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Settore Giovani Modulo Formativo per vicepresidenti diocesani 8 – 9 novembre 2014 Sbobinatura 8 novembre Gioele Anni. E’ bello rivederci tutti, dopo l’Assemblea, con qualcuno dopo il campo nazionale di Fognano. È bello salutarci e vivere il clima bello delle relazioni che da sempre sperimentiamo in Azione cattolica. Iniziamo a presentarci: prima Don Tony vi ha presentato Lucia e Michele che parleranno stamattina, a cui si aggiungono Adelaide, vice segretaria del Msac, e i consiglieri del Settore Giovani, che accogliamo con un grande applauso, Luisa (della diocesi di Locri-Gerace), Maria (Taranto), Leonardo (Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi), Manuel (Rimini) e Salvatore (Agrigento). Cominciamo questa mattinata, visto che stiamo parlando dei vice giovani, con un video, che ci parla di chi è il vice giovani attraverso tante voci da parecchie parti d’Italia (video). Penso che qualcuno si sia un po' riconosciuto in queste definizioni e forse Matteo si è riconosciuto in chi dice che il vicepresidente è il braccio destro del presidente. E così abbiamo visto un po’ di volti che ci parlavano di quella che è la vita di un vicepresidente, del vicepresidente come punto di riferimento, amico, persona responsabile, uno che non risponde mai al telefono, ecc. Cominciamo dunque questa mattinata proprio da una domanda che poniamo al nostro presidente Matteo. Nel servizio entra in gioco la vita quotidiana, chi fa servizio in Azione cattolica a tutti i livelli non può vivere con due vestiti: la giacca per quando fa il vicepresidente e la maglietta per quando invece vive la sua vita ordinaria. A Matteo volevamo chiedere, anche in virtù di quella che è stata la tua esperienza, che da pochi mesi si è arricchita di questo incarico: in che modo il servizio viene stimolato e riceve provocazioni dalla vita e come poi invece va anche ad arricchire la vita personale? Matteo Truffelli. (sbobinatura fatta da Gloriana) Gioele. Grazie Matteo per averci ricordato che la prima forma di servizio è vivere bene, che il servizio è prima di tutto responsabilità, poi ascolto degli altri, perché queste dimensioni possono essere tenute insieme da una ricerca di senso profondo che alimenti un po’ tutta la vita. Sicuramente anche per la tua citazione di Papa Francesco. Riascoltiamo molti stimoli che abbiamo condiviso anche all'Assemblea, in

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Settore GiovaniModulo Formativo per vicepresidenti diocesani8 – 9 novembre 2014

Sbobinatura 8 novembre

Gioele Anni. E’ bello rivederci tutti, dopo l’Assemblea, con qualcuno dopo il campo nazionale di Fognano. È bello salutarci e vivere il clima bello delle relazioni che da sempre sperimentiamo in Azione cattolica. Iniziamo a presentarci: prima Don Tony vi ha presentato Lucia e Michele che parleranno stamattina, a cui si aggiungono Adelaide, vice segretaria del Msac, e i consiglieri del Settore Giovani, che accogliamo con un grande applauso, Luisa (della diocesi di Locri-Gerace), Maria (Taranto), Leonardo (Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi), Manuel (Rimini) e Salvatore (Agrigento). Cominciamo questa mattinata, visto che stiamo parlando dei vice giovani, con un video, che ci parla di chi è il vice giovani attraverso tante voci da parecchie parti d’Italia (video). Penso che qualcuno si sia un po' riconosciuto in queste definizioni e forse Matteo si è riconosciuto in chi dice che il vicepresidente è il braccio destro del presidente. E così abbiamo visto un po’ di volti che ci parlavano di quella che è la vita di un vicepresidente, del vicepresidente come punto di riferimento, amico, persona responsabile, uno che non risponde mai al telefono, ecc. Cominciamo dunque questa mattinata proprio da una domanda che poniamo al nostro presidente Matteo. Nel servizio entra in gioco la vita quotidiana, chi fa servizio in Azione cattolica a tutti i livelli non può vivere con due vestiti: la giacca per quando fa il vicepresidente e la maglietta per quando invece vive la sua vita ordinaria. A Matteo volevamo chiedere, anche in virtù di quella che è stata la tua esperienza, che da pochi mesi si è arricchita di questo incarico: in che modo il servizio viene stimolato e riceve provocazioni dalla vita e come poi invece va anche ad arricchire la vita personale?

Matteo Truffelli. (sbobinatura fatta da Gloriana)

Gioele. Grazie Matteo per averci ricordato che la prima forma di servizio è vivere bene, che il servizio è prima di tutto responsabilità, poi ascolto degli altri, perché queste dimensioni possono essere tenute insieme da una ricerca di senso profondo che alimenti un po’ tutta la vita. Sicuramente anche per la tua citazione di Papa Francesco. Riascoltiamo molti stimoli che abbiamo condiviso anche all'Assemblea, in questo tempo di Chiesa bello, per tanti versi straordinario, eccezionale, che la nostra Associazione sta vivendo insieme a tutta la Chiesa. Un tempo in cui si chiede alla Chiesa di essere in uscita, di porsi in ascolto di questa vita; un tempo in cui all ’Azione cattolica Papa Francesco chiede di essere in uscita, di tradurre oggi, nel mondo, la scelta missionaria. Sono parole dell’Assemblea, tratte dal bellissimo discorso che Papa Francesco ci ha lasciato lo scorso 3 maggio, parole che rimandano a una felice definizione del presidente Franco Miano, che contestualizzava questo tempo di Chiesa e questo tipo di servizio, di impegno, che è richiesto all’Azione cattolica oggi, come un tempo in cui riconoscere il primato della vita, una vita che viene prima dell'idea, una vita che va ascoltata, che va compresa e tradotta in esperienze pastorali e associative in dialogo con la vita delle persone, con la vita quotidiana.

