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n ° 10 Suono e parola: antiche e nuove corrispondenze Atti del Convegno Milano, 9 e 10 giugno 2006

Atti del convegno PerformingArts

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Convegno “Suono e Parola: antiche e nuove corrispondenze” - Auditorium Lattuada, Milano, 9 e 10 giugno 2006

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n° 10

Suono e parola: antiche e nuove corrispondenze

Atti del Convegno Milano, 9 e 10 giugno 2006

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PerformingArts è un progetto realizzato da

Progetto n. 297785 Multimisura Azioni di sistema FSE Ob. 3 Anno 2004/2005

Atti del Convegno Milano, 9 e 10 giugno 2006

A cura di Pier Paolo Bellini

Suono e parola: antiche e nuove corrispondenze

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È sicuramente motivo di compiacimento per la Regione Lombardia poter verificare, anche pubblicamente, l’efficacia delle scelte di investimento di risorse intellettuali e finanziarie realizzate all’interno del Dispositivo Multimisura Azioni di Sistema coofinanziato con il Fondo Sociale Europeo – Obiettivo 3 Anno 2004-2005 (D.D.U.O. n. 12410 del 05/08/2005). In particolare il progetto PerformingArts ha mostrato, nelle sue molteplici tappe ed azioni, un significativo avanzamento nella direzione di un approccio innovativo, finalizzato ad innalzare il livello qualitativo dell’offerta formativa regionale, così come il bando essenzialmente prevedeva. E tutto questo in un settore, quello della produzione artistica, che ha reso la nostra Nazione, e, in modo particolare (siamo orgogliosi di dirlo) la nostra Regione, famose nel mondo.Proprio questo settore vive, non possiamo nasconderlo, un momento di difficoltà nella definizione di figure professionali capaci di comprendere e valorizzare il patrimonio culturale e, nello stesso tempo, preparate a rispondere alle domande di un mercato contrassegnato da forte richiesta di risorse creative e di capacità interdisciplinari, che il sistema formativo stenta a fornire. Questa è la peculiarità del progetto, che ha tentato di realizzare una “definizione di modelli e metodologie per la definizione di percorsi innovativi di istruzione e formazione superiore ed alta formazione attraverso l’integrazione tra sistema universitario e della formazione professionale”, offrendo così un primo contributo verso la “costruzione e lo sviluppo di un qualificato sistema pluralistico e integrato tra pubblico e privato di servizi di istruzione, formazione ed inserimento lavorativo”, in sintonia con le esigenze e il livello di eccellenza del nostro lavoro.Nell’analizzare i risultati conseguiti attraverso le varie fasi di questo progetto (teorico, pratico e sistemico nello stesso tempo), è inevitabile cogliere i possibili e promettenti sviluppi che ne possono nascere: l’intuizione, che si è concretizzata in un iniziale ma significativo esempio, della utilità e della necessità di un approccio multidisciplinare nel campo creativo, apre la strada verso l’attuazione di realtà formative adeguate a questa urgenza, che il mondo produttivo segnala con chiarezza. Ci auguriamo perciò, che “la produzione di modelli, strumenti e buone prassi consolidabili”, emerse in questa particolare esperienza, siano ora “trasferibili a tutto il sistema della formazione lombardo e nazionale”.È di grande conforto, infine, concludere questo interessante percorso in una modalità certamente sui generis ma concreta rispetto all’innovativa proposta formativa: la scelta di premiare gli esiti, cioè le opere di musica e poesia più esemplificative di un linguaggio aderente ai desideri dei bambini e da loro maggiormente fruibile, permette infatti di toccare con mano la validità dell’idea iniziale e fa sperare, ragionevolmente, che questo sia, come nelle intenzioni del progetto, un primo passo verso la ricostituzione di un pubblico capace di ridare vita ad un settore produttivo di grande tradizione.

Gianni RossoniAssessore all’Istruzione, Formazione e Lavoro

della Regione Lombardia

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INTRODUZIONE Introduzione 7

Tavole rotonde sui temi:

1. Istituzioni e professione artistica 9

PIER PAOLO BELLINI (Docente di Sociologia della Musica, della Letteratura e dell’Arte – Università del Molise)ANGELA CALICCHIO (Direttrice Centro Nazionale di Drammaturgia Contemporanea Outis - Milano)ANNA FELLEGARA (Direttrice Vicaria Fondazione Scuole Civiche - Milano)MARCO VACCHETTI (Direttore Didattico Master Scuola Holden - Torino)

2. Suono e parola: antiche e nuove corrispondenze 31

Moderatore: LUCA DONINELLI (Scrittore)FABRIZIO FRASNEDI (Docente di Linguistica Italiana e Didattica dell’Italiano – Università di Bologna)ENRICO GIRARDI (Critico Musicale)

3. Ritmi di versi: la pulsazione poetica 43

Moderatore: FRANCO PALMIERI (Regista)LUCA DONINELLI (Scrittore)FRANCO LOI (Poeta)DAVIDE RONDONI (Poeta)

4. Al cuore della parola: il canto 59

Moderatore: ROBERTO ANDREONI (Compositore)CARLO BOCCADORO (Compositore)LUCA FRANCESCONI (Compositore)MICHELE TADINI (Compositore)

Chiusura dei lavori 81

PIER PAOLO BELLINI

Appendice 85Corso di Formazione Formatori e Il laboratorio “Tra musica e scrittura: le mani in pasta” Il Concorso Nazionale “Un’opera per bambini”

INTRODUZIONE Indice

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Pier Paolo Bellini

INTRODUZIONE

Gli atti del convegno “Suono e parola: antiche e nuove corrispondenze” sono la testimonianza ‘accattivante’ di una intuizione che è stata alla base di una schietta e stimolante discussione tra professionisti del settore artistico. Questa intuizione, se si vuole, un po’ naif è alla base anche di tutto l’articolato progetto PerformingArts.

L’idea di fondo di questo innovativo percorso si basa, sinteticamente, sulla convinzione che la conoscenza di linguaggi artistici differenziati è oggi una necessità più che un fatto di cultura personale: saper utilizzare canali e codici artistici diversi è una marcia in più per chi si vuole confrontare con un mercato caratterizzato da processi di mutamento straordinariamente veloci.

In questa direzione sono state realizzate le prime tappe del progetto PerformingArts che, oltre ad uno studio e ricerca sul campo dedicati alla situazione attuale delle professioni della scrittura, ha previsto l’organizzazione di un convegno, di un seminario di formazione formatori (per disporre di un corpo insegnanti adeguato alla novità dell’idea), di un laboratorio (in cui sperimentare l’efficacia di un lavoro a quattro mani dietro la guida di giovani insegnanti) e infine un concorso nazionale di composizione di un’opera per bambini (che prevede la co-creazione di testo e musica tra due artisti viventi).

Il ‘sogno nel cassetto’ è quello di realizzare una sperimentazione a tutto tondo, comprendendo, volta per volta, le arti più significative della nostra tradizione, nella direzione di una ‘scuola delle arti’, attualmente assente nel panorama delle offerte formative nazionali.

La stesura che segue conserva il carattere discorsivo, non accademico di una discussione che, come si noterà, è stata schiettamente franca, senza esclusione di ‘stoccatine’: conservare il tono originale significa, inevitabilmente, chiedere al lettore un ulteriore sforzo di immedesimazione per comprendere il ‘vissuto’ di tante espressioni ‘parlate’.

Si è ritenuto importante, inoltre, allegare un racconto dei momenti formativi e dei laboratori, nei quali si è potuto verificare con mano le opportunità e i nodi problematici di un progetto di riavvicinamento e di collaborazione dei diversi linguaggi artistici.

Segue, infine, una breve presentazione del concorso nazionale che, per le condizioni previste, è, in qualche modo, la proposta ‘pubblica’ della intuizione iniziale con cui paragonarsi concretamente per verificare la validità e la reale fattibilità dell’innovativa esperienza proposta da PerformingArts.

Pier Paolo BelliniCuratore scientifico progetto PerformingArts

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PRIMA TAVOLA ROTONDA ISTITUZIONI E PROFESSIONE ARTISTICA

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Il mio compito sarà quello di fare il punto della situazione, almeno per quanto riguarda le ricerche fatte. La ricerca si collega a un progetto precedente, denominato LiberalArts: sicuramente il progetto attuale è un po’ più ambizioso, perché oltre all’aspetto di ricerca, di formazione, di convegno e di spettacolo, quest’anno si è anche tentato un progetto laboratoriale, una fase di sperimentazione di un’idea, un’ipotesi che vorrei condividere e anche offrire come spunto di dibattito per i relatori qui presenti. Abbiamo con noi tre ospiti significativi: questa prima tavola rotonda ha come propria focalizzazione una prospettiva che potremmo definire istituzionale, progettuale, politica e culturale. Il secondo tavolo di lavoro avrà invece un taglio più storico-estetico. Domattina assisteremo ad un “confronto diretto” tra i professionisti del settore, cioè tra scrittori e musicisti. L’idea (che si spera di poter realizzare tra cinque o dieci anni) è quella di poter affrontare non solo due arti, come in questo caso, cioè la musica e la scrittura, ma di poter tentare una metanalisi di tutte le espressioni artistiche. Per il momento ci accontentiamo di questo primo step: realisticamente, ci sembra già un passo grande poter verificare un iniziale tentativo di interrelazione tra questi due linguaggi.Oggi, dopo di me, interverrà il maestro Anna Fellegara, che è Direttore del Politecnico della Cultura e delle Arti (ex Scuole Civiche di Milano), la quale farà una relazione su quello che sta succedendo in questa scuola che ci ospita, una realtà che sembra essere tra le più vicine a questo tentativo di interrelazione tra linguaggi. Sarà interessante verificare risultati e difficoltà incontrati lungo questa stra-da. I due ospiti successivi non porteranno tanto un intervento istituzionale, quanto una testimonianza di esperienza personale entro due differenti ambiti di scuola e di organizzazione. Angela Lucrezia Calicchio, fondatrice e Direttore di Outis, Centro Nazionale di Drammaturgia Contemporanea, e Marco Vacchetti, Direttore Didattico del Master in Tecniche della Narrazione alla Scuola Holden di Torino, racconteranno due esperienze che si pongono in un crocevia di linguaggi espressivi. La narrazione dell’idea, dell’ipotesi o dell’intuizione che desidero mettere sul tavolo della discussione è nuova anche per me, perché riguarda due settori che normalmente sono reciprocamente sconosciu-ti. Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, la formazione artistica è qualcosa di strettamente specialistico, qualcosa di assolutamente inconsapevole – o non sufficientemente consapevole – del funzionamento degli altri linguaggi artistici. In Italia questa è di solito la regola; penso che sia arrivato il momento di ricominciare a conoscere il funzionamento dei linguaggi artistici, che non siano esclusi-vamente quelli della propria specializzazione. Rappresento un “ibrido professionale”, frutto di formazioni diversificate: sono un letterato, allo stesso tempo ho fatto il Conservatorio e adesso sono un Ricercatore di sociologia. Quindi ho un po’ di vi-suali, forse distorte, ma sicuramente diverse da quelle classiche. La mia ricerca è cominciata da quello che mi era più vicino, cioè la situazione dei musicisti in Italia; mi sono diplomato in Composizione e ho iniziato a cercare lavoro. Avendo la possibilità di fare una ricerca, ho scelto, quindi, i musicisti con il diploma di formazione classica. La struttura della ricerca poggia su un’intervista ai professionisti (pochi, una cinquantina, perché non sono tantissimi quelli che vivono di produzione musicale) e, contemporaneamente, su un questionario rivolto ai diplomati in Conservatorio in Italia tra gli anni ’90 -’93, cioè una quindicina di anni fa. Sic-come alcuni di voi hanno già conosciuto i risultati di questa ricerca1, li sintetizzo molto: in pratica sono emersi alcuni dati significativi che rendono abbastanza bene la problematicità della situazione. Fino

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agli anni settanta si diplomavano circa 600 studenti all’anno. Negli anni tra il ’70 e l’84 c’è stata un’impennata che ha una sua giustificazione: mi spiegavano, alcuni colleghi più anziani di me, che ci fu un boom di produzione, un boom di richiesta, tanto che si andavano a cercare gli strumentisti all’estero, soprattutto nell’Est europeo. Si è così arrivati ad una media di 3000 diplomati all’anno. Questa media è un po’ scesa negli anni duemila (sono arrivato al 2003 e siamo ancora intorno a quel numero).Ora, questo è il primo dato che ci fa pensare: in Italia abbiamo sei volte i diplomati che si avevano trent’anni fa, diplomati che hanno una certa identità (e questo era l’aspetto che mi interessava andare a cogliere).Questi diplomati rispondono ad un’esigenza professionale del nostro mercato?2 Questa era la prima domanda. E, soprattutto, che tipo di identità hanno questi ragazzi? Essi vengono sottoposti, come san-no molti di voi, a un tirocinio abbastanza pesante, perché i corsi vanno dai sei ai dieci anni, quindi una cosa impegnativa. Ho chiesto loro che aspettative avevano quando si sono diplomati, sempre al fine di fare un identikit, di realizzare una sorta di carta d’identità dei musicisti che vengono ‘prodotti’ dalle scuole e dai Conservatori. La cosa che colpisce è che praticamente tutti sono usciti con l’idea di tentare una professione altamente specialistica e, contemporaneamente, altamente tradizionale3. Si va dal professore d’orchestra, all’insegnante di Conservatorio, strumentista solista, altro in ambito musicale (tra cui compositore, maestro, direttore d’orchestra, direttore di coro) e insegnante di scuola: quattro o cinque professioni sono quelle cui si aspira diplomandosi, giustamente, dopo un cammino così impegnativo.La cosa che mi ha colpito è che tutte le altre possibili utilizzazioni delle competenze musicali sono addirittura impensabili, quasi tutte sotto il 3% (organizzatore di eventi musicali, studioso di linguaggi musicali, esecutore di musica leggera, collaboratore di case discografiche, agente artistico, gior-nalista, impiegato nelle politiche culturali, operatore nei mass-media). Tutto assolutamente naturale e giustificabile: mi sembra che un atteggiamento del genere sia comprensibile. È però il frutto di questo atteggiamento a generare una serie di problemi. Prima di arrivare ai dati del mercato che ho analiz-zato attraverso questo campione (e che quindi non pretende di essere rappresentativo di tutta la real-tà), ho chiesto per quale motivo volevano fare queste professioni. Anche su questo emerge una cosa abbastanza naturale e problematica e i primi tre dati sono già esemplificativi: il primo dato dice “mi

1 La ricerca completa è stata pubblicata in Pier Paolo Bellini (2005), Pronipoti di Mozart. Modelli, teorie, condizioni delle professioni musicali in Italia, Società Editrice Fiorentina, Firenze.2 Claude Dubar (2004), in La socializzazione. Come si costruisce l’identità sociale, Il Mulino, Bologna, afferma la validità attuale di modelli professionali del passato entrati ormai nell’immaginario collettivo e non più in grado di rispecchiare le domande della società: “[…] La questione della socializzazione secondaria diventa un problema fondamentale posto dalle trasformazioni del lavoro, dei saperi e dei rapporti sociali […] Gli apparati preposti alla socializzazione primaria (famiglie, scuole […]) entrano in interazione con gli apparati della socializzazione secondaria (imprese, professione...) che provocano crisi di legittimazione dei diversi saperi e possibili trasformazioni dei “mondi legittimi” […] Di quali modelli di identificazione sociale dispongono attualmente gli individui che entrano nel mercato del lavoro per definirsi nei campi del lavoro, dell’impiego, della formazione? Le categorie sociali ufficiali rappresentano riferimenti ancora pertinenti? Quali sono le “identità a cui si aspira” che consentono proiezioni nel futuro efficaci per l’azione?” pp. 122, 124, 143.3 “È sempre più probabile che questa prima “identità professionale per sé”, anche se riconosciuta da un datore di lavoro, non sia definitiva. Essa è continuamente sfidata dalle trasformazioni tecnologiche, organizzative e di gestione del lavoro da parte delle imprese e delle amministrazioni, e destinata ad aggiustamenti e riconversioni successivi. Rischia di essere sempre più minacciata quanto più è costruita sulla base di categorie specializzate e ristrette. Essa è dunque fortemente caratterizzata dall’incertezza, proprio nel momento in cui accompagna teoricamente il passaggio dall’adolescenza alla vita adulta e quindi ad una forma di stabilizzazione sociale”. C. Dubar (2004), p. 143.

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sentivo di essere chiamato esattamente a quel lavoro” (47%). Non ho voluto usare termini religiosi per non sviare il questionario, però ‘chiamata’ è una parola di tradizione religiosa: si parla di ‘vocazio-ne’, quindi chi fa il musicista, tendenzialmente, lo fa per vocazione (che sia personalmente religioso o meno, l’atteggiamento è questo). In alternativa, si usa il termine ‘sognatore’, ma non ci spostiamo tanto: direi che il sogno è la vocazione laica per eccellenza. Il terzo dato è “perché il Conservatorio suggerisce fortemente quella traiettoria”. Queste tre motivazioni riempiono il panorama e superano in maniera eclatante le alternative proposte (“per esigenze economiche”, “perché non avevo altre qua-lità”, “per pressioni familiari”, “non ricordo motivazioni particolari”). Che profilo ne esce? Si delinea un soggetto che sente un dovere, direi quasi morale, di percorrere quella strada4. Non sto facendo un processo alle intenzioni: mi sembra che tutto ciò rappresenti un valore e una risorsa straordinaria. Quello che mi chiedo è cosa succede quando un’energia del genere si trova a fare i conti con un contesto che è molto diverso da quello che ci si immaginava iniziando l’impresa: qui comincia una lotta. Infatti, scoprendo “che cosa fanno” attualmente i diplomati e sovrapponendo questi dati con quelli relativi a quello che si voleva fare, si possono individuare due linee inversamente proporzionali: tanto più si voleva fare una professione, tanto meno la si fa. L’esempio più eclatante è l’insegnante di Conservatorio: il 20% lo voleva fare, il 5% lo fa. Al contrario, il 13% voleva fare l’insegnante di scuola, il 22% lo fa. Le altre professioni salgono un po’, ma di poco.Qual è la sintesi di questa mia prima ricerca? Il Conservatorio forma non solo un tecnico capace di fare certe cose, ma forma nel contempo una identità forte (l’ho paragonata a quella di una scelta reli-giosa), che si incontra e si trova a fare i conti con una realtà che non è capace di far fruttificare quello che ha prodotto5. E, dato ancora più significativo, questa identità forte ha un carattere praticamente indelebile nel tempo. Il 40% di questi intervistati non svolge una attività specificamente artistica, sono quindi fuori dal mercato musicale (magari laureati che giustamente sfruttano altri canali): tutti, indistin-tamente (e questo colpisce), sentono di compiere un gesto artistico nel lavoro che svolgono. Quindi è un marchio che resta indelebile nella coscienza, nella competenza e nel modo di approcciarsi alle cose. Anche chi lavora fuori dall’ambito musicale (fino al vigile, al costruttore di barche, all’operatore ecologico, ecc.) continua a percepire artistico il proprio gesto (il vigile flautista dirigerà il traffico con arte!). Questa è l’impronta.Poi ci sono le interviste ai professionisti. I compositori (una categoria a rischio) hanno risposto che “non

4 “In certi casi è necessario mettere a punto speciali tecniche che producono quel grado di identificazione e di inevitabilità che sembra necessario. Per esempio, un individuo che desideri diventare un musicista preparato deve immergersi nella sua materia in una misura che sarebbe del tutto eccessiva per uno che studia per diventare ingegnere. Gli studi di ingegneria possono svolgersi con efficienza tramite processi ufficiali, altamente razionali ed emotivamente neutri; l’educazione musicale, invece, in genere esige una identificazione molto più accentuata con il maestro in un’immersione molto più profonda nella realtà musicale. Ciò dipende dalle intrinseche differenze tra la conoscenza musicale di quella dell’ingegneria, e tra i modi di vita in cui questi due corpi di conoscenza vengono applicati nella pratica… Le tecniche applicate in questi casi sono designate per intensificare la carica affettiva del processo di socializzazione. Normalmente comportano all’istituzionalizzazione di un complicato processo di iniziazione, un noviziato, nel corso del quale l’individuo arriva ad abbandonarsi completamente alla realtà che sta interiorizzando. L’individuo allora si abbandona in maniera completa alla nuova realtà: “si dà” alla musica, alla rivoluzione, alla fede, non in maniera parziale, ma con quella che soggettivamente è la totalità della sua vita. L’esser pronti a sacrificare se stessi è naturalmente la conseguenza finale di questo tipo di socializzazione”. P.L. Berger, T. Luckmann (1969), La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna, pp. 198-199.5 “Esistono strutture sociali o tipi di società che implicano per i loro membri sistematiche fratture tra socializzazione primaria e secondaria? È particolarmente probabile che si verifichi questa situazione in un contesto socio-strutturale di forte mobilità sociale, di trasformazioni della divisione del lavoro e nella distribuzione sociale dei saperi. In situazioni del genere, la questione della socializzazione secondaria diventa un problema fondamentale posto dalle trasformazioni del lavoro, dei saperi e dei rapporti sociali”. Dubar (2004), p. 122.

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si può parlare di professione, perché siamo un soggetto tale che non ha neanche una rappresentanza, neanche una sua fisionomia sindacale. Se chiede per strada il nome di un compositore le diranno il nome di Jovanotti o di Lucio Dalla: se dico Donatoni, pensano che sia il giocatore del Milan” (è sim-patico il fatto che il trascrittore degli atti di un precedente convegno ha scritto Donadoni e che, dopo la prima correzione in Donatoni, il correttore di bozze della pubblicazione ha scritto nuovamente Donadoni: l’intervistato aveva ragione!).Un altro dato, anche questo significativo, riporta che per tanti la professione musicale è molto partico-lare perché è una professione gratuita. Dal punto di vista sociologico c’è da domandarsi se si possa chiamare professione una attività gratuita6: eppure tutti gli intervistati si considerano professionisti, al pari del medico, del dottore, dell’avvocato, pur riconoscendo che in Italia solo “sei o sette compositori riescono a vivere con le loro commissioni”. Il problema, e qui chiudo con la prima ricerca, è che la formazione è di un solo tipo, cioè quello virtuosistico-solistico. Non ho nessun dubbio sul valore di queste figure, e che questo sia un patrimonio da difendere, da non potersi permettere di perdere. Mi chiedo, però, se la quantità di persone e anche il loro destino giustifichino lo stato di cose attuale.Passiamo alla ricerca in via di ultimazione, che coincide con la prima fase del progetto PerformingAr-ts. Abbiamo intervistato alcuni professionisti del “sistema letterario”7, poeti, scrittori, editori, librai, tutti coloro, cioè, che lavorano alla produzione, promozione e distribuzione di testi “artistici”, tralasciando quindi l’editoria pubblicistica, scientifica, fumettistica, ecc. Nella seconda fase della ricerca (ancora in corso), siamo passati dai professionisti ai dilettanti, quelli che scrivono per diletto, ai quali è stato spedito un questionario telematico attraverso i club letterari presenti sul web. L’ultimo stadio della ricerca è un questionario ‘volante’, fatto a gente incontrata per strada, alla quale è stato chiesto cosa pensano degli scrittori (può emergere di qui uno spaccato simpatico della figura di scrittore nella mentalità comune).Riguardo alla prima questione ‘per chi e perché si scrive?’, essenzialmente è risultata molto condivisa una posizione simile a quella che abbiamo visto esistere tra i musicisti: si scrive per necessità8. Non sono stati usati termini come ‘vocazione’, ma le risposte (non strutturate) si richiamano al concetto di ‘necessità’, di ‘conoscenza più approfondita del reale’, di ‘desiderio di lasciare una traccia’.La cosa più evidente, in comune con i musicisti, è la coscienza di essere un gruppo a parte nella società9 e che, a livello di autocoscienza, si qualifica come un insieme di soggetti che hanno “qual-cosa di più”10, che sentono di portare qualcosa di più; non sempre questo “qualcosa di più” è una qualità di cui vantarsi, può anche essere una sorta di croce di cui si porta il peso. In ogni caso, è una

6 Strassoldo, per esempio, riporta, tra le condizioni del processo di professionalizzazione di una occupazione, quella di “attività a scopo di sussistenza”, R. Strassoldo (2001), Forma e funzione. Introduzione alla sociologia dell’arte, Forum, Udine, p. 221.7 Cfr. G. Ragone (1996), Introduzione alla sociologia della letteratura, Liguori, Napoli.8 Sull’origine della “creatività letteraria” o artistica in genere è utile un confronto con due autori ormai classici R. Escarpit e J. Duvignaud. “La motivazione dell’atto della letteratura consiste quasi sempre in una insoddisfazione, in uno squilibrio tra il lettore e il suo ambiente, sia esso dovuto a cause inerenti alla natura umana (brevità, fragilità dell’esistenza), allo scontro tra individui (amore, odio, pietà) o alle strutture sociali (oppressione, miseria, paura dell’avvenire, noia). Insomma è un ricorso contro l’assurdità della condizione umana. Un popolo felice, forse, non avrebbe storia, ma certamente non avrebbe letteratura poiché non proverebbe il desiderio di leggere”. R. Escarpit (1977), Sociologia della letteratura, Guida Editori, Napoli, p. 116. “È dunque evidente che l’opera di un’artista costituisce una scommessa sui futuri aspetti dell’esistenza. Se la nostra sostanza ci fosse data realmente, e noi l’avessimo a portata di mano, indubbiamente non ci proietteremmo al di là di ciò che ci limita. Ma noi siamo insufficienti a noi stessi. Ci appelliamo a ciò che non esiste ancora”. J. Duvignaud (1969), Sociologia dell’arte, Il Mulino, Bologna, p. 134.

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marcia in più nel comprendere la realtà, nell’andare a fondo nell’esperienza, come svolgere funzioni profetiche11.Si può, invece, individuare una differenza tra musicisti e scrittori? La differenza più evidente è che non esiste una struttura specificamente incaricata della formazione di uno scrittore. Questa però, di fatto, è la realtà nel nostro sistema: oggi chi scrive non ha la possibilità di formarsi come chi suona (che que-sto sia un bene o un male non è, al momento, argomento di discussione). Chi scrive probabilmente avrà frequentato la Facoltà di Lettere, ma non sempre frequentare Lettere aiuta o serve a scrivere bene. Ho chiesto agli scrittori professionisti come si fa carriera e, in generale, rispondono che è utile ‘andare a bottega’, ma così si può diventare al massimo un buon artigiano. Essere artisti è una cosa diversa. Che cosa comporta il fatto di non avere un’istituzione pesante ed invadente come il Conservatorio? Mi sono chiesto due cose: innanzitutto se lo scrittore viva un senso di distacco dal resto del mondo12 e, secondariamente, se lo scrittore pensi di poter vivere del suo lavoro (due concetti ben presenti tra i colleghi musicisti).Andiamo a vedere cosa succede nel campo della scrittura. Per la maggioranza dei nostri intervistati la scrittura svolge un ruolo ‘resistenziale’. Questo termine è molto significativo e vuol dire che tendenzial-mente essa non cerca un posto dentro il mondo, anche perché è in polemica contro il mondo. “Siamo una fortezza contro l’omologazione trionfante in una società massificata”13.Un’altra questione è “di cosa si vive”. Faccio un’altra distinzione: dentro il mondo degli scrittori esiste il sottomondo dei poeti. Tra quelli che ho intervistato, nel fare poesia gli artisti non vogliono, non de-siderano proprio trovare un posto nel mondo, anzi, tra i poeti “nessunissimo (strano neologismo) vive

9 “Nel caso peggiore, l’attività estetica si divora da sé, e si sostenta della propria fiamma. Il poeta o l’artista vive in una sorta di “riserva” come quella abitata dagli Indiani d’America; il suo linguaggio è un linguaggio di casta, in cui egli ama soltanto l’idea che si fa della propria solitudine e della propria superiorità. Si tratta di altrettante protezioni contro la vita reale, altrettanti ripari per i valori; talvolta questo nascondiglio freddoloso serve effettivamente a mantenere, durante i periodi di torbidi, o di volgarità militare, dei segni di creatività, e queste “riserve” proteggono dei “guardiani notturni” che mantengono il rigore di un’arte momentaneamente impossibile; talvolta si tratta soltanto di nascondigli in cui si mantiene nella solitudine e nella calma artificiale una pedante preoccupazione di ineffabile...”. Duvignaud (1969), p. 71.10 “La concezione dell’artista oggi corrente (genialità creativa, libertà d’ogni regola, marginalità e opposizione sociale e allo stesso tempo alto status sociale, ecc.) è essenzialmente ancora quella messa a punto in epoca romantica, e che ha le sue origini nel Rinascimento; è quindi la concezione “moderna”, nel senso che questo termine ha sia presso gli storici che presso i sociologi. Nelle migliaia di anni precedenti la concezione prevalente era ben diversa”. R. Strassoldo (2001), Forma e funzione. Introduzione alla sociologia dell’arte, Forum, Udine, p. 185.11 Lorenzo Allodi fa notare che questa concezione è condivisa da tempo anche in ambiti sociologici, nei quali ogni riferimento a realtà “trascendenti” il sociale sembra escluso: “Per la sfera della cultura occorre parlare di una produttività che emerge per protuberanze, qui e là in modo apparentemente inspiegabile, in quanto improvvisamente si presenta “qualcosa di grande, di assolutamente nuovo, unico ed esclusivo, una creazione non comparabile, che non si trova in nessuna relazione necessaria, riguardo alla sua essenza, con qualcosa d’altro” (Von Schelting [1929], p. 70)”. L. Allodi, (2006), Sapere, in Belardinelli S. e Allodi L., a cura di, Sociologia della cultura, Franco Angeli, Milano, p. 34. Occorre ricordare che il romanticismo ha sottolineato con forza l’assolutezza dell’arte e della sua funzione sociale: e così, se “L’espressione musicale del sentimento è stata “sacralizzata” da Wackenroder con conseguenze incalcolabili per l’estetica musicale dell’800”, C. Dahlhaus, L’idea di musica assoluta, La Nuova Italia, Firenze,1988, p. 84, il passo che portò a vedere nell’artista il “sacerdote” di tale religione è avvenuto con assoluta naturalezza. 12 La relazione “istituzione-identità” risulta essenziale nel processo di “ristrutturazione”, caso limite di disarmonia assoluta che avviene quando l’identità costruita nell’ambito della formazione primaria si trova ad essere radicalmente contraddetta e “azzerata”. “Il requisito concettuale più importante per la ristrutturazione è la disponibilità di un apparato legittimante per l’intera successione della trasformazione. La vita del periodo precedente e la ristrutturazione viene tipicamente annichilita. La frattura biografica viene così essere identificata con una separazione cognitiva tra oscurità e luce”. P.L. Berger, T. Luckmann (1969), p. 218. Nella precedente ricerca abbiamo avanzato l’ipotesi che il Conservatorio potesse, in qualche caso, presentarsi esattamente con questa funzione.

