo caratteristico nome.

L’espressione del genoma virale avviene in modo sequenziale e temporalmente regolato.

Sulla base di questo criterio, possono essere identificate tre classi di geni virali: geni

precocissimi (“IE“ o “immediate early“ o α), precoci (“E“ o “early“ o β) e tardivi (“L“ o

“late“ o γ). L’espressione dei geni α avviene immediatamente dopo l’ingresso del virus

nella cellula ospite ed è indipendente dall’espressione di altri geni virali. L’espressione dei

geni β, al contrario, dipende dall’espressione dei geni α, così come dipendente dai geni β è

la successiva espressione dei geni γ. La trascrizione in sequenza temporale dei geni α, dei

geni β e, infine, dei geni γ, avviene ad opera dell’enzima RNA polimerasi II cellulare e di

altri fattori che fanno parte della complessa macchina trascrizionale della cellula ospite,

cooptata dal virus durante l’infezione. I fattori trascrizionali della cellula ospite sono

influenzati da transattivatori codificati dal virus, che modulano l’espressione sia dei geni

virali che dei geni cellulari durante l’infezione. Sempre a livello nucleare, il DNA replicato

viene inserito nei capsidi preformati; in questo modo, le particelle sub-virali risultano

essere di dimensioni tali da non poter abbandonare il distretto nucleare attraverso il

complesso dei pori nucleari. Il capside virale deve quindi attraversare la lamina nucleare

per poter raggiungere la membrana nucleare interna. Questo processo richiede la

depolimerizzazione della lamina nucleare stessa che, molto probabilmente, avviene per

fosforilazione delle proteine che la compongono, in particolare in seguito all’attivazione

di chinasi cellulari reclutate dal virus (Muranyi W. et al., 2002).

3. Introduzione

-46-

Successivamente, gemmando attraverso la membrana nucleare interna verso lo spazio

perinucleare, le particelle sub-virali acquisiscono alcune proteine del tegumento ed un

pericapside primario che, fondendosi con la membrana nucleare esterna, permetterà il

rilascio del nucleocapside nel citoplasma. I nucleocapsidi “nudi” raggiungono in seguito il

reticolo endoplasmatico e, infine, l’apparato del Golgi, acquisendo addizionali proteine

del tegumento e il loro pericapside maturo. I virioni sono quindi trasportati verso la

membrana citoplasmatica in vescicole derivate dall’apparato del Golgi e vengono liberati

all’esterno della cellula ospite per esocitosi (Sanchez V. and Spector D.H., 2002). Il virione

maturo di HCMV, a differenza degli altri virus a DNA, contiene due classi di molecole di

RNA, oltre alla molecola di DNA genomico. Un tipo di RNA forma delle strutture ibride

del tipo RNA-DNA all’interno dell’origine di replicazione “oriLyt“ che potrebbero

facilitare la replicazione dello stesso DNA virale (Prichard M.N. et al., 1998), mentre il

secondo tipo di trascritto sembra essere impacchettato all’interno delle particelle virali

localizzandosi a livello del tegumento e sembra anche essere espresso subito dopo

l’ingresso del virus nella cellula ospite. Le proteine codificate da quest’ultimo tipo di RNA

hanno funzione al momento attuale ancora sconosciuta (Bresnahan W.A. and Shenk T.,

2000).

Effetti dell’infezione da HCMV sulla cellula ospite: alterazioni del ciclo cellulare ed

intervento dei proteasomi

L’impatto che citomegalovirus ha come patogeno sulla salute umana evidenzia di per sé

l’importanza di sviluppare ulteriori conoscenze sulle interazioni con l’ospite, in

particolare a livello cellulare.

È da tempo noto come l’infezione da HCMV induca una complessa serie di modificazioni

nella cellula ospite che si ripercuotono, come è intuitivo, sul metabolismo cellulare, le cui

alterazioni sono in genere profonde, ma anche dipendenti dal tipo di cellula infettata;

come eventi consequenziali dell’infezione sono da menzionare la morte cellulare

(infezione di cellule permissive) o, alternativamente, differenti tipologie di danni cellulari,

che possono condurre a processi di trasformazione o all’instaurarsi di un’infezione virale

di tipo persistente o latente in cellule semi-permissive o non permissive, rispettivamente.

Per quel che riguarda il ciclo litico, è noto come già il legame tra recettori cellulari ed

antirecettori virali inneschi una serie di risposte cellulari simili a quelle da “secondi

messaggeri”, accompagnate anche dall’espressione transiente di mRNA oncogeni, così

3. Introduzione

-47-

come dalla comparsa di ulteriori tipi di messaggeri, analoghi a quelli indotti da

interferone α in cellule non infettate.

In uno scenario così complesso, un ruolo di spicco hanno le interazioni tra HCMV e

l’elaborato sistema che regola il ciclo cellulare. Numerosi dati di letteratura supportano

una netta azione di disturbo, operata da HCMV, sulla normale evoluzione del ciclo

cellulare, con conseguente deregolazione di quest’ultimo (Dittmer D. and Mocarski E.S.,

1997; Salvant B.S. et al., 1998; Sinclair J. et al., 2000; Kalejta R.F. and Shenk T., 2002); ne

rappresenta una chiara evidenza l’induzione di elevati livelli di p53, di complessi attivi

costituiti da cicline E e B e da forme iperfosforilate di Rb (si veda il paragrafo sul ciclo

cellulare di questa sezione introduttiva) (Muganda P. et al., 1994; Jault F.M. et al., 1995).

Tale iperfosforilazione, a sua volta, elimina l’effetto inibitorio di Rb su complessi

transattivatori, che hanno come bersagli principali i geni cellulari che codificano per tutta

una serie di enzimi coinvolti nella replicazione del DNA, alcuni dei quali sono necessari

anche al virus per la replicazione del proprio genoma. In effetti, diversi Autori riportano

un’azione di arresto del ciclo cellulare, in particolare a livello della transizione G1/S, così

come G2/M, indotta da HCMV, con un ruolo prominente attribuito alla proteina

precocissima IEp86 (Bresnahan W.A. et al., 1996; SongY.-J. and Stinski M.F., 2005) e, di

converso, un significativo ritardo nell’espressione dei geni virali precocissimi, qualora

l’infezione venga avviata nell’ambito della fase S (Fortunato E. et al., 2002).

È evidente che i fattori cellulari e virali che intervengono nella deregolazione di

meccanismi a loro volta così complessi, quali appunto il ciclo cellulare, sono senza dubbio

molteplici e sarebbe riduttivo e non corretto attribuire agli uni o agli altri un ruolo da

“protagonista”.

Ciò nonostante, è altrettanto plausibile ipotizzare che il complesso ubiquitina-proteasoma,

che, come già evidenziato in questa sede, ha un ruolo rilevante nel controllo del ciclo

cellulare, sia implicato nella modulazione dei nuovi equilibri che si attuano in corso di

infezione da HCMV.

In particolare, è stato dimostrato che, in modelli in vitro, il blocco dell’espressione dei geni

precocissimi di HCMV, evidenziato nell’ambito della fase S del ciclo cellulare, può essere

rimosso mediante l’uso di inibitori dei proteasomi (Fortunato E. et al., 2002). In questo

contesto, l’ipotesi più accreditata sembrerebbe contemplare la presenza di una proteina

con un tempo di vita media molto breve, presente transientemente in fase S e necessaria al

virus per attivare l’espressione dei geni IE. La presenza di specifici inibitori dei

3. Introduzione

-48-

proteasomi impedirebbe a questi ultimi di rimuovere rapidamente la suddetta proteina

cellulare.

D’altra parte, è stato anche dimostrato che il complesso ubiquitina-proteasoma ha un

ruolo centrale nell’attivazione del fattore di trascrizione NF-kB, che è strettamente

implicato nella patogenesi di molte malattie infiammatorie e in neoplasie, inducendo

l’azione di numerose citochine. Il fattore NF-kB è stato anche indicato, almeno in modelli

cellulari in vitro, come il principale mediatore della stimolazione dell’attività dell’

“enhancer”- promotore dei geni precocissimi di HCMV, cruciale sia nell’ambito del ciclo

litico che per la riattivazione da una condizione di latenza, e potrebbe anche essere,

almeno parzialmente, responsabile dell’immunopatogenesi da HCMV in vivo. Studi

effettuati in presenza di inibitori della funzione proteasomale hanno messo in evidenza

un effetto inibitorio sull’evoluzione dell’infezione da HCMV, in particolare a livello

dell’espressione dei geni precocissimi virali, così come un accumulo citoplasmatico di NF-

kB e relativa deplezione nucleare del suddetto fattore, a cui potrebbe essere, almeno in

parte, imputabile il blocco dell’infezione virale, a causa della mancata attività stimolatoria

sulla trascrizione dei geni IE (Prösch S. et al., 2003).

È anche importante sottolineare altri aspetti rilevanti dell’infezione virale, legati a

specifiche localizzazioni di componenti di HCMV a livello di peculiari compartimenti

nucleari; come già accennato, la corretta collocazione spaziale di complessi molecolari ne

rende anche possibile l’interazione ed il conseguente espletamento della funzione

correlata. In quest’ottica, è interessante evidenziare che una parziale inibizione

nell’espressione del genoma di HCMV potrebbe anche derivare da uno scorretto

posizionamento nucleare. In particolare, è stato osservato che, a tempi precocissimi dopo

l’infezione, una certa quota di DNA del virus infettante si ritrova associata ai domìni

nucleari ND10, il cui numero varia nel corso del ciclo cellulare (ad esempio, diminuisce in

fase S) ed ai quali sono parzialmente associati anche i proteasomi (Anton L.C. et al., 1999;

Rockel T.D. and von Mikecz A., 2002).

A tale proposito e, come già ricordato, è stato messo in evidenza un ruolo di spicco di

questi ultimi complessi nel disassemblamento dei domìni ND10 da parte di una proteina

precocissima di Herpes simplex (Everett R.D. et al., 1998). Anche HCMV svolge un’azione

analoga sugli stessi domìni nucleari, anche se, in quest’ultimo caso, è ancora controversa

l’identificazione del complesso cellulare che medierebbe la disaggregazione dei suddetti

domìni (Nevels M. et al., 2004).

4. Obiettivi della ricerca

4. OBIETTIVI DELLA RICERCA

4. Obiettivi della ricerca

-50-

Il lavoro sperimentale svolto è imperniato sullo studio di complessi molecolari cellulari,

detti proteasomi, in una condizione fisiologica, quale il processo di differenziamento di

cellule muscolari murine in vivo ed in vitro, così come in una condizione patologica,

rappresentata dall’infezione produttiva in vitro di fibroblasti embrionali umani con uno

stipite di riferimento di citomegalovirus; tale studio prende in considerazione sia aspetti

morfologici che funzionali, legati ai suddetti complessi molecolari.

Per quel che riguarda gli aspetti morfologici, in particolare, lo studio effettuato si ispira, in

un certo senso, ad un ormai ricco filone di letteratura, che supporta la nozione secondo

cui esisterebbe un legame imprescindibile tra la funzione espletata da specifici complessi

molecolari e la loro localizzazione all’interno della cellula. In altre parole, la nozione

spaziale assumerebbe un’importanza analoga a quella della funzione stessa, non

espletabile al di fuori di quel preciso distretto.

Sulla base di tali presupposti, è plausibile ritenere che uno degli aspetti più innovativi di

questa ricerca è legato, in particolare, alla progettazione di strumenti molecolari idonei a

permettere l’espressione di costrutti di interesse (recanti le sequenze geniche per

specifiche subunità di proteasoma fuse a quelle per una proteina fluorescente), all’interno

di cellule bersaglio, idonee per lo studio dei due modelli proposti.

La ricerca in oggetto si articola in diverse fasi sperimentali, ognuna delle quali si prefigge

uno specifico obiettivo:

1. Studio della distribuzione di specifici proteasomi in sezioni sottili di muscoli striati

di ratto, così come in miofibrille isolate a partire dagli stessi muscoli, attraverso

l’applicazione di tecniche di immunoelettromicroscopia, microscopia a

fluorescenza e confocale, al fine di approfondire le conoscenze sulla localizzazione

dei suddetti complessi molecolari, individuando il/i possibile/i “partner”/s di

interazione morfologica muscolare, che possa/no verosimilmente rappresentare,

previe ulteriori verifiche, anche il/i più probabile/i candidato/i di interazione a

livello funzionale.

2. Allestimento di vettori di espressione non retrovirali o, alternativamente,

retrovirali, recanti le sequenze geniche per le subunità proteasomali di scelta,

accoppiate a quelle per proteine fluorescenti naturali, per effettuare,

rispettivamente, trasfezioni delle cellule muscolari di interesse, o infezioni di

particolari cellule di impacchettamento. Da queste ultime, è previsto di ottenere

4. Obiettivi della ricerca

-51-

retrovirus defettivi (ma ancora in grado di infettare i modelli allo studio) recanti

l’informazione genica di interesse.

3. Validazione dei suddetti strumenti molecolari, una volta espressi negli idonei

modelli cellulari. Le verifiche saranno effettuate a livello biochimico, al fine di

valutare, da un lato, l’avvenuta incorporazione delle proteine di fusione

nell’ambito dei complessi molecolari proteasomali e, dall’altro, la preservazione

dell’attività enzimatica di tipo proteolitico, da parte di proteasomi che includono i

costrutti in oggetto.

4. Studio dell’espressione di specifici proteasomi durante il processo di

differenziamento dei modelli muscolari prescelti (previa trasfezione/infezione con

i vettori di espressione citati al punto 2) ed analisi dei risultati mediante

microscopia a fluorescenza e/o microscopia confocale.

5. Studio del possibile ruolo di specifici proteasomi in corso di infezione produttiva

da citomegalovirus umano in fibroblasti embrionali umani (modello permissivo),

attraverso l’utilizzo di sostanze (quali MG132) che inibiscono la funzione

proteolitica dei suddetti complessi molecolari, mediante microscopia a

fluorescenza.

6. Studio sulla distribuzione cellulare di specifici proteasomi, con particolare

riguardo a quella nucleare, in corso di infezione produttiva da citomegalovirus

umano in fibroblasti embrionali umani, mediante microscopia confocale.

7. Allestimento di colture cellulari idonee per lo studio in vitro dell’infezione

produttiva da citomegalovirus, che esprimano stabilmente specifiche subunità di

proteasomi e EGFP, applicando tecniche di biologia molecolare analoghe a quelle

menzionate al punto 2 e primo livello di verifica dell’espressione cellulare dei

suddetti costrutti in assenza di infezione virale, mediante analisi in microscopia

confocale.

La messa a punto degli strumenti molecolari da utilizzare nei due modelli di studio

proposti potrà, a sua volta, costituire il punto di partenza per la realizzazione, in

prospettiva futura, di studi di cinetica in cellule viventi, ancora più adeguati a favorire la

comprensione di processi così complessi ed altamente dinamici, quali il differenziamento

muscolare e l’infezione virale.

5. Materiali e Metodi

5. MATERIALI E METODI

5. Materiali e Metodi

-53-

5.1 STUDIO DI LOCALIZZAZIONE INTRACELLULARE DEI PROTEASOMI

5.1.1 ESTRAZIONE DEI MUSCOLI

I muscoli utilizzati per gli studi di localizzazione intracellulare dei proteasomi sono stati

ottenuti da ratti maschi di due mesi e mezzo (razza Wistar; ditta Janvier - Le Genest-St

Isle, Francia). Dopo essere stati sottoposti ad anestesia per somministrazione

intraperitoneale di pentobarbital sodico (dosaggio: 1 ml kg-1 di peso corporeo; ditta

Sanofi), gli animali sono stati sacrificati mediante dislocazione cervicale. Prima di

procedere all’asportazione dei muscoli degli arti inferiori [Soleus (SOL), Extensor Digitorum

Longus (EDL) e Tibialis anteriore], gli animali sono stati lavati con sapone battericida e con

etanolo al 70%.

5.1.2 SEZIONI ISTOLOGICHE

Una volta rimossi, i muscoli sono stati congelati in isopentano freddo ottenuto mediante

l’impiego di azoto liquido e, successivamente, conservati a -80°C fino al momento

dell’uso. Mediante l’impiego di un criostato (Leica CM 3050) sono state preparate sezioni

longitudinali di 10 µm, che sono state fatte aderire su appositi vetrini “Superfrost-plus”

(Labonord). Le sezioni così ottenute sono state lasciate asciugare all’aria per circa 10

minuti e, poi, utilizzate per l’analisi in immunofluorescenza.

5.1.3 ISOLAMENTO DELLE MIOFIBRILLE

Le miofibrille sono state isolate rapidamente a partire da muscoli di ratto, seguendo il

protocollo descritto da Zhukarev V. e collaboratori (Zhukarev V. et al., 1997). In

particolare, i muscoli SOL, EDL e Tibialis anteriore sono stati legati, fissandone le

estremità, allo stantuffo di una siringa di plastica da 50 ml e sono stati immersi per una

notte a 4°C in una soluzione detta di “skinning”, atta a separare le varie componenti

tissutali, [2,5 mM ATP, 170 mM propionato di potassio, 5 mM acido etilen-glico-bis-(2-

aminoetilen) tetraacetico di potassio “K2-EGTA”, 2,5 mM MgCl2, 10 mM imidazolo a

pH=7,0]. Al termine dell’incubazione, il tessuto connettivo e i tendini sono stati rimossi e i

muscoli sono stati disposti in sottili strisce nella soluzione fredda di “skinning”. Le strisce

di muscolo sono state successivamente omogeneizzate in 10 volumi di tampone freddo

denominato “rigor” (10 mM TES, 3 mM MgCl2, 10 mM EGTA a pH=7,1), mediante

l’impiego dell’omogenizzatore Ultra-Turrax T25 a media velocità (3 o 4 impulsi, per 30

secondi ciascuno). La qualità della omogenizzazione è stata monitorata allestendo

preparati a fresco da osservare al microscopio ottico in contrasto di fase. La sospensione,

5. Materiali e Metodi

-54-

ricca di miofibrille, è stata successivamente sottoposta a centrifugazione a bassa velocità

(1.500 x g) per 5 minuti a 4°C ed il sedimento ottenuto è stato lavato per quattro volte con

il tampone “rigor”. Le miofibrille così ottenute sono state raccolte e risospese in tampone

“rigor” addizionato di glicerolo (50%) e poi conservate a -80°C, fino al momento dell’uso.

Per l’allestimento dei preparati microscopici, una goccia della sospensione ottenuta è stata

depositata su vetrini “Superfrost-plus”. I vetrini sono stati quindi incubati a temperatura

ambiente per 10 minuti, per permettere alle miofibrille di aderire alla loro superficie.

5.1.4 ANTICORPI

Per lo studio di localizzazione del proteasoma 20S mediante immunofluorescenza, è stato

impiegato un anticorpo monoclonale non coniugato con fluorocromo in grado di

riconoscere la subunità α1/p27k del proteasoma 20S o, alternativamente, un anticorpo

anti-α1/p27k coniugato con il fluorocromo Alexa-Red (Molecular Probes). Entrambi gli

anticorpi sono stati gentilmente forniti dal Dr. Klaus Scherrer (Institut Jacques Monod-

Parigi, Francia). Entrambi gli anticorpi sono stati impiegati alla diluizione di lavoro di

1:20. Per lo studio della struttura sarcomerica sono stati impiegati un anticorpo

monoclonale anti-titina (clone 9D10) ed un anticorpo anti-miosina (clone MF20),

gentilmente forniti da “Developmental Studies Hybridoma Bank” (University of Iowa,

Stati Uniti); tali anticorpi sono stati impiegati alla diluizione di lavoro di 1:50 e 1:20,

rispettivamente. Inoltre, è stato utilizzato un anticorpo policlonale anti-desmina (Sigma-

Aldrich), alla diluzione di 1:10.

Per la rivelazione dei recettori del reticolo sarcoplasmatico sono stati impiegati anticorpi

monoclonali anti-Serca-1 e anti-Rianodina (ditta ABR), alla diluizione di 1:100. Per la

rivelazione degli anticorpi primari monoclonali sono stati utilizzati anticorpi anti-IgG o

anti-IgM di topo, coniugati con isotiocianato di tetrametilrodamina (TRITC) oppure con

isotiocianato di fluorosceina (FITC) ed utilizzati alla diluizione di 1:50. Per quanto

concerne, invece, gli anticorpi primari policlonali, sono stati utilizzati anticorpi anti-IgG di

coniglio, coniugati con TRITC o FITC (Jackson Immunoresearch), alla diluizione di 1:50.

Per la rivelazione dell’actina in forma filamentosa è stata impiegata falloidina,

direttamente coniugata con TRITC o, alternativamente, con FITC, alla diluizione di 1:100-

1:200.

Tutti gli anticorpi utilizzati, così come falloidina, sono stati diluiti in una soluzione di

siero albumina bovina (BSA) all’1% in tampone salino fosfato (PBS costituito da 137 mM

5. Materiali e Metodi

-55-

NaCl, 2,7 mM KCl, 10 mM NaHPO4, 2 mM KH2PO4, H2O distillata) e Triton-X 100 allo

0,2% in PBS.

5.1.5 IMMUNOFLUORESCENZA INDIRETTA

I preparati microscopici sono stati fissati utilizzando differenti tipi di fissatori (metanolo,

acetone, paraformaldeide al 4% in PBS) o, alternativamente, non sono stati sottoposti a

fissazione. Dopo tre lavaggi di 5 minuti ciascuno in PBS, i siti immunoreattivi non

specifici sono stati saturati con BSA al 6% in PBS per 20 minuti; le cellule sono state

successivamente lavate in PBS, prima di aggiungere l’anticorpo primario.

Per l’immunoreazione, i preparati sono stati incubati in camera umida, con i differenti

anticorpi primari, per 1 ora a temperatura ambiente, oppure per una notte a 4°C. Dopo

cinque lavaggi di 5 minuti ciascuno in PBS, i preparati sono stati incubati con gli anticorpi

secondari specifici e/o con falloidina per 1 ora a temperatura ambiente, sempre in camera

umida. I preparati sono stati poi lavati in PBS (cinque lavaggi da 5 minuti ciascuno) e

montati con 20 µl di liquido di montaggio Mowiol (Calbiochem).

5.1.6 OSSERVAZIONE E MANIPOLAZIONE DELLE IMMAGINI

I preparati sono stati osservati mediante impiego del microscopio Olympus BH-2 a

epifluorescenza, utilizzando un’appropriata combinazione di filtri. Le immagini sono

state acquisite mediante telecamera CMOS-Pro in scala di grigi (Sound Vision, USA) e i

montaggi a colori sono stati ottenuti modificando le immagini acquisite con il

corrispondente canale di “RGB” del programma “Adobe Photoshop Document”. Qualora

le immagini siano state acquisite in contrasto di fase (in particolare come indicatori della

linea Z e della banda A), esse venivano in seguito convertite nel colore blu, in modo tale

da evidenziare le zone scure delle stesse, con particolare riferimento alla linea Z e alla

banda A.

Alcune immagini sono state deconvolute usando il programma “Huygens Essential”

(Scientific Volume Imaging) per Macintosh.

Una parte delle osservazioni di preparati di miofibrille è stata effettuata utilizzando il

microscopio confocale Leica TCS-SP2. Le immagini sono state acquisite in scala di grigi

mediante il programma LCS e successivamente sono state sottoposte allo stesso tipo di

manipolazioni sopra descritto. Le misure dei sarcomeri sono state effettuate direttamente

sullo schermo, dopo che l’immagine relativa alla zona selezionata era stata importata nel

programma “Adobe Illustrator”, impiegando appositi sistemi di misura. La posizione

5. Materiali e Metodi

-56-

delle bande fluorescenti è stata valutata sulla base della localizzazione del segnale più

intenso. Tutte le immagini sono state osservate applicando le stesse condizioni di

calibrazione degli strumenti impiegati. Un riquadro di un micron, in cui un pixel

corrispondeva a 83 nm, è stato usato per calibrare il sistema.

5.1.7 IMMUNOELETTROMICROSCOPIA (METODO DI “PRE-EMBEDDING”)

La reazione di immunoelettromicroscopia è stata effettuata su sezioni sottili congelate e su

preparati di miofibrille non ancora sottoposte a fissazione e a inclusione (metodo di “pre-

embedding”). In particolare, l’anticorpo primario anti-α1/p27k è stato utilizzato su

sezioni sottili congelate e successivamente rivelato mediante un anticorpo secondario

coniugato con perossidasi di rafano (Jackson Immunoreserach). Come substrato

dell’enzima perossidasi è stato impiegato il composto 3,3-diamminobenzidina (DAB)

(Sigma-Aldrich) che, inizialmente incolore, dà poi luogo alla formazione di un prodotto

finale di colore marrone che risulta insolubile in presenza di alcool qualora sia utilizzato

dall’enzima. Successivamente, i preparati sono stati fissati in glutaraldeide al 2% in PBS,

post-fissati con tetrossido di osmio all’1% in acqua distillata e, infine, disidratati

utilizzando concentrazioni crescenti di etanolo. Le sezioni sono state poi incluse in resine

epossidiche (Epon 812). Le sezioni ultrafini sono state osservate mediante microscopio

elettronico a trasmissione (Joel 100 CX II) senza impiego di un mezzo di contrasto o, in

alternativa, con contrasto, ottenuto colorando i preparati con acetato di uranile. Per

quanto concerne i preparati microscopici di miofibrille, anche in questo caso è stato

utilizzato l’anticorpo monoclonale diretto nei confronti della subunità α1/p27k. Tale

anticorpo è stato rivelato utilizzando un anticorpo secondario coniugato con FITC che, a

sua volta, è stato rivelato mediante un anticorpo secondario anti-FITC coniugato con

particelle di oro colloidale (Ultrasmall kit, Aurion). I preparati sono stati sottoposti a

trattamento di intensificazione mediante l’impiego di argento, per circa 20 minuti,

secondo le indicazioni fornite dalla ditta produttrice (Ultrasmall kit, Aurion). Dopo

fissazione in glutaraldeide e post-fissazione con tretrossido di osmio, i campioni sono stati

inclusi in Epon e, infine, esaminati secondo le modalità impiegate per le sezioni di tessuto

congelate.

5.1.8 METODO DI ESTRAZIONE DELL’ACTINA

Al fine di rimuovere selettivamente l’actina dalle miofibrille, è stato impiegato il

composto gelsolina (Sigma-Aldrich) (Funatsu T. et al., 1990; Funatsu T. et al., 1993). Le

5. Materiali e Metodi

-57-

miofibrille adese al vetrino portaoggetti sono state lavate per due volte per 5 minuti

ciascuna con la soluzione fredda “Ca-rigor” (120 mM KCl, 5 mM MgCl2, 0,1 mM CaCl2, 20

mM sale monosodico dell’acido piperazin-1,4-dietansolfonico o “Pipes” a pH=7,0).

Successivamente, è stata aggiunta una soluzione di estrazione (0,2 mg/ml di gelsolina

nella soluzione “Ca-rigor”) per 30-60 minuti in ghiaccio. Le miofibrille sono state lavate

per tre volte con soluzione “Ca-rigor” e successivamente fissate per 20 minuti con

paraformaldeide al 4% in PBS. Una volta terminata la fase di fissazione, le miofibrille sono

state lavate abbondantemente in PBS e processate per la fase di immunofluorescenza

indiretta.

5.2 CLONAGGIO IN VETTORI PLASMIDICI

5.2.1 REAZIONE POLIMERASICA A CATENA PREVIA RETROTRASCRIZIONE (RT-PCR)

Sintesi di cDNA

Le sequenze geniche codificanti per le subunità del proteasoma 20S, α1/p27k e β4/p23k,

sono state ottenute utilizzando il metodo di reazione polimerasica a catena previa

retrotrascrizione (RT-PCR). In particolare, corti oligonucleotidi costituiti da 18

desossitimidine (oligo-dT) sono stati mescolati ad un preparato commerciale di RNA

totale, ottenuto a partire da placenta umana. Gli oligo-dT sono stati utilizzati sia per la

selezione degli mRNA provvisti di code di poli(A) all’estremità 3’, che come sequenze

innesco per consentire all’enzima ricombinante trascrittasi inversa, derivante dal

retrovirus della leucemia murina di Moloney (“Moloney Murine Leukemia Virus” o

“MoMLV”), di sintetizzare cDNA a singolo filamento. Alla miscela di reazione è stato

inoltre aggiunto un inibitore dell’enzima RNAsi. Per la sintesi dei cDNA è stato impiegato

il saggio commerciale “Advantage RT-for-PCR” (Clontech).

Reagenti Volume (µl)

RNA (1 µg/µl) 1

Oligo (dT)18 (20 µM) 1

Acqua distillata senza RNAsi 11,5

La miscela è stata incubata a 72°C per 2 minuti e successivamente conservata in ghiaccio

per almeno 1 minuto. Alla medesima miscela sono stati poi aggiunti i reagenti di seguito

elencati :

5. Materiali e Metodi

-58-

Reagenti Volume (µl)

* Tampone RT 5x 4

dNTP mix (10 mM ciascuno) 1

Inibitore RNase (40 unità/µl) 0,5

Trascrittasi inversa MoMLV (200 unità/µl) 1

* Tampone RT 5x: 250 mM Tris-HCl (pH= 8,3), 375 mM KCl, 15 mM MgCl2

La miscela così ottenuta è stata successivamente incubata a 42°C per 1 ora e la reazione è

stata bloccata mediante riscaldamento a 94°C per 5 minuti. Infine, il preparato è stato

incubato in ghiaccio e diluito con 80 µl di acqua distillata senza RNasi. I frammenti di

cDNA ottenuti sono stati conservati a –80°C fino al momento dell’uso.

Amplificazione del cDNA

I filamenti di cDNA di interesse [α1/p27K (gene PSMA6) e β4/p23K (gene PSMB2)] sono

stati amplificati mediante reazione polimerasica a catena (PCR), impiegando due specifici

oligonucleotidi, di seguito riportati.

PSMA6

senso 5’ ATAAGCTTCCAACATGTCCCGTGGTTCCAGCGC 3’

antisenso 3’ GCGAATTCCGTCTCTCTCTGCTAGAGCAACAAGGT 3’

PSMB2

senso 5’ATAAGCTTCCACCATGGAGTACCTCATCGGTATCCAAGGCCC 3’

antisenso 5’GCGAATTCCGGAGCCCTGTTTGGGGAAGGAAAT 3’

Per la reazione di PCR è stato utilizzato il saggio commerciale “AmpliTaq” (Clontech); di

seguito è riportata la composizione della miscela di reazione impiegata.

5. Materiali e Metodi

-59-

Reagenti Volume (µl)

*Tampone PCR 10x 5

Mix dNTP (10 mM) 1

Sequenza innesco “senso” (10 µM) 1

Sequenza innesco “antisenso” (10 µM) 1

Taq DNA polimerasi (5 unità/µl) 0,4

cDNA 10

Acqua distillata quanto basta (vol. reaz. 50 µl)

* Tampone PCR 10x: 100 mM (pH=8,3), 150 mM KCl, 6 mM MgCl2

L’amplificazione mediante PCR è stata condotta previo utilizzo di un termociclatore

automatico (PerkinElmer), secondo il seguente protocollo: un ciclo di denaturazione

iniziale a 94°C per 2 minuti, 25 cicli di PCR (94°C per 45 secondi, 60°C per 45 secondi e

72°C per 2 minuti) e un ciclo di estensione finale di 7 minuti a 72°C.

5.2.2 CLONAGGIO IN UN VETTORE PLASMIDICO MEDIANTE L’USO DI ENZIMI DI RESTRIZIONE

I frammenti di cDNA a doppio filamento ottenuti nella fase precedente (760 nucleotidi per

il gene PSMA6 e 625 nucleotidi per il gene PSMB2) sono stati inseriti in due vettori

plasmidici commerciali denominati pEGFP-N1 e pDsRed1-N1 (Clontech), in modo che le

sequenze geniche di interesse, introdotte a livello del sito multiplo di clonaggio o

“polylinker” (MCS), fossero espresse come proteine di fusione con la sequenza proteica

per EGFP/DsRed1 all’estremità N-terminale del plasmide. A tal fine, le molecole di cDNA

a doppia elica sono state digerite con gli enzimi di restrizione EcoR I e Hind III, diluiti nel

tampone specifico “NEB 2” [10 mM Tris-HCl, 10 mM MgCl2, 50 mM NaCl, 1 mM

ditiotreitolo (DTT) a pH= 7,9 a 25°C; ditta New England BioLabs], in ragione di 10 unità

per l’enzima Hind III e 20 unità per l’enzima EcoR I. La miscela di reazione è stata

incubata in bagnomaria a 37°C per circa 2 ore. Al termine dell’incubazione, i prodotti sono

stati conservati a -20°C fino al momento dell’uso.

5.2.3 ELETTROFORESI SU GEL DI AGAROSIO

Al fine di verificare la purezza del DNA estratto ed il grado di completezza raggiunto

dalla digestione enzimatica del DNA, nonché separare i frammenti di interesse, sono stati

preparati gel di agarosio a diversa concentrazione, in base alla risoluzione desiderata.

5. Materiali e Metodi

-60-

L’agarosio è stato sciolto alla temperatura di ebollizione in tampone TBE 1x (45 mM Tris-

Borato, 1 mM acido etilen-diammino-tetraacetico o “EDTA”) o, alternativamente in

tampone TAE 1x (40 mM Tris-Acetato e 1 mM EDTA) (Invitrogen). Il gel è stato colato e

lasciato raffreddare nel supporto di un apparato orizzontale da elettroforesi. Una volta

solidificato, il gel è stato ricoperto con tampone di corsa TBE 1x , oppure TAE 1x.

I prodotti della digestione sono stati diluiti in apposito tampone “loading buffer” 10x,

contenente 0,1% sodio-dodecilsolfato (SDS), 50 mM EDTA, 50% glicerolo, 0,25% cianolo di

xilene FF, 0,25% blu di bromofenolo. I campioni sono stati caricati sul gel ed è stata

applicata una differenza di potenziale di 60/120 Volts per un tempo variabile, in funzione

delle dimensioni del frammento di DNA e della concentrazione del gel. Alla fine della

corsa elettroforetica le bande di DNA sono state visualizzate mediante l’aggiunta di

bromuro di etidio (0,5 µg/ml) ( Sigma-Aldrich) che, intercalandosi tra le basi del DNA, ne

permette la visione ai raggi UV (320 nm). Il profilo di migrazione dei diversi frammenti di

DNA e la loro lunghezza sono stati analizzati per confronto con un adatto sistema di

riferimento a peso molecolare noto “SmartLadder” (Eurogentec).

5.2.4 ESTRAZIONE DEL DNA DA GEL DI AGAROSIO

I frammenti di interesse e il DNA plasmidico ottenuti con la digestione enzimatica sono

stati purificati mediante estrazione da banda, dopo corsa elettroforetica su gel di agarosio.

In particolare, per l’estrazione del DNA da gel di agarosio è stato utilizzato il saggio

commerciale “Nucleo Trap” (Clontech). Questo saggio consente di dissolvere le bande di

agarosio contenenti il frammento di interesse in una soluzione di ioduro di sodio a forte

concentrazione salina, permettendo la fissazione del DNA su biglie di vetro. Le biglie

vengono successivamente centrifugate ed il DNA legato è eluito da esse utilizzando

tamponi a bassa forza ionica, secondo le indicazioni fornite dalla ditta produttrice. In

particolare, i campioni sono stati risospesi in 50 µl di tampone TE (10 mM Tris-HCl a

pH=8,2, 1 mM EDTA), al fine di eluire il DNA dalle biglie. I campioni sono stati quindi

incubati a temperatura ambiente per 10 minuti e mescolati brevemente ogni 2 minuti.

Infine, sono stati centrifugati a 4°C per 10 minuti a massima velocità e il surnatante è stato

recuperato e conservato in frigorifero a 4°C.