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Quindi, con Lucia e Michele, proveremo a tradurre questa scelta della vita, questo primato della vita, all’interno del Progetto formativo dell’Azione cattolica e all’interno della programmazione dell’attività pastorale che ci troviamo a svolgere ordinariamente. Prima però di lasciare la parola a Lucia e Michele li presentiamo: non lo faranno da soli, ma con una video-intervista doppia, così anche chi non ha avuto modo di conoscerli al campo nazionale potrà scoprire per che squadra tifa Michele oppure qual è il cibo preferito di Lucia. (video intervista di Lucia e Michele). Mamma che vice! Anche da queste cose si vede, dalla vita. Continuiamo la chiacchierata questa mattina cosi, cercando con Lucia e Michele di declinare il servizio del vice attraverso le quattro mete del Progetto Formativo, quindi interiorità, fraternità, responsabilità e ecclesialità. Dopo questo momento ci sarà la conclusione da parte di Matteo, poi faremo una pausa, dopo la quale potremo dialogare insieme attraverso domande e interventi, per chi volesse intervenire. Cominciamo, Michele, con l’interiorità. Partiamo ancora da quello che ci ha detto Papa Francesco il 3 maggio, consegnandoci tre verbi: “rimanere, andare, gioire”, dove però andare e gioire sono fortemente incardinati nel rimanere, nel rimanere in Gesù. Quindi la domanda che ti facciamo per iniziare è: qual'è la spiritualità, qual è il modo di vivere questo rimanere, nella tua esperienza di vice presidente?

Michele. Innanzitutto grazie, a nome mio e di Lucia per esserci, per il vostro servizio e anche il sacrificio che avete fatto per dedicarvi questo momento di formazione, ma soprattutto per tutti questi tre anni che verranno e che saranno anni belli, pieni, anche se con qualche fatica.

Inscindibilit à tra vita spirituale e missione Non c’è contrapposizione tra vita spirituale e missione: Papa Francesco ce lo ha ricordato con le tre parole, “rimanere, andare, gioire”. Senza rimanere non c’è andare perché altrimenti l’andare, l’uscire diventa un andare senza direzione e senza senso; senza contemplazione l’azione diventa attivismo, diventa fondata solo sulle nostre capacità, sulla nostra intelligenza, sul nostro saper fare e al primo insuccesso ci si scoraggia. Lazzati sintetizzava tutto questo molto bene: “salvaguardando l’inscindibilità tra azione e contemplazione si potrà diventare contemplativi nell’azione.”Allora che cos’è la vita spirituale del laico cristiano e del giovane di Azione cattolica? Non è una collezione di preghiere, non è un insieme di momenti spirituali, è vivere tutta la vita secondo lo Spirito cioè essere docili all’azione dello Spirito e lasciare che lo Spirito, a partire da tutto quello che accade dalle situazioni ordinarie, dalla mia vita, dalla vita delle persone che abbiamo accanto, ci interroghi e guidi le nostre scelte, guidi il nostro modo di leggere e interpretare le cose. Essere docili all’azione dello Spirito non è una cosa che si acquisisce una volta per sempre, è una sfida continua, è un compito quotidiano, perché ogni giorno ci tocca faticosamente chiederci: siamo stati docili o no all’azione dello Spirito?

Vita spirituale è ascolto ed è dialogo Dio ci parla attraverso la Sua Parola che illumina gli eventi della vita, ci aiuta a vedere la Sua presenza, i Suoi segni nella quotidianità. Però Dio ci parla anche attraverso tutto quello che ci circonda, ci parla attraverso la nostra vita, attraverso le nostre fragilità, attraverso i nostri desideri, le nostre inquietudini; ci parla soprattutto attraverso le persone che ci stanno accanto, chi ci sta più vicino, i nostri amici, i nostri familiari, i

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membri di equipe, ma anche attraverso le persone che volte incontriamo casualmente o attraverso le persone che ci fanno del male, che non ci vogliono bene. Vita spirituale è anche dialogo. È dialogo con Dio, un cammino a due: non è solo un chiedere, ma è anche tempo del racconto della nostra vita, è portare davanti a Dio i dubbi, le speranze e tutta la nostra vita, perché come ci ricorda il Progetto Formativo “la preghiera prende dall’esistenza prende dalla vita, contenuto, prende colore, prende motivi per una lode concreta e nostra per rendere grazie a partire dai doni di cui sono piene le nostre giornate.” (Capitolo 4, par.1, Interiorità)E per ascoltare occorre aprire il cuore, occorre un cuore che sa fare silenzio, perché è là che sta la sete di cose grandi, di cose belle, di una vita piena e con il silenzio (che non significa stare zitti) impariamo a conoscere noi stessi. Quindi è importante fermarci, pregare, pensare, chiamare per nome, le nostre fragilità: così impariamo a trovare la presenza del Signore nella nostra vita.

Vita spirituale come tempo del discernimentoÈ tempo e spazio del discernimento, è tempo e spazio in cui impariamo a fare discernimento su tutta la nostra vita, su tutte le dimensioni della nostra vita, sulla vita personale, il servizio, la vita lavorativa, ed è un discernimento che ci permette di fare sintesi tra le diverse dimensioni della vita. Diceva prima Matteo che le diverse “parti” della nostra vita non devono essere messe a fianco come un gioco ad incastri ma è fondamentale fare sintesi tra le diverse dimensioni della vita e in questo ci viene in aiuto una vita spirituale profonda. È da una vita spirituale profonda che impariamo a mettere insieme vita personale, servizio, vita associativa, vita lavorativa. Quale deve prevalere? Non esistono gli equilibri per sempre, non diciamo una volta per tutte: va beh, io dedico due ore a questo, due giorni a questo, e due giorni a questo, ma una vita spirituale ordinaria, profonda e seria ci aiuta a mantenere sempre i giusti equilibri, a dedicare sempre a ogni aspetto della nostra vita il giusto tempo, le giuste energie; ci aiuta a non diventare schiavi delle cose da fare e a non staccare la spina. Infatti, spesso, viviamo la vita spirituale come il momento per staccare la spina, per chiuderci da soli e non pensare a niente: no, la vita spirituale del giovane di Azione cattolica è proprio il momento in cui guardiamo pienamente e profondamente alla nostra vita, è il momento in cui non stacchiamo la spina. E anche se è sempre difficile, soprattutto per tutti noi che dedichiamo tanto tempo al servizio associativo, mantenere il giusto equilibrio tra la vita spirituale e l’azione, l’Ac ci insegna da sempre che è importante sforzarci nel farlo. E il Papa ce lo dice nell’Evangelii Gaudium: “evangelizzatori con spirito significa essere evangelizzatori che pregano e lavorano perché non servono né le proposte mistiche senza un forte impegno sociale e missionario, né le prassi sociali e i discorsi senza una spiritualità che trasformi il cuore” (EG 259). E’ per amore di Dio e dei fratelli che noi facciamo le cose di tutti i giorni, e fare le cose come Dio vuole, perché le vuole Dio, è possibile solo attraverso una vita spirituale piena, ed è così che pregare e agire non sono che due momenti di una stessa relazione d’amore con Dio e con gli altri, con le persone che ci stanno accanto.