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del suo mestiere. La scrittura non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena, soprattutto in Italia”.Io ho distinto tre “tipi” ideali (sulla scia di M. Weber e T. Adorno), tre categorie astratte di modalità professionali nel campo della scrittura. Il primo tipo è quello dello scrittore puro, quello che non vuole assolutamente avere contatti con ciò che può sporcare il suo modo di scrivere, non vuole essere influenzato14. Il mercato viene sentito come nemico; soprattutto per il poeta, il mercato e quindi i mass-media, hanno una logica totalmente opposta alla scrittura artistica, tema certamente da discutere. Lo si sente come “un nemico con una sua logica eteronoma rispetto alla necessità interna ed intima dell’arte”. Come si vive allora? Uno scrittore ha citato per intero la Bohème (la sapeva a memoria, se-gno che la considera auspicabile o inevitabile): “Chi sono? Sono un poeta. Che cosa faccio? Scrivo. Come vivo? Vivo. In povertà mi allieta, scialo da gran signore rime e inni d’amore”.La cosa che colpisce è che si distingue logicamente e teoricamente il vivere dal sopravvivere15. C’è una categoria di scrittori, ma penso anche di musicisti e soprattutto di compositori, che dividono la loro identità professionale senza alcun tipo di problema: per loro una cosa è sopravvivere (e per sopravvivere si fa un lavoro) e poi c’è il vivere (che è fare l’artista). Per sopravvivere affermano di poter fare qualunque cosa, anche, molto realisticamente, ‘un lavoro normale, impiegatizio, borghese o piccolo borghese per vivere, e la scrittura diventa una sorta di dimensione aggiuntiva o parallela alla propria vita’. Si afferma questo come se fosse ormai chiaro che ‘non esiste più la categoria, il mestiere dello scrittore’.Il secondo tipo è quello che ho denominato scrittore occasionale, nel senso proprio di colui che ‘trova le occasioni’. E qui c’è una bella descrizione: “lo scrittore è un raggranellatore di rimborsi spese, di diritti d’autore, partecipa alle giurie, ai premi letterari, li vince, fa letture pubbliche, convegni, ecc.”. È, cioè, un raggranellatore, uno che “vive e sopravvive” della sua scrittura, cercando le fette di mercato in cui la sua competenza può tirar fuori in qualche modo il pane per mangiare.Il terzo tipo è lo scrittore professionista. È colui che cerca di inserirsi dentro il mercato, non ne ha paura, ma difficilmente o raramente (a quanto risulta) scrive quello che vuole: questo però non gli crea un grosso problema perché in genere non vive dei propri libri, ma ‘si mantiene con la scrittura’. Ciò significa che la scrittura ha un suo proprio spazio in cui si richiedono certe competenze.Arriviamo così all’ultimo punto di cui volevo parlarvi. Ho inviato ai relatori del convegno un’ipotesi

13 “La funzione dell’arte non consiste nel fornire un altro dente all’ingranaggio, ma nel difendersi da una condizione in cui tutto “funziona” per qualcosa”. T.W. Adorno (1990), Dissonanze, Feltrinelli, Milano, p. 70. “Nella musica di consumo si avverte facilmente che nessuna strada conduce fuori dalla totale immanenza della società”. T.W. Adorno (1971), Introduzione alla sociologia della musica, Einaudi, Torino, p. 64.14 Interessante l’ipotesi di Jean Duvignaud che tenta di spiegare questa “asocialità” dell’artista attraverso il concetto di “atipica”. L’individuo atipico, “partendo dalla realtà immediata se ne distacca, postulando un nuovo ordine e un nuovo concatenamento, definendo un’immagine dell’uomo diverso da quella che viene usata dai diritti ed alle rappresentazioni collettive stabilite… In effetti, la designazione, da parte della società, di un individuo, come essere da separarsi necessariamente dagli altri uomini, o il riconoscimento (spesso doloroso e penoso), da parte di un membro del gruppo, che gli è impossibile integrarsi agli stereotipi comuni, cioè all’ideale e culturale che definisce la personalità di base, proietta su quest’individuo alla sostanza sociale della collettività, il suo “mana”. Sostanza da cui può essere schiacciato, e da cui può anche trarre partito nella ricerca di nuove partecipazioni… L’individuo atipico cerca e trova talvolta nella pittura, nell’esecuzione delle maschere, nella musica o nella danza, il mezzo per esprimere il proprio senso di isolamento. Tuttavia, questo “senso di isolamento” non è che l’indice di una partecipazione virtuale, non ancora realizzata, di cui l’individuo, suo malgrado, è la sorgente e la matrice”. J. Duvignaud (1969), Sociologia dell’arte, Il Mulino, Bologna, pp. 47, 53, 54.15 Nella precedente ricerca ho cercato di definire tale situazione coniando il termine confusione mentale professionale: intervistando i musicisti, ho riscontrato che le risposte sulla professione partivano, quasi inconsciamente, dal lavoro desiderato, dall’identità “per sé” piuttosto che dal lavoro praticato e dall’identità “per gli altri”.

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16 “La differenza tra funzioni espressive e funzioni comunicative è che le prime possono riguardare il solo soggetto, le seconde sono dirette verso altri. Si può cantare anche da soli, per il piacere di sentirsi, per esprimere o mandar fuori la propria gioia (o tristezza, ecc.); ma se si canta per un pubblico, si comunica”. R. Strassoldo (2001), p. 226.

tutta da verificare: penso che il progetto PerformingArts possa essere un inizio, un tentativo di speri-mentazione di questa ipotesi, che può anche rivelarsi infondata (lavorando in università, guardo le cose da fuori e sento necessario mettere a confronto un’intuizione con chi è del mestiere). Ritengo che l’urgenza, o la necessità, sia di due tipi: innanzitutto una necessità di carattere squisitamente umano. Il livello formativo di questi ragazzi è indiscutibile. Allora mi chiedo: è possibile che questo patrimonio di energie, di capacità creative, anche di alto livello, si possa disperdere, sperperare? Ucciderne no-vantanove per salvarne uno? Non è possibile cercare delle utilizzazioni, uno sfruttamento (passatemi il brutto termine) delle competenze acquisite in maniera così faticosa? La mia sensazione è che queste competenze siano utili se si capisce dove possano portare frutto. Io sono diplomato in Composizione e faccio il sociologo: se avessi potuto pensare prima ad un’utilizzazione delle mie competenze, che ritengo molto valide e molto utili per il mio lavoro, probabilmente avrei perso meno tempo. Sono contento di poterle usare, ma mi dispiace molto vedere che, nella maggioranza dei casi, questa possibilità non viene data.L’intuizione è questa: mi sembra che la specializzazione sia una cosa utile e necessaria, ma che nella maggior parte dei casi debba aprirsi ad una serie di competenze che vanno molto al di là della spe-cializzazione stessa e che il mercato attuale (ipotesi che può essere contraddetta) richieda una figura capace di muoversi su piani diversificati. Tutta la produzione mass-mediatica richiede gente capace non semplicemente di “suonare il violoncello”, ma anche di utilizzare dei suoni adatti a un’immagine con una certa e inevitabile durata, per esempio. L’intuizione di fondo, se volete di stile e derivazione americana, è quella di allargare il campo delle competenze.Ciò che mi piaceva in certi programmi televisivi della mia generazione, era l’idea che uno si potesse specializzare sporcandosi le mani, concretamente, con tante altre espressività, imparando anche come lavorano gli altri, in modo tale che quando un compositore mette in musica l’opera di un poeta, sa che cosa ha fatto il poeta, lo capisce anche come linguaggio, come tecnica, e questo può essere un punto in più nella sua capacità espressiva e comunicativa (la stessa cosa si può allargare al movi-mento, alla grafica, alla scena, ecc.).Ho sintetizzato tre problematiche: la prima, rispetto alla riforma attuale dei Conservatori, che prevede un collegamento molto forte tra scuola superiore e Conservatorio (un nesso, allo stato attuale delle riforme, sempre più problematico). La riforma delle scuole superiori (attualmente in corso di defini-zione) prevedeva una ulteriore specializzazione: si comincia al Liceo, poi il Conservatorio diventa alternativo all’università (quindi non si possono più fare i due percorsi). Ma l’insegnamento specia-listico, diffuso a livello di massa, fa emergere con chiarezza un problema di natura educativa. Noi abbiamo tantissimi specialisti che sanno fare benissimo il loro mestiere, a cui, paradossalmente, non interessa l’espressione artistica. Nella maggioranza dei casi lo specialista non va neanche a teatro ad ascoltare i suoi colleghi, perché non ne ha bisogno, e questo lo fa spesso anche il suo insegnante. Tutto ciò denuncia, a mio parere, la mancanza di formazione di una coscienza, di un gusto che si riducono quasi esclusivamente ad una capacità iperspecialistica, tecnica. Oggi si fa arte non perché si ama l’arte, ma perché si ama fare l’artista: questo è un problema, perché ne deriva una professione

“narcisa”.Il secondo punto problematico è la necessità di recuperare una risorsa che accompagni quella espressiva e creativa: oggi la musica, ma in tanti casi anche la scrittura e le arti visive, hanno solo una funzione espres-siva o creativa. Mi sembra una povertà assoluta il fatto di perdere la funzione comunicativa16, quella per

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cui si desidera dire qualcosa a qualcuno, da cui il problema di farsi capire, il problema di ricevere una risposta e di condividere un valore. Fin dalle fasi iniziali, fin dalle scuole elementari bisogna recuperare questa capacità di parlare, di comunicare attraverso il linguaggio artistico.Il terzo punto problematico riguarda il fatto che la specializzazione non debba essere sentita alter-nativa alla creatività e non possa essere l’unico sbocco, dal punto di vista formativo, di una figura professionale che vorremmo chiamare creativa. Infatti, ci si può specializzare e nello stesso tempo essere interessati, coscienti, compartecipi di tante espressività diverse dalla propria. Penso che questa sia una ricchezza da riconquistare.Concludendo, il progetto PerformingArts prevede anche la formulazione e la verifica di un modello di scuola delle arti, un quadriennio liceale (e un quinto anno integrativo per l’iscrizione all’Università), in cui si permetta ai giovani di studiare le arti a scuola e di poterle poi applicare in maniera specialistica (attraverso convenzioni con istituzioni già esistenti), con la possibilità di fermarsi al diploma, di andare in Università o di dirigersi infine verso un corso di ‘Alta Formazione Artistico Musicale’. Un primo passo in questa direzione vuole essere il laboratorio, un po’ pionieristico e forse ingenuo, che prende le mosse da due linguaggi, quello poetico e quello musicale, per verificare se e come un musicista può imparare da uno scrittore e viceversa. Penso che sia una collaborazione, uno sporcarsi le mani veramente utile per le competenze richieste in questa società. Ora lascio la parola a esperienze molto più mature della mia, a tentativi già in atto, che ritengo in sintonia con quello che vi ho detto.

Bibliografia essenziale

Adorno T.W. (1971), Introduzione alla sociologia della musica, Einaudi, Torino.Adorno T.W. (1990), Dissonanze, Feltrinelli, MilanoAllodi L., (2006), Sapere, in Belardinelli S. e Allodi L., a cura di, Sociologia della cultura, Franco Angeli, Milano.Bellini P.P. (2005), Pronipoti di Mozart. Modelli, teorie, condizioni delle professioni musicali in Italia, Società Editrice Fiorentina, Firenze.Berger P.L., Luckmann T. (1969), La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna.Dahlhaus C. (1988), L’idea di musica assoluta, La Nuova Italia, Firenze. Dubar C. (2004), La socializzazione. Come si costruisce l’identità sociale, Il Mulino, Bologna.Duvignaud J. (1969), Sociologia dell’arte, Il Mulino, Bologna.Escarpit R. (1977), Sociologia della letteratura, Guida Editori, Napoli, Ragone G. (1996), Introduzione alla sociologia della letteratura, Liguori, Napoli.Strassoldo R. (2001), Forma e funzione. Introduzione alla sociologia dell’arte, Forum, Udine.

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Ringrazio il maestro Bellini di avermi diplomata musicista: è un sogno che spero di realizzare nella prossima vita. Io credo che noi viviamo molte vite, e nella prossima spero di potermi dedicare all’arte molto più di quanto non abbia potuto fare in questa. In realtà in questa vita, dal punto di vista professionale, mi sono dedicata sostanzialmente a due cose: la prima è la formazione, i cui aspetti ho affrontato e sviluppato nel corso degli anni con diversi ruoli. Inoltre, mi è successo spesso di fare più lavori contemporaneamente e non ho mai fatto un lavoro per più di otto anni. Ora comincio a pensare che otto anni siano addirittura troppi, ultimamente mi viene più naturale cambiare lavoro ogni cinque o tre anni. Tutto questo forse per costituzione o per

“modernità”, chissà: mi piace di più pensare che quest’ultima sia la motivazione.L’altra cosa che, invece, ho sempre fatto, nei tanti lavori svolti, è stata quella di dedicarmi all’orga-nizzazione. Anche oggi che svolgo il ruolo di Direttore Generale della Fondazione Scuole Civiche di Milano (che considero una realtà estremamente interessante e stimolante) in realtà non mi occupo direttamente di arte, quanto piuttosto di risolvere problemi dalla mattina alla sera, e di tentare di organizzare al meglio queste nostre istituzioni. Quando il maestro Bellini mi propose, qualche mese fa, di partecipare a questo progetto che metteva al centro la contaminazione tra suono e parola, mi sembrò molto interessante, anche perché noi, come Fondazione, proviamo ad occuparci della con-taminazione di arti quali la musica, il teatro, il cinema. La parola non è assente, ovviamente, dalle nostre scuole: abbiamo un corso di drammaturgia alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi e un corso di sceneggiatura, con percorsi legati anche alla fiction, alla Scuola di Cinema. Tuttavia, dicia-mo che non abbiamo una vera e propria scuola di scrittura, sull’esempio di quello che ci racconterà il professor Vacchetti. La contaminazione tra musica e parola è forse quella meno immediata pensando al nostro sistema di scuole.Chi siamo noi e cosa facciamo? La Fondazione Scuole Civiche di Milano nasce nel 2000, per volontà del comune di Milano, come fondazione di partecipazione. Il Comune stesso, nel momento in cui ha costituito la Fondazione, le ha assegnato la gestione di quattro scuole: la Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi (che comprende i corsi afferenti al mondo teatrale, dal corso per attori, a quello per registi, per drammaturghi, per operatori dello spettacolo, per tecnici di palcoscenico e di teatro-danza); la Scuola di Cinema, Televisione e Nuovi Media (che comprende corsi di regia, di ripresa, di montaggio, di produzione, di cartoni animati, di sceneggiatura e di tecnici audio e video a livello professionale ma anche amatoriale); poi abbiamo l’ex Civica Scuola di Musica, ora denominata Accademia Internazionale della Musica, per rendere evidente che si tratta, di fatto, del secondo Conservatorio di Milano (dove vengono formati, oltre ai 450 amatori dei corsi tenuti nei centri di educazione musicale, circa 1300 persone all’anno, a tutti i livelli, a partire dai bambini fino al triennio accademico e al biennio di specializzazione). A questi tre dipartimenti artistici si aggiunge, infine, il Dipartimento di Lingue (che ha al proprio interno la Scuola Superiore per Mediatori Linguistici, che rilascia un titolo pienamente equipollente al triennio universitario di Scienze della Mediazione Linguistica, e un biennio di specializzazione per Interpreti e Traduttori, riconosciuto dall’Università di Strasburgo).Queste quattro scuole, nel momento in cui sono state conferite in gestione alla Fondazione, hanno fatto nascere nell’immaginario di molti della nostra generazione, che il pomeriggio in TV vedevano quei bellissimi telefilm della serie “Saranno Famosi”, l’ipotesi che avremmo potuto provare a realizza-re qualcosa di simile.

Anna Fellegara

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A me e anche al maestro Androni – che peraltro ha diretto qualche tempo fa il nostro Dipartimento di Musica con grande capacità progettuale e di innovazione e che è ancora nostro docente – sembrava una scommessa possibile quella di poter dar vita finalmente, in modo professionale, a una realtà del genere. Nei primi due anni di vita si è trattato letteralmente di far partire la Fondazione. Per molti mesi la nostra organizzazione ha dovuto strutturarsi, dotarsi di aree trasversali (amministrazione, contabilità, sistemi informativi, approvvigionamenti, manutenzione del patrimonio, area progetti per percorsi interdipartimentali, ecc.).Le resistenze che abbiamo trovato e che ancora troviamo sono molteplici. Vorrei provare a parlarne prendendo in considerazione tre protagonisti: i direttori delle scuole, i docenti e gli allievi. Le resisten-ze che si possono registrare con più evidenza, dal mio punto di vista, sono quelle dei miei interlocutori diretti: i quattro direttori (ogni elaborazione strategica viene fatta all’interno del Comitato di Direzione, che è costituito dalla direzione generale e dai quattro direttori di dipartimento). La percezione chia-rissima è che molte cose si condividono e che altre si fa finta di condividerle. Dal mio punto di vista, posso raccontare l’atteggiamento che ho colto e che colgo da parte dei direttori, un po’ meno da parte dei docenti, che hanno un rapporto più diretto con i direttori che con me e, per alcuni aspetti, attraverso quanto mi viene riferito, da parte degli allievi. Per quanto riguarda la possibilità di sviluppare idee e progetti comuni di contaminazione tra le arti, sicuramente i direttori si dicono molto convinti teoricamente, ma difficilmente si riescono a realizzare progetti interdipartimentali, perché per questi pare che non ci sia spazio nella programmazione e che richiedano la progettazione congiunta di altri percorsi. Le nostre quattro scuole hanno, peraltro, una forte tradizione e una forte identità da salvaguardare. Basti pensare, per esempio, alla Paolo Grassi o alla Scuola di Musica che a Milano hanno un’identità fortissima. E a rafforzare l’idea di molti che i percorsi formativi delle nostre scuole non vadano modificati, ci sono anche i dati occupazionali.La Fondazione, da quando esiste, svolge ad ogni biennio due ricerche: una “sulla fortuna profes-sionale” dei propri ex-allievi, per cercare di capire se questi lavorano, che tipo di lavoro fanno e dove lo fanno ad uno o a due anni dalla fine dei loro percorsi formativi. L’altra ricerca è relativa al

“fabbisogno formativo” e ci serve per capire se le nostre scuole realizzano corsi attinenti ai bisogni dei propri mercati di riferimento (peraltro quest’anno avremo la possibilità, avendo ormai quasi sei anni di vita, di capire anche che cosa fanno i nostri allievi diplomati cinque anni fa). I dati che emergono dalle ricerche biennali sono estremamente confortanti, secondo me fin troppo: per il 70-75% (con la percentuale più bassa nella musica, che comunque è del 66%) risulta che le persone lavorino esattamente negli ambiti per cui hanno studiato. Naturalmente non fanno i dipendenti in un’azienda, tranne qualche mediatore linguistico. I ragazzi usciti dai dipartimenti artistici svolgono le loro attività come free lance, e magari si accorgono di quanto sarebbe stato utile per loro seguire corsi o lezioni per capire che cos’è una ritenuta d’acconto o la partita IVA e come si costituisce una cooperativa o un’associazione, e altro ancora. Ma quando in un progetto di orientamento abbiamo proposto que-ste cose è stato molto difficile convincere gli allievi che potevano imparare cose utili e farli partecipare a queste attività è stata un’impresa. Nonostante il conforto di queste nostre ricerche, ci viene sempre un dubbio forte: se sia più facile per questi ragazzi trovare lavoro subito dopo la fine dei loro studi semplicemente per il fatto che sono pagati di meno, oppure perchè fanno più lavori, o se effettivamente sono entrati a tutti gli effetti nel mercato del lavoro. Per esempio, gli attori hanno proprio un inquadramento diverso: nei primi anni dopo il diploma sono allievi-attori, quindi una compagnia che li scrittura spende di meno che scritturare qualcuno che si è diplomato anni prima. Oppure per qualcuno che si è formato da noi è normale fare un doppio lavoro. Conosco diverse persone che sono impegnate in un’attività lavorativa

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assolutamente esecutiva, di poco sforzo in termini intellettuali, per avere i mezzi per potersi mantenere e mantenere la propria famiglia, e poi dedicano tempo e guadagnano qualcosa in altre attività di tipo artistico, soprattutto di carattere musicale, oppure coltivano altri interessi, spesso di carattere ama-toriale, utilizzando, talvolta, competenze acquisite in percorsi formativi anche molto rigorosi. Questo ci permette di capire che il tema della realizzazione professionale è complesso.Quando il professor Bellini illustrava le domande del questionario, mi sono chiesta: “io, da piccola, che lavoro volevo fare?” Quando ho finito le superiori o l’università negli anni Ottanta, se uno mi chiedeva “tu cosa vuoi fare?”, io rispondevo “un lavoro che mi soddisfa”. Non mi sono mai vista esattamente in un lavoro, mi sono sempre immaginata in una dimensione, in cui mi piaceva fare quel tipo di lavoro e poi, come dicevo, ho scoperto che mi piacevano i lavori di organizzazione e che mi piacevano meno quelli di docenza. Mi sono laureata in Pedagogia con indirizzo filosofico, quindi, in teoria, avrei potuto/dovuto fare l’insegnante; ho provato a fare l’insegnante, è stato bello, interessante, però pensare che avrei insegnato per tutta la vita non mi entusiasmava. Perciò credo che sia importante tornare a chiederci quali siano i lavori o le dimensioni che soddisfano. Non è escluso che una persona si senta realizzata anche in condizioni che oggi si direbbero “precarie”. Su questo punto pongo un interrogativo, che mi piacerebbe fosse più esplorato.Torno al tema della resistenza al cambiamento che registro nelle nostre scuole. L’argomento forte usato dai direttori, per non progettare attività interdipartimentali, è “quest’anno abbiamo già programmato tutto”. A quel punto la sfida si gioca su: “allora pensiamo all’anno prossimo”, ma loro rispondono:

“l’anno prossimo è troppo lontano”, e così si arriva all’anno dopo, perpetuando la stessa situazione. Siamo andati avanti in questo modo per un paio d’anni, nonostante il nostro Consiglio di Gestione avesse dato ai direttori indirizzi molto forti per lavorare in un’ottica interdipartimentale, e avesse legato anche degli incentivi economici a questi obiettivi.Un altro tema che viene opposto sempre dai direttori, e questo è centrale anche per la discussione in corso e interesserà, credo, anche il professor Bellini, è l’argomento più forte che viene usato per spiegare quanto sia difficile provare a pensare a percorsi di contaminazione durante i corsi curriculari. Dicono che le scuole formano registi, attori, musicisti, ecc., e che per diventare tali occorre fare un percorso formativo rigoroso che necessita della durata programmata dei corsi e degli insegnamenti attualmente previsti nelle nostre scuole. In questi anni, grazie anche al nostro sistema qualità certificato, che richiede grande rigore nella progettazione dei corsi, e ai progetti di riforma in atto all’interno del-l’AFAM (Alta Formazione Artistica Musicale), si è verificata nelle scuole una continua riprogettazione dei corsi. Ma nonostante queste opportunità di revisione dei percorsi formativi, i direttori affermano che per la preparazione ai nostri mestieri occorre il tipo di percorso che le scuole erogano da sem-pre, e che la contaminazione, l’acquisizione di altre competenze può avvenire solo in un ambito di formazione successiva, quindi nell’ambito della specializzazione, dell’aggiornamento, di quella che si potrebbe chiamare la ‘formazione continua’. C’è, perciò, una disponibilità da parte loro a ragionare su questo, una disponibilità che però, facen-do i conti con il loro tempo e con l’impegno necessario, ci ha portato ad individuare come soluzione da sperimentare quella di creare un ambito progettuale di carattere interdipartimentale e di incaricare una persona esperta di diverse nostre discipline che, pur raccordandosi costantemente con i direttori, si occupi di proporre questi percorsi. Quindi, dall’anno prossimo svilupperemo veri e propri percorsi di carattere interdipartimentale. Dall’anno 2006-2007 partirà, per esempio, un laboratorio con i cantanti, che dovrà fare da sperimentazione per un Master in Regia Lirica, che seguirà l’incontro della musica con il teatro.Un altro ambito su cui si sta lavorando è quello dei progetti ed eventi interdipartimentali: dall’anno

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scorso questi progetti hanno cominciato a prendere corpo e credo che ci sarà una loro presenza mol-to più significativa nella nostra programmazione dell’anno prossimo. E’ stato realizzato, per esempio, un progetto sul tema “La Tempesta” di Shakespeare, con attività svolte nel Dipartimento di Lingue e nel Dipartimento di Teatro, e l’anno prossimo si andrà avanti con questo progetto chiamando in causa anche il Dipartimento di Musica. Questi progetti si orientano a quello che è lo sbocco naturale della nostra attività formativa: la performing art. Tendono cioè a produrre eventi, spettacoli, situazioni che chi opera nel nostro ambito si trova sempre di più a realizzare nel proprio lavoro. Sempre di più si producono, infatti, spettacoli in cui sono richieste competenze che derivano dal teatro, dal cinema e dalla musica, per rimanere ai nostri dipartimenti. Qual è il punto di vista dei docenti? Questo è quello sul quale io ho meno riferimenti. Posso solo osservare alcuni fenomeni incoraggianti, come quando capita che il direttore propone ai docenti di fare un gruppo di lavoro per realizzare questi progetti e, per fortuna, questi si incontrano e comin-ciano a lavorare senza problemi. Spesso succede che gli stessi docenti vengano a proporre progetti interdipartimentali direttamente alla direzione generale, un po’ perché il direttore dice loro che non ha soldi, e che quindi bisogna trovare degli extra-budget, e un po’ perché questi progetti vengano percepiti come qualcosa che trascende il singolo dipartimento. Io credo che il coinvolgimento dei docenti possa essere un terreno estremamente fertile e che possa essere molto utile realizzare percorsi di formazione da proporre ai docenti che facilitino queste esperienze; credo che ci sia bisogno di trovare degli stimoli perché queste progettualità dal basso, che nascono spontaneamente senza che ci siano delle indicazioni forti, siano davvero opportunità da sfruttare.Per quanto riguarda gli allievi, per la percezione che ne ho potuto ricavare, questi sono resistenti al cambiamento almeno quanto i loro direttori. Esce spesso da parte degli allievi la volontà di acquisire

“specializzazioni”. Io sono rimasta molto sorpresa, per esempio, da un episodio in cui mentre si offriva agli allievi della Scuola di Teatro di poter partecipare ad un seminario con il regista Massimo Castri, questi preferissero fare le esercitazioni di dizione, perché non si sentivano sufficientemente pronti in questa disciplina. Nella loro vita probabilmente non avrebbero avuto altre occasioni per lavorare con Massimo Castri, mentre l’ora di dizione potevano ampiamente recuperarla, ma allo stimolo culturale hanno preferito la “specializzazione”, la conoscenza settoriale. Oggi molti allievi intendono il me-stiere come “io so fare bene quella cosa”, un segmento preciso, quasi ci fosse una sorta di catena di montaggio, che lavora per produrre uno spettacolo, dove ognuno fa il suo pezzettino e miraco-losamente, grazie alle doti taumaturgiche del regista, viene fuori lo spettacolo. Per questo è difficile coinvolgere gli allievi sul terreno delle contaminazioni.Un’altra difficoltà grande nella collaborazione tra i Dipartimenti si registra nella scelta dei docenti. Per esempio, quando occorre incaricare un insegnante di musica per il Dipartimento di Teatro, que-st’ultimo non pensa mai di chiedere al Dipartimento di Musica i nominativi o quando in quest’ultimo si deve incaricare un docente di arte scenica non vengono richieste indicazioni al Dipartimento di Teatro. Queste scuole hanno vissuto per decenni con la loro autonomia, la loro autosufficienza, la loro storia e tradizione e con la logica del “si è sempre fatto così, le nostre scuole hanno una buona immagine, le ricerche ci dicono che gli studenti trovano lavoro, perché cambiare?”. Perché il mondo va avanti, perché tutto cambia, perché siamo in continua trasformazione. Ma a quel punto spesso si ribatte “...ma noi siamo artisti”. Un atteggiamento che si coglie nel corpo docente (che non so se sia stato trasmesso loro o se sta proprio nel DNA di chi sceglie questi mestieri, di chi sente queste vocazioni) è un fortissimo rifiuto di quello che nel mondo non interessa direttamente a loro: a volte c’è quasi un arroccamento, che fa sì che anche realtà di grandissima qualità rischino una sorta di isolamento o, peggio ancora, una forma