5. Materiali e Metodi

-61-

5.2.5 VALUTAZIONE DELLA CONCENTRAZIONE DI DNA PLASMIDICO E DEI FRAMMENTI

I frammenti di interesse e il DNA plasmidico sono stati fatti migrare su gel di agarosio

all’1% in TBE 1x e precolorati con bromuro di etidio. L’analisi quantitativa del contenuto

di DNA delle bande è stata effettuata mediante il programma “Gene Tool Syngene”.

5.2.6 LIGAZIONE

Una volta amplificati, purificati e quantificati, i frammenti di cDNA di interesse (PSMA6 e

PSMB2) sono stati utilizzati in reazioni di ligazione che ne hanno permesso il clonaggio

nei vettori plasmidici pEGFP-N1 e pDsRed1-N1. A tale scopo, è stato impiegato l’enzima

DNA-ligasi contenuto nel saggio commerciale “Fast-Link DNA Ligation Kit”(Epicentre).

Al fine di ottenere estremità coesive compatibili, gli amplificati e i plasmidi commerciali

sopra citati sono stati sottoposti a digestione enzimatica, secondo le modalità descritte nel

paragrafo 5.2.2. Al termine della digestione, i prodotti di reazione sono stati utilizzati per

la reazione di ligazione, che è stata eseguita secondo le indicazioni fornite dalla ditta

fornitrice.

5.2.7 TRASFORMAZIONE

I plasmidi ottenuti (pPSMA6-EGFP, pPSMA6-DsRed1, pPSMB2-EGFP e pPSMB2-DsRed1)

sono stati introdotti, mediante un procedimento di trasformazione, in cellule batteriche

modificate di Escherichia coli, contenute nel saggio commerciale “XL1-Blue competent

cells” (Stratagene). In particolare, i batteri competenti conservati a –80°C sono stati

scongelati, avendo cura di mantenerli in ghiaccio; successivamente sono state allestite,

utilizzando appositi tubi di polipropilene “Falcon 2059” (Becton-Dickinson), aliquote, da

50 µl ciascuna, di batteri competenti per ognuno dei quattro plasmidi ricombinanti

ottenuti per ligazione. A ciascuna aliquota sono stati aggiunti 0,85 µl di 2-mercaptoetanolo

1,42 M (concentrazione finale: 25 mM). Le aliquote sono state quindi incubate in ghiaccio

per 10 minuti, mescolandole delicatamente ogni 2 minuti. Infine, ad ogni aliquota, sono

stati aggiunti 8 µl di ciascuna miscela di ligazione. Le cellule sono state incubate in

ghiaccio per 30 minuti. Nel frattempo, il terreno “SOC” è stato preriscaldato a 42°C (si

veda di seguito).

5. Materiali e Metodi

-62-

Terreno SOC Volume (ml)

* Terreno SOB 100

Glucosio (2 M) 1

oppure:

Glucosio (20%) 2

Il terreno è stato filtrato con filtri di porosità pari a 0.22 µm e di volume di 500 ml (Nalge Nunc

International).

Dopo sterilizzazione in autoclave, sono stati aggiunti 10 ml di 1 M MgCl2 e 10 ml di 1 M MgSO4. Il

terreno è stato successivamente filtrato mediante filtri di porosità pari a 0.22 µm e di volume di 500

ml (Nalge Nunc International).

Al termine del periodo di incubazione, le cellule batteriche sono state sottoposte a shock

termico per 45 secondi a 42°C, in modo da alterare la permeabilità della membrana

plasmatica e favorire l’ingresso del DNA trasformante. I batteri sono stati quindi

rapidamente trasferiti in ghiaccio per 2 minuti. A questo punto, ciascuna miscela è stata

posta in agitazione per 1 ora a 37°C, previa aggiunta di 1 ml di terreno “SOC”.

Utilizzando delle biglie di vetro, la sospensione batterica è stata quindi uniformemente

distribuita, in quantità diverse (300 µl, 100 µl e 50 µl), sulla superficie di piastre con

terreno di coltura agarizzato di Luria–Bertani (LB), contenente kanamicina (25 µg/ml)

(Sigma–Aldrich). L’antibiotico di selezione kanamicina consente la crescita dei batteri che

hanno acquisito i plasmidi pEGFP-N1, pDsRed1-N1 e i plasmidi in cui sono state clonate

le sequenze codificanti per le proteine di fusione, dal momento che contengono il gene che

codifica per il fattore di resistenza nei confronti del suddetto antibiotico.

*Terreno SOB Quantità (gr)

Triptone 20

Estratto di lievito 5

NaCl 0,5

Acqua distillata portare a volume finale: 1 litro

5. Materiali e Metodi

-63-

Terreno “Luria-Bertani” (LB) Quantità (gr)

BactoTriptone 10

Estratto di lievito 5

NaCl 10

Bacto agar 20

Acqua distillata Portare a volume finale: 1 litro

Il pH è stato portato a 7,0 con 5 N NaOH. Il terreno è stato successivamente sottoposto a

sterilizzazione in autoclave.

5.2.8 ESTRAZIONE DI DNA PLASMIDICO (“MINI-PREP”)

Prima dell’estrazione del DNA, le colonie batteriche selezionate sono state fatte crescere

per una notte a 37°C, in costante agitazione in 3 ml di terreno liquido LB, addizionato con

50 µg/ml di kanamicina, al fine di favorire la crescita aerobia dei batteri. A partire da

queste sospensioni batteriche è stato possibile preparare delle piccole quantità di DNA

plasmidico (“mini-prep”) ad un livello intermedio di purezza utilizzando il saggio

commerciale “NucleoBond” (Machery-Nagel). A questo scopo, 1,5 ml di coltura batterica

sono stati sedimentati mediante centrifugazione per 30 secondi a 4°C, a velocità massima.

Una volta eliminato il surnatante, il sedimento è stato risospeso in 100 µl di tampone S1

(50 mM Tris-HCl, 10 mM EDTA a pH=8). Per la lisi della parete batterica sono stati

aggiunti 100 µl di tampone S2 (200 mM NaOH, 1% SDS) al sedimento; la sospensione è

stata successivamente mescolata delicatamente per inversione della provetta per un paio

di volte. Dopo incubazione per 5 minuti a temperatura ambiente, sono stati aggiunti 100

µl di tampone S3 (2,60 M acetato di potassio a pH=5,2) e ancora una volta, i campioni sono

stati mescolati per inversione. I campioni sono stati quindi incubati in ghiaccio per 5

minuti. Il lisato batterico è stato centrifugato per 10 minuti a 10.000 x g a 4°C e il

surnatante, contenente il DNA plasmidico, è stato trasferito in una nuova provetta. Il

DNA plasmidico è stato precipitato mediante l’aggiunta di 700 µl di etanolo assoluto. I

campioni sono stati lasciati a temperatura ambiente per 10 minuti e successivamente

centrifugati per 10 minuti a 10.000 x g a 4°C. Dopo un lavaggio con 300 µl di etanolo

freddo al 70% e un’ultima centrifugazione a 10.000 x g per 5 minuti, il surnatante è stato

aspirato e il sedimento, una volta asciugato a temperatura ambiente, è stato risospeso in

100 µl di tampone TE. Gli estratti sono stati conservati in frigorifero a 4°C fino al

momento dell’uso. Poiché non è possibile discriminare le colonie che hanno assunto il

plasmide originale da quelle che lo hanno acquisito ricombinante, dopo l’estrazione del

5. Materiali e Metodi

-64-

DNA, 1 µl di ciascuna “mini-prep” è stato nuovamente sottoposto a digestione enzimatica

con gli enzimi di restrizione EcoR I e Hind III e quindi ciascun campione è stato analizzato

mediante elettroforesi (gel di agarosio 1% in tampone TBE 1x).

5.2.9 ESTRAZIONE DI DNA PLASMIDICO (“MAXI-PREP”)

Una volta verificata la bontà dei plasmidi sulla base dei profili di restrizione, a partire

dalla “minicoltura” batterica di 3 ml è stata allestita una coltura in terreno liquido LB (300

ml) addizionata con 50 µg/ml di kanamicina, al fine di ottenere un quantitativo maggiore

di DNA plasmidico (“maxi-prep”) ad elevata purezza, mediante il saggio commerciale

“NucleoBond Ax 2000” (Machery-Nagel). Questo metodo prevede l’estrazione dell’acido

nucleico per lisi alcalina e la sua successiva purificazione mediante l’uso di colonne

cromatografiche a scambio ionico. Ciascuna coltura batterica è stata successivamente

centrifugata per 15 minuti alla velocità di 5000 x g, allo scopo di ottenere un sedimento di

cellule batteriche. Il sedimento è stato risospeso in 35 ml di tampone S1 (50 mM Tris-HCl,

10 mM EDTA a pH=8,0) addizionato di 100 µg/ml di RNasi A. Alla suddetta sospensione

sono stati aggiunti 35 ml di tampone S2 (200 mM NaOH, 1% SDS) e la miscela è stata

delicatamente mescolata per inversione. La reazione di lisi alcalina è stata lasciata

procedere a temperatura ambiente per una durata non superiore a 5 minuti, trascorsi i

quali sono stati aggiunti 35 ml di tampone S3 (2,60 M di acetato di potassio a pH=5,2), in

grado di far precipitare le membrane e le pareti delle cellule lisate insieme al DNA

genomico e all’RNA ad alto peso molecolare, ad esse associati. Inoltre, il tampone S3 crea

le condizioni appropriate affinché il DNA plasmidico si leghi alla membrana della

colonna cromatografica. I lisati sono stati incubati in ghiaccio per 5 minuti e

successivamente sono stati sottoposti a filtrazione, in modo da allontanare il precipitato

bianco che si forma con l’aggiunta del tampone S3. È importante sottolineare che, prima

del loro utilizzo, le colonne cromatografiche devono essere equilibrate mediante

l’aggiunta di 20 ml di tampone N2 (100 mM Tris, 15% etanolo, 900 mM KCl portato a pH=

6,3 con H3PO4), permettendone lo svuotamento per gravità. I suddetti lisati sono stati

caricati sulle colonne cromatografiche equilibrate per favorire il legame tra DNA e resina,

che risulta localizzata al centro delle colonne. Infine, le colonne sono state lavate per due

volte con 35 ml di tampone N3 (100 mM Tris, 15% etanolo, 1.150 mM KCl a pH= 6,3) in

modo da liberare il DNA dai sali. Il DNA plasmidico è stato eluito dalla colonna mediante

l’aggiunta di 25 ml del tampone di eluizione N5 (100 mM Tris, 15% etanolo, 1 M KCl a

5. Materiali e Metodi

-65-

pH= 6,3). Il DNA eluito è stato precipitato mediante l’aggiunta di 0,7-0,8 volumi di

isopropanolo (corrispondenti a 19 ml), pre-equilibrato a temperatura ambiente e

successivamente centrifugato per 40 minuti a 15.000 x g a 4°C (rotore JA20 Beckman). Una

volta asciugato, il sedimento è stato risospeso in 1 ml di tampone TE. Il DNA plasmidico è

stato nuovamente precipitato mediante l’aggiunta di sodio acetato 0,3 M a pH=5,2 e di 2

volumi di etanolo assoluto. Le provette sono state invertite alcune volte, in modo da

apprezzare la formazione di un addensamento gelatinoso riconducibile al DNA

plasmidico. Infine, i campioni sono stati centrifugati per 20 minuti ad alta velocità (>

15.000 x g) a 4°C e il surnatante è stato rimosso con cura, prestando attenzione a non

perdere il sedimento adeso alle pareti delle provette. Il sedimento è stato lavato

delicatamente con etanolo freddo al 70% e, qualora necessario, è stato nuovamente

centrifugato ad alta velocità per 5 minuti. Una volta rimosso l’etanolo, ogni sedimento è

stato lasciato asciugare a temperatura ambiente. Infine, i preparati di DNA plasmidico

sono stati risospesi in 500 µl di tampone TE e conservati in frigorifero a 4°C fino al

momento dell’uso.

La concentrazione del DNA è stata calcolata a partire da una soluzione diluita 1:100 in

tampone TE, sulla base dei valori di assorbanza rilevati alla lunghezza d’onda di 260 nm

(1 unità di assorbanza a 260 nm per DNA a doppio filamento corrisponde a 50 µg/ml di

DNA).

5.2.10 DETERMINAZIONE DELLA SEQUENZA DI DNA

Al fine di valutare la corretta inserzione dei frammenti al termine di ogni clonaggio, è

stata determinata la sequenza del vettore plasmidico. In particolare, una aliquota dei

plasmidi pPSMA6-EGFP e pPSMB2-EGFP è stata inviata presso la società “Genome

Express“ con sede in Francia, ai fini del loro sequenziamento. Le reazioni di

sequenziamento sono state effettuate per amplificazione mediante PCR e analizzate su

sequenziatore a gel capillare.

5. Materiali e Metodi

-66-

5.3 COLTURE CELLULARI

Nelle diverse fasi sperimentali della ricerca sono state utilizzate le seguenti colture

cellulari :

CHO ( “Chinese Hamster Ovary”): cellule di ovaio di criceto cinese.

Le cellule CHO (Puck T.T. et al., 1958) sono state coltivate a 37°C in atmosfera di ossigeno

e CO2 al 5%, utilizzando, quale terreno di coltura, “Dulbecco’s modified Eagle’s medium”

(D-MEM) contenente 1.000 mg/l di glucosio e addizionato con il 10% di siero di vitello

fetale (SVF) ed antibiotici (streptomicina 10.000 µg/ml e penicillina 10.000 unità/ml).

C2.7: cellule muscolari scheletriche di topo.

Le cellule C2.7 (Pinset C. et al., 1988) sono state coltivate a 37% in atmosfera di ossigeno e

CO2 al 10% in terreno D-MEM contenente 1.000 mg/l di glucosio e addizionato con la

medesima soluzione di antibiotici sopra menzionata ma supplementato con il 20% di SVF.

Il differenziamento della linea cellulare C2.7 è stato indotto sperimentalmente,

modificando le condizioni di mantenimento in coltura: a tale riguardo è stato aggiunto al

terreno di coltura siero di cavallo al 4% e, in alternativa al siero di vitello fetale, lo 0,8% di

un composto sintetico denominato “Ultroser “ (Ciphergen- BioSepra S.A.).

Balb/3T3 clone A31: fibroblasti embrionali di topo.

Le cellule Balb/3T3 (Aaronson S.A. and Todaro G.J., 1968) sono state coltivate a 37°C in

atmosfera di ossigeno e CO2 al 5% utilizzando terreno D-MEM con 4.500 mg/l di glucosio,

addizionato di siero di vitello neonato (10%) e antibiotici (streptomicina 10.000 µg/ml e

penicillina 10.000 unità/ml).

Bosc-23: cellule embrionali di rene umano.

Le cellule Bosc-23 (Pear W.S. et al., 1993) sono state coltivate a 37°C in presenza di CO2 al

5% in terreno D-MEM con 4.500 mg/l di glucosio, addizionato di SVF (10%) ed antibiotici

(streptomicina 10.000 µg/ml e penicillina 10.000 unità/ml).

HEK 293: cellule embrionali di rene umano trasformate con adenovirus di tipo 5.

La linea cellulare HEK 293 (Graham F.L. et al., 1977) è stata coltivata a 37°C in atmosfera

di ossigeno e CO2 al 5%, utilizzando terreno D-MEM con 4.500 mg/l di glucosio,

5. Materiali e Metodi

-67-

addizionato di siero di vitello fetale (10%), sodio piruvato (1 mM), L-glutamina (2 mM) ed

antibiotici (streptomicina 10.000 µg/ml e penicillina 10.000 unità/ml).

MRC5: fibroblasti di polmone embrionale umano.

I fibroblasti MRC5 (Jacobs J.P. et al., 1970) sono stati coltivati in terreno di coltura

“Minimum Essential Medium” (MEM, Invitrogen), modificato con sali di “Earle” ed

addizionato di siero fetale di vitello (10%), sodio piruvato (1%), amminoacidi non

essenziali (1%), L-glutamina (1%) ed antibiotici (penicillina 10.000 unità/ml e

streptomicina 10.000 µg/ml).

MRC5-hTERT: fibroblasti di polmone embrionale umano immortalizzati.

Le cellule MRC5-hTERT, gentilmente fornite dal Dr. Gavin Wilkinson (Section of Infection

and Immunity – University of Wales - College of Medicine – Cardiff, UK) sono state

ottenute per integrazione nel loro genoma del gene che codifica per l’enzima trascrittasi

inversa della telomerasi umana “h-TERT” e sono considerate permissive all’infezione da

citomegalovirus umano (stipite AD169) (McSherry B.P. et al., 2001). Le MRC5-hTERT sono

state coltivate a 37°C in presenza di CO2 al 5%, utilizzando D-MEM con 4500 mg/l di

glucosio, addizionato di siero di vitello fetale (10%), sodio piruvato (1 mM), L-glutamina

(2 mM), amminoacidi non essenziali (1%) ed antibiotici (streptomicina 10.000 µg/ml e

penicillina 10.000 unità/ml).

5.4 IMPIEGO DEI VETTORI PLASMIDICI

5.4.1 TRASFEZIONE DELLE CELLULE CHO E C2.7

I plasmidi pPSMA6-EGFP, pPSMA6-DsRed1, pPSMB2-EGFP, pPSMB2-DsRed1, pEGFP-

N1 e pDsRed1-N1 sono stati impiegati per trasfettare due distinte linee cellulari: le cellule

CHO e le cellule della linea miogenica di topo C2.7.

Il giorno precedente la trasfezione, sono state allestite colture cellulari di CHO e C2.7 in

piastre Petri in polistirene (60 mm di diametro), in ragione di due piastre per ogni linea

cellulare e per ciascuno dei seguenti plasmidi: pPSMA6-EGFP, pPSMA6-DsRed1,

pPSMB2-EGFP, pPSMB2-DsRed1, pEGFP-N1 e pDsRed1-N1 (12 piastre Petri per la linea

cellulare C2.7 e 12 per le cellule CHO). In particolare, sono state allestite colture cellulari

con una densità pari a 7x105 cellule/piastra per cellule CHO e 9x104 cellule/piastra per

cellule C2.7. Per la trasfezione sono state utilizzati monostrati semi-confluenti (25%),

5. Materiali e Metodi

-68-

secondo le indicazioni fornite dal protocollo del saggio commerciale “CalPhos

Mammalian Transfection kit” (Clontech). Per gli esperimenti di trasfezione sono stati

impiegati 20 µg di DNA per ciascun plasmide; in particolare, la soluzione, costituita da

DNA e da CaCl2 (concentrazione finale: 2 M), è stata mescolata con il reagente HBS 2x

(soluzione salina tamponata con HEPES) e quindi incubata per 30 minuti a temperatura

ambiente. In seguito, la soluzione contenente DNA è stata distribuita uniformemente

(goccia a goccia) sul monostrato cellulare.

Dopo 48 ore di incubazione (espressione transitoria) sono stati preparati estratti di proteine

totali da ciascuna linea cellulare e per ogni plasmide utilizzato. Il tappeto cellulare è stato

lavato con tampone PBS e le cellule sono state lisate con 200 µl di tampone “Laemmli” 1x

(50 mM Tris-HCl a pH=6,8, 100 mM DTT, 2% SDS, 25% glicerolo, tracce di blu di

bromofenolo); successivamente le cellule sono state staccate meccanicamente dal

substrato, raccolte in una provetta e conservate fino al momento dell’uso a –20°C.

Con le rimanenti cellule trasfettate sono state allestite subcolture in piastre Petri da 100

mm di diametro, al fine di selezionare le cellule che avevano acquisito stabilmente il DNA

plasmidico (espressione stabile). Per la fase di selezione è stato impiegato l’antibiotico G-418

(Invitrogen) alla concentrazione iniziale di 500 µg/ml e a 750 µg/ml per la successiva fase

di mantenimento. La selezione è durata circa un mese e ha consentito di ottenere i

seguenti cloni cellulari: CHO-EGFP, CHO-PSMA6-EGFP, C2.7-PSMB2-EGFP e C2.7-

EGFP. I cloni così ottenuti sono stati posti in coltura secondo le modalità previste per

ciascuna linea cellulare impiegata (come descritto al paragrafo 5.3) e, dopo 3 giorni di

incubazione, il monostrato cellulare è stato direttamente solubilizzato in tampone

“Laemmli”. Successivamente, gli estratti sono stati raccolti mediante distacco meccanico

dal substrato e scaldati a 100°C per 5 minuti.

Per ciascun estratto, derivante da espressioni transitorie e stabili, è stata valutata la

concentrazione delle proteine totali mediante il saggio commerciale “RC DC protein

assay” (Bio-Rad), basato sul metodo di Lowry.

5.4.2 ELETTROFORESI SU GEL DI POLIACRILAMIDE (“SDS-PAGE”)

Per l’analisi di proteine sottoposte a denaturazione è stato utilizzato il metodo

denominato “SDS-PAGE” che prevede un’analisi elettroforetica in gel di poliacrilamide in

condizioni denaturanti (presenza di SDS). Il detergente SDS è stato aggiunto sia al

tampone di corsa che a quello di diluizione del campione. Gli estratti sono stati

solubilizzati in tampone “Laemmli” e successivamente scaldati a 100°C per 5 minuti.

5. Materiali e Metodi

-69-

Inoltre, per ciascun estratto è stata valutata la concentrazione delle proteine totali secondo

il metodo ”RC DC protein assay” o, alternativamente, il metodo “Bradford” (Bio-Rad).

L’elettroforesi è stata realizzata utilizzando il sistema Bio-Rad modello Mini-Protean III;

questo tipo di elettroforesi sfrutta la combinazione di un gel in cui il campione si

concentra (poliacrilamide al 4%: ”stacking gel”) e di un gel a concentrazione di acrilamide

variabile (poliacrilamide al 12,5%: “resolving gel”) che consente la separazione delle

proteine, in base al loro peso molecolare.

Stacking gel (4%) Volume

* Stacking gel 10x 0,5 ml

30% Acrilamide/Bis 37.5:1 (2,6% C) 0,67 ml

TEMED (N,N,N’,N’-tetrametil-etilenediamina) 97% 5 µl

25% ammonio persolfato (APS) 25 µl

Acqua Milli-Q 3,83 ml * Stacking gel 10x: 0,5 M Tris-HCl (pH=6,8) e 0,4% SDS

Running gel (12,5%) Volume

** Lower gel 4x 2 ml

30% Acrilamide/Bis 37.5:1 (2,6% C) 3,15 ml

TEMED 7,5 µl

25% APS 7,5 µl

Acqua Milli-Q 2,85 ml

** Lower gel 4x : 1,5 M Tris-HCl (pH=8,8) e 0,4% SDS

La migrazione elettroforetica è avvenuta in soluzione elettrolitica contenente 25 mM Tris-

base, 192 mM glicina (pH=8,3) e 0,1% SDS.

In ogni pozzetto preformato nel gel di “stacking” sono state caricate quantità uguali di

proteine per ciascun estratto, fino ad un massimo di 20 µl per ciascun pozzetto; uno dei

pozzetti è stato utilizzato per caricare una miscela di proteine colorate a peso molecolare

noto “SeeBlue Plus 2 Pre-Stained Protein Standard” (Invitrogen).

5. Materiali e Metodi

-70-

5.4.3 WESTERN BLOT

Una volta terminata la migrazione elettroforetica su gel, le proteine sono state trasferite

elettroforeticamente (“elettroblotting”) su un supporto sintetico solido, costituito da una

membrana di fluoruro di polivinilidene (PVDF; Immobilon P., Millipore, Bedford, MA),

mediante il sistema “Novex® Western Transfer Apparatus” (Invitrogen). L’elettroblotting

è stato effettuato assemblando preventivamente i diversi componenti (spugna, carta

assorbente per il blotting, gel, membrana di trasferimento, carta assorbente per il blotting,

spugna); poi i suddetti componenti sono stati immersi in tampone di trasferimento (12

mM Tris-base, 96 mM glicina, 20% metanolo, acqua Milli-Q) e trasferiti

elettroforeticamente a basso voltaggio per una notte a 4°C. Le membrane di PVDF sono

state in seguito saturate per 1 ora a temperatura ambiente con una soluzione contenente

PBS, Tween 20 (0,20%) e latte magro in polvere (4%) (PTL), in modo da impedire il legame

aspecifico degli anticorpi alla superficie della membrana. In seguito, la membrana è stata

incubata con l’anticorpo primario per 1 ora in agitazione a temperatura ambiente. Per

l’analisi delle proteine presenti negli estratti cellulari sono state impiegate sonde

immunologiche dirette nei confronti delle subunità proteasomali α1/p27k (anticorpo

diluito 1:2.000, fornito gentilmente dal Dr. Klaus Scherrer - Institut Jacques Monod-Parigi,

Francia) e β4/p23k (anticorpo diluito 1:500; ditta Affiniti Research), così come anticorpi

contro le proteine fluorescenti GFP (anticorpo diluito 1:500; ditta Abcam) e DsRed

(anticorpo diluito 1:500; ditta Clontech). Dopo l’incubazione con gli anticorpi primari, la

membrana è stata lavata con PTL e successivamente incubata (1 ora, in agitazione a

temperatura ambiente) con l’anticorpo secondario anti-topo [IgG (H+L) purificate da

capra (Bio-Rad)] o, in alternativa, con l’anticorpo anti–coniglio [IgG (H+L) purificate da

capra (Bio-Rad)]; entrambi gli anticorpi erano coniugati con perossidasi di rafano (HRP) e

sono stati diluiti 1:10.000 e 1:5.000, rispettivamente. Una volta terminato il periodo di

incubazione, le membrane sono state lavate per 4 volte con PTL e 1 volta con PBS. Le

proteine sono state valutate mediante chemiluminescenza con il saggio commerciale “BM

Chemiluminescence Blotting Substrate” (Roche Diagnostics) e successiva esposizione

autoradiografica (Kodak X-Omat AR Film). Rispetto ai metodi immunoenzimatici

“classici”, la rivelazione in chemiluminescenza offre il vantaggio di poter riutilizzare le

membrane per successive immunoreazioni (massimo 3); ciò è possibile dal momento che il

prodotto rilevato non è un precipitato colorato fisicamente presente sulla membrana di

PVDF.

5. Materiali e Metodi

-71-

5.4.4 COLORAZIONE CON BLU DI COOMASSIE

Per valutare l’avvenuto trasferimento delle proteine su membrane PVDF dopo

“elettroblotting”, i gel sono stati colorati con il colorante blu di Coomassie. Allo scopo, i

gel sono stati immersi in soluzione acquosa costituita dal colorante Coomassie G250

(0,50%; ditta Bio-Rad), 50% di metanolo e 10% di acido acetico, per 1 ora, a temperatura

ambiente e sotto lenta agitazione. Al termine della colorazione, il colorante è stato raccolto

e conservato per le colorazioni successive, mentre i gel sono stati decolorati per rimuovere

il colore di fondo, con una soluzione costituita da 30% metanolo e 10% acido acetico, per

almeno 3 ore, cambiando la soluzione per 3-4 volte. Una volta decolorati, i gel sono stati

lavati con acqua Milli-Q.

5.4.5 CENTRIFUGAZIONE IN GRADIENTE DI DENSITÀ DI SACCAROSIO

Nella prima fase della ricerca sono stati analizzati estratti citoplasmatici e nucleari ottenuti

dai cloni cellulari CHO-PSMA6-EGFP #1 e #4 e C2.7-PSMB2-EGFP #1 e #3, che

esprimevano stabilmente le proteine di fusione α1/p27k-EGFP e β4/p23k-EGFP. Come

controllo, sono stati impiegati estratti citoplasmatici e nucleari dei cloni cellulari CHO-

EGFP e C2.7-EGFP che esprimevano la sola proteina fluorescente EGFP e cellule CHO e

C2.7 non trasfettate.

Allestimento degli estratti cellulari

Il tappeto cellulare (minimo 1x108 cellule) è stato raccolto mediante l’azione di

tripsina/EDTA, centrifugato a bassa velocità (2.000 x g per 3 minuti), lavato due volte in

PBS freddo e quindi risospeso in 8 volumi di tampone ipotonico (rispetto al volume del

sedimento cellulare), denominato THK-M2 (10 mM Tris-HCl a pH=7,4, 10 mM KCl, 2 mM

MgCl2, 1 mM MnCl2, 5 mM 2-mercaptoetanolo).

Le cellule sono state lisate alla temperatura di 4°C mediante l’impiego di un “dounce” ed

il livello di lisi è stato monitorato attraverso l’allestimento di preparati microscopici a

fresco. Una volta raggiunto il livello di lisi ottimale, l’isotonicità è stata ristabilita con

l’aggiunta di saccarosio 2 M (concentrazione finale: 0,25 M). Il lisato è stato trasferito in

provette Corex (15 ml) e centrifugato a 10.000 x g (rotore JA 20 Beckman), alla

temperatura di 4°C per 30 minuti. Il surnatante è stato raccolto in una nuova provetta

(estratto citoplasmatico) e conservato alla temperatura di 4°C fino al momento dell’uso. Il

sedimento, costituito da materiale nucleare e mitocondriale, è stato invece risospeso in 2

ml del tampone THK (10 mM Tris-HCl a pH=7,4, 50 mM KCl, 5 mM 2-mercaptoetanolo)

5. Materiali e Metodi

-72-

addizionato con il detergente Nonidet P-40 alla concentrazione finale dello 0,1%. La

sospensione è stata incubata a temperatura ambiente per circa 15 minuti, agitata per 10

minuti mediante vortex in camera fredda e, infine, sottoposta a centrifugazione per 45

minuti alla velocità di 12.000 x g (rotore JA 20 Beckman). Il surnatante così ottenuto

(estratto nucleare) è stato raccolto e conservato a 4°C fino al momento dell’uso.

Una volta allestiti gli estratti nucleari e citoplasmatici, è stato preparato per ciascuno di

essi un gradiente esponenziale di saccarosio (5-21%), mediante l’impiego di una pompa

peristaltica.

Proteasoma 20S

Per l’isolamento dei proteasomi 20S sono stati allestiti gradienti esponenziali di saccarosio

(5-21%) contenenti il detergente Sarkosyl (0,2%) (“N-Lauroylsarcosine sodium salt”). La

concentrazione di Sarkosyl impiegata consente di creare condizioni dissocianti alle quali

la struttura del proteasoma 20S è conservata, mentre il complesso di ordine superiore 26S

viene disassemblato.

Composizione chimica dei gradienti esponenziali:

5% (p/p) saccarosio 27,5% (p/p) saccarosio

Saccarosio 7,5 g 41,25 g

THK 10X 14,7 ml (1x) 13,7 ml (1x)

Sarkosyl (10%) 2,94 ml (0,2%) 2,74 ml (0,2%)

H2O portare a volume finale: 147 ml portare a volume finale: 137 ml

2-mercaptoetanolo

(14 M)

51 µl 48 µl

Gli estratti citoplasmatici sono stati diluiti 1:2 con tampone THK addizionato con Sarkosyl

(concentrazione finale 0,2%), mentre agli estratti nucleari è stato aggiunto solo il

detergente Sarkosyl (concentrazione finale 0,2%).

Successivamente, gli estratti sono stati depositati delicatamente sulla superficie dei

gradienti di saccarosio preallestiti, ciascuno dei quali di volume pari a 10 ml in tubi

“Beckman” da 12 ml. I gradienti sono stati quindi sottoposti a centrifugazione alla velocità

di 36.000 rpm, a 4°C, per 14 ore e 30 minuti (rotore SW41 Beckman). Al termine della

centrifugazione, un capillare sottile è stato inserito molto delicatamente (quasi fino al

fondo) in ciascun tubo di gradiente. Mediante l’azione di una pompa peristaltica per ogni

gradiente sono state raccolte in media 70 frazioni di circa 200 µl ciascuna in piastre da 96

5. Materiali e Metodi

-73-

pozzetti con fondo nero. La lettura è stata effettuata mediante un fluorimetro (Thermo-

Electron-LabSystems), utilizzando il filtro 485 nm (eccitazione)/538 nm (emissione). I

valori di intensità di fluorescenza della proteina GFP rilevati per ciascuna frazione sono

stati espressi in unità arbitrarie di fluorescenza e riportati in un grafico. Infine, è stato

effettuato un dosaggio delle proteine, utilizzando il saggio commerciale “Micro BCATM” in

micropiastra (Pierce Biotechnology). Le frazioni ottenute mediante centrifugazione degli

estratti cellulari in gradiente di densità di saccarosio, raggruppate in modo da ottenere 12

frazioni principali per ogni tipologia di cellula presa in considerazione, sono state

analizzate previa elettroforesi e successivo Western Blot, secondo le modalità descritte nei

paragrafi 5.4.2 e 5.4.3.

5.5 STRATEGIA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE DI VETTORI RETROVIRALI

5.5.1 MODIFICAZIONE DEL VETTORE COMMERCIALE PDON-AI

A differenza dei plasmidi di espressione precedentemente descritti, il vettore retrovirale

pDON-AI di 5,6 kb (Takara-Biomedicals) è costituito da sequenze derivanti dal retrovirus

responsabile della leucemia murina di Moloney. In particolare, nel vettore retrovirale il

sito multiplo di clonaggio è localizzato tra le sequenze virali LTR (“long terminal

repeats”); inoltre, nel suddetto vettore è presente il segnale per l’incapsidamento della

progenie virale, definito “psi“ (Ψ). Tuttavia, tali vettori retrovirali risultano defettivi per i

geni virali gag, pol e env, necessari per la produzione di particelle virali. Come in tutti i

plasmidi, sono presenti anche marcatori di selezione, quali i geni che codificano per la

resistenza agli antibiotici ampicillina e neomicina (e del suo analogo G-418).

Rimozione dal vettore pDON-AI del sito di taglio per l’enzima di restrizione Hind III, localizzato

all’esterno delle sequenze LTR

Il vettore retrovirale (20 ng) è stato digerito parzialmente con 2 unità dell’enzima di

restrizione Hind III, diluito nel tampone specifico “NEB 2” (New England BioLabs). La

miscela di reazione è stata incubata in bagnomaria alla temperatura di 37°C e, a tempi

variabili (5, 10, 15, 20 minuti), sono state raccolte aliquote della miscela di reazione. I

prodotti di digestione enzimatica sono stati separati mediante elettroforesi in gel di

agarosio allo 0,8% in tampone TAE ed il frammento, di circa 5,6 kb, è stato in seguito

eluito dal gel e purificato mediante l’impiego del saggio commerciale “NucleoSpin”

5. Materiali e Metodi

-74-

(Stratagene), secondo le modalità fornite dalla ditta produttrice. Successivamente è stata

valutata la concentrazione del suddetto frammento di DNA. Per la rimozione del sito di

taglio dell’enzima di restrizione Hind III, le estremità 3’-OH interne, risultanti dalla

digestione con l’enzima di restrizione Hind III, sono state completate utilizzando l’enzima

DNA polimerasi-frammento di Klenow di E.coli (Roche Diagnostics), in ragione di 2 unità.

Al mezzo di reazione sono stati aggiunti 100 ng del vettore pDONdelta-AI (pDON-AI

modificato) e i nucleotidi trifosfati diluiti nel tampone “NEB 2”, necessari per completare

il doppio filamento di DNA nella porzione mancante. Avvenuta la reazione di

completamento è stato utilizzato l’enzima DNA-ligasi per sigillare le estremità piatte del

vettore mediante il saggio commerciale “Fast-Link DNA Ligation Kit”(Epicentre),

secondo le modalità fornite dalla ditta produttrice.