La dimensione comunitaria della vita spiritualeL’Ac ci mette a disposizione diversi strumenti. Ci sono diverse persone che ci aiutano e ci possono accompagnare, a partire dagli assistenti. Gli assistenti non sono solo quelli che presiedono la celebrazione oppure non sono quelli che magari alcune volte ci sostituiscono, perché loro non hanno niente da fare e noi abbiamo tante cose da fare,

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sono dei compagni di strada, dei fratelli di fede che vivono in pienezza l ’ associazione per accompagnarci e per accompagnarci l’un l’altro.La vita spirituale non è mai un’esperienza da vivere da soli, è sempre esperienza di condivisione, esperienza di Chiesa perché vita spirituale è anche vivere relazioni belle, piene, profonde e vere. Vivere l’amicizia con gli altri alla luce dello Spirito in maniera pura e disinteressata è già vita spirituale, e anche quando preghiamo da soli nella nostra camera non preghiamo mai solo per le nostre esigenze, ma ci facciamo sempre carico delle attese, delle vite, delle necessità degli altri, di chi conosciamo e di chi non conosciamo. La dimensione comunitaria della vita spirituale va anche curata, in quanto vice, a livello di equipe e di consiglio diocesano, affinché siano luoghi di ascolto profondo dello Spirito, non solo luoghi di organizzazione, di cose da fare, di cose da pensare per gli altri. Ma è importante che in equipe e con i responsabili parrocchiali che incontriamo ci siano dei tempi e degli spazi dedicati in cui curare la vita spirituale, e i vice e l’assistente si devono fare garanti di questo equilibrio e di questi tempi-Allora gli esercizi spirituali, i momenti di ritiro, la preghiera, l’ascolto della Parola insieme come equipe non sono tempo perso e sottratto alle cose da fare, all ’incontro da organizzare. è da questo stile che anche le parrocchie imparano a impegnarsi per la cura della vita spirituale.

La vita spirituale comunitaria come ricerca e raccontoNella vita spirituale comunitaria è importante curare due dimensioni: la dimensione della ricerca e la dimensione del racconto. La dimensione della ricerca è aiutarsi e aiutare a partire dalla Parola, a cercare insieme i segni di Dio in questa storia, in questo tempo di servizio associativo che stiamo vivendo insieme, e in questo modo ci alleniamo a stare sempre al passo, a stare sempre al passo con la vita e con i bisogni concreti delle persone che serviamo e a non farci dominare da due estremi entrambi negativi: il si è fatto sempre così oppure la foga di dover cambiare a tutti i costiIl discernimento comunitario ci allena alla virtù della pazienza e ci fa attendere i tempi del Signore; ci fa pregustare il valore relativo del nostro servizio, perché non siamo noi a dover salvare il mondo; ci immunizza anche dalla superbia di voler vedere i risultati del nostro impegno subito. La vita spirituale è racconto: non bisogna mai escludere la propria vita personale dall’esperienza del gruppo. È importante raccontarsi, mettere nella vita dell’equipe tutta la propria vita perché non ci sono due vite, non c’è una vita personale e una vita associativa, la mia vita personale non è estranea non può essere estranea alla vita associativa anzi in un modo o in un altro influenza il servizio, dà corpo al servizio.E poi come responsabili diocesani siamo comunque responsabili della vita spirituale ordinaria dei giovani e dei giovanissimi delle parrocchie. In modo diretto, di quelli che incontriamo o conosciamo; in modo mediato, curando la vita spirituale dei responsabili parrocchiali.

La cura della vita spirituale dell ’ equipe e dei responsabili parrocchiali Allora, come con l’equipe è importante promuovere una vita spirituale forte, così anche nei momenti diocesani per responsabili parrocchiali, per aiutarli a comprendere che è importante una vita spirituale seria e poi presentare tutti gli strumenti che l’Associazione mette a disposizione in questo senso. Non presentarli per vendere delle copie ma perché crediamo che siano uno strumento importante e valido per la vita dei giovani e dei giovanissimi. Per una vita spirituale matura, è fondamentale avere una

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regola di vita personale, che ci aiuta a pregare, a condividere, a offrire una testimonianza di vita cristiana bella. Il nostro essere giovani di Ac dà corpo, dà senso alla nostra regola di vita e allora l’Associazione mette a disposizione degli appunti per costruire una regola di vita, perché sebbene la regola di vita è personale, possono servire delle tracce per accompagnarne la costruzione.

Un responsabile ed un educatore che accompagnaNoi incontriamo anche dei giovani e dei giovanissimi da accompagnare, allora vi lascio quelle che secondo me sono le caratteristiche di un educatore e un responsabile che accompagna. E’ un responsabile che sa conoscere e pregare, sa ascoltare e sa essere prossimo, sa essere discreto perché non si sostituisce alla libertà di scelta delle persone, sa essere testimone e propositivo perché le scelte sono suscitate anche dagli stili di vita delle persone che incontriamo e poi sa condividere la vita vera delle persone, sa soffrire per l’altro. Solo se noi sapremo soffrire per l’altro, prenderci a cuore l’altro, riusciremo davvero ad accompagnarlo, altrimenti saremo soltanto dei funzionari che fanno il loro “compitino” e se ne vanno a casa.

Gioele. Grazie Michele, grazie anche per la forza con cui hai parlato di questa vita spirituale che è veramente anima profonda della quotidianità di una laico, di un giovane di Azione cattolica. Mi piaceva molto questa espressione che hai usato, la capacità di gustare il relativo dentro la vita spirituale. Prima Matteo ci diceva: siamo in una società dove ci si fa da soli, dove ci dicono devi avere sempre tutto subito, è bello invece anche pensare una vita dove si gusta il relativo e si capisce che il relativo non ci diminuisce ma è la vera pienezza di quello che possiamo fare, appunto perché non ci è concesso di realizzare e di ottenere tutto immediatamente. Lucia, passiamo alla seconda meta di cui vogliamo parlare oggi che è la meta della fraternità. E allora ti chiediamo che cos’è la fraternità oggi nella vita di un giovane di Ac, che cos’è la fraternità per un vice giovani di Ac?