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di autoreferenzialità e di presunta autosufficienza molto forte.Tutto quello che non è specifico al proprio corso distrae, viene percepito dall’allievo come qualcosa che non sta nel proprio programma di studio, per il quale non c’è tempo e potrebbe distrarre dalle cose importanti. Come Fondazione abbiamo inventato i “Mercoledì del Politecnico” (che sono per-corsi e attività interdipartimentali) dove, per esempio, lo studente di musica sente parlare di cinema, di teatro, di inglese o di informatica per acquisire le competenze di ECDL (European Computer Driving Licence ossia la “Patente Europea di Guida del Computer”): l’esito non è stato molto differente. Gli al-lievi vogliono frequentare i corsi del loro dipartimento, difficilmente quelli degli altri. Abbiamo provato anche ad “obbligarli”, ma con scarsi risultati.Vado a concludere con le sfide che da questo punto di vista noi vogliamo provare a darci. Nel nostro logo abbiamo scritto da qualche anno che la Fondazione è un Politecnico della cultura, delle arti e delle lingue. ‘Politecnico’ perché volevamo mantenere il senso che da noi si formano dei professionisti, che non siamo una specie di DAMS; da noi non si studiano semplicemente le discipline artistiche, ma si imparano dei “mestieri”. Pensavamo che il nome Politecnico della Cultura potesse essere esaustivo di questo concetto. Il Dipartimento di Teatro, forse impregnato ancora di una visione crociana, ritenne, però, che il termine ‘cultura’ non fosse esaustivo e che bisognasse accompagnarlo al termine “della cultura e delle arti”. A quel punto ovviamente anche il Dipartimento di Lingue disse “beh, ma allora anche noi”. Perciò venne fuori questo logo e questo nome lungo e difficile, che noi speriamo di poter cambiare con il tempo, per configurarci come un Politecnico delle Arti con i suoi tre dipartimenti arti-stici, e un Dipartimento di Lingue con le sue due scuole di cui dicevo in precedenza.Qual è ora la nostra sfida più grande? Quella del riconoscimento dei titoli. Le nostre scuole, nonostan-te siano considerate scuole di eccellenza, non rilasciano titoli riconosciuti dal sistema dell’istruzione italiano. Questo è un tormentone che, per esempio, nella nostra scuola di musica esiste da sempre. Infatti, a causa di un regio decreto che prevede che in una città dove c’è un Conservatorio non possa esserci anche un istituto musicale pareggiato, non è mai stato possibile chiedere allo Stato italiano il suo riconoscimento. Fino a prima della riforma dei Conservatori questo era poco male, perché comunque i nostri allievi studiavano da noi e poi andavano a fare gli esami da privatisti nei Conservatori. Adesso, invece, sappiamo che col tempo, almeno stante gli ultimi decreti, non sarà più possibile percorrere questa strada. Noi speriamo che presto si possa chiedere il riconoscimento del Dipartimento. Dal Ministero ci viene sempre detto che manca l’ultimo decreto, ma è come l’ultimo miglio per la connettività, non arriva mai. Speriamo che questo decreto che permetterebbe a scuole come la nostra di conferire un titolo riconosciuto non sia una chimera. I nostri Dipartimenti sono certificati ISO 9001 per la qualità, sono accreditati presso la Regione Lom-bardia, hanno docenti di ruolo, hanno strutture vere, sono assolutamente autonomi da un punto di vista finanziario e hanno programmi paragonabili o migliori di quelli dei Conservatori o di quelli dell’Acca-demia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, eppure noi giuridicamente siamo un sistema di scuole private, nonostante l’83% del nostro finanziamento provenga dal Comune di Milano (che non è un’associazione privata) e non possiamo rilasciare titoli riconosciuti dallo Stato. Ovviamente non voglio riprendere il dibattito sul valore legale del titolo di studio, però questo in Italia è un problema e sempre di più i nostri allievi, così orientati alla specializzazione, richiedono anche il titolo di studio.Ci piacerebbe, poi, diventare un Politecnico delle Arti nello spirito, come abbiamo imparato dal professor Furlanis suo ispiratore, del concetto contenuto nella L. 508/99 dove si indica il Politecnico delle Arti come una realtà costituita attraverso convenzioni da istituzioni diverse, quali università, con-servatori o accademie, ma anche enti, espressione dell’associazionismo del territorio di appartenen-za. Tuttavia, mi sembra che per realizzare tutto questo le difficoltà legislative siano ancora numerose,

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come testimonia questa riforma dei Conservatori che non si è ancora compiuta (pur essendo arrivato il decreto sugli ordinamenti che pare però di difficile applicazione). In questo scenario, dove ci sono stati anche mutamenti politici significativi, credo che la prima cosa da fare sia capire come si andrà ad assestare questo sistema.Abbiamo, infine, anche noi come sogno nel cassetto, e quindi ci piacerebbe moltissimo l’idea di po-ter lavorare in partnership su questo terreno, la possibilità di dar vita ad un Liceo delle performing arts. Peraltro, il Comune di Milano ha un sistema di scuole paritarie, assolutamente riconosciute dallo Stato, tra cui per esempio il Liceo Linguistico Manzoni ed altri istituti superiori, ed è interessato da tempo ad un progetto del genere da realizzare con la nostra Fondazione. Da qualche mese abbiamo chiesto al MIUR (Ministero dell’Università e della Ricerca) l’accreditamento della Fondazione per poter dar vita ad un liceo musicale insieme al Comune di Milano e dall’esito che avrà tale richiesta penso che capiremo come il quadro istituzionale e normativo si andrà a definire, e se la cosa sarà possibile o quanta strada ancora si dovrà percorrere.Per quanto mi riguarda, la sfida più interessante sarà quella di capire se questi percorsi interdiparti-mentali possano veramente essere realizzati soltanto dopo la formazione di base, oppure se esista la possibilità di una riprogettazione dei livelli di formazione, guardando anche alle esperienze straniere, specialmente al mondo anglosassone, ricco di esperienze di performing arts, in cui, già nei livelli infe-riori, si possano prevedere percorsi di reale contaminazione delle arti. In modo che gli allievi possano andare, per esempio, un’ora a recitazione, un’ora a musica, un’ora a danza, proprio come si vedeva in quella bella serie televisiva, che trasmettevano alla tv negli anni ’70 alle 18,30. Ed era perfetta per l’ora di cena, per chi aveva finito di studiare e si poteva godere questo momento con tante fantasie.

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Un po’ per provocazione, provando a giocare con le parole del titolo del nostro incontro, si potrebbe parlare di “Istituzione artistica come professione” perché l’artista, oggi più di ieri, viene chiamato a presidiare l’intero processo creativo. Anch’io, come il maestro Bellini, sono un ibrido: ho una formazione legata alle Lettere, leggo e sele-ziono testi di teatro, offro consolazione agli autori, soprattutto quando subiscono critiche al loro lavoro, ma più in generale quando vivono momenti di crisi e di dubbi creativi, invento progetti, organizzo manifestazioni, devo gestire il rapporto con le banche, devo cercare i finanziamenti, affrontare i problemi della gestione contabile, e altro ancora.Svolgo un’attività che mi fa sentire a mio agio qui, perché il nostro lavoro si inserisce in una nicchia di mercato un po’ atipica; una atipicità che a volte non viene percepita neanche dai nostri colleghi del settore. La nostra struttura rappresenta un’eccezione nel panorama teatrale e non ha dunque modelli di riferimento precedenti: questo ci induce molto spesso a correggerne la fisionomia, e a individuare modalità operative nuove.Vorrei dividere in due parti i miei appunti: nella prima darvi qualche elemento per farvi comprendere un po’ questo strano animale che è l’autore di teatro, e nella seconda darvi qualche informazione sul tipo di attività che sviluppiamo intorno all’autore, presentando così il Centro.In una recente intervista, Rodrigo Garcia, un autore che in questi anni è diventato famoso in Italia (perché è anche regista oltre che autore), diceva che ad ogni opera bisogna reimparare a scrivere, ripensare il teatro, anche perché – aggiungiamo – il teatro muore ogni volta che va in scena. Questa meravigliosa fragilità del teatro è anche la sua forza.Allora che cos’è questo autore, e in cosa si differenzia dall’altro scrittore intervistato, passato al setac-cio dall’analisi che ha condotto Bellini? Dal punto di vista di uno che si accinge a scriverla, una pièce di teatro non si presenta, in un primo approccio, sotto forma di griglia estetica, per organizzare o strutturare la fantasia del momento, come la griglia armonica inquadra l’improvvisazione del musicista di jazz, tanto per fare un esempio, quan-do attacca con la variazione.Dal punto di vista di colui che si appresta a scriverla, una pièce prima di tutto non è che un desiderio e una possibilità. Della natura di questo misterioso “desiderio” (diversamente nominato “necessità” o

“urgenza” da uno di questi abusi di linguaggio di cui la professione teatrale fa largo uso) in fin dei conti si discute poco e rari sono gli scritti di artisti che esaminino questo «desiderio di espressione» in quanto processo, e non in quanto postura. Questa inclinazione dell’artista a mostrarsi affacciato sul mondo (postura), piuttosto che in azione in seno alla comunità umana (processo), crea una mistifica-zione che non facilita l’analisi. La possibilità di una pièce è anche, e contraddittoriamente, quella di una fusione di territori differenti, poiché deve in primo luogo essere gioco della dimostrazione, dell’esibizione, del fare-vedere e del fare-udire; gioco della vista, che richiede uno sguardo collettivo condiviso, altrimenti non è.La poesia si può leggere in solitudine, un romanzo si può leggere in solitudine, ma l’avventura di un’esistenza recitata, consegnata, dove appunto si fondono il dire e il dare a vedere, trasformano un piccolo fatto privato in un affare di tutti.Nel momento in cui un autore di teatro si dispone a questa avventura, cominciano i guai, perché sin dall’inizio non è in grado di governare questo suo lavoro e ignora che cosa troverà nel corso della scrittura, se troverà modo anche di esprimere la propria esistenza, la vita o pezzi della propria vita, e

Angela Calicchio

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come potrà tutto questo trovare una forma drammatica. Perché la scrittura per il teatro non è la cosa scritta, è un processo: ogni battuta chiama la successiva, tramite una singolare economia, che si costruisce anche nell’ombra del non-detto, del non-formulato.Cerco di semplificare e spero che possiate perdonarmi.La lingua, in teatro, come si usa dire e tutti probabilmente lo sappiamo, è scritta per essere detta, messa in bocca all’attore, ma in realtà non si scrivono delle parole per essere dette, ma delle parole destinate ad essere intese, ascoltate, da un’assemblea. Come diavolo ci si indirizza ad una platea? Articolando forse le parole, articolando una lingua? Non si tratta solo di spalancare la bocca, di fare delle smorfie. Insomma, un professore di dizione parlerà volentieri di masticare le parole, nel senso di ricaricare le parole del loro potenziale energetico, far suonare tutte le apposizioni, tutti i contrasti, tutti i sensi, tutti i significati, tutto ciò che fa di una parola uno strumento del dire e del nominare. Un attore questo lo capisce molto bene, deve incorporare la parola: incorporare la parola vuol dire anche in-carnare la parola, perché per lo spettatore dire è sempre dare a vedere il mondo, cosa che suppone un passaggio dall’astrazione linguistica al concreto del corpo.Ed è qui che avviene la comunione con lo spettatore e l’intera assemblea teatrale, che fa parte inte-grante della rappresentazione. In questa comunione il testo vede la sua reale edizione. A differenza del suo collega di narrativa che ha bisogno dell’editore-mercato, l’autore teatrale ha bisogno di “stare” con altre anime per esistere, per venire alla luce.Un processo, dunque, che crea un altro tipo di economia, fatta di piccole ma solide pratiche, di relazioni prima che di capitali, di persone prima che di cose.Per brevità, perché c’è pochissimo tempo, vorrei dirvi qualcosa su Outis.Pur occupandoci di teatro, questo nome nasce come omaggio a un grandissimo compositore, Lucia-no Berio, che nel ’96 scrisse un’opera che si chiamava appunto Outis, ‘nessuno’ (con riferimento al famoso episodio dell’Odissea, quando Ulisse incontra Polifemo).Perché un omaggio a Berio? Io per anni ho lavorato in una casa editrice musicale, la Ricordi, dove sono arrivata alla fine degli anni ’80: mi occupavo già di teatro, e venni chiamata ad occuparmi della sezione teatro poiché la Ricordi aveva deciso di aprirsi anche alla prosa. Una scelta dettata da due importanti sollecitazioni: la prima, più concreta, più culturale, era quella di rispondere ad alcune esigenze che i musicisti, i compositori sollevavano: la volontà di misurarsi con un materiale testuale-letterario più “moderno”, che facesse i conti anche con il cambiamento delle forme, degli stili, e con la mutata realtà sociale. Quindi c’era la necessità di confrontarsi con una parola diversa da quella dei tradizionali librettisti.La seconda sollecitazione venne dalla VAP (la società del diritto d’autore sovietico), di cui la Ricordi rappresentava in Italia il repertorio musicale, che propose alla Ricordi di impegnarsi nella promozione dei nuovi autori russi. Erano i tempi della Glasnost e molti autori cominciarono a far circolare i propri testi in occidente. Venne dunque avviata la Collana di Teatro Contemporaneo e fu un periodo fecondo di collaborazio-ne tra scrittori e compositori.Tanto per citare qualche esperienza, Azio Corghi si innamorò di un testo di José Saramago, scrittore portoghese che qualche anno fa ha vinto il Nobel per la letteratura, e nacque Blimunda, un’opera che sancì un bellissimo sodalizio artistico tra uno scrittore piuttosto impegnato, con una lingua for-malizzata, molto ricca, e un compositore. Analogamente, e con compositori più giovani, ricordo l’esperienza di Marco Di Bari che, invitato alla Certosa di Avignone a presentare un’opera, scelse tra gli autori teatrali che gli proponemmo Giuseppe Manfridi; e poi Francesconi, con un altro scrittore, Daniele Del Giudice, lo stesso Luciano Berio con Dario Del Corno. Insomma una serie di esperienze

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che purtroppo non abbiamo più potuto rinnovare, perché vengono meno le “case” come allora era la Ricordi: case di incontro, di contaminazione di idee, di desideri, di intenzioni.C’è un problema formativo, naturalmente, e ben vengano tutte le iniziative di cui ha parlato la dotto-ressa Fellegara; mi piace molto l’ipotesi di una scuola di cui ci ha parlato il maestro Bellini. Ma il vero problema è il mercato, che non è in grado di accogliere questa creatività mista: i teatri organizzano la loro stagione teatrale, cioè spettacoli di prosa, le sale sono perciò super specializzate, il Ministero dei Beni Culturali suddivide rigidamente in circolari o leggine di settore, i parametri finalizzati ai finanziamenti. Insomma, tutto induce a ragionare in termini di stanze separate.Proseguo con la presentazione di Outis: una curiosa istituzione che non è un editore, almeno non nei termini più noti, non è solo un organizzatore, non è un produttore, ma è tutte queste cose insieme. In definitiva promuove gli autori, la nuova scrittura per la scena. Ma si può promuovere l’autore solo in rapporto agli altri soggetti del teatro? C’è una battaglia culturale da fare, che abbiamo avviato, per favorire un incontro tra chi scrive, oggi, e il pubblico. Negli ultimi tempi abbiamo ideato delle iniziative che costituissero per l’autore un’occasione di lavoro; quindi l’invito a scrivere testi su com-missione partendo da un tema di carattere universale, in parte, certo, per sopperire al “vuoto” cui lo costringe un conservatore sistema teatrale e in parte per stimolarlo a misurarsi con il mondo, le sue inquietudini, le sue trasformazioni, perché l’autore di teatro, a differenza, o forse similmente a quello che fa lo scrittore di narrativa, ha questa inclinazione ad “affacciarsi sul mondo” piuttosto che a “stare nel mondo”. Invece, è solo partendo da un vissuto in seno alla comunità che si creano le premesse per la “poesia”.Outis è stato fondato nel 1998. Le attività del Centro, come accennavo prima, sono molteplici. Organizziamo ogni anno un festival internazionale della nuova drammaturgia che si chiama “Tramedautore”, concepito come una “fiera” dei nuovi autori, nel senso che i testi vengono proposti in forma di lettura scenica, mise en espace, che si rivolge principalmente agli operatori del settore, per far conoscere loro le novità.A partire dall’anno scorso, è nata una nuova manifestazione, a cadenza biennale, “La fabbrica dell’uomo”. Anch’essa un festival, ma di nuove produzioni, che dedichiamo di volta in volta ad un argomento importante: la prima edizione si è svolta nel 2005, ed è stata dedicata ai nuovi scenari dal mondo del lavoro. Abbiamo invitato sessanta autori a scrivere dei testi sul tema, ne abbiamo selezionati alcuni; undici di questi sono diventati delle messe in scena.Stiamo preparando l’edizione del 2007, e il tema sarà il gioco delle passioni, le dinamiche dei rapporti amorosi.Abbiamo organizzato rassegne tematiche per il Padiglione d’Arte Contemporanea, per il Festival di Sabbioneta, per il Museo Bagatti-Valsecchi, “Trame per Cinque Giornate” per il Comune di Milano.Outis è dotato, inoltre, di un archivio nazionale e internazionale che raccoglie la produzione dram-matica degli ultimi quaranta anni. Ad oggi, conta circa seimila testi teatrali e viene consultato frequen-temente da operatori del settore, studiosi, studenti, e quant’altro.E ancora: organizziamo un Master di scrittura teatrale, frequentato da molti giovani autori, un ser-vizio di editing on-line, per offrire un servizio a chi voglia avvicinarsi alla scrittura per il teatro. Da alcuni anni, infine, siamo impegnati in una rete europea, sul fronte della traduzione dei testi destinati all’esportazione.

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Vorrei partire da quanto veniva detto prima, ossia dall’analisi dei dati in rapporto ai giovani, perché quando si parla di formazione, ovviamente quello che interessa è la risorsa umana.È evidente che c’è uno scollamento in Italia, forse sempre maggiore, tra quello che è l’istituzione for-mativa – la scuola pubblica in tutti i suoi livelli, dalla scuola primaria soprattutto alla scuola secondaria, università e in generale le varie occasioni di formazione anche private – e quello che è il mondo del lavoro, della produzione.Io parlo in rapporto agli scrittori, ed è molto bella questa idea della divisione tra lo scrittore puro, lo scrittore che raccoglie, che raggranella, il raggranellatore, e lo scrittore professionista, perché effetti-vamente fotografa bene una situazione. Ma credo che forse sarebbe anche utile interrogarsi, in rap-porto ai giovani, sull’idea dello scrittore come professione, nel senso che “carmina non dant panem”, come diceva già Orazio anni fa. Ariosto, secondo quanto si diceva prima, era uno che faceva il doppio lavoro, perché faceva il burocrate all’interno di una corte. La figura dell’autore professionista che vive di quello che vende esiste solo da quando c’è il mercato, grosso modo dall’Ottocento; poi c’erano gli stipendiati di corte, che però venivano impiegati spesso a fare lavori che non erano quelli di fare poesia. Petrarca, Dante, tutta questa grande idea degli autori come dei poeti… i poeti non hanno mai vissuto della loro poesia, non hanno mai venduto la loro poesia. Allora è curioso: c’è una contraddizione di fondo che sta proprio nell’idea culturale che noi, anche attraverso la scuola, fac-ciamo passare, cioè che il poeta sia un mestiere, che il poeta sia uno che ha diritto di vivere di diritti d’autore… no! Il poeta è giusto che scriva, è giusto che sia uno scrittore puro, è giusto che faccia il tranviere, l’operatore culturale, se gli va bene. Lo scrittore professionista è uno che poi si confronta con il mercato; lo stesso romanziere, che è quello che forse oggi potrebbe vivere dei proventi dei diritti d’autore, in realtà nella maggior parte dei casi vive scrivendo sui giornali, cioè utilizzando la scrittura non solo in senso creativo, ma anche in senso informativo, di commenti, ecc. Credo che questo, sotto, sotto, sia giusto.Allora mi chiedo a questo punto che senso hanno le scuole che si prefiggono, in qualche modo, l’obiettivo di ‘creare dei creativi’. Tremila diplomati ai Conservatori, veramente, non servono, poiché il mercato del lavoro è in grado di assorbire un numero di professionalità sicuramente inferiore. Poi, certo, ci sono i talenti, quelli bravi, quelli che vanno a fare gli artisti, ma lì c’è una selezione naturale che è fisiologica, non è né giusta né ingiusta. Ecco che allora avere delle scuole che alimentano il mito dell’artista come professionista può essere pericoloso per i giovani, perché poi effettivamente avete visto la forbice che si crea tra le aspettative e la realizzazione professionale. È chiaro che uno che fa il Conservatorio vorrebbe fare l’esecutore, il compositore, così come uno che fa una scuola di scrittura parte con l’idea di fare lo scrittore. Ebbene, ripeto, non è né giusto né ingiusto, ma è fisiologi-co che solo uno su cento riesca, come si vedeva anche in “Saranno Famosi”. “Solo uno su cento ce la fa”, perché soprattutto, al di là del discorso del mercato, c’è un limite di assorbimento del pubblico, che più che un libro alla volta, un concerto alla volta non può vedere o ascoltare.Va a finire che ci troviamo in una condizione come in quella battuta del film “Taxi Driver”, in cui De Niro faceva il poliziotto e, frequentando una ragazza che invece stava nel Village a New York, vede-va tutti gli amici di questa ragazza che dicevano “io sono un pittore, io sono uno scrittore, io sono un poeta”, però poi, di fatto, ognuno faceva l’operatore ecologico o altro. Allora lui chiede alla ragazza

“scusa, ma perché tutti i tuoi amici dicono di essere artisti e poi in realtà fanno qualcos’altro? Io sono un poliziotto e faccio il poliziotto”. In quello era molto coerente.

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Marco Vacchetti

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Questo può portare a dire che le scuole sulla creatività non dovrebbero esistere o dovrebbero esistere in numero molto ridotto. Invece no, non credo. Bisogna però pensare che i giovani che entrano in quelle scuole fanno una scelta che li porta automaticamente alla giungla dove ci sarà una selezione fisiologica, dettata da bravura, fortuna, talento... Insomma, un mix di fatti che è difficile sintetizzare in una formula, anche perché se una formula esistesse, la scuola subito se ne approprierebbe e la rivenderebbe.La scuola, tuttavia, intesa come luogo di formazione sulle discipline artistiche, in realtà ha un senso molto forte, intanto perchè costruisce una sorta di terreno di cultura per quello che sarà poi la selezio-ne, e quindi costituisce in questo senso un punto di riferimento molto importante. Penso all’esperienza che conosco io, quella della scuola Holden o quella della scuola pubblica; tutte le occasioni dei vari dibattiti, convegni e confronti, devo dire che è una dimensione di utilità che riconosco a tutte le scuole. La scuola in primo luogo costituisce sempre un punto d’incontro, sia tra studenti e maestri, diciamo, sia tra studenti e studenti, che spesso sviluppano poi le sinergie più efficaci. Quindi la scuola ha una prima funzione che è quella, poi mette insieme le persone che hanno un interesse comune, e quello che dovrebbe essere chiaro, ripeto, è che di tutti questi, quello che riuscirà a realizzare il sogno sarà uno.L’altro aspetto che dovrebbe essere molto utile, e che le scuole dovrebbero chiarirsi, è che oltre a queste occasioni di incontro e di rampa di lancio per qualcuno, hanno la grande possibilità in campo creativo di offrire percorsi di formazione comunque per professionalità. Cioè dietro al singolo esecu-tore, dietro al singolo compositore, ci sono decine di professionalità che certo hanno a che fare con le partite Iva, le ritenute d’acconto, con l’organizzazione, ma anche a livelli non puramente ammini-strativi, anche più creativi di collaborazione, che non vuol dire essere l’autore, la star, ecc., ma che permettano comunque a molti giovani che hanno quella passione di poter lavorare in una dimensione legata al mondo dello spettacolo, al mondo della produzione letteraria, artistica, musicale, ecc.Allora l’idea didattica di costruire dei percorsi in qualche modo comuni, che mettano assieme espe-rienze diverse, diventa un’esigenza imprescindibile, tanto più in una scuola italiana, che effettivamen-te patisce di un’eccessiva specializzazione, senza poi in realtà arrivare ai risultati di altri paesi nei quali la specializzazione è altrettanto eccessiva, ma per ragioni varie e complicate i risultati sono anche probabilmente superiori. La possibilità di creare dei percorsi di formazione misti dove le varie discipline si confrontano e producono quantomeno suggestioni, credo che effettivamente sia una cosa utile.Alla Scuola Holden di Torino si cerca di fare un percorso del genere, un percorso che non è partico-larmente specializzante, non si ricerca la specializzazione, non è tanto una scuola di scrittura, non è assolutamente così, ma si tende a precisare che è una scuola di narrazione. Sotto l’ombrello della narrazione entrano poi le varie competenze specifiche, per cui nella scuola passano ad insegnare autori teatrali piuttosto che scrittori, ma anche musicisti, compositori, cuochi, ecc. Questo perché la convinzione è che dall’eterogeneità delle esperienze di formazione e degli incontri e dalla caratteri-stica che ha la narrazione, cioè di essere uno strumento comunicativo che si può utilizzare in campi molto differenti, non solo nella letteratura, da questo insieme di cose è possibile offrire ai giovani in un biennio – perché sono due anni di Master – la possibilità di conoscere ed intuire gli sviluppi a livello professionale. Nello specifico (visto che questo mi sembra più il primo gradino della collaborazione tra scrittura e musica) noi chiamiamo dei musicisti, dei compositori o degli esecutori. Quest’anno per esempio abbiamo chiamato Mario Brunello, un violoncellista, anche soltanto un giorno in cui lui ve-niva a raccontare, con il violoncello al seguito, la sua idea dell’interpretazione, e a confrontarsi con gli studenti (una decina, non di più, perché sono laboratori a piccoli numeri), su cosa sia il paragone,

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anche a livello puramente suggestivo, non tecnico, tra l’interpretazione in campo letterario, per esem-pio la riscrittura, e invece l’esecuzione, quindi l’interpretazione a livello strumentale. Collabora con noi da anni, per esempio, Carlo Boccadoro, chiamato proprio in qualità di compositore, per educare i nostri studenti – in poche ore, una quindicina – ad un percorso sull’ascolto, perché la nostra idea è che uno che sa raccontare storie debba compiere un primo gesto, che è quello di stare a sentire. E così di seguito.

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SECONDA TAVOLA ROTONDASUONO E PAROLA:

ANTICHE E NUOVE CORRISPONDENZE

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Sono qui, più che come scrittore, come rappresentante della scrittura, del romanzo, di quel tipo di attività dove il suono della lingua ha una certa importanza. Il tema “suono e parola antiche e nuove corrispondenze” ci fa capire che tra antiche e nuove c’è un problema, e quindi questa è una delle ragioni per cui siamo qui, perché altrimenti si diceva corrispondenze e basta. È molto importante però parlare di corrispondenze, perché se cominciassimo a parlare di come si mettono insieme la lingua e i suoni, non andiamo più a casa, perché le idiosincrasie cominciano a fiorire. Se ci domandiamo come si può musicare “L’infinito” di Leopardi possiamo andare tutti a casa. Invece è molto più impor-tante partire dal dato, cioè che suono e parola sono insieme, fin dall’inizio; la musica antica è, credo, prevalentemente una musica cantata. Il canto è quindi un’unità sostanziale che in qualche modo concettualmente precede la distinzione di suono e lingua. Quindi a me piacerebbe molto parlare di questo, cioè cogliere e cercare di capire insieme qual è questa unità che è data, che ci viene dalla storia e dal tempo, e quali sono i problemi che sono intervenuti via via a complicare il quadro. Questa è, molto semplicemente, la domanda.