Una aliquota della miscela è stata impiegata per trasformare cellule batteriche di E.coli

contenute nel saggio commerciale “XL1-Blue competent cells” (Stratagene), secondo il

protocollo descritto nel paragrafo 5.2.7. Dopo un’ora di incubazione a 37°C, la

sospensione batterica è stata seminata mediante biglie di vetro su piastre agarizzate di

terreno di coltura LB, contenente l’antibiotico ampicillina alla concentrazione di 50 µg/ml,

che consente la selezione dei cloni cellulari recanti il plasmide; le piastre sono state

incubate per una notte a 37°C. A partire dai cloni cellulari di interesse si è reso necessario

estrarre e purificare il DNA ricombinante in quantità adeguata per la sua successiva

caratterizzazione secondo il protocollo precedentemente descritto nel paragrafo 5.2.8

mediante l’impiego del saggio commerciale “NucleoBond” (Machery-Nagel). A questo

scopo, sono state trasferite sterilmente singole colonie di E.coli in provette di terreno

liquido LB (3 ml) contenenti ampicillina alla concentrazione di 100 µg/ml. Le provette

sono state poi incubate e mantenute in agitazione per una notte a 37°C, al fine di favorire

la crescita aerobia dei batteri. A partire da queste sospensioni è stato possibile preparare

piccole quantità di DNA plasmidico (“mini-prep”) ad un livello intermedio di purezza.

Le “mini-prep” sono state sottoposte nuovamente a digestione enzimatica per verificarne

la bontà mediante l’impiego degli enzimi di restrizione EcoR I e Hind III, diluiti nel

tampone “NEB 2”, in ragione di 20 unità per EcoR I e di 30 unità per Hind III. La miscela

di reazione è stata incubata in bagnomaria alla temperatura di 37°C per 2 ore e

successivamente impiegata per allestire un gel di agarosio (1%) in tampone TBE.

Una volta verificato che il sito di restrizione per Hind III, localizzato all’esterno delle

sequenze LTR, era stato rimosso (come atteso sono stati ottenuti frammenti di circa 3,8 kb

e 1,8 kb), da una delle “minicolture” batteriche è stata allestita una brodo-coltura batterica

5. Materiali e Metodi

-75-

in 300 ml di LB addizionato di ampicillina (100 µg/ml) al fine di ottenere una maggiore

quantità di DNA plamidico (“maxi-prep”) ad elevata purezza, mediante il saggio

commerciale “NucleoBond Ax 2000” (Machery-Nagel), secondo il protocollo riportato nel

paragrafo 5.2.9. Il plasmide modificato pDONdelta-AI, è stato risospeso in tampone TE e

la concentrazione del DNA è stata calcolata, a partire da una soluzione diluita 1:100 in

tampone TE, sulla base dei valori di assorbanza rilevati alla lunghezza d’onda di 260 nm.

5.5.2 CLONAGGIO IN VETTORI RETROVIRALI

Clonaggio in un vettore retrovirale della sequenza codificante per EGFP

I plasmidi pEGFP-N1 e pDONdelta-AI sono stati sottoposti a doppia digestione con gli

enzimi di restrizione Hind III (20 unità) e Hpa I (10 unità), diluiti in tampone “NEB 4” (20

mM Tris-acetato, 50 mM acetato di potassio, 10 mM acetato di magnesio, 1 mM DTT a

pH= 7,9 a 25°C) (New England BioLabs). In tal modo, dal primo plasmide (pEGFP-N1) è

stato ottenuto l’inserto di circa 900 bp, relativo alla sequenza genica codificante per la

proteina fluorescente (EGFP), mentre dal secondo pDONdelta-AI il vettore di 5,6 kb, in

cui poter inserire le sequenze di interesse. In particolare, mediante i protocolli operativi

precedentemente descritti è stato ottenuto il vettore retrovirale pDONdelta-EGFP (6,5 kb).

Successivamente, è stata verificata la bontà di tale prodotto mediante digestione

enzimatica con gli enzimi di restrizione Not I e Hind III, diluiti nel tampone “NEB 2” in

ragione di 30 unità e di 20 unità, rispettivamente. La miscela di reazione è stata incubata

in bagnomaria alla temperatura di 37°C per 2 ore e successivamente impiegata per

allestire un gel di agarosio (1%) in TBE. Come atteso, sono stati ottenuti per pDONdelta-

EGFP i frammenti di circa 5,7 kb e 779 bp.

Clonaggio in un vettore retrovirale delle sequenze codificanti per α1/p27k-EGFP e β4/p23k-EGFP

Il vettore retrovirale pDONdelta-EGFP è stato utilizzato per la successiva costruzione dei

vettori retrovirali contenenti le sequenze codificanti per le proteine di fusione, dal

momento che tra le sequenze LTR del vettore sopra citato sono presenti i siti di taglio per

gli enzimi di restrizione Hind III e Not I.

Il vettore retrovirale pDONdelta-EGFP e i plasmidi pPSMA6-EGFP e pPSMB2-EGFP sono

stati sottoposti a doppia digestione enzimatica con gli enzimi di restrizione Hind III (10

unità) e Not I (20 unità), diluiti in tampone “NEB 2” e incubati in bagnomaria a 37°C per 2

ore. I frammenti ottenuti dai vettori pPSMA6-EGFP (1,5 kb) e pPSMB2-EGFP (1,3 kb), che

5. Materiali e Metodi

-76-

codificano per le proteine di fusione (α1/p27k-EGFP e β4/p23k-EGFP, rispettivamente),

sono stati estratti e purificati dal gel di agarosio e, successivamente, clonati nel vettore

retrovirale mediante il saggio commerciale “Fast-Link DNA Ligation Kit”(Epicentre).

Seguendo i protocolli precedentemente illustrati e relativi alla preparazione dei vettori di

espressione, sono stati ottenuti i seguenti vettori retrovirali: pDONdelta-PSMA6-EGFP,

pDONdelta-PSMB2-EGFP e pDONdelta-EGFP.

Clonaggio in un vettore retrovirale della sequenza codificante per l’enzima β-galattosidasi

A partire da un plasmide denominato pMonlsLacZ (fornito dal Dr. José Cebrian - Institut

Gustave-Roussy - Instabilité Génétique et Cancer – Villejuif, Francia – dati non

pubblicati), in cui è presente la sequenza che codifica per l’enzima β-galattosidasi, è stato

preparato il corrispondente vettore retrovirale pDONdelta-nlsLacZ, contenente la

sequenza genica codificante per l’enzima β-galattosidasi. In particolare, il vettore

retrovirale pDON-delta-EGFP e il vettore pMonlsLacZ sono stati sottoposti a doppia

digestione enzimatica mediante l’impiego degli enzimi di restrizione BamH II e Not I,

diluiti nel tampone specifico “NEB” per l’enzima BamH II (New England BioLabs). Il

vettore retrovirale così ottenuto (pDONdelta-nlsLacZ) è stato utilizzato come controllo

per le successive fasi di produzione di retrovirus. L’espressione dell’enzima β-

galattosidasi è stata rilevata mediante l’impiego di un composto commerciale inizialmente

incolore, noto come X-gal (5-bromo-4-cloro-3-indol-β-D-galattopiranoside; Sigma-

Aldrich). I monostrati cellulari sono stati dapprima fissati mediante una miscela di

fissazione costituita da formaldeide (1%) e glutaraldeide (0,2%) in PBS e, successivamente,

sottoposti a colorazione per una notte impiegando una soluzione costituita da: 5 mM

ferricianuro di potassio, 5 mM ferrocianuro di potassio, 500 µg/ml X-gal in

dimetilsulfossido e 2 mM MgCl2. La degradazione di X-gal da parte dell’enzima β-

galattosidasi porta alla produzione di un composto blu insolubile, localizzato nel nucleo

delle cellule e facilmente osservabile mediante l’impiego di un microscopio ottico.

5. Materiali e Metodi

-77-

5.6 PRODUZIONE E IMPIEGO DI PARTICELLE RETROVIRALI (ECOTROPICHE)

5.6.1 PRODUZIONE DI PARTICELLE RETROVIRALI DEFETTIVE MEDIANTE L’IMPIEGO DELLE

CELLULE BOSC-23

La linea cellulare denominata Bosc-23 è stata impiegata per esperimenti di trasfezione,

volti ad ottenere la produzione di particelle retrovirali defettive ma in grado di infettare

cellule di origine murina (ecotropiche). Il giorno precedente la trasfezione, sono state

allestite colture di cellule Bosc-23 in tre piastre Petri (35 mm di diametro) per ciascun

plasmide (pDONdelta-PSMA6-EGFP, pDONdelta-PSMB2-EGFP, pDONdelta-EGFP e

pDONdelta-nlsLacZ come controllo), con una densità pari a 1x106 cellule/piastra. Per

incrementare l’efficienza di trasfezione, è stato utilizzato un composto a base di lipidi

(FuGENE-6, Roche Diagnostics). Per la trasfezione è stata impiegata, per ciascun

plasmide, una quantità di DNA pari a 5 µg. Dopo 48 ore dalla trasfezione il surnatante

(terreno di coltura delle cellule Bosc-23, arricchito con progenie virale) è stato raccolto,

chiarificato mediante centrifugazione a 2.000 x g per 3 minuti per la rimozione dei detriti

cellulari e, successivamente, filtrato con filtri del diametro di 0,45 µm. Una aliquota del

surnatante è stata utilizzata per eseguire infezioni della linea cellulare di topo Balb/3T3

per la determinazione del titolo virale e, parallelamente, come controllo di infezione di

cellule di topo, al fine di rendere plausibile l’utilizzo successivo delle particelle retrovirali

per l’infezione della linea miogenica di topo C2.7.

Da un monostrato semiconfluente di Balb/3T3 sono state allestite subcolture in piastre a 6

pozzetti alla concentrazione di 8x104 cellule/piastra. Ciascuna sospensione retrovirale

(PSMA6-EGFP/rv, PSMB2-EGFP/rv, EGFP/rv e nlsLacZ/rv) è stata saggiata a tre diverse

diluizioni (10-1, 10-2, 10-4). Per ridurre le interazioni elettrostatiche tra virus e membrana

cellulare è stata aggiunta al terreno di coltura una sostanza policationica nota come

“polybrene” (“1,5-dimethyl-1,5-diazaundecamethylene polymethobromide”), alla

concentrazione finale di 5 µg/ml (Sigma-Aldrich). Dopo 48 ore dall’infezione è stato

determinato il titolo della sospensione virale sulla base della determinazione quantitativa

dell’infettività volta al rilevamento del numero di cellule che esprimevano la proteina

EGFP (PSMA6-EGFP, PSMB2-EGFP, EGFP) e, alternativamente l’enzima β-galattosidasi

(nlsLacZ).

5. Materiali e Metodi

-78-

5.6.2 INFEZIONE DI COLTURE CELLULARI DELLA LINEA MIOGENICA DI TOPO C2.7 MEDIANTE

RETROVIRUS RICOMBINANTI

Le sospensioni virali PSMA6-EGFP/rv, PSMB2-EGFP/rv, EGFP/rv e nlsLacZ/rv sono

state successivamente utilizzate per infettare la linea cellulare miogenica di topo C2.7. Il

giorno precedente l’infezione sono state allestite colture di cellule C2.7 in tre piastre Petri

(35 mm di diametro), con una densità pari a 4x104 cellule/piastra. Per ridurre le

interazioni elettrostatiche tra virus e membrana cellulare è stato aggiunto “polybrene“ al

terreno di coltura. Dopo 48 ore dall’infezione le cellule sono state tripsinizzate e poste in

coltura in piastre da 100 mm di diametro, in presenza di 750 µg/ml di G-418.

5.6.3 CENTRIFUGAZIONE IN GRADIENTE DI DENSITÀ DI SACCAROSIO

Analogamente a quanto riportato nel paragrafo 5.4.5, per i cloni cellulari CHO-PSMA6-

EGFP #1 e #4 e C2.7-PSMB2-EGFP #1 e #3 sono stati analizzati estratti citoplasmatici e

nucleari ottenuti da popolazioni di cellule C2.7 ingegnerizzate (C2.7-PSMA6-EGFP, C2.7-

PSMB2-EGFP), che esprimevano stabilmente le proteine di fusione α1/p27k-EGFP e

β4/p23k-EGFP, rispettivamente. Come controllo, sono stati analizzati in parallelo gli

estratti ottenuti a partire dalle popolazioni di cellule C2.7 normali ed anche di C2.7-EGFP

che esprimevano la sola proteina fluorescente EGFP. Le frazioni ottenute mediante

centrifugazione degli estratti cellulari in gradiente di densità di saccarosio, raggruppate in

modo da ottenere 12 frazioni principali per ogni tipologia di cellule prese in

considerazione, sono state analizzate previa elettroforesi e successivo Western Blot,

secondo le modalità descritte nei paragrafi 5.4.2 e 5.4.3.

5.6.4 ELETTROFORESI SU GEL DI POLIACRILAMIDE (“NATIVE-PAGE”)

Per l’analisi di proteine non denaturate è stato utilizzato il metodo denominato “NATIVE-

PAGE”, nel cui tampone di corsa e in quello di diluizione del campione non viene aggiunto

SDS. A tal fine sono stati allestiti nuovi estratti citoplasmatici a partire dalle seguenti

popolazione di cellule C2.7: C2.7-EGFP, C2.7-PSMA6-EGFP e C2.7-PSMB2-EGFP, con

metodo analogo a quello descritto nel paragrafo 5.4.5, fatta eccezione per la composizione

del tampone ipotonico THK-M2 a cui è statto aggiunto ATP (5 mM), al fine di preservare

l’attività dei proteasomi 26S.

Le proteine di ciascun estratto citoplasmatico, sono state concentrate mediante il sistema

“UltrafreeR-15 Centrifugal filter device” (Millipore). In sintesi, a ciascun campione è stato

aggiunto ATP (2 mM) e i campioni sono stati in seguito centrifugati a basse temperature

5. Materiali e Metodi

-79-

per 4 ore alla velocità di 2.000 x g, fino a quando tutto il contenuto è stato concentrato.

Complessivamente, il volume iniziale di 3,5 ml è stato ridotto a circa 200 µl per ciascun

campione (PSMA6-EGFP, PSMB2-EGFP e EGFP).

Allestimento di gel di poliacrilamide

Nel frattempo, sono stati allestiti 3 gel di poliacrilamide in condizioni non denaturanti,

utilizzando il sistema “Mini-Protean 3” (Bio-Rad); i suddetti gel avevano uno spessore di

1,5 mm, lunghezza pari a 1,5 cm e a 6,5 cm per lo “stacking” gel e il “resolving” gel

rispettivamente. Di seguito vengono riportate le composizioni dello “stacking” gel e del

“resolving” gel:

Stacking gel (2,5%) Concentrazione finale

30% Bis-Acrilamide (37,5:1 - 2,6% C) 2,5%

* TBE 5x TBE 1x

APS 25% 0,1%

TEMED 0,1%

Resolving gel (4,5%) Concentrazione finale

30% Bis-Acrilamide (37,5:1 - 2,6% C) 4,5%

* TBE 5x TBE 1x

APS 25% 0,04%

TEMED 0,1%

* TBE 1x: 90 mM Tris-Borato, 0,08 mM EDTA

Una volta allestiti i gel, questi sono stati riposti negli appositi apparati per elettroforesi,

ricoperti con tampone TBE freddo e sottoposti a pre-migrazione per 1 ora alla tensione di

50 Volts a 4°C. A ciascun campione sono stati aggiunti 200 µl di TBE freddo contenente 2

mM ATP e blu di bromofenolo. Una volta caricati, i campioni sono stati fatti migrare per

12 ore, a 50 Volts, a 4°C.

Valutazione dell’attività dei proteasomi

Al termine della migrazione, i gel sono stati recuperati e impiegati per misurare l’attività

proteolitica dei proteasomi 20S e 26S (“chymotrypsin-like”), valutando il rilascio del

fluoroforo 7-amino-4 metilcumarin “AMC” (eccitamento 356 nm/emissione 366 nm) dopo

5. Materiali e Metodi

-80-

il taglio del substrato marcato LLVY-AMC (“N-Succinyl-Leu-Leu-Val-Tyr/7-amido-4-

methylcoumarin”, Sigma – Aldrich). I gel sono stati posti in piccole vaschette alle quali

sono stati aggiunti 10 ml di una soluzione contenente 30 mM Tris-HCl a pH=7,5, 5 mM

MgCl2, 10 mM KCl, 0,5 mM DTT, 2 mM ATP e 100 µM del peptide fluorogenico N-Suc-L-

L-V-Y-AMC. Le vaschette sono state poste a 37°C per 1 ora su uno scuotitore a bassa

velocità. Il segnale di fluorescenza è stato osservato esponendo i gel ai raggi UV di un

transilluminatore (360 nm) (Hough R. et al., 1987; Hoffman L. and Rechsteiner M., 1996;

Glickman M.H. et al., 1998; Piccinini M. et al., 2000; Elsasser S. et al., 2005).

Estrazione delle proteine da gel

Le bande a livello delle quali è stata riscontrata l’attività proteolitica dei proteasomi sono

state tagliate mediante un bisturi e raccolte in provette per essere conservate a -40°C, fino

al momento dell’uso. Una volta scongelati, i campioni sono stati frammentati, mediante

l’impiego di un pistone e nuovamente congelati a -40°C (queste operazioni erano atte a

rompere i legami che si formano in seguito a polimerizzazione dei monomeri di

acrilamide). Ai campioni nuovamente scongelati sono stati aggiunti 500 µl di tampone

“Laemmli” senza glicerolo e blu di bromofenolo (50 mM Tri-HCl pH=6,8, 100 mM DTT,

2% SDS). I campioni sono stati incubati a 37°C per una notte. Al fine di concentrare le

proteine è stato utilizzato il protocollo che prevede l’impiego dell’acido tricloroacetico

(TCA). In particolare, a ciascun campione è stata aggiunta, in ragione di una diluizione

1:100, una soluzione di deossicolato (2%) (Sigma-Aldrich). I campioni sono stati mescolati

e lasciati incubare a 4°C per 30 minuti. Successivamente a ciascun campione è stato

aggiunto TCA (100%) diluito 1:10; i campioni sono stati incubati per una notte a 4°C ed

infine centrifugati per 10 minuti a velocità massima (15.000 x g) a 4°C. Il surnatante è stato

delicatamente rimosso per inversione della provetta ed i sedimenti sono stati lavati due

volte con acetone freddo (-20°C) e centrifugati a 15.000 x g per 5 minuti. Una volta

terminati i lavaggi, i sedimenti sono stati asciugati all’aria e risospesi in un minimo

volume di tampone “Laemmli”. La presenza di TCA può far virare il pH del tampone; in

questo caso, sono stati aggiunti pochi µl di NaOH (1N) o, in alternativa, Tris-HCl a

pH=8,5 (1M). Le aliquote dei campioni precipitati con TCA sono state utilizzate per

allestire gel denaturanti (“SDS-PAGE”) da sottoporre ad analisi in Western Blot e,

parallelamente, a colorazione argentica.

5. Materiali e Metodi

-81-

5.6.5 COLORAZIONE ARGENTICA

Al termine della corsa elettroforetica, i gel preparati secondo le modalità descritte nel

paragrafo 5.4.2 sono stati immersi in metanolo al 50% in H2O per 2 ore a temperatura

ambiente, sotto lenta agitazione. La soluzione di fissazione è stata cambiata dopo 1 ora

(per piccoli gel: 500 ml totali, 2 x 250 ml). Nel frattempo è stata preparata la soluzione

argentica come segue:

Soluzione A Soluzione B

0,8 gr AgNO3 in 4 ml di H2O Milli-Q 21 ml NaOH 0,36%

1,4 ml NH4OH 28% (14,8 M)

oppure:

1,53 ml NH4OH 25% (13,4 M)

La soluzione A è stata aggiunta, goccia a goccia, alla soluzione B, mescolando in

continuazione e, infine, sono stati aggiunti 100 ml di acqua Milli-Q; la soluzione deve

presentarsi completamente limpida. Al termine della fase di fissazione in metanolo, i gel

sono stati immersi in questa soluzione per 15 minuti in agitazione e successivamente sono

stati sottoposti a tre lavaggi (10 minuti l’uno) con H2O Milli-Q. La rivelazione è stata

effettuata aggiungendo ai gel una soluzione fresca, costituita da 1 ml di acido citrico

all’1%, 100 µl di formaldeide al 38% e acqua Milli-Q, per un volume totale di 200 ml; i gel

sono stati lasciati in lenta agitazione, fino alla comparsa delle bande. Al comparire delle

bande con l’intensità desiderata, sono stati aggiunti 2 ml di acido acetico (concentrazione

finale: 1%) per bloccare la reazione.

5.6.6 ELETTROFORESI SU GEL DI POLIACRILAMIDE (“SDS-PAGE”)

Per l’analisi delle proteine è stato utilizzato il metodo “SDS-PAGE” descritto nel paragrafo

5.4.2.

Per l’analisi delle proteine presenti negli estratti, sono state impiegate sonde

immunologiche dirette nei confronti delle subunità proteasomali α1/p27k (anticorpo

diluito 1:2.000, fornito gentilmente dal Dr. Klaus Scherrer - Institut Jacques Monod-Parigi,

Francia) e β4/p23k (anticorpo diluito 1:500; ditta Affiniti Research). Inoltre, è stato

utilizzato un anticorpo monoclonale anti-subunità ATPasi, denominata Rpt1, del

complesso regolatore 19S (diluizione 1:2500; ditta Affiniti Research).

5. Materiali e Metodi

-82-

5.6.7 DISTRIBUZIONE DELLE SUBUNITÀ PROTEASOMALI MARCATE CON LA PROTEINA

FLUORESCENTE EGFP

I cloni cellulari CHO-PSMA6-EGFP #1 e #4, C2.7-PSMB2-EGFP #1 e #3, CHO-EGFP e

C2.7-EGFP sono stati posti in coltura, secondo le modalità previste per ciascuna linea

cellulare, come descritto al paragrafo 5.3, allo scopo di osservare la distribuzione delle

subunità proteasomali co-espresse assieme alla proteina fluorescente verde (EGFP) o,

alternativamente, quella della sola proteina fluorescente, impiegata come controllo. A

partire da monostrati cellulari semiconfluenti sono stati preparati vetrini (superficie di 4

cm2) con densità di 1,2x105 cellule/vetrino (cellule CHO) e di 2x104 cellule/vetrino (cellule

C2.7). Il differenziamento della linea cellulare C2.7 è stato indotto sperimentalmente,

modificando le condizioni di mantenimento in coltura, come precedentemente descritto al

paragrafo 5.3. Al fine di studiare la distribuzione delle subunità proteasomali, in

particolare, a differenti stadi del processo di differenziamento miogenico delle cellule

C2.7, queste sono state lavate con PBS e poi fissate con paraformaldeide al 3,7% in PBS per

10 minuti a temperatura ambiente. Dopo tre lavaggi di 5 minuti ciascuno in PBS, le cellule

sono state montate con liquido di montaggio (Immuno-Fluor, NEN) e quindi osservate

mediante microscopio a fluorescenza.

Successivamente, sono state effettuate osservazioni relative alla distribuzione delle

subunità proteasomali marcate con la proteina EGFP e della sola proteina fluorescente

anche nel corso del processo di differenziamento miogenico in popolazioni di cellule C2.7

ottenute dopo infezione con particelle retrovirali (C2.7-PSMA6-EGFP, C2.7-PSMB2-EGFP

e C2.7-EGFP).

5.7 PRODUZIONE DI PARTICELLE RETROVIRALI (ANFOTROPICHE)

5.7.1 PRODUZIONE DI PARTICELLE RETROVIRALI DEFETTIVE MEDIANTE L’IMPIEGO DELLE

CELLULE IN LINEA CONTINUA HEK 293

La produzione di particelle retrovirali defettive infettanti di tipo anfotropico (in grado di

infettare cellule di mammifero) è stata realizzata mediante co-trasfezione della linea

cellulare denominata HEK 293 con i vettori retrovirali recanti i costrutti di interesse

(pDONdelta-PSMA6-EGFP, pDONdelta-PSMB2-EGFP, pDONdelta-EGFP), pVPackG-P

(plasmide contenente i geni retrovirali gag e pol che codificano per le principali proteine

strutturali e funzionali dei retrovirus; ditta Clontech) e pMD2.G (plasmide che contiene il

gene che codifica per la proteina G del pericapside del virus della Stomatite Vescicolare;

5. Materiali e Metodi

-83-

gentilmente fornito dal Dr. Didier Trono – Faculty of Medicine – Department of

Microbiology and Molecular Medicine – University of Geneva, Svizzera) (Soneoka Y. et

al., 1995; Pear W.S. et al., 1997). Ventiquattro ore prima di effettuare la trasfezione, sono

stati allestiti monostrati cellulari di HEK 293 in tre piastre Petri da 60 mm di diametro, con

una densità iniziale di 2,5x106 cellule/piastra. La quantità di cellule è stata scelta in modo

tale che, al momento della trasfezione si avesse una confluenza del 80%. Due ore prima

della trasfezione, il terreno di coltura è stato sostituito con terreno fresco. La trasfezione è

stata effettuata utilizzando il protocollo che prevede l’impiego del CaCl2 (si veda sezione

5.4.1). In particolare, per la trasfezione è stata utilizzata una quantità totale di DNA di 6

µg, distribuita in un rapporto equimolare di 1:2:3 tra i tre vettori (rispettivamente

pMD2.G, pVPackG-P, vettore retrovirale).

Dopo 24 ore dalla trasfezione, il terreno è stata sostituito con terreno fresco e dopo 48 ore

è stato raccolto il primo surnatante. Il secondo surnatante è stato raccolto dopo 72 ore

dalla trasfezione. I surnatanti sono stati centrifugati a 2.000 x g per 3 minuti, per la

rimozione dei detriti cellulari e congelati a –80°C; essi sono stati in seguito utilizzati per

esperimenti di infezione della stessa linea cellulare (HEK 293) al fine di determinare il

titolo virale e, parallelamente, per esperimenti di infezione di cellule MRC5-hTERT. Una

volta rimosso il surnatante contenente le particelle retrovirali, i monostrati di cellule HEK

293 sono stati lavati delicatamente con PBS e poi fissati con paraformaldeide al 3,7% in

PBS per 10 minuti, a temperatura ambiente. L’efficienza di trasfezione è stata valutata

attraverso l’osservazione dei monostrati mediante microscopio a fluorescenza.

5.7.2 INFEZIONE DI FIBROBLASTI DI POLMONE EMBRIONALE UMANO IMMORTALIZZATI

(MRC5-HTERT) CON I RETROVIRUS RECANTI IL COSTRUTTO DI INTERESSE

Le sospensioni virali PSMA6-EGFP/rv, PSMB2-EGFP/rv e EGFP/rv sono state utilizzate

per infettare monostrati di cellule MRC5-hTERT. Il giorno precedente l’infezione, sono

state allestite colture di MRC5-hTERT in piastre Petri (35 mm di diametro), con una

densità pari a 4x104 cellule/piastra. Per ridurre le interazioni elettrostatiche tra virus e

membrana cellulare è stato aggiunto al terreno di coltura il composto “polybrene”. Dopo

alcuni giorni dall’inizio dell’infezione la sostanza selezionante G-418 (500 µg/ml) è stata

aggiunta al terreno di coltura. Al termine della selezione, durata alcune settimane, sono

state ottenute popolazioni di cellule MRC5-hTERT in grado di esprimere in modo stabile

le subunità α1/p27K e β4/p23K del proteasoma 20S marcate con la proteina EGFP

5. Materiali e Metodi

-84-

(MRC5-hTERT-PSMA6-EGFP e MRC5-hTERT-PSMB2-EGFP, rispettivamente), così come

popolazioni di cellule in grado di esprimere la sola proteina EGFP (MRC5-hTERT-EGFP).

5.8 INFEZIONE DI FIBROBLASTI CON UNO STIPITE UMANO DI CITOMEGALOVIRUS

5.8.1 VIRUS

Per eseguire le infezioni, è stato impiegato lo stipite AD169 (ATCC n. VR-538) di

citomegalovirus umano (HCMV), riprodotto in fibroblasti embrionali umani (MRC5) e

titolato, sulla base della determinazione quantitativa dell’infettività, mediante una

reazione di immunofluorescenza, volta al rilevamento del numero di cellule che

esprimevano le proteine precocissime (IE1 e IE2) di HCMV.

5.8.2 INFEZIONE DI FIBROBLASTI EMBRIONALI UMANI (MRC5) CON LO STIPITE AD169 DI

HCMV

Per l’infezione dei monostrati cellulari MRC5 è stato impiegato lo stipite AD169 di HCMV

[titolo: 2,5x106 unità formanti placca (ufp)/ml] alla molteplicità di infezione di 0,5

ufp/cellula. Le cellule sono state fatte crescere su vetrino (“shell-vial”), fino al

raggiungimento della semi-confluenza. Dopo un lavaggio con MEM privo di siero fetale

di vitello, le cellule sono state infettate con l’opportuna diluizione di sospensione virale,

allestita in terreno (MEM) privo di siero e lasciate in incubazione per 60 minuti a 37°C. Al

termine dell’adsorbimento, l’inoculo virale è stato rimosso e sostituito con terreno di

coltura addizionato di siero fetale di vitello al 10%. I monostrati infettati sono stati infine

incubati a 37°C per i tempi prestabiliti.

5.8.3 MONOSTRATI DI CELLULE MRC5 NON SINCRONIZZATE

I monostrati cellulari sono stati fatti crescere su vetrino (“shell vial”) per 48 ore a 37°C, in

terreno addizionato di SVF (10%). Successivamente le cellule MRC5 sono state lavate per

due volte con MEM privo di siero fetale di vitello ed infettate con lo stipite AD169 di

HCMV.

5.8.4 SINCRONIZZAZIONE DEI MONOSTRATI DI CELLULE MRC5

I monostrati cellulari sono stati fatti crescere su vetrino (“shell vial”) per 24 ore a 37°C in

terreno addizionato di SVF (10%). Successivamente le cellule MRC5 sono state lavate per

tre volte con MEM privo di siero fetale di vitello e lasciate in terreno senza siero per 5

5. Materiali e Metodi

-85-

giorni. Al termine di tale periodo, il suddetto terreno è stato sostituito con terreno

addizionato del 10% di SVF per i tempi prestabiliti (9 ore per G1, 18 ore per G1/S, 24 ore

per S, 30 ore per G2/M) (Morel A.P. et al., 2003; Memili E. et al., 2004), prima di infettare le

cellule con lo stipite AD169 di HCMV.

5.8.5 TRATTAMENTO DI MONOSTRATI DI CELLULE MRC5 CON MG132

I monostrati cellulari sincronizzati, così come quelli non sincronizzati, sono stati trattati

con l’inibitore dell’attività dei proteasomi denominato MG132 (Calbiochem). In

particolare, l’inibitore MG132 è stato aggiunto al terreno di coltura alla concentrazione

finale di 0,5 µM (soluzione stock 10 mM in DMSO) per 3 ore prima dell’infezione (Prösch

S. et al., 2003) ed è stato lasciato a contatto con i monostrati cellulari anche durante il

periodo di adsorbimento dell’inoculo virale ed il periodo di infezione prescelto.

5.8.6 ANTICORPI

Per lo studio dell’infezione virale mediante immunofluorescenza, è stato impiegato un

anticorpo monoclonale (Argene–Biosoft) in grado di riconoscere le proteine virali

precocissime IE di HCMV; tale anticorpo è stato utilizzato alla diluizione 1:30 in BSA allo

0,2% in PBS. Per lo studio della localizzazione del proteasoma 20S è stato impiegato un

anticorpo policlonale (gentilmente fornito dal Prof. Dahlmann – Università di Berlino –

Istituto di Biochimica - Berlino, Germania), in grado di riconoscere alcune delle subunità

del proteasoma 20S; l’anticorpo è stato diluito 1:100 in BSA allo 0,2% in PBS. Per la

rivelazione dell’anticorpo primario anti-proteine virali IE è stato utilizzato un anticorpo

anti-IgG murine, coniugato con TRITC (EuroClone), diluito 1:50 in BSA allo 0,2% in PBS,

mentre, per quanto concerne l’anticorpo anti-proteasoma 20S, è stato utilizzato un

anticorpo anti-IgG di coniglio, coniugato con FITC (EuroClone - United Kingdom) e

diluito 1:50 in BSA allo 0,2% in PBS.

5.8.7 IMMUNOFLUORESCENZA INDIRETTA

Le cellule sono state delicatamente lavate con tampone per citoscheletro (CSK), costituito

da 10 mM Pipes (pH=6,9), 100 mM NaCl, 3 mM MgCl2, 300 mM saccarosio, e quindi

permeabilizzate e fissate contemporaneamente, utilizzando una miscela di Triton X-100 al

2,5% in tampone CSK e paraformaldeide all’1% nello stesso tampone, per 20 minuti a

temperatura ambiente. Dopo tre lavaggi di 5 minuti ciascuno in PBS, i siti immunoreattivi

5. Materiali e Metodi

-86-

non specifici sono stati saturati con BSA all’1% in PBS per 15 minuti; le cellule sono state

successivamente lavate con PBS prima di deporre gli anticorpi primari.

Per l’immunoreazione, le cellule sono state incubate con l’anticorpo monoclonale anti-

proteine virali IE e con l’anticorpo policlonale anti-proteasoma 20S, per 1 ora a 37°C, in

camera umida. Dopo tre lavaggi di 5 minuti ciascuno in PBS, le cellule sono state incubate

con gli specifici anticorpi secondari per 45 minuti a 37°C, in camera umida. Le cellule,

sono state lavate in seguito con PBS (tre lavaggi di 5 minuti ciascuno) e montate con

liquido di montaggio (DakoCytomation).

L’immunoreazione è stata osservata mediante microscopio a fluorescenza (Leica) o

mediante microscopio confocale (Zeiss LSM 510 Meta).

5.8.8 ANALISI DELLE CELLULE MRC5 MEDIANTE CITOFLUORIMETRO A FLUSSO

I monostrati cellulari sono stati fatti crescere su piastre da 6 pozzetti (6x105

cellule/pozzetto) per 24 ore a 37°C in terreno MEM addizionato di SVF (10%).

Successivamente le cellule MRC5 sono state lavate per tre volte con MEM privo di SVF e

mantenute in coltura in terreno senza siero per 5 giorni. Terminato questo periodo di

tempo, il terreno privo di siero è stato sostituito con terreno addizionato del 10% di SVF

per i tempi prestabiliti (9 ore per G1, 18 ore per G1/S, 24 ore per S, 30 ore per G2/M). I

tappeti cellulari sono stati raccolti mediante l’azione di tripsina/EDTA, centrifugati a

bassa velocità (1.000 x g per 5 minuti) e risospesi in 50 µl di PBS. I campioni sono stati

conservati a 4°C fino al momento dell’uso. Per l’analisi mediante citofluorimetria a flusso

(FACScan Becton-Dickinson) i campioni sono stati addizionati con 500 µl di tampone

citrato contenente 50 µl di ioduro di propidio (Sigma-Aldrich), 1 mg/ml di ribonucleasi A

(Sigma-Aldrich) e Nonidet P-40 allo 0,1% (Sigma-Aldrich). I campioni sono stati

successivamente incubati al buio a 4°C per almeno 1 ora, prima di essere analizzati

mediante citofluorimetro. Per ciascun campione è stata valutata una quantità minima di

10.000 cellule e i dati ottenuti sono stati analizzati mediante il programma di analisi

“Multicycle Cell Cyle” (Phoenix Flow System, San Diego, CA), basato sul modello

matematico proposto da Dean P.N. e Jett J.H. (Dean P.N. and Jett J.H., 1974).

6. Risultati

6. RISULTATI

6. Risultati

-88-

In questa sezione vengono descritti i risultati ottenuti attraverso lo studio dei due modelli

prescelti, ovvero cellule muscolari di topo, nell’ambito del processo di differenziamento in

vivo e in vitro, e cellule umane durante l’infezione da citomegalovirus in vitro.

Il denominatore comune nell’ambito dei suddetti modelli, così distanti tra loro, è

rappresentato dai proteasomi, con particolare riguardo alla distribuzione degli stessi nel

corso delle due condizioni sopra citate, di cui l’una (differenziamento muscolare)

fisiologica e l’altra (infezione virale) patologica. L’intento di tali studi è stato quello di

mettere in rilievo, a cominciare dagli aspetti morfologici, quello che, come già dettagliato

nella sezione introduttiva, dovrebbe essere un ruolo di spicco dei proteasomi nel controllo

di processi cruciali per la cellula, quale il ciclo cellulare, il cui arresto è fondamentale

nell’ambito del differenziamento e la cui alterazione è una delle strategie vincenti

applicate da citomegalovirus per “sbaragliare” la cellula ospite durante il ciclo litico.