Lucia. Innanzitutto vi rubo qualche secondo per salutarvi, dato che non l’ho ancora fatto, e vi chiedo scusa se sarò un po’ emozionata mentre parlo. Quando sono entrata questa mattina in sala sono stata colta da una grandissima emozione, e da un pizzico di agitazione, ma so che accoglierete anche questo!

Amare se stessi per amare gli altriQuando penso a cosa significhi fraternità per me, non posso che affidarmi per prima cosa al comandamento “Ama il prossimo tuo come te stesso”, che è fatto di due parti. La prima è “ama il prossimo tuo”: chi di noi non riconosce l’importanza di amare il prossimo, non lo vive esattamente come il comandamento che è, come qualcosa che va fatto, un imperativo morale. Eppure a volte l'amare chi ci circonda, riconoscendo l'assoluta importanza di questo stile, va a scontrarsi con la problematicità del vivere quotidiano. Non è facile essere fratelli gli uni degli altri, è inutile che ce lo nascondiamo! Voler bene agli altri, che magari hanno dei difetti, che ci danno fastidio, non è per nulla facile! Dobbiamo allora preoccuparci seriamente se assumiamo uno stile di gentilezza e carineria verso gli altri, dimostrando nei loro confronti un sentimento di bene che, in realtà, nasconde sotto di sé la voragine dell'insofferenza. Significa che ci stiamo appiccicando in volto una maschera, la maschera di chi vuole mostrarsi bravo, buono, di chi si atteggia da fratello senza essere mosso da un profondo desiderio del cuore.

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La chiave per vivere profondamente uno stile di fraternità è allora quella seconda parte del comandamento, quel “come te stesso” che a volte dimentichiamo. E qui ci dobbiamo chiedere: ma noi, volgiamo bene a noi stessi? Abbiamo cura di noi stessi? Ci teniamo all’unità della nostra persona? Il Progetto formativo, quando parla di fraternità in riferimento appunto alle relazioni, cap.4 par.2, ci dice che la fraternità si basa sulla ricerca dell’unità e sul rispetto dell’altro; eppure non ci può essere ricerca dell’unità e rispetto nelle relazioni se noi con noi stessi facciamo a pugni ogni giorno, se non accogliamo i nostri difetti, se non accettiamo che ci siano delle zone ombra nella nostra personalità, nella nostra anima, se non l’accettiamo in un’ottica di miglioramento, di lavoro su noi stessi, di crescita. Infatti, se non le accettiamo, se non ci facciamo i conti, potrebbe poi capitare che quando usciamo di casa con un sacco di pensieri in testa, arrabbiati con noi stessi per una qualsiasi situazione che stiamo vivendo, e incontriamo l’amico, il fratello, il compagno ecc., magari facciamo lo sforzo di essere gentili e gli chiediamo come sta, ma poi siamo così presi dai nostri pensieri che non ci rendiamo neanche conto della risposta che ci da. La fraternità diventa dunque una patina, perché non siamo ancora disposti ad accogliere in profondità la vita dell'altro. Ecco dunque che il comandamento raggiunge la sua pienezza di significato e diventa strada praticabile e praticata nella nostra vita nel momento in cui facciamo pace con la nostra interiorità, curiamo la nostra spiritualità. Non c'è vera fraternità senza cura della vita interiore e non c'è vita interiore ricca che non trovi sbocco e fonte naturale nel rapporto con gli altri. È dunque nel momento in cui viviamo una profonda dimensione di interiorità che riusciamo a vivere pienamente con gli altri, a volere il loro bene, a interessarci degli altri come di noi stessi e riusciamo a superare il cliché del volersi tutti sempre bene.

Dalle piccole cose dell'altro alle piccole cose per l'altroÈ vero che uno stile di vita da fratelli implica anche grandi gesti, sacrifici importanti per l'altro, ma il più delle volte mostra il suo volto più intenso nell'ordinarietà. Il Progetto formativo, cap.4 par.2, ce lo dice bene: la fraternità vive, si manifesta, si nutre dell’ordinario, e l’ordinario è attenzione ai dettagli dell’altro, alle piccole cose. Un po’ di tempo fa Gioele mi ha fatto conoscere un album di Fabi-Silvestri-Gazzè, Il padrone della festa, in cui c’è una canzone che mi ha rapito il cuore, che è Il Dio delle piccole cose e che dice: “di Sara ricordi soltanto il vestito bianco e trasparente, ma hai perso per strada il rossore e il sorriso di chi fa finta di niente; chissà se qualcuno l’ha colto quell’attimo in cui le impazziva il cuore... ci vuole fortuna, magia, un prestigiatore! Io spero che esista anche un Dio delle piccole cose, che sappia i silenzi mai diventati parole, che sappia i gradini di pietra e le estati scoscese, quel nome che hai proprio lì sulla lingua e non viene”. Ecco, penso che fraternità sia davvero essere in grado di cogliere il rossore e il sorriso di chi fa finta di niente, l’attimo in cui a chi ci passa accanto impazzisce il cuore, avere occhi capaci di posarsi davvero sull’altro. D’altra parte nel Vangelo di Marco, cap.10, troviamo questo versetto: “Gesù fissò lo sguardo su di lui e lo amò”. Mi soffermerò innanzi tutto su quel "fissò lo sguardo", perché se tu una persona non la guardi non le puoi voler bene, ed è quindi dall’attenzione ai dettagli dell’altro che poi può nascere l’attenzione al dettaglio per l’altro, quella vena creativa e progettuale che trasforma il voler bene all'altro nel volere il bene dell'altro. Solo vivendo realmente con qualcuno, condividendo la vita, è possibile sapere di che cosa ha bisogno, capirlo, vederlo, scoprirlo. E a quel punto,

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viene naturale cercare quel dettaglio, quella cosa, piccola o grande che sia, che può davvero farlo stare bene, che può farlo sentire amato.

Uno sguardo limpido sull'altroIn questo il Papa ci insegna tanto, quando, ad esempio, nell ’Evangelii Gaudium, al n.169, ci dice: “in un mondo in cui tutti hanno uno sguardo morboso verso gli altri alla ricerca dei dettagli sordi, alla ricerca del pettegolezzo, siamo cristiani che guardano l’altro per amarlo, siamo cristiani che si interessano all’altro non per secondi fini”. È molto duro in questo il Papa. In questo periodo sto rileggendo l ’Evangelii Gaudium e a volte mi fa sentire piccola così, perché mi riesce a dire le cose con una chiarezza tale da non sapere proprio dove nascondermi. Ecco allora chiediamo la grazia e impegniamoci ad avere questo sguardo limpido per guardare l ’altro, il dettaglio dell’altro, per sognare il dettaglio che può far sentire l’altro amato.

