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Sangue sul Newroz 2008 Asylum Post luglio agosto settembre 2008 Giornale dei Richiedenti asilo in Italia dei Rifugiati politici e delle Vittime di tortura Anno 6 / numero 1 Le autorità turche hanno scatenato una violenta repressione contro le migliaia di cittadini kurdi scesi in piazza per fare festa ma anche per chiedere pace e riconoscimento dei propri diritti. Ecco perché il governo turco vuole cancellare il Kurdistan dalle carte geografiche continua a pagina 2 Antonio Olivieri* Morti e feriti in Turchia e in Siria durante le celebrazioni del Capodanno kurdo C ome negli anni ’90, è stato un Newroz all’insegna del sangue quello che si è celebrato quest’anno nelle zone kurde della Turchia e della Siria. Il capodanno kurdo è stato anco- ra una volta il pretesto perché la repressione dello Stato si scaricas- se contro la gente che scendeva in piazza a mani nude, per chiedere pace e diritti, accendendo i fuochi che ricordavano la vittoria del fabbro Kawa contro il tiranno assiro Dehak che governava quel- le terre ventisei secoli fa. I morti sono stati almeno cinque, uno a Van, uno a Yuksecova e tre a Qamishli, in Siria; centinaia i feriti e gli arrestati. A Van, dov’era presente una parte della delegazione di noi osservato- ri italiani, centinaia di persone erano radunate fin dal primo mattino davanti alla sede del DTP. La polizia, coadiuvata da gendarmi in borghese infiltrati tra i manifestanti, corpi speciali, agenti di sicurezza armati di man- ganelli, mitragliette, nodosi basto- ni e randelli, ha posto la città sotto assedio, cercando di limitare al minimo i movimenti delle per- sone. Le cariche sono cominciate quasi subito, senza preavviso, violente- mente, così come il lancio di lacri- mogeni e i primi spari contro la folla. I dirigenti locali del DTP (il Partito per una Società Democratica) sono stati seque- strati e trattenuti per più di tre ore, insieme a due parlamentari kurdi, nella sede centrale del più Due immagini del Newroz, la festa kurda, finita con le cariche della polizia fotografie di Luciana e Cristiano Rea

Asylum Post - 9/2008

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Abbiamo parlato di: Cabinda (Angola); Eritrea; Gran Bretagna, Iran; Italia; Kurdistan (Turchia e Siria); Libano; Myanmar; Tibet (Cina).

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Sangue sulNewroz 2008

Asylum Postluglio agosto settembre 2008

Giornale dei Richiedenti asilo in Italia dei Rifugiati politici e delle Vittime di tortura

Anno 6 / numero 1

Le autorità turche hanno scatenato una violenta repressione contro le migliaia di cittadini kurdiscesi in piazza per fare festa ma anche per chiedere pace e riconoscimento dei propri diritti. Ecco perché il governo turco vuole cancellare il Kurdistan dalle carte geografiche

continua a pagina 2

Antonio Olivieri*

Morti e feriti in Turchia e in Siria durante le celebrazioni del Capodanno kurdo

Come negli anni ’90, è statoun Newroz all’insegna delsangue quello che si è

celebrato quest’anno nelle zonekurde della Turchia e della Siria.Il capodanno kurdo è stato anco-ra una volta il pretesto perché larepressione dello Stato si scaricas-se contro la gente che scendeva inpiazza a mani nude, per chiederepace e diritti, accendendo i fuochiche ricordavano la vittoria del

fabbro Kawa contro il tirannoassiro Dehak che governava quel-le terre ventisei secoli fa.I morti sono stati almeno cinque,uno a Van, uno a Yuksecova e trea Qamishli, in Siria; centinaia iferiti e gli arrestati.A Van, dov’era presente una partedella delegazione di noi osservato-ri italiani, centinaia di personeerano radunate fin dal primomattino davanti alla sede del

DTP. La polizia, coadiuvata dagendarmi in borghese infiltrati trai manifestanti, corpi speciali,agenti di sicurezza armati di man-ganelli, mitragliette, nodosi basto-ni e randelli, ha posto la cittàsotto assedio, cercando di limitareal minimo i movimenti delle per-sone.Le cariche sono cominciate quasisubito, senza preavviso, violente-mente, così come il lancio di lacri-

mogeni e i primi spari contro lafolla.I dirigenti locali del DTP (ilPartito per una SocietàDemocratica) sono stati seque-strati e trattenuti per più di treore, insieme a due parlamentarikurdi, nella sede centrale del più

Due immagini del Newroz, la festakurda, finita con le cariche della polizia

fotografie di Luciana e Cristiano Rea

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Asylum Post

In questo numero pag. 1 Ancora sangue sul

Newroz 2 Libano, non

smettiamo di pregare

5 Eritrea, perchè chiediamo aiuto

7 Pugno di ferro in Tibet e Birmania

9 Il dramma di Pegah 11 Due decreti per i

richienti asilo 12 Rom, una proposta

indecente 13 I media e gli

immigrati 15 Rifugiati trattati

come clandestini 17 In fuga dalla Cabinda 18 Violentata dai

militari angolani 19 Genova: torture alla

scuola Diaz 20 Un cartoon su Sabra e

Chatila

Libano: dopo l'accordo tra le varie forze politiche e l'elezione del presidente libanese, Michel Soleiman

"Per ora è tregua ma... non smettiamo di pregare"

Hussein El Dorr

In libano stava per scoppiare tutto anzi, all' improvviso, il 5 �la guerra civile, una crisi maggio scorso decide di disar­�politica, ingerenza straniera, mare la resistenza, gli Hizbollah, �

miliziani nelle strade di Beirut, rompendo con loro il patto �un gigantesco presidio nel centro nazionale. A questo punto la �per quasi 18 mesi, un paese senza crisi libanese ha raggiunto il cul­�presidente da sei mesi, continue mine. �manifestazioni, scioperi dei sin- Hizbollah, sostenuti da tutta l'op­�dacati e un governo che ignora posizione, non potevano stare a �

guardare davanti a una provoca­zione del genere che minaccia la loro esistenza. Anche perché il disarmo della resistenza servireb­be in questo periodo solo agli israeliani che, sconfitti due anni fa dopo una guerra che ha deva­stato il paese, continuano a minacciare il Libano e agli ame­

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importante partito di Van, mentre la polizia perquisiva l’edificio all’interno del quale più tardi abbiamo potuto vedere i segni della devastazione e dello sfascio che erano stati compiuti. Anche la nostra delegazione è stata oggetto delle violenze della polizia: dopo averci ripetutamen­te minacciato, gli agenti, che avrebbero voluto allontanarci dal luogo degli scontri per non avere testimoni, ci hanno trascinato a forza, con calci e pugni, dentro un furgone della polizia, per essere condotti in commissariato. Alcuni componenti la delegazione hanno riportato lussazioni e distorsioni. Il commissariato era già pieno di arrestati e feriti, per cui hanno deciso di trasferirci in albergo, dal

Un piccolo kurdo al Newroz 2007

quale ci è stato imposto di non uscire. Intanto, nelle strade, i poliziotti non risparmiavano nessuno: donne, bambini, anziani, erano inermi, a terra, sotto i colpi di manganelli e bastoni. C’era sangue ovunque sulle strade e urla, pestaggi di arrestati, il suono delle pallottole e il rumore dei tank e dei blindati lanciati a tutta velocità contro gruppi di giovani che sfidavano la polizia accendendo i falò, oppure lan­ciando pietre e inneggiando ad Ocalan. Dappertutto poliziotti, simili a robocop, armati di pistole e mitragliette puntavano ad altez­za d’uomo. Le vie del centro erano percorse da squadracce di agenti in borghe­se e in uniforme, che arrestavano e picchiavano chiunque capitasse a tiro. In serata, mentre la polizia asse­diava quattro quartieri di Va n sparando all’impazzata contro le misere casupole, questo era il bilancio degli scontri: 150 i feriti che avevano fatto ricorso alle cure ospedaliere, almeno 7 i feriti gravi per colpi di arma da fuoco, 400 gli arrestati, un morto. Anche ad Hakkari, ci sono stati violenti scontri, con la polizia che,

Leyla Zana è di nuovo in carcere. Accusata di aver violato le leggi-antiterrorismo in occasio­

ne di un discorso tenuto durante il Nevroz dello scorso anno, l’ex deputata è stata condannata a due anni di detenzione dal tribunale turco di Diyarbakir. La sua colpa? Aver citato come leader dei 20 milioni di cittadini kurdi Abdullah (Apo) Ocalan, l’ex capo del Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan), considerato dal governo di Ankara un terrorista e per que­sto rinchiuso ormai da quasi 10 anni nel carce­re di massima sicurezza di Imrali, su un’isoletta del mar di Marmara. ■

Leyla Zana:di nuovo dietro le sbarre

scatenata in una vera e propria caccia all’uomo, ha fatto irruzione perfino negli ospe­dali continuando la repressione anche contro i feriti. In questo clima di for­tissima tensione, la delegazione degli altri osservatori ita­liani rimasti ad Hakkari, ha visto interrompere bru­scamente il suo viaggio di ritorno verso Van, al secon­do check point del-l’esercito, dove è stata trattenuta per circa sei ore con l’accusa, partita dalla polizia di Hakkari, di “essere sospettata di aver avuto contatti con membri della guerriglia del Pkk”! Più tardi, grazie all’intervento di alcuni parlamentari italiani, in particolare Vittorio Agnoletto e Giovanni Russo Spena, i nostri compagni di viaggio sono stati rilasciati e hanno potuto ripartire. Arresti e feriti si sono registrati in tutte le città kurde. Eppure, non­ostante i divieti e la repressione,

centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza ovunque.

E questo anche perché si sono rivelate false le promesse del pre­mier Recep Tayyip Erdogan, del partito di governo Akp, che aveva promesso aiuti economici per la regione del Sud Est e aveva annunciato una sua visita subito dopo il Newroz: tutte promesse false che avevano come obiettivo quello di minare la base di massa

foto di Giorgio Barbarini

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Hariri e Jumblat, armati e finanzia­ti dall'Arabia Saudita, scendo­no in campo spa­rando sui manife­stanti. Inizia il caos e l'esercito libanese, che di solito è neutro, non riesce a fer­marli. Questa volta gli Hizbollah e varie parti del'opposi­zione decidono di reagire e con un blitz lampo riescono a pren­dere il controllo di Beirut disar­mando i miliziani

e consegnando le armi all'eserci­to il giorno dopo. Per chi non si intende tanto della questione libanese, il mio paese ha 4 milioni di abitanti divisi in 18 religioni diverse a loro volta divise in due componenti politi­che: le forze del 14 marzo che stanno al governo e sono rappre­

ricani che avevano già fatto attraccare lungo le coste libanesi la loro grossa nave da guerra. Il 7 maggio scorso era previsto uno sciopero dei sindacati per chiedere l'aumento dei salari, tutta l'opposizione ha aderito paralizzando il paese. I miliziani pro governativi di

sentate da Siniora, Hariri e - mettere fine al presidio nel cen-Jumblat e le forze dell'8 marzo tro di Beirut; che stanno all' opposizione rappresentate da Berri, gli Hizbollah, Mishel Aon, Frangeye, Karami... La formazione di queste due forze politiche è inizia­ta il 14 maggio del 2005 quando è stato assassinato l'ex premier Rafiq Harir. Il 19 maggio dopo che la crisi ha raggiunto il culmi­ne e il conflitto stava per diventare una vera guerra civile, entrambe le forze politiche guidate da una mediazione araba hanno deciso di trovarsi in Qatar per dialogare in un alber­go lontani dal caos delle strade e tenendo anche i cellulari spenti per evitare le ingerenze straniere. Dopo 4 giorni hanno rag­giunto un accordo: - mettere a parte le armi e non utilizzarle mai più all' interno del paese; - eleggere immediatamen­te un nuovo presidente;

Nelle immgini di questo servizio alcuni momenti di unamanifestazione pro Hizbollah. In alto, il neo presidente libanese Mishel Soleiman