Altro progetto ambizioso a cui si è cercato di dare l’avvio attraverso questo studio

riguarda la messa a punto di strumenti molecolari da potere utilizzare, in un’ottica futura,

per studi sui proteasomi, analoghi a quelli presi in considerazione in questa sede, ma da

effettuare in cellule viventi.

6.1 PRIMO MODELLO DI STUDIO: CELLULE MUSCOLARI E PROTEASOMI

Le osservazioni sperimentali riportate in questa prima parte si riferiscono innanzitutto

allo studio sulla localizzazione di specifici proteasomi nel tessuto muscolare scheletrico di

ratto. Esse sono state effettuate sia in sezioni sottili di muscoli scheletrici, che a partire da

miofibrille isolate dai suddetti muscoli, attraverso l’impiego di tecniche di microscopia

elettronica, microscopia a fluorescenza e microscopia confocale.

Inoltre, attraverso tecniche di ingegneria genetica, sono stati messi a punto e validati

specifici strumenti molecolari atti all’ottenimento di cloni/popolazioni di cellule di topo

in grado di esprimere stabilmente specifiche subunità di proteasomi “marcate” con la

proteina verde naturale EGFP, allo scopo di creare le basi per studi futuri sui proteasomi,

a valenza sia morfologica che funzionale, in cellule muscolari viventi.

6.1.1 I PROTEASOMI SONO DISTRIBUITI SECONDO UN PROFILO PSEUDO-SARCOMERICO NEL

MUSCOLO SCHELETRICO

Precedenti osservazioni ottenute dal nostro gruppo di ricerca e da quello del Prof. Jean

Foucrier, relative al processo di differenziamento di cellule muscolari di topo e di cellule

satelliti di ratto in vitro (De Conto F. et al., 1997; Foucrier J. et al., 1999), hanno messo in

6. Risultati

-89-

evidenza una distribuzione nucleare e/o citoplasmatica di specifici proteasomi,

dipendentemente dalle varie fasi del processo di differenziamento, con particolare

riguardo ad un’organizzazione pseudo-sarcomerica nell’ambito delle tappe finali del

suddetto processo. Queste osservazioni preliminari sono state confermate da studi

successivi, relativi alla localizzazione del proteasoma 20S in sezioni sottili longitudinali

del muscolo scheletrico di ratto e in colture primarie di cardiomiociti ventricolari di ratto,

che hanno anch’essi avvalorato l’esistenza di una caratteristica distribuzione pseudo-

sarcomerica del proteasoma 20S (Foucrier J. et al., 2001).

Alla luce di questi risultati, è sembrato rilevante, oltre che un naturale seguito rispetto a

quanto precedentemente intrapreso, approfondire le conoscenze al riguardo attraverso

l’acquisizione di dati che potessero fornire utili informazioni sulla precisa distribuzione

dei proteasomi nell’ambito del sarcomero, così come sulle possibili interazioni tra questi

ultimi e specifici elementi dell’apparato contrattile muscolare.

Al fine di stabilire con maggiore precisione la localizzazione dei proteasomi nell’ambito

della struttura sarcomerica del muscolo scheletrico, sono state utilizzate sezioni sottili di

muscolo scheletrico di ratto (Extensor Digitorum Longus, EDL); lo studio è stato

inizialmente effettuato attraverso l’impiego di immunoelettromicroscopia. Per quel che

riguarda la tecnica impiegata, l’immunoreazione è stata effettuata prima di sottoporre a

fissazione e ad inclusione i preparati (“pre-embedding”); la localizzazione della subunità

α1/p27k del proteasoma 20S è stata infine rivelata mediante reazione immunoenzimatica

(immunoperossidasi). L’osservazione di tali preparati [Figura 1, pannelli A e B] ha

evidenziato la presenza della subunità α1/p27k, attraverso il rilevamento di precipitati di

3,3-diamminobenzidina (DAB, substrato dell’enzima perossidasi) a livello del sarcomero.

In particolare, sono state individuate due aree principali di positività, concentrate

all’interfaccia tra le bande A ed I, anche se il segnale risultava leggermente diffuso

nell’ambito di tutta la banda I.

6. Risultati

-90-

Figura 1: Localizzazione di α1/p27k in sezioni sottili del muscolo “Extensor Digitorum Longus “ (EDL) di ratto, rilevata mediante immunoelettromicroscopia (tecnica di “pre-embedding”); la reazione immunoenzimatica (immunoperossidasi) è stata rivelata attraverso l’aggiunta del substrato 3,3-diamminobenzidina (DAB); le aree di positività sono evidenziate dalla presenza di precipitati di colore grigio intenso. Per confronto con il controllo (pannello B), il precipitato di DAB, che si osserva nel pannello A è rilevato in associazione alla banda I e, in particolare, all’interfaccia tra le bande A e I (barrette bianche orizzontali). Al contrario, la regione centrale della banda A è priva di precipitati. Barra: 1 µm.

6.1.2 IL PROFILO PSEUDO-SARCOMERICO DI SPECIFICI PROTEASOMI SI MODIFICA IN

RAPPORTO ALL’ESTENSIONE DEL SARCOMERO IN VIVO

Questa serie di esperimenti è stata effettuata su sezioni sottili di muscolo EDL di ratto,

attraverso l’impiego di una tecnica di doppia colorazione in immunofluorescenza, al fine

di individuare i possibili elementi del sarcomero più strettamente associati a specifici

proteasomi. Allo scopo, sono state impiegate sonde immunologiche in grado di

riconoscere la subunità α1/p27K dei proteasomi, assieme a quelle ritenute idonee ad

evidenziare le proteine sarcomeriche di interesse.

In un primo tempo, gli anticorpi anti-α1/p27K sono stati utilizzati in concomitanza a

quelli diretti contro la proteina desmina, che caratterizza i filamenti intermedi del

citoscheletro associati alle linee Z (che delimitano, com’è noto, il sarcomero) [Figura 2,

pannelli A-F].

I risultati ottenuti confermano innanzitutto l’esistenza di una distribuzione spaziale dei

proteasomi, che ricalca quella sarcomerica [Figura 2, pannelli B e E, in rosso]; altro dato

rilevante è che, mentre in alcune delle sezioni analizzate la loro distribuzione si appalesa

in un’unica banda [Figura 2, pannello B, punta di freccia], in altre, essa consta di una

doppia banda [Figura 2, pannello E, freccia]. D’altra parte, il profilo in fluorescenza di

desmina, utilizzata come marcatore della linea Z, è rappresentato da un’unica banda,

come atteso [Figura 2, pannelli A e D, in verde]. Per quel che riguarda lo studio di

colocalizzazione tra α1/p27K (proteasoma) e desmina, realizzato attraverso la

sovrapposizione delle immagini in rosso (proteasoma) ed in verde (desmina) [Figura 2,

pannelli C ed F], esso ha messo in evidenza che, nel caso del profilo dei proteasomi a

6. Risultati

-91-

singola banda [Figura 2, pannello B], la corrispondente immagine di colocalizzazione

[Figura 2, pannello C] mostra i colori rosso (proteasoma) e verde (desmina) ancora

nettamente distinti. In altre parole, questo equivale a dire che i proteasomi sembrano

distribuiti nello spazio tra le linee Z e non sono ad esse associati. Anche nel caso di

distribuzione dei proteasomi a doppia banda [Figura 2, pannello E], l’immagine di

colocalizzazione tra i canali del rosso e del verde [Figura 2, pannello F] evidenzia come le

linee Z sembrino ancora discernibili (conservando quasi integralmente il loro colore

originale), confermando una distribuzione dei proteasomi da esse indipendente. Simili

osservazioni sono state confermate utilizzando diversi metodi di fissazione (metanolo a

freddo, acetone e paraformaldeide), così come in preparati non fissati.

Figura 2: Il profilo di distribuzione di α1/p27k non coincide con quello di desmina. Doppia colorazione in immunofluorescenza: profilo di distribuzione di α1/p27k in associazione a desmina, in sezioni sottili di muscolo EDL di ratto. Pannelli A e D: desmina; pannelli B ed E: α1/p27k; pannelli C ed F: immagini derivanti dalla sovrapposizione di A+B e D+E, rispettivamente. La punta di freccia nel pannello B e la freccia nel pannello E indicano il profilo a banda singola e a doppia banda, rispettivamente, di α1/p27k. Barra: 10 µm.

Il rilevamento di un profilo di distribuzione differenziato dei proteasomi, principalmente

evidenziabile in una singola o in una doppia banda, ha portato ad ipotizzare che queste

differenze potessero essere legate alla lunghezza del sarcomero, che varia

dipendentemente dallo stato di contrazione del muscolo.

6. Risultati

-92-

Per cercare di dirimere il quesito, è stata effettuata una seconda serie di esperimenti di

doppia marcatura in immunofluorescenza su sezioni sottili di muscolo EDL di ratto,

calcolando, in questo caso, la lunghezza media dei sarcomeri su cui è stata effettuata la

suddetta reazione di immunofluorescenza. Quest’ultima è stata eseguita sempre mediante

l’impiego di anticorpi diretti contro la subunità α1/p27K di proteasoma, utilizzati assieme

a sonde immunologiche in grado di riconoscere la proteina titina [Figura 3, pannelli A-C].

In particolare, per quanto concerne quest’ultimo anticorpo, si è scelto di utilizzare il clone

9D10, dal momento che l’epitopo riconosciuto da esso è localizzato a livello di una regione

della molecola di titina la cui distribuzione spaziale nell’ambito del sarcomero risulta

essere più vicina all’interfaccia tra la banda A e la banda I, piuttosto che alla linea Z

(Greaser M.L. et al., 2000). La suddetta regione, riconosciuta dall’anticorpo 9D10, è

denominata “PEVK”, in funzione dei residui aminoacidici da cui è principalmente

costituita (P: prolina; E: acido glutammico; V: valina; K: lisina). Il segmento “PEVK” che,

come già accennato, è localizzato in prossimità della regione centrale della banda I

(porzione intra-sarcomerica), è costituito da un’unica sequenza di 2174 residui

aminoacidici, la cui funzione, nell’ambito della struttura primaria della molecola di titina,

è quella di moderare l’elevato grado di distensione del sarcomero; tale anticorpo è stato

pertanto largamente impiegato quale valido mezzo per studiare la capacità di estensione

dei muscoli scheletrico e cardiaco (Trombitás K. et al., 1998).

I risultati del suddetto esperimento di doppia colorazione in immunofluorescenza hanno

messo in evidenza che sia il profilo di fluorescenza della regione “PEVK” di titina [Figura

3, serie di pannelli A, in verde], che quello di α1/p27K [Figura 3, serie di pannelli B, in

rosso], variano a seconda della lunghezza del sarcomero. In particolare, nei sarcomeri più

corti il profilo di fluorescenza di titina si estrinseca in un’unica banda, in cui si evidenzia a

volte una sorta di micro-fessurazione centrale [Figura 3, pannello A, sarcomero di 1,66

µm; la freccia indica la micro-fessurazione]; le corrispondenti immagini in contrasto di

fase (non riportate in questa sede) hanno permesso di appurare che questa banda si

localizza nelle immediate vicinanze della linea Z. Come atteso e a controprova della

suddetta osservazione, il profilo di distribuzione di α1/p27K nello stesso sarcomero,

anch’esso evidenziabile in un’unica banda [Figura 3, pannello B, sarcomero di 1,66 µm],

non colocalizza con titina [Figura 3, pannello C, sarcomero di 1,66 µm]. In quest’ultimo

caso, l’immagine in contrasto di fase ha permesso di identificare la zona di distribuzione

di α1/p27K a livello della linea M.

6. Risultati

-93-

Nei sarcomeri più lunghi è stata osservata una diversa distribuzione sia di titina che di

α1/p27K, entrambe evidenziabili come doppie bande [Figura 3, pannelli A e B,

rispettivamente; lunghezze dei sarcomeri: 1,81 µm, 2,26 µm, 2,39 µm e 2,69 µm].

Le suddette doppie bande sono non solo sempre più chiaramente discernibili man mano

che il sarcomero considerato aumenta di lunghezza, ma diventano anche piuttosto bene

colocalizzate nei sarcomeri più lunghi, come evidenziato dal colore giallo nel pannello C

(sarcomeri di 2,39 e 2,69 µm). In particolare, e come già più volte ribadito, in condizioni di

muscolo più disteso (sarcomeri più lunghi) la regione “PEVK” di titina è localizzata

all’interfaccia tra le bande A ed I; anche in questo caso (come per quello del sarcomero più

corto), la collocazione spaziale delle suddette bande sarcomeriche è stata confermata

attraverso l’osservazione delle corrispondenti immagini in contrasto di fase (non riportate

in questa sede).

Figura 3: Il profilo di distribuzione di α1/p27k dipende dall’estensione del sarcomero in vivo. Doppia colorazione in immunofluorescenza: profilo di distribuzione di α1/p27k in associazione a titina, in sezioni sottili di muscolo EDL di ratto. I pannelli A e B corrispondono a titina e ad α1/p27k, rispettivamente; nel pannello C sono evidenziate le aree di colocalizzazione (in giallo) tra titina e α1/p27k. Il valore della lunghezza del sarcomero (± ESM) è indicata sotto le corrispondenti immagini delle suddette serie. La doppia banda di titina non è rilevabile nei sarcomeri molto corti (la freccia nella prima immagine della serie di pannelli A mostra la micro-fessurazione nella banda di titina), mentre si vede molto bene man mano che la lunghezza del sarcomero aumenta. La freccia nella serie di pannelli B (immagine con sarcomero di lunghezza di circa 2,39 µm) indica un profilo a doppia banda di α1/p27k. Le punte di freccia a livello delle immagini colocalizzate (serie di pannelli C) indicano la posizione della linea Z, individuata attraverso l’osservazione delle corrispondenti immagini in contrasto di fase. Barra: 10 µm.

6.1.3 UNA SIGNIFICATIVA QUANTITÀ DI PROTEASOMI È ASSOCIATA ALLE MIOFIBRILLE

Le osservazioni sperimentali effettuate nel modello murino in vivo e riportate nei

paragrafi precedenti, sicuramente rafforzano l’ipotesi di una stretta interazione tra

proteasomi e proteine intimamente connesse alla struttura e, verosimilmente, alle funzioni

del sarcomero. In particolare, la distribuzione dei proteasomi concentrata principalmente

A

B

C

6. Risultati

-94-

in una o due bande, a loro volta dislocate alternativamente nella zona centrale, a livello

della linea M (singola banda intra-sarcomerica) in sarcomeri più corti, o tra la banda A e la

banda I (doppia banda intra-sarcomerica) in sarcomeri allungati, suggerisce, anche a

conferma di osservazioni precedenti su modelli di cellule muscolari (De Conto F. et al.,

1997; Foucrier J. et al., 1999; Foucrier J. et al., 2001), così come di altre tipologie cellulari

(Arcangeletti M.C. et al., 1997), una possibile interazione tra proteasomi e filamenti di

actina. Nello specifico, a livello della struttura sarcomerica, in cui lo scorrimento dei

filamenti di actina negli spazi esistenti tra gli stessi ed i filamenti di miosina determina un

accorciamento dei sarcomeri nell’ambito della contrazione muscolare, i proteasomi

sarebbero associati con una regione prossima all’estremità a polarità negativa dei

filamenti di actina, ossia nelle strette vicinanze della zona centrale del sarcomero.

Al fine di confermare ulteriormente l’esistenza di tale interazione, si è passati ad effettuare

un analogo studio in vitro, utilizzando preparati di miofibrille isolate a partire da muscoli

di ratto. In una fase preliminare, sono stati effettuati diversi controlli atti ad appurare

l’adeguatezza dei preparati. Innanzitutto, mediante osservazione al microscopio in

contrasto di fase è stato possibile rilevare, a livello delle singole miofibrille, il classico

profilo striato che caratterizza il tessuto muscolare scheletrico; mediante l’impiego di

sonde immunologiche dirette nei confronti dei principali componenti del sarcomero quali

miosina e titina e, in parallelo, di sostanze quali falloidina, per rilevare la presenza di

actina filamentosa, è stato possibile valutare la bontà dei preparati di miofibrille sulla base

della localizzazione spaziale delle suddette proteine nell’ambito della struttura

sarcomerica.

Inoltre, nei preparati di miofibrille è stata valutata anche l’eventuale presenza di elementi

non prettamente miofibrillari, mediante l’impiego di anticorpi diretti nei confronti della

proteina desmina e dei recettori Serca-1 e rianodina del reticolo sarcoplasmatico. Tali

componenti sono stati rilevati solo in numero esiguo di miofibrille. Infine, la presenza

della subunità di proteasoma α1/p27k, rilevata mediante immunofluorescenza, è stata

accertata in tutte le miofibrille esaminate.

Utilizzando tali preparazioni di miofibrille come modello di studio, è stato possibile

riprodurre innanzitutto le osservazioni effettuate in vivo (sezioni sottili di muscolo), in

particolare quelle relative al rapporto esistente tra il profilo di distribuzione del segnale di

fluorescenza della subunità α1/p27k e la lunghezza del sarcomero [Figure 4 e 5].

Allo scopo di quantificare questo fenomeno, le miofibrille sono state sottoposte sia ad

osservazione mediante microscopio a contrasto di fase, che a reazione di

6. Risultati

-95-

immunofluorescenza, utilizzando un anticorpo monoclonale diretto nei confronti della

subunità α1/p27k dei proteasomi e, simultaneamente, falloidina, che si lega

selettivamente ai filamenti di actina. Per la realizzazione di tale esperimento, sono state

prese in considerazione 44 miofibrille, scelte in modo del tutto casuale; nell’ambito delle

stesse, è stata misurata la lunghezza di 442 sarcomeri, valutando la distanza tra le linee Z

mediante microscopia in contrasto di fase (si veda l’esempio delle quattro porzioni di

miofibrille, con sarcomeri di diversa lunghezza, nelle immagini in contrasto di fase

riportate sopra il grafico di Figura 4). I valori di lunghezza, di tutti i sarcomeri presi in

considerazione, sono riportati lungo l’asse delle ascisse del grafico di Figura 4, mentre

nella parte alta dello stesso grafico compaiono, in parentesi e in corrispondenza di ogni

valore di lunghezza, il numero di sarcomeri analizzati. Attraverso l’analisi dei profili di

fluorescenza di α1/p27k [in rosso nelle quattro tipologie di sarcomeri riportate, in

maniera esemplificativa, sopra il grafico di Figura 4, pannello A], è stata inoltre misurata

sia la distanza tra le bande di proteasomi (α1/p27k) all’interno di un singolo sarcomero

[riportate con simboli blu nel grafico di Figura 4, pannello B], che la distanza tra due

bande proteasomali disposte ai due lati di una linea Z, ossia bande dislocate in due

sarcomeri adiacenti [riportate con simbolo giallo nel suddetto grafico]. Alla misura della

distanza tra bande di α1/p27k intra-sarcomeriche è stato attribuito un valore 0

(approssimando i valori reali di frazioni di micron), quando il profilo di fluorescenza

indicava la presenza di un’unica banda.

Questo risulta apprezzabile, in effetti, sia nelle immagini che nella rappresentazione

grafica di Figura 4, in cui la distanza tra bande intra-sarcomeriche (simbolo in blu) ha

valore 0 per sarcomeri di lunghezza ≤ a circa 2 µm e nei quali il profilo di α1/p27k si

presentava, come già accennato, sottoforma di una sola banda (a livello della linea M),

come evidenziato anche, in maniera esemplificativa, nell’immagine in contrasto di fase e

nel relativo profilo di fluorescenza in rosso nell’ambito del sarcomero che misura 1,95 µm

[Figura 4, pannello A].

Per quel che riguarda queste stesse tipologie di sarcomeri “corti”, le corrispondenti

distanze tra le bande di α1/p27k situate in due sarcomeri adiacenti (ai due lati di una

linea Z) hanno valori diversi dallo 0 (nel grafico, simboli gialli relativi a sarcomeri con

lunghezza ≤ a circa 2 µm). Tali valori risultano essere strettamente correlati alla lunghezza

del sarcomero (si confronti, ad esempio, la misura di bande proteasomali tra sarcomeri

adiacenti, per sarcomeri lunghi 1,7 µm, il cui corrispondente simbolo giallo risulta,

anch’esso, della stessa misura, come desumibile dall’asse delle ordinate destro, o si

6. Risultati

-96-

confronti anche quello di lunghezza 2 µm con relativo simbolo giallo situato in

corrispondenza della stesso valore), come era logico attendersi, dal momento che i

proteasomi appaiono concentrati in un’unica banda nella zona centrale del sarcomero. La

situazione appare decisamente diversa per sarcomeri più estesi (lunghezza ≥ 2,3 µm); in

questo caso, come desumibile dalle immagini in fluorescenza di α1/p27k di Figura 4 e

dalla disposizione dei simboli blu e gialli nella rappresentazione grafica della stessa

Figura, il profilo di distribuzione dei proteasomi passa da una a due bande intra-

sarcomeriche e, di conseguenza, aumenta la distanza tra bande di α1/p27k all’interno del

sarcomero (simboli blu per sarcomeri delle suddette dimensioni). Concomitantemente,

come evidenziato dai rispettivi simboli gialli, diminuisce la distanza tra bande

proteasomali che fiancheggiano la linea Z (situate in due sarcomeri adiacenti).

6. Risultati

-97-

Figura 4: Il profilo di distribuzione di α1/p27k dipende dall’estensione del sarcomero anche a livello di singole miofibrille. Le miofibrille sono state isolate da muscoli di ratto; la reazione di doppia colorazione in immunofluorescenza è stata eseguita mediante l’impiego concomitante di anticorpi che riconoscono la subunità α1/p27k (rosso) e di falloidina, che si lega all’actina filamentosa (verde). Le immagini in fluorescenza ed in contrasto di fase raffigurano piccole porzioni di quattro miofibrille rappresentative (tre sarcomeri interi e due mezzi sarcomeri), con sarcomeri di quattro differenti dimensioni (1,95 µm, 2,17 µm, 2,46 µm e 2,94 µm) nel pannello A. Nell’ambito della rappresentazione grafica, la distanza tra le due bande corrispondenti al profilo intra-sarcomerico di fluorescenza di α1/p27k (simboli blu nel grafico, asse verticale sinistro) e la distanza tra le due bande di α1/p27k localizzate in sarcomeri adiacenti (simboli gialli, asse verticale destro) sono “plottate” in funzione della lunghezza del sarcomero (espressa in µm), riportata sull’asse delle ascisse. Il numero di sarcomeri nei quali è stata calcolata la distanza tra bande di α1/p27k compare in parentesi, nella parte alta del grafico, in corrispondenza dei rispettivi valori (simboli gialli e blu) nel pannello B.

A Lunghezza del sarcomero (µm) 1,95 2,17 2,46 2,94

Z Z Z Z Z Z Z Z

Contrasto di fase

α1/p27K

Actina

Sovrapposizione

Lunghezza del sarcomero (µm)

B

6. Risultati

-98-

Questa serie di osservazioni ha portato alla formulazione di un modello interpretativo di

tali evidenze sperimentali, illustrato in Figura 5, in cui sono schematizzate tre tipologie

rappresentative di sarcomeri, di lunghezza pari a 2,9 µm (esteso) in (A), a 2,4 µm

(lunghezza intermedia) in (B) e a 2 µm (“corto”) in (C). A lato vengono anche riportate le

corrispondenti immagini in contrasto di fase, in cui sono visibili le linee Z (evidenziate da

frecce) e la banda A, così come immagini che mostrano il profilo in fluorescenza della

subunità α1/p27k dei proteasomi; in queste ultime, in particolare, la lettera “a” evidenzia

la distanza tra bande di proteasomi intra-sarcomeriche, mentre “b” e “c” quelle tra bande

dislocate in sarcomeri adiacenti. È da sottolineare che le misure effettuate in “b” e in “c”

per tutti i sarcomeri considerati nei preparati di miofibrille, sono risultate sovrapponibili,

a dimostrazione di una distribuzione ripetitiva e regolare delle aree di accumulo (bande)

dei proteasomi.

Nella rappresentazione schematica, le bande proteasomali sono rappresentate in

rosso/arancio, i filamenti di actina in verde, quelli di miosina (delimitanti la banda A) in

azzurro ed infine, le linee Z in nero. Le misure delle distanze tra bande di α1/p27k intra-

sarcomeriche e tra sarcomeri adiacenti sono quelle evidenziate nei riquadri neri,

rispettivamente, di Figura 4, per i sarcomeri di lunghezza corrispondente (valori

sottolineati in ascissa).

È interessante notare che, nel sarcomero di dimensioni intermedie [Figura 5, pannello B]

ed in quello esteso [Figura 5, pannello A], a fronte di aumentate distanze tra bande intra-

sarcomeriche (1,1 e 1,6 µm, rispettivamente), la distanza tra bande di proteasoma di

sarcomeri adiacenti (che fiancheggiano una linea Z) rimangono invariate (circa 1,25 - 1,3

µm). Quest’ultimo valore è risultato paragonabile a quello ottenuto per i filamenti di

actina, la cui lunghezza è stata stimata essere di circa 1,2 µm (dall’estremità a polarità

positiva, situata a livello della linea Z, a quella ad estremità negativa, nella direzione della

banda A). Tale valore si desume misurando la zona di fluorescenza per l’actina (circa 2,4

µm), situata tra le bande H di due sarcomeri adiacenti (la banda H rappresenta la regione

centrale della banda A, sprovvista di filamenti di actina nei sarcomeri più estesi); è

evidente come la misura del suddetto segnale di fluorescenza corrisponda a quella di due

filamenti di actina. L’insieme di queste osservazioni suggerisce, pertanto, che i proteasomi

possano interagire principalmente con la regione centrale dei filamenti di actina.

6. Risultati

-99-

Figura 5: Un modello di interazione tra proteasomi e componenti del sarcomero, desunto dallo studio eseguito su miofibrille isolate. In questo modello i proteasomi (colore rosso/arancio) interagiscono con i filamenti di actina (verdi), sostanzialmente a livello della zona centrale dei suddetti filamenti. Le lunghezze di tutti i componenti sarcomerici riportati nello schema sono in scala. A – sarcomeri di più ampie

A - Lunghezza del sarcomero: 2,9 µm. I microfilamenti di actina (in verde) sono assenti dalla parte centrale della banda A.

Linea Z Linea Z Linea Z

Banda A Banda A

2.9 2.9

1.3 1.3 1.6 1.6

Distanza intra-sarcomerica

Distanza tra sarcomeri adiacenti

p27K p27K p27K p27K p27K p27K

Z Z

Contrasto di fase

a: distanza tra bande di p27K intra-sarcomeriche

b, c: distanza tra bande di p27K tra 2 sarcomeri adiacenti.

p27K (profilo in immunofluorescenza)

B - Lunghezza del sarcomero: 2,4 µm. I microfilamenti di actina (in verde) si avvicinano alla parte centrale della banda A.

Linea Z Linea Z Linea Z 2.4 2.4

1.3 1.3 1.3 1.1

p27K p27K p27K p27K p27K p27K

Distanza intra-sarcomerica

Distanza tra sarcomeri adiacenti

Z Z

Contrasto di fase

p27K

C - Lunghezza del sarcomero: 2µm. I microfilamenti di actina (in verde) si sovrappongono nella parte centrale della banda A.

Distanza tra sarcomeri adiacenti

p27K p27K

Linea Z Linea Z Linea Z 2 2 2

0

Linea Z

2

p27K

Distanza intra-sarcomerica

p27K

Z Z

Contrasto di fase

6. Risultati

-100-

dimensioni: la lunghezza del sarcomero (misurata fra due linee Z) e l’ampiezza della banda A sono state desunte da immagini in contrasto di fase (Figura 4 e foto a lato), mentre le caratteristiche di α1/p27k e di actina sono state valutate sulla base dei loro rispettivi profili di fluorescenza (Figura 4 per actina e proteasoma e foto a lato per quest’ultimo). Nelle immagini che riportano il profilo in immunofluorescenza di α1/p27k, (a) indica la distanza tra le bande di α1/p27k all’interno del sarcomero, (b) e (c) la distanza tra le bande di α1/p27k tra due sarcomeri adiacenti (bande che fiancheggiano una delle due linee Z). B – Sarcomeri di dimensioni intermedie: quando il sarcomero si accorcia, la distanza tra le due bande di α1/p27k intra-sarcomeriche diminuisce, mentre la distanza tra bande presenti in sarcomeri adiacenti (che fiancheggiano una linea Z) rimane costante (uguale a quella rilevata in A: 1,3 µm). Questa situazione è rilevabile fino a quando i filamenti di actina si avvicinano senza sovrapporsi (B: sarcomeri lunghi circa 2,4 µm). C – Sarcomero “corto”: quando i filamenti di actina si sovrappongono nell’ambito della regione centrale del sarcomero, solo una banda α1/p27k è distinguibile nella regione mediana del sarcomero stesso.

Gli stessi preparati di miofibrille sono stati in seguito sottoposti ad

immunoelettromicroscopia (metodo “pre-embedding”), per studiare la localizzazione

della subunità α1/p27k nell’ambito del sarcomero, ad un più elevato livello di risoluzione

[Figura 6]. Nello specifico, è stato utilizzato un anticorpo monoclonale anti-α1/p27k;

l’immunoreazione è stata rivelata mediante un anticorpo anti-topo coniugato con

isotiocianato di fluoresceina (FITC). Il segnale veniva in seguito amplificato attraverso

l’utilizzo di un anticorpo anti-FITC, legato a particelle di oro colloidale ed ulteriormente

sottoposto ad amplificazione all’argento. La marcatura mediante particelle di oro

colloidale è stata utilizzata per combinare l’elevata amplificazione del segnale alla natura

discontinua e non diffusibile del prodotto utilizzato per la rivelazione (particelle di oro

colloidale). Questo procedimento è stato utilizzato in alternativa a quello applicato per

l’analisi elettromicroscopica di sezioni sottili di tessuto, mostrata in Figura 1

(immunoperossidasi), proprio al fine di ovviare alla diffusibilità di prodotti, quali i

substrati enzimatici, che potrebbero rendere più difficoltosa l’interpretazione dei risultati

di localizzazione dei complessi molecolari allo studio.

L’osservazione al microscopio elettronico dei preparati di miofibrille, previa marcatura

con oro colloidale e successiva inclusione in resina epossidica, ha chiaramente dimostrato

che la subunità α1/p27k dei proteasomi era presente all’interno della struttura

sarcomerica. Come atteso, nell’ambito dei sarcomeri corti [Figura 6, pannello A] i

proteasomi erano principalmente localizzati (accumulo di particelle d’oro) a livello della

linea M. Nella regione limitrofa alla linea M si potevano osservare dei rigonfiamenti che

apparivano, essi stessi, marcati con le particelle di oro colloidale, a testimonianza del fatto

che la subunità α1/p27k era associata anche a queste protrusioni.

6. Risultati

-101-

Figura 6: Distribuzione sarcomerica della subunità α1/p27k di proteasoma in preparati di miofibrille isolate, mediante immunoelettromicroscopia. Le miofibrille sono state isolate a partire da muscoli di ratto. È stato impiegato un anticorpo monoclonale anti-α1/p27k di proteasoma; l’immunoreazione è stata rivelata mediante un anticorpo secondario coniugato con FITC. Il segnale è stato successivamente amplificato attraverso l’utilizzo di un anticorpo anti-FITC, legato a particelle di oro colloidale. Dopo ulteriore amplificazione argentica, le miofibrille sono state incluse in Epon 812. La punta di freccia indica la posizione della linea Z che in queste due preparazioni non era particolarmente ben visibile. Barra: 1 µm. Pannello A – Sarcomero “corto” (lunghezza approssimativa: 1,5 µm). Il segnale positivo per la subunità α1/p27k dei proteasomi (accumulo di particelle di oro colloidale) è localizzato a livello della linea M. Si nota una sorta di rigonfiamento a livello di questa regione legato, probabilmente, alle protusioni che caratterizzano le estremità a polarità negativa dei filamenti di actina, localizzate a livello della banda A. Pannello B – Sarcomero esteso (lunghezza approssimativa: 2,7 µm). Il segnale è localizzato nell’ambito della banda I del sarcomero. È ravvisabile una possibile organizzazione di α1/p27k in bande multiple all’interno della banda I.

Nelle condizioni sperimentali adottate (l’immunoreazione era volta a mettere in evidenza

esclusivamente i proteasomi, senza concomitante rilevamento di specifiche proteine

sarcomeriche) non è stato possibile determinare con precisione la tipologia di filamento

con cui α1/p27k potesse essere associato. Tuttavia, l’accumulo di particelle d’oro anche a

livello delle protrusioni apprezzabili in vicinanza della linea M evocava l’effetto di

ingombro dovuto alla presenza delle estremità a polarità negativa dei filamenti di actina,

posizionati in direzione della banda A (e sovrapposti a livello della linea M nei sarcomeri

“corti”). Questa ipotesi suggerisce, a sua volta, che l’actina potesse essere implicata

nell’ancoraggio dei proteasomi alla struttura sarcomerica. Nel sarcomero esteso [Figura 6,

pannello B], la subunità α1/p27k dei proteasomi appariva localizzata a livello della banda

I, in associazione con strutture filamentose. In funzione della loro posizione nel sarcomero

e della loro abbondanza, le suddette strutture sono state interpretate come filamenti di

actina. La distribuzione di α1/p27k nella banda I non era uniforme ma localizzata in

distinte sotto-regioni, suggerendo l’esistenza di siti specifici e ripetitivi di attacco a

6. Risultati

-102-

strutture filamentose, non osservabili mediante immunofluorescenza o microscopia

confocale, probabilmente a causa del minore potere risolutivo di questi ultimi metodi.

6.1.4 NON TUTTI I PROTEASOMI PRESENTI NELLE MIOFIBRILLE SONO ASSOCIATI AD ACTINA

L’ipotesi secondo cui esisterebbe una interazione tra filamenti di actina e proteasoma 20S

è stata ulteriormente avvalorata attraverso i risultati ottenuti in esperimenti in cui l’actina

veniva estratta dalle miofibrille. Il metodo utilizzato prevedeva l’uso di un composto

chiamato gelsolina. Nei preparati di miofibrille sottoposti alla suddetta estrazione, è stata

osservata una importante riduzione del segnale di immunofluorescenza relativo alla

subunità α1/p27k dei proteasomi [Figura 7, pannello A], rafforzando l’ipotesi secondo la

quale l’actina rappresenterebbe, in maniera diretta o indiretta, un sito di legame per il

proteasoma.

Tuttavia, è stato osservato che alcuni proteasomi, nonostante il trattamento di rimozione

dell’actina, rimanevano localizzati a livello del sarcomero. Inoltre, tali proteasomi residui

presentavano ancora una organizzazione pseudo-sarcomerica, indipendentemente dalla

presenza dell’actina. Questa osservazione è stata confermata mediante analisi dei

preparati di miofibrille, dopo estrazione dell’actina, in microscopia confocale [Figura 7,

pannelli B e C]; anche tali immagini mettono in evidenza una organizzazione pseudo-

sarcomerica da parte dei proteasomi, in assenza di una apprezzabile organizzazione

sarcomerica dell’actina.