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Luca Doninelli

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Anch’io ho una formazione assai ibrida: il mio primo amore è il teatro, coniugato con la musica. Insegno linguistica italiana, didattica dell’italiano, e ho attraversato fasi di lavoro e di ricerca che hanno toccato la sperimentazione teatrale, l’interdisciplinarietà tra l’uso creativo del linguaggio nelle diverse zone, legato ad un’intuizione vera, cioè che lo sviluppo di creatività, in qualunque area lingui-stica, automaticamente potenzia la capacità anche nelle altre aree, nonostante la differenza spesso radicale che i diversi linguaggi hanno tra di loro. Ma di questo tornerò a parlare un secondo durante un discorso per forza breve, nel quale cercherò di mostrarvi come la lingua sia di per sé un fatto sonoro, anche se la nostra tradizione di studi e scolastica lo ignora completamente, e quindi ci sia una parentela fondante di origine tra lingua e musica, che è l’appartenere entrambe all’universo della sonorità; cercherò di mostrarvi che la lingua è un fatto sonoro anche quando è scritta e, badate, non è un’affermazione idiosincratica, è un’affermazione che risponde ad un saper diffuso anche se non condiviso, soprattutto nel nostro contesto italiano. Vorrei infine condurvi ad una concezione di lingua o di testo linguistico come testo ritmico, che sarà un po’ la conclusione del discorso, passando attra-verso alcune conclusioni sulla creatività. Il mio punto di partenza è questa stessa affermazione che anche la lingua è suono, che la lingua è sequenza sonora, che la lingua è, per dire una parola sulla quale dovrò ritornare perché non c’è accordo, sequenza ritmica, e dovunque, anche nel dettato della scrittura. Mi accingo, cioè, a dare torto a Socrate che, nel “Fedro” di Platone, attacca violentemente la lingua scritta come lingua morta. Perché morta? Perché non risponde, la interroghi e non risponde, risponde sempre la stessa cosa, le rivolgi domande, la interpelli e lei, muta, risponde sempre la stessa cosa. Quindi mutismo, rigidezza, assenza di vita, assenza di personalità, assenza della persona viva dentro il dialogo, che era quello a cui Socrate pensava in quel momento. Noi moderni attraverso un sapere più sofisticato, sappiamo che non è così, che la pagina scritta non è affatto morta, non è affatto inerte, non è affatto muta, e che con la pagina scritta si può dialogare; sappiamo che come le persone vive, la pagina scritta ha una voce, e questo, se si crede a questo modo di vedere le cose, è un fatto determinante. Ho ripetuto milioni di volte a milioni di insegnanti, che non mi hanno mai creduto, che non solo si legge con l’orecchio, e questo lo vedremo questo pomeriggio, si scrive anche con l’orecchio. Del resto, molti grandi scrittori l’hanno detto e scritto, che l’unica verifica possibile sulla tenuta di una pagina scritta è la sua esecuzione a voce, cioè vedere se il tracciato dei respiri e delle pause tiene. Lo dicevano personaggi come Flaubert e soprattutto James che lo ripete all’infinito nelle sue note. Allora è vero da una parte che lingua e musica sono due linguaggi fondamentalmente diffe-renti, ma è anche vero che entrambe appartengono all’universo che McLuhan chiamava ‘audiotattile’, cioè all’universo dell’impatto uditivo. Audiotattile è la parola di McLuhan per caratterizzare le culture orali, le culture dove prevale la relazione audiotattile.È vero che un uomo che è cresciuto nel contesto della scrittura è un uomo silenzioso, è un uomo che privilegia il vedere, un vedere nel silenzio, ma la concezione di scrittura di cui oggi siamo capaci ci dice che la consistenza visiva del leggere, del leggere anche silenzioso, non è fatta di silenzio, ma è fatta, come diceva Ivan Illic evocando i monaci medievali, di un “ruminare bisbigliato” e quindi è fatta sempre di materia sonora anche nel silenzio.Sono stati fatti tentativi enormi ed infruttuosi di collegare la struttura linguistica della musica a quella delle lingue naturali; era l’epoca dello Strutturalismo, era l’epoca in cui si cominciava a scoprire un’organizzazione sistematica dei fattori linguistici anche in eccesso – perchè questa sistematicità non c’è davvero in quel modo – e si cercava di costringere la musica a entrare negli stessi parametri. La

Fabrizio Frasnedi

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fonologia aveva scoperto i fonemi come unità linguistiche fondamentali e ci si chiedeva quali fossero i fonemi della musica.Questo ambito di studi è praticamente defunto (non tutti saranno d’accordo con me); si è rivelato un modo non giusto di affrontare il problema della relazione tra due linguaggi. Nonostante la differenza strutturale dei sistemi, tuttavia, sul fronte retorico, la confrontabilità tra i linguaggi aumenta moltissimo. Sul fronte retorico intendo sul fronte che studia gli effetti, come si produce un effetto, la sequenza di effetti e la sequenza di zone, diciamo, più piatte, più piane che esiste in qualunque tipo di testo. Su questo fronte, teatro, cinema, musica, scrittura letteraria sono invece profondamente confrontabili anche se gli strumenti con i quali si creano questi effetti sono strumenti differenti. La parola effetto vuol dire che noi in questo caso prendiamo in considerazione il rapporto tra il testo ed il suo fruitore, non una sola cosa, cioè ciò che il testo produce in chi lo legge o in chi lo percepisce. Gli antichi retori sa-pevano che la disposizione fondamentale degli effetti va in senso crescente, va in senso decrescente o va in senso, dicevano loro, “nestoriano”, cioè su e giù. Ora assistendo ad uno spettacolo teatrale, ascoltando un pezzo musicale, leggendo una pagina letteraria, noi in un certo senso siamo in grado di fare una curva degli effetti, percependo che in ogni testo del mondo, anche nei più belli, ci sono delle zone calde e delle zone tiepide, ci sono delle zeppe (anche questo è un concetto retorico), dei pezzi di collegamento, dei riempimenti; non esiste nessun testo al mondo che possa conservare il picco, perché non sarebbe più un picco dopo un po’. Su questo fronte la compatibilità è altissima, e questo è anche il fronte dove si gioca la capacità creativa, che si può anche intendere come la capacità di sollecitare il lettore, cioè di inviare al lettore un segnale che mobilita, che non lascia tran-quilli. Per usare il linguaggio che Barthes utilizzava per la fotografia, un punctum dentro un contesto di studium, cioè qualcosa che colpisce, trafigge, non lascia inerti in qualche modo. Anche se in questo rapporto c’è qualcosa di soggettivo, cioè un lettore può restare inerte laddove un altro lettore salta sulla seggiola e così uno spettatore, un ascoltatore, e questa è una cosa che dobbiamo assolutamente sapere. Su un altro fronte, la creatività è sempre, anche se sembra una brutta parola, bricolage, nel senso che è sempre trarre il nuovo dal vecchio, nel senso che la capacità di creare il nuovo assoluto non ci è data, così come sottolineava Steiner in uno dei suoi splendidi libri, in questo caso l’ultimo sulle grammatiche della creazione. È un libro nel quale si affronta radicalmente il problema del creare in rapporto con l’inventare e quando io parlo di bricolage, lui parla di invenzione e non di creazione, essendo la creazione qualcosa di assoluto che noi creature umane non conosciamo. Noi, però, abbiamo la straordinaria possibilità di rendere inesauribile il materiale a nostra disposizione ricombinandolo all’infinito per creare il nuovo. È questo che di solito si presenta come effetto in un testo, poniamo una metafora ardita in una pagina poetica o letteraria, o un accordo imprevedibile dentro una sequenza, una curva melodica inaspettata. Voi, da buoni ascoltatori di musica, quando cominciate ad ascoltare un pezzo sapete già dove va, nell’orecchio avete già tutto l’andamento (almeno se è un pezzo di musica classica), però a volte succede qualcosa che fa cambiare binario, che porta l’attenzione su un altro piano. L’intuizione che vi dicevo all’inizio fu quando facemmo una sperimentazione pluriennale nella scuola media, che metteva a fianco formazione linguistica e linguaggio cinematografico. Allora avemmo l’occasione di confrontare in modo sistematico le procedure di costruzione linguistiche di un film e le procedure di costruzione linguistica di un testo, e di raffrontare passo a passo i diversi tipi di ope-razioni, i diversi modi di muoversi del linguaggio, e vedemmo che quella mia intuizione era giusta. Se il ragazzo capiva qual era l’importanza della scelta di un campo, in una ripresa o nello scatto di una fotografia, o della scelta della disposizione degli oggetti all’interno di uno spazio, quel ragazzo avrebbe capito anche molto meglio cos’è un processo selettivo di tipo linguistico. Ci concentrammo,

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dunque, su alcune grandi operazioni mentali caratteristiche di ogni operazione creativa: selezionare, comporre, montare e così via. Questa esperienza davvero ci insegnò molto, ma il nostro contesto scolastico è allergico a questo tipo di esperienze. Noi potemmo condurre un’esperienza del gene-re perché lavoravamo tutti insieme, l’insegnante di lettere, l’insegnante di musica, l’insegnante di educazione artistica, l’insegnante di applicazioni tecniche, e tutti insieme costruivamo itinerario per itinerario.Se la scuola sapesse procedere così, il livello di capacità di suscitare creatività negli allievi sarebbe infinitamente più alto. Del resto oggi la creatività passa un momento terribile, dappertutto; ma perché questa crisi di creatività? Per ragioni di cecità. Perché è vero che il mercato non offre professioni creative in abbondanza, ma è anche vero che quando parliamo di creatività parliamo di qualcosa che poi serve a tutto! L’esempio più lampante è il pubblicitario, ma ci sono infiniti esempi; non c’è nessun campo di lavoro umano in cui la creatività non serva, a meno che non ci si trovi nella ripetitività assoluta, evidentemente.La creatività ha una cattiva stampa, perché vive dentro un contesto dove prevale l’efficientismo, il risul-tato immediato, il cognitivismo più stolto e scellerato; di cognitivismi ce ne sono tanti, per fortuna, ma quello che prevale è quello dei pacchettini di nozioni da somministrare (si usa questo verbo orrendo come verbo tecnico di tipo didattico, questa orrenda invenzione linguistica, pensate che sommini-strare era tipico della tortura, ed è proprio dei medicamenti). Si somministrano le nozioni come si somministrano i test, ma in questo modo non si forma alcunché e ci si avvita dentro una trappola di vuoto che alla fine non è più funzionale. Allora la cattiva stampa della creatività è perché la creatività appare qualcosa di gratuito ed enormemente costoso, come di fatto è, ma non in soldi, piuttosto in preparazione, in cultura, in riflessione, in comprensione dei meccanismi fondamentali della creatività medesima, che come vi ripeto sono gli stessi dovunque, e questo l’avevano capito i grandi a comin-ciare da Bergson ed arrivare al più vicino Moran. È una cecità, dicevo, perché invece la creatività è propulsiva, rende (anche se apparentemente e subito, a uno sguardo cieco, potrebbe apparire un investimento inutile).Fatta questa parentesi sulla creatività torniamo all’assunto iniziale per concludere, e cioè che la lin-gua, anche la lingua scritta, è qualcosa di appartenente all’orizzonte dell’oralità. La scuola da cui prendo queste riflessioni ha origini soprattutto francesi, dal gesuita Marcel Jousse, al contemporaneo nostro Henri Meschonnic, che è un grande traduttore (soprattutto traduttore biblico e di poesia) e che è anche teorico della poesia, e parte dall’assunzione che la lingua scritta è uno degli aspetti estremi dell’oralità, cioè che la lingua scritta è anch’essa voce, fiato, respiro, pausa, accento, che è, per usare la sua definizione, “ritmo”. Ritmo come parola estremamente sfuggente, naturalmente, ritmo come complessità del fatto linguistico, dove insomma senso e suono vanno inesorabilmente insieme e sono indistricabili l’uno dall’altro; non si comunica un senso senza una precisa architettura di suoni, anche nel dettato della scrittura. In fondo una buona lettura è, o dovrebbe sempre essere, il tentativo di ritrovare nel testo scritto la voce che l’ha dettato, tentativo asintotico, cioè destinato a non realizzarsi mai, o che può procedere all’infinito, ma è solo in questo modo che il lettore entra davvero dentro l’anima della scrittura. Deve essere però un lavoro delicato, attento, fatto con tatto, perché altrimenti noi sovrapponiamo alla scrittura dei modellini prefabbricati, quelli che gli attori chiamano le mascheri-ne, e allora in questo modo il testo viene tradito e niente affatto scavato in profondità. In questo modo comprendiamo che il testo scritto non è portatore di un senso astratto; certo il senso astratto possiamo ricavarlo con le procedure che abbiamo a disposizione, ma è portatore di un senso che ha una vita, e quella vita è ciò che tentiamo di chiamare, con un’espressione sintetica, ‘ritmo di un testo’, e ciò che vorrei fare con voi oggi pomeriggio è esattamente questo: metterci di fronte ad alcuni campioni di

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scrittura e vedere come il nostro orecchio li legge. Capite benissimo, anche se qui non c’è lo spazio per approfondire, quanto questo discorso possa avvicinarsi a quello della scrittura teatrale. Pasolini diceva una cosa intelligentissima, a proposito della scrittura cinematografica: diceva che è una scrit-tura grezza e per grezza lui intendeva una scrittura che attende un’altra scrittura, che è in funzione di un’altra scrittura e la scrittura del teatro è per eccellenza una scrittura grezza, nel senso che attende altre scritture, così come la scrittura del cinema. E se è vero che lo scrittore scrive con la voce, tanto più è vero per lo scrittore teatrale, che se sa scrivere per il teatro, scrive con l’orecchio l’intonazione della battuta, altrimenti non è uno scrittore di teatro.

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Enrico Girardi

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Mi piace che la riflessione precedente si sia conclusa sulla questione del ritmo, perché se ben pen-siamo è forse l’ultimo elemento che appartiene al linguaggio di tutte le arti, in realtà di tutto ciò che vive, perché tutto ciò che vive ha un ritmo. Nella pittura, nella scultura, nel cinema, nella letteratura, ovviamente anche nella musica, il ritmo è una categoria presente, e non so di quanti altri parametri di tutti i linguaggi si possa dire la stessa cosa. Questo è un elemento molto importante. Non più di un mese fa all’Università Cattolica abbiamo organizzato un convegno sui rapporti tra musica ed arti figurative nel Novecento. É stato un convegno ampio e articolato, dove hanno parlato artisti, musi-cisti, storici, studiosi delle varie branche e discipline. Alla fine siamo usciti con la convinzione che se ogni arte è un fatto compositivo, cioè dare forma ad un’idea, ad un principio di base, e ogni arte segue il suo mondo, le sue leggi, la sua stessa disciplina nel dare forma ad un oggetto, allora è forse nell’individuazione dell’oggetto che le arti parlano tra di loro, nel senso che tante volte l’opera nasce da una suggestione, da un incontro, da un fatto, da una reazione ad un testo, ad un segno, ad una linea, piuttosto che ad un suono o ad una immagine che in qualche modo ci ha comunicato, ci ha detto qualche cosa.Quindi credo che siano davvero velleitari i tentativi di unire, di parlare del rapporto tra due discipline diverse, pur legate in qualche modo dall’appartenenza al mondo delle cose belle (che esistono per-ché vogliono comunicare bellezza), se non per andare a registrare una serie di sinestesie più o meno vaghe, che forse è tempo di lasciar perdere e di superare. Questo mi porta direttamente all’immagine che proponeva Doninelli in sede di introduzione, che noi non siamo in grado di dire come si debba musicare “L’infinito” di Leopardi; è vero però che siamo in grado di capire come nel tempo e nella storia hanno musicato, si sono rapportati ad un testo. Potremmo però fare un gioco (potrebbe essere il tema di un laboratorio, volendo): prendendo uno stesso testo, ad esempio “L’infinito”, capire come Monteverdi avrebbe musicato quel testo; non l’avrebbe potuto fare per ovvie ragioni, ma se Leopardi l’avesse scritto qualche secolo prima, come l’avrebbe fatto lui e poi tutti gli altri compositori.Da questo punto di vista, cioè di un’indagine semplicemente storica, laddove c’è musica e testo, c’è inevitabilmente una vocalità, perché il testo nella musica si deve esprimere attraverso una voce, qua-lunque essa sia: cantata, parlata, mezza cantata, mezza parlata, intonata, declamata e via dicendo. A ben vedere, si può rileggere la storia come una diversa relazione tra i due distinti elementi che più di tutti segnano questo rapporto, cioè l’elemento sillabico e l’elemento melismatico. Un suono, una sillaba, più suoni, una sillaba: attraverso questa griglia e le diverse combinazioni che questa griglia può offrire, noi possiamo rileggere la storia della musica. Dalla purezza assoluta dell’originario canto gregoriano, fino alla progressiva emancipazione del fatto musicale con il trionfo del melisma melo-drammatico; il ritorno in qualche modo all’ordine della riforma gluckiana. Un esempio è la famosa aria “Che farò senza Euridice”. Quest’aria muove tutta, anche musicalmente, dalla suggestione di questa parola, “Euridice”, “Euridice”, il suo suono, il suo ritmo, è una parola piana e l’appoggiatura diventa l’elemento fondamentale di quell’aria, tant’è che nella sua prima formulazione “Che farò senza Euridi-i-ce” viene enfatizzato proprio quell’elemento. E tutta l’aria è costruita su questo elemento dell’appoggiatura. Un esempio semplice, ma da qui nasce quella naturalezza, quella chiarezza, quella logicità che troviamo in seguito nel teatro mozartiano. Nell’Ottocento, con Rossini per esem-pio, si ha l’inizio di un rapporto anche schizofrenico con la parola, ma nel quale la parola diventa l’elemento ritmico e propulsivo: “nella testa ho un campanello che suonando fa din-din”. Tanti esempi si possono fare, fino a fine Ottocento, quando invece per la prima volta viene proprio studiata e

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sperimentata l’enfatizzazione espressiva della parola attraverso la musica. Ci sono tanti esempi: il “Te Deum” di Verdi finisce con questo enorme contrasto tra il sé e la divinità: “In te Domine esperavi”, cioè “in te Signore ho riposto la mia speranza”; si sente fortissima la percezione che quel testo liturgi-co, e quindi in qualche modo ufficiale, oggettivo, venga riletto alla luce di un’esperienza personale. Questo enorme abisso che viene percepito quasi fosse un’accusa verso il divino, tra sé e questa enorme distanza, si chiude (nel finale dell’opera) con l’infinito acuto – gli armonici di violino – e con l’infinitamente grave – un suono di contrabbasso – nel cielo e nella terra nello stesso tempo. È proprio una forzatura sulla condizione oggettiva del testo. E quella è anche l’epoca nella quale per la prima volta si gioca col rapporto tra testo e musica, in modo tale da negare un concetto, dicendo con la musica l’esatto contrario di quello che dicono le parole. Il primo esempio che mi viene in mente è un’opera meravigliosa di Mahler “Vita celestiale”, Secondo Movimento, Quarta Sinfonia, il cui testo finisce con una splendida progressione “io vivo solo nel mio cielo, nel mio amore, nel mio canto”. Questa, conoscendo l’estetica mahleriana, è proprio una sua progressione, l’amore sta sopra il cielo; il canto sta ancora sopra l’amore, in questo mondo tragico, la possibilità di dire, di esprimere, di cantare è l’unica possibilità di salvezza, che è un po’ un principio schubertiano rivisto e riapprofondito dieci anni dopo. Lì la linea musicale si amplia fino a cadere alla fine; nel momento in cui dovrebbe raggiungere l’esaltazione, si chiude in se stessa. O il finale della Quarta Sinfonia: qui è il mondo dei bambini che ritorna, in quella fase in cui sono ‘bambini morti’; sono visti in una condizione di privilegio, non hanno visto gli orrori del mondo in cui viviamo, hanno la possibilità di partecipare ad un mondo altro, molto più bello, senza essere stati contaminati da questo, proprio perché bambini. E finisce con la rappresentazione di questo mondo paradisiaco nel quale loro si trovano, dove “buone erbe di ogni specie crescono nel giardino celeste! Buoni asparagi, fagioli, tutto ciò che vogliamo! (…) Dovesse poi venire un giorno di magro, tutti i pesci nuotano con gioia! Già san Pietro getta la rete e l’esca dentro lo stagno celeste. Santa Marta dev’essere la cuoca” e la musica qui è tutta conseguente, è festosa, è baldanzosa soprattutto nella condotta melodica; nell’ultima strofa “nessuna musica c’è nella terra che possa paragonarsi alla nostra. Undicimila vergini hanno il coraggio di danzare, san-t’Orsola stessa ride! Cecilia e i suoi parenti sono ottimi musicanti. Le voci celesti esortano i sensi a risvegliarsi alla gioia”, è un trionfo, un tripudio. Se avete tempo, quando tornate a casa, ascoltate il finale di questa Quarta Sinfonia; dopo questa musica baldanzosa c’è un finale di una cupezza che si estingue lentamente, è l’esatto contrario: dice che in realtà anche questo mondo meraviglioso, in cui i santi fanno da mangiare, danzano festosi e felici, è illusorio. Dice che nemmeno quello spiraglio è possibile. Sarebbe bello parlare di come viene rivoluzionato il rapporto tra musica e poesia nella drammaturgia wagneriana. Penso che sia stata la soluzione più geniale, più originale quella di legare l’uno all’altro attraverso la figura (che poi è anche elemento costruttivo, quindi anche cemento), la struttura del leit-motiv. Non solo, nei mille elementi per i quali la figura di Wagner è assolutamente originale, c’è anche il fatto che fu il primo a scriversi i testi da solo, ad iniziare quel rapporto di messa in crisi della figura del librettista professionista. Quest’ultimo è una figura discussa. Quante volte di-ciamo “questi librettacci dell’Ottocento!”. In fondo lo sono, semplicemente perché consideriamo solo uno dei parametri di cui sono fatti, cioè quello della qualità della versificazione. In realtà sono perfetti dal punto di vista della prosodia, del ritmo, delle strutture metriche, delle strutture prosodiche, e quindi della loro funzionalità al piano formale delle opere delle quali fanno parte.Questo fenomeno di ritorno wagneriano è anche quello che dà il via a tutto un ripensamento della vicenda, che fa nascere all’inizio del secolo uno dei fenomeni più belli e interessanti nel rapporto tra arte e letteratura, cioè il cosiddetto Literaturoper, non più testi adattati al fine di essere musicati (come Arrigo Boito che prende l’”Otello” di Shakespeare e lo trasforma in qualcos’altro più adatto

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alla musica di Verdi, piuttosto che Francesco Maria Piave che prende il dramma di Hugo per fare il “Rigoletto”) ma piuttosto il testo così come esso appare già in origine. Di conseguenza c’è la necessità di una musica che viva di quel testo e nella quale quel testo sia un elemento fondante; il testo non solo nel senso del suo significato, ma nel senso del suo suono, del suo ritmo. Ecco allora la vocalità debussiana, che ci sembra per certi versi un ritorno all’antica purezza gregoriana, ma che è in realtà la linea melodica che prende spunto e che sfrutta la prosodia del testo stesso. Sembra il canto che si sente all’interno di un monastero, ma noi capiamo perfettamente le parole, il loro ritmo, ed è proprio la parola che ci dà quel senso di lentezza, di immobilità, che è poi l’elemento drammaturgico fonda-mentale di quell’opera.Questo è un punto singolare; nel Novecento spesso vediamo casi in cui il testo viene distrutto, fatto a pezzi, frammentato, ridotto a sillabe, ridotto a fonema, come dicevamo prima. Troviamo però la rinascita di un problema che sembra antico, che è quello dell’intelligibilità della parola dentro il suono. Un autore di avanguardia, o di avanguardia accademica (è una contraddizione in termini, ma è assolutamente voluta) come Salvatore Sciarrino, si pone il problema dell’intelligibilità della parola e questo è uno dei filoni fondanti della musica moderna nel rapporto tra poesia e letteratura. Un altro esempio, che in fondo è in una direzione non tanto diversa da questa, è quello del cosiddetto Spre-chgesang schönberghiano, cioè questo canto intonato, che però è parlato: è un parlato intonato, un parlato con delle altezze fissate. Ma quando la cantante o l’attrice di “Pierrot lunaire” declama il testo di Giraud, noi quel testo lo percepiamo perfettamente.Invece, sempre tra i prodromi della modernità, pensiamo a Stravinskij, per fare un esempio. Egli ci dimostra quello che non è più, come l’impossibilità dell’esistenza di un qualche cosa. È la disgrega-zione di una unità che forse un tempo è stata indissolubile, ma che ora è irrimediabilmente distrutta.Questo è un passo di un dialogo (perché chiamarlo duetto non è la definizione propria) tra i perso-naggi Tom Rakewell e Anne Trulove verso la fine dell’opera “La carriera di un libertino”, “The rake’s progress”. Il testo, la parte cantata da lui, dice “In a foolish dream, in a gloomy labyrinth, I hunted shadow, desdaining thy true love. Forgive thy servants, who repent his madness. Forgive Adonis and he shall faithful prove”. Se confrontiamo gli accenti linguistici con il loro posizionamento nella battuta musicale, vediamo che c’è una buona metà di questi sedici accenti (perché sono quattro per ogni linea), che non cade, non coincide con l’accento ritmico della musica. Non li vediamo a inizio battuta, li vediamo in mezzo, li vediamo su un levare. L’effetto chiaramente è di spaesamento, è come un testo che perde la sua articolazione, come un testo quindi non detto. Non a caso siamo in una scena in cui il protagonista volge verso la più completa follia, infatti parla di se stesso come di Adone, che ormai non pecca più; lui non è più Tom, è Adone, lei non è più Anne Trulove ma è Venus, “in un folle sogno” sta dicendo “in un labirinto errai”, ma questa è una condizione che non solo ci descrive la situazione particolare di quel personaggio, in quel contesto di quest’opera, ma è in qualche modo la condizione del non essere più: lui non è più Tom, è diventato altro. Ma è anche la condizione di un’impossibilità di essere. Interpretato come metafora è veramente un modo di dire ‘andiamo verso la disgregazione dei fatti’. Forse nemmeno un matrimonio, un legame tra queste due arti è più possibile. Tanta musica vocale, soprattutto dell’ultimo Stravinskij, volge in questa direzione, ed è tanto più singolare quanto più pensiamo che siamo in un contesto in cui quel tipo di legame è presupposto, perché la struttura ritmica è regolare, abbiamo un 3/8 preciso, con il suo basso, in un contesto storico tradizionale che c’è, però privato di qualcosa. Basta un elemento estraneo a questo contesto per distruggerlo dall’interno in qualche modo.Alla fine se contate questi sedici accenti in questa pagina dell’opera, quelli segnati con una “v” sono quelli in cui gli accenti musicali, ritmico e prosodico coincidono, quelli invece segnati in un altro modo

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sono i casi in cui non coincidono. Se fate la somma sono otto e otto. In fondo, se fossero stati tutti e sedici sballati, avrebbe in qualche modo affermato quello che voleva negare. Vedendo questo, tutto sommato, anche le grandi esperienze delle avanguardie storiche possono essere ridimensionate, nel senso che non arrecano così tanto di nuovo al nostro discorso.Questo è uno dei brani che costituiscono la partitura del “Canto Sospeso” di Luigi Nono che, come molti di voi sapranno, è un brano il cui testo è dato dalle lettere dei condannati a morte della Resisten-za e fa parte della fase più dichiaratamente politica di questo compositore. Il “Terzo Numero” è un canto a cappella; infatti, vedete che nei due sistemi di questo numero abbiamo le parti dei soprani, dei contralti, dei tenori e dei bassi. Il testo è prosa, è una delle tante lettere che lo costituiscono:

“Muoio per un mondo che splenderà con luce tanto forte con tale bellezza che il mio stesso sacrificio non è nulla. Per esso sono morti milioni di uomini sulle barricate e in guerra. Muoio per la giustizia, le nostre idee vinceranno”, ecc. Questo testo è distribuito tra le varie linee vocali in modo tale che, se noi facessimo una linea che unisce le varie sillabe del testo su una partitura, troveremmo una linea molto mossa in diagonale che lega le varie sillabe l’una all’altra.Questo spaesamento che abbiamo visto nell’esempio di prima, qui è in qualche modo radicalizzato:

“muo-io”, dicono i soprani, mentre però i secondi tenori stanno dicendo una parte, la sillaba “o”; i pri-mi bassi la sillaba “i”, fanno parte della parola “muoio”; “per un” lo vediamo nella linea dei secondi bassi, “mon-do”, ecc. Chiaramente questa tecnica non è una grande invenzione, anche se all’epoca fu percepita come tale. In quegli anni, gli anni Cinquanta, questo rapporto tra musica e parola tendeva ad eliminare la sostanza materica della musica o, meglio, ad eliminare la sua unità tra materia e significato (quella che è propria della parola), in favore di una direzione che tendeva all’assoluta disgregazione degli elementi, onde poi favorirne una successiva ricostruzione. Questo era percepito come cosa rivoluzio-naria, come cosa nuova, mentre era semplicemente un meccanismo più approfondito di quello che è stato descritto prima con l’esempio stravinskijano.Certo è che l’effetto è quello ancor più di spaesamento, di parola smozzicata, di parola ormai balbettata, che si perde nel brusio delle tante sillabe della parola stessa, ma questo è però anche funzionale alla condizione che quest’opera descrive: parliamo di lettere di condannati a morte della Resistenza, che rappresentano un mondo nel quale un ordine non c’è più, ma non solo nei fatti, non c’è perché non è più possibile.Io mi occupo, nei miei studi, soprattutto della musica del secondo Novecento, e devo dire che da questo punto di vista non ho trovato formulazioni nuove, originali, importanti come quelle che ho sot-tolineato. Ho trovato e continuo a trovare con grande interesse combinazioni sempre nuove tra questi modi d’essere del rapporto tra musica e parola. Tuttavia, penso che le basi del nostro discorso siano ancora quelle fissate un secolo fa: quella del teatro wagneriano, della parola cantata e declamata di Schönberg, dell’intonazione da melopea del teatro di Debussy, e della parola violentata e privata di qualche suo ingrediente e trasformata in altro, come abbiamo visto nei due esempi di Stravinskij e Nono.Penso però che, oltre a questo quadrilatero di possibilità, le combinazioni siano infinite, e questo è ciò che garantisce la ricerca in questo settore, che si può registrare anche nella creazione e nella creatività contemporanea.

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Iniziamo la seconda sessione di questo convegno, cercando di dare una continuità a quello che abbiamo visto ieri nella prima tavola rotonda, ossia un aspetto professionale, istituzionale che riguar-dava attività legate alla musica e legate alla scrittura. Oggi vediamo delle testimonianze che partono da chi lavora all’interno di questi settori: la produzione musicale e la produzione letteraria.Ieri Doninelli, introducendo la seconda parte di questa tavola rotonda ha detto “suono e parola sono insieme fin dall’inizio”. Un’eco di questa affermazione veniva ridetta in tutti e due gli interventi. Ripeto alcune formulazioni che secondo me sono molto preziose: il professor Frasnedi è arrivato a dire “si legge con l’orecchio e si scrive anche con l’orecchio”, mentre il dottor Girardi ha formulato un’altra espressione a mio parere molto felice: “il ritmo appartiene a tutto ciò che vive”. L’idea di questa mat-tina è di chiedere a persone che in questo momento in Italia svolgono un’attività in questi due campi creativi, la scrittura e la musica, che cosa vuol dire intuire, subire o cercare corrispondenze tra la loro arte e quella cugina, cioè per i poeti la musica, il suono, e per i musicisti la scrittura.

Pier Paolo Bellini

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Come già veniva detto anche dal lavoro svolto ieri, molto interessante per gli interventi avuti, io ho avuto la percezione che ci siamo trovati di fronte ad un bivio, che credo permanga in questo tipo di lavoro, in questo tipo di ricerca. Da una parte c’è un’acquisizione di tecniche per narrare, per comporre, per cercare nuovi orizzonti narrativi. Dall’altra parte, c’è quello che il professor Frasnedi indicava, con un termine molto pittoresco, il bricolage, come partecipazione all’atto creativo, che noi fino in fondo non possiamo possedere. Anche come partecipazione a un dato oggettivo, come ieri definiva la poesia, cioè l’intensità della poesia è data dal lavoro che viene dedicato alla poesia stessa. Sono suggestioni, però c’è la percezione di essere ad un bivio: da una parte l’acquisizione di una tecnica, dall’altra la partecipazione ad un atto creativo non nostro. Per presentare due poeti, due scrittori, vorrei citare William Blake, che dice “Se le porte della percezione fossero ripulite, tutte le cose sarebbero infinite”. Quindi quello che ci attende è un lavoro costante e continuo di ricerca di un dato che esiste, che c’è e che ci muove e ci commuove, e credo che avvenga principalmente a livello creativo, a livello poetico, attraverso la scrittura. Quindi la domanda che faccio ai due scrittori

– che sono anche due carissimi amici, con i quali ho avuto la fortuna di lavorare più di una volta – a Davide Rondoni che è poeta e direttore del Centro di Poesia Contemporanea, ma lavora moltissimo nel campo della comunicazione, eventi teatrali, ecc., e a Luca Doninelli è come questo lavoro, la creazione di versi, di ritmi, la pulsazione poetica avviene in rapporto alla parola.