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del partito DTP maggioritario in tutte le province kurde e di avvia­re un processo di islamizzazione crescente, attraverso l’uso massic­cio della religione islamica. Durante il viaggio nel Kurdistan la nostra delegazione ha incontra­to sindaci, municipalità e associa­zioni con i quali stiamo costruen­do progetti di solidarietà e coope­razione. Come a Sirnak, dove la municipalità sta realizzando, insieme alla nostra associazione, la costruzione di un centro sanita­rio; come a Sirt, dove il coraggio­so sindacato insegnanti, Egitim Sen, ha avviato, con il nostro con­tributo, un doposcuola per i bam­bini che lavorano in strada, pro­venienti dai villaggi kurdi distrut­ti dall’esercito; o come a Baglar, dove l’amministrazione comunale ha avviato un progetto pilota per i bambini di strada o per le campa­gne di adozione a distanza delle famiglie dei prigionieri politici kurdi con altrettante famiglie ita­liane. Ecco noi pensiamo che que­sto sia un modo per dare risposte a chi soffre, qui ed ora. ■

* Un componente della delegazione di osservatori italiani a Van e ad Hakkari per la festa del Newroz

Nei mesi scorsi, l’esercito ha ammassato sul confine ira-

cheno, lungo una fascia che vada Sirnak a Semdinli, qualcosacome 250 mila effettivi, con il pretesto di dar la caccia ai guerri-glieri del Pkk sui monti di Kandil,oltreconfine, in Nord Iraq, ma conl’obiettivo, neppure troppo recon-dito, di intervenire in quell’areaper bloccare sul nascere lanuova entità kurda irachena e, infine, per mettere le mani sui ric-chi giacimenti petroliferi di Kirkuke Mossul, che, da soli, rappre-sentano il 4 per cento delle riser-ve di petrolio dell’Iraq.Contro l’invasione turca del Nord Iraq, la popolazione delKurdistan si è messa in moto: in ogni città, ci sono state paci-fiche marce di protesta; leassociazioni civili e le assem-blee degli avvocati hanno con-vocato numerose conferenze stampa per denunciare la vio-lazione del diritto internaziona-le. E puntuale è arrivata larepressione: perquisizioni,arresti, torture, condanne e

uccisioni. Questi alcuni episodi accaduti neisoli mesi di febbraio e marzo 2008, riportati dalle diverse testimonianzealla nostra delegazione: -Hakkari, 15 febbraio, violenta repressione di una manifestazioneper la pace, con assalti e de-vasta-zioni, da parte delle forze di polizia,della sede del municipio, con uso dilacrimogeni e armi da fuoco.Arrestate 34 persone, di cui 4 bam-bini, che nei giorni scorsi risultava-no ancora detenuti nel carcere di Bitlis e 15 minori rinchiusi nel carce-re di tipo F (di isolamento) di Van.

-Bostanici, 4 marzo, per la festadella donna 25 persone sonostate poste in custodia, compresala Sindaca del Municipio, GulcihanSimsek. -Erdis, 5 marzo, ucciso a basto-nate dalla polizia un uomo duran-te una manifestazione per la festa dell’8 marzo. -Van, 20 marzo, arresto di tre membri di Tuyad-der (associazio-ne dei detenuti politici), tra cui lostesso presidente dell’associazio-ne. In questo clima di grave tensione,che rimanda agli anni bui del ’90-’91, il popolo kurdo si era prepara-to a festeggiare il Newroz 2008, la festa di primavera e del nuovoanno, che si è trasformata in una festa all’insegna della vio-lenza, della repressione e del san-

gue.Ma ora basta! Edi Bese! , per usare loslogan lanciato dalPartito per unaSocietà Democratica durante le celebrazio-ni del Newroz, nel-l’ambito della campa-gna contro la guerra eper la pace inKurdistan. Edi Bese! ■ A.O.

Il popolo kurdo dice: “Edi bese!”, ora basta!

foto di Giorgio Barbarini

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- formare un nuovo governo che garantisca all' opposizione il diritto di veto;

Nasrallah, il leader degli Hizbollah. In alto, un blindato dell’esercito libanese

- creare una nuova legge elettora­le per le elezioni previste entro un anno. Il 23 maggio sono rientrati tutti a Beirut, il presidio è stato tolto e il 25 maggio è stato eletto il presi­dente della repubblica, Michel Soleiman. Il giorno dopo, la pop star Heifa Wehbi, ha tenuto un concerto nel centro di Beirut con più di un milioni di persone in piazza di varia appartanenza politica e la vita ha ripreso di nuovo in Libano come se nulla fosse suc­cesso. Insomma il paese sembra in festa per questo accordo e la gente finalmente si è rilassata un po'. In realtà questo accordo è stato solo il frutto della paura di dover tornare alla guerra civile che ha devastato il Libano dal 1975 fino al 1990 e la maggior parte dei libanesi ha ancora la memoria fresca di quanto è suc­cesso durante quel periodo e quanto sia stato disastroso. Io non vorrei che questo accordo fosse solo una tregua. Insomma, secondo me non ci resta altro che continuare a pregare per il desti­no del mio paese. ■

Intanto nel mio paese si conti­nua a morire. E a morire

sono non solo i cittadini libane­si ma anche gli operatori ong che cercano di sminare le bombe a grappolo di cui si tro­vano ancora un milione e due­cento mila pezzi lanciate dagli aerei israeliani negli ultimi due giorni dell’aggressione israelia­na nell’estate 2006.

Così vive la gente nel Libano di oggi, per la paura delle bombe inesplose ma anche per la crisi politica e l’insicurezza in cui il paese viene tenuto da tanto tempo. Centinaia di migliaia di rifugiati che hanno avuto le loro case distrutte hanno trovato sistemazioni temporanee presso parenti e amici oppure in appar­tamenti che pagano con l’aiuto degli Hizbollah. Alcuni villaggi, ponti e infrastrutture civili sono stati ricostruiti grazie agli aiuti di paesi come il Qatar che hanno rifiutato di versare i fondi al governo libanese il quale, non­ostante i soldi che ha ricevuto dalle Nazioni Unite, dall’Europa e dai maggiori paesi del Golfo non ha ancora avviato la macchina della ricostruzione.

“Intanto, troppa gente muore ancora perle bombe a grappolo”

Hussein El Dorr

Mentre, come ha recentemente dichiarato il segretario genera le

In alto, gente in fila per il pane. Nelle altre foto bambini a scuola e nell’immagine in basso lo scrittore eritreo Hamid Abdu Barole con un gruppo di allievi

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foto di Aiscafrica

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ra le dell’ONU, il processo di pace tra il governo eritreo e quello somalo è’ in una “empasse pericolosa”...

Italiani,ecco perchè vichiediamo aiuto Malgoverno, dittatura, fame, repressione, divieto per i ragazzi di seguire gli studi universitari e limitazione di ogni diritto umano: queste le cause che in Eritrea spingono migliaia di giovani a lasciare il proprio paese per raggiungere le coste della Sicilia e di Lampedusa

La popolazione eritrea si trova ad affrontare un momento di grande soffe­

renza umana a causa di una spie­tata dittatura instauratasi nel paese. La repressione in atto da parte del regime e la mancanza dei più elementari diritti umani, incontra sempre di più la tenace resistenza della popolazione eri­trea. Nonostante ciò, dall’Eritrea continua l’esodo in massa della gioventù. Esempio lampante sono gli sbar­chi, che hanno visto la scorsa estate arrivare sulle coste lampe­dusane e siciliane un numero impressionante di giovani eritrei. Le ragioni che spingono questi ragazzi a lasciare il proprio paese sono sempre le stesse: malgover­no, dittatura, fame, repressione e limitazione di ogni diritto elemen­tare. A tutto questo va aggiunto il fatto che l’istruzione è ristretta a pochi “talenti” selezionati dal regime secondo il grado di “ubbi­dienza”, mentre alla stragrande massa degli studenti l’unica atti­vità da svolgere rimane quella del “servizio militare”, a vita. Nel frattempo, dopo anni di denunce, anche la stampa estera comincia a dare notizia della real­tà in cui vive il popolo eritreo: in Eritrea, ogni mattina la gente è costretta a fare la fila davanti ai negozi (quasi vuoti) per assicurar­si appena l’acquisto di una michetta e di un litro di latte, dif­ficilmente reperibili. La crisi ali­mentare è evidente. L’agricoltura, a causa di diversi fattori e oltre al problema della scarsità delle piog­ge, non è in grado di far fronte alla richiesta di consumo interno. Le merci e i beni importati dall’e­stero (gestiti direttamente dalla

Michael Kidane

cooperativa del regime, la Red-Sea Coorporation) vengono piaz­zati sul mercato a prezzi da stroz­zinaggio, mentre i commercianti e i privati gestori di attività di rivendita sono costretti a ricorre­re all’approvvigionamento dei beni sul mercato del “contrabban­do”, gestito direttamente da gene­rali corrot­ti, apparte­nenti alla casta del regime. Infine, la produzione dell’indu­stria locale, già di per sé limitata, è oramai ferma a causa della mancanza di materie prime e dei costi ecces­sivi delle fonti ener­getiche che hanno rag­giunto prezzi da capogiro. Per questa ragione, molte aziende sono state costrette a chiudere i battenti, scoraggiate sia dall’andamento dell’economia del paese che dalle pesanti tasse imposte dal regime.

La proposta di Ban Ki Moon Intanto, a sette anni di distanza dalla firma degli accordi di pace ad Algeri tra l’Eritrea e l’Etiopia, la situazione di tensione tra i due paesi rimane immutata. L’impegno che entrambi i governi, quello eritreo e quello somalo, si

sono assunti davanti alla comuni­tà internazionale per una soluzio­ne pacifica e duratura sulla que­stione della “contesa territoriale”, rimane sospesa a un filo. Lo scor­so 24 gennaio, nel suo rapporto al Consiglio di sicurezza dell’ONU, il segretario generale Ban Ki Moon, affermava che il processo

di pace tra Etiopia ed Eritrea è in una "empasse pericolosa", da cui deriva una situazione "profonda­mente preoccupante". Per uscire dallo stallo, Ban Ki Moon invitava le due parti: il governo etiopico ad accettare il tracciato della frontiera con l'Eritrea fissato nel 2002 da una commissione indipendente; quello eritreo a ritirare le proprie truppe dalla zona temporanea di sicurez­za lungo il confine, oltre che a revocare le restrizioni imposte alla Forza Onu di interposizione lungo la frontiera (UNMEE).

Nonostante i continui appelli del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la situazione di forte tensione militare non è affatto mutata, anche perché l’attuale condizione di instabilità politica in cui versa tutta la regione del Corno d’Africa condiziona fortemente per entrambi i due paesi le deci­

sioni da prendere per evitare lo scontro militare, che potrebbe degenerare e sconvolgere l’intero assetto geopolitico regionale.

I maltrattamenti nelle carceri libiche Tra i 500 e i 600 eritrei risultano tuttora detenuti nei “detention centre” libici delle città di Misratah, al-Marj e al-Kufrah, in condizioni disumane e degradanti. La polizia libica minaccia conti­nuamente di deportarli verso

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Due immagini di campi profughi eritrei in Sudan

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Sono arrivato in Italia dalla Libia nell’ottobre del 2004. E sono vivo. Ma per arrivare in questo Paese ho visto la morte in fac­

cia. Tutto è successo appena due ore dopo la partenza dalle coste libiche, quando la barca su cui mi ero imbarcato ha cominciato a fare acqua. Eravamo trentun persone, su un’imbarcazione troppo piccola per contenerci tutti. A un certo punto mi sono trovato con l’acqua fino alle costole. Allora ho capito che si stava mettendo male. Anche i miei compagni erano spaventati. Qualcuno gridava: “Gira la barca! Torniamo indietro!”’ In realtà eravamo ancora vicini alla Libia ma comunque ancora troppo lontani per poter raggiungere di nuovo la costa. A mezzanotte la barca è affondata. Per otto terribili ore siamo rimasti in balìa delle onde. E in quelle ore tredici compagni di viaggio sono morti, tra cui una ragazza, perché avevamo tutti il giubbotto di salvataggio ma l’acqua era gelida e tanti di noi non ce l’hanno fatta. La mia vita è finita, sto per morire anch’io, ho pensato in quei momenti. Improvvisamente ho visto comparire al largo una nave. Batteva bandiera maltese. Poco dopo si è avvicinata, alcuni uomini dell’equipaggio hanno cominciato le operazioni di salvataggio, hanno preso a bordo quelli tra noi ancora vivi e hanno lasciato in acqua i miei compagni che non davano più segni di vita. Un paio di ore dopo ci hanno riportato sulle coste libiche.