6. Risultati

-103-

Figura 7: Distribuzione della subunità α1/p27k e di actina in preparati di miofibrille, previa estrazione dell’actina mediante gelsolina. Le miofibrille sono state isolate a partire da muscoli di ratto, trattate con gelsolina (0,2 mg/ml) per 30 minuti e quindi marcate con un anticorpo anti-α1/p27k (in rosso) e falloidina – FITC per mettere in evidenza l’actina (in verde). Le immagini in grigio (ct, pannello A) sono state ottenute mediante osservazione microscopica in contrasto di fase. Barra: 10 µm (A), 2 µm (B), 4 µm (C). A - Confronto di intensità di fluorescenza tra α1/p27k dei proteasomi e actina dopo estrazione (riquadri grandi della serie A) e senza estrazione dell’actina (riquadri piccoli). Tutte le immagini sono state acquisite e trattate (per migliorarne la qualità) nelle medesime condizioni. I quattro riquadri piccoli mostrano la variazione di intensità della marcatura di α1/p27k senza estrazione dell’actina. B e C – Osservazioni di preparati di miofibrille marcate per α1/p27k e actina, previa estrazione della stessa con gelsolina, eseguite mediante microscopia confocale. Dal momento che il segnale verde (actina) era indistinguibile dal rumore di fondo (come atteso, data la preventiva estrazione dell’actina stessa), esso è stato volutamente amplificato per consentirne l’osservazione.

6.1.5 ALLESTIMENTO DI VETTORI DI ESPRESSIONE PER LE SEQUENZE GENICHE DI INTERESSE

I risultati ottenuti attraverso lo studio della distribuzione di specifici proteasomi in

modelli muscolari (sezioni sottili di muscolo striato e miofibrille isolate), mediante

preventiva fissazione degli stessi e successiva applicazione di tecniche di microscopia

ct

A B

p27K

actina

sovrapposizione p27K

p27K

actina

sovrapposizione

actina

sovrapposizione

C

6. Risultati

-104-

elettronica, a fluorescenza e confocale, hanno permesso di mettere in evidenza l’esistenza

di una stretta associazione tra specifici proteasomi e componenti di rilievo nell’ambito

della struttura contrattile del muscolo striato (filamenti di actina).

D’altra parte, l’utilizzo di preparati sottoposti a fissazione risulta poco conciliabile con la

possibilità di seguire nel tempo un processo dinamico, quale appunto il differenziamento

muscolare, nella consapevolezza che i procedimenti di fissazione potrebbero, da un lato,

non essere esenti da artefatti legati alla tipologia di fissazione utilizzata e, dall’altro,

mascherare alcuni epitopi bersaglio degli anticorpi utilizzati.

Pertanto, al fine di garantire un ulteriore approfondimento delle conoscenze in questo

ambito, la fase successiva della ricerca è stata focalizzata sulla messa a punto di strumenti

molecolari da potere utilizzare, in un’ottica futura, per studi sui proteasomi analoghi a

quelli presi in considerazione in questa sede, ma da effettuare in cellule viventi.

A tal fine sono stati innanzitutto costruiti vettori di espressione contenenti sequenze

geniche codificanti per specifiche subunità proteasomali (α1/p27k e β4/p23k), accoppiate

a sequenze geniche codificanti per proteine fluorescenti naturali, quali la proteina

fluorescente verde (GFP, in particolare la variante EGFP, di 27kDa) o, alternativamente, la

proteina fluorescente rossa (DsRed, variante DsRed1, di 26kDa). Si fa presente che, sulla

base del nomenclatore attualmente in uso (Coux O. et al., 1994; Baumeister W. et al., 1998),

il gene codificante per la subunità α1/p27k del proteasoma 20S viene chiamato PSMA6,

mentre quello codificante per la subunità del proteasoma 20S β4/p23k è denominato

PSMB2: pertanto, le sequenze di interesse verranno così siglate in questa sede.

Si sottolinea inoltre che, come già dimostrato (Coux O. et al., 1994) e come ulteriormente

evidenziato anche in questa sezione, le subunità proteasomali, quali quelle prese in

considerazione in questo contesto, vengono rapidamente assemblate nell’ambito del

complesso molecolare 20S (e non si ritrovano come subunità libere). Pertanto, gli studi

biochimici e morfologici presentati, basati nella fattispecie sulle subunità proteasomali

α1/p27k e β4/p23k, fanno in realtà riferimento al complesso molecolare 20S.

Per l’allestimento dei suddetti vettori di espressione si è scelto di collocare la proteina

fluorescente prescelta (EGFP o DsRed1) all’estremità C-terminale nella proteina di

fusione. Tale scelta è legata all’esigenza di preservare sia la conformazione che l’attività

enzimatica del proteasoma 20S. In effetti, applicando la suddetta strategia, una volta che

la proteina di fusione (costituita da una delle subunità proteasomali prescelte per lo

studio e dalla proteina fluorescente EGFP o, alternativamente, DsRed1) viene assemblata

nell’ambito del proteasoma 20S, la proteina fluorescente risulta orientata all’esterno del

6. Risultati

-105-

complesso. Tale strategia ha portato a scegliere vettori di espressione, che possiedono un

sito di clonaggio multiplo localizzato a monte delle sequenze che codificano per le

proteine fluorescenti (pEGFP-N1 e pDsRed1-N1).

Tali vettori sono detti di tipo “N”, in quanto la sequenza genica di interesse, in questo

caso quella per una subunità di proteasoma, viene orientata a partire dalle triplette che

codificano per una sua estremità N-terminale, in modo tale che la proteina fluorescente, la

cui sequenza è a valle rispetto alla prima, sia localizzata all’estremità C-terminale.

L’espressione delle suddette sequenze geniche è sotto il controllo del promotore per i geni

precocissimi di citomegalovirus umano (HCMV).

Nella prima fase sperimentale, mRNA provvisti di code di poli(A), contenuti in un

preparato commerciale di RNA totale ottenuto da placenta umana, sono stati

retrotrascritti in cDNA mediante l’impiego di trascrittasi inversa; come molecole innesco

(“primers”) sono stati utilizzate corte sequenze nucleotidiche di timidina (oligo-dT). Le

sequenze codificanti le subunità α1/p27K e β4/p23K sono state successivamente

amplificate mediante reazione polimerasica a catena (PCR), a partire dalla suddetta

miscela di cDNA, attraverso l’impiego di due oligonucleotidi, “primers”, specifici per

ciascuna subunità; in questo modo sono stati ottenuti specifici frammenti di DNA

contenenti le sequenze che codificano per le subunità prescelte. La sequenza innesco

all’estremità 5’ [Figura 8, scritte in blu] presenta il codone di inizio per la traduzione ATG

(in verde) e 5 nucleotidi a monte. Un sito per l’enzima di restrizione Hind III è stato creato

all’estremità 5’ del frammento (sequenza sottolineata in blu), per consentire la successiva

inserzione del medesimo nei vettori di espressione. La sequenza innesco all’estremità 3’

consente di sopprimere il codone di stop TAA e di creare un sito di taglio per l’enzima di

restrizione EcoR I (sequenza sottolineata in nero), al fine di permetterne l’inserzione nel

vettore di espressione e, inoltre, di assicurare la traduzione dei polipeptidi fluorescenti

(EGFP o DsRed1) nella stessa fase di lettura (“in frame”) delle subunità del proteasoma.

6. Risultati

-106-

a) Gene PSMA6 (codifica per la proteina α1/p27K)

- Estremità 5’ ataagcttCCAACATGTCCCGTGGTTCCAGCGCCGGTTTTGACCGCCACATTACCATTTTTTCA----------------

M S R G S S A G F D R H I T I F S ----------------

TattcgaaGGTTGTACAGGGCACCAAGGTCGCGGCCAAAACTGGCGGTGTAATGGTAAAAAAGT----------------

- Estremità 3’

(TAA)

----------------------------------------TGCTCACCTTGTTGCTCTAGCAGAGAGAGACggaattcgc 760

---------------------------------------- A H L V A L A E R D G I

----------------------------------------ACGAGTGGAACAACGAGATCGTCTCTCTCTGccttaagcg

b) Gene PSMB2 (codifica per la proteina β4/p23K)

- Estremità 5’ ataagcttCCAGCATGGAGTACCTCATCGGTATCCAAGGCCCCGACTATGTTCTTGTCGCCTCC----------------

M E Y L I G I Q G P D Y V L V A S ----------------

tattcgaaGGTCGTACCTCATGGAGTAGCCATAGGTTCCGGGGCTGATACAAGAACAGCGGAGG----------------

- Estremità 3’ (TAA)

---------------TTGACAAAAATGGCATCCATGACCTGGATAACATTTCCTTCCCCAAACAGGGCTCCggaattcgc 625

--------------- D K N G I H D L D N I S F P K Q G S G I

---------------AACTGTTTTTACCGTAGGTACTGGACCTATTGTAAAGGAAGGGGTTTGTCCCGAGGccttaagcg

Figura 8: Estremità 5’ e 3’ dei frammenti di PCR attesi (geni PSMA6 e PSMB2). Le lettere maiuscole poste al di sotto dei codoni (in rosso) si riferiscono alle codifiche convenzionali dei corrispondenti aminoacidi derivati da ciascuna tripletta di basi, mentre le lettere minuscole corrispondono ai nucleotidi aggiunti alla sequenza del gene codificante per ognuna delle subunità proteasomali al fine di creare i siti di taglio per gli enzimi di restrizione Hind III e EcoR I. I frammenti ottenuti dopo l’amplificazione mediante PCR constano di 760 nucleotidi per il gene PSMA6 e di 625 nucleotidi per il gene PSMB2.

I prodotti di amplificazione ottenuti mediante PCR e i vettori di espressione sono stati

sottoposti a digestione enzimatica, utilizzando gli enzimi di restrizione Hind III e EcoR I;

in tal modo, i frammenti di 760 bp (PSMA6) e 625 bp (PSMB2) sono stati clonati nei vettori

di espressione pEGFP-N1 e pDsRed1-N1. In Figura 9 è riportato, in particolare, lo schema

che rappresenta l’estremità 3’ del gene PSMA6 e PSMB2, il sito di clonaggio e il codone

6. Risultati

-107-

ATG di inizio della sequenza della proteina fluorescente. Inoltre, questo schema mostra

come la sequenza inserita fosse “in frame” con la sequenza della proteina fluorescente. Il

codone di inizio è evidenziato in verde, la sigla dell’aminoacido corrispondente (M:

metionina) è scritto in verde mentre le codifiche convenzionali degli aminoacidi relativi

alle sequenze che codificano per il sito multiplo di clonaggio sono riportati in rosa.

a) Gene PSMA6 Sal I Sma I

EcoR I Pst I Age I BamH I Nco I

| | | | | | |

--------CTAGCAGAGAGAGACGGAATTCTGCAGTCGACGGTACCGCGGGCCCGGGATCCACCGGTCGCCACCATG--------

-------- L A E R D G I L Q S T V P R A R D P P V A T M --------

--------GATCGTCTCTCTCTGCCTTAAGACGTCAGCTGCCATGGCGCCCGGGCCCTAGGTGGCCAGCGGTGGTAC--------

b) Gene PSMB2

Sal I Sma I

EcoR I Pst I Age I BamH I Nco I

| | | | | | |

--------CCCAAACAGGGCTCCGGAATTCTGCAGTCGACGGTACCGCGGGCCCGGGATCCACCGGTCGCCACCATG--------

-------- P K Q G S G I L Q S T V P R A R D P P V A T M --------

--------GGGTTTGTCCCGAGGCCTTAAGACGTCAGCTGCCATGGCGCCCGGGCCCTAGGTGGCCAGCGGTGGTAC--------

Figura 9: Rappresentazione schematica dell’estremità 3’ della sequenza che codifica per i geni PSMA6 (pannello a) e PSMB2 (pannello b), del sito di clonaggio multiplo e, infine, del codone di inizio “ATG” relativo alla proteina fluorescente.

Nel complesso, sono stati così ottenuti i vettori di espressione di seguito elencati:

pPSMA6-DsRed1, pPSMA6-EGFP, pPSMB2-DsRed1 e pPSMB2-EGFP [Figura 10]. In

particolare, i plasmidi pPSMA6-EGFP e pPSMB2-EGFP sono stati sequenziati al fine di

verificare che, nel corso delle tappe di retrotrascrizione e di PCR (durante le quali sono

frequenti errori di incorporazione dei nucleotidi) non fossero avvenute mutazioni

all’interno delle sequenze codificanti per le subunità proteasomali.

6. Risultati

-108-

Figura 10: Allestimento dei vettori di espressione pPSMA6-DsRed1, pPSMA6-EGFP, pPSMB2-DsRed1 e pPSMB2-EGFP per integrazione delle sequenze codificanti per le subunità α1/p27K e β4/p23K, rispettivamente in vettori di espressione commerciali denominati pDsRed1-N1 e pEGFP-N1.

6.1.6 ESPRESSIONE DELLE PROTEINE DI FUSIONE ATTRAVERSO ESPERIMENTI DI

TRASFEZIONE

Dopo introduzione dei plasmidi di interesse in batteri competenti mediante processo di

trasformazione e successivo ottenimento di adeguate quantità di DNA plasmidico, come

dettagliato nella sezione “Materiali e Metodi”, le sequenze geniche in oggetto sono state

utilizzate per esperimenti di trasfezione di cellule CHO (criceto) e della linea cellulare

miogenica di topo C2.7.

Hind III EcoR I

Hind III (623) EcoR I (630)

Promotore di HCMV

EGFP/DsRed1

Segnale poliA - SV40

f1 ORI

Promotore batterico

Promotore di SV40

Neo/Kan

Segnale poli A HSV TK

ORI

pDsRed1-N1/pEGFP-N1 (4.7 kb)

Hind III

EcoR I

Promotore di HCMV

EGFP/DsRed1

Segnale poli A - SV40

f1 ORI

Promotore di SV40

Neo/Kan

Segnale poli A HSV

ORI

PSMA6/PSMB2

pPSMA6-DsRed1/EGFP

pPSMB2-DsRed1/EGFP

(5.4 kb/5.3 kb)

PSMA6: α1/p27K

oppure

PSMB2: β4/p23K

6. Risultati

-109-

Quale premessa generale a queste tipologie di esperimenti, è bene sottolineare che

l’incorporazione stabile di DNA esogeno nel genoma delle cellule trasfettate rappresenta

un evento raro, che si verifica in una cellula su un numero compreso fra mille e un

milione; inoltre solo circa il 40% di cellule può, di fatto, acquisire il DNA nell’ambito di

una trasfezione, senza peraltro integrarlo nel proprio genoma. In queste cellule, il DNA

esogeno rimane nel nucleo per diversi giorni prima di essere perso, a causa di un insieme

di eventi di degradazione e di diluizione, in quanto il DNA non integrato non è di solito

duplicato, come avviene per i cromosomi della cellula ospite.

Allo scopo di reperire agevolmente la frazione di cellule in cui il DNA plasmidico fosse

stato integrato stabilmente in uno dei cromosomi dell’ospite, si è reso necessario operare

una selezione nei confronti di una proprietà conferita alla cellula da parte di un gene

“marcatore”, presente nei plasmidi utilizzati per la trasfezione. A tal fine, è stato utilizzato

un gene che conferisce uno stato di resistenza cellulare all’antibiotico aminoglicosidico

denominato “G-418” (analogo della neomicina), che è generalmente tossico per le cellule

eucariote. In particolare, il gene marcatore codifica per l’enzima aminoglicoside-

fosfotrasferasi, che permette di degradare l’antibiotico sopra citato. In questo modo, in

presenza del suddetto antibiotico nel terreno di coltura, tutte le cellule che non avevano

integrato il DNA trasfettato sono morte, mentre solo le rare cellule recanti il DNA esogeno

con il marcatore di resistenza sopra menzionato sono rimaste in vita e si sono moltiplicate,

formando cloni. Questi ultimi sono stati selezionati sulla base della emissione di

fluorescenza (per la presenza di una delle proteine fluorescenti co-espresse assieme alle

specifiche subunità di proteasomi), mediante osservazione diretta delle cellule al

microscopio a fluorescenza. La selezione è durata circa un mese e ha consentito di

ottenere i seguenti cloni cellulari: CHO-EGFP e C2.7-EGFP, con espressione della sola

proteina verde fluorescente EGFP in cellule CHO e C2.7, rispettivamente; CHO-PSMA6-

EGFP e C2.7-PSMB2-EGFP, con espressione della proteina di fusione costituita dalla

subunità α1/p27K (PSMA6) di proteasoma e dalla suddetta proteina fluorescente per quel

che riguarda le cellule CHO e della proteina di fusione costituita dalla subunità β4/p23K

(PSMB2) assieme alla proteina fluorescente EGFP per la linea cellulare C2.7.

Successivamente, al fine di verificare la produzione delle proteine di fusione a partire da

cellule CHO e C2.7 (previa trasfezione con i plasmidi ricombinanti), quale risultato di

espressioni transitorie o stabili delle sequenze geniche considerate, sono stati eseguiti

saggi in Western Blot, sugli estratti proteici ottenuti dalle suddette cellule, utilizzando

anticorpi specifici per ognuna delle due subunità di proteasomi di interesse (anti-β4/p23K

6. Risultati

-110-

e anti-α1/p27K), così come anticorpi diretti contro le proteine fluorescenti co-espresse

(anti-GFP e anti-DsRed).

È stato così possibile dimostrare che, quale risultato dell’espressione transitoria delle

sequenze geniche dei plasmidi pPSMB2-EGFP, pPSMB2-DsRed1, pPSMA6-EGFP e

pPSMA6-DsRed1 negli estratti proteici ottenuti da cellule C2.7 dopo trasfezione delle

stesse con i suddetti plasmidi [Figura 11, parte a], erano presenti sia bande corrispondenti

alle proteine endogene β4/p23K (PSMB2), di peso molecolare pari a 23kDa, e α1/p27K

(PSMA6), di 27kDa [Figura 11, pannelli 1 e 2, frecce], che bande corrispondenti alle

relative proteine di fusione β4/p23k-EGFP, di peso molecolare pari a 50kDa, β4/p23k-

DsRed1 di 49kDa, α1/p27k-EGFP di 54kDa e α1/p27k-DsRed1 di 53kDa [Figura 11,

pannelli 1 e 2, punte di freccia]. Come atteso, il segnale positivo per le suddette proteine

di fusione era presente anche quando venivano utilizzati anticorpi specifici per le due

proteine fluorescenti EGFP e DsRed1, co-espresse nell’ambito della chimera [Figura 11,

prima colonna nei pannelli 3 e 4]. D’altra parte, nell’ambito degli estratti proteici ottenuti

da cellule C2.7 trasfettate con i plasmidi pEGFP-N1 e pDsRed1-N1 [Figura 11, colonne 3 e

4, nei pannelli a1 e a2; ultima colonna dei pannelli a3 a4], sono state evidenziate bande

corrispondenti alla proteina endogena β4/p23k [Figura 11, colonne 3 e 4 del pannello a1],

alla proteina endogena α1/p27k [Figura 11, colonne 3 e 4 del pannello a2] e alle proteine

fluorescenti EGFP di 27kDa [Figura 11, asterisco, ultima colonna del pannello a3] e

DsRed1 di 26kDa [Figura 11, asterisco, ultima colonna del pannello a4], quando analizzate

con i rispettivi anticorpi primari. Analoghi risultati sono stati ottenuti utilizzando cellule

CHO (dati non mostrati).

Per quanto riguarda gli estratti proteici derivanti da espressioni stabili delle suddette

sequenze geniche in cellule C2.7 e CHO (integrazione del DNA plasmidico nel genoma

della cellula trasfettata), l’analisi in Western Blot ha consentito di selezionare

ulteriormente i cloni ottenuti (e inizialmente prescelti mediante osservazione al

microscopio a fluorescenza), sulla base della presenza della banda corrispondente alla

proteina di fusione o di quella relativa alla proteina naturale fluorescente (cloni C2.7-

PSMB2-EGFP #1 e #3 e C2.7-EGFP) [Figura 11, parte b, pannelli b1 e b2]; per quel che

riguarda la linea miogenica C2.7, non è stato possibile selezionare cloni C2.7-PSMA6-

EGFP, corrispondenti alla subunità α1/p27k di proteasoma. Di converso, per quanto

attiene alle cellule CHO, sono stati selezionati i cloni CHO-PSMA6-EGFP #1 e #4 e CHO-

EGFP, ma non cloni di tipo CHO-PSMB2-EGFP, relativi alla subunità β4/p23k di

proteasoma (dati non mostrati). Inoltre, non è stato possibile ottenere cloni cellulari in

6. Risultati

-111-

* *

*

a1 a2 a3 a4

b1 b2

grado di esprimere stabilmente le proteine di fusione contenenti la proteina fluorescente

rossa (DsRed1), in quanto l’espressione della suddetta proteina è risultata tossica e

mortale per le linee cellulari C2.7 e CHO.

Figura 11: Caratterizzazione delle proteine di fusione a partire da estratti proteici ottenuti da cellule C2.7, previa trasfezione con i plasmidi di interesse (pPSMB2-EGFP, pPSMB2-DsRed1, pPSMA6-EGFP, pPSMA6-DsRed1, pEGFP-N1 e pDsRed1-N1) quale risultato di espressione transitoria (parte a) o stabile (parte b) delle sequenze geniche in oggetto. La successiva fase della ricerca è stata volta a verificare che le suddette proteine di fusione fossero assemblate nel complesso molecolare corrispondente al proteasoma 20S nelle linee cellulari considerate.

6. Risultati

-112-

A tal fine, a partire dai cloni C2.7-PSMB2-EGFP#1 e #3, C2.7-EGFP, CHO-PSMA6-EGFP

#1 e #4 e CHO-EGFP e, in parallelo, dalle stesse tipologie di cellule non sottoposte a

trasfezione, sono stati preparati estratti citoplasmatici e nucleari, che sono stati in seguito

sottoposti a centrifugazione in gradiente di densità di saccarosio, come dettagliato nella

sezione “Materiali e Metodi”, e successiva analisi in Western Blot. Nelle condizioni

sperimentali adottate per questo tipo di gradiente, il picco relativo al proteasoma 20S è

localizzato a tre quarti del gradiente (verso il fondo del gradiente stesso), mentre quello

relativo alle proteine libere (< 5S) si localizza nella parte alta del gradiente.

In Figura 12 e in Figura 13 sono mostrati i risultati dei suddetti esperimenti, relativamente

al clone cellulare C2.7-PSMB2-EGFP #3 (subunità proteasomale β4/p23k) e con

riferimento al gradiente operato sull’estratto citoplasmatico [Figura 12] e nucleare [Figura

13]. In particolare, i pannelli “A” si riferiscono al profilo del gradiente (misura della

fluorescenza dovuta alla presenza della proteina EGFP nell’ambito della proteina di

fusione, tracciati di colore blu), i pannelli “B” alla quantificazione delle proteine ed alla

loro distribuzione nel gradiente (tracciati in blu), mentre i pannelli “C” (parte sinistra)

mostrano i risultati dell’analisi delle frazioni del gradiente mediante Western Blot. Come

già accennato, sono stati parallelamente esaminati estratti citoplasmatici e nucleari

provenienti da lisati di cellule C2.7 non sottoposte a trasfezione [Figure 12 e 13, pannelli A

e B: tracciati di colore rosa; pannello C: parte destra].

Nello specifico, per quel che riguarda i pannelli “A” è possibile osservare un picco di

fluorescenza in prossimità delle frazioni raccolte a circa tre quarti (verso il fondo) del

gradiente, sia nell’estratto citoplasmatico, che in quello nucleare [Figure 12 e 13,

rispettivamente, tracciati in blu]; nell’ambito dell’estratto nucleare, è stato ottenuto un

ulteriore picco (in blu) anche in corrispondenza delle frazioni raccolte verso la parte alta

del gradiente. Per quel che riguarda, invece, il tracciato derivante da cellule C2.7 non

trasfettate (tracciato in rosa), non è stato rilevato alcun picco a livello dell’estratto

citoplasmatico [Figura 12], mentre, anche in questo caso, come per la proteina di fusione, è

stato ottenuto un picco a livello delle frazioni rappresentative della parte alta del

gradiente nell’ambito dell’estratto nucleare [Figura 13].

Inoltre, è stato concomitantemente effettuato un dosaggio delle proteine contenute nelle

diverse frazioni dei gradienti [Figure 12 e 13, pannelli B]; tale dosaggio ha evidenziato

come la maggior parte delle proteine sia concentrata nelle frazioni rappresentative della

parte alta del gradiente.

6. Risultati

-113-

Per quel che riguarda l’analisi mediante Western Blot [Figure 12 e 13, pannelli C],

l’utilizzo di anticorpi anti-β4/p23k e anti-α1/p27k di proteasoma, ha consentito

innanzitutto di evidenziare la presenza di proteine endogene relative alle subunità

proteasomali di 23kDa e 27kDa, con segnale positivo concentrato a livello delle frazioni

corrispondenti a tre quarti del gradiente (verso il fondo), ossia all’altezza del gradiente a

cui sedimenta il proteasoma 20S, sia per quel che riguarda gli estratti citoplasmatici e

nucleari di cellule C2.7 non trasfettate [Figure 12 e 13, pannelli C, parte destra], che per

quanto attiene al clone C2.7-PSMB2-EGFP #3 [Figure 12 e 13, pannelli C, parte sinistra]. In

quest’ultimo caso, come atteso, era inoltre presente un segnale positivo per la proteina di

fusione contenente la subunità β4/p23k di proteasoma (β4/p23k-EGFP, 50kDa), sempre

concentrato alla suddetta altezza del gradiente.

D’altra parte, per quel che riguarda i picchi evidenziati nella parte alta del gradiente,

nell’ambito degli estratti nucleari [Figura 13, pannello A, tracciati in blu e in rosa], essi

non hanno dato luogo ad alcuna risposta al saggio in immunoblotting con anticorpi diretti

contro le due subunità proteasomali di interesse, avvalorando l’ipotesi secondo cui i

suddetti picchi sarebbero verosimilmente riconducibili alla presenza di componenti

fluorescenti aspecifici.

L’utilizzo di un anticorpo anti-GFP ha anch’esso permesso di evidenziare un segnale

positivo all’altezza attesa per la proteina di fusione C2.7-PSMB2-EGFP #3, ossia 50 kDa

(dati non mostrati).

Sulla base di questi risultati, è stato possibile concludere che la proteina di fusione

β4/p23k-EGFP, stabilmente espressa nel clone cellulare C2.7-PSMB2-EGFP #3, era

efficacemente assemblata nel proteasoma 20S, e che il suddetto complesso era presente sia

a livello nucleare che citoplasmatico.

Risultati analoghi a quelli mostrati nelle Figure 12 e 13 sono stati ottenuti utilizzando i

cloni cellulari CHO-PSMA6-EGFP #1 e #4, in questo caso, riguardanti la subunità

α1/p27k di proteasoma (dati non mostrati).

6. Risultati

-114-

Figura 12: Valori di intensità di fluorescenza (pannello A), relativi alla proteina GFP (espressi in unità arbitrarie di fluorescenza), in seguito a lettura al fluorimetro, delle frazioni ottenute dopo centrifugazione in gradiente di densità di saccarosio a partire da estratti citoplasmatici del clone cellulare C2.7-PSMB2-EGFP #3 (in blu) e dalle cellule C2.7 non trasfettate (in rosa). Nel pannello B sono rappresentati in grafico i valori di concentrazione proteica relativi a ciascuna frazione raccolta dopo centrifugazione in gradiente di saccarosio. La maggior parte delle proteine è concentrata nelle frazioni rappresentative la parte alta del gradiente (lato destro del grafico). Profili proteici in Western Blot (pannelli C) di 12 frazioni principali, in cui sono state raggruppate quelle raccolte dopo centrifugazione in gradiente di saccarosio; l’immunoreazione è stata effettuata mediante l’impiego di sonde immunologiche dirette nei confronti delle subunità proteasomali.

B

Clone cellulare C2.7-PSMB2-EGFP #3

Cellule C2.7

Estratto citoplasmatico

Numero frazioni

Numero frazioni

Fondo del gradiente

Unità arbitrarie

di fluorescenza

Concentrazione delle

proteine (m

g/ml)

A

C

6. Risultati

-115-

Figura 13: Valori di intensità di fluorescenza (pannello A), relativi alla proteina GFP (espressi in unità arbitrarie di fluorescenza), in seguito a lettura al fluorimetro, delle frazioni ottenute dopo centrifugazione in gradiente di densità di saccarosio a partire da estratti nucleari del clone cellulare C2.7-PSMB2-EGFP #3 (in blu) e dalle cellule C2.7 non trasfettate (in rosa). Nel pannello B sono rappresentati in grafico i valori di concentrazione proteica relativi a ciascuna frazione raccolta dopo centrifugazione in gradiente di saccarosio. La maggior parte delle proteine è concentrata nelle frazioni rappresentative la parte alta del gradiente (lato destro del grafico). Profili proteici in Western Blot (pannelli C) di 12 frazioni principali, in cui sono state raggruppate quelle raccolte dopo centrifugazione in gradiente di saccarosio; l’immunoreazione è stata effettuata mediante l’impiego di sonde immunologiche dirette nei confronti delle subunità proteasomali.

Unità arbitrarie

di fluorescenza

Numero frazioni

Numero frazioni

Fondo del gradiente

Concentrazione delle

proteine (m

g/ml)

Cellule C2.7

Clone cellulare C2.7-PSMB2-EGFP #3

Estratto nucleare

B

C

A

6. Risultati

-116-

Infine, utilizzando estratti citoplasmatici e nucleari ottenuti a partire dai cloni cellulari

C2.7-EGFP e CHO-EGFP (che esprimono esclusivamente la corrispondente proteina

fluorescente) per esperimenti analoghi a quelli sopra descritti, è stato evidenziato un solo

picco nel profilo dei relativi gradienti, in prossimità della parte alta degli stessi (in cui si

concentrano le proteine < 5S, ossia a più basso peso molecolare). L’analisi in Western Blot,

mediante l’impiego di anticorpi anti-GFP, ha consentito di dimostrare la specificità del

suddetto picco, in quanto corrispondente alla proteina EGFP libera, di peso molecolare

pari a 27kDa. Inoltre, utilizzando anticorpi anti-α1/p27k e anti-β4/p23k nell’ambito della

suddetta analisi, sono stati ottenuti segnali positivi a livello delle frazioni del gradiente

corrispondenti all’altezza del gradiente alla quale si localizza il proteasoma 20S (serie di

risultati non mostrata).

6.1.7 ALLESTIMENTO DI VETTORI RETROVIRALI PER LE SEQUENZE GENICHE DI INTERESSE

Nell’intento di migliorare ulteriormente la strategia per l’ottenimento di strumenti

molecolari fruibili per studi di cinetica in cellule viventi, in particolare allo scopo di

ottenere elevate rese di espressione delle sequenze geniche di interesse, si è

successivamente passati all’allestimento di vettori retrovirali [Figura 14, pannelli A, B e

C], da potere utilizzare per l’infezione di opportuni modelli cellulari.

Le sequenze geniche di interesse, provenienti dai vettori plasmidici precedentemente

descritti, sono state integrate nel vettore commerciale pDON-AI [Figura 14, pannelli B e

C], dopo rimozione del sito di taglio per l’enzima Hind III localizzato all’esterno del sito

multiplo di clonaggio [Figura 14, pannello A], in modo che venissero espresse sotto il

controllo del promotore dei geni precocissimi di HCMV, presente a livello delle sequenze

geniche virali note come LTR (“long terminal repeats”). Nel suddetto vettore retrovirale

sono presenti anche marcatori di selezione, quali i geni che codificano per la resistenza

agli antibiotici ampicillina e neomicina (e del suo analogo G-418) ed il segnale per

l’incapsidamento della progenie virale definito “psi” (Ψ). Tuttavia, tali vettori retrovirali

risultano defettivi per i geni virali gag, pol e env necessari per la produzione di progenie

virale.

6. Risultati

-117-

pDON-AI (5,6kb)

Promotore di HCMV R U5

Ψ

Promotore di SV40

Neo

U3 R U5

ORI

β-lattamasi

Hind III

Pme I Hind III BamH I Sal I Acc I Hpa I

Sito di legame del primer

pDONdelta-AI (5,6kb)

Promotore di HCMV R U5

Ψ

Promotore di SV40

Neo

U3 R U5

ORI

β-lattamasi

Pme I Hind III BamH I Sal I Acc I Hpa I

Sito di legame del primer

EGFP Hind III Hpa I

(900pb)

pDONdelta-EGFP (6,5kb)

R U5

Sito di legame del primer ψ

Pme I

Hind III

EGFP

Promotore di SV40 Not I

Neo R

U3 U5

ORI

β-lattamasi

Promotore di HCMV

A

B

6. Risultati

-118-

Figura 14: Costruzione del vettore retrovirale pDONdelta-EGFP (pannello B) a partire da un vettore retrovirale denominato pDONdelta-AI (previa rimozione del sito di taglio per l’enzima di restrizione Hind III posto all’esterno delle sequenze virali “LTR” del vettore commerciale pDON-AI, pannello A), per integrazione della sequenza genica codificante per la proteina EGFP. Costruzione del vettore retrovirale pDONdelta-PSMA6-EGFP a partire dal vettore retrovirale pDONdelta-EGFP per integrazione della sequenza codificante per la proteina di fusione “PSMA6-EGFP” tra le sequenze virali “LTR” (pannello C).

Nel complesso, sono stati così ottenuti i vettori retrovirali di seguito elencati: pDONdelta-

EGFP, pDONdelta-PSMA6-EGFP e pDONdelta-PSMB2-EGFP.

I suddetti vettori retrovirali ricombinanti sono stati inizialmente utilizzati per la

trasfezione di una particolare linea cellulare impacchettatrice, al fine di ottenere progenie

virale contenente il costrutto di interesse. Questa linea cellulare, denominata Bosc-23,

contiene i geni gag, pol e env del retrovirus della leucemia murina di Moloney stabilmente

C

pDONdelta -EGFP (6,5kb)

R U5 Sito di legame del primer

ψ

Hind III

EGFP

Promotore di SV40 Not I

Neo R

U3 U5

ORI

β-lattamasi

Promotore di HCMV

Pme I

PSMA6-EGFP (1.5kb)

Hind III Not I PSMA6 EGFP

Hind III

Promotore di HCMV

Sito di legame del primer ψ

Pme I β-lattamasi

R

PMSA6

EGFP

Promotore di SV40 Neo U3 R

ORI

U5

pDONdelta -PSMA6-EGFP (7,1kb)

Not I

U5

6. Risultati

-119-

integrati nel proprio genoma. In particolare, il gene env codifica per proteine in grado di

riconoscere solo recettori presenti sulla membrana di cellule di ratto e di topo (tropismo

ecotropico).

Tali cellule impacchettatrici sono in grado di sintetizzare tutte le proteine necessarie per

l’assemblaggio di particelle virali infettanti, fatta eccezione per il segnale di

incapsidamento e per l’RNA virale, che vengono forniti dal DNA del vettore retrovirale

utilizzato per la trasfezione. Le particelle virali sono assemblate nel citoplasma e

gemmano a livello della membrana cellulare, in corrispondenza di zone modificate per

inserimento delle proteine codificate dal gene env. La progenie virale così prodotta può

essere utilizzata per infettare cellule di ratto o di topo; in tali cellule il genoma virale

viene, com’è noto, classicamente integrato nel genoma della nuova cellula ospite, che può

esprimere in modo stabile il nuovo gene introdotto tramite il genoma virale ricombinante

e defettivo, ma non è, ovviamente, in grado di produrre altre particelle virali in quanto il

genoma virale ricombinante manca dei geni necessari per tale processo.

Mediante le cellule impacchettatrici Bosc-23 sono stati prodotti retrovirus nel cui genoma

ricombinante erano presenti i costrutti di interesse. In particolare, sono state ottenute, con

un titolo pari a 4x104 unità formanti colonia (ufc)/ml, le seguenti sospensioni virali:

PSMA6-EGFP/rv (rv: retrovirale), PSMB2-EGFP/rv, EGFP/rv e nlsLacZ/rv (a differenza

delle precedenti, quest’ultima tipologia di particella retrovirale contiene la sequenza

codificante per l’enzima β-galattosidasi).

Tali sospensioni virali sono state utilizzate per eseguire infezioni di colture di cellule

mioblastiche C2.7, al fine di ottenere (previa selezione mediante aggiunta dell’antibiotico

G-418 al terreno di coltura cellulare), popolazioni di cellule in grado di esprimere

stabilmente le proteine di fusione α1/p27k-EGFP e β4/p23k-EGFP o, alternativamente, la

sola proteina fluorescente EGFP o la proteina β-galattosidasi.