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Franco Palmieri

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Io vorrei fare l’intervento su due piani. Innanzitutto sul piano personale, del mio fare, del mio scrivere, legato alle occasioni in cui si è intrecciato al lavoro di musicisti di vario genere, da compositori seri a musicanti di strada o improvvisatori di vario genere. E anche su un altro piano, più legato ad alcune considerazioni generali; naturalmente le due cose sono legate, per arrivare poi al punto finale, sin-tetico, di ciò che fino ad oggi sono arrivato a comprendere come acquisizione su questo tema del rapporto tra lo scrivere e le altre arti (anche la musica quindi, perché le distinzioni ad un certo punto si perdono). Le conclusioni le dico subito (come in un film in cui si capisce subito l’assassino): è una frase di un importante studioso, traduttore, letterato francese che si chiama Henri Meschonnic, che dice “non sono le parole che hanno senso, ma il senso che ha parole”. Poi una chiosa di un poeta francese, che ho tradotto (ed è un amico), che dice “c’è una musica nel mondo, se non canti non la puoi sentire”. Sono due frasi che in qualche modo dicono già tutto quello che volevo dire prima. Adesso vediamo se il percorso è coerente con queste due conclusioni.L’aspetto personale è molto semplice, nel senso che c’è un aspetto selvatico (su cui si riflette sempre dopo e non prima) nell’azione dello scrivere, che è sostanzialmente un’obbedienza ad un ritmo che uno si trova addosso. La voce di un poeta, come diceva un grande critico a proposito di Luzi (che è stato anche mio maestro), si forma ad un livello di laboratorio interiore e sotterraneo. Laggiù tutto sta insieme, dal battito del sangue, al ritmo del proprio passo, al posto dove si è nati, alla lingua che si parla: esiste cioè un livello di laboratorio interiore, sotterraneo in cui tutti questi elementi sono allo stadio liquido, fuso, e danno origine alla voce particolare di quel poeta, che è quella: quella, non tanto per le forme che assume, ma che è quella perché è quella. Perciò uno sente Luzi, ed è Luzi, Caproni è Caproni, Testori è Testori, Bertolucci è Bertolucci, Ungaretti è Ungaretti, e fino a scendere le scale, con Rondoni che è Rondoni o Pinco Pallino che è Pinco Pallino. C’è una riconoscibilità della voce del poeta, dovuta a questa elaborazione assolutamente sotterranea e segreta, in cui gli elementi stanno insieme.Tutto questo, appunto, erompe in maniera selvatica, non erompe per via di analisi e di sistemazione. Non è che il poeta ha questo laboratorio segreto, sotterraneo in cui entra, sistema gli elementi e poi fa l’opera, ma tutta questa materia magmatica erompe nell’opera in maniera primaria, selvatica, fino a disporsi in un modo a cui bisogna obbedire. Il verso è un gesto di obbedienza. Giustamente diceva Eliot “non esistono versi liberi”: non che non esistano forme chiuse e forme aperte, come si dice, ma non esistono versi liberi, perché nel termine ‘verso’ c’è un’idea stessa di misura. Da cosa è data? Da qualche cosa che si forma ad un livello che non è governabile, ed è una misura a cui il poeta per primo obbedisce. Tanto è vero che il poeta può tradire se stesso proprio perché non obbedisce a questa misura.Faccio un esempio su nomi che conoscete tutti. Quando Ungaretti parla di come nasce il suo verso (e il verso di Ungaretti più o meno l’avete tutti in mente) ad un certo punto dice: “i novenari, i settenari, gli endecasillabi, i quinari, non essendo per me mai schemi, non mi nascono dunque dopo trovate le parole” - quindi, non è che trova le parole poi trova lo schema dove farle stare bene - “come per partito preso, ma mi nascono insieme alle parole, muovendone naturalmente il senso. I poeti non usano mai a caso le parole. Se uno dice che la misura, il codificarsi del ritmo non nasce dopo le parole, ma nasce insieme e ne muove naturalmente il senso, sta dando una gamma di osservazioni molto importanti: sta dicendo che quello che nasce come ritmo è qualcosa che nasce insieme alle parole e che naturalmente, cioè secondo natura, ne qualifica il significato. Ungaretti dice questo in

RITMI DI VERSI

Davide Rondoni

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un altro punto delle sue “Conversazioni in America Latina”, in cui descrive la nascita del suo verso, che noi sappiamo breve, scolpito, che ha dato origine, purtroppo, ad un fenomeno di ‘ungarettismo’ spaventoso, per cui chiunque scriva una parola e poi vada a capo, crede di essere un grande poeta; solo che lui è Ungaretti, gli altri no. “Questo verso - lui dice - mi nasce per un certo battito del cuore, per un certo respiro, per un certo andamento della mia natura”.Da un’altra parte prendete quelle pagine sorprendenti, quasi maniacali che Pavese metteva alla fine dei suoi libri. Pavese aveva un verso lungo, narrativo, preso da Whitman, dalla grande epica e dai cantari popolari delle Langhe come lui stesso diceva, cioè da un certo background musical-popolare che aveva dalla propria zona. Quando descrive come nasce questo verso, dice: “mi sono trovato addosso questo verso, obbedendo ad un ritmo dato”. Questa è la prima cosa che intendevo dire, e qui siamo ancora ad un livello personale: è così, confermo quello che dice Ungaretti, quello che dice Pavese, cioè i due corni più distanti della versificazione italiana del Novecento.È sempre così, il verso nasce nel poeta come obbedienza a qualcosa che è dato. Non è un ritmo piovuto dal cielo, o meglio forse c’è anche una componente piovuta dal cielo, ma è un ritmo che si compone di retroterra culturale e degli elementi più elementari della vita personale, che sono il fatto che il tuo fisico è in un certo modo, che respiri in un certo modo, che cammini in un certo modo e non in un altro. Noi pensiamo che la singolarità dell’individuo sia data solo dalle sue idee, dal suo pensiero, ma è data in buona parte da come cammina, da come respira, da come gli batte il cuore, dal senso che ha del proprio fisico. Tutto questo sta insieme, non è analizzabile, non è scindibile, è un punto sotterraneo in cui tutto questo bolle insieme, si macera insieme. Tanto è vero che quando mi chiedono “perché tu leggi così le tue poesie in pubblico”, io non so mai cosa rispondere, perché io le leggo come mi sembrano scritte. Sembra un’osservazione banale, ma è così: le leggo obbedendo a quello che secondo me è il loro verso, il loro andamento, e non ne vedo, non ne avverto un altro. Non che non sia possibile un altro: è possibile leggerle anche in un altro modo probabilmente, ma per me non è possibile fare diversamente.Questa obbedienza al verso con cui le cose sono scritte, è un dramma in cui uno può smarrire la propria opera. Ad un certo punto uno che è poeta si accorge che la propria voce è quella e non può essere un’altra. Se leggete per esempio le poesie di Franco Loi, vi accorgete che quella è la sua voce, solo la sua, non c’è un altro poeta italiano che ha quella caratteristica. Questa è la scoperta che uno fa su di sé, non solo leggendo gli altri (a cui devi rimanere fedele). Attenzione: non sto dicendo che uno scrive sempre allo stesso modo, perché evidentemente può capitare di scrivere anche cose molto diverse. Ma anche in cose diverse si rintraccia lo stesso ritmo, o meglio lo stesso andamento. Uso la parola “andamento” o “movimento” non a caso, perché una delle cose più utili, e anche più disperanti, per provare ad affrontare questi temi, è avere a che fare con il problema della traduzione. Nella traduzione, uno che deve tradurre da un’altra lingua, si trova improvvisamente insieme tutti questi problemi.Dante ad un certo punto dice che è impossibile tradurre la poesia (bisogna comunque farlo, ma è impossibile) perché la poesia è fatta di “parole per legami e mosaici armonizzati”. Questa, secondo me, è la definizione più netta e giusta che si può dare della natura materiale della poesia: “parole per legami e mosaici armonizzati”.A me colpiva molto quello che diceva Caproni (poeta a cui io devo molto, è stato anche il primo a valorizzarmi) quando ritirava il Premio Mondello per la traduzione. Diceva intanto che “tradurre è come scrivere”. È la stessa cosa tradurre la voce di un altro, implica un problema di obbedienza alla tua voce.Caproni, affrontando il problema, dice che siccome questa natura materiale della poesia è intraduci-

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bile, non è replicabile, non è trasportabile da una lingua ad un’altra, quello che il traduttore deve fare è “salvare il movimento dell’opera”. Dire la parola ‘movimento’ è dire allo stesso tempo una parola generica e precisa. Quando per esempio traduci la parola ‘mare’ dal francese, ti trovi di fronte al fatto che per noi la parola è maschile, per loro invece assomiglia alla madre, è femminile. Pensate cosa vuol dire salvare il movimento di una poesia in cui c’è una parola semplice come mare, che i francesi dicono ‘la mer’, uguale acusticamente alla parola ‘madre’. Quante cose entrano in gioco.Il traduttore non è un operatore della traduzione, ma è uno che deve fare esperienza della poesia. Se non la fa, è difficile che traduca. Non importa che sia poeta in proprio, cioè che sia uno che poi pubblica libri di poesia. Ma se voi leggete le traduzioni di Pintor o dell’altro traduttore di Rilke, capite che era una scrittura di poesia.Un poeta ad un certo punto si accorge che deve obbedire a questo movimento, al movimento della sua voce che si forma di materiali anche lontani, eterogenei, inanalizzabili, ma che è così, si impone. Insisto, il problema dello stile di uno scrittore, di un poeta, si gioca nell’obbedienza a questa cosa. Io stesso mi accorgo, in opere mie, dove quest’obbedienza c’è di più o di meno. Una differenza tra poesia e altri generi di scrittura è che la poesia non sta su per delle trovate, delle buone idee, ma solamente se c’è l’obbedienza a questo movimento, a questa fornace.Questo è il piano personale e mi fermo. Solo due cose più generali, che mi hanno colpito nel leggere certe pagine su questi temi. Mi ricordo che una volta ci trovammo ad un convegno di musicisti e poeti a Cassino, e alla fine il problema comune era: “ma che cos’è il ritmo?”. Sì, possiamo descriverlo, ma che cos’è? Possiamo descriverne anche come si misura e come si conosce, ma che cos’è? Qual è la natura del ritmo? Perché è il fenomeno che tiene insieme la poesia e la musica. Ma la natura di questo fenomeno che cos’è? È la domanda che rimane. Stravinskij, come riporta Friedrich ne “La struttura della lirica moderna”, dice una cosa interessante, ma occorre una premessa. Quando si parla della poesia moderna si parla di poesia della crisi, poesia della dissonanza. Le parole ‘dissonanza’ e ‘crisi’ sono tra le più usate per parlare della poesia contem-poranea, perché si fa riferimento ad una serie di rotture avvenute nelle metriche tradizionali, perché si è rotto il respiro della vita, il respiro degli uomini. La metrica tradizionale non è un’invenzione a ta-volino, ma è una sorta di adesione della lingua a certe forme dell’andamento della lingua nazionale. I francesi hanno l’alessandrino, gli italiani hanno l’endecasillabo perché nella lingua italiana l’ende-casillabo coincide con un certo andamento del respiro. Noi parliamo molto spesso in endecasillabi senza accorgercene: molta pubblicità funziona perché è detta in endecasillabi, più o meno truccati, o in settenari più o meno tagliati, come il famoso “M’illumino d’immenso”. Questa forma tradizionale, in cui la lingua obbediva al proprio respiro, si è poi rotta, o meglio, non rotta in maniera casuale, ma rotta a seconda delle esigenze, delle crisi che appartenevano alle vicissitudini della storia e della lingua. Come diceva giustamente Gramsci, quando c’è una questione della lingua, come oggi in Italia, o nel Cinquecento, ci sono sempre altre questioni sotto, non è solo una questione della lingua, ma è anche una questione dell’anima, della società, ecc. Questo rompersi in dissonanze, o meglio, in qualcosa che non è più il suono di prima (perché noi a volte qualifichiamo una cosa come disso-nanza solo perché non è più l’armonia di prima).Mi colpiva il fatto che Stravinskij citato da Friedrich dice “la dissonanza di per sé non garantisce l’espressione di un disordine, così come la consonanza non garantisce di per sé l’espressione di una sicurezza”. Questa è un’osservazione secondo me molto interessante perché, come si vede benissimo anche nell’arte figurativa contemporanea, è possibile un manierismo fatto di assoluta consonanza, un ordine da risultare inquietante. È l’espressione di una grande disarmonia, non di un’assoluta sicurezza, ma di un assoluto vuoto, di un assoluto senso del nulla. Pensate, per esempio, al rapporto che c’è tra

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preziosismo e senso tragico dell’esistenza. D’Annunzio che si fa il museo: la perfetta consonanza, la perfetta armonia, e in realtà il grande senso del vuoto. Mi colpiva questa osservazione di Stravinskij, perché effettivamente questo problema di dissonanza rispetto all’espressione del caos, chiamiamola così per intenderci, e consonanza rispetto all’espressione della sicurezza, è un problema che nella poesia esiste. Esiste nella poesia come nella musica. Una lettura troppo meccanica di queste cose, secondo me produce anche tante incomprensioni. C’è nella rottura di certi ritmi (penso a certa poesia contemporanea dello stesso Eliot, o di certa poesia anglosassone, o americana contemporanea, o anche italiana) un ordinato senso del mondo. E tanta dissonanza, essendo voluta, è segno di una ideologia del mondo, di una presunzione ideologica del mondo, invece che di una gestazione di realtà.Più o meno degli stessi anni di Stravinskij, Clemente Rebora ha fatto uno studio su Leopardi e la musi-ca, intitolato “Per un Leopardi mal noto”. Tutti parlavano di Leopardi, e lui invece è andato a vedere, facendo un gesto abbastanza preciso, tutti i punti in cui Leopardi parla della musica. Leopardi è colui che insieme a Petrarca ha fissato tutta la grande musicalità della lingua italiana. “Che fai tu luna in ciel, dimmi che fai?”: siamo nel cuore della lirica italiana, della lirica vincente italiana, quella che ha “vinto” con Petrarca, invece che con Dante, e che ha fissato la lingua successiva. Non è possibile Ungaretti senza Leopardi, che non è possibile senza Petrarca.Rebora, straordinario per certe sue rotture della lingua o per certe armonie finali, delle sue ultime poesie d’occasione, che sono eccezionali per l’uso della musica, si fissa soprattutto su una cosa, si interroga su questo: “Che cos’è che ci colpisce della musica?”. Risponde che è l’armonia ma, citando Leopardi, dice che l’armonia ci colpisce, ci piace, ci corrisponde come tante altre cose ci possono corrispondere nel mondo. Essere colpiti da un’armonia è un’esperienza simile a tante altre esperienze, a tante altre piacevolezze che ci sono. Leopardi, dunque, che si interrogava sul perché la musica ha questo potere sull’animo umano, chiedendosi cos’è che ci colpisce, rispondeva che in realtà è proprio il suono. Non l’armonia, il suono. Le due cose non possono andare l’una senza l’altra, per essere musica non può esserci l’una senza l’altra, ma è il suono che ci colpisce. E fa questa straordinaria analogia con il problema dell’amore. Dice: “cos’è che ci colpisce di una donna bella?”. Ognuno poi potrebbe dire la sua: in genere si dice che sono gli occhi, certo, per essere galanti… Leopardi dice che quello che ci colpisce è l’amore. È l’amore, che per lui è come il suono. Questa è l’analogia che fa Leopardi. L’armonia, così come la donna bella che incontriamo, che ci colpisce per la strada, è ciò attraverso cui l’amore ci colpisce. Le due cose non si possono scindere, perché l’una senza l’altra non esiste. Non esiste l’amore che ci colpisce senza la presenza che ce lo porta. Ma il soggetto dell’azione che inizia a provocare in noi qualcosa è l’amore.Questa analogia tra suono e amore, e armonia e bellezza è una cosa per me interessantissima. Dire che il suono è come l’amore, cioè è quello che ci colpisce, vuol dire identificare un livello della realtà profondo, primario, fatto di questa cosa. Dante diceva che amore è ciò “che mi ditta dentro” ed è quello “che move il sole e le altre stelle”, cioè che fa la realtà.La conclusione la prendo da Montale. Come sapete, era un poeta che si occupava anche di musica, un poeta straordinariamente furbo, perché Montale dissimulava: lui si presentava dicendo “io non sarò il poeta dei bossi e degli acanti”, cioè non sarò il poeta delle grandi piante cantate da D’Annun-zio, per intenderci, o da Carducci, cioè da quella che era secondo lui la grande poesia retorica che l’aveva preceduto. Si presenta come l’antiretorico. In realtà, come accade quasi sempre a quelli che si presentano come antiretorici, diventano immediatamente retorici. Questo anche nel senso buono del termine, come colui che riporta certe musicalità, certi ritmi.Montale sostiene che la musica ha una natura asemantica, e quindi c’è una differenza evidente con

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la poesia. Soprattutto dice un’altra cosa che riprende dai “legami musaici” danteschi in un articolo in cui parlava delle opere scritte per musica (a proposito vi consiglio di leggere il bel libretto su Mozart che ha appena scritto Piero Buscaroli, dove si parla anche del problema della composizione delle opere di Mozart, e suggerisce alcuni studi che gli italianisti potrebbero fare). Montale in quell’articolo dice: “la musica è interna alla poesia, che non ne sopporta un’altra”.Qui torno al problema iniziale, anche per esperienza mia: cosa vuol dire per un poeta lavorare con un musicista? O cosa vuol dire per un poeta aver a che fare con la musica?Pensate per esempio all’opera del maggior poeta italiano del nostro tempo, che è Mario Luzi. L’edi-zione della sua poesia nei Meridiani Mondadori, curata da Stefano Verdino, viene conclusa dal critico con un’analogia in cui dice che probabilmente la poesia di Luzi non si può paragonare a un altro poeta del Novecento, perché è uno che ha assorbito tutti i materiali del Novecento per andare da un’altra parte. Luzi è uno che alla fine del Novecento ha usato la parola ‘letizia’, che era la stessa di san Francesco, assumendo tutta l’epoca della crisi novecentesca, ma è uno che usa in una poesia della fine della sua vita la parola ‘letizia’, cioè la parola iniziale della poesia italiana, nel “Cantico delle creature”. Ha un percorso strano. Verdino finisce il suo saggio dicendo “l’unico paragone pos-sibile è con Messiaen”, che è un musicista.Montale se la prende con coloro che, musicisti, utilizzano un testo poetico come puro serbatoio fonetico, giungendo a una ricomposizione del testo che è attenta a usare la poesia come pretesto, occasione di suggestioni o materiali vocali: “potete usare piuttosto testi dall’elenco telefonico”.Allora cosa vuol dire per un poeta aver a che fare con la musica se, come rilevato da Montale, e se volete anche da Dante, che la poesia, essendo fatta di “parole per legame musaico armonizzate”, ha la musica al proprio interno e non ne sopporta un’altra? Qui c’è Boccadoro che, se non sbaglio, ha lavorato con Valerio Magrelli che “non ne sopporta un’altra”, indica non tanto che non è possibile un lavoro con i musicisti, evidentemente, ma la poesia indica il fatto che la musica della poesia è un po’ tiranna. Il lavoro tra poesia e musica in maniera contemporanea è fatto cercando di obbedire alla musica interna alla poesia, cercando di lavorare su quella. Naturalmente non significa che il musicista si deve adeguare, evidentemente. Significa che ha come preoccupazione quella di non porre in cam-po un altro andamento, rispetto a quello dettato. Ciclisticamente si potrebbe dire che c’è uno che fa l’andatura, il Basso della situazione ed è l’andatura interna della poesia. Mi è capitato di vedere tanti lavori fatti tra poesia e musica in contemporanea, e dove il lavoro è serio ci si accorge che accade, nell’assoluta varietà delle possibilità, nell’assoluta varietà dei generi, nell’assoluta varietà degli accordi tra poeta e musicista. Ci si accorge che questo tratto rimane, perché nella poesia evidentemente ac-cade quello che citavo all’inizio: non sono le parole che hanno un senso, ma è il senso che ha delle parole. La musica non può mai essere nei confronti della poesia né una sorta di decorazione, né di aggiunta, né di doppio, ma diventa partecipe dello stesso problema di obbedienza, dello stesso problema di tensione al senso che sta parlando.

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Mentre Rondoni parlava, ho preso 3 o 4 frasi, ho contato e ho notato che erano tutte endecasillabi. Quindi Rondoni parlava per endecasillabi.A proposito della “voce” di Montale, mi è tornato in mente un libro molto bello, scritto da uno scrittore musulmano che adesso va di moda, che è Orhan Pamuk. Il suo libro più famoso e più bello si intitola

“Il mio nome è rosso”, che parla di un delitto; lo spunto è preso da due che fanno lo stesso lavoro: sono due miniaturisti e uno ammazza l’altro. I soggetti parlanti cambiano di capitolo in capitolo e ad un certo punto l’assassino dice che era tornato sul luogo del delitto per vedere se aveva lasciato delle tracce, e svolgeva uno strano paragone, detto anche in modo simpatico e divertente, tra il lavoro del miniaturista e l’assassinio. “Adesso arrivano qui gli Occidentali e dicono che l’opera d’arte deve far brillare la personalità, lo stile di quello che la fa. Ebbene, il mio maestro mi ha sempre insegnato il contrario, che è un po’ nel delitto: nel delitto perfetto la firma dell’assassino non c’è”. Poi si contrad-dice, perché qualche pagina dopo dice il contrario. Però è bella la chiusa, dove dice: “anche l’arte della miniatura è un po’ un’arte del genere: tutte le volte che c’è il segno della personalità, uno stile, vuol dire che c’è un errore”. E continua: “Tornando sul luogo del delitto ho visto che Allah aveva fatto nevicare, dunque ne deduco che anche Allah è d’accordo con me”.Questo mi colpisce perché evidentemente quello che dice scherzosamente e in maniera simpatica l’autore, che è anche un eccellente scrittore, riflette una posizione diversa dalla nostra. Per questo personaggio, che è anche un eccellente miniaturista e che non espone un punto di vista definitivo all’interno del romanzo, lo stile è un errore, cioè l’opera perfetta non deve lasciare assolutamente intendere chi l’ha fatta.È evidente che c’è un grande patrimonio di quello che noi chiamiamo l’Occidente, che poi ci siamo messi adesso a parlare dell’Occidente ed è la questione dell’io, l’io è l’idea della persona, perché al di là di tutte le differenze, al di là di tutti gli elementi di cui si compone la civiltà europea, a me sembra questo il grande ineliminabile contributo, che è quello che io mi ritrovo dentro quando lavoro.Voglio fare una testimonianza molto breve e molto circostanziata sul mio lavoro e quindi tento di rispondere unicamente alla questione del ritmo nel mio lavoro. Per come lo sto percependo adesso, quindi con tutte le approssimazioni e le debolezze che ci saranno, cerco di attenermi unicamente a quello che sto facendo e cerco di dirvelo in modo semplice. Io ho cinquanta anni, che è un’età da un certo punto di vista non molto diversa da quando ne avevo quarantanove, però è un po’ inevitabile, è un po’ fisiologico che intervengano dei pensieri che magari uno a quaranta anni non aveva, che non hanno nulla di tragico, ma ci sono. Per esempio, sto cominciando a pensare che la maggior parte dei miei libri l’ho già scritta, quindi i libri che mi rimangono da scrivere potrebbero non essere numerosi come quelli che ho già scritto. È un fatto. Se ho ben presente Betocchi, che era un poeta pieno di consapevolezza, cominciò a parlare dell’invecchiamento fin da “L’estate di San Martino”, e mi sembra che avesse quaranta anni o trentacinque e già diceva che stava invecchiando (ciò non gli impedì di essere un buon cacciatore di donne fino alla vecchiaia inoltrata).Era solo per fare un esempio di un tipo di pensieri che vengono da soli ad una certa età. Certe questioni fondamentali del proprio lavoro emergono in maniera nuova, come se ci fossero dei cerchi concentrici, magari a trenta anni uno vede un cerchio, poi quando ne ha quaranta comincia a vedere il primo cerchio inscritto in un altro cerchio, e si accorge che ci sono anche altre connessioni. Poi il cerchio si allarga.Questo avviene non solo con l’età, ma anche con il lavoro, anche se penso, e l’ho imparato, che il

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Luca Doninelli

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tempo stesso è un lavoro. La parola ritmo è legata: non parleremmo di tempo se il tempo non fosse un lavoro e questa è una cosa che Samuel Beckett dice molto spesso, parlando della laboriosità del tempo. In effetti è vero: pensiamo banalmente a uno scrittore che scrive un romanzo a vent’anni, poi sta in silenzio per altri vent’anni e ne scrive un altro a quaranta. Il romanzo che scrive a quaranta non è uguale a quello che ha scritto a venti. Allora c’è da intendere che il lavoro non è solo il tempo materialmente speso lì a lavorare, che è quello fondamentale. Anch’io voglio citare Igor Stravinskij, il quale sosteneva che se gli veniva un’idea musicale mentre si trovava per strada, cercava di di-menticarla, perché lui accettava solo le idee che gli venivano sul lavoro; la stessa cosa che succede a me quando scrivo un racconto e ad un certo punto c’è un nodo che faccio fatica a risolvere: mi è capitato qualche volta di svegliarmi, nel pieno della notte e di avere chiara la soluzione. Allora, vincendo la pigrizia del corpo, mi alzo, vado, accendo la luce, scrivo e mi faccio un appunto della soluzione del problema, e poi torno contento a letto. La mattina, quando mi sveglio, mi dico “adesso vado a sistemare il racconto che non riuscivo a sistemare”. Leggo l’appunto che ho scritto di notte e mi dico “ma cosa ho scritto?”. Il bello è che mi sembrava un momento di iperlucidità! È evidente che la parola ‘tempo’ acquista significato nel nesso che noi stabiliamo con la realtà, quindi la persona, l’io, è un’azione, un nesso che si stabilisce. Quando, ad un certo punto, ci si trova fuori da questo nesso, si ha l’impressione di avere una lucidità che però è finta, dato che non regge. Stravinskij aveva ragione a dire “amo le idee che mi vengono quando sono al pianoforte”, perché lui evidentemente componeva stando seduto al pianoforte. Non so se tutti fanno così.A me sembra che questa attitudine che Stravinskij stabilisce non è solo per indicare che bisogna stare lì a lavorare ma è perché questa attitudine diviene naturale, come un naturale rapporto con il tempo che viene, che ha l’artista. Parlando con un mio amico pittore, riguardo a un ragazzo che secondo me aveva molto talento, ma poi si è buttato via, io esprimevo il mio rammarico e lui osservò che quando uno ha veramente talento, uno dei primi segni del talento è il bisogno che uno ha di colti-varlo. Io non so se questo sia vero, però indica che c’è questo rapporto con il tempo, e con gli anni ci si accorge sempre di più che è così. Quindi non è tempo l’acribia con cui si sta lì al tavolino per delle ore, che è importante perché la macchina va tenuta calda, ma è un’intensità di libertà che poi attraversa tutto lo spettro dell’esistenza.Il tempo a cinquanta anni, per me, è il dover insistere su alcune cose, cioè ti accorgi di aver parlato di tante cose nella tua vita, anche nella tua vita di scrittore, e a poco a poco succede che alcune di queste cose, sempre di più, prendono il sopravvento, e capisci che sono quelle con cui devi fare i conti. Io non so sinceramente cosa c’entri questo con quell’altra esperienza (anzi, credo di saper-lo, ma faccio fatica a teorizzarlo) che è l’accorgersi sempre di più che la respirazione, quella che chiamiamo la voce, non è un fatto. Io sono in una situazione diversa rispetto ad un poeta, io sono un romanziere. Io non leggo mai ad alta voce, non partecipo ai reading perché non mi viene spon-taneo farlo. Però mi rendo conto che la respirazione è una respirazione della pagina, non è che hai bisogno di leggerla ad alta voce e percepire, osservare come il ritmo della pagina sia qualcosa che si lega in qualche modo alla tua respirazione naturale, come se fosse quella che detta i tempi ed il ritmo della pagina. Sono delle analogie, sono delle immagini, sono dei richiami che fanno capire come il ritmo è la concretezza della questione, è il punto dove il senso si costituisce. Come diceva Ungaretti “…non essendo per me mai schemi, non mi nascono dunque dopo trovate le parole, per partito preso, ma mi nascono assieme alle parole, muovendone naturalmente il senso”. Ecco, “muo-vendone naturalmente il senso”: io sono stato molto colpito da questo “naturalmente”, perché è così, mi accorgo che è quel lavoro di approfondimento normale per cui tu pensavi di poter dire centomila cose, poi invece queste cose sono diecimila, poi mille, poi cento, perché la vita di uno scrittore, di

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un artista è anche un po’ come un imbuto. Ad un certo punto ti accorgi che le questioni essenziali con cui devi fare i conti sono quelle. Ho un amico pittore che dice che nella sua vita ha dipinto tante cose, però con il passare del tempo si accorge che alberi, fusti d’albero, sassi nell’acqua, tetti di case sono le cose che evidentemente fanno parte dell’esperienza che io rumino e quindi sono le cose che ritornano sempre. Ieri Frasnedi, con una sua osservazione abbastanza geniale, diceva che anche il silenzio dell’operare letterario in realtà è un ruminare, quindi in realtà non è un’assenza di suono, ma è un suono. Questo per un romanziere è verissimo, perché la credibilità di un’immagine, di una storia, di un episodio non dipendono da un calcolo. Infatti io non sono molto d’accordo con quello che diceva ieri l’esponente della Scuola Holden, come se potesse esistere una tecnica della letteratura separata dal senso; non penso che un’impostazione così possa produrre altro che qualche operatore televisivo, qualche sceneggiatore della RAI, ma è difficile che venga fuori uno scrittore, un poeta, un musicista, a meno che non lo fossero già prima, e quindi non hanno da ringraziare più di tanto un’impostazione del genere.Quello che ho detto finora riporta solo alcuni punti che vogliono spiegare lo stato attuale del mio lavo-ro. C’è una necessità che si avverte, che avverto io adesso, e che è quella in cui il ritmo della pagina è chiamato, esiste fortemente nella misura in cui io riconosco oggettivamente nella loro realtà i punti di permanenza di durata; ci sono delle cose che durano di più, cose che durano di meno. Questo avviene dentro di me, lo vedo, ci sono dei punti sui quali devo ritornare, su altri no. Mi accorgo che l’esatta individuazione o meglio l’esatta obbedienza (l’individuazione è già un atto più intellettuale), che io intendo come ascolto, come sintonizzazione di queste durate, è quello che fa nascere una pagina di prosa dotata di ritmo, altrimenti la prosa diventa immediatamente il calcolo. Non è calcolo, e parlo anche da lettore: se leggo un romanzo tradotto non posso recuperare il ritmo originario della prosa, come nell’esempio che faceva Rondoni della parola ‘mare’ in francese, per dire delle cose che si perdono; però esistono delle cose che non si perdono. Quello che non si perde è quell’aspetto per cui l’artista compie un atto libero di resa di fronte a come il tempo, cioè la durata delle diverse cose, dei diversi elementi (affetti, immagini, ecc.) si ordinano e questo è un ordine di cui ti accorgi se è un ordine naturale oppure no. Per questo è difficile che un romanzo dica perché tu hai in testa fin dall’inizio quello che vuoi dire e vuoi portarlo e trascinarlo a dire questo. Succede anche ai grandi scrittori, perché è un errore un po’ inevitabile, è qualcosa contro cui bisogna sempre lottare; non è che uno quando ha finito un romanzo e gli è venuto bene pensa che poi gli verranno bene anche tutti gli altri, è una lotta che ricomincia continuamente. Però quando penso a una bella pagina letteraria, o mi ci imbatto, è sempre questo aspetto, questa percezione che ho di durate, che si ordinano in un ordine che è come dato naturalmente. Vi invito per esempio a leggere un romanzo che si intitola

“La ballata del caffè triste” di Carson McCullers, dove la storia raccontata è la storia meno credibile possibile; racconta una cosa così altamente improbabile, che ci si metterebbe a ridere. Tante volte un artista ardito, coraggioso fa delle cose che ci farebbero ridere, sarebbero risibili, se non avvenisse questo fatto particolare ed enorme, come ne “La ballata del caffè triste” per cui, quando lo leggiamo il fatto ci appare assolutamente persuasivo. Allora ci accorgiamo che non è il calcolo della credibilità della storia a fare letteratura, ma la credibilità vera è un’altra cosa: sono le durate e le permanenze che attraverso quella cosa che, riassumendola, ci sembrerebbe assurda, invece si attestano dentro la pagina. È il concreto: il senso non è mai l’ideologia, ma il concreto che si attesta sulla pagina.