Per cinque giorni sono rimasto in un ospedale. Poi, sono finito in pri­gione. Due mesi dopo la polizia libica mi ha rilasciato dicendomi: “Vattene, sei libero”. Libero, di fare cosa? Di tornare a casa mia, in Eritrea, da dove ero stato costretto a fuggire perché c’era la guerra? Ho tentato di nuovo la fuga: con 1200 dollari datimi dai miei fami­liari ho pagato un tizio che mi ha nascosto per due giorni in una capanna poi una mattina, verso le quattro, mi ha detto: “Dai, si parte”. Anche stavolta siamo in tanti e anche questa barca è tre­mendamente piccola. Ho paura, ma con un gesto di coraggio mi arrampico sull’imbarcazione. Penso che Dio mi aiuterà. E’ stato così. Dopo un paio di ore di navigazione è comparsa all’o­rizzonte una nave mercantile che veniva nella nostra direzione. Poco dopo ci hanno fatto salire tutti sulla grande nave che ha ripreso la navigazione. A bordo, oltre a me c’erano 190 peprsone, tutte prove­nienti dall’Etiopia e dall’Eritrea. Nell’ottobre del 2004 sono arriva­to in Italia. ■ G.T.

“All’improvviso, a mezzanotte,la barca è affondata…”

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l’Eritrea, mettendo così a grave rischio la loro vita. Secondo una nota diffusa tempo fa da Amnesty International “negli ultimi mesi alcuni detenuti sarebbero stati torturati o maltrattati dalle guar­die. Di tali maltrattamenti fareb­bero parte percosse con spranghe di ferro, minacce di morte e, in diversi casi, abusi sessuali nei confronti delle donne detenute. In alcuni casi i detenuti sembrano essere stati torturati o maltrattati come forma di punizione per aver rifiutato la registrazione del loro nome da parte delle guardie o per aver protestato per il trattamento subito da altri detenuti. Le condi­zioni all’interno dei centri di detenzione in Libia non rispetta­no gli standard internazionali sui diritti umani. Diverse detenute che avevano dichiarato di essere incinte, hanno dovuto pagare per avere dell’acqua potabile. Altre detenu­te avrebbero contratto la tuberco­losi e due di loro hanno tentato il suicidio.” Purtroppo centinaia di profughi eritrei partono ogni settimana dal Sudan. Sono costretti ad attraver­sare il deserto del Sahara a costo di mettere in pericolo la propria

vita, nel tentativo di raggiungere le coste del “paradiso” Europa. Per la stragrande maggioranza di questi, quasi sempre la strada è piena di risvolti drammatici. I racconti agghiaccianti, fatti da persone che fortunatamente sono riuscite ad arrivare in Italia, con-

Un cammello, un mezzo di trasportoancora molto usato in Eritrea

fermano che nei “centri di deten­zioni” libici (vere e proprie carce­ri all’aperto) e in particolare in quello di al-Kufrah, prima cittadi­na di confine tra il Sudan e la Libia, vengono consumate terribi­li violenze umane contro i profu­ghi e in modo particolare contro

le donne costrette a subire ogni sorta di abusi e stupri da parte delle guardie libiche. Un aspetto altrettanto preoccu­pante é dato dalle notizie sempre più dettagliate di una vera e pro­pria tratta umana senza prece­denti. Basti l’esempio di ciò che avviene, appunto, nel centro di detenzione di al-Kufrah: da questo luogo non si esce se non si è in condizioni di corrompere (pagare) i carcerieri di turno. Carcerieri che a loro volta “cedono” (vendono) i “dete­nuti” a trafficanti di esseri umani che a loro volta e, dicendo di voler garantire un viaggio “tran­quillo” verso la capitale Tripoli, fanno a gara per strappare i pochi quattrini di cui dispongono i pro­fughi. Negli ultimi mesi la situa­zione dei profughi eritrei è ancora drasticamente peggiorata, tanta gente disperata e senza diritti e protezione è costretta a spingersi verso altri paesi, per trovare una soluzione alle proprie condizioni. Gravi fatti sono accaduti: nel feb­braio scorso, mentre un gruppo di profughi eritrei insieme ad altri provenienti dal Corno d’Africa tentavano di attraversare clande­stinamente il confine con Israele nei pressi della località di Kontala, le guardie di frontiera

egiziane hanno sparato ad altezza d’uomo, uccidendo una donna eritrea di 37 anni, in fuga con le sue due figlie, di 8 e 10 anni. Nel marzo scorso un’altra tragedia: una ragazza eritrea di 25 anni è stata colpita a morte con tre pal­lottole mentre tentava di valicare la frontiera israeliana. Nonostante le tantissime denunce di questa situazione, l’Europa e in particolare l’Italia sembrano ancora una volta assai poco attente al dramma che sta attra­versando l’Eritrea e alla disperata situazione umana che spinge migliaia di giovani nella ricerca di un futuro migliore. La manifestazione organizzata dalle associazioni eritree e italia­ne lo scorso settembre a Roma, ha avuto come uno dei suoi obbiettivi principali quello di far conoscere ancora una volta all’o­pinione pubblica e alle forze poli­tiche italiane, la drammatica situazione che sta attraversando il popolo eritreo. Ma per ora non abbiamo avuto ancora alcun riscontro. Il nostro augurio è che un giorno termini il calvario del popolo eri­treo e che esso trovi la forza per riconquistare la propria dignità umana, la prosperità ed il diritto di decidere il proprio futuro. ■

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O ttantamila morti e tra questi 10 mila bambinirimasti sotto le macerie delle scuole costrui-te senza alcun rispetto per le regole antisi-

smiche e schiantate dal terremoto che ha sconvoltola Cina. Come è accaduto per le migliaia di poverecase fabbricatenel fango che,c r o l l a n d o ,hanno lasciatosulla nuda terra5 milioni di sen-zatetto. Oggisono proprioquei bambini equella povera

gente a mettere in crisi il governo diPechino perché, sconvolto dalla rab-bia per questa immane tragedia dovuta anche allapolitica corrotta, il popolo cinese ha messo sottoaccusa l’intera nomenklatura. Anche a livello internazionale i boss del governosono finiti sotto accusa e la causa è da individuareanche nel loro atteggiamento nei confronti del Tibet.Un paio di mesi fa il governo ha per così dire apertoal dialogo col Dalai Lama, il capo spirituale dei tibe-tani costretto da vent’anni in esilio in India. Ma si ètrattato solo un gesto strumentale per sedare, per

l’appunto, le sferzanti critiche delle diplomazie occi-dentali, dopo la repressione seguita alla rivolta scop-piata a Lhasa nel marzo scorso con le manifestazionipacifiche dei monaci buddisti e divampata in unavera e propria insurrezione popolare.

Tanto è vero che propriopochi giorni prima che scop-piasse il terremoto, il gover-no di Pechino ha mostrato ilsuo pugno di ferro: la magi-stratura (che in Cina non èindipendente ma che nellesue decisioni segue le lineedettate dal partito comuni-sta), ha emesso trenta esem-plari condanne, dai tre anniall’ergastolo, nei confronti

dei primitrenta tra lemigliaia diribelli tibe-tani cattura-ti durante leretate dellapolizia aLhasa e inaltre cittàdel Tibet e

tuttora in carcere. “Io conosco i carceri cinesi”, hadetto Lama Palden Gyatso, il monaco tibetano incar-cerato per 33 anni nelle prigioni cinesi e per 33 annivittima di torture, “e a volte mi viene da piangerequando penso a coloro che devono ancora subire imaltrattamenti e le torture che ho subito io”. R.S.

Dall’alto in senso orario: il Jokhang a Lhasa; il processo ai manifestanti; PaldenGyatso; una manifestazione pro Tibet a Milano; il Dalai Lama; il Potala

foto di Angelo Lo Buglio

Cina, pugno di ferrocontro il Tibet

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Intanto, in Myanmar… Nella ex Birmania sconvolta dall’uragano Nargis che ha lasciato dietro di sé oltre centomila morti, si è svolto recentemente il referendum istituzionale voluto dalla giunta militare al potere. Una vera e propria farsa: con pacchi di viveri dati dai generali a chi si presentava ai seggi per votare per il referendum costituzionale., ma che in realtà erano aiuti inviati dal regno di Thailandia.

Una farsa: non si può definire in altro modo il referendum costituzio-

nale che si è tenuto in Myanmar, l’ex Birmania sconvolta dall’ura-gano Nargis. Una vera e propria farsa, con pacchi di viveri dati dai generali a chi si presentava ai seggi per votare, ma che in realtà erano aiuti inviati dal regno di Thailandia.

La Redazione

Il risultato era ovviamente scon-tato: il giorno dopo, gli stessi generali hanno festeggiato con parole di giubilo comparse sulla prima pagina della Nuova luce del Myanmar quella che considerano una vera vittoria: “La partecipa-zione al referendum costituzio-nale è stata massiccia. Lo svol-gimento della consultazione è riuscito nell’intero paese”. Un

Un dramma che dura da decenni A colloquio con Cecilia Brighi, responsabile per la Cisl dei rapporti con le istituzioni internazionali e con i Paesi asiatici e autrice di un interessante libro-documento “Il Pavone e i generali” sul dramma che da decenni sconvolge il popolo dell’ex Birmania, oggi Myanmar Rosanna Sorani

Myanmar: monaci buddisti tra la gente scesa in piazza contro la brutalità del regime

Le sanzioni imposte dalla Comunità Europea rappre­sentano un forte segnale

politico nei confronti della giunta. Purtroppo, molti altri paesi asiati­ci continuano a lavorare con la Birmania e questo depotenzia l’im­patto economico, anche se non quello politico. Queste sanzioni sono un segnale importante e devono essere accompagnate necessariamente da una forte azio­ne diplomatica. Ovvero da un dia­logo serrato con i paesi che conta­no: Cina, India, Russia. Ne parlia­mo con Cecilia Brighi responsabile per la Cisl dei rapporti con le isti­tuzioni internazionali e con i paesi asiatici. Che cosa deve accadere perché il regime birmano cambi il suo atteg­giamento? Con i paesi asiatici paesi va aperto un dialogo negoziale. Ci sono

paese in ginocchio oggi per lafuria del ciclone ma tormentato da sempre dalla povertà piùnera e da una dittatura feroce alla quale per ben 40 anni lapopolazione non ha avuto mododi reagire. A parte la ribellionepopolare avvenuta su scala nazionale nell’agosto del 1988 repressa dalla giunta militare con tremila morti, migliaia di per-

molti interessi e molti scambi pos­sibili. Purtroppo noi sollecitavamo questo dialogo e queste pressioni già da alcuni anni e in particolare prima della discussione della bozza di risoluzione al Consiglio di sicurezza ONU, nel gennaio 2007. Questo dialogo negoziale non c’è stato e Russia e Cina hanno posto il veto. Subito dopo tutto è tornato come prima e i governi si sono

siamo ad una svolta. E la giunta militare non avrà molti spazi e neanche molto tempo. Anche loro dovranno cedere. Intanto, però proseguono gli arresti… Gli arresti sono stati migliaia. Monaci, attivisti sindacali, studenti, intellet­tuali. Tutti gli organizzatori delle prime manifestazioni di

Soldati pronti a entrare in azione agosto sono in carcere e

ancora una volta dimenticati di negoziare con questi paesi per con­vincerli a cambiare posizione. Siamo quindi arrivati alle manife­stazioni di agosto e settembre in un “vuoto pneumatico” della diplomazia. Quindi tardi e male. Credo però che oggi con il mondo che guarda i governi non possano più fare finta di nulla per sostene­re le proprie imprese. Quindi

sone arrestate e avviate ai lavo-ri forzati. E quella esplosa a metà dell’anno scorso quando la gente, esasperata dal brusco aumento del prezzo di benzina edi gasolio, è scesa in piazza incoraggiata dall’adesione dei monaci buddisti che a migliaiahanno sfilato nelle vie di varie città, visibilissimi nelle loro tuni-che color rosso zaff e r a n o .

cominciano ad arrivare le prime condanne a svariati anni di deten­zione. Alcuni personaggi chiave sono riusciti a nascondersi e a fug­gire in Thailandia. I loro racconti sono terribili. In piccolo si è ripe­tuto quello che è successo nel 1988 e che io racconto nel mio libro Il pavone e i generali: allora come oggi sono stati usati i forni crema­tori per cancellare il numero delle vittime. Un rappresentante dell’NLD (National League for Democracy) é stato ucciso durante un interrogatorio e la polizia ha informato la famiglia della sua morte dicendo che il cadavere era stato già cremato. Tutto per nascondere le prove delle torture. Un film purtroppo già visto. Che sarà ora dei rifugiati birmani fuggiti dal loro paese, che vivono in una decina di campi profughi nel-l'area di confine in Thailandia?