Successivamente, a partire dalle popolazioni di mioblasti C2.7-PSMA6-EGFP (per la

subunità proteasomale α1/p27k, accoppiata a EGFP) e C2.7-PSMB2-EGFP (per β4/p23k,

accoppiata a EGFP) [Figure 15 e 16, rispettivamente], sono stati allestiti estratti

citoplasmatici e nucleari per l’analisi dei medesimi in gradiente di densità di saccarosio e,

successivamente, in Western Blot in condizioni sperimentali analoghe a quelle adottate

per gli esperimenti illustrati nelle Figure 12 e 13. Analogamente a quanto osservato in

quel contesto, anche per le popolazioni cellulari C2.7-PSMA6-EGFP e C2.7-PSMB2-EGFP è

stato ottenuto un picco di fluorescenza in prossimità delle frazioni raccolte verso il fondo

(a circa tre quarti) del gradiente, laddove è attesa la sedimentazione del complesso

6. Risultati

-120-

proteasomale 20S, sia nell’estratto citoplasmatico che in quello nucleare derivati dalle

suddette popolazioni di mioblasti [Figure 15 e 16, pannelli A]. Nel caso della popolazione

di mioblasti C2.7-PSMA6-EGFP, è stato tuttavia rilevato un secondo picco nel profilo del

gradiente ottenuto a partire dall’estratto nucleare, in corrispondenza delle frazioni

raccolte verso la parte alta del gradiente [Figura 15 pannello A, parte destra]. Per quel che

riguarda l’analisi mediante Western Blot [Figure 15 e 16, pannelli B], l’impiego di sonde

immunologiche dirette nei confronti delle subunità proteasomali α1/p27k e β4/p23k o,

alternativamente, della proteina fluorescente EGFP [Figure 15 e 16], ha dimostrato la

presenza delle proteine endogene α1/p27k (27kDa) e β4/p23k (23kDa) e delle

corrispondenti proteine di fusione α1/p27k-EGFP (54kDa, Figura 15) e β4/p23k-EGFP

(50kDa, Figura 16) in corrispondenza del picco relativo alle frazioni raccolte a tre quarti

del gradiente, sia per quel che riguarda gli estratti citoplasmatici che quelli nucleari.

D’altra parte, il picco osservato nella parte alta del gradiente relativo all’estratto nucleare

della popolazione C2.7-PSMA6-EGFP, è stato considerato non specifico (assenza di

segnale positivo in Western Blot) e riconducibile, verosimilmente, alla presenza di

componenti fluorescenti non correlate ai costrutti in esame.

L’utilizzo di mioblasti C2.7 di controllo (non sottoposte a infezione con retrovirus defettivi

ricombinanti) ha permesso di avvalorare i risultati ottenuti con le suddette popolazioni

cellulari, mettendo in evidenza, mediante utilizzo di anticorpi anti-subunità di

proteasoma di interesse per l’analisi in Western Blot, un segnale positivo a livello della

regione del gradiente in cui era attesa la presenza del complesso 20S; analogamente, è

stato evidenziato un picco di fluorescenza a livello della parte alta del gradiente

nell’ambito dell’estratto nucleare, attribuibile, anche in questo caso, a fluorescenza

aspecifica (dati non mostrati).

Alla luce di questa serie di risultati è stato possibile affermare che le proteine di fusione,

contenenti le subunità proteasomali α1/p27k e β4/p23k, sono assemblate nel proteasoma

20S e che i suddetti complessi sono presenti sia nel nucleo che nel citoplasma delle

popolazioni di mioblasti C2.7 esaminate.

6. Risultati

-121-

Figura 15: Valori di intensità di fluorescenza (pannelli A), relativi alla proteina GFP (espressi in unità arbitrarie di fluorescenza), in seguito a lettura al fluorimetro, delle frazioni ottenute dopo centrifugazione in gradiente di densità di saccarosio a partire da estratti citoplasmatici (in blu) e nucleari (in rosa) dalla popolazione di cellule C2.7-PSMA6-EGFP. Nei pannelli B sono riportati i profili proteici in Western Blot di 12 frazioni principali, in cui sono state raggruppate quelle raccolte dopo centrifugazione in gradiente di saccarosio; l’immunoreazione è stata effettuata mediante l’impiego di sonde immunologiche per la rivelazione delle subunità proteasomali α1/p27K (27KDa), β4/p23K (23KDa) e, nello stesso tempo, della relativa proteina di fusione α1/p27K-EGFP (54KDa). Inoltre, è stata impiegata una sonda immunologica diretta nei confronti della proteina EGFP (27KDa).

anti-p27K

anti-p23K

anti-GFP 64 kDa

22 kDa

22 kDa

50 kDa

64 kDa 50 kDa 36 kDa

8 10 3 5 1 2 4 6 11 12 7 9 10 5 3 1 2 4 6 12 8 11 7 9

22 kDa

22 kDa

50 kDa

64 kDa 50 kDa 36 kDa

64 kDa

0

50

100

150

1 10 19 28 37 46 55 64

Numero frazioni

Unità arbitrarie di

fluorescenza

0

5

10

15

20

1 9

17

25

33

41

49

57

65

Numero frazioni

Unità arbitrarie di

fluorescenza

Estratto citoplasmatico della popolazione di cellule C2.7-PSMA6-EGFP

Estratto nucleare della popolazione di cellule C2.7-PSMA6-EGFP

Fondo del gradiente Fondo del gradiente

A

B

6. Risultati

-122-

anti-p27K

anti-p23K

anti-GFP

36 kDa

22 kDa 22 kDa

50 kDa 50 kDa

8 10 3 5 1 2 4 6 11 12 7 9 64 kDa

36 kDa

22 kDa

10 5 3 1 2 4 6 12 8 11 7 9

22 kDa

64 kDa

64 kDa

50 kDa 50 kDa

64 kDa

05

1015

202530

1 10 19 28 37 46 55 64

Numero frazioni

0

20

4060

80100

120

1 8 15 22 29 36 43 50 57 64

Numero frazioni

Estratto citoplasmatico della popolazione di cellule C2.7-PSMB2-EGFP

Estratto nucleare della popolazione di cellule C2.7-PSMB2-EGFP

Fondo del gradiente Fondo del gradiente

A

B

Figura 16: Valori di intensità di fluorescenza (pannelli A), relativi alla proteina GFP (espressi in unità arbitrarie di fluorescenza), in seguito a lettura al fluorimetro, delle frazioni ottenute dopo centrifugazione in gradiente di densità di saccarosio a partire da estratti citoplasmatici (in blu) e nucleari (in rosa) dalla popolazione di cellule C2.7-PSMB2-EGFP. Nei pannelli B sono riportati i profili proteici in Western Blot di 12 frazioni principali, in cui sono state raggruppate quelle raccolte dopo centrifugazione in gradiente di saccarosio; l’immunoreazione è stata effettuata mediante l’impiego di sonde immunologiche per la rivelazione delle subunità proteasomali β4/p23K (23KDa), α1/p27K (27KDa) e, nello stesso tempo, della relativa proteina di fusione β4/p23K-EGFP (50KDa). Inoltre, è stata impiegata una sonda immunologica diretta nei confronti della proteina EGFP (27KDa).

In un analogo studio svolto a partire da estratti citoplasmatici e nucleari di una

popolazione di mioblasti C2.7-EGFP (ovvero una popolazione cellulare che esprimeva

solo la proteina fluorescente EGFP, di peso molecolare pari a 27kDa) [Figura 17], è stato

ottenuto un solo picco in prossimità della parte alta del gradiente, laddove sedimentano le

6. Risultati

-123-

anti-p27K

anti-p23K

anti-GFP

36 kDa

22 kDa

22 kDa

8 10 3 5 1 2 4 6 11 12 7 9 10 5 3 1 2 4 6 12 8 11 7 9

36 kDa

22 kDa

36 kDa

22 kDa

22 kDa

0

50

100

150

200

250

1 9 17 25 33 41 49 57 65

Numero frazioni

Unità arbitrarie di

fluorescenza

0

5

10

15

20

1 9 17 25 33 41 49 57 65

Numero frazioni

Unità arbitrarie di

fluorescenza

Estratto citoplasmatico della popolazione di cellule C2.7-EGFP

Estratto nucleare della popolazione di cellule C2.7-EGFP

Fondo del gradiente Fondo del gradiente

A

B

proteine a più basso peso molecolare [Figura 17, pannelli A]. Per quel che riguarda

l’analisi mediante Western Blot [Figura 17, pannelli B], l’impiego di un anticorpo

policlonale anti-GFP ha consentito di dimostrare la specificità del suddetto picco, in

quanto corrispondente alla proteina EGFP libera (27kDa, ossia < 5S), mentre l’utilizzo di

anticorpi monoclonali anti-α1/p27k e anti-β4/p23k di proteasoma ha permesso di

evidenziare la presenza di bande (segnale positivo) a livello delle principali frazioni

corrispondenti alla regione del gradiente in cui sedimenta il proteasoma 20S.

Figura 17: Valori di intensità di fluorescenza (pannelli A), relativi alla proteina GFP (espressi in unità arbitrarie di fluorescenza), in seguito a lettura al fluorimetro, delle frazioni ottenute dopo centrifugazione in gradiente di densità di saccarosio a partire da estratti citoplasmatici (in blu) e nucleari (in rosa) dalla popolazione di cellule C2.7-EGFP. Nei pannelli B sono riportati i profili proteici in Western Blot di 12 frazioni principali, in cui sono state raggruppate quelle raccolte dopo centrifugazione in gradiente di saccarosio; l’immunoreazione è stata effettuata mediante l’impiego di sonde immunologiche per la rivelazione delle subunità proteasomali α1/p27K (27KDa) e β4/p23K (23KDa) e, in alternativa, della proteina fluorescente EGFP (27KDa).

6. Risultati

-124-

In una serie parallela di esperimenti, sono stati allestiti estratti citoplasmatici a partire

dalle suddette popolazioni di cellule C2.7 in grado di esprimere stabilmente le subunità

α1/p27k e β4/p23k del proteasoma 20S, marcate con la proteina EGFP (C2.7-PSMA6-

EGFP e C2.7-PSMB2-EGFP, rispettivamente) o, in alternativa, in grado di esprimere la sola

proteina EGFP (C2.7-EGFP), allo scopo di separare il proteasoma 20S dal complesso

molecolare di ordine superiore (26S), sfruttando la diversa mobilità elettroforetica dei

suddetti complessi multi-proteici nell’ambito della migrazione in gel a bassa

concentrazione di acrilamide e in condizioni non denaturanti. Terminata la corsa

elettroforetica, i preparati sono stati sottoposti a saggio dell’attività proteolitica dei

proteasomi, mettendo a contatto i gel con un substrato fluorogenico e valutando poi il

rilascio del fluoroforo, attestante l’attività proteolitica dei suddetti complessi, mediante un

transilluminatore. Questo metodo ha consentito di mettere in evidenza due bande per

ciascun estratto citoplasmatico esaminato, verosimilmente riconducibili all’attività del

proteasoma 20S [Figura 18, banda localizzata nella parte inferiore di ogni gel] e a quella

del complesso 26S [Figura 18, banda localizzata nella parte superiore di ogni gel].

Figura 18: Estratti citoplasmatici ottenuti da popolazione di cellule, C2.7-PSMA6-EGFP, C2.7-PSMB2-EGFP e C2.7-EGFP sono stati impiegati per la separazione dei complessi proteasomali mediante metodo “NATIVE-PAGE”. Dopo corsa elettroforetica i gel sono stati sottoposti a “colorazione” mettendo a contatto i gel con un substrato fluorogenico che consente di rivelare la presenza dei proteasomi valutando l’attività proteolitica “chymotrypsin-like” dei suddetti complessi. La presenza di fluorescenza è stata valutata osservando i gel mediante un transilluminatore.

PSMA6-EGFP

PSMB2-EGFP

EGFP

26S

20S

26S

20S

26S

20S

EGFP

6. Risultati

-125-

Successivamente, le frazioni proteiche contenute in ciascuna delle due bande fluorescenti,

sono state estratte dai suddetti gel ed utilizzate per una nuova migrazione elettroforetica

delle proteine, in questo caso in condizioni denaturanti (“SDS-PAGE”); al termine della

corsa elettroforetica, i gel sono stati sottoposti a colorazione argentica [Figura 19]. Per

quanto concerne la composizione proteica della banda fluorescente dislocata più in basso

nei gel di Figura 18, riconducibile alla presenza del proteasoma 20S, il profilo

elettroforetico ottenuto in condizioni denaturanti [Figura 19, pannello A] mette in

evidenza bande con peso molecolare compreso tra i 22-36kDa, tipiche del suddetto

complesso molecolare, mentre per quel che riguarda le frazioni proteiche contenute nella

banda fluorescente dislocata più in alto nei gel di Figura 18, riconducibile al proteasoma

26S, il profilo elettroforetico in condizioni denaturanti [Figura 19, pannello B], permette di

apprezzare, da un lato, componenti proteiche corrispondenti al profilo ottenuto in “A”,

tipiche del proteasoma 20S e, dall’altro, bande con peso molecolare più elevato, fino a

circa 98kDa (ossia i pesi molecolari più elevati discernibili con il tipo di gel allestito, 12,5%

poliacrilamide).

Figura 19: Profili proteici corrispondenti a ciascuna banda ottenuta in precedenza utilizzando il metodo “NATIVE-PAGE”. Dopo corsa elettroforetica secondo il protocollo “SDS-PAGE”, i gel sono stati sottoposti a colorazione argentica. Nel pannello A, corrispondente al proteasoma 20S, sono state ottenute bande con peso molecolare compreso tra i 22-36KDa mentre nel pannello B, relativo ai proteasomi 26S, sono state ottenute bande comprese tra i 22-36KDa e da 36KDa fino a circa 98KDa.

EGFP PSMA6EGFP PSMB2EGFP

98 kDa

64 kDa 50 kDa

36 kDa

22 kDa

PROTEASOMA 26S PROTEASOMA 20S

EGFP PSMA6EGFP PSMB2EGFP

98 kDa

50 kDa

36 kDa

22 kDa

64 kDa

A B

6. Risultati

-126-

Le proteine così separate sono state anche elettroforeticamente trasferite su membrane di

fluoruro di polivinilidene ed utilizzate in seguito per analisi attraverso Western Blot

[Figura 20]. Nello specifico, mediante l’impiego sia di sonde immunologiche dirette nei

confronti delle subunità proteasomali α1/p27k e β4/p23k [Figura 20, pannelli A], sia di

anticorpi che riconoscono una subunità ad attività ATPasica del complesso regolatore 19S

[Figura 20, pannelli B], è stato possibile dimostrare, in corrispondenza degli estratti

proteici relativi al proteasoma 20S e 26S (popolazioni cellulari C2.7-PSMA6-EGFP e C2.7-

PSMB2-EGFP) [Figura 20, pannelli A, colonne PSMA6-EGFP 20S e 26S; PSMB2-EGFP 20S

e 26S], la presenza delle proteine endogene α1/p27k (27kDa) e β4/p23k (23kDa) e,

parallelamente, delle corrispondenti proteine di fusione α1/p27k-EGFP (54kDa) e

β4/p23k-EGFP (50kDa). Per quel che riguarda gli estratti proteici derivanti da

popolazioni cellulari che esprimevano solo la proteina fluorescente EGFP, sono stati

evidenziati segnali positivi solo a livello delle subunità proteasomali endogene, di peso

molecolare pari a 27kDa e di 23kDa, come atteso [Figura 20, pannelli A, colonne EGFP

20S; EGFP 26S]. D’altra parte, mediante l’impiego di un anticorpo monoclonale che

riconosce una subunità di peso molecolare pari a 48kDa del complesso 19S [Figura 20,

pannelli B], è stata ottenuta un’unica banda, del peso molecolare atteso, negli estratti

proteici relativi al proteasoma 26S delle popolazioni di cellule C2.7-EGFP, C2.7-PSMA6-

EGFP e C2.7-PSMB2-EGFP.

6. Risultati

-127-

Figura 20: Profili proteici corrispondenti a ciascuna banda ottenuta in precedenza utilizzando il metodo “NATIVE-PAGE”. Dopo corsa elettroforetica secondo il protocollo “SDS-PAGE” i gel sono stati sottoposti ad analisi in Western Blot mediante l’impiego di sonde immunologiche per la rivelazione delle subunità proteasomali α1/p27K di 27KDa, β4/p23K di 23KDa e, nello stesso tempo, delle relative proteine di fusione α1/p27K-EGFP (54KDa), β4/p23K-EGFP (50KDa) (pannelli A). Inoltre, è stata utilizzata una sonda immunologia diretta nei confronti della subunità ATPasica del complesso regolatore 19S denominata Rpt1 di 48KDa (pannelli B).

6.1.8 PROFILO DI DISTRIBUZIONE DI SPECIFICI PROTEASOMI IN POPOLAZIONI DI CELLULE

C2.7 CHE ESPRIMONO I COSTRUTTI DI INTERESSE

La successiva serie di esperimenti è stata incentrata sullo studio dell’espressione delle

proteine di fusione di interesse in cellule muscolari C2.7, in cui i suddetti costrutti erano

stati introdotti tramite infezione con progenie retrovirale defettiva e ricombinante, come

dettagliato precedentemente. Tale linea di cellule mioblastiche può essere coltivata ed

indotta a differenziarsi in vitro, fino al raggiungimento dello stadio di miotubo, ma senza

evolvere fino alla formazione della fibra muscolare con relativa organizzazione

sarcomerica dell’apparato contrattile.

anti-p27K anti-p23K

EGFP 20S

PSMA6-EGFP

20S 26S

EGFP 26S

PSMB2-EGFP

20S 26S

64kDa-

50kDa-

36kDa-

22kDa-

50kDa-

anti-19S anti-19S

EGFP 20S 26S

PSMA6-EGFP

20S 26S

PSMB2-EGFP

20S 26S

64kDa-

36kDa-

22kDa-

A

B

6. Risultati

-128-

I risultati di tali esperimenti sono mostrati in Figura 21, in cui sono rappresentati i profili

di distribuzione del segnale di fluorescenza relativi alle proteine di fusione considerate, in

popolazioni di cellule C2.7-PSMA6-EGFP [subunità proteasomale α1/p27K, pannelli A] e

C2.7-PSMB2-EGFP [Figura 21, subunità proteasomale β4/p23K, pannelli B] nel corso del

processo di differenziamento muscolare [Figura 21, stadio di mioblasti: pannelli a1, a3 e

b1, b3; stadio di miotubi: pannelli a2, a4 e b2, b4; in particolare, a3, a4 e b3, b4

rappresentano immagini a più alto ingrandimento dei corrispondenti stadi di

differenziamento]. Nel pannello C (c1: mioblasti; c2: miotubi) sono mostrate le immagini

ottenute da popolazioni di cellule C2.7 che esprimono solo la proteina fluorescente EGFP.

Come si può notare, sia per le popolazioni di cellule C2.7-PSMA6-EGFP [Figura 21,

pannelli A] che per quelle C2.7-PSMB2-EGFP [Figura 21, pannelli B], il segnale di

fluorescenza era localizzato nel compartimento citoplasmatico, così come in quello

nucleare, ma in quest’ultimo distretto cellulare esso appariva più intenso. Inoltre, la

fluorescenza a livello del nucleo era in alcuni casi distribuita in regioni discrete, sotto

forma di granulazioni, a testimonianza di un particolare accumulo delle corrispondenti

subunità proteasomali nelle suddette regioni. Questa peculiare distribuzione nucleare era

appannaggio di un numero più significativo di nuclei quando le cellule si trovavano allo

stadio di miotubi [Figura 21, pannelli a2, a4 e b2, b4], con particolare riguardo per la

subunità proteasomale β4/p23K [Figura 21, pannelli b2, b4], in accordo con quanto già

osservato da parte del nostro gruppo di ricerca (De Conto F. et al., 2000); inoltre, come

descritto da altri Autori, il segnale fluorescente (Amsterdam A. et al., 1993; Reits E.A.J. et

al., 1997), era sempre assente a livello delle zone nucleolari.

D’altra parte, la distribuzione del segnale di fluorescenza osservato utilizzando la

popolazione di cellule C2.7-EGFP e relativo alla sola proteina EGFP, appariva più spento,

diffuso e omogeneamente distribuito tra il compartimento citoplasmatico e quello

nucleare, sia allo stadio di mioblasti che in quello di miotubi [Figura 21, pannelli C].

Nel complesso il profilo di fluorescenza descritto per le popolazioni di cellule C2.7-

PSMA6-EGFP, C2.7-PSMB2-EGFP e C2.7-EGFP è risultato sovrapponibile a quello

osservato nei cloni cellulari C2.7-PSMB2-EGFP #1 e #3, C2.7-EGFP, CHO-PSMA6-EGFP

#1 e #4 e CHO-EGFP ottenuti nella prima fase della ricerca (risultati non mostrati).

6. Risultati

-129-

a3 a4

Mioblasti

Miotubi

C2.7-PSMA6-EGFP

A

a1 a2

C2.7-EGFP

C

c2 c1

B b3 b4

C2.7-PSMB2-EGFP b1 b2

Figura 21: Distribuzione del segnale di fluorescenza in monostrati di popolazioni di cellule C2.7-PSMA6-EGFP (pannelli A) e C2.7-PSMB2-EGFP (pannelli B), fissati allo stadio di mioblasti (pannelli a1, a3 e b1, b3, rispettivamente) o di miotubi (pannelli a2, a4 e b2, b4, rispettivamente) ed in grado di esprimere stabilmente le subunità α1/p27K (pannelli A) e β4/p23K (pannelli B) del proteasoma 20S, marcate con la proteina EGFP. In particolare, nei pannelli a3, a4 (C2.7-PSMA6-EGFP) e nei pannelli b3, b4 (C2.7-PSMB2-EGFP), sono riportati dettagli di cellule a più alto ingrandimento allo stadio di mioblasti (a3, b3) o di miotubi (a4, b4). Come controllo, è stata osservata la distribuzione del segnale di fluorescenza in monostrati di popolazioni di cellule C2.7-EGFP, esprimenti stabilmente la sola proteina fluorescente EGFP (pannelli C), fissati allo stadio di mioblasti (c1) o di miotubi (c2).

6. Risultati

-130-

6.2 SECONDO MODELLO DI STUDIO: FIBROBLASTI UMANI IN CORSO DI

INFEZIONE DA CITOMEGALOVIRUS IN VITRO E PROTEASOMI

Il secondo modello di studio prescelto, contrariamente al precedente, prevede lo studio di

specifici proteasomi in una condizione patologica, quale quella indotta da un’infezione

virale, nella consapevolezza che, seppure in una situazione molto diversa rispetto al

differenziamento cellulare, anche in questo caso sono comunque previsti cambiamenti

significativi nell’ambito dell’economia cellulare, che prevedono, verosimilmente, una

riprogrammazione genica, con possibile induzione di nuove proteine cellulari e/o la

repressione di altre, in risposta alla suddetta tipologia di “insulto”. D’altra parte,

nell’ambito di questa rimodulazione degli equilibri preesistenti, lo stesso virus applica

strategie atte a cooptare funzioni cellulari a suo proprio beneficio. In questo quadro così

complesso, è verosimile che complessi molecolari di così grande rilevanza per la cellula,

quali i proteasomi, debbano intervenire in corso di infezione virale, come già evidenziato

nella sezione introduttiva.

Nello specifico, quale secondo modello è stato scelto un virus di grande impatto per la

salute umana, quale citomegalovirus (HCMV), durante l’infezione sperimentale di

fibroblasti MRC5 da parte dello stipite umano di riferimento AD169, allo scopo di

studiare aspetti morfologici e funzionali relativi ai proteasomi nell’ambito delle fasi

precoci del ciclo di replicazione virale.

6.2.1 LA FUNZIONE ENZIMATICA DEI PROTEASOMI È RILEVANTE AI FINI DELL’EVOLUZIONE

DELL’INFEZIONE PRODUTTIVA DA CITOMEGALOVIRUS IN FIBROBLASTI MRC5

Sulla base dei suddetti presupposti, la prima fase della ricerca ha avuto come obiettivo

principale quello di verificare, nel modello virus-cellula prescelto, se la funzione

enzimatica dei proteasomi fosse veramente indispensabile per l’evoluzione del ciclo

replicativo litico da HCMV, focalizzando, come già accennato, l’attenzione soprattutto

sulle fasi precoci dell’infezione, in cui vengono espletate le più significative funzioni di

regolazione sull’espressione genica sia virale che cellulare.

L’espressione dei prodotti maggiori dei geni precocissimi virali IE1 e IE2 (IEp72 e IEp86,

rispettivamente) è stata studiata in assenza [Figura 22, pannello “– MG132”], o in

presenza dell’inibitore dei proteasomi denominato MG132 (inibitore reversibile

dell’attività “chymotrypsin-like” del proteasoma 20S) [Figura 22, pannello “+MG132”].

Tale sostanza è stata utilizzata per 3 ore, a concentrazioni non tossiche per la cellula (0,5

6. Risultati

-131-

µM), come pre-trattamento di monostrati di fibroblasti MRC5; i suddetti monostrati

cellulari sono stati successivamente infettati per 2 ore e 30 minuti con lo stipite AD169 di

HCMV, mantenendo MG132 nel terreno di coltura (a causa della rapida reversibilità del

suo effetto inibitorio). Terminato il periodo di infezione, è stato eseguito uno studio sulla

distribuzione nucleare delle proteine precocissime virali IEp72 e IEp86, attraverso una

reazione di immunofluorescenza, mediante l’impiego di una miscela di anticorpi

monoclonali diretta contro epitopi delle suddette proteine di HCMV. I risultati di tale

esperimento dimostrano chiaramente che il trattamento con MG132 determina una

significativa riduzione dell’espressione dei geni precocissimi virali già a tempi molto

precoci di infezione (2 ore e 30 minuti), convalidando l’ipotesi di un intervento rilevante

dei proteasomi nell’ambito del ciclo litico da HCMV [Figura 22, pannello “+ MG132”].

Questi dati hanno anche messo in rilievo che l’effetto inibitorio sull’espressione delle

proteine precocissime virali non è della stessa entità per tutte le cellule del monostrato

(costituito da cellule non sincronizzate), suggerendo che l’inibizione dell’infezione

mediata dal blocco dell’attività proteasomale potesse avere differente efficacia,

dipendentemente dalla fase del ciclo cellulare in cui l’infezione virale ha inizio. Tale

osservazione non è apparsa affatto sorprendente, dal momento che è stata ampiamente

documentata un’azione di “disturbo”, da parte dello stesso virus, sul ciclo cellulare

(Dittmer D. and Mocarski E.S., 1997; Salvant B.S. et al., 1998; Sinclair J. et al., 2000; Kalejta

R.F. and Shenk T., 2002).

6. Risultati

-132-

Fibroblasti MRC5 infettati con uno stipite di citomegalovirus umano

Espressione delle proteine virali precocissime (IE)

- MG132 + MG132

Figura 22: Distribuzione delle proteine precocissime (IE) di citomegalovirus umano a livello dei nuclei di fibroblasti embrionali umani (MRC5), dopo 2h30’ di infezione con lo stipite virale AD169 [molteplicità di infezione (m.o.i.) pari a 0,5], in assenza dell’inibitore dell’attività proteolitica dei proteasomi (pannello “- MG132”) o in presenza dell’inibitore MG132 (pannello “+ MG132”), utilizzato alla concentrazione di 0,5 µM. Per la reazione di immunofluorescenza è stato impiegato un anticorpo monoclonale in grado di riconoscere epitopi delle proteine virali precocissime IEp72 e IEp86 (proteine di peso molecolare 72 KDa e 86 KDa, rispettivamente, prodotti principali dei geni IE1 e IE2). 6.2.2 L’ATTIVITÀ ENZIMATICA DEI PROTEASOMI RISULTA RILEVANTE SOLO IN ALCUNE FASI

DEL CICLO CELLULARE, AI FINI DELL’EVOLUZIONE DELL’INFEZIONE PRODUTTIVA DA

CITOMEGALOVIRUS IN FIBROBLASTI MRC5

La fase di studio successiva è stata pertanto volta a verificare se l’attività proteasomale

fosse più rilevante in alcune fasi del ciclo cellulare piuttosto che in altre, durante stadi

molto precoci dell’infezione (2 ore e 30 minuti). I risultati di questa serie di esperimenti è

mostrata nelle Figure 23, 24, 25 e 26. Nello specifico, sulla scorta di dati di letteratura

(Morel A.P. et al., 2003; Memili E. et al., 2004), le cellule MRC5 sono state sincronizzate

mediante coltivazione in assenza di siero fetale di vitello per 5 giorni; al termine di tale

periodo, il suddetto terreno è stato sostituito con terreno addizionato del 10% di siero di

vitello fetale per i tempi prestabili corrispondenti alle diverse fasi del ciclo cellulare prima

di infettare le cellule con lo stipite AD169 di HCMV. In particolare, l’infezione

sperimentale con il suddetto stipite virale [Figure 23-26, pannelli B: espressione delle

proteine virali precocissime] è stata attuata dopo 9, 18, 24 e 30 ore dal ripristino del siero

nel terreno di coltura dei monostrati di MRC5, in corrispondenza delle fasi G1 [Figura 23],

6. Risultati

-133-

G1/S [Figura 24], S [Figura 25] e G2/M [Figura 26] del ciclo cellulare, rispettivamente.

L’avvenuta sincronizzazione dei tappeti cellulari nella fase del ciclo cellulare attesa veniva

puntualmente verificata attraverso un’analisi citofluorimetrica del contenuto di DNA in

monostrati di MRC5, allestiti in parallelo a quelli utilizzati per l’infezione e trattati nelle

stesse condizioni sperimentali [Figure 23-26, pannelli A]. Due ulteriori serie di monostrati,

di cui una allestita per lo studio di distribuzione del DNA [Figure 23-26, pannelli C],

l’altra per l’infezione virale [Figure 23-26, pannelli D], venivano anche sottoposte a pre-

trattamento con MG132 per 3 ore; in entrambe le serie, la sostanza veniva costantemente

mantenuta nel terreno di coltura.

I dati ottenuti mostrano innanzitutto che, in cellule infettate e non trattate con MG132

[Figure 23-26, pannelli B: controlli di infezione, in cui i proteasomi sono potenzialmente

attivi], l’espressione nucleare delle proteine virali è buona quando l’infezione inizia in fase

G1 [Figura 23, pannello B], decisamente incrementata quando prende avvio alla

transizione G1/S [Figura 24, pannello B], mentre risulta sensibilmente minore se il ciclo

replicativo virale inizia nelle fasi S [Figura 25, pannello B] e alla transizione G2/M [Figura

26, pannello B]. In cellule trattate con MG132, l’effetto inibitorio sull’espressione dei

prodotti principali dei geni virali precocissimi è evidente se l’infezione parte in G1 [Figura

23, pannello D] , ancora più significativa alla transizione G1/S [Figura 24, pannello D],

scarsa o nulla in S e G2/M [Figure 25 e 26, rispettivamente, pannelli D].

Questa serie di esperimenti, sembra supportare un ruolo di spicco dei proteasomi proprio

durante fasi cruciali del ciclo di replicazione litico di HCMV.

6. Risultati

-134-

Num

ero

di c

ellu

le

G1: 93% S: 3% G2/M: 4%

Distribuzione DNA

G1

S G2/M

C D

A

Distribuzione DNA

Num

ero

di c

ellu

le

G1: 91.2% S: 1.9% G2/M: 6.9%

G1

S G2/M

- MG132 B

+MG132

Fibroblasti MRC5 sincronizzati: fase G1

Figura 23: Monostrati di fibroblasti embrionali umani (MRC5) sono stati coltivati in quattro serie di piastre Petri per cinque giorni, con terreno privo di siero fetale di vitello (SVF), al fine di ottenere cellule sincronizzate in una delle differenti fasi del ciclo cellulare. In particolare, allo scopo di disporre di monostrati cellulari sincronizzati in fase G1, al termine del periodo di coltivazione in assenza di siero, il terreno di coltura è stato sostituito con terreno addizionato del 10% di SVF per 9h. In seguito, solamente due delle quattro serie di MRC5 sono state infettate con lo stipite AD169 di citomegalovirus umano (m.o.i. 0,5) per 2h30’, allo scopo di studiare la distribuzione delle proteine virali precocissime (IEp72 e IEp86) nel nucleo di cellule infettate, attraverso reazione di immunofluorescenza (pannelli B e D, profilo puntiforme in rosso). Una di queste due serie (pannello D) è stata sottoposta, per 3h prima dell’infezione, a pre-trattamento con un inibitore dell’attività proteolitica dei proteasomi (MG132, 0,5 µM); tali monostrati sono poi stati infettati con le stesse modalità applicate alla prima serie, eccetto che per la costante presenza, in questa seconda serie, dell’inibitore MG132 nel terreno di coltura. Le rimanenti due serie di MRC5 (pannelli A e C) non sono state infettate, ma utilizzate per studiare la distribuzione del contenuto in DNA durante le differenti fasi del ciclo cellulare, dopo colorazione con ioduro di propidio e analisi in citofluorimetria di flusso. In particolare, una delle due serie è stata sottoposta a trattamento con l’inibitore MG132 (pannello C), secondo le stesse modalità impiegate nella corrispondente serie di cellule infettate (pannello D).

6. Risultati

-135-

Figura 24: Monostrati di fibroblasti embrionali umani (MRC5) sono stati coltivati in quattro serie di piastre Petri per cinque giorni, con terreno privo di siero fetale di vitello (SVF), al fine di ottenere cellule sincronizzate in una delle differenti fasi del ciclo cellulare. In particolare, allo scopo di disporre di monostrati cellulari sincronizzati alla trasizione G1/S, al termine del periodo di coltivazione in assenza di siero, il terreno di coltura è stato sostituito con terreno addizionato del 10% di SVF per 18h. In seguito, solamente due delle quattro serie di MRC5 sono state infettate con lo stipite AD169 di citomegalovirus umano (m.o.i. 0,5) per 2h30’, allo scopo di studiare la distribuzione delle proteine virali precocissime (IEp72 e IEp86) nel nucleo di cellule infettate, attraverso reazione di immunofluorescenza (pannelli B e D, profilo puntiforme in rosso). Una di queste due serie (pannello D) è stata sottoposta, per 3h prima dell’infezione, a pre-trattamento con un inibitore dell’attività proteolitica dei proteasomi (MG132, 0,5 µM); tali monostrati sono poi stati infettati con le stesse modalità applicate alla prima serie, eccetto che per la costante presenza, in questa seconda serie, dell’inibitore MG132 nel terreno di coltura. Le rimanenti due serie di MRC5 (pannelli A e C) non sono state infettate, ma utilizzate per studiare la distribuzione del contenuto in DNA durante le differenti fasi del ciclo cellulare, dopo colorazione con ioduro di propidio e analisi in citofluorimetria di flusso. In particolare, una delle due serie è stata sottoposta a trattamento con l’inibitore MG132 (pannello C), secondo le stesse modalità impiegate nella corrispondente serie di cellule infettate (pannello D).