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Io voglio raccontarvi due mie esperienze, una di tanti anni fa, che sembrerebbe avere a che fare con il ritmo, con l’espressione, con quel movimento di cui parlava Doninelli, e che ritengo fondamentale.Avevo ventisette anni, eravamo nel ’57; quella sera ero in uno stato di euforia particolare, de-terminata da certe cose, da certi rapporti. Camminavo lungo una strada, che si chiama via Casoretto, e mi ricordo che nell’attraversare la piazza proprio di fronte alla chiesa, pensavo a Dante. Allora ero abbastanza materialista, per esempio era un periodo in cui leggevo Feuerba-ch, e pensavo “ma se tutto è materia, nulla si muove. Come dice Lavoisier, nulla si crea, nulla si distrugge, e allora tutto ciò che è passato, che sembra passato, è qui, è presente, e così il futuro. Quindi c’è un’eternità entro cui viviamo, e che noi solo con la mente distinguiamo il tempo”. Ad un certo momento, arrivato davanti alla chiesa, ho girato un angolo (questa è una delle cose che non sono mai riuscito a capire: perché “girando un angolo”? Non lo so. Poi vedremo che ritorna con un altro angolo). Camminavo e improvvisamente ho sentito che il corpo correva, ma non correvo! Nello stesso tempo, interiormente, il tempo rallentava, ancora di più del mio andare lentamente, fino a fermarsi. Avevo quindi tre tempi: il tempo dell’orologio, quello che noi siamo abituati a considerare tempo, la mia naturale andatura, però dentro di me sentivo che il corpo correva troppo; e invece interiormente il tempo si fermava, e con il fermarsi del tempo sentii una grande gioia! Questo non è durato un attimo, ma è durato il tempo di correre, o meglio di camminare a quel modo lungo la chiesa, prendere il proseguimento di via Casoretto e arrivare all’angolo di via Teodosio. Qui è proprio la cosa che non riesco a capire di questa esperienza: tutto si è rovesciato, il corpo ha incominciato a rallentare e l’interiorità ha cominciato a correre. In realtà io ho cominciato a correre. Perché? Ho cominciato a correre davvero, e mi sembrava di star fermo, proprio come nei sogni, quando cercate di scappare e non riuscite, non vi muovete. Mi sembrava di essere immobile, in realtà correvo, e l’interiorità ha cominciato a correre a una velocità superiore al mio correre del corpo, al punto che questo correre era anche angoscia, ha cominciato a diventare angoscia e la gioia è scomparsa. Sono corso davanti al portone di casa mia, ho aperto la porta, ho visto mio padre su una barella. Mio padre con le braccia stese, gli occhi chiusi. Ho guardato, e ho guardato la lampada, perché avendo aperto la porta del portone, naturalmente l’aria ha mosso la lampada. Ho guardato il muro: c’era l’ombra della lampada che dondolava. Ho riguardato mio padre, ho chiuso gli occhi e sono passato in mezzo a questa immagine. Sono corso di sopra e ho bussato, ho sentito mio padre ridere, mi ricordo, mia madre che ciabattava per aprire la porta. Ho pensato che fosse tutto un’allucinazione, molto strana perché ero cosciente.In questo racconto ci sono due cose secondo me importanti: l’unità tra il fermarsi del tempo e la gioia, e invece il correre del tempo interiore e l’angoscia, mentre il corpo svolgeva il suo tempo, il suo compito. Questo credo che sia molto importante considerarlo nella sua unità, eternità, gioia, tempo veloce, angoscia interiore, interiorità.L’altra cosa che volevo raccontarvi, e poi riprendo i legami con la poesia, è la mia esperienza della poesia. Io non scrivevo poesia; quando ero giovane scrivevo racconti, romanzi, tentativi di romanzo. Sono arrivato molto tardi a scrivere poesie. La prima volta è stata una cosa molto com-plessa, è stata nel 1965. È stato in un mese, in settembre, che ho scritto centodiciannove poesie. Allora lavoravo alla Mondadori e avevo almeno dieci ore impiegate con il lavoro, tra andare

RITMI DI VERSI

Franco Loi

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e tornare a casa con il tram, e otto ore e mezzo di lavoro effettivo. Poi per cinque anni non ho più scritto poesie. Cinque anni dopo ho avuto un’altra esperienza della poesia. Era una decina di giorni, circa, che scrivevo. Mi alzavo al mattino alle sei, alle sette ero già lì che recitavo la poesia, ero solo, giravo per le stanze e recitavo la mia esperienza. Dico ‘recitavo’ perché pian-gevo, ridevo, correvo, mi fermavo, pregavo, bestemmiavo; a seconda delle esperienze dicevo delle cose. Dicevo delle cose, ma non ero io a dirle, perché quello che mi diceva era qualcosa dentro di me, qualcosa che non so definire. Non posso chiamarlo ‘io’, per il semplice fatto che c’era la mia mente che stava attenta e memorizzava. C’era un altro aspetto della mia mente che ricordava le mie memorie, le mie esperienze. C’era il fatto di essere attentissimo a tutto ciò che mi circondava: sentivo gli uccelli fuori, le voci dei bambini, vedevo i colori sulla finestra. Questo momento è durato quattordici ore, finivo la sera alle nove. È durato circa venti, venticinque giorni; però dal momento in cui è scattato questo strano mio modo di essere, ecco che quelli sono stati altri dieci, quindici giorni. Dalla fine di giugno fino a circa la fine di luglio. Dopodiché io scrive-vo, anzi, a volte mi interrompevo durante queste quattordici ore, e scrivevo quello che avevo me-morizzato. Non avevo più pensieri, nel senso del pensiero del verso, del pensiero dello scrivere; il pensiero memorizzava quello che usciva. Lì ho capito quando Dante dice “io mi sono uno. E quando l’amore mi soffia, l’amore mi muove, ascolto e prendo nota”. L’amore, perché? Perché certamente l’atto stesso di recitare questa poesia ti muove a rivedere le tue esperienze, è un atto d’amore. Quindi cosa muove dentro? Amore. L’amore muove, l’amore in sé è movimento, perché l’amore, come sappiamo, ci avvicina alle cose, ci avvicina agli uomini, all’altro, ci avvicina alla natura. Questo movimento ‘moveva’ dentro di me una voce, che mi diceva qualcosa. Certo, in precedenza, evidentemente, c’è un mestiere, perché c’è prima lo studio, la ricerca, la passione; avevo scritto in precedenza tanti romanzi, avevo un allenamento allo scrivere, così come avevo una cultura. Il problema è che dentro di me c’era anche un bagaglio tecnico, perché se non impariamo a scrivere non riusciamo poi a scrivere, e se non impariamo a parlare, non riusciamo neanche a parlare. Allora certamente c’era tutto questo, ma per me rimane sempre fondamentale questo rapporto con qualcosa che è dentro di noi e che nel rapporto con l’esterno muove e dice. Questo movimento è molto simile a quello che ho vissuto allora, quando avevo ventisette anni, perché anche allora qual era il mio io? Quello che interiormente sentiva la gioia e poi l’ango-scia? Quello che invece camminava? Quello che era legato al corpo? Quello che era legato alla mia interiorità? O quello della mente, che constatava che i tempi erano diversi?Allora, quando si scrive, certamente occorre rivedere; se fossimo perfetti, se avessimo la capaci-tà di abbandonarci veramente, forse non scriveremmo nemmeno. Io mi domando sempre se lo scrivere è una necessità ad un certo livello dell’evoluzione umana; l’arte è importante perché a quel livello invita gli altri a muoversi interiormente, a conoscersi, a capirsi, a non essere attratti dall’esterno, a non essere perduti nel rapporto con l’esterno. L’esterno è importante, ci viviamo, è il corpo. Cristo si è incarnato, ma dentro di sé era Dio. Quindi dentro di sé viveva l’eternità men-tre viveva il tempo. Allora l’essere in rapporto: quando si parla di stile, lo stile nasce dal rapporto personale, il rapporto del corpo, il rapporto dei sensi, quindi anche del pensiero, il rapporto dei sentimenti, del sentire con la mente, il rapporto infine di tutto l’essere con quella parola, e con l’esterno che ci dà l’impulso. Naturalmente siamo legati alla carne, quindi guardiamo una donna e la sentiamo. La bellezza non è una cosa formale: la donna può essere anche brutta e tu la vedi bella. C’è quel famoso detto popolare “non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace”. È interessante perché è vero che la bellezza, come ha già detto Socrate, la verità e la bontà, l’amore sono una cosa sola. Se consideriamo la bellezza come una forma, nascono i canoni,

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le regole; c’è la scuola che insegna, a seconda delle modalità, un certo modo di ingabbiare la forma. Doninelli ha osservato che quando Rondoni parlava, lo faceva per endecasillabi. Questo è interessante: lui non ne è cosciente, però il suo ritmo interiore gli detta il modo di parlare, lui è attraverso l’endecasillabo, attraverso undici sillabe, che è la durata del verso, non il ritmo. Il ritmo è un’altra cosa: il ritmo è nell’unità tra l’essere e l’universo. C’è un filosofo austriaco, Klages (è stato ripreso anche da Meschonnic, questo filosofo poeta francese dei nostri giorni) che dice che il ritmo è oggettivo. Io dico che è oggettivo e soggettivo, in poesia. È l’unità tra il soggetto e l’oggettività del ritmo, del ritmo universale; questo non è dicibile. Dice Klages “passavo sempre davanti alla foresta, andavo a scuola. Passavo al mattino e passavo alla sera, ma non l’avevo mai vista! Una sera l’ho vista, e quando l’ho vista mi sono sentito uno con la foresta, e ho sentito il ritmo del mondo”. Ne parla anche Dante di questo, del ritmo del mondo. Noi in generale ci estraniamo dal ritmo del mondo, come ci estraniamo dall’eternità. L’arte, tutta l’arte, la poesia, la musica, la pittura, consistono proprio in un richiamo: è un continuo richiamo a ciò che è la vita eterna, a ciò che non è caduco e che è dentro di noi, perché noi abbiamo dentro la scintilla divina, siamo noi che la dimentichiamo. Allora la poesia non è solo un fatto letterario, la poesia è qualcosa che aiuta l’uomo a ritrovare la propria interiorità, a ritrovare il rapporto con il proprio spirito. Questa è la grande importanza di tutte le arti. Quando sentiamo una musica, non è che capiamo cosa voglia dire il musicista (io poi non ho nessuna pratica di ordine tecnico-musicale), però ci muove dentro, e non sappiamo neanche cosa muove dentro di noi, però ci scuote tutto, ci muoviamo nei pensieri, nel sentimento, nelle emozioni più profonde, e non sappiamo perché. Dobbiamo ascoltare molte volte quella musica per capire, per capire di più.La poesia, l’arte in generale, fa questo effetto sugli uomini. I canoni ci sono sempre stati. Petrarca è recente nella letteratura, perché è più facile imitare Petrarca, sembra più facile, sennò sarebbe-ro tutti Petrarca. Dante invece è molto più complesso, è più difficile. In Dante ci sono tutti i tempi, tra l’altro: in Dante c’è il Classico, c’è il Neoclassico, c’è l’Espressionismo, c’è l’Avanguardia, c’è tutto; c’è l’assonanza e c’è la dissonanza. Ci sono le cose che sembrano non avere un senso apparente, e l’hanno, interno. Quando dice “chi sei tu?” e lui dice “io fui da Montefeltro, io sono buon conte”, sembra una dichiarazione dei redditi, una carta di identità “io fui da Montefeltro, io sono buon conte…”, ma se noi lo ascoltiamo, allora cambia: quello che sentiamo è diverso dalla dichiarazione, sentiamo dei suoni che ci portano in un’altra atmosfera, ci suscitano altre emozioni.In Dante c’è dentro tanto, c’è dentro tutto. Dante è stato alla fine di un’epoca e all’inizio di un’altra epoca, e non è un caso: finisce il Medioevo poco prima e inizia quello che poi verrà sancito come Rinascimento, ma il sancirlo come Rinascimento è dovuto ancora ad un canone, quello politico, storico. In realtà nasce lì. È la strada che oggi si è compiuta, è finita. Quello che sta avvenendo non è la fine di un breve periodo, di un evo, questa è la fine di una civiltà, è la fine di un arco molto più lungo, che incomincia anche prima di Dante. Alla caduta di Roma è susseguita un’epoca di razionalismo: i canoni, la storia letteraria, gli insegnamenti delle scuole… tutto questo non conta. Oggi uno deve affrontare se stesso e affrontare il proprio fare. Poesia vuol dire fare. Al di là di questo fare, c’è un fare più alto, che è quello della santità, dell’uomo che si fa parola di Dio. Questo credo sia importante per capire cos’è un verso, cos’è il rapporto dell’uomo con la versificazione.Ma che avventura sarebbe quella in cui uso un canone e lo applico? Non conosco il ca-none: lo devo trovare dentro di me. Che rapporto ho io con il mondo? Che rapporto ho con me stesso? È lì che comincia e comincia ad aprirsi l’arte. Altrimenti va bene qualsiasi

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altra cosa, va bene un saggio, va bene la filosofia, va bene la scienza. Ma l’arte è un’al-tra cosa. L’arte ha la grande importanza di porsi non nella ragione, attenzione, non nella razionalità, perché la ragione è un’altra cosa. L’arte non si pone nella razionalità, l’arte si pone nel rapporto dell’uomo con l’esterno, la sua interiorità in raffronto con l’esterno. Da questo rapporto nasce il dire, nasce il movimento prima e nasce il dire in rapporto nel momento del movimento.

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Dopo le interessantissime provocazioni, direi addirittura lezioni, che ci hanno fatto i colleghi poeti e scrittori, è ora il momento di passare la parola ai musicisti. Quando per la prima volta Pier Paolo Bellini mi parlò di questa idea di convegno, di corso, di laboratorio, l’unica reazione che ebbi fu quella di dire “Ci vorrebbero cose utili”. Ho pensato che avremmo dovuto invitare persone che non avessero tanto l’interesse a coltivare un proprio piccolo orticello, un proprio pro-getto in corso, ma piuttosto avessero la libertà, la generosità di parlare tra colleghi, coetanei o più giovani, di quello che stanno facendo, e che fossero in sé esemplificativi dello stato dell’arte - riguardo la composizione da un lato, la scrittura nell’altro - e soprattutto dall’incontro fra le due esperienze. Più si va avanti nella carriera musicale o di scrittura, più diventa inevitabile, presto o tardi, che i due campi, movimenti si incontrino o si scontrino. Che si creino dei problemi e delle possibili soluzioni. Allora non sono riuscito a pensare a nessuno meglio delle tre persone che abbiamo qui oggi con noi, che ho la fortuna di avere anche come amici, come personale punto di riferimento per il confronto, per la soluzione di tanti problemi artistici, per l’ammirazione che molto spesso sia il loro lavoro che il loro pensiero hanno suscitato nello scambio d’appren-dimento di questi anni, ormai decenni, d’amicizia, e che seguo molto da vicino, anche se ormai hanno tutti e tre preso il volo ad un livello internazionale molto importante, tanto da essere tre tra le persone che più nel mondo identificano la musica italiana oggi.Tre compositori, per riprendere lo studio sociologico di Bellini di ieri, che amano l’arte e non il fare l’artista. Sono persone golose, ghiotte di musica, a tutti i livelli, e quindi capaci di sfondare trasversalmente certe barriere di scuole, parrocchie, appartenenze di generi, di stili e cose di questo tipo. Tutti e tre sanno muoversi nell’elettronica con gli strumenti, con le voci, con gli attori, con gli scrittori, con il video, con la multimedialità, con il teatro. Boccadoro ha scritto recentemen-te un libro importantissimo, vive all’ascolto di musica jazz, mentre sia Michele Tadini che Luca Francesconi non hanno mai disdegnato estendere il loro ascolto alla musica etnica, pop, jazz, o quant’altro. Sono musicisti a tutto tondo, interessati a tutto ciò che suona interessante.Ieri abbiamo avuto le istituzioni e gli storici che ci facevano una panoramica abbastanza gene-rale. Oggi è il turno, come avete visto già prima, degli artisti, degli artigiani, cioè di chi le cose le fa, prova a mettersi in gioco, prova a buttarsi nella mischia e dice “io la farei così”, e nasce l’opera. Quindi, il contributo che chiedo a loro non è tanto una summa sulla situazione dello stato dell’arte o su quello che dovrebbe essere la realtà e che purtroppo non è (come spesso succede ai convegni, sul fatto che “si dovrebbe, ma non si riesce, le istituzioni sono carenti su questo e quello, ecc.”) ma che potessero raccontarci, magari come in un simposio scientifico, dei case studies, dei casi di loro incontro con il testo e delle soluzioni che hanno sperimentato con più o meno successo, o che hanno visto sperimentare dai loro colleghi in altre situazioni. In altre parole, chi oggi fa le cose ci racconti come le fa.Chiederei di parlare prima a Carlo Boccadoro, che non solo è uno dei più noti compositori italiani, ma è anche uno dei fondatori di “Sentieri Selvaggi”, un’esperienza che è più che un ensemble, è una stagione, è un piccolo movimento di ricerca, soprattutto attraverso fonti non ac-cademiche, non ufficiali, oserei dire, della musica recente europea, degli Stati Uniti e non solo. Carlo Boccadoro è anche percussionista, tastierista e un grande divulgatore. L’avremo sentito tutti alla radio, è anche una persona che ama provocare quando parla, quando si pone come punto di riferimento di una nuova trasmissione. È uno che ha portato la musica classica dentro la radio

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popolare, che ha portato la musica etnica, il jazz, dentro le trasmissioni di musica classica di RAI Radio 3, per esempio, creando punti di scontro e provocazioni molto interessanti che hanno poi creato il palinsesto da lui in poi. A lui chiedo quindi di cominciare con la sua capacità divulga-tiva, frutto della propria esperienza.

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Visto che prima si stava parlando del rapporto tra musica e poesia, volevo partire da un’affermazione dell’intervento di Davide Rondoni. Ad un certo punto lui diceva che una delle cose che gli sembra della poesia e della musica contemporanea, è che la musica segua il ritmo, si muova con il ritmo interno della poesia, mentre invece, a parer mio, una delle caratteristiche principali del Novecento, ma anche da prima, è esattamente il contrario. Se parliamo del periodo di Monteverdi, con la musica che lui definiva “ancella della poesia”, questo seguire i ritmi interni del verso, era proprio una scelta estetica definita. Ma nel Novecento ci sono queste tre fasi: di base c’è un poeta che scrive un testo adatto ad essere messo in musica, e ovviamente ha tutti i suoi ritmi, le sue strutture, i suoi accenti, le sue consonanze. Il compositore, in genere, scrive una musica che contraddice questo, che spezza il ritmo, che lo cambia, che non rispetta il ritmo del testo, e la terza fase è il litigio tra il poeta ed il compositore, con in certi casi la cancellazione dei rapporti personali. È successo ad esempio così tra Gide e Stravinskij, quando hanno scritto “Persephone”: quando Gide sentì l’anteprima al pianoforte nel salotto della Princesse de Polignac, poi non volle sentire neanche una delle recite di “Persephone”. È successo, abbastanza recentemente, tra Berio e Calvino durante la composizione delle opere di Berio, che ha portato addirittura a un’interruzione dei rapporti personali, ed è successo anche con figure assai ben più semplici di queste, io stesso ho assistito ad uno scontro piuttosto virulento tra un autore di testi e un compositore. Spesso l’autore del testo o della poesia aveva già in mente un proprio ritmo, pensava che la musica dovesse solo seguire il suo testo, invece si è sentito massacrato dal fatto che il compositore aveva tutt’altri ritmi, per non parlare dei tagli dei versi (altra annosa que-stione). Quando uno deve scrivere un’opera, indipendentemente dal fatto di dover tagliare o meno, la musica ha tutt’altri ritmi, non segue pedissequamente il testo. Quando lo fa, o almeno cerca di fare in modo che l’unica cosa che succeda sia la comprensibilità del testo, i risultati sono molto simili a quelli dell’Ape Maia, o delle canzoni per bambini, o di certi dischi di cantautori, o di certi dischi che sono di una banalità desolante, quando la musica non entra nel rapporto dialettico, o anche conflittuale, con il testo. Spesso ne contraddice le istanze, gli va contro apparentemente, ma in realtà le trasforma in qualcos’altro. Ci fu una polemica, per esempio, durante il periodo dell’Avanguardia di Darmstadt fra Luigi Nono e Stockhausen, ne “Il Canto Sospeso”, perché Stokchausen diceva che con la frammentazione totale che Nono dava del testo, mettendo delle sillabe ad alcuni piuttosto che ad altri, la comprensibilità del testo veniva annullata, rendeva il testo pressoché inutile, lo trasformava in un puro oggetto fonico e la comprensibilità spariva. Naturalmente Nono gli rispose citando l’esempio della “Messa in Si minore” di Bach, facendo capire che non era vero.Questo è un annoso problema, come il musicista tratta il testo, però spesso gli esempi più interessanti, dal “Canto Sospeso” alla “Sequenza per voce” di Berio, a tanti altri, sono quelli in cui il compositore sembra volersi appropriare del testo per renderlo suono, per renderlo materia. Sono stato a lungo identificato, non me ne vergogno affatto, con l’estetica postmoderna e penso, a differenza dei miei amici, che sia stata un’esperienza artisticamente valida. Quando a metà degli anni ’80 alcuni com-positori, appartenenti a quest’area, decisero di scrivere una serie di opere liriche in cui il rapporto con la musica tornava ad essere di assoluta sudditanza, rifacendosi addirittura al mondo del Verismo o del primo Verdi io, per quanto potessi essere solidale con un movimento che andava contro tutta una serie di cose che non mi piacevano dell’Avanguardia, ho capito da subito che è stata un’idea delirante, perché i risultati non sono stati meglio dell’Ape Maia, come originalità di risultato. È vero, in queste opere si capivano tutte le parole, ma la musica ne veniva fuori assolutamente mortificata,

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dovendo seguire pedissequamente ogni accento, ogni cosa; l’importante era che si capisse il testo, e chiaramente questo ha portato a risultati musicali molto banali, molto ‘qualunque’. Sono convinto che uno dei modi possibili, forse quello che per adesso possa dare dei risultati più fecondi, i più ricchi di implicazioni, sia proprio quello di un incontro-scontro tra parole e suono. La cosa non riguarda diret-tamente la mia personale esperienza di compositore, perché io ho scritto un numero di opere con la voce relativamente piccolo, se non quasi minimo; il 90% delle mie opere sono strumentali. Ho scritto però delle opere molto brevi di teatro musicale e devo dire che mi sono trovato davanti lo stesso pro-blema che si trovavano davanti tutti, cioè come scrivere per la voce non volendo, da un lato, utilizzare dei modelli che si rifacessero al melodramma, ma dall’altro non mi interessava nemmeno il tipo di scrittura vocale che derivava dal mondo dell’Avanguardia, la cosiddetta ‘scrittura vocale a zig-zag’, in cui si evita accuratamente qualsiasi tipo di progressione melodica chiara, o per un moto continuo, e la voce continua, appunto, a saltare su e giù seguendo spesso delle serie di note. È un tipo di voca-lità immediatamente identificabile degli autori che appartengono al mondo dell’Avanguardia. Per un certo periodo, in Italia, prima che arrivasse la generazione dei compositori come Luca Francesconi e altri (mi ricordo negli anni ’70, quando ascoltavo le stagioni di musica del nostro tempo), la dicotomia era totale: da un lato c’erano quelli che avevano un approccio direi reazionario alla scrittura vocale, come Menotti, ecc., che erano gli scampoli, i cascami dell’ultimo puccinismo; dall’altro lato, però, la scrittura vocale di tante opere anche interessantissime dal punto di vista dello sfondo strumentale, era questo consueto zig-zag. Non se ne usciva fuori, non si riusciva proprio ad affrancarsi da questo mo-dello, che cercava anche di recuperare qualcosa dall’Espressionismo o dalla scuola della Decafonia, però non si usciva da lì: invariabilmente, quando cominciavano a cantare il risultato era quello.Anche io, come tutti, mi sono trovato davanti questo problema. Ci sono stati casi in cui si è provato ad attingere a una vocalità diversa, per esempio dalla musica popolare, però gli stessi autori che l’hanno fatto avevano una specie di doppia personalità. Prendiamo ad esempio un compositore che io ammiro enormemente, come Luciano Berio: nelle sue opere, come ne “La vera storia”, in cui cantava Milva, ci sono delle parti che erano chiaramente ispirate alla musica popolare, che utilizza-vano una vocalità non impostata di derivazione folk; tuttavia, il modello non veniva trasformato, ma sovrapposto, su un’orchestra molto complessa, nel suo stile, sembrava una canzone popolare, non si trattava di una contaminazione tra il linguaggio di Berio e quello della musica popolare. Poi, però, altri cantanti, anche quelli che cantavano nel suo stile, avevano spesso questa vocalità zigzagante che, per esempio, evitava qualsiasi tipo di ritorno di figura riconoscibile. Si muovevano ancora, a differenza della parte orchestrale, secondo dei dettami che mi sembravano più vecchi. Secondo me, questo è il problema principale delle sue opere: mentre la parte orchestrale è sempre piena di inventiva, di trovate, la parte vocale, invece, spesso non riesce ad affrancarsi da questo modello. Per quanto mi riguarda, di tutti i lavori che ho scritto per il teatro musicale, l’unico che ancora oggi mi sembra interessante, in qualche modo, è questa micro-opera di quindici minuti, che narra dell’incontro tra Marilyn Monroe e Igor Stravinskij. È un’opera assolutamente postmoderna, addirittura fatta tutta con un linguaggio ipercitazionista, con miliardi di pezzi di musica altrui messi dentro un po’ a collage, che utilizza una vocalità che non ha nulla a che fare con la vocalità classica, i cantanti potrebbero essere due cantanti di jazz o di musical, con una vocalità che non ha nulla a che fare con la tradizio-ne classica europea o quella da concerto.Continuare ad ignorare il problema, cioè scrivendo in un altro modo, ma non cercando di affrontare il problema vero della vocalità in un ambito classico, ha fatto sì che il risultato funzionasse dal punto di vista teatrale, però è stato un escamotage. Finita quell’esperienza mi sono reso conto che non po-tevo continuare a scrivere in questo modo anche in altri ambiti. Invece, quando ho scritto altre opere

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per il teatro musicale (tranne le opere per bambini, dove è previsto un linguaggio più spurio, in cui si può mischiare il mondo della canzone) in realtà sono cascato anch’io nella stessa trappola, perché da un lato c’erano delle parti liriche, che però a risentirle oggi mi sembrano brutte imitazioni di cose liriche, e dall’altro c’erano le parti moderne. Voglio dire che non sono riuscito in questi lavori, come ero riuscito nel primo, almeno ad aggirare l’ostacolo.Un esempio che mi viene in mente di compositore per lo meno conscio del problema, ma che l’ha fatto in modo ironico, è Niccolò Castiglioni, che nella sua opera “Oberon” aveva classificato i cattivi come quelli che cantavano in modo atonale, e l’eroe invece che cantava in Fa maggiore. Chiara-mente era una provocazione piuttosto paradossale che lui stesso non ha ripetuto. Io il problema come autore me lo pongo ancora, perché in realtà avendo scritto e avendo una predilezione per la musica strumentale, non ho ancora capito bene se mi interessa trovare un nuovo modo di avere a che fare con la voce, perché mi interessa molto di più trovare le combinazioni con il ritmo, le combinazioni strumentali, di timbri, ecc. Ogni volta che devo fare qualcosa per il teatro musicale o scrivere un pez-zo di coro ed orchestra, tutto il peso di questa storia che questi strumenti vocali si portano dietro mi schiaccia un po’. Proprio Berio diceva che la voce non è mai neutra, cioè ogni volta che qualcuno canta si porta dietro di sé, come una calamita, decine e centinaia di significati che vanno al di là di quello che sta cantando. La voce è un magnete che ha dentro di sé infiniti archetipi e significati, che vanno al di là di quello che si sta cantando. Anche un violino in realtà se la porta dietro, ma forse è una questione di sensibilità personale, perché questo mi spaventa meno. Invece avere a che fare con una voce, dover affrontare questioni di lirismo vocale e cercare di evitare i luoghi comuni, mi riesce molto più difficile.