Imparare a perdere tempo, anche in AcLa fraternità, visto che siamo vice presidenti, è anche una dimensione da curare con particolare attenzione nell'ambito del nostro servizio. Si tratta di un elemento importantissimo per la vita di Settore, e non è qualcosa che si possa insegnare, è qualcosa che si vive attraverso delle esperienze. Quindi, per coltivare la dimensione della fraternità in Associazione, bisogna darsi del tempo, perdere del tempo con gli altri. Matteo faceva riferimento all’accidia pastorale e rileggendo quel punto, il punto 82, il Papa si riferisce in particolare all'accidia pastorale che nasce dal mancato contatto con la gente. A volte siamo così presi dai ritmi dettati dalla tabella di marcia che non ci fermiamo neanche a salutare le persone, a parlare con loro. La scommessa, dunque, è quella di darsi a livello di equipe, di consiglio, di incontri diocesani, dei tempi non per fare ma per vivere assieme fino in fondo. Crearsi momenti in cui ci si mette a confronto, in cui si condivide la propria vita indipendentemente da quella che è la vita associativa, in toto, per riscoprirci fratelli in semplicità.

Gioele. Grazie Lucia. Fraternità è superare i cliché del volersi sempre tutti bene, è ribellarsi alla statistica, come cantano in un'altra canzone dello stesso album che hai citato tu Fabi, Silvestri e Gazzè. In mezzo ai grandi numeri, è riuscire a guardare l'altro negli occhi. Poi il presidente mi ha detto che quando facciamo citazioni musicali dobbiamo migliorare...no, dai! Dopo la fraternità la meta successiva è quella della responsabilità. Torniamo da Michele: mentre le prime due mete sono più intra associative, la responsabilità ci porta pienamente dentro a quella che è la dinamica di una Chiesa in uscita. Che cosa vuol dire oggi essere segno di responsabilità? Proprio la settimana scorsa qui a Roma c’è stato l’evento di Libera e Contro mafie e Don Luigi Ciotti continuava ad insistere su questa responsabilità, la responsabilità del cristiano che davanti al mondo è chiamato a dare un risposta. Allora Michele ti chiediamo: in che modo oggi come giovani di Azione cattolica possiamo declinare questa responsabilità se vogliamo essere segno inflessibile di responsabilità nella nostra società e nel nostro mondo?

Michele. Siamo in un tempo che ci invita a fuggire dalla responsabilità, in cui quasi nessuno parte dai propri errori, è sempre colpa dell’altro, però senza responsabilità non si cresce, né come cittadini, né come comunità e né come Associazione. Io penso che ci sia una dimensione della responsabilità che noi troppo spesso mettiamo in secondo

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piano. Non serve pensare alla responsabilità come a un insieme di cose da fare, come un dovere, ma responsabilità è innanzitutto un dare una risposta, un prendersi carico della vita degli altri, un dare conto delle nostre scelte. Don Luigi Verdi scrive: “Il puro esistere dell’altro mi chiede di non fuggire, di essere per lui risposta” (Il domani avrà i tuoi occhi), e la dimensione fondamentale quindi del nostro essere responsabili nella Chiesa, nell’Associazione, nella vita da cittadini e la relazione, non è il dover fare qualcosa, e questo è importantissimo perché ci libera anche a livello associativo da tanti problemi, da tanti problemi che ci facciamo quando magari finisce il nostro incarico, ci sentiamo quasi come persone che non hanno più niente da fare, la responsabilità non è limitata come qualcosa da fare, non è limitata dal tempo ma è una risposta per sempre alla vita dell’altro, è una risposta per sempre alla vita e alla felicità dell’altro perché ci sarà sempre qualcuno che mi sta accanto e di cui sono responsabile e per il quale devo essere la risposta, e, la responsabilità è da vivere oggi, innanzitutto oggi, oggi è il tempo fondamentale per vivere la responsabilità, per farci santi, oggi è l’occasione per rispondere. Quindi, come dicevamo prima siamo chiamati da un lato a leggere i segni dei tempi, a leggere la storia che a volte sembra quasi scorrerci davanti e non toccarci per niente e siamo chiamati ad abitare i luoghi, ad abitare i luoghi non solo ecclesiali non solo interni ma ad abitare, i luoghi della vita di tutti i giorni, della vita quotidiana, dove ognuno di noi vive per la maggior parte del suo tempo spero, dove lavoriamo, dove studiamo dove magari non siamo attesi a priori, dove non siamo attesi a priori come al gruppo del venerd ì in parrocchia dove sappiamo che dobbiamo andare dove c’è qualcuno che ci aspetta, dove magari diamo anche fastidio, dove magari c’è una comunicazione, ci sono dei linguaggi, ci sono dei tempi di cui non deteniamo il comando, e, che non possiamo comandare e sceglierci a priori come quando prepariamo un incontro, come quando prepariamo un’ equipe, e stare nella strada è una scelta obbligata, significa scegliere tutto il vissuto tutta l’umanità che la popola, significa impastarci pienamente e totalmente con la storia e con la vita delle persone che la abitano, significa quasi pericoloso, perché significa uscire dai nostri schemi e dalle nostre sicurezze che magari ci costruiamo nell ’ambiente parrocchiale all’ombra del campanile. E abitare luoghi significa abitare nel concreto la città, significa starci dentro, significa partecipare alle dinamiche della vita civile, alla vita del territorio, conoscere la vita delle istituzioni, questo a volte è faticoso perché sappiamo che la vita democratica, la vita delle istituzioni una vita a volte lenta, a volte nemica dell’efficienza, però significa imparare ad abitare questi spazi ad dare corpo a questi spazi e significa una testimonianza concreta, ogni giorno chiederci se le nostre scelte sono conformi al Vangelo, e, quindi leggere e informarsi su quanto accade per vivere una cittadinanza consapevole. Scegliere sempre a partire dalla propria vita a partire da una cosa che può sembrare banale come lo scontrino, la legalità, fare scelte di consumo, di risparmio consapevole, attento. E poi la vita associativa ce ne fa fare esperienza, non si può essere responsabili se non insieme agli altri. La responsabilità si fa corresponsabilità quando scopriamo che non può essere vissuta da soli, ognuno a curare la propria vita a curare il proprio orticello, ma è una questione che ci interpella tutti quanti, ci interpella come Chiesa che ci interpella come cittadini, ci interpella come comunità, e l’Associazione in questo di per sé è una scelta profetica, importante, da valorizzare, da dire, da contare, sia io che Lucia lo dicevamo nell’intervista perché ci insegna a scegliere, ci insegna a scegliere in un tempo in cui la scelta viene vista come una fatica inutile, tanto è uguale, tanto io non conto niente. In Associazione a partire dall’andare o meno al gruppo, dal partecipare o meno all’incontro, dal votare quello o quell’altro responsabile impariamo che la scelta è