- MG132

Fibroblasti MRC5 sincronizzati: transizione G1/S

Num

ero

di c

ellu

le

G2/M

S

G1

G1: 70.2% S: 24.7% G2/M: 5.1%

Distribuzione DNA

+ MG132

C D

Distribuzione DNA

Num

ero

di c

ellu

le

G1: 74.5% S: 20.9% G2/M: 4.6%

G1

S G2/M

A B

6. Risultati

-136-

+ MG132

Num

ero

di c

ellu

le

G1: 46,9% S: 32,2% G2/M: 20,9%

Distribuzione DNA

G1

S G2/M

Num

ero

di c

ellu

le

G2/M S

G1

G1: 47,2% S: 39,1% G2/M: 13,7%

Distribuzione DNA

C D

Fibroblasti MRC5 sincronizzati: fase S

A B

- MG132

Figura 25: Monostrati di fibroblasti embrionali umani (MRC5) sono stati coltivati in quattro serie di piastre Petri per cinque giorni, con terreno privo di siero fetale di vitello (SVF), al fine di ottenere cellule sincronizzate in una delle differenti fasi del ciclo cellulare. In particolare, allo scopo di disporre di monostrati cellulari sincronizzati in fase S, al termine del periodo di coltivazione in assenza di siero, il terreno di coltura è stato sostituito con terreno addizionato del 10% di SVF per 24h. In seguito, solamente due delle quattro serie di MRC5 sono state infettate con lo stipite AD169 di citomegalovirus umano (m.o.i. 0,5) per 2h30’, allo scopo di studiare la distribuzione delle proteine virali precocissime (IEp72 e IEp86) nel nucleo di cellule infettate, attraverso reazione di immunofluorescenza (pannelli B e D, profilo puntiforme in rosso). Una di queste due serie (pannello D) è stata sottoposta, per 3h prima dell’infezione, a pre-trattamento con un inibitore dell’attività proteolitica dei proteasomi (MG132, 0,5 µM); tali monostrati sono poi stati infettati con le stesse modalità applicate alla prima serie, eccetto che per la costante presenza, in questa seconda serie, dell’inibitore MG132 nel terreno di coltura. Le rimanenti due serie di MRC5 (pannelli A e C) non sono state infettate, ma utilizzate per studiare la distribuzione del contenuto in DNA durante le differenti fasi del ciclo cellulare, dopo colorazione con ioduro di propidio e analisi in citofluorimetria di flusso. In particolare, una delle due serie è stata sottoposta a trattamento con l’inibitore MG132 (pannello C), secondo le stesse modalità impiegate nella corrispondente serie di cellule infettate (pannello D).

6. Risultati

-137-

Figura 26: Monostrati di fibroblasti embrionali umani (MRC5) sono stati coltivati in quattro serie di piastre Petri per cinque giorni, con terreno privo di siero fetale di vitello (SVF), al fine di ottenere cellule sincronizzate in una delle differenti fasi del ciclo cellulare. In particolare, allo scopo di disporre di monostrati cellulari sincronizzati alla transizione G2/M, al termine del periodo di coltivazione in assenza di siero, il terreno di coltura è stato sostituito con terreno addizionato del 10% di SVF per 30h. In seguito, solamente due delle quattro serie di MRC5 sono state infettate con lo stipite AD169 di citomegalovirus umano (m.o.i. 0,5) per 2h30’, allo scopo di studiare la distribuzione delle proteine virali precocissime (IEp72 e IEp86) nel nucleo di cellule infettate, attraverso reazione di immunofluorescenza (pannelli B e D, profilo puntiforme in rosso). Una di queste due serie (pannello D) è stata sottoposta, per 3h prima dell’infezione, a pre-trattamento con un inibitore dell’attività proteolitica dei proteasomi (MG132, 0,5 µM); tali monostrati sono poi stati infettati con le stesse modalità applicate alla prima serie, eccetto che per la costante presenza, in questa seconda serie, dell’inibitore MG132 nel terreno di coltura. Le rimanenti due serie di MRC5 (pannelli A e C) non sono state infettate, ma utilizzate per studiare la distribuzione del contenuto in DNA durante le differenti fasi del ciclo cellulare, dopo colorazione con ioduro di propidio e analisi in citofluorimetria di flusso. In particolare, una delle due serie è stata sottoposta a trattamento con l’inibitore MG132 (pannello C), secondo le stesse modalità impiegate nella corrispondente serie di cellule infettate (pannello D).

Fibroblasti MRC5 sincronizzati: transizione G2/M

+ MG132

- MG132

Distribuzione DNA

Num

ero

di c

ellu

le G1: 63.2%

S: 9.8% G2/M: 27%

G1

S

G2/M

C D

A B

Num

ero

di c

ellu

le

G1: 67.4% S: 10.3% G2/M: 22.3%

Distribuzione DNA

G1

S

G2/M

6. Risultati

-138-

6.2.3 I PROTEASOMI SONO PRESENTI ANCHE A LIVELLO NUCLEOLARE A TEMPI PRECOCI

DOPO L’INFEZIONE DI FIBROBLASTI MRC5 CON CITOMEGALOVIRUS UMANO

Il successivo quesito scientifico, a cui si è tentato di dare risposta, prende in

considerazione studi di tipo morfologico, atti a stabilire la distribuzione spaziale di

determinati complessi molecolari, potenzialmente in grado di interagire in particolari

condizioni con HCMV. In termini generali, tale filone di studi si basa sul presupposto che

la nozione spaziale sembra essere imprescindibile da quella funzionale, dal momento che

sembra ormai appurato che l’attività di un determinato complesso molecolare non possa

espletarsi se non negli spazi (oltre che nei tempi) corretti.

Pertanto, analogamente a quanto effettuato nell’ambito dello studio del modello

muscolare, è sembrato importante, anche in questo caso, verificare se la distribuzione di

specifici proteasomi potesse subire variazioni in corso di infezione da citomegalovirus,

rispetto ad un profilo previsto in condizioni fisiologiche.

A tale scopo, è stato effettuato uno studio, mediante microscopia confocale, su singole

sezioni focali di cellule MRC5 infettate per 2 ore e 30 minuti con lo stipite AD169 di

HCMV, poi fissate ed utilizzate per reazioni di doppia colorazione in

immunofluorescenza, mediante l’impiego di un anticorpo policlonale diretto contro

diverse subunità del proteasoma 20S ed una miscela di anticorpi monoclonali diretti

contro epitopi di IEp72 e IEp86, prodotti principali dei geni virali precocissimi [Figura 27].

I risultati ottenuti rivelano che i proteasomi si localizzano nel nucleolo di un numero

significativo di cellule infettate (in questa serie di esperimenti le cellule non erano

sincronizzate), a differenza di quanto mostrato nella stessa figura nell’ambito di

fibroblasti MRC5 non infettati (monostrati allestiti in parallelo nell’ambito dello stesso

esperimento); tale osservazione è ulteriormente supportata da quanto descritto in

letteratura per cellule non infettate e appartenenti a diverse tipologie (inclusi i fibroblasti),

in cui i proteasomi sono localizzati nel citoplasma ed in differenti compartimenti nucleari,

ad eccezione del nucleolo (Amsterdam A. et al., 1993; De Conto F. et al., 2000; Reits E.A.J.

et al., 1997; Groothuis T.A.M. and Reits E.A.J., 2005). Inoltre, in questa stessa serie di

esperimenti è stato effettuato uno studio sulla possibile interazione tra proteasomi e

proteine virali precocissime, anch’esso espletato attraverso un’analisi di singole sezioni

focali di nuclei infettati. I dati ottenuti dimostrano l’esistenza di una chiara

colocalizzazione tra le suddette proteine virali e proteasomi, in regioni granulari di

accumulo, a volte dislocate in aree peri-nucleolari. La distribuzione nucleolare del

proteasoma in corso di infezione sperimentale da HCMV, come anche la sua associazione

6. Risultati

-139-

con i prodotti maggiori dei geni virali precocissimi, sottolinea di nuovo un ruolo di spicco

di questi complessi molecolari cellulari nell’ambito del ciclo litico da HCMV. La

dislocazione dei proteasomi in aree nucleari non occupate in condizioni fisiologiche, quali

i nucleoli, indica inoltre come questi compartimenti nucleari rappresentino,

verosimilmente, siti di interesse nell’ambito dell’infezione virale.

6. Risultati

-140-

Figura 27: Analisi mediante microscopia confocale della distribuzione del proteasoma 20S (in verde) e delle proteine precocissime IEp72 e IEp86 [prodotti principali dei geni virali precocissimi

MRC5 2h30 p.i.

proteasoma (20S) Proteine precocissime (IE)

di citomegalovirus

20S IE colocalizzazione

20S

MRC5 non infettate

6. Risultati

-141-

(IE1 e IE2) di citomegalovirus umano (in rosso), in monostrati di fibroblasti embrionali umani MRC5, dopo 2h30’ di infezione con lo stipite virale AD169 (m.o.i. = 0,5)]. Il profilo di distribuzione proteasomale in cellule MRC5, in corso di infezione virale, è messo a confronto con quello osservato nella stessa tipologia di cellula in condizioni fisiologiche (pannelli “MRC5 non infettate”). Le figure mostrano un solo piano focale, che passa attraverso la regione centrale dei nucleoli (indicati dalle frecce a livello dell’immagini a più alto ingrandimento, sia nell’ambito di MRC5 in corso di infezione, che nelle stesse cellule non infettate). La reazione di immunofluorescenza è stata eseguita mediante l’impiego di un anticorpo policlonale diretto nei confronti di diverse subunità del complesso proteasomale 20S e di una miscela di anticorpi monoclonali che riconoscono epitopi delle proteine virali precocissime IEp72 e IEp86 di citomegalovirus. Lo studio di colocalizzazione mostra la presenza di diverse regioni di sovrapposizione tra il proteasoma 20S e le proteine virali (profilo puntiforme in arancio).

6.2.4 PRODUZIONE DI VETTORI RETROVIRALI RECANTI LE SEQUENZE GENICHE

PROTEASOMALI DI INTERESSE ED IN GRADO DI INFETTARE CELLULE UMANE, A LORO VOLTA

SUSCETTIBILI ALL’INFEZIONE DA CITOMEGALOVIRUS

Quale ultimo, ambizioso “tassello” di questo progetto ed in analogia a quanto prodotto

nell’ambito del modello muscolare, ci si è proposti di allestire strumenti molecolari che

potessero risultare idonei, in prospettiva futura, allo studio dei proteasomi in modelli

cellulari permissivi per l’infezione con HCMV.

Nel tentativo di aggirare alcuni ostacoli tecnici legati alla presenza di fattori di inibizione,

prodotti nelle linee cellulari di origine murina, che causano, a loro volta, una

considerevole riduzione del titolo di retrovirus ricombinanti, l’approccio sperimentale si è

ispirato a quanto di recente è comparso in letteratura, riguardo alla produzione di

particelle retrovirali ricombinanti, ovvero all’utilizzo di linee cellulari di cane o umane; in

particolare, è stato introdotto un sistema (Soneoka Y. et al., 1995; Pear W.S. et al., 1997) che

prevede una co-trasfezione di cellule denominate HEK 293 (cellule embrionali di rene

umano).

Nello specifico, la linea cellulare HEK 293 è stata trasfettata contemporaneamente con tre

vettori di espressione: un plasmide recante i geni gag-pol del retrovirus della leucemia

murina (MoMLV), un plasmide recante il gene VSV-G del virus della stomatite vescicolare

ed infine, i vettori retrovirali ricombinanti allestiti nell’ambito di questo progetto

(pDONdelta-PSMA6-EGFP, pDONdelta-PSMB2-EGFP), in cui sono presenti le sequenze

proteasomali di interesse in associazione a quella per la proteina fluorescente EGFP o, in

alternativa, la sola sequenza relativa alla proteina EGFP (pDONdelta-EGFP). Tale sistema

ha consentito la produzione di particelle retrovirali con titoli pari a 1x10x5 ufc/ml. .

La scelta del modello cellulare permissivo all’infezione da citomegalovirus umano è

caduta sulla linea cellulare MRC5-hTERT; in particolare, si tratta di fibroblasti di polmone

embrionale umano immortalizzati, del tutto analoghi, quanto a recettività all’infezione da

6. Risultati

-142-

HCMV, alle corrispondenti cellule non immortalizzate (MRC5) (McSherry B.P. et al.,

2001). Il vantaggio strategico è stato quello di potere utilizzare MRC5-hTERT per ottenere

popolazioni di cellule che esprimessero le proteine di fusione di interesse, potendole

conservare, potenzialmente, per periodi di tempo illimitati e superando così l’ostacolo

legato al potenziale di vita finito dei fibroblasti MRC5.

La linea cellulare MRC5-hTERT è stata infettata con le sospensioni virali PSMA6-EGFP/rv

e PSMB2-EGFP/rv, al fine di selezionare e ottenere popolazioni di cellule MRC5-hTERT

che esprimessero stabilmente le proteine di fusione costituite dalle sequenze proteasomali

oggetto di questo studio e, al contempo, la proteina EGFP. Come controllo, sono state

ottenute anche popolazioni di cellule MRC5-hTERT in grado di esprimere la sola proteina

fluorescente verde EGFP.

L’analisi mediante microscopia confocale delle suddette popolazioni cellulari [Figura 28,

pannelli A], a confronto con la distribuzione dei proteasomi ottenuta nelle stesse cellule

(non ingegnerizzate con le proteine di fusione sopra menzionate), attraverso una reazione

di immunofluorescenza con anticorpi policlonali diretti contro diverse subunità del

complesso 20S [Figura 28, pannelli B], mostra, in entrambi i casi, una distribuzione sia

citoplasmatica che nucleare dei proteasomi, anche se nettamente a favore del distretto

nucleare, spesso accentrata in regioni di accumulo che si estrinsecano sotto forma di

granuli brillanti. In entrambi i casi (cellule ingegnerizzate e non), il nucleolo risulta

escluso dalla distribuzione proteasomale nucleare, come chiaramente dimostrato dalle

immagini di Figura 28, corrispondenti ad una singola sezione focale, che passa attraverso

la parte centrale dei nucleoli.

Questa ultima serie di dati, sebbene preliminare, sembra attestare, in assenza di infezione

da citomegalovirus, la bontà degli strumenti molecolari messi a punto e suggerisce quindi

il potenziale impiego delle suddette popolazioni cellulari per studi futuri di cinetica,

nell’ambito del ciclo replicativo litico da HCMV in cellule viventi.

6. Risultati

-143-

MRC5-hTERT-PSMA6-EGFP

MRC5-hTERT-PSMB2-EGFP

A

MRC5-hTERT

B

Figura 28: Analisi mediante microscopia confocale dell’espressione della proteina di fusione “PSMB2-EGFP” e “PSMA6-EGFP” (pannelli A; le figure sulla destra rappresentano, a più alto ingrandimento, sottoregioni indicate nel riquadro delle immagini a sinistra), in fibroblasti umani MRC5-hTERT non infettati da citomegalovirus (l’introduzione delle rispettive proteine di fusione in tali cellule è stato ottenuto attraverso l’infezione delle stesse con retrovirus defettivi ricombinanti). Il profilo di distribuzione proteasomale nelle suddette popolazioni cellulari è messo

6. Risultati

-144-

a confronto con quello osservato nella stessa tipologia di cellula non ingegnerizzata per l’espressione delle proteine di fusione in oggetto (pannelli B). Le figure mostrano un solo piano focale, che passa attraverso la parte centrale dei nucleoli. Pannelli B: la reazione in immunofluorescenza è stata eseguita mediante l’impiego di un anticorpo policlonale diretto nei confronti di diverse subunità del complesso proteasomale 20S. Anche in questo caso, la figura sulla destra rappresenta, a più alto ingrandimento, una sottoregione indicata nel riquadro dell’immagine a sinistra.

7. Discussione

7. DISCUSSIONE

7. Discussione

-146-

Il lavoro sperimentale oggetto di questo studio nasce da un’interessante problematica

scientifica volta a mettere in luce la partecipazione dei proteasomi, complessi molecolari

di grande rilievo nell’ambito dell’economia cellulare, nel controllo di processi cruciali per

la cellula, non solo in condizioni fisiologiche, ma anche in corso di infezione virale.

Numerosi dati di letteratura depongono per una diretta partecipazione dei proteasomi

nella regolazione di diversi eventi cellulari, quali la trascrizione, l’apoptosi e la corretta

progressione del ciclo cellulare (Orlowski R.Z., 1999; Grimm L.M. and Osborne B.A., 2000;

Mann C. and Hilt W., 2000, Yew P.R., 2001; Naujokat C. and Hoffmann S., 2002); in

particolare, tali complessi molecolari agirebbero modulando e scandendo il “turnover”

proteico, attraverso una selettiva e puntuale ricognizione delle proteine marcate con

molecole di ubiquitina. I proteasomi sarebbero, inoltre, direttamente implicati in processi

di attivazione/repressione di specifici fattori di trascrizione, come anche nella produzione

di peptidi antigenici in grado di associarsi al complesso maggiore di istocompatibilità di

tipo I (Rock K.L. et al., 1994; Groettrup M. et al., 2001b; Kloetzel P.M., 2001). Il processo di

degradazione proteica ubiquitina-dipendente non rende comunque ragione del complesso

ruolo svolto dai proteasomi; tali particelle, inizialmente osservate come subcomplessi di

ribonucleoproteine non tradotte (Schmid H.P. et al., 1984), sembrano, infatti, essere

implicate in importanti funzioni regolatorie per la cellula, non solo in termini di

catabolismo inteso in senso stretto, ma piuttosto di omeostasi proteica, la cui realizzazione

è di fondamentale rilievo soprattutto nel corso di situazioni altamente “dinamiche”, quali,

ad esempio, il differenziamento cellulare e l’infezione virale (Fagan J.M. et al., 1997;

Kitzmann M. and Fernandez A., 2001; Everett R.D. et al., 1998; Gonzalez S.L. et al., 2001;

Berezutskaya E. et al., 1997; Boyer S.N. et al., 1996; Jones D.L. and Münger K., 1997;

Reinstein E. et al., 2000; Kalejta R.F. and Shenk T., 2002). In diretto riferimento a

quest’ultima condizione, in realtà, rimangono ancora aperte e del tutto incomplete le

conoscenze volte a delucidare le modalità di intervento dei proteasomi in eventi che

comportano una cospicua alterazione del normale equilibrio omeostatico cellulare,

provocando, di conseguenza, una decisa e marcata rimodulazione quali/quantitativa di

diverse componenti molecolari.

In correlazione alla complessa problematica scientifica sopra enunciata, ossia allo scopo di

cercare di appurare ulteriormente l’eventuale partecipazione di specifici proteasomi in

eventi ritenuti cruciali per la cellula, nell’ambito di tale lavoro sperimentale sono stati

impiegati due distinti modelli di riferimento, rappresentati, rispettivamente, da cellule

muscolari di ratto, impiegate allo scopo di effettuare studi sul differenziamento cellulare,

7. Discussione

-147-

e da cellule fibroblastiche umane, utilizzate, invece, per lo studio dell’infezione virale in

vitro da parte di uno stipite umano di citomegalovirus.

In riferimento al primo modello di studio proposto, alcuni dati ottenuti in precedenza dal

nostro gruppo di ricerca (De Conto F. et al., 1997), come anche dal gruppo di ricerca

diretto dal Prof. Jean Foucrier (Foucrier J. et al., 1999), avevano consentito di appurare la

presenza di specifici proteasomi (20S) in cellule muscolari di topo (mioblasti) e in colture

primarie di cellule satelliti di ratto coltivate in vitro. Tali complessi molecolari erano stati

evidenziati impiegando, allo scopo, sonde immunologiche dirette nei confronti di

specifiche subunità proteasomali; inoltre, le osservazioni morfologiche ottenute erano

state successivamente avvalorate dall’esito di studi biochimici che avevano consentito di

mettere in luce l’assenza di subunità proteasomali libere; pertanto, la localizzazione

evidenziata per le proteine esaminate poteva riferirsi direttamente a quella delle

corrispondenti particelle proteasomali includenti tali subunità. L’analisi dei risultati

ottenuti aveva, in particolare, consentito di evidenziare una caratteristica e peculiare

distribuzione dei proteasomi, sia a livello del nucleo che del citoplasma, con una

localizzazione strettamente correlabile allo specifico stadio di differenziamento muscolare

raggiunto ed al tipo di subunità proteasomale esaminata, partendo in ogni caso dallo

stadio iniziale di riferimento, rappresentato da cellule mioblastiche, per giungere poi alla

valutazione di uno stadio più avanzato di differenziamento, rappresentato dalla fusione

delle stesse cellule in miotubi. Nello specifico, tali studi avevano evidenziato che, se nei

mioblasti di topo la localizzazione di specifici proteasomi appare di tipo prevalentemente

citoplasmatico, seppure con un eventuale marcaggio transiente della regione nucleare,

durante la fase di fusione dei mioblasti la distribuzione di specifiche subunità

proteasomali torna inizialmente ad essere appannaggio del nucleo, per poi stabilizzarsi

definitivamente nel citoplasma, dove si esprime con un caratteristico profilo puntiforme e

dove risulta parzialmente sovrapponibile, in particolare, alla distribuzione dei

microfilamenti di actina (De Conto F. et al., 1997; Foucrier J. et al., 1999).

Nei miotubi di colture primarie di cellule satelliti di ratto (queste ultime in grado di

raggiungere uno stadio più elevato di differenziamento muscolare), i proteasomi si

dispongono secondo una caratteristica distribuzione che “mima” l’assetto sarcomerico,

ossia presentano un’organizzazione che precorre la formazione di una struttura

sarcomerica ben definita (Foucrier J. et al., 1999). Tale organizzazione proteasomale è stata

successivamente osservata anche in sezioni longitudinali di tessuto muscolare scheletrico

7. Discussione

-148-

e in colture primarie di cardiomiociti ventricolari di ratto. Infine, tali dati sono stati

ulteriormente avvalorati dal rilevamento di un’analoga distribuzione del profilo proteico

proteasomale in cellule muscolari lisce dell’aorta di ratto, nonostante, in quest’ultima

tipologia di cellule, non si arrivi, se non raramente, ad osservare la formazione di una

struttura sarcomerica completamente funzionale, dal momento che la miogenesi si arresta

in una fase assai precoce (Foucrier J. et al., 2001).

La localizzazione intracellulare dei proteasomi costituisce, a tutt’oggi, un interessante e

vivace elemento di discussione e di dibattito, dal momento che tali particelle sono state

rinvenute sia a livello nucleare che citoplasmatico in diversi modelli cellulari (Rivett A.J. et

al., 1998) e, in entrambi i casi, erano presenti quale componente molecolare libera (Reits

E.A.J. et al., 1997; Groothuis T.A.M. and Reits E.A.J., 2005), oppure direttamente associati a

specifici elementi cellulari, in particolar modo a filamenti del citoscheletro (Olink-Coux M.

et al., 1994; Arcangeletti M.C. et al., 2000; Arcangeletti M.C. et al., 1997). In aggiunta a tali

considerazioni, questi ed altri studi hanno posto l’accento sul fatto che la localizzazione

dei proteasomi non sembrerebbe essere di natura statica, bensì sono state evidenziate

diverse possibilità di scambio e di veicolazione di tali complessi tra i compartimenti

nucleare e citoplasmatico, rispettivamente (Reits E.A.J. et al., 1997; De Conto F. et al., 1997,

Foucrier J. et al., 1999; Groothuis T.A.M. and Reits E.A.J., 2005).

Nello specifico, l’implicazione dei proteasomi in corso di differenziamento cellulare è

stata, ad esempio, avvalorata da diversi studi che ne hanno messo in luce il possibile ruolo

svolto non solo nel corso della miogenesi, ma anche in altri modelli cellulari di

riferimento. Così, ad esempio, alcuni Autori hanno valutato il ruolo svolto da tali

complessi molecolari nell’elaborazione di molecole segnale nel corso della morfogenesi

del tessuto osseo, soprattutto in riferimento a particolari categorie di proteine prodotte

dagli osteoblasti; in tale studio, è stata evidenziata l’importanza dell’attività proteasomale

che, in concomitanza e in diretta associazione allo svolgersi di altre reazioni enzimatiche

parallele, consentirebbe una costante azione di controllo sulla genesi tissutale (Zhao M. et

al., 2004). Altri dati di letteratura emersi recentemente hanno posto, invece, l’accento

sull’interazione che intercorre tra la proteina “proline-rich homeodomain protein/Hex”

(PHR), che sembrerebbe svolgere un ruolo di rilievo nel controllo della proliferazione e

del differenziamento cellulare reprimendo la trascrizione, e specifici complessi

proteasomali. Tale associazione si è resa funzionale, in particolar modo, in cellule

ematopoietiche, dove la degradazione proteica mediata dai proteasomi favorirebbe la

produzione di molecole di PHR modificate strutturalmente rispetto alla loro morfologia

7. Discussione

-149-

originaria; tali modificazioni non comprometterebbero in alcun modo la capacità di PHR

di legarsi al DNA e consentirebbero una modulazione delle funzioni codificanti

soprattutto in corso di differenziamento cellulare (Bess K.L. et al., 2003).

L’interpretazione del possibile ruolo svolto dai proteasomi in corso di differenziamento

muscolare non può prescindere, peraltro, dall’esistenza di un rigoroso e assai complesso

programma di regolazione dell’espressione genica, nell’ambito del quale risultano

direttamente coinvolti diversi fattori di regolazione miogenica, afferenti alla famiglia

bHLM quale per esempio la molecola MyoD, che funge da attivatore trascrizionale in

grado di interagire direttamente con il DNA cellulare (Davis R.L. et al., 1987), e, in una

fase più tardiva, altre molecole, tra le quali miogenina.

La fibra muscolare scheletrica matura è, inoltre, contraddistinta da un’organizzazione

strutturale assai complessa, derivante dall’accumulo progressivo di specifici elementi

citoscheletrici, dal momento che le miofibrille, che sono in grado di rimanere ancorate

nella loro posizione grazie alla presenza di una ricca rete di fibre di desmina, appaiono

costituite quasi integralmente da elementi contrattili, rappresentati principalmente dalle

proteine actina e miosina.

In letteratura sono state riportate alcune indicazioni relative alla capacità, mostrata da

numerosi enzimi, di interagire direttamente con il citoscheletro, specialmente nel tessuto

muscolare; tali interazioni, che sarebbero generalmente di natura sito-specifica,

soprattutto per quanto concerne funzioni enzimatiche deputate ad attività di tipo

metabolico (Suarez R.K., 2003), sono state evidenziate in misura maggiore in corso di

degradazione della struttura della fibra muscolare; d’altra parte, rimangono a tutt’oggi

ancora carenti, o comunque in parte confuse e discordanti tra loro, le nozioni circa la

specifica localizzazione dei proteasomi nel muscolo scheletrico maturo.

Vale la pena sottolineare, a tale proposito, che esiste ormai un nutrito filone di letteratura

che avvalora la nozione di spazio, anche nell’ambito degli studi di funzioni cellulari, sia in

condizioni fisiologiche che patologiche. In altre parole, il nucleo ed il citoplasma sono

articolati in una serie di compartimenti con precise collocazioni spaziali e funzionali, nei

quali l’aggregazione delle molecole deputate ad una specifica funzione si verifica in

maniera estremamente dinamica in risposta a specifici segnali di attivazione. Di

conseguenza, la nozione spaziale assumerebbe un’importanza analoga a quella della

funzione stessa, che non potrebbe espletarsi al di fuori di quel preciso distretto.

Sulla base di tali premesse, la ricerca in oggetto si è posta l’obiettivo iniziale di

approfondire i risultati precedentemente ottenuti dal nostro gruppo e da quello del Prof.

7. Discussione

-150-

Jean Foucrier, in particolar modo andando a valutare, in maniera più puntuale, la

localizzazione di specifici proteasomi nell’ambito della struttura sarcomerica del muscolo

scheletrico di ratto.

Un secondo, rilevante aspetto che, in maniera innovativa, ci si è proposti di sviluppare

nello studio condotto, riguarda la messa a punto di strumenti molecolari atti a permettere

l’espressione transiente o stabile di specifici proteasomi, accoppiata a quella di molecole

fluorescenti, nei modelli cellulari prescelti, nella consapevolezza del loro potenziale

utilizzo, in un’ottica futura, per studi morfologici, così come a valenza funzionale, su

cellule viventi.

L’impiego di marcatori diretti nei confronti di alcune subunità del complesso

proteasomale 20S, denominate α1/p27K e α3/p29K, nei modelli di cellule muscolari di

ratto utilizzati, ha consentito di evidenziare la distribuzione intracellulare dei

corrispondenti complessi proteasomali e di valutare se questa potesse, in qualche modo,

essere “regolata” dalla presenza di alcune componenti costitutive facenti parte della

struttura sarcomerica delle miofibrille. A diretto sostegno di tale ipotesi sperimentale e

come già accennato precedentemente, esistono numerosi dati di letteratura secondo i

quali i proteasomi non devono essere considerati come complessi proteici solubili, liberi

nel citoplasma, ma bensì associati a specifiche strutture cellulari (Arcangeletti M.C. et al.,

1997; Arcangeletti M.C. et al., 2000; Rivett A.J. et al., 2001); diversi Autori sembrano

concordi nell’affermare che, fatta eccezione per la subunità α5, tutte le altre subunità

proteiche proteasomali sono sempre state rilevate in associazione al complesso 20S

(Schmidtke G. et al., 1997; Jorgensen L. and Hendil K.B., 1999).

In particolare, per quanto attiene a questa prima parte dello studio, incentrata sulla

localizzazione proteasomale ed effettuata su sezioni sottili di muscolo scheletrico di ratto

(Bassaglia Y. et al., 2005) essa ha preso in considerazione, quali elementi strutturali di

riferimento per individuare l’organizzazione della struttura sarcomerica, le proteine:

titina, desmina e miosina. Relativamente a titina, che è stata evidenziata impiegando

un’anticorpo “anti-PEVK”, in grado di riconoscere la porzione di molecola adiacente alla

zona intermedia della banda I, è stato osservato che, in sarcomeri in stato di contrazione,

titina appare localizzata a livello della linea Z; d’altra parte, in sarcomeri in stato di

estensione, il profilo della proteina evolve ad una doppia banda, presente in prossimità

dell’interfaccia tra le bande A ed I. Parzialmente diversificato, rispetto a quello di titina,

appare il profilo di distribuzione dei proteasomi, malgrado anch’esso, come quello della

suddetta proteina sarcomerica, sia direttamente correlabile al grado di

7. Discussione

-151-

estensione/contrazione del sarcomero, suggerendo, pertanto, un’associazione stabile di

tali complessi molecolari a determinate componenti strutturali del sarcomero. Più

precisamente, il segnale di fluorescenza relativo alla subunità α1/p27K è stato osservato

sottoforma di una singola banda a livello della linea M in sarcomeri in stato di

contrazione, mentre, in sarcomeri in stato intermedio di estensione, sono state evidenziate

due bande proteasomali distinte, localizzate in prossimità della banda A; in condizioni di

massima estensione della fibra muscolare si è, infine, resa evidente una colocalizzazione

con la regione PEVK della molecola di titina. Sembra evidente potere concludere che,

malgrado tali dati supportino la nozione di localizzazione dei proteasomi a livello della

banda I, in condizioni di sarcomero disteso, evidenziata dalla sovrapposizione con titina,

è poco probabile che quest’ultima rappresenti il sito di legame ed, eventualmente, di

interazione molecolare con i proteasomi, dal momento che i profili di distribuzione di

questi due complessi proteici (proteasomi e titina) si sfasano in condizioni di sarcomero

contratto (linee M e Z, rispettivamente).

Gli esperimenti effettuati hanno, inoltre, permesso di escludere un’interazione dei

proteasomi con desmina, che risulta localizzata a livello della linea Z, come anche con

miosina, presente, invece, nella banda A. Per quanto concerne miosina, è importante

sottolineare che la sua localizzazione nell’ambito della struttura sarcomerica non varia

durante la contrazione e l’allungamento del sarcomero, a differenza di quanto riscontrato

invece per i proteasomi.

Le fasi successive della ricerca, supportate anche da studi di immunoelettromicroscopia,

hanno consentito di appurare la colocalizzazione della subunità α1/p27K con i

microfilamenti di actina; più precisamente, in condizioni di riposo, la subunità α1/p27K si

localizza a livello delle due estremità a polarità negativa dei microfilamenti di actina

presenti nel sarcomero, assumendo, pertanto, un assetto a due bande distinte; al contrario,

quando il sarcomero è in stato di contrazione, le estremità negative dei filamenti di actina

si sovrappongono in prossimità della linea M, dando ragione del fatto che la subunità

α1/p27K del proteasoma, ad esse ancorata, si appaia sottoforma di una singola banda.

Le osservazioni sopra riportate sono state successivamente confermate mediante

l’impiego di preparati di miofibrille allestiti in vitro a partire da muscoli di ratto, previa

rimozione della membrana plasmatica e sulla base di uno specifico protocollo operativo,

in grado di preservare le componenti costitutive delle miofibrille (Zhukarev V. et al.,

1997). Dato rilevante, in tali condizioni sperimentali, è che, oltre ai componenti costitutivi

del sarcomero, anche la subunità α1/p27K del proteasoma 20S continuava ad essere

7. Discussione

-152-

presente, suggerendo, pertanto, che i proteasomi siano stabilmente associati a componenti

della struttura sarcomerica (Bassaglia Y. et al. 2005). La messa in evidenza di tale

interazione rafforza ulteriormente quanto osservato in sezioni sottili di muscoli scheletrici

di ratto, del resto più direttamente riconducibili alla situazione riscontrabile in vivo, e

consente anche di escludere la possibile implicazione di eventi artefattuali, imputabili alla

particolare procedura sperimentale adottata per l’isolamento delle miofibrille.

I preparati di miofibrille sono stati, inoltre, utilizzati per definire meglio, sulla base di

rigorose valutazioni di tipo matematico, la localizzazione delle bande relative alla

subunità α1/p27K. I dati ottenuti hanno consentito di affermare che la subunità α1/p27K

è, in realtà, localizzata in corrispondenza della regione centrale dei microfilamenti

nell’ambito di un sarcomero, piuttosto che in corrispondenza della loro estremità

negativa. Tali dati sono stati supportati anche da studi effettuati su preparati di miofibrille

precedentemente trattati con gelsolina, sostanza in grado di rimuovere l’actina; i risultati

ottenuti hanno consentito di rilevare una cospicua diminuzione del segnale di

fluorescenza corrispondente alla subunità proteasomale oggetto di studio, ad ulteriore

sostegno dell’ipotesi relativa alla partecipazione di actina e, probabilmente, anche di altri

elementi citoscheletrici ad essa strettamente correlati (es. nebulina), nel determinare la

localizzazione di specifici proteasomi a livello della struttura sarcomerica.

L’associazione di specifiche subunità proteasomali con actina potrebbe rendere ragione

del fatto che tali particelle siano direttamente implicate nell’omeostasi proteica muscolare,

senza peraltro essere causa di un iniziale disassemblamento della struttura miofibrillare

(Solomon V. and Goldberg A.L., 1996; Eble D.M. et al., 1999). Del resto, non è possibile

escludere anche l’eventuale partecipazione di altri meccanismi proteolitici cellulari di tipo

non-lisosomiale, quale, ad esempio, la degradazione proteica calcio-dipendente mediata

da calpaina, che potrebbero concorrere, in concomitanza con i proteasomi, ad una corretta

morfogenesi del tessuto muscolare (Belcastro A.N. et al., 1998; Williams A.B. et al., 1999).

Tuttavia, il significato della colocalizzazione e di una eventuale associazione molecolare

tra proteasomi e microfilamenti, sistema citoscheletrico altamente dinamico ed implicato

non solo nello svolgimento di funzioni strutturali all’interno della cellula, ma anche

responsabile della specifica localizzazione citoplasmatica dei ribosomi e, pertanto,

dell’apparato di sintesi proteica (Hesketh J., 1994; Percipalle P. et al., 2001; Klyachko N.L.

et al., 2003), rimane a tutt’oggi oggetto di un’ampia gamma di interpretazioni che

evidenziano, comunque, l’importanza di effettuare ulteriori indagini sperimentali allo

scopo di approfondire, in primo luogo, la valenza funzionale dell’interazione riscontrata,

7. Discussione

-153-

soprattutto a livello molecolare. A tale riguardo, è importante sottolineare di nuovo, in

questa sede, come l’uscita dal ciclo cellulare da parte delle cellule mioblastiche coincida

con l’inizio del processo di differenziamento ed induca significative alterazioni a carico

del profilo delle proteine cellulari, comportando inoltre la comparsa di nuove molecole

(Moran J.L. et al., 2002; Tomczak K.K. et al., 2004); è pertanto ragionevole supporre che tale

stadio venga raggiunto non solo tramite un’intensa attività proteolitica, effettuata

principalmente da sistemi di tipo non-lisosomiale, tra cui, principalmente, i proteasomi,

ma anche mediante una cospicua riprogrammazione genica, allo scopo di promuovere la

sintesi di specifici mRNA richiesti dal processo di differenziamento cellulare in atto.