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C’è un altro aspetto però nella tua attività, che è forse unico in Italia, perchè sei uno dei pochissimi compositori, se non forse l’unico, che ha scritto anche dei libri. Quindi tu non sei solo compositore, ma anche scrittore. Trovi, al di là del rapporto come scrittore con un testo altrui, una differenza di procedura o di collegamenti nel tuo pensiero, nell’agire?

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L’unico motivo per cui scrivo libri è tentare di divulgare, di far capire in modo chiaro a persone che normalmente non ascoltano certi tipi di musica, di rendere loro più facile la chiave d’accesso a questi tipi di musica. Ho fatto un libro in cui intervistavo compositori contemporanei, adesso ne ho fatto uno sul jazz per chi non sa niente di jazz. I miei libri non si rivolgono ai musicisti o a chi sa già qualcosa, ma sono libri per chi vuole avvicinarsi ad un certo mondo e sono mondi complessi; quindi sono dei libri puramente di introduzione a un genere.L’unica cosa che riesco a trovare in comune fra questo e la musica che scrivo, è la volontà di chia-rezza, cioè la volontà di evitare fumisterie. Sia nei libri che nella musica che scrivo, cerco di avere il pensiero più diretto e più chiaro possibile. Però qui il discorso è un altro: tutti noi, della generazione che nasce dopo le avanguardie, ci siamo trovati davanti questo problema molto grosso, che è quello della voce; non a caso, anche grandi autori che hanno risolto brillantemente problemi di linguaggio strumentale, non li hanno risolti sul piano vocale. Prendiamo un genio assoluto del Novecento come Gyorgy Ligeti: la sua musica, i suoi studi per pianoforte sono un esempio di come si possa rinnovare un genere, come quello dello studio brillante da concerto, e come si possono inglobare esperienze diversissime, dalla musica africana al minimalismo, ecc., ma in un linguaggio personale. Vale a dire che si possono sentire tutte queste influenze, ma il risultato è stato digerito da Ligeti in un modo asso-lutamente personale e nuovo. Quando ascolto i suoi pezzi come “Aventure” o “Nouvelle Aventure”, la vocalità mi sembra molto meno interessante, la parte strumentale mi piace molto, mentre la parte vocale mi sembra infinitamente meno interessante. E questo vale per tantissimi altri autori.Il problema ad un certo punto era “Che fare?”. Le avanguardie avevano portato anche un tipo di vocalità estrema verso un punto di non ritorno; c’erano dei pezzi vocali che rendevano la voce quasi come uno strumento, quindi non si ponevano più quasi come pezzi vocali a sé. Era una strada che, senz’altro, più di tanto non si poteva percorrere. Dall’altro lato c’era il ritorno alla melodia pucciniana, al verismo, all’Opera italiana. C’è chi lo fa ancora oggi, ma francamente è meglio ascoltare un pezzo di Bocelli. Quindi queste due strade per anni sono state le uniche.Mi ricordo tanti anni fa un pezzo di Luca Francesconi che aveva un quintetto di percussionisti del Ghana, un ‘ensemble jazz’, un ensemble strumentale, perché si cominciava a guardare da altre parti. Ad esempio, lui ha lavorato con vocalist che vengono da altri mondi, per cercare vocalità diverse, così come ha fatto anche un compositore come Louis Andriessen in Olanda. È un esperimento interes-sante: si vede la volontà di rivolgersi ad altri mondi, forse perché si vede che il mondo della vocalità impostata, della vocalità dell’opera non è più in grado di fornire stimoli ai compositori (almeno a me senz’altro, ma penso anche a molti altri).Non so se il problema sia stato poi risolto, anzi credo che sia un problema ancora forte, ancora aperto, però nella musica strumentale il modo di riannodare i fili dopo le avanguardie, anche se in maniera totalmente diversa, è stato possibile, questo è sicuro. Oggi non c’è più un linguaggio con-diviso come c’era nel Settecento, ma non c’è più neanche il linguaggio condiviso che c‘è stato nella seconda metà del Novecento, dove si stava o dalla parte della seconda Scuola di Vienna o dalla parte di Stravinskij, con qualche eccezione tipo Bartok, però di base i due filoni erano quelli. Oggi i filoni non ci sono più, oggi il discorso è esploso completamente. Questo ha portato dagli anni ’80 ad adesso a un grande caos, dove se ne sono viste di tutti i colori; tuttavia, attraverso questo grande magma si sono tirati dei fili, ci sono stati dei modi di creare delle nuove estetiche. Anche se ogni com-positore oggi fa storia a sé, all’interno di questo universo senza coordinate, comunque riesce a trovare

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una sua strada, tanto è vero che siamo perfettamente in grado di capire quando stiamo ascoltando un pezzo di Luca Francesconi, piuttosto che un pezzo di un altro autore. Quindi, dal punto di vista del lin-guaggio strumentale, o anche orchestrale, ad esempio (anche l’orchestra è stata un grosso problema, però oggi si scrive molta musica nuova per orchestra che non suona come la musica ottocentesca) mi sembra che in parte delle opere teatrali e della musica vocale, questo problema sia ancora presente, forse perché la voce si porta dietro tutte le storie precedenti. Quando si sente un cantante che canta con l’impostazione lirica, alla fine qualche rimando a quel mondo c’è sempre, così come quando si sente qualche cantante che canta con un’impostazione folk c’è un immediato rimando a quel mondo. È più difficile integrare, in senso serio, non come viene definita la contaminazione oggi, che in realtà è una semplice sovrapposizione: quando andiamo a sentire “Pavarotti and friends” e vediamo Pava-rotti che canta con Jovanotti, in realtà non c’è una contaminazione tra questi due mondi, c’è uno che si mette sopra l’altro e restano assolutamente diversi, non sono integrati.C’è melodia e melodia, c’è cantabile e cantabile: io posso fare benissimo una linea cantabile e non rifarmi al Verismo ottocentesco. Miles Davis ha suonato fior di linee cantabili che non hanno niente a che vedere con la linea cantabile dell’Opera. Non c’è il problema del conflitto tonale-atonale, melo-dico-non melodico, il discorso è un po’ diverso: forse il problema è che la voce ha tutti questi contenuti enormi che si porta dietro e che non avrebbe senso che si scrollasse di dosso. Mi chiedo se a volte non possa rappresentare un ostacolo nel fatto che, a differenza della parte degli strumenti, che pure si portano dietro la loro storia, sia meno suscettibile, tanto è vero che molti hanno cominciato a usarla in modo diverso, trattandola elettronicamente, distorcendola, cioè cercando di renderla diversa da quella che è, trasformandola in qualcos’altro.

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Presento brevemente Luca Francesconi, che è, come dicevo prima, un assodato grande della musica italiana. Dopo aver composto numerosissimi lavori per il teatro, sia in Italia che all’estero, utilizzando tutte le lingue e i linguaggi, opere buffe o serie, radio-film, opere per la radio, premi importanti vinti in tutto il mondo, ha preso delle iniziative che tendessero a rischiare dei passi verso la formazione di giovani musicisti; tra queste, la più evidente e duratura è sicuramente la fondazione di Agon oltre al Centro Studi Armando Gentilucci e al Centro Informatica Musica a Milano, in cui Michele Tadini è il direttore di produzione. Oltre a questi aspetti, svolge anche attività di direttore d’orchestra, mentre ha abbandonato l’attività di docenza nei Conservatori (in Italia è stato tra i primi a farlo), proprio per accogliere con maggiore libertà i numerosi inviti che gli venivano fatti dall’estero.

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Luca Francesconi

Il canto è uno stato di alterazione. Ho sempre trovato abbastanza buffo che in un teatro arrivi un tizio correndo sul palcoscenico e cominci a cantare a squarciagola invece che parlare: è uno stato di alterazione, è una temperatura emotiva esasperata che non è niente di normale, è assolutamente artificioso. Del resto Cantor stesso, quando fece le sue lezioni milanesi, trovò la temperatura espressi-va un po’ bassa negli studenti, e allora inscenò una serie di simulazioni di scontri fra energie (così le chiamava lui o le chiamo io, non mi ricordo se l’ho letto o me lo invento), per alzare la temperatura. Il termometro era un po’ basso e per arrivare a uno stato di fusione della materia, ad uno stato di alterazione sufficiente per porsi in un rapporto dinamico con le cose, con il mondo, che vuol dire metterci le mani dentro e modificarlo, bisognava alzare la temperatura.La voce è difficile da usare perché ce la portiamo addosso. Non puoi infilarla nella custodia di un violino quando hai finito il concerto, vai a casa, metti l’ugola in una custodia… no, è la stessa voce che usi quando vai dal salumiere a comprare un etto di prosciutto, non credo che con il violino riusciresti a convincere o a spiegare al salumiere di darti un etto di prosciutto. Questo cambia molto le cose, perché c’è la potenza significante di un corpo che vibra di fronte a te; non so se avete mai provato a stare ad un metro o due di distanza da un cantante che canta a piena voce: è un atto di violenza, praticamente, vieni investito da una potenza, l’aria che si sposta, che ti viene addosso, rimani abbastanza traumatizzato. È una cosa molto forte.Questo stato di alterazione è valido in un certo senso per il canto come per altre forme d’arte. La poesia, in particolare, ha avuto dei momenti di grande crisi rispetto alla musica, soprattutto nel Settecento e Ottocento, a cominciare da Valery, a Baudelaire, fino ad arrivare a Mallarmé, che forse ancora più degli altri si era posto alla ricerca di un allontanamento dalle “parole della tribù”, verso un suono puro. Lo stesso accadde per la nascita dell’opera. Ho fatto questa domanda a Ronconi: “Perché è nata l’opera, secondo te?” e mi ha risposto: “Perché in quel periodo il teatro ha perso la poesia, è diventato più prosa”. Ha perso, appunto, quello stato di alterazione espres-siva che gli derivava dall’uso dei versi e l’ha sostituito gradatamente con l’intervento della musica, prima solo come accompagnamento, poi mano a mano sempre di più. Contemporaneamente dall’altra parte nella musica se “prima le parole erano ancelle della musica” – tanto che ci fu una riforma in contrasto con la polifonia che vanificava la comprensione del testo – si arrivò al pas-saggio al Barocco, in cui attraverso le polemiche della Camerata dei Bardi, la comprensione del testo, e così anche la nascita dell’opera, diventava una componente fondamentale, per ricadere subito poi nel Belcantismo in cui il testo scompariva di nuovo.Io ho scritto tanto per la voce, in tutti i modi possibili, a partire dalla parola poetica, in cui far esplo-dere il contenuto, che si potrebbe chiamare ‘la poesia del senso’, la poeticità del senso. Credo che tutta questa discussione verta su un problema di semanticità, cioè la poesia ha sempre a che fare con questa parola quotidiana da cui si deve allontanare o ricreare e ha sempre invidiato, tra mille virgolette, la musica, credendola pura o immaginandola tale, utilizzando una materia che si rifà alle energie pure del mondo. I problemi di rapporto che ci sono stati (limitiamoci al Novecento) nascono da questo fatto: la musica ha rotto una determinata continuità con delle strutture linguistiche che sono state elaborate e costruite, una grande parabola che è durata quattro secoli; in particolare dopo la Secon-da Guerra mondiale, hanno tentato di ricostruire la struttura linguistica a partire da dati percettivi più puri, cioè appellandosi in un certo senso a un’assenza di codice, come se fosse solo la parole senza la langue, cioè una combinazione di energie pure senza un codice di riferimento, ma che devono sostanziarsi e

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rendersi evidenti momento per momento, in questo senso distruggendo anche l’idea di tempo lineare.Ora capite che una forma di espressione, qualunque essa sia, che si mette in gioco in questo modo (lo stesso è successo per altre arti ovviamente) dubiti addirittura dei suoi stessi fondamenti, va proprio a cercarli. Tanto è vero che, in questi casi, di solito nella musica rispunta il contrappunto, che è la forma più astratta di costruzione musicale; se andate a vedere in tutti i momenti di crisi musicale grossa, il contrappunto salta fuori, perché è una specie di ars combinatoriae che ti permette di costruire con una certa logica. Lo stesso tipo di linguaggio usato da persone che ci mettono anche la pancia, al di là della ragione, come dimostra la grande scuola polifonica fiamminga quando è emigrata in Italia, fa venir fuori la grande opera d’arte, però basata su questa grande capacità costruttiva; la musica è una grande metafora della condizione umana, proprio perché è questo strano misto fra razionalità e sangue che è tipicamente umano e che non si risolve mai.Immaginate un linguaggio con questi problemi di autodefinizione, come potrebbe mettersi in relazio-ne reale con un mondo, con una ricchezza straordinaria completamente a parte, con le sue regole, la sua storia, la sua potenza, addirittura in questo caso doppia, che è quello della poesia: doppia perché se io uso parole come ‘acido’ o ‘dolce’, lo posso dire al salumiere, però posso usarle anche in una poesia. Immaginiamoci una potenza doppia, raddoppiata, di questo tipo messa in gioco con un linguaggio che sta cercando di ridefinirsi, come è stato il linguaggio dell’Avanguardia: è una sfida impossibile. Allora l’escamotage è stato: “visto che la voce esiste, allora dobbiamo usarla”. È stata una dissezione del testo in mero fonetismo: non c’è in realtà alcun rapporto, se non di tipo analogico, concreto, nel senso della musique concrète, cioè gli oggetti rilevanti foneticamente ma non seman-ticamente nei testi nella cosiddetta Avanguardia. Questo era un escamotage, perché c’erano già abbastanza guai per fare stare assieme un pezzo di musica e mettersi in dialogo reale, che vuol dire due orizzonti, due mondi di semanticità completamente autonomi e ricchissimi che si portano dietro secoli di storia. Questa ossessione sintattica della musica che c’è anche in Berio, è quella che ha im-pedito a un vero teatro musicale nel Novecento di nascere, perché c’è sempre troppa complessità sul palcoscenico, per paura, per una specie di horror vacui linguistico. Le opere di Berio rivelano molto più teatro quando chiudi gli occhi e ascolti la musica, che quando le vedi messe in scena, perché non c’è niente da mettere in scena.Diciamo pure che c’è quella che io chiamo pressione semantica, cioè la musica non ha un dizio-nario da sfogliare, al quale possiamo appellarci per sapere cosa significa un certo suono o un al-tro, se metto assieme una certa linea ottengo un certo risultato, ecc. No, non c’è. Mentre questo è il problema della poesia, che va superato in un altro modo, e lì c’è appunto la poesia del senso. La musicalità non è soltanto una questione di belle parole o di eufonia, ma è una questione di ritmo, di tempo; i nostri colleghi poeti e scrittori prima ne hanno parlato molto. Sicuramente la questione della tensione, la questione tensiva delle aspettative, è quella che crea la velocità del tempo; Franco Loi ha parlato prima di tre tempi sovrapposti. In musica il tempo è il nostro pane quotidiano, noi viviamo con il tempo, siamo fatti di tempo, la musica passa e se ne va, non puoi neanche fermarla e questo tipo di polifonia temporale è quella che per noi è più importante.Tutto sommato, alla fine, abbiamo tre livelli di rapporti tra musica e voce, e canto, o testo: un livello che possiamo definire preverbale, un livello invece verbale e, infine, c’è un rapporto che in un certo senso va oltre, che chiamerei postverbale. Per verbale intendo una situazione come la nostra, in questo momento, in cui c’è la condivisione di un codice e c’è una sorta di equilibrio tra i suoni che io sto emettendo e i suoi significati. C’è un famoso dialogo di Platone, il “Dialogo di Cratilo”, che è basato interamente su questo problema, cioè sulla consonanza con il mondo; c’è anche una famosa poesia di Baudelaire che si chiama “La correspondance”. Sulla questione

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della consonanza che può avere la parola con il mondo, cioè il suono di quella parola con l’oggetto o l’idea o il concetto che rappresenta, Cratilo ed Ermogene si accapigliano: uno so-stiene che esista questa consonanza – basti pensare a ‘tintinnare, roboare’, fonosimbolismo, ma nel senso più profondo del termine. Ermogene invece sostiene una tesi, che poi è quella degli strutturalisti di Saussure, di Jacobson, cioè che è mera successione discreta di suoni, di fonemi, che non ha niente a che vedere con l’oggetto che rappresenta. Questo è un problema vecchio come il mondo, come potete vedere. Per ritornare al problema del rapporto tra musica e testo, la musica deve entrare in una forma di relazione non dico paritaria, ma integrata, a livello della complessità delle informazioni, con la parola. Questo è il tentativo che uno fa quando va oltre un uso puramente fonetico, cioè utilizza una serie di suoni, fischi, schiocchi, ecc., come è stato fatto nelle avanguardie per molti anni. Nel momento in cui, in qualsiasi situazione musicale – che sia un’esplosione orchestrale, che siano delle fasce di archi – si sovrappone una parola, una qualsiasi, che può essere “dolce”, si è completamente devastato il significato di quello che c’è dietro, è stato modificato, cambiato. La stessa cosa avviene su un testo: sappiamo benissimo l’importanza delle colonne sonore in un film, possono cambiare totalmente il senso di una scena, da drammatica può diventare ridicola e viceversa. Allora, ad un livello di integrazione più profondo, la musica in qualche modo, per rendere possibile il teatro di opera da Berio in avanti, avrebbe dovuto concedere un pochino più di spazio ad altri tipi di informazione, ad essere fecondata in modo più profondo da altre forme. Naturalmente è difficilissimo, noi parliamo di parola ma, immaginate, aggiungete i movimenti, le immagini, i tempi delle persone che si spostano su un palcoscenico, il tipo di luci, le profondi-tà… diventa una cosa di una complessità straordinaria. Ecco perché l’opera o il teatro d’opera rimane uno dei laboratori più ricchi e dal potenziale più straordinario. Questo tipo di equilibrio è quello che si trova anche nelle migliori canzoni; in effetti, i testi delle canzoni non sono autonomi nella maggior parte dei casi, ma trovano un senso solo quando sono legati (parlo di canzoni, non di poesie messe in musica). Quel tipo di equilibrio è un possibile equilibrio che potremmo mettere al centro di un possibile rapporto, una serie, un catalogo, una lista, un’infinita varietà di rapporti che ci possono essere tra questi due mondi così potenti.All’estremo preverbale abbiamo una situazione di tipo stocastico, di tipo di organizzazione di masse, dove l’energia pura o lo scontro tra energie pure prevale sulla semanticità. La musica è sempre in lotta con questi due problemi: da un lato il manipolare le energie che hanno una grande forza, le energie “pure”, cioè la materia stessa (immaginate la lava, che non si forma, non si blocca in concrezioni evidenti ma dà sempre una suggestione di forma che in realtà non è costante), e la semanticità che ci portiamo dietro, cioè l’archivio, l’hard disk superaffollato che abbiamo nel cervello. Voi sapete che il cervello funziona per modelli, per cui quando abbiamo un’esperienza estetica o anche quotidiana, immediatamente il nostro cervello cerca di rimodellar-la su qualche cosa che ha già esperito. Questo provoca, ovviamente, una tensione nei confronti della storia di cui non si può fare finta di niente. Questa è una delle più grandi differenze fra la nostra generazione e quella precedente, che ha pensato di poter fare a meno di questa impli-cazione. C’è una famosa introduzione di Levi-Strauss, “Il crudo e il cotto”, in cui parla di questo problema: invece di parlare di crudo e cotto si mette a parlare di musica contemporanea, dicen-do appunto che i compositori contemporanei pretendono di fare una musica senza un codice comune, ma dove tutto si risolve nell’atto di parola del compositore stesso, per cui praticamente è un atto di fede da parte nostra ascoltare un pezzo di musica. Solo lui è il garante della autenticità del suo fondamento linguistico.

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Però cinquanta anni dopo vediamo che le buone intenzioni sono una cosa, i fatti un’altra, e vediamo questi compositori perfettamente inseriti in un cammino storico ben preciso. In realtà, non c’è il tabula rasa che pensavano di fare, ma anzi sono stati inglobati anche loro in una storia ben precisa.

Carlo Boccadoro

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Questo, secondo me, perché il risultato di pochi anni, cioè degli anni Cinquanta, è stato scambiato per uno stile. Loro hanno applicato un corpus di tecniche mentali che è puramente occidentale, che è forse la nostra più grande qualità, cioè una capacità analitico-risintetica eccezionale, che viene dalla nostra storia, e che io chiamo ‘la sindrome di Ulisse’, che porterà anche alla distruzione del pianeta entro breve. Essa ha portato anche molti vantaggi rispetto ad altre culture, ma abbiamo dimenticato tantissime altre cose che altre culture non hanno dimenticato. Questi compositori utilizzarono questo corpus di tecniche mentali avendo quei risultati, appellandosi (per non ricadere nei cliché decadenti del Post-romanticismo o del Neoclassicismo) alla scienza, ai numeri, alle costruzioni matematiche, proprio per prevenire la caduta nei cliché; dopodichè, ci furono dei risultati locali che, in un periodo di mancanza di idee, furono scambiati per la verità e diventarono uno “stile”, che diventò il “genere” di musica contemporanea, quello che è stato copiato e ricopiato. Esso generò una sorta di nichilismo ontologico, poi con l’aiuto di Adorno diventò la solita morte dell’arte.Quello che mi sembra più importante è utilizzare questa nostra specificità etnica per dare conto della ricchezza che ci circonda e trovare una sintesi. In questo caso i risultati sarebbero diversi, perché quella di oggi non è la realtà degli anni Cinquanta. Da questo punto di vista anche il nostro rapporto con la musica etnica, la musica popolare, è diverso da quello di Berio e, nonostante i bellissimi suoi risultati, lui aveva sempre il suffisso ‘esco’ alla fine, cioè non nel senso di uscire, ma come ‘pittoresco’, ‘popolaresco’, che vuol dire “io parto da una cultura superiore, vi guardo dall’alto, vi analizzo e vi trascrivo, in qualche modo vi annetto”.Poi lo stato di equilibrio può essere intermedio e i rapporti che ci possono essere sono tantissimi; la mia esperienza mi dice che bisogna concepire in qualche modo, fin dall’inizio, la presenza della parola. Non è più una questione di mettere la rima o cose del genere. Devo confessare che ci sono grandi ignoranze reciproche: i poeti conoscono poco di musica e i musicisti conoscono poco di poe-sia; perciò, quando tu chiedi a un poeta di scriverti un libretto, lui crede di dover scrivere le rime, di scrivere come Da Ponte, facendo dei disastri assoluti (a parte Umberto Fiori con cui ho avuto lo stesso tipo di problemi, abbiamo litigato a un certo punto a morte e per un anno non ci siamo più salutati, ma ora sono ventidue anni che lavoriamo insieme. Umberto è un musicista, oltretutto; è stato leader degli Stormy Six, è un cantante anche molto bravo, ha lavorato con Tommaso Leddi, musicando i lavori di Franco Loi).Da una situazione preverbale, che è soprattutto fonetica – può essere quella dell’urlo o del bambino –fino a una postverbale che va oltre, diventa musica pura, esiste una semanticità della musica, nono-stante i poeti, soprattutto quelli dell’Ottocento (simbolisti e postsimbolisti) abbiano invidiato la purezza del suono, che non è affatto puro. Questa semanticità è molto difficile da determinare, per cui esiste quella che chiamo ‘pressione semantica’ nella musica pura, ed è vero sicuramente che i lacci che derivano alla poesia dall’uso della parola quotidiana, noi li abbiamo di meno. Siccome viviamo in un mondo di ripetizione, di ripetitività, dovuta soprattutto ai mass-media, si è creata una semanticità simile alla parola quotidiana, cioè un depauperamento, una reificazione della parola musicale e dell’evento musicale. Queste sono le cose che mi danno fastidio di un certo tipo di musica neotonale o ripetitiva, non tanto i risultati musicali quando ci sono ma è l’utilizzo di cliché che mi ricordano altro, e che in un certo senso umiliano la costruzione stessa della parola che dovrebbe, in qualche modo, stare in piedi sulle proprie gambe e non riferirsi a un archivio. L’archivio della memoria esiste e bisogna farci i conti.

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Luca Francesconi

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Lasciamo la materia incandescente così, senza che si rapprenda, con tutte queste provocazioni date, molto importanti, che cadono in un contesto giusto, perchè la ragione di questo convegno è proprio quella di dare la scintilla iniziale a un possibile lavoro svolto con giovani musicisti e scrittori, proprio affinché la reciproca ignoranza cominci dai tentativi di argine e di incanalamento positivo, di cortocircuito fruttifero e vicendevole. Cogliamo tutte queste provocazioni e poi le discuteremo anche nell’ambito dei corsi di formazione e dei laboratori.Michele Tadini, benché molto giovane, ha avuto una escalation fulminante dei suoi lavori, soprattutto da quando ha iniziato l’utilizzo di tecnologia e ha fatto crescere molto rapidamente la propria auto-coscienza, non solo artistica, ma artistica in connessione con il progredire della tecnologia, a partire innanzitutto dall’esperienza di Agon di cui diventò direttore generale. Dopo la collaborazione ripetuta con Berio, è attualmente condirettore generale del Centro Tempo Reale di Firenze, fondato appunto da Berio alcuni anni prima della sua morte.Vive attualmente a Parigi, insegna a Lione e fa parte del gruppo ESC (Electro-acoustic Synthesis Crew), che è il “gotha” delle persone che lavorano nel campo della musica elettronica, cioè i dieci o quindici geni della musica elettronica che vicendevolmente si riconoscono come punti di riferimento, si incontrano ogni tanto, da ogni parte del mondo e si ritrovano per fare il punto dello stato dell’arte riguardo alla tecnologia applicabile alla musica. Ha numerose commissioni interessanti attuali, quali la Biennale di Venezia e un grande carnet di collaborazioni con poeti, scrittori; produce musica per il teatro, per il video, videoart, musica applicata a installazioni sonore, quindi anche in connessione con la pittura e la scultura. È una cultura a tutto tondo che gli proviene probabilmente dall’estrazione familiare stessa, essendo nato da quel grande artista senza confini che era Emilio Tadini, scrittore, pittore, poeta, uomo di cultura.