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Anche in quest’occasione il regi-me ha usato le maniere forti, scatenando raid nei principalimonasteri e facendo picchiare eportare via migliaia di monaci,arrestando migliaia di dimo-stranti o semplici passanti,andando di casa in casa per cat-turare presunti oppositori del regime. A questo punto la comunità internazionale ha imposto delle sanzioni e l’Onuha invitato la giunta ad aprire undialogo con i rappresentanti del-l’opposizione.I generali hanno risposto che era nei loro intentiquello di indire entro due annielezioni multipartitiche e di voleravviare una democrazia “disci-plinata”. Una democrazia da cuisono esclusi però i deputati dellaLega per la Democrazia, il parti-to di opposizione la cui leader, ilpremio Nobel San Suu Kyi, èsempre agli arresti domiciliari.Mentre almeno 700 persone fer-mate durante e dopo le protestesono tuttora in prigione. ■

Il problema dei rifugiati birmani é veramente drammatico. Attualmente ci sono oltre 500.000 rifugiati interni: intere popolazioni che vivono nella giungla birmana fuggendo dalla violenza dei milita­ri. Migliaia di villaggi sono stati spazzati via, bruciati. Donne e bambine stuprate. Migliaia di per­sone uccise per essersi opposte alle rapine dei militari nei villaggi o alle deportazioni forzate. Mentre moltissimi birmani riescono a rag­giungere l’India, il Bangladesh e soprattutto la Thailandia. Quelli che si trovano nei campi profughi vivono in un ghetto, senza nulla e soprattutto senza la possibilità di lavorare e guadagnare qualche soldo. Oltre 2 milioni di birmani vivono prevalentemente senza documenti in Thailandia e sono vittime del peggiore sfruttamento. Le ragazze spesso cadono vittime dei trafficanti di esseri umani e finiscono nei bordelli delle città di confine e di Bangkok. Gli altri sono costretti a lavorare alla metà del salario thailandese, senza alcun diritto e in condizioni di estremo sfruttamento. Noi cerchiamo di aiutare l’opposi­zione politica e sindacale che opera clandestinamente in Birmania e che lavora con il sin­dacato thailandese in Thailandia per far sì che le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori birmani diventino più dignitose. ■

Il caso della giovane omossesuale iraniana condannata a morte dai giudici del suo paese

Pegah: una storiache non fa onore alla Gran Bretagna In Inghilterra, dove Pegah Emambakhsh era riuscita a fuggire, i magistrati le hanno negato l’asilo politico perché, così hanno dichiarato, non avevano prove del suo vero orientamento sessuale. Dopo di che, grazie a una mobilitazione a livello internazionale, hanno aperto nei suoi confronti un regolare procedimento legale che, si spera possa respingere la sua estradizione e il rinvio al proprio paese, dove finirebbe nelle mani dei suoi aguzzini

Silvio Rossi

Pegah Emambakhsh é un nome ormai familiare all'opinione pubblica euro­

pea. Com'é ormai nota a tutti noi la storia di questa quarantenne iraniana che rischia, per il solo fatto di essere omosessuale, una condanna a morte da parte dei giudici della Repubblica Islamica dell'Iran mediante lenta lapida­zione, una pratica brutale in uso in molti Paesi islamici dove l'omo­sessualità é vista come un crimi­ne. Ed é lo stesso pericolo che corre in Iran la compagna di Pegah, arrestata e torturata insie­me con alcuni suoi familiari e condannata a morire a colpi di pietra. Due storie terribili e allucinanti perché sono la prova che ancora oggi qualcuno, uomo o donna che sia, può essere perseguito e con­dannato per il suo orientamento sessuale. Eppure, forse non ne saremmo mai venuti neppure a conoscenza se Pegah non fosse riuscita, due anni fa, a sfuggire ai suoi aguzzini e a raggiungere attraverso la Turchia la Gran Asilo che le é stato però negato che Mahmoud Ahmadinejad a Bretagna dove, facendo appello dai giudici inglesi con una moti- New York ha recentemente nega-alla “Dichiarazione Universale vazione pretestuosa e veramente to l’esistenza degli omosessuali in dei Diritti Umani" che protegge assurda, ossia che non sussistono Iran ma è in realtà di dominio chiunque sia perseguitato a causa prove certe della sua omosessua- pubblico il fatto che i giudici ira-della propria diversità", ha chiesto lità e dunque di un vero rischio di niani puniscono i gay con la fusti­

gazione o con la morte, se riesco­no a provare che abbiano avuto Il Gruppo EveryOne ci scrive relaziono omosessuali.

“Il caso di Pegah è emblematico dei processi di cambiamento che i Tornando a Pegah, rinchiusa dap­paesi democratici devono attuare in materia di rispetto dei diritti dei prima nel centro di detenzione profughi nonché di concessione dello stato di rifugiato e di asilo. per immigrati clandestini di Yarl’s Intanto nuovi casi sono stati sottoposti al Gruppo EveryOne da pro- Wood, nel Bedfordshire (dove fughi provenienti da paesi islamici che hanno chiesto asilo in Grecia pare abbia anche tentato il suici­e in Olanda e sono a "rischio deportazione". Stiamo cercando di offri- dio) e poi trasferita all'Asylum re un contributo anche in tali casi, lavorando con le associazioni loca- Seeker Support Initiative di li per la tutela dei diritti umani e gli studi legali. Per qualsiasi infor­mazione potete scriverci o telefonarci: 331 3585406 (Roberto Malini); 334 8429527 (Matteo Pegoraro) o 334 3449180 (Dario Picciau). continues à page 10

Una mano, un cartellino al polso: in questa immagine agghiacciante ecco gli unicielementi visibili di una donna uccisa a colpi di pietra

asilo politico. persecuzione in patria. Ora è vero

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26 giugno giornatainternazionale delle Nazioni Unite a sostegnodelle vittime della tortura

sabato 28 giugno dalle ore 19, pressoLa corte regina viale Monza 16, Milano

- cena multietnica preparata dai ragazzi del naga-har

- esposizione dicollagesrealizzati dagli ospiti del naga-har Francisco Goya

- musica con: Lex’n’bubbles acid jazz

naga-harkestrapiccola orchestra multietnica

...e poi si balla col Dj Leluna

Naga-Har Centro per i richiedenti asilo, rifugiati e vittime della tortura via Grigna 24, 20155 Milano tel. 023925466

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Sheffield, la giovane donna era dunque in attesa di venire estra­data dalle autorità britanniche, rispedita in patria e restituita così nelle mani dei suoi carnefici. Per fortuna, nei suoi confronti é partita una vera e propria mobili­tazione che, lanciata anche via Internet, ha raccolto oltre 20 mila adesioni concretizzatesi con la nascita di un'associazione, la "Friends of Pegah Campaign", e

simbolicamente con l'invio di quasi 30 mila mazzi di fiori alla struttura detentiva inglese in cui la giovane donna iraniana era rinchiusa. Ed é anche grazie a questa calorosa mobilitazione che i giudici inglesi hanno deciso di non espatriare Pegah e di lasciar-la libera in attesa che nei suoi confronti si svolga un regolare procedimento di carattere legale. “Attualmente Pegah si trova presso amici a Sheffield”, ci informa Roberto Malini del

Gruppo EveryOne, l’organizzazio­ne per la tutela dei Diritti Umani che segue e appoggia questo caso, “ed è già stata ascoltata due volte dalla Corte d’Appello, con un esito che i legali definiscono ‘sicu­ramente incoraggiante’. Il proce­dimento, che attualmente si svol­ge con una linea di legalità e di attenzione ai diritti della profuga, durerà ancora un paio di mesi. Siamo in contatto con lei e con l’associazione Assist di Sheffield per assicurarci che tutto proceda

bene. L’Ambasciata britannica in Italia ci ha rassicurati in via non ufficiale sulla disposizione positi­va dei magistrati, in appello. Come sapete, inoltre, il presidente del Parlamento Europeo ha redat­to e inviato una lettera a Gordon Brown caldeggiando la concessio­ne di asilo alla giovane donna ira­niana”. Insomma, questa incredi­bile vicenda sembra aver preso una piega più accettabile, e final­mente Pegah può ricominciare a sperare. ■

27 Paesi omofobi

L’omosessualità è attualmente illegale in 27 Paesi islamici. E per precisione in Afghanistan, Algeria, Bahrain, Bangladesh,

Bosnia Erezegovina, Iran, Giordania, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Kuwait, Libano, Malesia, Mauritania, Marocco, Oman, Pakistan, Q a t a r, Arabia S a u d i t a , S u d a n , S o m a l i l a n d , S i r i a , T a j i k i s t a n , T u n i s i a , Tu r k m e n i s t a n , Emirati Arabi, Y e m e n . T r a questi l’Iran, la M a u r i t a n i a , l ’ A r a b i a Saudita, il Sudan, la Somalia, Somaliland e lo Yemen prevedono addirittura la pena capitale. Fino a qualche tempo fa si applicava la pena di morte per aver preso parte a rapporti omosessuali anche in Afghanistan, quando i Talebani erano al potere. Il Pakistan prevede la fustigazione e alme­no 2 anni di carcere; in Malesia la pena arriva fino a 20 anni e negli Emirati Arabi fino a 14, mentre in Bangladesh e in Libia la pena è rispettivamente di 7 e 5 anni di carcere. Infine in alcuni Paesi come la Turchia, l’Egitto, la Giordania, il Mali (e altri ancora) , l’omosessualità non è punita come tale, ma i gay possono essere condannati per offesa alla moralità pubblica. ■

E se commetti sodomia…

Quali sono le pene previste dal codice penale iraniano per gay e lesbiche? Negli anni bui del khomeinismo gli uomini accu­

sati di rapporti omosessuali con minori di 15 anni venivano lapidati, mentre negli ultimi anni nei loro confronti sono state comminate soltanto condanne all’impiccagione. Più precisamente il codice penale iraniano recita: Articoli 108-119: "La sodomia, attiva e passiva è punita con la pena di morte se entrambi i sodomiti, attivo e passivo, sono adulti, sani di mente e con­senzienti. Le modali­tà dell’esecuzione sono a discrezione del capo del tribuna­le della sharia. Se il sodomita passivo è minorenne, verrà punito con 74 frustate. I sodomiti saranno riconosciuti colpevoli se confesseranno quattro volte o attraverso la testimonianza di quattro uomini di provata virtù. Per quanto riguarda le donne (numerose quelle condannate a morte per adulterio), oggi il codice penale in Iran dice: Articolo 134: “Se due donne senza vincoli di parentela si sono distese nude sotto la stessa coperta, senza necessità, saranno con­dannate a meno di 100 frustate. Se il reato e la punizione dovesse­ro ripetersi tre volte, riceveranno 100 frustate". Art. 129: "La punizione per le tribadi (donne omosessuali) è di 100 frustate". Art. 131: "Alla quarta volta, la punizione è la morte". ■

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Cosa dice attualmente la legge italiana

Per chi chiede asilo in Italia Due decreti legislativi introdotti all’inizio dell’anno stabiliscono chi può, arrivando sul suolo italiano, chiedere lo status di rifugiato, chi quello di protezione sussidiaria (nuova forma di protezione) e chi la protezione umanitaria. ° Quali diritti per i titolari delle diverse forme di protezione ° Come comportarsi in caso di diniego Livio Neri*

Tra gennaio e marzo 2008 sono entrati in vigore nel nostro ordinamento

importanti novità legislative in materia di diritto di asilo: si tratta dei decreti legislativi n.251 del 19 novembre 2007 e n.25 del 28 gen­naio 2008; tali decreti sono stati approvati per adeguare il nostro ordinamento a due direttive dell’Unione Europea che se cor­rettamente applicati dovrebbero migliorare la condizione del richiedenti asilo, dei rifugiati e dei titolari di protezione sussidiaria.