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importante, e da qua deriva tutta l’importanza della democraticità in Associazione, e poi ci insegna a vivere da corresponsabili perché in Associazione aspiriamo a far vincere sempre il noi sull’io, sull’io e tu, dall’io e tu al noi, in una logica per cui ognuno si arricchisce dal dare qualcosa all’altro. Questo che impariamo in Associazione ci invita come vice ci fa capire che non si può essere responsabili se non assieme, e quindi siamo chiamati a creare a curare legami sul territorio, legami con le altre associazioni ecclesiali, non, con le istituzioni, con tutti i soggetti che in qualche modo abitano il territorio, che in qualche modo si spendono per la città, a livello istituzionale perché non succeda che ci sia un legame con un’Associazione con un’istituzione finché sono responsabile io perché ci sono amico, ma sia un legame che prosegua nel tempo, che sia un legame che giovi al settore, che giovi all ’Associazione ma anche sostenuto da una relazione personale, da un’amicizia personale, e, allora è importante e fondamentale partecipare ai momenti organizzati dagli altri, invitare le associazioni ai nostri momenti, conoscersi, promuovere momenti formativi insieme, sforzarsi a fare rete, è sempre uno sforzo è sempre una fatica perché significa sempre abbandonare magari quello che noi ci eravamo preordinato, significa sempre una mediazione però non è tempo perso, non è cedere il passo non è mettersi in secondo piano, e, allora questo stile di fare le cose insieme in Associazione è uno stile che va importato, è il contributo più grande che possiamo dare a una consulta dei giovani, a un forum delle associazioni perché l’essere insieme in associazione ci porta ad assumere questo stile. Diceva Scalfaro ex Presidente della Repubblica, associativo dell’Azione cattolica, non aveva mai dimenticato la spilletta dell’Associazione sulla giacca, l’Ac costringeva in qualche modo a stare assieme e già questo è un grosso contributo al bene comune, non c’è uno che decide per tutti, il dialogo costa fatica, necessita dei suoi tempi, ci fa perdere efficienza ma alla fine paga, e, allora è questo che dobbiamo portare alla vita delle associazioni con cui creiamo legami, a tutte le istituzioni con cui creiamo legami, ai tavoli a cui partecipiamo. Come vice, anche qui, siamo responsabili del settore e dobbiamo accompagnare il settore a una consapevolezza nuova, sulla responsabilità sull’attenzione alla città facendo entrare il bene comune nel cammino ordinario dei nostri gruppi, essere come settore spazio in cui si coltiva l ’interesse e l’attenzione al bene comune. La politica, la democrazia, la partecipazione non possono non toccarci, non possono stare al latere del nostro cammino, non possono essere l ’oggetto solo del modulo di responsabilità perché poi nell’interiorità parliamo di altro poi quando arriva la responsabilità ce ne ricordiamo oppure quando facciamo il momento pubblico, ma l’attenzione alla città la responsabilità per il territorio è un punto fondamentale del cammino di Azione cattolica, è ciò che caratterizza il nostro essere laici, non può essere un appendice. Allora siamo chiamati a suscitare la passione per la cittadinanza, è importante, è bello l’impegno politico diretto, è importante che ci siano vocazioni all’impegno politico diretto, ma è ancora più importante fare crescere e alimentare in tutti la passione per la cittadinanza la passione per la città, far capire che la città ha bisogno del nostro contributo e che è un nostro dovere come nel concreto? Tocca a noi stimolare le realtà parrocchiali a fare questo, ad abitare il territorio a fare rete, a conoscere la vita del territorio a vivere il territorio, ad essere capaci di stare nelle piazze senza paura senza arroganza, non da maestri ma da compagni di strada. Aiutare le parrocchie a fare rete con gli altri soggetti del territorio, come noi a livello diocesano così i responsabili parrocchiali nelle parrocchie, e mettere a disposizione quei legami che si creano a livello diocesano con le associazioni per creare una proposta formativa sui temi sociali è necessario fare rete, è necessario collaborare con

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chi di cittadinanza di partecipazione ne sa più di noi, dialogo aperto e approccio plurale senza schemi chiusi senza chiusure e poi mettere in circolo tutte quelle buone prassi di partecipazione di cittadinanza di interessi al bene comune al sociale che stanno nelle diocesi, è chiaro che a volte già nella stessa diocesi ci si fa fatica a conoscere, poi promuovere il dialogo con le istituzioni, ,e questo si fa innanzitutto a livello locale da cittadino parrocchiale, così essere luogo profetico per interrogare le istituzioni sulla vita sui bisogni delle persone.L’ultima cosa è l’importanza dei movimenti. Promuovere nelle nostre diocesi, i movimenti Msac, Mlac ma anche la Fuci, non solo per stare negli ambienti di vita ma anche e forse soprattutto per portare la vita degli ambienti la vita delle persone che abitano gli ambienti in quella dell’Associazione. Chiudo con una citazione di Don Tonino Bello: “Amate il mondo, fatevi compagnia e adoperatevi perché la sua cronaca di perdizione diventi storia di salvezza, assumetevi le vostre responsabilità, rifuggite dalla delega facile con cui spesso vi siete sottratti alla laicità, siete chiamati anche voi alla missione sacerdotale, solo se avrete le mani pure potrete lasciare l’impronta del crisma sulle realtà terrene e portarle così verso il regno, diversamente invece che cresimare il mondo lo imbratterete e invece che rinnovare la faccia della terra ne accentuerete le rughe e ne moltiplicherete le macchie”.