Come già anticipato, in una fase successiva della ricerca ci si è proposti di allestire

strumenti molecolari idonei, prospetticamente, allo studio della distribuzione dinamica

dei proteasomi durante il processo di differenziamento muscolare in cellule viventi, anche

ovviando alle possibili aberrazioni a volte indotte dall’impiego di preparati fissati.

Allo scopo, alcune sequenze geniche codificanti per specifiche subunità proteasomali sono

state fuse con sequenze codificanti per proteine fluorescenti naturali, quali la proteina

fluorescente verde (GFP, variante EGFP) o, alternativamente, la proteina fluorescente

rossa (DsRed, variante DsRed1).

L’utilizzo della proteina GFP rappresenta uno dei sistemi più diffusi per marcare proteine

cellulari, dal momento che i costrutti ottenuti possono essere espressi come proteine di

fusione, dopo opportuna trasfezione delle stesse nel modello cellulare oggetto di studio

(Zhang J. et al., 2002; Miyawaki A. et al., 2003). L’osservazione della fluorescenza emessa

dalla proteina GFP tende a riflettere, di conseguenza, la localizzazione intracellulare della

proteina presa in esame e può anche fornire importanti informazioni addizionali

riguardanti, ad esempio, i livelli di espressione del gene che l’ha codificata. Inoltre, i

cambiamenti di localizzazione intracellulare del segnale di fluorescenza riscontrato

possono essere considerati un importante indicatore della mobilità dei corrispondenti

complessi proteici marcati, sia qualora questi risultino strettamente confinati all’interno di

specifici compartimenti cellulari, come ad esempio il nucleo, sia qualora risultino in grado

di essere veicolati tra differenti compartimenti cellulari.

Alcuni interessanti dati di letteratura (Reits E.A.J. et al., 1997), ottenuti previo marcaggio

della subunità β5i dell’immunoproteasoma 20S con la proteina fluorescente GFP, al fine di

valutare se nel modello cellulare esaminato i complessi proteasomali contenenti la

proteina di fusione occupassero distretti cellulari ben determinati o, in alternativa, fossero

in grado di diffondere liberamente all’interno del compartimento citoplasmatico e/o

7. Discussione

-154-

nucleare, hanno evidenziato che tale tipologia di proteasomi è in grado di diffondere

lentamente, con un flusso unidirezionale, dal compartimento citoplasmatico verso quello

nucleare, mentre, durante la divisione cellulare, nel momento in cui la membrana

nucleare si disaggrega, i proteasomi sono liberi di diffondere nel compartimento

citoplasmatico, senza incontrare barriere selettive di alcun tipo. Una volta che la divisione

cellulare ha avuto termine, in seguito a ricostituzione delle membrane nucleari, si assiste

nuovamente ad un rallentamento del processo di diffusione dei proteasomi tra i diversi

compartimenti cellulari.

Un altro lavoro sperimentale, strettamente correlato al precedente, si riferisce invece allo

studio della localizzazione del complesso proteasomale 20S in cellule di lievito,

utilizzando, quali elementi di riferimento, le subunità α, o, in alternativa, componenti del

complesso regolatore 19S (Enenkel C. et al., 1998; Wilkinson C.R. et al., 1998). Inoltre, sono

anche stati effettuati studi atti ad approfondire le conoscenze riguardanti lo svolgimento

dei complessi meccanismi di ubiquitinizzazione delle proteine, marcando direttamente le

molecole di ubiquitina con la proteina GFP e valutandone le successive interazioni con i

complessi proteasomali (Varshavsky A., 2000; Qian S.B. et al., 2002).

Per consentire l’allestimento ottimale degli strumenti molecolari sopra menzionati, sono

state selezionate, quale oggetto di studio, le subunità α1/p27k e β4/p23k del proteasoma

20S, dal momento che tali proteine erano già state oggetto di studi di localizzazione dei

proteasomi (De Conto F. et al., 1997; Foucrier J. et al., 1999; De Conto F. et al., 2000;

Foucrier J. et al., 2001; Bassaglia Y. et al., 2005). Una volta sintetizzate le sequenze relative

alle subunità proteasomali sopra menzionate, queste sono state clonate in opportuni

vettori di espressione contenenti anche le sequenze codificanti per la proteina fluorescente

GFP o, alternativamente, per DsRed. Le fasi successive della ricerca hanno avuto, come

scopo iniziale, quello di verificare, attraverso differenti metodi impiegati in parallelo, la

bontà e la funzionalità delle proteine di fusione ottenute, eseguendo, allo scopo,

esperimenti di trasfezione in due distinti modelli cellulari di riferimento (cellule CHO e

linea mioblastica C2.7) ed ottenendo cellule che esprimevano transitoriamente o

stabilmente le proteine di fusione di interesse. Nell’uno e nell’altro caso, è stato analizzato

il profilo proteico di estratti ottenuti dalle suddette cellule, allo scopo di verificare

l’effettiva presenza dei prodotti proteici attesi.

In una fase successiva della ricerca, a partire da estratti citoplasmatici e nucleari, ottenuti

da specifici cloni cellulari (selezionati in quanto rappresentativi dell’espressione stabile

delle suddette proteine di fusione), è stato possibile dimostrare, utilizzando metodi di tipo

7. Discussione

-155-

biochimico, che le proteine di fusione α1/p27k-EGFP e β4/p23k-EGFP venivano

immediatamente utilizzate per la formazione di nuovi complessi proteasomali e, pertanto,

non sussistevano a livello intracellulare quali subunità molecolari libere.

Al fine di ottenere strumenti molecolari più “duttili” ed a maggiore concentrazione

rispetto a quelli utilizzati per i precedenti esperimenti di trasfezione, le sequenze

codificanti per le proteine di fusione α1/p27k-EGFP e β4/p23k-EGFP e, alternativamente,

la sequenza codificante per la sola proteina EGFP sono state clonate in un vettore

commerciale retrovirale, realizzato a partire da sequenze del virus della leucemia murina

di Moloney. I retrovirus offrono l’indubbio vantaggio di poter trasportare quantità

considerevoli di DNA eterologo e di garantirne un’espressione a lungo termine, in virtù

della loro capacità di integrarsi nel genoma della cellula ospite.

Inizialmente i vettori retrovirali ottenuti sono stati utilizzati per eseguire esperimenti di

trasfezione della linea cellulare Bosc-23, allo scopo di consentire la produzione di

particelle retrovirali defettive, contenenti i costrutti di interesse (PSMA6-EGFP/rv,

PSMB2-EGFP/rv, EGFP/rv e nlsLacZ/rv); tali particelle virali sono in grado di infettare

esclusivamente cellule di ratto e di topo (spettro d’ospite ecotropico).

Le sospensioni virali PSMA6-EGFP/rv, PSMB2-EGFP/rv e EGFP/rv sono state in seguito

utilizzate per eseguire infezioni della linea cellulare miogenica di topo C2.7; dopo

opportuna selezione, sono state ottenute popolazioni di cellule C2.7 in grado di esprimere

stabilmente le sequenze geniche codificanti per le proteine di fusione α1/p27k-EGFP e

β4/p23k-EGFP o, alternativamente, per la sola proteina EGFP. A partire da queste

popolazioni sono stati ottenuti estratti proteici, impiegati poi al fine di dimostrare la

presenza delle proteine di fusione in stato integrato a livello di proteasomi 20S.

In parallelo, tali costrutti molecolari sono stati valutati anche dal punto di vista della

funzione enzimatica, che può essere espletata previa incorporazione delle suddette

proteine di fusione (trasportate dai vettori retrovirali) nei complessi proteasomali 20S e

26S; anche questa serie di esperimenti ha dato risultati più che soddisfacenti,

confermando la presenza di attività proteolitica nei complessi proteasomali che

includevano le proteine di fusione in oggetto, nell’ambito dei modelli cellulari prescelti.

Come già più volte sottolineato, lo svolgimento delle procedure sperimentali molto

complesse sopra descritte, è stato finalizzato alla messa a punto di strumenti molecolari

propedeutici ad effettuare osservazioni circa la distribuzione delle subunità proteasomali

nei modelli cellulari prescelti in situazioni dinamiche, quali appunto il differenziamento

muscolare.

7. Discussione

-156-

Al di là di un futuro e più ottimale utilizzo di tali strumenti in cellule viventi, a

completamento di questa fase iniziale dello studio sono state impiegate le cellule

muscolari C2.7, esaminate sia allo stadio di mioblasti che di miotubi e preventivamente

fissate. I risultati ottenuti hanno permesso di evidenziare che il segnale di fluorescenza

relativo alle proteine di fusione era presente sia nel compartimento citoplasmatico che in

quello nucleare, con intensità decisamente maggiore in quest’ultimo distretto. Inoltre, la

fluorescenza riscontrata a livello del nucleo, in alcuni casi, appariva di tipo granulare e

concentrata a livello di regioni nucleari evocanti il profilo di distribuzione di specifici

domìni, quali i PML o i siti di “splicing” dei trascritti; tale distribuzione sembrava

accentuarsi nei nuclei dei miotubi, rispetto a quelli dello stadio mioblastico. D’altra parte,

in accordo con quanto osservato precedentemente da alcuni Autori (Amsterdam A. et al.,

1993; Reits E.A.J. et al., 1997; De Conto F. et al., 2000), il segnale di fluorescenza

proteasomale era invece assente a livello delle zone nucleolari.

Complessivamente, tali risultati hanno consentito, innanzitutto, di apportare nuovi

elementi di conoscenza relativi alla distribuzione spaziale di specifici proteasomi

nell’ambito del sarcomero di cellule muscolari striate, suggerendo anche i più probabili

“partners” di interazione molecolare. Inoltre, attraverso la messa a punto di idonei

strumenti molecolari, essi costituiscono una premessa importante per cercare di

approfondire ulteriormente, attraverso studi di dinamica, le conoscenze circa il ruolo

svolto dai proteasomi in corso di differenziamento cellulare.

Il secondo modello preso in considerazione per lo studio dei proteasomi prevede

l’impiego di cellule fibroblastiche umane, utilizzate per lo studio dell’infezione virale in

vitro da parte di uno stipite umano di citomegalovirus.

Cellule che si trovano in una condizione patologica, quale quella indotta da un’infezione

virale, possono essere considerate, in analogia al precedente modello, come ugualmente

assoggettate ad una profonda riprogrammazione dell’espressione genica, in questo caso

virus-indotta, che si verifica, peraltro, in concomitanza ad importanti variazioni di assetto

morfologico della cellula, con possibili ripercussioni sulla struttura e sulla funzionalità dei

diversi compartimenti cellulari.

Come evidenziato nella sezione introduttiva, esistono diversi dati di letteratura che

depongono per un ruolo importante svolto dai proteasomi in corso di infezione virale, sia

in termini di una corretta evoluzione del ciclo replicativo virale, che di possibile

potenziamento delle difese dell’ospite nei confronti dell’infezione stessa (Everett R.D. et

7. Discussione

-157-

al., 1998; Boyer S.N. et al., 1996; Berezutskaya E. et al., 1997; Jones D.L. and Münger K.,

1997; Reinstein E. et al., 2000; Gonzalez S.L. et al., 2001; Khu Y.L. et al., 2004).

In riferimento al virus Herpes simplex di tipo 1 (HSV 1) è, ad esempio, stato appurato che la

proteina virale ICP27 è in grado di interagire con l’enzima RNA polimerasi di tipo II, allo

scopo di cooptare l’enzima stesso per favorire gli eventi connessi alla trascrizione dei geni

virali. Il trattamento di cellule con inibitori della funzione proteasomale in corso di

infezione sperimentale con HSV 1 causerebbe un incremento di particolari isoforme della

suddetta proteina virale, incapaci di interagire nuovamente con l’enzima cellulare,

causando, pertanto, un netto decremento della sintesi di proteine virali tardive, come

anche dei titoli della progenie virale neoformata. Nello specifico, gli Autori sostengono

che il ruolo dei proteasomi sarebbe rilevante soprattutto nelle fasi tardive dell’infezione

virale, quando cioè i livelli di trascrizione e di sintesi di DNA virale appaiono

notevolmente pronunciati (Dai-Ju J.Q. et al., 2006).

Un’altro lavoro sperimentale recentemente emerso (Diaz-Griffero F. et al., 2006), evidenzia

l’importanza di una rapida degradazione di fattori di restrizione specie-specifica nei

confronti di particelle retrovirali; tali molecole sarebbero altamente differenziate nei

vertebrati e presenti, generalmente, a livello citoplasmatico. Per importanza,

spiccherebbero le proteine TRIM5alpha e TRIMCyp, la cui emivita non è peraltro

superiore a 50 minuti; i corretti livelli intracellulari di tali molecole verrebbero mantenuti

grazie alla concomitante funzionalità di rapidi processi di sintesi proteica e alla successiva

degradazione di tali proteine mediata dai proteasomi.

Per quel che riguarda la ricerca in oggetto, il modello virus-cellula prescelto è

rappresentato, nello specifico, dallo stipite AD169 di citomegalovirus umano (HCMV)

nell’ambito del ciclo replicativo litico di fibroblasti polmonari umani (MRC5); in

particolare, tale studio è stato finalizzato alla comprensione del ruolo svolto dai

proteasomi nel corso delle fasi precocissime dell’infezione virale, essendo questo il

momento in cui vengono espletate le più significative funzioni di regolazione

sull’espressione genica, sia di tipo virale che cellulare.

Allo scopo, l’espressione dei prodotti maggiori dei geni precocissimi virali IE1 e IE2 è

stata inizialmente studiata in assenza o in presenza di uno specifico inibitore dei

proteasomi, denominato MG132; tale sostanza è stata utilizzata in concentrazioni non

tossiche per la cellula, pretrattando i monostrati di fibroblasti, che venivano poi infettati

per diversi tempi, prima di essere sottoposti a reazioni di immunofluorescenza volte ad

individuare le proteine virali. Si è, in tal modo, potuto osservare che il trattamento con

7. Discussione

-158-

MG132 determina una significativa riduzione dell’espressione dei geni precocissimi IE già

a tempi molto precoci di infezione (2 ore 30 minuti), convalidando pertanto l’ipotesi di un

intervento rilevante dei proteasomi nel modulare il ciclo replicativo litico di HCMV.

I risultati di tali esperimenti hanno anche messo in rilievo come l’effetto inibitorio della

sostanza sull’espressione delle proteine precocissime virali non sia della stessa entità per

tutte le cellule del monostrato (costituito, peraltro, da cellule non sincronizzate tra loro),

suggerendo perciò che un’eventuale inibizione dell’infezione virale, mediata dal blocco

dell’attività proteasomale, potesse esprimersi con differente efficacia, dipendentemente

dalla fase del ciclo cellulare in cui l’infezione virale aveva avuto inizio. Tale osservazione

non è apparsa irrilevante, dal momento che è nota e ampiamente documentata l’azione di

alterazione della normale evoluzione del ciclo cellulare, indotta da HCMV (Lu M. and

Shenk T., 1996; Dittmer D. and Mocarski E.S, 1997; Salvant B.S. et al., 1998; Sinclair J. et al.,

2000; Kalejta R.F. and Shenk T., 2002); in particolare, il virus è in grado di arrestarne

l’evoluzione a livello della transizione G1/S, condizione che si rivela maggiormente

favorevole alla sua replicazione. Verosimilmente, è possibile affermare che quest’ultima

fase del ciclo cellulare si rivela estremamente vantaggiosa per il virus, dal momento la

cellula risulta provvista degli enzimi necessari per la replicazione del genoma cellulare

che verranno, pertanto, cooptati dal virus, inducendo, in parallelo, l’inibizione della

sintesi di DNA cellulare.

La fase di studio successiva è stata pertanto focalizzata a verificare se l’attività

proteasomale potesse essere rilevante in specifiche fasi del ciclo cellulare piuttosto che in

altre, sempre nel corso di stadi molto precoci dell’infezione virale.

Allo scopo, le cellule MRC5 sono state sincronizzate mediante applicazione di un

protocollo sperimentale che prevedeva la sottrazione del siero nel terreno di

mantenimento delle colture cellulari (Morel A.P. et al., 2003; Memili E. et al., 2004); tale

condizione sperimentale veniva mantenuta per uno specifico arco temporale, in seguito al

quale il siero veniva ripristinato e le cellule venivano successivamente infettate con

citomegalovirus, a diversi tempi dopo il ripristino stesso. I tempi di infezione prescelti

coincidevano, in particolare, con l’inizio delle diverse fasi del ciclo cellulare (G1, G1/S, S,

G2/M), come puntualmente confermato mediante analisi citofluorimetrica delle colture

cellulari.

In una serie parallela di esperimenti, condotti con identiche modalità sperimentali, i

monostrati di cellule MRC5 venivano anche sottoposti a pretrattamento con MG132 per 3

ore prima dell’infezione; la sostanza veniva poi costantemente mantenuta nel terreno di

7. Discussione

-159-

coltura (data la rapida reversibilità del suo effetto), per l’intera durata dell’infezione

stessa. I dati ottenuti hanno dimostrato che, in cellule infettate e non trattate con MG132,

l’espressione nucleare delle proteine virali precocissime (IE1 e IE2) era decisamente

incrementata qualora l’infezione virale prendesse avvio nell’ambito della transizione

G1/S, come era logico attendersi per quanto precedentemente descritto a proposito

dell’azione interferente operata dal virus proprio a questo stadio. Il rilevamento delle

suddette proteine virali risultava di entità relativamente minore qualora il ciclo replicativo

virale iniziasse nella fase G1 e decisamente più esiguo in fase S ed alla transizione G2/M;

tali osservazioni sono in accordo con quanto riportato in letteratura (Fortunato E. et al.,

2002). L’intervento della funzione proteasomale nell’ambito dell’evoluzione del ciclo

replicativo di HCMV sembrava essere, a sua volta, maggiormente rilevante in fase G1 ed

alla transizione G1/S, rispetto agli altri stadi del ciclo replicativo considerati, come

dimostrato dalla serie di dati ottenuti in presenza dell’inibitore MG132.

Al fine di evidenziare la distribuzione intracellulare di specifiche subunità proteasomali,

relativamente a quella di proteine precocissime di HCMV, è stato successivamente

effettuato uno studio in microscopia confocale su singole sezioni focali di cellule MRC5,

precedentemente infettate per due ore e mezzo con citomegalovirus e poi fissate e

sottoposte ad una reazione di immunofluorescenza, impiegando sonde dirette nei

confronti di alcune subunità del complesso proteasomale 20S e dei prodotti principali dei

geni virali precocissimi.

I risultati ottenuti hanno evidenziato che i proteasomi si localizzano principalmente a

livello nucleare a tempi precocissimi dopo l’infezione virale, con accumulo anche nella

regione nucleolare di un numero significativo di cellule infettate, a differenza di quanto

riportato in letteratura per diverse tipologie di cellule in condizioni fisiologiche, in cui i

proteasomi sembrano invece essere localizzati nel citoplasma ed in differenti

compartimenti nucleari, ad eccezione del nucleolo (Reits E.A.J. et al., 1997; Groothuis

T.A.M. and Reits E.A.J., 2005). Tuttavia, in letteratura sono anche stati riportati esempi

particolari in cui viene invece descritta una precipua localizzazione nucleolare dei

proteasomi, come ad esempio, in condizioni di aumento della sintesi della proteina Myc

(Arabi A. et al., 2003), o qualora si verifichi un’alterata localizzazione delle proteine

nucleari integrate nei complessi PML (Mattson K. et al., 2001).

Per quel che riguarda, nello specifico, i risultati conseguiti in questo studio, l’analisi al

microscopio confocale di singole sezioni di nuclei di cellule MRC5 infettate con HCMV ha

consentito di dimostrare non solo la presenza di proteasomi a livello nucleolare, ma anche

7. Discussione

-160-

l’esistenza di una chiara colocalizzazione tra le proteine virali precocissime considerate ed

i proteasomi, spesso evidenziabili con una distribuzione peculiare in assetto “granulare”,

probabilmente riconducibile ad un accumulo di diversi complessi proteasomali che, a

volte, risultavano presenti anche in aree peri-nucleolari.

La distribuzione nucleolare dei proteasomi in corso di infezione sperimentale da HCMV,

come anche la loro associazione con i prodotti maggiori dei geni precocissimi, sottolinea e

pone nuovamente l’accento sul ruolo di spicco di questi complessi molecolari nell’ambito

del ciclo litico di HCMV. La dislocazione dei proteasomi in aree nucleari, quali i nucleoli,

non occupate da tali complessi in condizioni cellulari fisiologiche, indica chiaramente

come tali distretti cellulari rappresentino importanti siti in cui, presumibilmente, si

svolgono funzioni rilevanti per il virus nell’ambito del suo ciclo replicativo.

Per quanto riguarda l’associazione di proteine di HCMV a domìni funzionali nucleari è

stato dimostrato, in particolare, che la fosfoproteina pp65, il maggiore componente del

tegumento di HCMV possiede segnali di localizzazione nucleare, che permettono la sua

traslocazione veloce verso il nucleo. L’accentuato tropismo nucleare di pp65 a tempi

precocissimi dopo l’infezione, unitamente ad una dimostrata attività protein-chinasica, la

rendono candidata ideale quale fattore di regolazione dell’espressione genica virale

(Gallina A. et al., 1999). Dati pubblicati dal nostro gruppo hanno messo inoltre in evidenza

un significativo accumulo della proteina pp65 a livello nucleolare, visibile già entro la

prima ora di infezione per il virus “parentale”, come anche dopo venti ore, per quello

neoformato (Arcangeletti M.C. et al., 2003).

È in effetti noto come il nucleolo costituisca un compartimento nucleare altamente

specializzato, sede dei geni per l’RNA ribosomiale, di fattori di trascrizione e maturazione

del suddetto RNA, come anche di complessi molecolari adibiti al trasporto dello stesso

verso le sedi citoplasmatiche, attraverso proteine “navetta”, che possono traslocare da e

verso il nucleolo; in esso si distinguono tre regioni, dotate di diversa specializzazione

funzionale (Strouboulis J. and Wolffe A.P., 1996). Dati di letteratura descrivono un suo

coinvolgimento nella maturazione e nel trasporto di alcuni mRNA (Schneiter R. et al.,

1995) e tRNA (Bertrand E. et al., 1998), e in numerose altre funzioni, come la stessa

regolazione del ciclo cellulare (Visintin R. and Amos A., 2000; Carmo-Fonseca M. et al.,

2000). È stato inoltre ipotizzato che, oltre a svolgere tali funzioni, il nucleolo possa

rappresentare uno dei siti di elezione per la regolazione della trascrizione virale (il

distretto perinucleolare è, peraltro sede di molti fattori di trascrizione cellulari), per

promuovere la replicazione virale o per alterare il ciclo cellulare (Hiscox J.A., 2002).

7. Discussione

-161-

Inoltre, anche per la proteina precocissima IEp72 (prodotto principale del gene

precocissimo IE1 di HCMV), è stata messa in evidenza una colocalizzazione con il

nucleolo che, in questo caso e contrariamente a quanto evidenziato per la proteina pp65,

non è appannaggio della totalità delle cellule del monostrato e si estrinseca attraverso la

localizzazione di addensamenti granulari di tale proteina all’interno dei nucleoli

(Arcangeletti M.C. et al., 2003).

IEp72 riveste notevole importanza nel bilancio dell’infezione da HCMV, essendo uno dei

componenti virali di spicco nel regolare la trascrizione (sia in senso positivo che negativo)

dei geni posizionati a valle rispetto a quelli precocissimi; a tale proposito, è stato

ipotizzato che questa proteina possa interagire con l’enzima RNA polimerasi II cellulare,

oltre che con promotori virali.

La sua localizzazione in regioni discrete del nucleo (che precede la successiva diffusione a

sempre più vaste regioni nucleari), verosimilmente in stretta associazione spaziale con i

proteasomi, come dimostrano i dati ottenuti in questo studio, evoca un profilo di

distribuzione paragonabile a quello di domìni nucleari, come i fattori di trascrizione

cellulari o quelli di “splicing” di RNA pre-messaggeri, o anche altre regioni specializzate,

come i “PML nuclear bodies”. È stata infatti descritta la capacità, da parte di questo

prodotto del gene IE1, di disassemblare tali “PML” durante il ciclo litico (Kelly C. et al.,

1995; Ahn J.H. and Hayward G.S., 1997; Wilkinson G.W. et al., 1998).

Il ruolo dei PML non è ancora del tutto chiaro, anche se essi sembrano avere numerose

funzioni come soppressori della crescita, mediatori dell’apoptosi, soppressori tumorali,

oltre ad avere un coinvolgimento nella regolazione del ciclo cellulare (Ruggero D. et al.,

2000). La capacità di specifiche proteine di virus a DNA di provocare una

riorganizzazione o la distruzione di questi domìni nucleari, suggerisce un possibile ruolo

dei “PML bodies” nell’ambito dei meccanismi cellulari di difesa nei confronti delle

infezioni virali (Parkinson J. and Everett R.D., 2000; Adamson A.L. and Kenney S., 2001;

Florin L. et al., 2002).

È interessante inoltre sottolineare come la disgregazione di questi peculiari compartimenti

nucleari da parte di una proteina precocissima di Herpes simplex sembrerebbe cruciale per

dirigere l’infezione virale verso il ciclo litico, mentre la mancata disgregazione avvierebbe

l’infezione preferenzialmente verso una condizione di latenza (Everett R.D. et al., 1998).

In linea con gli esperimenti effettuati in precedenza in relazione al modello di

differenziamento muscolare, l’attenzione è stata successivamente focalizzata

7. Discussione

-162-

all’allestimento di strumenti molecolari idonei allo studio dei proteasomi in cellule

suscettibili all’infezione da HCMV.

Allo scopo, sono state inizialmente prodotte delle particelle retrovirali defettive di tipo

anfotropico (in grado di infettare cellule di mammifero), recanti le sequenze proteasomali

di interesse, oltre a quella per EGFP; successivamente, le particelle retrovirali così ottenute

sono state impiegate per eseguire esperimenti di infezione di fibroblasti di polmone

embrionale umano immortalizzati, denominati MRC5-hTERT (McSherry B.P. et al., 2001).

L’obiettivo principale di tali esperimenti è consistito nel mettere a punto modelli

sperimentali di derivazione cellulare umana che fossero, da un lato, permissivi

all’infezione da HCMV, e, dall’altro, che consentissero l’espressione stabile delle proteine

di fusione di interesse, ovviando, al contempo, all’esiguo potenziale di vita dei fibroblasti

MRC5, a numero di passaggi limitato.

In tale ottica sperimentale, sono state eseguite osservazioni preliminari in microscopia a

fluorescenza di monostrati di cellule MRC5-hTERT in grado di esprimere stabilmente i

costrutti di interesse, previa fissazione degli stessi; si è, in tal modo, appurato che il

segnale di fluorescenza delle proteine di fusione α1/p27k-EGFP e β4/p23k-EGFP era

localizzato sia nel compartimento citoplasmatico che in quello nucleare, ma in

quest’ultimo appariva più brillante ed intenso, con distribuzione spesso granulare; come

atteso, il segnale di fluorescenza era assente a livello del distretto nucleolare.

Inoltre, l’osservazione più rilevante di quest’ultima serie di esperimenti preliminari è

emersa dal confronto del profilo di distribuzione proteasomale ottenuto con i suddetti

fibroblasti, che esprimevano stabilmente le sequenze di interesse, con quello rilevato in

cellule MRC5-hTERT non ingegnerizzate e preventivamente sottoposte a reazione di

immunofluorescenza, mediante l’impiego di una sonda immunologica diretta nei

confronti di specifiche subunità del complesso proteasomale 20S; i profili di distribuzione

dei proteasomi sono infatti risultati sovrapponibili in entrambi i casi.

I risultati sopra descritti costituiscono, allo stato attuale, una fase del tutto preliminare

nell’ambito delle varie tappe previste per tale ricerca; in un’ottica futura, l’impiego di

popolazioni di cellule MRC5-hTERT in grado di esprimere stabilmente le sequenze

proteasomali prescelte potrebbe costituire un’utile strumento per lo studio della

localizzazione intracellulare dei proteasomi in studi di cinetica in cellule viventi, al fine di

approfondire le conoscenze sul ruolo svolto da tali complessi molecolari in corso di

infezione virale, studiandone, in maniera dettagliata, le possibili interazioni con

strutture/compartimenti nucleari funzionalmente rilevanti.

7. Discussione

-163-

I dati ottenuti in quest’ultima parte dello studio confermano in maniera significativa la

complessità dei meccanismi che regolano i rapporti tra virus e cellula ospite. In

particolare, la messa in evidenza di compartimenti cellulari e di componenti di

citomegalovirus che risultino spazialmente e funzionalmente correlati con il complesso

proteasomale, soprattutto a tempi precocissimi dall’inizio dell’infezione, potrebbe

apportare un contributo importante alla individuazione di quei meccanismi volti ad

imprimere una direzione di scelta, tra ciclo litico e latenza, al rapporto tra citomegalovirus

e cellula ospite.

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9. Ringraziamenti

9. RINGRAZIAMENTI

9. Ringraziamenti

-188-

Vorrei ringraziare, innanzitutto, il prof. Carlo Chezzi, Direttore del Dipartimento di

Patologia e Medicina di Laboratorio – Università degli Studi di Parma e il prof. Giuseppe

Dettori, Responsabile della Sezione di Microbiologia del Dipartimento di Patologia e

Medicina di Laboratorio – Università degli Studi di Parma, che mi hanno permesso di

frequentare la Sezione di Microbiologia per lo svolgimento del Dottorato di Ricerca.

Desidero, inoltre, ringraziare il prof. Carlo Chezzi per avermi dato l’opportunità di

svolgere questo lavoro di tesi sotto la sua direzione nel gruppo di ricerca da lui

coordinato. A tal proposito, un sentito ringraziamento va alla dr.ssa Maria Cristina

Arcangeletti e alla dr.ssa Flora De Conto per il prezioso aiuto e per gli insegnamenti

inerenti il citomegalovirus umano. Inoltre, vorrei ringraziare la mia collega e compagna di

“infezioni”, la dr.ssa Federica Motta, per la simpatia e per il sostegno in campo

informatico.

Ringrazio tutti gli amici, i colleghi e il personale tecnico, il personale laureato strutturato, i

docenti e il personale amministrativo del laboratorio per avermi trasmesso la passione e le

conoscenze relative alla microbiologia e alla virologia e per avermi aiutato e sostenuto con

il loro affetto durante questi lunghi anni trascorsi presso la Sezione di Microbiologia.

Per quanto concerne il mio periodo di permanenza presso il laboratoire CRRET

(Croissance cellulaire, la Réparation et la Régénération Tissulaires) - Université Paris XII -

Val de Marne, vorrei ringraziare il prof. Denis Barritault e il prof. Jean Pierre Caruelle, che

si sono susseguiti alla direzione del laboratorio CRRET, per avermi consentito di svolgere

parte del Dottorato di Ricerca nell’ambito di una tesi in co-tutela Italia-Francia presso il

loro laboratorio. A tal fine, desidero ringraziare il prof. Jean Foucrier per avermi dato

l’opportunità di svolgere il Dottorato di Ricerca sotto la sua direzione. Inoltre, ringrazio il

prof. Yann Bassaglia per la sua disponibilità e per avermi trasmesso le conoscenze relative

alla tematica del muscolo.

Ringrazio con tutto il cuore gli studenti, il personale tecnico, i docenti, i ricercatori e il

personale amministrativo che ho avuto modo di incontrare durante i miei due anni di

permanenza presso il laboratoire CRRET per la simpatia, per il supporto tecnico-

scientifico e per finire per l’incoraggiamento linguistico che mi ha permesso di

apprendere e, nello stesso tempo di apprezzare, una nuova lingua straniera…..il francese!

Un ringraziamento speciale al dr. José Cebrian, con cui ho avuto la fortuna e il privilegio

di lavorare presso il laboratoire CRRET, per la competenza e la professionalità con cui mi

ha guidato durante questi anni di dottorato consentendomi di approfondire l’aspetto

inerente la biologia molecolare. Inoltre, desidero ringraziarlo, per i suoi preziosi consigli e

9. Ringraziamenti

-189-

per aver sopportato con grande pazienza e simpatia le mie “crisi” informatiche con il

sistema Macintosh.

Vorrei ringraziare, infine, la mia grande famiglia che mi ha sempre sostenuta e circondata

di affetto dandomi così la forza di superare anche i momenti più difficili.

Ricorderò sempre tutti con affetto e riconoscenza.

9. Remerciements

-190-

Je voudrais tout d’abord remercier le professeur Carlo Chezzi, Directeur du Département

de Pathologie et de Médecine de Laboratoire - Université de Parme ainsi que le Professeur

Giuseppe Dettori, Responsable de la Section de Microbiologie du Département de

Pathologie et de Médecine de Laboratoire - Université de Parme lesquels m’ont permis de

suivre les cours à la Section de Microbiologie pour la préparation de mon Doctorat en

Recherche. Mes plus sincères remerciements et ma plus grande reconnaissance à

monsieur le professeur Carlo Chezzi qui m’a donné l’opportunité de préparer mon

Doctorat en Recherche sous sa direction dans le groupe qu’il a lui-même coordonné. A ce

propos, j’aimerais remercier Mme Maria Cristina Arcangeletti et Mlle Flora De Conto

pour leur aide précieuse et pour leur enseignement concernant le cytomégalovirus. Par

ailleurs, je voudrais remercier ma collègue et compagne “d’infections”, madame Federica

Motta, pour sa sympathie ainsi que pour son soutien dans le domaine informatique. Je

remercie tous les amis, colleguès et tous les membres du laboratoire, qui m’ont transmis la

passion et les connaissances relatives à la microbiologie et à la virologie et m’ont aidée et

soutenue par leur affection au cours de ces longues années passées à la Section de

Microbiologie. En ce qui concerne ma période de permanence au laboratoire CRRET

(Croissance cellulaire, la Réparation et la Régénération Tissulaires) - Université Paris XII -

Val de Marne je voudrais remercier le professeur Denis Barritault et le professeur Jean

Pierre Caruelle qui se sont succédé à la direction du laboratoire CRRET et qui m’ont

permis de préparer une partie de mon Doctorat dans le cadre d’une thèse en co-tutelle

Italie-France dans leur laboratoire. Mes plus sincères remerciements et ma plus grande

reconnaissance à monsieur le professeur Jean Foucrier qui m’a donné l’opportunité de

préparer mon Doctorat en Recherche sous sa Direction. Je remercie également le

professeur Yann Bassaglia de sa disponibilité et de m’avoir transmis les connaissances

dans le domaine du muscle. Je remercie de tout cœur les étudiants, le personnel

technique, les enseignants, les chercheurs et le personnel administratif que j’ai eu

l’occasion de rencontrer durant mes deux années de permanance au Laboratoire CRRET

pour leur sympathie, le support technico-scientifique et pour finir pour l’encouragement

linguistique grâce auquel j’ai pu apprendre et en même temps apprécier une nouvelle

langue......le Français! Un remerciement spécial à monsieur le docteur José Cebrian avec

qui j’ai en la chance et le privilège de travailler au laboratoire CRRET et dont la

compétence et la professionalité m’ont guidée durant ces années de doctorat me

permettant d’approfondir l’aspect inhérent à la biologie moléculaire. Je le remercie

également pour ses précieux conseils et les nombreuses discussions scientifique et, en

9. Remerciements

-191-

outre, d’avoir supporté avec beaucoup de patience et de sympathie mes “crises”

informatiques avec le système Macintosh.

Merci, enfin, à ma grande famille qui m’a toujours soutenue et entourée d’affection en me

donnant la force de surmonter les moments les plus difficiles.

Je garde de tous un souvenir affectieux ainsi que de la reconnaissance.