Immigrati in un Cpt. In alto, in fila per il permesso di soggiorno

Il primo dei due decreti introduce norme più chiare in merito all’at­tribuzione dello status di rifugiato e delle altre forme di protezione: precisa cioè chi ha diritto in Italia ad aver riconosciuto lo status di rifugiato, chi la protezione sussi­diaria (forma di protezione intro­dotta solo ora nell’ordinamento) e chi la protezione umanitaria. Vengono poi attribuiti diversi diritti ai titolari di ognuna di tali

forme di protezione (differente durata del permesso di soggiorno, trattamento in materia di lavoro e previdenza, possibilità di accede­re al ricongiungimento familiare,) Il secondo decreto, invece, regola la procedura per la richiesta di asilo o, come ora denominata, di protezione internazionale: attri­buisce cioè il potere di riconoscere o meno la protezione ad apposite commissioni territoriali, definisce i tempi per la risposta alle richie­ste, stabilisce i casi in cui il richie­dente asilo può o deve essere

accolto o trattenuto in appositi centri durante l’esame della pro­pria domanda e modifica in modo rilevante l’eventuale ricorso con­tro il diniego. Il decreto 251 specifica meglio quali siano le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato: il richiedente, come pre­visto dalla Convenzione di Ginevra, deve avere un fondato timore di essere perseguitato in

caso di forzato rimpatrio. Per persecuzione, in primo luogo, si intendono atti di violenza fisica, psichica o sessuale, ma anche atti giudiziari o amministrativi come sentenze, arresti, fermi di polizia, ecc. attuati in modo discriminato­rio ed ogni altro atto che, per natura o frequenza, può rappre­sentare una grave violazione dei diritti umani fondamentali. Perché tuttavia il timore di subire una persecuzione possa dare il diritto allo status di rifugiato, è necessario che la persecuzione

(messa in atto o anche solamente temuta) sia motivata dalle opinio­ni politiche del richie­dente asilo o dalla sua appartenenza a un particolare gruppo etnico, a una naziona­lità, a una religione, a un gruppo sociale o a un orientamento ses­suale. Il decreto ha anche il merito di chiarire (perché non per tutti ciò era scontato) che la persecuzione non proviene sempre dallo Stato: ha diritto al riconoscimento dello

status, pertanto, non solamente chi fugge dalle autorità costituite del proprio Paese, ma anche chi è perseguitato da altri soggetti (partiti o organizzazioni, anche internazionali), che di fatto ne controllano il territorio o parte di esso. Non solo. Ha diritto alla pro­tezione anche chi fugga perché teme di essere perseguitato da un qualsiasi soggetto (organizzazioni criminali, clan familiari, apparte­

nenti a sette, ecc.), quando è dimostrato che né lo Stato, né eventuali altri soggetti che con­trollano il territorio (partiti o altre organizzazioni), sono in grado di proteggerlo. Queste, in sintesi, sono le condi­zioni perché venga riconosciuto lo status di rifugiato. La novità principale del decreto 251, tuttavia, è l’introduzione di una nuova forma di protezione; tra lo status di rifugiato e la pro­tezione umanitaria, infatti, è inse­rita la nuova figura della “prote­zione sussidiaria”. Tale forma di protezione andrà riconosciuta a tutti coloro che, corrono un pericolo di subire un “danno grave” nel paese d’origine anche senza essere oggetto di per­secuzione ai sensi della Convenzione di Ginevra. rischino in caso di rimpatrio di essere sot­toposti alla pena di morte, alla tortura o a trattamenti inumani e degradanti o che siano civili fug­giti da conflitti armati (anche per tali soggetti, come per i rifugiati, è indifferente che la condanna a morte o la tortura siano inflitte dallo Stato o da altri soggetti). Sempre secondo questi decreti la durata dei permessi di soggiorno è di cinque anni per i rifugiati, di tre anni per i titolari di protezione sussidiaria e di un anno per i per­messi per motivi umanitari. Infine, in caso di diniego dello status di rifugiato il ricorso sospende gli effetti del diniego. Il ricorrente avrà pertanto diritto al rinnovo automatico del per­messo di soggiorno per richiesta di asilo sino alla decisione del Tribunale.n

* Avvocato

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L’indecente proposta di un assessore milanese per risolvere il problema dei nomadi

“Togliamo ai rom i loro bambini” “In tutti questi anni i rom non hanno mai voluto dividere i loro nuclei familiari.”, dichiara Tiziana Maiolo. “Evidentemente preferiscono far vivere i loro figli nella sporcizia e nel degrado. L’unica soluzione è che il Tribunale dei minori trovi per loro una soluzione, lontano dai campi in cui vivono i genitori”

Rosanna Sorani

Una scena consueta: calato il silenzio e centinaia e uno sgombero di un centinaia di uomini donne e campo rom sul territorio bambini hanno incominciato un

italiano. Stavolta ad essere nuovo esodo per cercare un presi di mira sono stati gli 800 altro luogo in cui nascondersi. rom provenienti dalla Romania In cui nascondersi, sia chiaro. che avevano trovato riparo in Perché di avere un luogo sicuro una baraccopoli alla Bovisa, dove poter finalmente comin-alla periferia di Milano. ciare una vita tranquilla per se Erano le 6,30 del mattino quan- stessi e per i propri figli, per do una colonna di blindati della l’appunto senza doversi più polizia si è affacciata all ingres- nascondere, non se ne parla so della baraccopoli, per ese-

Due padri rom con i loro bambini guire l’operazione di sgomberodelle famiglie rom. O meglio,per completare l’allontanamentodal campo degli ultimi nomadi,visto che nei giorni precedentic’erano già stati altri due blitzche avevano dato, come risulta-to, 187 baracche demolite e 205 rom identificati e rimasti senza tetto. Sarebbe ripetitivo ora descrive-re i drammatici particolari diquesti blitz, uno spettacoloormai consueto nel nostro paese che si definisce demo-cratico, con le ruspe che pren-devano la carica per abbatterele stamberghe, gli uomini delcampo che raccoglievano spa-ventati le loro poche cose e lemamme che interrompevano diallattare i loro piccoli, urlavanoper chiamare gli altri figli escappavano alla vista dei poli-ziotti in assetto antisommossa. Non è durata molto. Finito il lavoro delle ruspe, poco dopo è

proprio. Alcuni rom tra quelliche in qualche città italianahanno avuto una sistemazione riescono di tanto in tanto a tro-vare anche un lavoro ma solo dichiarando di essere romeni: “Se dicessi che sono rom mi caccerebbero via”, rivelano a più voci, “e come farei allora acomprare da mangiare per imiei figli?”Veramente ai figli dei rom ades-

so ci sta pensando TizianaMaiolo, l’imprevedibile assesso-re milanese alle attività produtti-ve, la quale ha proposto di togliere d’ufficio i bambini airom. Almeno, stando alle sue parole riportate dal giornale“DNews” il 2 aprile scorso: “E’inutile continuare a cercare luo-ghi dove ospitare soltanto lemadri con i bambini. In tutti questi anni i rom non hannomai voluto dividere i proprinuclei familiari (e menomale!, ndr). Evidentemente preferisco-no far vivere i loro figli nellasporcizia e nel degrado. L’unicasoluzione è che il Tribunale dei Minori si prenda in carico lesorti dei bambini e che trovi perloro una sistemazione, lontano dai campi rom”.Capito? Per risolvere il proble-ma dell’insicurezza delle nostre periferie bisognerebbe strappa-re i bambini da padri e madri eaffidarli al controllo del Tribunale dei Minori, come se fossero colpevoli di chissà qualireati. Evidentemente qualcunodovrebbe ricordare alla Maiolo che perfino nei campi di con-centramento nazisti come Auschwitz e Birkenau, dove piùdi 500 mila rom e sinti vennero deportati, vigeva per le famiglierom una normativa particolare: ifigli non venivano separati dalleproprie madri. Nel 1945 quandole SS decretarono la soluzione

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fotografie di Armando Di Loreto/UNHCR

finale nei vari campi di stermi-nio tristemente famosi per ilgenocidio degli ebrei, comeBergen-Beltzen, Buchenwald,Dachau, Mauthausen, Ravensbruck, Saksenhautzen, anche nei Zigeunerlager, glizingari, furono sterminati tuttiinsieme, mamme papà e bam-bini. Ma questa è una parteocculta dell’Olocausto, una veri-tà storica di cui l’opinione pub-blica è per lo più all’oscuro e dicui non si parla perché, spiegaMarco Revelli che ha dedicato al popolo rom il libro Fuori luogo, “è vero che la cultura rom è orale, non è basata sulla scrittu-ra come da noi, e che nella cul-tura rom il ricordo della tragediae della morte va tenuto nel silenzio, perché il dolore è intol-lerabile. Ma il vero motivo è legato al pregiudizio da parte ditanta gente, è il rifiuto versoquesto popolo, che in partecontinua”. Per questo anche quiin Italia, per qualunque cosaaccada, si tende a colpevolizza-re un intero gruppo sociale, irom, e ad aggredirlo con la piùinaudita violenza. Basti fare un esempio. A Opera, nel dicembre 2006,dopo l’ennesimo improvvisosgombero un gruppo di romromeni accampati lungo viaRipamonti si ritrova per stradacon materassi, bombole del gase poco altro. Forse perchémanca poco a Natale, il comu-ne di Milano decide di sistema-re “provvisoriamente” gli sfollatiin, una tendopoli allestita dallaProtezione Civile in un terreno ai confini con Opera. Neanche il tempo di arrivarci inquelle tende: il fuoco dolosodistrugge tutto. Fuoco annunciato, appiccato e rivendicato da un gruppo di cit-tadini operosi capeggiati e aiz-zati dai consiglieri di Lega Norde di Alleanza Nazionale, tuttora indagati e impuniti.Dopo una permanenza di 52

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Un’opera di Daniel Baker

violenze e persecuzioni e non può vedersi negare il diritto a cercare protezione in Italia. Per contribuire a far sviluppare in Italia un dibattito più misura­to su questi temi, l’UNHCR ha promosso, insieme alla Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI) e al Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti (CNOG), l’elabo­razione di un codice deontologi­co per i media in materia di immigrazione e di asilo, come auspicato, peraltro, dal relatore

speciale delle N a z i o n i Unite sul razzismo e la x e n o f o b i a . La Carta di Roma, già a p p r o v a t a dalla FNSI

ed in attesa dell’ultimo placet del CNOG, si propone lo scopo di fornire ai giornalisti delle linee guida che consentano loro di trattare in maniera più equili­brata le questioni relative adim­migrazione e asilo. Un primo, concreto passo per arginare le conseguenze negati­ve indotte dal consolidarsi di stereotipi e pregiudizi. ■

* consulente UNHCR

semplificati o travisati i dati per sostenere l’equazione ‘immigra­zione=criminalità’ e la ricerca del sensazionalismo ha portato ad una percezione distorta della realtà per gran parte dell’opi­nione pubblica. Esempio ne è ‘l’emergenza sbar­chi’ a Lampedusa, in Sicilia e sulle altre coste del Meridione. Coloro che arrivano via mare, come ricordato nei giorni scorsi anche dall’ex ministro dell’in­terno Giuseppe Pisanu, non costituiscono che il 10% circa d e i m i g r a n-ti irre­g o l a r i che si t r o v a n o in Italia. Tra di l o r o , t u t t a v i a , vi sono m o l t i r i c h i e -d e n t i asilo: i

dati per il 2007 mostrano come circa la metà dei richiedenti asilo in Italia giunga via mare e come ad una persona su cinque tra quelle sbarcate sulle coste italiane sia stata poi riconosciu­ta una forma di protezione. Il Mediterraneo, dunque, si sta configurando sempre di più non come via di accesso per i migranti economici ma soprat­tutto come rotta dell’asilo, una scelta disperata per chi fugge da