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Roberto Andreoni

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Quando ho cominciato a mettere insieme il materiale per cercare di capire di che cosa parlare oggi, ho capito che le cose di cui si poteva parlare potevano essere tantissime: delle dichiarazioni di prin-cipio, di intenti, di esperienze personali. Ho lavorato molto come musicista per la scena, quindi ho avuto un rapporto con il testo: tutto sommato è veramente diverso mettere un testo in musica dal pen-sare una musica per il teatro. Alla fine ho deciso di fare una cosa che adesso mi sembra un po’ folle: mettermi in gioco fino al punto di spiegare semplicemente una cosa che ho fatto, che naturalmente non deve essere presa come dichiarazione assoluta di quello che io penso sia il rapporto tra testo e musica, vocalità, voce, significato, significante, ma è semplicemente un modo per me di arrivare fino in fondo mentre sto parlando. Prima di presentarvi questo esempio, volevo solo riprendere due cose che erano state dette nella prima parte del convegno, e non credo riguardino solo l’ignoranza, che è un termine molto forte, ma alcuni errori che si fanno spesso quando dei musicisti parlano di poesia e dei poeti parlano di musica. Prima ne ho notati due che mi hanno sorpreso: il primo, quando si parla di armonia si confonde e si parla di dissonanza, consonanza, di armonia nel testo e si fa questo pa-ragone con la musica. In realtà non è assolutamente l’armonia intesa come accordi, come sequenza di accordi, come sistema armonico tonale, non tonale, quello che sia, ma si parla di suono armonico e inarmonico, che è un fenomeno fisico. Il suono armonico è quello che ha tutte le componenti nella sequenza degli armonici, rispetto al proprio suono fondamentale, ed è un fenomeno fisico descritto da Pitagora. Un suono inarmonico è un suono che ha delle componenti che non sono in relazione di divisione successiva di metà della famosa corda vibrante di Pitagora, rispetto al suono fondamentale. Quindi quando parliamo di armonia è quello e non ci riferiamo assolutamente ad altro, altrimenti diventano dei grotteschi fraintendimenti. Per anni ho lavorato in uno studio di musica per la pubblicità e il livello di incomprensione tra quelli che dovevano manovrare la lingua e quelli come noi che dove-vano manovrare le note era assolutamente totale. Questo era forse un caso plateale.L’altro errore era nel concetto di dissonanza e consonanza. Questa è un’altra cosa che mi sento in qualche modo di dover precisare, anche perché sono dei concetti tanto fondamentali, che forse è sempre giusto ricordarli. Non è che la dissonanza garantisca qualcosa rispetto alla consonanza e, citando Bach, che all’inizio di un brano ha scritto “Mi-Fa-Fa-Mi est omnes musica”, cioè nella disso-nanza, consonanza, nella risoluzione tra dissonanza e consonanza sta tutta la musica. Questo nel sistema tonale ha un significato, in altri sistemi può assumere altri significati ed essere sfaccettato in modo diverso; comunque parliamo sempre di arsi e tesi e, in qualche modo, del dialogo e della pos-sibilità dello svilupparsi, del dipanarsi e dell’accumularsi, dell’arrivare al punto di climax di queste due componenti. Allora possiamo pensare che uno stia interpretando o non interpretando un testo. Ma, se parliamo di dissonanza, consonanza e armonia, credo sia giusto ricordare cosa voglia dire per un musicista, perché con armonia intesa come capacità di entrare in una armonicità, si fa riferimento al fenomeno fisico, non certo alle teorie dei manuali di armonia che studiamo quando cominciamo a fare il Conservatorio.Questa mattina sono state citate più volte le esperienze, con toni più o meno critici, di esempi di musica del secolo scorso. C’è una cosa da dire che non è stata detta: in alcuni il materiale, il testo è stato preso e tanto violentemente trasformato in materia sonora che nel momento dell’esecuzione del pezzo aveva perso qualunque tipo di relazione. Schönberg l’ha detto, ma l’avevano detto anche altri prima che si può musicare un libro, una poesia senza cercare di seguire il senso o la forma, parola per parola, ma semplicemente dal primo verso si può interpretare, prendere un punto di ispirazione e

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Michele Tadini

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poi partire per un altro percorso che è inerente a quel testo, senza che questo sia messo in costante relazione temporale. Normalmente quasi tutta la musica di quel periodo ha fatto quel tipo di espe-rimenti, ma agiva in un contesto in cui la musica non si concepiva totalmente autoreferenziale, né astratta dal fatto che quel testo poetico potesse essere già conosciuto prima dell’esecuzione. Allora, se uno può conoscere il testo, ad esempio il programma di sala, prima dell’esecuzione, può capire il modo in cui il compositore ha deciso di appropriarsi di quel testo.Si è parlato e sono state citate le opere di Berio, e sono state dette e spese parole sul rapporto che Berio aveva con la vocalità. Quello che ha detto prima rivolgendosi a Boccadoro per “La vera storia” e le prime opere di Bario è vero, non credo che sia vero per Outis e “Cronaca del luogo”. Le arie di Outis e “Cronaca del luogo” sono due, una per opera, e sono straordinarie, come reinvenzione as-solutamente melodica, modale, stranamente modale, diciamo polimodale. Inoltre sono assolutamente d’accordo con Luca Francesconi quando dice che ascoltando Berio c’è molto più teatro chiudendo gli occhi, ed è per questo che litigava con i registi.Boccadoro ha citato un brano presente nella prima delle “lezioni americane” di “Ricorda il futuro”, l’ultimo libro uscito con gli scritti di Berio per Harvard, in cui parla del violino e dice che scrivere per violino non ha senso per lui se non si considera la storia del violino. È vero che il violino lo possiamo mettere in una custodia e questo fa la differenza, ma il violino è non solo i pezzi di legno e le corde che stanno sullo strumento, non solo le tecniche nuove da inventare, non solo gli armonici flautati, sof-fiati o le distorsioni del suono con l’elettronica, ma è anche e soprattutto (per lui), fortemente, la storia di tutto ciò che su quello strumento è stato suonato. Ogni volta che prendiamo un violino è come se in qualche modo tutto quel mondo di riferimenti venga richiamato. Allora è evidente che se questo succede per il violino, per la voce ancora di più. Che cos’è che ci racconta la voce appena uno apre bocca? Non bisogna fare confusione tra la storia della voce, che può essere più inerente alla storia della musica classica occidentale, all’opera da Monteverdi ai giorni nostri, ma è tutto il resto, è la canzone pop, è il rap, la musica etnica, è il salumiere, è tutto quello di cui abbiamo parlato.Sostanzialmente l’unico modo che mi ha fatto sempre superare lo scrivere, è l’amore per lo strumento; io credo che la capacità di espressione musicale attraverso la voce sia straordinaria, mi innamoro ogni volta che sento un cantante bravo fare una nota, sia un cantante di opera lirica o un madrigalista o un cantante pop o jazz. In questo senso, nei vari possibili rapporti che abbiamo con la voce e con il tempo, indubbiamente per me un posto molto rilevante ce l’ha la canzone. Non che non metta tra le opere fondamentali della mia vita i recitativi de “La passione secondo san Matteo” di Bach, con cui piangevo alle medie, ma in tutta la storia della mia vita ho avuto grosse frequentazioni e ho anche lavorato molto nel campo della musica pop, e la vicinanza anche di persone per cui ho tanta stima da questo punto di vista, mi ha sempre fatto rispettare molto il genere e criticare molto il tentativo di dividere, all’interno della canzone, la componente poetica dalla componente musicale.Nella canzone, per mille questioni che forse adesso non è il caso di elencare o in cui entrare, le cose si fanno magicamente insieme; ovviamente penso a una delle canzoni che credo sia forse una delle più belle del mondo, “Avec le temps” di Léo Ferré, dove veramente la qualità dell’interprete, la qualità del testo, e la qualità della musica, rendevano insieme una possibilità veramente unica. Questo non è che non succeda nel momento in cui un compositore si appropria di un testo e lo musica, però il rapporto è sicuramente diverso. Il rapporto che si trova in una canzone è non mediato, e trovo sia co-munque molto interessante. Faccio spesso l’esempio, citando molte opere di musica classica contem-poranea, impegnata socialmente e politicamente, come lo stesso tentativo, nell’ambito della musica pop e rock, sia potuto penetrare in modo completamente diverso proprio per questioni di toni della lingua. Pensiamo alle grandi canzoni di Dylan sui grandi temi e vediamo come quella musica insieme

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alle parole sia riuscita a penetrare gli animi, e non stiamo parlando di canzoncine. Talvolta occorrono interi libri per descrivere magnificamente tutto un periodo (pensiamo a “Furore” di Steinbeck o ad altra letteratura americana) mentre in soli tre minuti una canzone come “Fast car” di Tracy Chapman può fare arrivare la stessa cosa. Ed è evidente che il tono è un altro, ed è molto difficile per un compositore. Soprattutto i compositori “classici” quando cercano di impossessarsi di quell’aspetto del rapporto tra musica e testo, fanno delle bestialità terrificanti, perché non hanno la minima idea reale, non possono veramente scendere a quel tono della lingua. La differenza del tono della lingua musicale è un mio chiodo fisso come compositore: mi piacerebbe poter saltare nel testo musicale, così come si può fare in letteratura, come fa Dante che è un maestro assoluto o come fa anche Shakespeare. La possibilità di saltare veramente di registro è una difficoltà enorme che la musica ha, rispetto alla parola, al testo, alla poesia e alla prosa.Quello di cui vi volevo parlare, è un mio lavoro fatto per il Mittlefest a Cividale del Friuli, questo è Unheimlich. A questo festival è stato richiesto a me e a Luca Scarsella, autore della parte visiva, di creare uno spettacolo ispirato a come i media hanno cambiato la percezione dei conflitti da quando abbiamo visto la fucilazione in diretta di Nicolae Ceausescu, per intenderci. In realtà, dopo poco che ci siamo messi a lavorare ci siamo resi conto che era esattamente il contrario quello che ci interessava: vedere come, rispetto all’uomo, il conflitto possa cambiare i contorni in modo totalmente indipendente dalla vita o dalla conduzione della vita di un uomo.Quindi “Unheimlich”, che vuol dire la perdita del senso patrio (ma che si può avere anche nella pro-pria casa nel momento in cui non ci si riconosce più, ci si sveglia e non ci si ritrova più a casa propria), era il tema dello spettacolo, cioè ritrovarsi profughi, esuli nella propria terra, perché il conflitto ci ha reso profughi, esuli nella terra. Il tema era molto preciso; il rapporto con il videomaker, con l’autore della parte visiva è stato facile per certi versi e difficile per altri, perché per lui le cose erano molto chiare: l’idea era quella di passare tre volte attraverso dei luoghi di senso comune e di piccolissima importanza (il lavoro, i gesti, i piccoli gesti che compongono il senso in qualche modo minimo della vita, i piccoli valori). Abbiamo creato tre zone, in cui tra due percussionisti, la cantante si creava un riferimento di volta in volta ai tre mondi dei piccoli valori (il lavoro, la casa, il mondo degli affetti e la conoscenza) e tutte e tre le volte questi venivano distrutti dall’idea di conflitto.In realtà, per me, era molto più ambigua la situazione; mentre Luca Scarsella ha montato frenetica-mente immagini di video di guerra, di esplosioni, ecc., per me il trovarmi con una chiarezza così forte come riferimento è stato abbastanza problematico, mentre per il tipo di spettacolo ha funzionato molto bene. Lo spettacolo era nella chiesa di San Francesco a Cividale del Friuli, una spazializzazio-ne intorno al pubblico di suono e di immagini. Ogni volta che veniva creato il momento di senso, il momento di distruzione dal punto di vista spaziale era una fragorosa spazializzazione di immagini di video. Il montatore ha montato sulle mie musiche cassa per cassa, video per video, e questo ha creato un effetto di coordinamento musicale di significato e di mimesi o meno con quello di cui sta-vamo parlando, per cui abbiamo visto uscire gente piangendo dallo spettacolo, e qualcuno che ha affermato di non aver avuto paura sotto le bombe ma di averla avuta quella sera.Lo spettacolo aveva queste tre parti di costruzione di piccolo senso comune: uno di questi era la casa. Nell’idea di casa ho lavorato sull’idea di rapporto con voce e testo e la capacità imme-diata di comunicare un senso, non un significato ma un senso profondo. Il primo passo è stato molto semplice: ho descritto il mondo degli affetti domestici basato sull’idea primordiale, sem-plicissima, di abbinamento di parole, testo, voce, canto, che sono le ninne-nanne. Ho fatto una ricerca, sono andato a prendere ninne-nanne soprattutto dei paesi dell’Est, che non conoscevo, ho preso anche quelle che ho cantato ai miei figli. Il mondo che ho cercato di recuperare faceva

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riferimento costante a questi tipi di reminiscenze, a questa pressione semantica. Ognuno di quei frammenti derivava da un riferimento fortissimo a questa possibilità di reminiscenza; che siano personali o collettive era un po’ il tentativo, era il vero lavoro, era il terreno su cui ho cercato di impegnarmi.La cantante Laura Catrani aveva, in repertorio, un concerto di ninne-nanne per chitarra e voce, ab-biamo usato tutti i materiali e tutto lo studio fatto sulla vocalità. Dal vivo, lei introduce solo alcuni dei frammenti, ma tutto il lavoro non potrebbe che esistere nella parte elettronica, cioè un’enorme mol-tiplicazione e stratificazione delle sorgenti, un’invasione dello spazio e una possibilità di registrare un’intenzione, che non sarebbe stato assolutamente possibile dal vivo. Ciò significa che prima di registrare ognuno dei frammenti di ninne-nanne, abbiamo passato a volte ore a cercare di tirare fuori dalla sua vocalità – comunque da cantante lirica – questa possibilità di recuperare un’intenzione che stesse ancora prima del canto e della parola detta, e di fermare poi inediti con l’elettronica, molto semplicemente tagliando quello che c’era prima e quello che c’era dopo.

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CHIUSURA DEI LAVORI

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È evidente che non è possibile tirare delle conclusioni del lavoro fatto in questi due giorni e pren-do spunto da una problematica che ieri la direttrice Fellegara ha sottolineato. Lei ha fatto una lista di resistenze a un progetto, a un’idea di riavvicinamento, o di reciproca corrispondenza, come diceva il titolo di questo convegno; citava le resistenze dei direttori, le resistenze degli insegnanti e quelle degli allievi. Penso che esistano anche delle resistenze giuste a una cosa del genere, per esempio a una banalizzazione di quello che potrebbe suggerire il titolo ‘corrispondenza’. Abbia-mo visto che a questa banalizzazione abbiamo reagito un po’ tutti. Rondoni ha giustamente detto

“la poesia è tiranna” e anche i musicisti giustamente dicevano che anche la musica è tiranna. È come dire che trarre delle conclusioni potrebbe essere un po’ demoralizzante, nel senso che invece di avvicinarci, ci siamo allontanati. Penso che, se non altro, abbiamo fatto una fotografia di quello che c’è; inoltre vorrei sottolineare l’argomento che mi interessa particolarmente: al di là delle differenze evidenti fra musica e scrittura, c’è un punto inevitabile per tutte e due le forme espressive: entrambe fanno riferimento al tempo. Questo è stato detto e ridetto tante volte; ascol-tando quello che veniva detto ieri e soprattutto oggi, mi viene in mente una frase banale che paradossalmente è rimasta nella storia: un dialogo di Sant’Agostino, a cui era stato chiesto cos’è il tempo e a cui rispose: “se non me lo chiedi lo so, ma se me lo chiedi non lo so più”. Io quando spiego (insegno Metodologia dell’educazione musicale e mi trovo tutte le volte a fare i conti con il tempo, a dover spiegare cos’è il tempo, perché la poesia e la musica si muovono nel tempo) è l’unica cosa che riesco a dire, tanto è vero che faccio una citazione dal Dizionario Zanichelli 2006: il tempo “è una nozione astratta in cui ci muoviamo”, intende dire molto di più di quello che dice Sant’Agostino. C’è però un aspetto che ripropongo sempre come punto di partenza: noi abbiamo la percezione del tempo (la percezione, non che cosa sia il tempo) legata al fatto che succede qualcosa. Noi abbiamo la percezione del tempo perché succedono degli avveni-menti, degli accadimenti, che ci fanno capire che esiste il tempo, altrimenti sarebbe impossibile. Il punto interessante, che secondo me è anche il punto di lavoro comune, è una predisposizione che, dal punto di vista educativo, vedo assolutamente latitante nel nostro sistema scolastico, una predisposizione a una curiosità, a una domanda, a un’interrogazione, a quello che accade nel tempo, all’accadimento nel tempo. Questo vale per la poesia, per la musica, per la pittura, per la scultura e vale per la vita.Penso che questo percorso fatto insieme possa essere un punto di partenza, sicuramente non un punto di arrivo, visto che la strada è molto in salita, ma mi sembra che sia una strada molto interessante.

Pier Paolo Bellini

CHIUSURA DEI LAVORI

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APPENDICE CORSO DI FORMAZIONE FORMATORI E IL LABORATORIO

“TRA MUSICA E SCRITTURA: LE MANI IN PASTA”IL CONCORSO NAZIONALE “UN’OPERA PER BAMBINI”

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Una caratteristica generale del progetto è stata quella di riunire in un’unica prospettiva formativa sog-getti legati all’ambito creativo di provenienze e livelli differenti: in particolare, ad una diversificazione

“verticale” (compositori e scrittori) se ne è sovrapposta una orizzontale (senior, tutor, allievi). Il primo dato dell’esperienza è stata certamente la sorpresa di una utilità e un arricchimento per ciascuno a prescindere dal fatto di essere professionista affermato o “ultimo arrivato”: questo è già un fatto interessante perché dimostra la novità, l’adeguatezza e in qualche modo anche l’urgenza di un approccio di largo respiro alle attività creative, un approccio non più soltanto “specialistico” in ogni singola disciplina, ma capace di arricchirsi sulle orme di discipline gemelle, senza per questo perdere la propria specificità. È forse per questo motivo che alcuni tra i più significativi professionisti invitati al convegno hanno dato una disponibilità ai momenti di formazione successiva o addirittura si sono spontaneamente “sporcati le mani” partecipando al laboratorio con i più giovani. Cerchiamo di identificare, quindi, grosso modo, la composizione di ogni sezione dei soggetti inte-ressati. I senior impegnati per la formazione (musicisti e scrittori), coincidono in parte con quelli che hanno partecipato al convegno (fase integrante della formazione stessa): si tratta di una decina di professionisti provenienti prevalentemente dalla regione Lombardia, ma anche dal resto del territorio nazionale ed estero. L’età dei senior si attesta dai quaranta ai sessant’anni: gli ambiti professionali sono quelli della composizione e didattica musicale, della poesia, del romanzo, della scuola di scrittura e di recitazione, della ricerca universitaria, della rivista letteraria. Le lezioni sono state sia di tipo teorico che laboratoriale, in parte rivolte esclusivamente ai tutor, in parte aperte anche agli allievi (in certi casi vere e proprie “correzioni sul campo” intervenendo sui lavori laboratoriali realizzati dai più giovani). I tutor partecipanti sono stati una quindicina (anch’essi rappresentanti equamente le arti letterarie e musicali). La provenienza è principalmente regionale, ma anche con estensione al territorio nazionale: si tratta di giovani, tra i venticinque e i trentacinque anni, che hanno alle spalle esperienze formative significative. Da questo punto di vista, la distinzione tra musicisti e scrittori è inevitabile: infatti, per quanto riguarda i compositori, la carriera è ricostruibile attraverso un titolo (quello del Conservatorio) mentre, nel campo della scrittura, questo criterio non è utilizzabile. I tutor musicisti partecipanti erano quindi diplomati o diplomandi di Conservatorio, mentre per gli scrittori la provenienza era general-mente da scuole di scrittura, di recitazione, dal teatro o dall’università. Quasi tutti sono sul punto di fare un investimento definitivo su un’ipotesi professionale legata alla creatività artistica. Gli allievi (circa una ventina) sono stati di livelli culturali e formativi molto diversificati. Quello che poteva essere un grosso ostacolo all’efficacia dell’esperimento – avendo età molto diverse (si va dai quattordici ai venticinque anni) – è stato accolto come una sfida per senior e tutor: ognuno ha dovuto fare i conti con la necessità di parlare ad un pubblico composto da colleghi e da principianti, doven-do quindi trovare un linguaggio universalmente comprensibile (anche a chi è più inesperto, giovane o totalmente “ignorante” dello specifico linguaggio) e una compresenza di livelli semantici adatti alla capacità di comprensione di tutti, per non dire al tempo stesso cose troppo ermetiche o troppo banali. La provenienza degli allievi è stata prevalentemente lombarda, emiliana e piemontese.

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Formazione a più livelli

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La distinzione su tre livelli “professionali” dei partecipanti porta conseguentemente una diversificazio-ne di motivazioni nell’adesione al progetto. Potremmo, con inevitabile generalizzazione, attribuire una motivazione di tipo “lavorativo” ai senior, gli unici per i quali è stato previsto un compenso per la prestazione. È tuttavia apparso evidente che la disponibilità di questi professionisti è andata ben oltre i puri criteri contrattuali: la disponibilità, il desiderio di tornare, la ricerca di confronto hanno fatto trapelare motivazioni preesistenti di carattere collaborativo e al contempo educativo. È emersa, in tanti operatori del settore, la condivisione dell’emergenza formativa e della direzione innovativa del progetto PerformingArts.Il quadro relativo ai tutor è leggermente diverso: per questi giovani in fase di inizio carriera, la propo-sta è stata una sfida su una ipotesi di formazione sui generis, non specialistica ma “relazionale”, nel quadro di una insolita compromissione con linguaggi espressivi non praticati. La possibilità di seguire professionisti affermati, di doversi cimentare con espressività conosciute solo superficialmente, di far rifluire sugli allievi la propria esperienza e le conoscenze acquisite nel corso della formazione, ha risposto alla necessità di fare i conti con l’aspetto poliedrico delle attività artistiche, necessario oggi ancor più che nei tempi passati.Gli allievi, infine, sono stati giovani mossi principalmente dalla curiosità di approfondire un linguaggio o uno stile letterario o musicale già praticato e, nello stesso tempo, dalla possibilità di impegnarsi con modalità di espressione creativa mai praticate precedentemente.

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Motivazioni a fruttuoso confronto

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Le metodologie

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Le metodologie applicate sono state le più varie. In questo caso è necessario distinguere le meto-dologie adottate nel corso di formazione-formatori, da quelle utilizzate in sede di laboratorio. Per quanto riguarda la formazione, il metodo si è basato essenzialmente su tre opzioni: a) le-zione frontale (di tipo universitario); b) racconto professionale (sul tipo “case history” in ambito creativo); c) esemplificazioni laboratoriali con l’intera classe. a) Nel primo caso si sono affrontate problematiche relative a significativi snodi estetici, storici, linguistici in grado di rendere più chiaro il quadro generale di riferimento della produzione arti-stica contemporanea, con una focalizzazione sulle interferenze tra suono e parola esistenti nelle opere prese in esame (di carattere e ambiti molto diversificati). b) Nel secondo caso sono stati presentati lavori personali analizzati e rivisitati secondo la pro-spettiva esemplificativa e didattica utile a “mostrare” possibili soluzioni al problema centrale del corso, cioè le reciproche contaminazioni di linguaggi. Dal versante della scrittura e da quello della musica, si sono perciò sottolineati gli spunti creativi nati dalle “suggestioni” derivate dall’al-tro tipo di linguaggio. c) Le esemplificazioni laboratoriali hanno avuto come finalità quella di proporre e facilitare per-corsi di interazione creativa tra i due linguaggi artistici attraverso esercizi individuali e di classe, generalmente legati al ritmo musicale, alla metrica e alla tecnica del racconto. Lo scopo era quello di dare strumenti davvero utili per il laboratorio del pomeriggio. Alla fine del corso, si è deciso poi di lasciare uno spazio alle comunicazioni dei tutor, alcuni dei quali hanno avuto la possibilità di presentare alla classe le creazioni da loro realizzate: un qua-dro significativo di iniziali carriere professionali a confronto con la problematica e le prospettive suggerite dal progetto PerformingArts.Per quanto riguarda invece il laboratorio, si è deciso di seguire due grandi metodologie: la prima è quella riguardante la produzione “a più mani”. In pratica la prima parte del laboratorio (due ore) è stata dedicata al lavoro di gruppo, composto generalmente da due o quattro allievi, scrittori e musicisti, seguiti da un tutor per materia, che si sono cimentati con il tema suggerito: una composizione per bambini con organico da camera, voce recitante o cantante. Il metodo di lavoro imponeva la co-creazione di testo e musica, per evitare i classici “incollamenti” di un linguaggio sull’altro. In pratica si costringeva il musicista ad assistere alla nascita del testo e a intervenire sul processo, e viceversa. Nella seconda fase del laboratorio (due ore) si procedeva alla presentazione del progetto crea-tivo in fieri a tutta la classe: in pratica, si dichiarava in partenza il progetto generale (la storia raccontata, gli interventi musicali previsti, gli organici, ecc.) e si presentavano, volta per volta, le realizzazioni che via via si effettuavano, con la collaborazione dei tutor al pianoforte. Il tutto sotto l’occhio critico dei senior che suggerivano possibili “impasse” futuri contenuti nei progetti, scelte azzeccate o meno efficaci dal punto di vista del racconto, dello stile, del linguaggio musicale o poetico scelto.

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Il lavoro concreto ha fatto emergere spunti di possibili sviluppi e difficoltà non immaginabili preceden-temente. Innanzitutto, i problemi sorti, in genere, sono quelli legati al livello del “senso”.Il fatto di dovere fare i conti con un ideale pubblico di bambini ha costretto tutti a rivedere problema-tiche spesso tralasciate dall’arte contemporanea: il bambino non si adegua facilmente a relazioni se-mantiche di tipo squisitamente intellettuale. Questo ha costretto a trovare soluzioni al comandamento supremo della creazione artistica (evitare la banalità) senza rifugiarsi nel complesso o nel “non-sense”: semplice, dunque, e, contemporaneamente, non banale.Il secondo livello problematico di senso è quello relativo al rapporto suono-parola, spesso sentiti come reciprocamente “indifferenti”: perché usare certi suoni o certi stili in determinate situazioni? Il terzo livello problematico si è dimostrato quello della “realizzabilità” del progetto: il tempo (i quindici minuti concessi) ha messo dei paletti ai quali normalmente non si è abituati, soprattutto quando si tratta di gestire due linguaggi che interagiscono tra loro. Il concetto di “originalità” si è trovato a fare dunque i conti con quello di “funzionalità”: la seconda ha posto dei fruttuosi limiti alla prima, come avviene in ogni tentativo serio di dare corpo ad un processo di comunicazione reale.

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I frutti

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Il giudizio dei tutor

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Al termine del lavoro dei laboratori, abbiamo chiesto ai tutor di esprimere un giudizio sull’esperienza fatta, per verificarne la validità o segnarle i limiti: riportiamo alcune affermazioni particolarmente significative da questo punto di vista.

È stato un rendez–vous intellettuale di notevole spessore, soprattutto per l’originalità dell’esperienza, che voleva in qualche modo far riflettere sul rapporto tra mondi artistici attigui, per propria natura in rapporto di affinità elettiva, spesso in intenso scambio dialettico.Si è notato, anzitutto uno iato “naturale” tra questi mondi: il tipo di formazione più che da collante funzionava da ostacolo culturale. Proprio su questo particolare aspetto tutti i convenuti hanno potuto notare la novità di PerformingArts, che si è tradotta nella capacità di “costringere” un po’ tutti a dialo-gare, ad entrare in relazione per produrre del materiale, per di più di chiara comprensione. Ciascuno ha dunque potuto, senza riserve, abbandonare i propri interessi specifici per pensare “dentro” ad un lavoro d’ensemble.Davvero un riuscito esempio di ricerca e di studio comuni. Che, forse, ha saputo produrre in molti nuove consapevolezze.

Dopo il momento iniziale di spaesamento per la novità del metodo che c’eravamo proposti, noi tutor siamo partiti col riportare all’attenzione i vari suggerimenti colti dai professionisti, suggerimenti di me-todo. Essenzialmente il punto di partenza è stato chiederci se avessimo qualcosa da dire, ma da dire in parole e musica! Ad una risposta affermativa è seguito il brain storming delle varie idee, smistate e scremate, fino ad arrivare alla formulazione di una trama, poi ulteriormente rielaborata in seguito a suggerimenti esterni di professionisti.Non sempre purtroppo è stato possibile far procedere i due linguaggi di pari passo, ma soprattutto far sì che questo non fosse forzato, sia per la disomogeneità nella formazione e nelle caratteristiche degli iscritti, sia per la novità di questo “doppio canale” a cui nemmeno noi eravamo tanto abituati.

È stata un’esperienza molto interessante perché mi ha permesso di mettere a fuoco alcune “assonan-ze” tra il modo di fare musicale e il modo di fare poetico, ma anche di chiarirne le differenze. La curiosità e l’attenzione degli allievi più giovani ai meccanismi che andavamo discutendo ha messo in evidenza quanto questo genere di iniziativa sia importante culturalmente e umanamente.

Il lavoro si è sempre svolto in parallelo e con continui confronti, abbiamo infatti cercato di applicare gli stimoli che ci erano venuti sia dal convegno che dalle lezioni con i professionisti.

Ogni esercizio è stata una piccola provocazione che ci ha aperto una serie di possibilità e di pro-spettive fino a quel momento impensate. L’utilità di questa parte è stata di mettere a fuoco il tema del progetto e di andarci davvero a fondo, per non cadere in un lavoro banale o superficiale.

Penso sia stato evidente il fatto che il “problema” è molto più complesso di quello che si possa pen-sare, viste le distanze tra poeti e musicisti e visto che tra l’altro per alcuni di essi il problema sembra quasi qualcosa di “non necessario”.Dal punto di visto del laboratorio, viceversa, ho notato un interesse piuttosto vivace a voler condividere

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tra musicisti e letterati il proprio punto di vista e, almeno come tentativo, l’intenzione di far confluire la cosa su un progetto comune. In sintesi:- intento del corso di formazione e laboratorio interessantissimo, e con sviluppi già in fase pratica di quanto discusso in aula (vera formazione, quindi, e anche per noi tutor). Incontri di formazione di ottimo livello.- tempo a disposizione del laboratorio veramente ridotto, in una settimana produrre qualcosa di concreto, con questo intento di “unificare” i punti di vista, è veramente difficile. Sarebbe interessante credo pensare di strutturarlo come un vero corso di almeno un mese (intensivo) o semestrale (più periodico).

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Certamente l’impressione è quella di un passo minimale, ma nella direzione giusta. Se a tutti i livelli (senior, tutor, allievi) si è registrato un innegabile stato di indeterminatezza, se non di confusione, nella definizione delle singole strategie creative e soprattutto dei possibili nessi tra loro, il ‘mettere le mani in pasta’ ha fatto intuire (saltando immediatamente tutti i legacci teoretici) l’utilità di una, seppur iniziale e non del tutto chiara, collaborazione tra linguaggi espressivi: la curiosità, quindi, può essere considerata l’obiettivo principale ottenuto. È evidente che non si tratta di una operazione finalizzata alla nascita di nuove estetiche e che sarebbe fuori luogo prendere a riferimento la realizzabilità di una fantomatica “opera d’arte totale”: il problema non è costringere o annullare un linguaggio in un altro, ma imparare a sentire, percepire e praticare il fondo comunicativo “universale” che dà vita e forma alle diverse espressioni. Un progetto dunque con finalità esclusivamente educative al gusto e alla comunicazione attraverso la significazione artistica, che non si pone in alternativa ad una spe-cializzazione di tipo professionale, ma crede di poter offrire a quest’ultima una tavolozza ricca di suggerimenti e suggestioni creative.

Spunti finali

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Il concorso “un’opera per bambini” rappresenta la tappa finale e fondamentale nel percorso del progetto, perché ha previsto la creazione di applicazioni concrete nei campi di azione oggetto di PerformingArts: la musica e la scrittura.

Coppie di artisti, musicisti e scrittori, si sono uniti dunque nel comune sforzo di dare vita ad un linguag-gio vivo, comprensibile, semplice per la creazione di una vera e propria composizione per i bambini: una prospettiva, riteniamo, del tutto innovativa e nello stesso tempo rischiosa.

L’idea infatti è quella di mettere insieme più professioni, più categorie di persone che danno vita sinergicamente ad un’opera. Lo scrittore fa in modo che la sua parola possa comunicare con il suono, che il suo linguaggio prenda forma su quello del musicista, al quale viene richiesto lo stesso sforzo di immedesimazione creativa con l’operare del collega.

L’augurio è che queste brevi composizioni possano essere un contributo verso la riconquista di una sensibilità estetica unitaria e verso la riscoperta di un linguaggio artistico di nuovo capace di forza comunicativa.

Il concorso è stato presentato a maggio 2006 con un bando pubblico, a partecipazione gratuita ed aperto a musicisti e scrittori senza limiti di età.

I candidati hanno presentato entro il 30 ottobre 2006 delle composizioni, formate da musica e da testo in lingua italiana, della durata massima di 15 minuti l’una, da eseguirsi e realizzarsi con organici da camera.

Le opere sono state valutate da una giuria composta da cinque esperti del mondo culturale, musicale, giornalistico e dello spettacolo: Carlo Boccadoro (compositore) - Presidente; Luca Doninelli (giornalista e scrittore); Pippo Molino (compositore); Davide Rondoni (poeta); Giovanni Verrando (compositore).

I vincitori sono stati premiati con pubblicazione, incisione ed esecuzione pubblica dell’opera.

IL CONCORSO NAZIONALE “UN’OPERA PER BAMBINI”

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Direzione Generale Istruzione, Formazione e LavoroPiano di Informazione e Comunicazione FSE 2006

Istruzione, Formazione e Lavoro

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