Gioele. Grazie Michele, grazie per averci ricordato che la responsabilità non si fa mai da soli, non si è soli contro tutti, la si fa in gruppo, la si fa con la comunità. Penso che sia bello anche vedere in questo tempo di Chiesa in uscita che con lungimiranza la nostra Associazione aveva già nel suo stile, ha sempre avuto nella sua storia, questa grande attenzione all’uscita che sicuramente va aggiornata, ha bisogno di essere riscritta con parole, con azioni, con gesti nuovi. Penso all’idea dei Movimenti che appunto sono espressione concreta dell’Associazione sulle strade del mondo. Penso a tutta quella che è la nostra sensibilità rispetto alla responsabilità e che ci dice di come veramente abbiamo un grande tesoro su cui siamo seduti e che siamo chiamati a coltivare ogni giorno. L’ultima meta, cara Lucia, è quella dell’ecclesialità: che cosa vuol dire oggi essere Chiesa, che cosa vuol dire vivere l’ecclesialità nella Chiesa di Papa Francesco? Parliamo di incontro e di comunione, e quindi come, secondo te, l ’ufficio giovani, come le nostre diocesi possono coltivare questa dimensione dell’ecclesialità?

Lucia. Pensando alla Chiesa, pensando alla dimensione dell’ecclesialità, non posso prescinderla dalla comunione. Quello di comunione è un concetto strano perché implica il fatto che ci sia un incontro tra delle diversità, eppure le diversità a noi fanno paura. Quando una persona la pensa in modo diverso da noi, istintivamente identifichiamo questa situazione come un problema. Spesso siamo dunque portati a sperare che più che di comunione, la nostra vita goda di una bella brezza di omologazione, in cui tutti a poco a poco si finisca per pensare allo stesso modo. Pensarla allo stesso modo, quando si parla di fede, nasconde però il rischio che la fede sia per noi relegato a qualcosa di astratto. Quando si trattano i massimi sistemi, infatti, di base più o meno siamo tutti d’accordo. La diversità entra in gioco quando poi le cose si vivono ed è segno del fatto che ognuno di noi si perde una parte di questa verità, che è Dio. Se io la penso in modo, tu la pensi in un altro, l’altro la pensa in un altro ancora, effettivamente ciò significa che ognuno di noi si sta perdendo un pezzettino.

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Eppure la stessa situazione può essere letta da un punto di vista completamente ribaltato, secondo quanto scrive Michel De Certeau in Mai senza l’altro: “Se è vero che le nostre divisioni devono farci percepire il nostro misconoscimento di Dio è altrettanto vero e altrettanto certo che ogni presa di posizione fa riferimento al verbo che si fa carne, all’infinito che si dona al sacramento dei nostri atti particolari e allo spirito che costruisce l’uomo risvegliando la sua libertà nel suo condizionamento”. Il cristiano non ha semplicemente il permesso, piuttosto l’obbligo di prendere posizione se vuole vivere e scoprire di persona ciò che crede. La diversità diventa così fede che si fa carne, professione non solo di qualcosa di astratto che è stato imparato a catechismo, ma vita, sporcarsi le mani, fare esperienza di fede e non solo conoscenza di fede. E allora la diversità è una benedizione e proprio perché è quello spirito che parla di ognuno di noi, che soffia in modo particolare ad ognuno di noi, che ci porta a fare percorsi di fede a vivere vite di fede diverse l’uno dall’altro. E allora la comunione è quell’atto di amore che noi facciamo gli uni gli altri perché, assieme, mettendo in circolo le nostre esperienze di fede, ci aiutiamo a superare quella che è l'inesattezza, la piccolezza della nostra esperienza per fare un passo un pochino più avanti verso la verità che è Dio. Pur sapendo che Egli ci sfuggirà sempre nella sua interezza, ma che assieme abbiamo la possibilità di avvicinarci a Lui un po' di più. Dunque, costruire la comunione in quest’ottica della diversità come benedizione significa ascoltare l’altro non per rispondere, e noi spesso ascoltiamo l’altro per capire che cosa possiamo rispondergli, come possiamo agganciare il nostro modo di vedere le cose al suo per fargli capire che il nostro funziona, quindi ascoltare non per rispondere ma per capire, per capirlo, perché si intuisce che nell’altro c’è l’azione dello spirito; e in questo Maria ci ha insegnato tutto, basti pensare a quando nel Vangelo troviamo tante e tante volte la frase "e Maria custodiva tutte queste cose nel suo cuore". Quanto, dunque, noi siamo in grado di custodire l’altro, quello che ci dice, quello che è, nel nostro cuore, senza voler dire sempre l’ultima parola? Dal canto mio, io sono una specialista nel dire l’ultima parola, lo ammetto. Eppure questo è il primo passo della comunione: ascoltare l’altro per custodirlo, per capirlo. Ecclesialità è prender parte prima di tutto alla vita della parrocchia. Spesso, quando siamo chiamati a fare i vicepresidenti, abbiamo una tale mole di cose da fare che ci diciamo: "io questo triennio faccio il vicepresidente diocesano, sono impegnato nei consiglio, nelle presidenze, nelle equipe, vivo la dimensione diocesana, collaboro con la pastorale; non ho tempo di andare in parrocchia!" Dobbiamo essere attenti però, perché è vero che ci vogliono dei no responsabili a volte per arrivare a dei s ì che portino frutto, ma questo ragionamento non deve diventare una scusa per non vivere più la dimensione parrocchiale. Noi infatti siamo cristiani prima di tutto nel territorio, nella realtà in cui viviamo; il che non significa per forza avere ruoli di responsabilità in qualsiasi posto mettiamo piede, piuttosto vivere, vivere le esperienze parrocchiali, andare a Messa, chiacchierare con la signora che va a fare le pulizie in Chiesa, significa andare a dire al parroco “Tutto bene, ci sono, come va? Come vanno le cose? Come va con i giovani in oratorio?", significa esserci nella semplicità. Poi, essere vice, vivere la dimensione dell’ecclesialità come vice significa anche farlo a livello diocesano, che non è una cosa facile. Vivere la dimensione dell’ecclesialità a livello diocesano significa innanzitutto costruire relazioni che si basano sulla fiducia reciproca. Quello che diceva Michele è molto vero e molto importante: bisogna andare oltre al rapporto personale, di modo che i legami positivi non dipendano da me come persona ma diventino patrimonio della realtà diocesana, durino e si fortifichino al di là del tempo in cui sono chiamato a servire io. È necessario lavorare per creare relazioni