“Basta parlaredi criminalità”

Su come è’ vista l’immigrazione in Italia interviene una rappresentante dell’UHNCR

Anche i mezzi di informazione, alla ricerca del facile sensazionalismo, hanno favorito la criminalizzazione di migranti, rifugiati e appartenenti alle comunità rom e le reazioni di inaccettabile intolleranza Giulia Laganà *

Iroghi nei campi rom a

Ponticelli, nella periferia di

Napoli, e le vio­lenze contro uomini, donne e bambini costretti a fuggire dal luogo dove vivevano hanno suscitato in tutti coloro che si occupano di diritti umani in Italia, come (UNHCR) l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati , un senso di forte disagio e di indignazio­ne. Dure reazioni sono giunte inoltre dal Parlamento europeo e dal commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa, Thomas Hammarberg, il quale ha accusato l’Italia di ‘crimina­lizzare’ i rom. A Vi e n n a l’ODIHR, l’ufficio per i diritti umani dell’OSCE, ha emesso un comunicato in cui si chiedeva alle autorità italiane di “garanti­re la protezione della popolazio­ne rom” e si esortavano i politici e i mezzi d’informazione a “astenersi dalla retorica anti­rom”. Quanto successo a Ponticelli non deve però stupire. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una costante, e sempre più martellante, campa­gna di demonizzazio­ne dello straniero. Le dichiarazioni di molti esponenti politici hanno enfatiz­zato il nesso tra immigrazione e illegalità, contribuendo a crimi­nalizzare migranti, rifugiati e appartenenti alle comunità rom e a innescare reazioni di violen­za barbara come quelle messe in atto a Napoli. Ad inasprire il clima ed a stig­matizzare il ‘diverso’ hanno contribuito purtroppo anche molti mezzi di informazione ita­liani. Troppo spesso sono stati

Giulia Laganà

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giorni nella tendopoli ricostruitaalla meglio i rom, circondatigiorno e notte da un presidiopermanente allestito da rabbiosicittadini, tra insulti e minacce decidono di andarsene. Si potrebbero citare decine diepisodi analoghi, a testimoniarel’aumento della violenza contro i rom. Una violenza dovuta a volte all’insicurezza delle nostre periferie che provoca paura edisagio e spinge a vedere nellostraniero un nemico, ma dovuta anche purtroppo a una errataopinione che molta gente hanei confronti del popolo rom. E come ha sottolineato Gad

La realtà dei campi rom

Lerner nella sua trasmissione televisiva, L’infedele, molti degliargomenti scagliati oggi contro irom ricordano maledettamente la propaganda con cui fu giusti-ficata la persecuzione degliebrei 70 anni fa”. ■

Il Paradiso perduto dei rom alla Biennale di Venezia Isabella Barato

3 4

1

2 Quattro opere di artisti rom: la numero 1 e la 2 sono di Delain Le Bas, la numero 3 e la 4 sono di Gabi Jimenéz

Gitani, gypsies, nomadi, zingari, rom, molteplici nomi per designare un popolo che continua a

disorientare le nostre società; il diverso che ci inquieta, che ci ispira sgomento e ripulsa. La loro arte, esposta mesi fa alla Biennale di Venezia con il titolo di ‘Paradise lost’, Paradiso per­duto e con le opere di otto artisti rom europei, può aiutarci a comprendere meglio questo popolo. Una stanza presenta una scultura in legno con due grandi ali che proiettano sulla parete di sfondo la loro enorme ombra. Ali che appartengono all’ange­lo che simbolicamente protegge questi popoli disse­minati in tutta Europa, esposti a persecuzioni, vitti­me di Hitler, oggetto di pogrom e odio razziale anche oggi. La scultura è stata realizzata da Michaela Cimpeanu, romena. Nella soffitta del palazzo l’in­stallazione di Delain Le Bas (Gran Bretagna) crea un suggestivo ambiente capace di evocare l’intima essenza del vivere rom, in modo precario, alle spalle delle luci vistose della nostra smagliante società: bambole di pezza, secchi, specchi infiorettati, bran­

delli di veli o pizzi colorati disseminano il pavimento dell’illustre soffitta del palazzo, ma sorprendentemen­te, un misterioso armadio, se aperto, fa vedere una vec­chia televisione che trasmette documentari sulle mille persecuzioni subite da questo popolo. Altri artisti rap­presentano l’emarginazione, ma anche i colori e la vivacità del mondo dei “non gagé”. Occhi e caravan costellano le cartine geografiche delle opere di Delain Le Bas (Gran Bretagna). Gabi Jimenéz su grandi superfici propone in modo ripetitivo roulotte immobili o panni stesi o una moltitudine di visi al raduno di Saintes Maries de la Mer. Altre opere con tecniche e materiali diversi rappresentano vita, emozioni, aspetti, miti di questo mondo che si rivela, paradossalmente, come il più adatto a sintetizzare l’Europa Unita pro­prio perché presente in quasi tutte le nazioni europee, ma senza alcuna pretesa di costituire a sua volta una nazione. I Rom sono circa 12 milioni di persone e di queste, 8 milioni in Europa. Origini, lingua, religione, usi e costumi diversi non impediscono di riconoscere, attraverso la loro arte, un’identità comune. ■

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Racconta il giornalista Gabriele Del Grande nel suo coraggioso libro-denuncia “Mamadou va a morire”

Rifugiatima trattati come clandestini Nella stupida e assurda guerra scatenata dalla Ue per frenare l’immigrazione irregolare verso l’Europa vengono perseguitati anche i cittadini stranieri in fuga da paesi in guerra come l’Eritrea, la Somalia o il Darfur ma in possesso del tesserino rilasciato dall’UNHCR che attesta il loro diritto al rifugio politico. Dopo la cattura molti di loro, a causa del refoulement, il riaccompagnamento alla frontiera, vengono riconsegnati alle autorità dei paesi da cui sono fuggiti, con le terribili conseguenze che si possono prevedere Rosanna Sorani

Quasi diecimila morti in 19 anni: tra mare Mediterraneo e oceano

Atlantico più di novemila migranti hanno perso la vita in questo periodo vittime di una guerra scatenata dall’Europa per arginare il flusso dell’immigrazio­ne clandestina e contro una “invasione che in realtà non esi­ste”, come a voce alta ha denun­ciato nel suo libro-reportage Mamadou va a morire, il giovane giornalista Gabriele Del Grande. Per realizzare la sua inchiesta Del Grande ha percorso in tre mesi più di ventimila chilometri lungo le coste di Marocco, Tu n i s i a , Sicilia, Grecia, Algeria, Senegal, Libia e Turchia, sulle rotte dei clandestini che a migliaia muoio­no ogni anno tentando di attra­versare il Mediterraneo, o l’Atlantico alla volta delle Canarie, o i passi tra Grecia e Turchia, Albania e Grecia. E ha raccolto le testimonianze dei nuovi migranti che si preparano ad affrontare il viaggio verso la Fortezza Europa, e quelle dei parenti delle vittime: madri e padri che hanno aspettato col cuore in gola di ricevere una tele­fonata dai propri figli e di sapere che erano finalmente giunti a destinazione, mentre il più delle volte è arrivata purtroppo la noti­zia della loro morte. Come i giovani marocchini dece­duti sulle carrette del mare nella povera vallata rurale che si esten­de tra Fkih ben Juleh, Beni Millal e Khourigba: “La pianura tra

gliamenti congiunti di Frontex, l’agenzia Ue per il controllo delle frontiere. Ma anche le migliaia di vittime della repressione. Perché, come ci racconta l’autore di Mamadou va a morire, non si muore solo in mare o soffocati nei container. Si muore anche nelle carceri libiche e nelle deportazio­ni nel deserto, in Niger, in Sudan, in Mali: “L’Unione Europea chie­de ai paesi del nord Africa di con­trastare l’immigrazione clandesti-

Melilla: migranti africani in coda per il cibo

na via mare, quindi di impedire che le persone partano, arrestan­dole e rimpatriandole già lì, a sud. Tutto questo si riduce in una serie ininterrotta di operazioni di poli­zia dal Marocco, dall’Algeria, dalla Tunisia e dalla Libia dove vengono arrestate centinaia, migliaia di persone, in media due­mila teste al mese. E si tratta di

questi tre paesini è conosciuta dai suoi abitanti come il triangolo della morte: qui si aggirano i fan­tasmi di centinaia di uomini e donne annegati lungo le rotte per l’Italia e la Spagna. Da questi vil­laggi erano partiti i 34 morti del 31 ottobre ‘03 a Cadice, i 64 del naufragio di Chott Meriem in Tunisia del 3 ottobre ‘04 e i 50 di Lampedusa del 19 agosto ‘06”, riporta Del Grande nel suo libro-denuncia e in “Fortress Europe”,

il blog che ha creato un anno fa, che è cliccato in tutto il mondo e è diventato un irrinunciabile punto di riferimento per quanti si occupano del terribile dramma dei migranti. Un dramma i cui protagonisti sono le migliaia di vittime di quel­la stupida e assurda guerra che oggi viene condotta con i pattu­

gente catturata in mare o per stra­da oppure durante vere e proprie retate notturne, condotte porta a porta nei quartieri dove si ferma­no provvisoriamente i migranti provenienti dall’Africa sahariana. Alcuni denunciano di essere stati trasferiti al commissariato ancora in pigiama e di aver lasciato tutti i propri beni a casa. Anche i pro­pri documenti. E molti di loro, in particolare gli eritrei e i sudanesi, sono richiedenti asilo o già rifu­

giati. “Questi migranti irregolari vengono condotti in carcere e detenuti a tempo indeter­minato e in condizioni vera­mente al limite, in stanzoni di sei metri per otto dove dormono sessanta-settanta persone buttate per terra, e dove le torture, le violenze, gli stupri sono praticati con sistematicità. Un pugno di riso al giorno per ciascuno. E poiché non c’è nessun atto giuridico che preveda questo trattamento, non c’è nessun termine per la detenzione fintanto che le autorità non decidono di svuotare le car­ceri e di organizzare un rien­

tro o meglio una deportazione dei clandestini sui camion in pieno deserto, verso le frontiere col Niger, il Ciad, il Sudan o l’Egitto, da dove erano entrati illegalmen­te. Migliaia di vittime nel deserto del

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Sahara, Rispediti nel deserto. Si può immaginare in quali condi­zioni. Vuol dire venire caricati su veri e propri container di ferro,

pigiati uno all’altro. Il camion parte, un paio di giorni di viaggio fino alla frontiera. Dopo di che ai migranti viene intimato di scen­dere e di continuare a piedi verso il paese da cui sono partiti. Una volta finiti in pieno deserto, con l’aiuto di qualcuno di loro che bene o male conosce la zona, si cerca di seguire all’orizzonte il bagliore delle luci di qualche oasi lontana. Nel giro di qualche gior­no di marcia si riesce a raggiun­gere queste piccole oasi dove di fatto però ci si trova comunque bloccati perché privi di soldi e di qualsiasi altro valore che sono stati confiscati dagli agenti di polizia al momento del rilascio dalla prigione. Per cui, arrivati in queste piccole oasi, si rischia di rimanere comunque bloccati per mesi o per anni lavorando poco o niente per sopravvivere. Qualcuno ce la fa a ripartire, chi a ritornare più a sud, ma tanti pur­troppo ci lasciano la vita. A livel­lo ufficiale sono almeno mille le vittime del Sahara. In realtà sono molte di più perché quasi tutti tra

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i migranti somali ed eritrei che hanno attraverso il deserto hanno una testimonianza diretta o indi­retta di qualcuno con cui erano partiti e che nel deserto vi è rima­sto”. Tra i migranti irregolari ci

Alcuni incisivi disegni di Lorenzo Mattotti tratti dalla sua “Storia di Martine”, che ha come sfondo ladrammatica realtà di Ceuta e Melilla

sono anche richiedenti asilo e rifu­giati politici. Da quali paesi provengono? “Sulle rotte per l’Europa viaggia­no richiedenti asilo e rifugiati che provengono in particolare dal Corno d’Africa, dall’Etiopia, dalla Somalia, dal Darfur, in Sudan, ma soprattutto dall’Eritrea”, risponde Del Grande. “Già l’anno scorso, su 11 mila sbarchi, gli eritrei erano 3 mila. Quest’anno gli sbarchi sono diminuiti del 30 per cento ma stanno ancora arrivando tantissi­mi eritrei e somali. In Somalia in questo momento c’è la guerra civi­le, la gente è completamente allo sbando. Tanto è vero che dalla Somalia è in corso anche un gran­de esodo verso lo Yemen, all’im­bocco del mar Rosso. In quella zona si sta svolgendo un vero esodo di massa, con barconi stra­carichi di gente e migliaia di per­sone che fuggono ogni settimana in quel modo, con le loro speranze e le loro tragedie: solo qualche giorno fa uno di quei barconi è affondato lungo le coste dello

Yemen e 56 migranti sono morti annegati”. Il doppio problema per chi fugge da situazioni insostenibili come le carestie, la fame e le guerre civili è che tutta questa gigantesca mac-

Grande. “Chi parte dall’Africa oggi, a eccezione di quella picco­lissima élite che ha il passaporto e può permettersi di viaggiare in aereo, proviene dal fronte in guer­ra con l’Etiopia e certamente non

china di potrebbe tornare ad Asmara e guerra che chiedere un passaporto. Oppure l ’ E u r o p a viene dal Sudan, Darfur, due ha messo in situazioni tragiche. L’unica possi­moto per bilità che ha è quella di attraver­c o n t r a s t a r e sare il deserto, sperare di arrivare l ’ i m m i g r a- in Libia, e una volta imbarcati su zione clan- uno di quei barconi arrivare sulla destina via coste della Sicilia. Ma non è detto mare fini- che sia finita. Perché a questo sce per punto scatta l’accordo tra il s c h i a c c i a r e governo italiano e quello libico, un anche tutti accordo segreto che ha portato coloro che alle deportazioni in Libia di immi­s t a n n o grati non libici e di varie naziona­v i a g g i a n d o lità sbarcati a Lampedusa e dopo per chiede- qualche giorno, per l’applicazione re asilo del refoulement, il riaccompagna-politico in mento alla frontiera, caricati su Europa e aerei militari e spediti diretta-anche quel- mente a Tripoli, dove venivano li che la tes- arrestati dalle autorità libiche e sera di rifu- poi rimpatriati”. giato ce Che cosa dovrebbe fare l’UE? l’hanno già Risponde Gabriele Del Grande: in tasca ma “Per quanto riguarda i rifugiati non è rico- politici e i richiedenti asilo biso­n o s c i u t a gna avviare, come hanno già fatto nel territo- il Canada, gli Stati Uniti e la rio che Svezia, una serie di accordi con hanno ten- gli uffici dell’Acnur mediante tato di politiche di solidarietà, e offrire

attraversare. “La maggior parte di protezione e rifugio politico a chi queste persone in realtà non dall’Acnur è riconosciuto avente hanno alternative”, spiega Del diritto di asilo. ■

Dal libro reportage “Mamadou va a morire”

“E’ bene che si sappia quello che fanno alle donne nel carcere di Kufrah”

Il carcere di Kufrah è un luogo di morte. Quando senti il rumore delle chiavi nella serratura della cella ti si gela il sangue. Devi voltarti verso

il muro. Se li guardi negli occhi ti riempiono di botte. Non hai fatto niente di male ma rischi che ti spezzino un braccio…. … Eravamo almeno 700”, racconta sotto anonimato un ex colonnello del-l’esercito eritreo, oggi rifugiato politico in Italia. “Circa 100 etiopi, 200 eritrei e 400 da Chad e Sudan. Dormivamo per terra, uno sull’altro, non c’era nemmeno il posto per sdraiarsi. Pranzo unico: un pugno di riso bianco per tutta la giornata, 20 grammi a testa. C’erano anche delle baguette, ma per quelle bisognava pagare”. L’inferno del colonnello nel carcere di Kufrah è durato due mesi. “La notte mi portavano in cortile. Ogni notte. Mi chiedevano di fare le flessioni. Quando non ce la facevo più mi riempivano di calci e maledivano me e la mia religione cristiana. Ogni notte”. “Io quando ho visto Kufrah volevo impiccarmi – Yakob non scher­za – mi avevano portato via il cellulare e tutti i soldi che avevo in tasca e mi avevano sbattuto in una cella con altre venti persone. Non ti dico lo sporco, la fame, le umiliazioni continue. C’erano anche delle celle per donne e bambini. Le tenevano a parte. Le donne non te lo diranno mai per vergogna, ma è bene che si sappia quello che fanno alle donne a Kufrah. Le stupravano davanti ai mariti, davanti ai fratelli. Usavano ferri, basto­ni… E’ vergognoso. Ci trattavano come bestie. E tutto senza processo. Mi hanno arrestato a Tripoli. Il giorno stesso in cui sono arrivato. Una setti­mana prima avevo perso nel deserto l’amico con cui ero partito. A Kufrah ci sono rimasto tre mesi, ma c’è gente che sta dentro da un anno”. ■

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In fuga dalla mia Cabinda N’zinga Vemba

Io N’zinga Vemba sono stato fine il mese di ottobre 2002 il segretario del Flec-Fac (1) do

Miconje-Bucuzan in Cabinda. Sono scapato perche il movimen­to al potere, M.P.L.A. (2) c’e come oggetto uccidere tutti i elementi della fronte di liberazione dell’en­clave di Cabinda e forze armate di Cabinda Flec-fac. Il M.P.L.A, dopo avere ucciso Jonas Savimbi lidere ribele “Unita” a movimen­tato tutte le sue forze armate per Cabinda, dove massacrano la nostra gloriosa popolazione, per no accetare la presenza di questi nel inclave. Nel ottobre 2002, mi trovavo nella base militare de Flec-Fac nella località di Kungu-Shonzo in una riunione straordi­naria per ricevere informazione sulla situazione politico-militare della regione. Siamo stati sorpresi dal fuoco nemico, avevano amaz­zato tanti bambini, done, e perso­ne anziane dell villaggio. I bambi­ni erano sbattuti nei arberi e le done violentati e dopo uccisi. La notte, il buio e la vegetazione abbondante sono stati i miei sal­vatori. Anche se mi avevano feri­to con un proiettile alla gamba destra sono scapatto fino a un vil­laggio controlato per le nostre forze dove mi hanno dato i primi soccorsi. Ho fatto di tutto per arrivare dove avevo lasciato la mia moglie Teresa e i bambini, pero no è stato più possibile di

arrivare lì, perche alcuni dei nostri militanti mi avevano infor­mato che Miconje è stata colpita dal fuoco nemico e che tante per­sone sono stati morti, però mina­te. Non so se capite cosa significa minare un cadavere, significa che quando uno va vicino per toccarlo o per prenderlo per dare sepoltu­ra salta in aria in mille pezzi. E le done e bambini sopravissuti sono stati portati nei boschi o foreste. E le case brucciate. Io avevo il desiderio di sepultare la popolazione uccisa, anche il

mio papa e il mio fratello, però i corpi erano tutti minati e i maiali mangiavano i corpi e facevano esplodere le mine. Dopo avere vissuto con i miei occhi questa triste situazione, mi sono rifugiato nella Repubblica di Congo Brazzaville, dove però potevo finire nelle bracia delle forze angolane che controllano i due Congo. E così ho deciso atra-verso un amico abandonare il Congo, verso Etiopia e fino in Italia. Siamo partiti il 5 novembre 2003 e siamo arrivati il 7 novem-

Situata nell’Africa centrale sull’Oceano Atlantico, la Cabinda (10 mila kmq. e una popolazione di 300 mila anime) fornisce dal 50 al 70 per cento delle risor­se petrolifere dell’Angola, che è diventato così, a causa della crescente doman­da di greggio, un partner importante sulla scena internazionale. E’ chiaro quindi, l’interesse con cui il governo angolano da anni impedisce qualsiasi ten­tativo di rivendicazione della propria autonomia da parte del popolo della Cabinda costretto, in realtà, a un’esistenza di fame, di miseria e di oppressio­ne. Nel 2002-2003 Luanda ha inviato nella Cabinda 30 mila soldati: in questi anni si verificano gli incredibili crimini di cui Human Right Watch accusa le Faa (le forze militari angolane): pestaggi, arresti, detenzio­ni arbitrarie, torture, stupri di gruppo. In poco più di un anno almeno 2000 miliziani del Flec vengono disarmati e le loro basi in Congo e nella Repubblica Democratica del Congo vengono distrutte. Nell’agosto scorso il governo angolano e il FCD (Forum cabindano per il dialogo) hanno firmato un accordo di pace che prevede la completa smili­tarizzazione dei combattenti del Flec e la loro integrazione nelle Forze arma­te angolane e nel governo. Il Flec e le altre organizzazioni non hanno però riconosciuto l’accordo. Continuano così gli scontri tra i soldati delle FAA e quelli del Flec. Come finirà? Da alcune testimonianze non confermate risulta che dopo la firma dell’accordo si sono avuti ancora scontri tra i soldati delle FAA e quelli del Flec. Intanto il piccolo popolo della Cabinda, anche a causa dell’inquinamento delle coltivazioni e dei corsi d’acqua dovuto all’estrazione petrolifera, non riesce a procurarsi le risorse per sopravvivere. ■

Tra oppressione e miseria

E.R.

bre 2003 a Milano Linate e ho ottenuto rifugio politico. Fino a questa data no sapevo nulla della mia famiglia se sono tutti in vita o no. E ogni giorno ogni minuto cercavo sempre di sapere cosa fare e chi rivolgere per ritrovare mia famiglia, ma tutto era impo­sibile finchè un giorno una donna africana mi chiese se io mi chia­mavo Vemba e cercavo mia fami­glia dispersa, perché lei forse sapeva dove io andare per trovar­la. Così mi diede telefono di Cesara (la psicologa Cesara Montoli, psicologa del Naga Har, il centro milanese dei richiedenti asilo e rifugiati politici) e tutto ebbe risultato felice per me e per mia famiglia rimasta. No tutta famiglia perché un figlio piccolino è morto quando mia moglie venne presa e altro figlio grande è anco­ra disperso. Intanto, ora mia Teresa anche lei sta per ottenere permesso di soggiorno e le cose cominciano ad andare bene: viviamo in una casa in affitto vici­no a Canzo, i figli che ho ritrova­to vanno a scuola e io comincio a sperare che il loro futuro sarà buono. In Cabinda invece da quello che so le cose non vanno bene, anzi forse vanno peggio di come lasciato io cinque anni fa. ■

1) Fronte per la Liberazione dell’enclave di Cabinda. 2) Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola.