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tra le associazioni all’interno del grande panorama ecclesiale, nella consapevolezza che ogni associaIone, movimento, gruppo porta nel cuore una dei tanti doni dello spirito; è chiaro anche che non si può procedere ad una completa spersonalizzazione in cui non ci sono relazioni tra persone, ma solo tra strutture! Perché le relazioni tra associazioni si creano se alla base ci sono relazioni buone tra le persone. Se cominciamo a mostrare agli altri la bellezza di ciò che siamo, iniziamo ad apprezzarci a vicenda, e, sulla base delle fiducia che si è creata, impariamo a raccontare e a far fare esperienza della vita associativa che conduciamo; infine aiutiamo gli altri a riconoscere che questo bello che ci portiamo con noi non dipende da noi, ma è patrimonio che ritroveranno in chi accoglierà la chiamata al servizio dopo di noi. Non abbiamo nulla da insegnare, sappiamo che ogni percorso porta a Dio: questo è importante tenercelo sempre in mente, perché è troppo facile fare guerra tra noi. Il Papa ce lo dice, nell’Evangelii Gaudium, n.98-99-100, per dirne tre ma ce ne sono altri 20.000: non fate guerra tra di voi! Ce li spiattella lì i nostri vizietti. Noi abbiamo un percorso bello e profondo da raccontare, e possiamo farlo se sappiamo metterci in ascolto delle esperienze che ci sono all ’interno del panorama ecclesiale diocesano, con umiltà; sennò che idea di Associazione diamo, se andiamo lì ad insegnare che l’Ac è questo, quello e quell’altro ancora? Diamo l’idea di un’Ac monolitica, di un Ac che si crede più importante di tutto il resto, l’unica via per la salvezza. Invece l’Ac è luogo - proviamo a pensare alle nostre esperienze - l’Ac è luogo in cui ci si ascolta a vicenda, in cui si condivide, in cui si cresce grazie all’altro, in cui ci si mette al servizio; questa è l’Ac e allora questo noi dobbiamo essere quando ci mettiamo in contatto con le altre realtà ecclesiali: gente che ascolta, gente che cresce assieme, gente che si mette a servizio... questo è dire cos’è l’Ac (ovviamente senza farci togliere la nostra identità, perché poi c'è anche il rischio che serviamo, serviamo, serviamo e arriviamo a non ci ricordarci più chi siamo). Metterci onestamente e serenamente in relazione con gli altri con lo stile di Ac è la migliore pubblicità che possiamo fare all’Associazione. I carismi autentici, ce lo dice il Papa, puntano alla comunione. Se il nostro organismo associativo è autentico il nostro obiettivo sarà la comunione, perché volersi mantenere ognuno nel proprio brodo è una debolezza. Il Papa ci dice anche che è fondamentale il rapporto con la Chiesa locale, al 29 dell’Evangelii Gaudium: mettersi al servizio della Chiesa locale, in dialogo con la Chiesa locale, significa anche avere dei buoni rapporti con il Vescovo, che è il nostro pastore, coltivare amicizia con lui, andarlo a trovare, collaborare, sognare con lui, invitarlo alle nostre cose non per avere la coscienza a posto, perché noi abbiamo mandato l’invito per e-mail all’arcivescovado e ci siamo, abbiamo fatto il nostro dovere, ma perché è il nostro pastore, perché il Signore ce l’ha messo lì anche se non è perfetto come noi pensiamo che dovrebbe essere il Vescovo perfetto. Perché poi è tutto relativo, anche ciò che consideriamo bene o no. È il Signore ce l’ha messo lì: creiamo un legame con lui, impariamo a conoscerlo e a volergli bene bene, siamo fratelli.

Chiudo con un piccolo fuori programma, ce lo concedete? Io e Michele ci pensavamo tanto, abbiamo pensato che c’è qualcosa che va un po’ oltre le 4 mete ma che davvero è il collante, è fondamentale, e quindi ve lo vogliamo dire, perché fa parte della nostra esperienza e perché ci crediamo davvero moltissimo. Le 4 mete non reggono senza l’incontro con le persone reali. Possiamo dirci tantissime cose in astratto ma, se non ci incontriamo con le persone reali, ce lo diciamo solo perché ci piace dircelo, perché ci

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piace parlarci addosso. Ce lo dice il Progetto formativo: il cammino ordinario si sostanzia prima di tutto nella parrocchia, cap.5. La parrocchia è la Chiesa del quotidiano, quindi dobbiamo sentirci molto molto inquieti se la nostra Ac è un’Ac per lo più diocesana. Dobbiamo sentirci molto molto inquieti se nel nostro panorama, quando organizziamo qualcosa, quando pensiamo a qualcosa, abbiamo delle parrocchie che consideriamo di serie A, quelle che rispondono, quelle che ci sono, quelle che sono brave, e delle parrocchie di serie B, quelle che a detta nostra non capiscono niente. Dobbiamo essere molto inquieti se, al campo diocesano o ad un incontro, identifichiamo subito il giovanissimo o il giovane o l’educatore perfetto, e quello invece con cui è inutile parlare. Dobbiamo proprio preoccuparci, ce lo dice il Papa, Evangelii Gaudium 14: "l’evangelizzazione è essenzialmente connessa con la proclamazione del Vangelo a coloro che non conoscono Gesù Cristo o lo hanno sempre rifiutato. Molti di loro cercano Dio segretamente, mossi dalla nostalgia del suo volto, anche in paesi di antica tradizione cristiana. Tutti hanno il diritto di ricevere il Vangelo, i cristiani hanno il dovere di annunciarlo senza escludere nessuno non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condividono una gioia, segnando un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile. La Chiesa non cresce per proselitismo, ma per 'attrazione'" a tutti: è una fregatura per noi perché ci piacerebbe farci la nostra Chiesa comoda e confortevole, eppure... Poi, al 46, ci dice: "la Chiesa 'in uscita' è una Chiesa con le porte aperte. Uscire verso gli altri [molte volte vuol dire] rallentare il passo, mettere da parte l ’ansietà per guardare negli occhi e ascoltare, rinunciare alle emergenze per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada": questa è la chiave di volta! Se c’è la parrocchia che fatica secondo i nostri standard, che saremmo tentati di considerare di serie B, se c ’è la persona che ci viene da dire che non capisce niente, rallentiamo, mettiamoci al suo fianco, annunciamo il Vangelo anche e soprattutto a lei, facciamolo perché, davvero, santi ci si fa insieme!