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Teresa Vemba, la moglie di N’zinga Vemba racconta la sua terribile odissea, prigioniera delle truppe angolane

Picchiata e violentata dai militari Nell ottobre 2002 siamo

stati sorpresi dai militari angolani che cercavano il

mio marito, perché lo volevano uccidere perché lui è stato il segretario della F L E C - F L A C nella località più a nord di Angola, hanno fatto fuoco a casa mia mi chiedevano del marito, rispon­devo sempre di no sapere nulla di lui e loro mi hanno picchiata per farmi parla­re, dopo di che sono andati a prendere il mio suocero e il mio cognato per assi­stere e dopo puli­re il mio sesso quando questi militari mi vio­lentavano. Il loro rifiuto di pulire e stato la loro condana, sono stati uccisi davanti ai miei occhi e dei bambi­ni. Wame Mpangi, il mio figlio che e nato nel 1995, che giocava fuori con gli amici e stato portato via dai militari prima che ci por­tacero nella prigionia nelle foreste di Mayombe dove ero picchiata, maltrattata e violentata da un uomo militare che mi a voluto come sua amante, sono stata brucciata con la polenta calda con l’acusa di non sapere cucci­nare, ero quasi sempre legata le mani e i piedi, libera solo quando lui e presente. Un giorno perche avevo rifiutato di fare sesso con lui mi voleva brucciare e mi aveva buttato ben­zina a dosso, la mia fortuna è stata il suo colega quindi un altro militare che a detto al colega di non farlo. E a preso l’accendino. Dopo di 3 anni di prigione il mili­tare aveva più fiducia in me e mi

Qui e in basso, lavori di Ralf Albert Penck

Teresa Vemba

ha cominciato a concedere per­messo di fare alcun giro nei boschi, da sola o con i bambini. Un certo giorno, ho deciso di no

tornare più indietro, ho continua­to con i miei bambini a cammina­re nei boschi, avevamo tanta fame, sete, le zanzare ci facevano di loro cibo, i bambini non ce la facevano più, abbiamo ragiunto la strada molto lontana dalla base militare, ho visto passare un camion dei commercianti ho chie­sto passaggio e come hanno visto i nostri corpi troppo dimagriti, ci hanno portato e ci hanno dato anche dei picoli soldi fino Brazzaville, dopo abbiamo traver­sato il fiume con il piccolo tra­sporto fatto da legno, c’era tanta gente dopo siamo arrivati al Congo Kinshasa “Repubblica Democratica Congo” dove siamo stati ospite nel centro di acco­glienza della chiesa evangelica di Congo. Dopo alcuni mesi il pasto­re Mopanzi anche lui rifugiato in Congo mi ha riconosciuto e io anche e ci ha portato a casa sua per vivere dove mi a confermato

che mio marito non era morto ma che si trovava in Belgio perché lui aveva letto, nell’aprile 2004, su un giornale proveniente di Belgio,

che guarda il caso era proprio Asylum Post un articolo dove il mio marito parlava della situazio­ne del popolo di Cabinda. Sono stata sorpresa. E non crede­vo che fosse vero. Lui a organizzato il mio viaggio per Belgio per gli cercare attraver­so le autorità Belgio il mio mari­to. Quando sono arrivata in Belgio sono andato alla loro questura e loro mi hanno portato in un cen­tro di accoglienza, ho parlato tante volte con gente africane, soprattutto angolane, ho chiesto del mio marito. Sorprendentemente dopo alcuni mesi il mio marito e arrivato in Belgio con lo status di rifugiato politico di Italia. Però e stato rifiutato di entrare nel centro di accoglienza. Abbiamo parlato velocemente e ci a lasciato l’email e pochi soldi, ci a detto di tornare in Italia per informare alle autori­tà italiane. Solo che dove ero

rimasta a ogni picola cosa che chiedevo gli assistenti dicevano: “Il tuo posto non è qua è in Italia. Va dal tuo marito”. Ero così infu­riata. Ho preso i miei bambini fino a Brussels dove abbiamo preso treno insieme a una dona africana mulata che parlava por­toghese che anche lei veniva in Italia, verso Como. Ci a ospitato per tre giorni e lunedì ci a portato in questura di Como. Dopo i responsabili della questura ci hanno portato al centro di acco­glienza di Tavernola, sempre in quella zona, un centro dove arri­vavano tutti quegli stranieri che avevano un problema, gestito dalla signora Luciana Carnevale, una buonisima assistente sociale e qui ci sono rimasta circa tre mesi. Durante questo periodo la signora carnevale ha cominciato, prima tramite Internet poi con suoi amici a cercare di trovare il mio marito perché nessuno sapeva dove lui essere. La signora Carnevale è stata proprio brava perché andò anche al Comitato angolano senza però ottenere informazioni buone, poi invece tramite signora Cesara di Milano (la psicologa Cesara Montoli del N a g a - H a r, n d r ) e tramite una signora africana del posto riuscì a trovare il mio marito che stava a Garbagnate, sempre nella zona di Como e Lecco. E così nel gennaio di quest’anno, dopo lunghissimi cinque anni riuscivo a riabbracia­re il mio adorato marito. Oggi viviamo di nuovo insieme, in un paese vicino a Canzo, con molta fatica perché il lavoro per Manuel è poco e abbiamo un solo sogno: ritrovare il nostro figlio, Wame Mpangi. ■

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In un bellissimo docu-cartoon del regista israeliano Ari Folman

Quei terribiligiorni di Sabra e Chatila

Edoardo Matacena

All’edizione appena con- che in quei giorni di odio e vio- commilitoni riaffiorano, dando clusa del prestigioso lenza era un giovane militare vita a immagini dall’impatto cru-Festival cinematografico dell’esercito israeliano, di stanza dele e veritiero nonostante si

di Cannes è stato presentato ildocumentario animato “Wa l t z With Bashir”; questo docu-car-toon di denuncia racconta senza censure e inibizioni i giorni disangue di Sabra e Chatila, i campi profughi in Libano dove, tra il 16 e il 18 settembre del 1982, migliaia di famiglie arabedella Palestina furono vittime della brutale rappresaglia dellemilizie cristiano-falangiste liba-nesi sotto lo svogliato controllodelle forze israeliane che aveva-no invaso il Libano pochi nei pressi di Beirut, al fianco di tratti di disegni animati. mesi prima. Gli quello libanese. “Waltz Wi t h L’effetto sul pubblico è forte, tan-ottimi disegni Bashir” è quindi l’occasione per t’è che a Cannes è stato difficile del film sono Folman di compiere un viaggio applaudire: non per la qualitàa c c o m p a g n a t i introspettivo, che rievoca un del film, definita assolutamente dalla voce nar- passato che la sua mente vuole eccellente, ma per via del temarante del regi- cancellare. trattato e della sua brutalità. sta Ari Folman I ricordi di Folman e dei suoi “Waltz With Bashir” è quindi un

Nelle immagini alcune scene di “Waltz With Bashir”

film di forte impatto, e sta giàsuscitando le prime polemiche acavallo dell’uscita in patria; a un

primo approccio infatti potrebbesembrare che il lun-gometraggio di Folman sposi una tesi anti-Israele, ma il significato è piùprofondo e soprat-tutto universale. “Waltz With Bashir” si scaglia contro laguerra in sé e la suainutilità, contro il potere e i suoi rap-presentanti, che

nella comodità delle loro poltro-ne sono sempre pronti a giocarecon la vita di uomini donne e bambini, come se si trattasse di inanimate pedine di un semplicegioco da tavolo. La vita non èuna partita a risiko e Folman celo dice chiaro e forte. ■

Roma, al Festival del Cinema “Senza Frontiere”

Barenboim e i suoi “ragazzi”per la pace e la tolleranza

Daniel Barenboim con i giovani esecutori della West-Eastern Divan Orchestra

Alla Casa del Cinema di Roma si svolgerà dal 21 al 23

luglio prossimo il Festival cinema­tografico “Senza frontiere” che si propone di mostrare al pubblico 12 film tra documentari e lungo­metraggi provenienti dalle più importanti rassegne mondiali la cui tematica riguardi la funzione mediatrice dell’arte nei conflitti tra popolazioni e/o nelle situazio­ni geopolitiche. “In particolare i film in program­

ma hanno tutti lo scopo di rac­contare come realtà differenti possano entrare in comunicazione tra loro attraverso l’arte, il cine­ma, il lavoro, con la volontà di costruire insieme, senza illusioni e senza rinunciare ai propri idea­li”, ci spiega Fiamma Arditi, del comitato direttivo del Festival. E tra i titoli proposti ne indica uno, certamente emblematico degli intenti di questa rassegna: “Si tratta di Knowledge is the

Beginning, un documentario di Paul Smaczny, vincitore di un prestigioso Emmy 2006, dedicato alla West-Eastern Divan Orchestra, fondata dal direttore d’orchestra israelo-argentino Daniel Barenboim e dall’intelle­tuale palestinese-americano Edward Said. Questo film dimo­stra come giovani musicisti prove­nienti da Siria, Egitto, Libano, Israele e Palestina vivono, lavora­no insieme e vanno in tournée in

giro per il mondo da Siviglia a Berlino e Ramallah e sono la prova vivente che, nonostante provengano da paesi in guerra tra loro, riescono perfettamente a comunicare e a contribuire ad eli­minare le barriere”. Proprio secondo la filosofia di Daniel Barenboim per il quale la musica è “motore di pace e tolle­ranza” e la pace è “il bene supre­mo per un popolo se vuol soprav­vivere”. ■ R. S.

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Un rapporto della Procura di Genova in un utilissimolibro a fumetti

Il massacro della scuola Diaz Le immagini di questo testo mi hanno riportato non solo con l a memoria ma con tutta me stessa, la mia paura, la mia rabbia e la mia incredulità agli sconvolgenti giorni del G8

E’ come riandare non solo con la memoria ma con tutta me stessa, con la

mia paura, la mia rabbia e lamia incredulità di allora, ai gior-ni di Genova 2001. Questo ho provato trovandomi tra le maniil “Dossier Genova G8”, uscito in questi giorni per le edizioniBecco Giallo: la ricostruzione a fumetti della Memoria

Illustrativa della Procura di Genova inerente all’assalto alla scuola Diaz. Non ho vissuto personalmentel’incredibile violenza perpetrata

Asylum Post, pubblicazione trimestrale Direttore responsabile: Elena Redaelli Progetto grafico: Luca Varaschini Stampatore: Cartalpe Redazione: associazione culturale s-confini Via Padova 70, 20131 Milano e-mail: [email protected] Registrazione del Tribunale di Milano n.782 del 23-12-2003

Elena Redaelli

dallo Stato in quella scuola, maricordo che qualcuno sul trenoche alla fine di quei terribiligiorni ci riportava a Milano, siera sintonizzato sulle frequenzedi Radio Popolare e veniva tra-smessa in diretta l’incursione della polizia alla Diaz. Ci siamoammutoliti di colpo, sgomenti,nonostante avessimo già vissu-to gli indiscriminati bestiali

pestaggi durante la manife-stazione e nonostante fossi-mo ancora tutti sconvolti perl’uccisione di Carlo Giuliani. Sono fatti che non si posso-no e non si devono dimenti-care. Tutti devono sapere.Dopo decine di libri di rico-struzioni, analisi e testimo-nianze e di rappresentazioniteatrali adesso c’è questacoraggiosa ricostruzione afumetti. I disegni di GabrieleGamberini ti catturano come le immagini di un filmin bianco e nero dove, forse come in Schindler List di Spielberg, il colore è bandi-to dalle scene delle atrocità commesse. La sceneggiatrice è GloriaBardi che ripercorre le testi-monianze delle violenze

subite, gli atti e i verbali degliinterrogatori, nonché le versio-ni dei poliziotti i quali, smentitedai filmati, cambiano continua-mente versione o, per scagio-

La Redazione: Elena Redaelli, Rosanna Sorani, Silvia Prigione, Smail Djennadi, Svetlana Knèzovich,Yamtou Banangassou

Hanno collaborato: Antonio Olivieri, Edoardo Matacena, E.R., G.T., Giulia Laganà, Isabella Barato, Livio

narsi, si accusano l’un l’altro. Emblematica in uno degli episo-di la comparsa/sparizione delleMolotov. Crea sconcerto che i responsa-bili di queste inaudite violenze esuccessivamente delle falsità e dei depistaggi non solo nonsiano stati rimossi dal loro ruolo ma abbiano avuto avanzamenti di carriera: un premio per il lorooperato. E questo libro ci aiutaa ricordare. “Speriamo che sialetto e apprezzato anche daquanti nonhanno sim-patia per laparte politi-ca cui apparten-gono le vit-time e magari nehanno perle forze dell’ordi-ne”, si

augura Gloria Bardi, “infatti chiriconosce nell’”ordine” un pro-prio valore di riferimento,dovrebbe essere il primo a nonvolere il “disordine”, l’illegalità,l’arbitrio, l’abuso, la sospensio-ne del controllo da parte di chilo esercita per mandato”. ■

Neri, Michael Kidane, N’zinga Vemba, R.S., Silvio Rossi, Teresa Vemba, Hussein El Dorr,

Fotografie di: Aiscafrica, Angelo Lo Buglio, Armando Di Loreto-UNHCR, Cristiano Rea, Giorgio Barbarini, Luciana Rea,

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