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Balhara

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Patrizia Argento, intrigo sentimentale

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Patrizia Argento

BALHARÀ

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BALHARÀ Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Patrizia Argento ISBN: 978-88-6307-352-x

In copertina: foto di Cesare Scardulla: Via Ballarò

Finito di stampare nel mese di Aprile 2011 da Logo srl

Borgoricco – Padova

Questa è una storia di fantasia. Ogni riferimento a fatti cose o persone

è puramente casuale

A Cesare e Amadou che mi hanno insegnato ad amare in modo diverso

Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e

semplici come le colombe (Dal Vangelo secondo Matteo 10,16-23)

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Il silenzio della notte fu improvvisamente lacerato dall’urlo delle sirene, l’oscurità inghiottita dalla luce dei lampeggianti. La borgata si svegliò di soprassalto, avvertendo un imminente pericolo. Nel giro di pochi attimi la gente si precipitò in strada, ancora insonnolita e in pigiama. Polizia e vigili del fuoco mettevano transenne, suonavano i campanelli, aprivano i portoni. Gli abitanti della borgata si guardavano intorno senza capire cosa stesse succedendo. Un terremoto non poteva essere, la terra non aveva tremato, ma di sicuro qualcosa di catastrofico si stava verificando. «Il fuoco, il fuoco!» gridò una voce tra la folla. La gente scappò oltre le transenne e lì si fermò, credendosi al sicuro e non volendo allontanarsi troppo dalle proprie case. I pompieri avevano fatto sgombrare tutti gli edifici e, con difficoltà, si erano introdotti tra i vicoli per spegnere un incendio divampato tra le bancarelle del Ballarò. Nel grande caseggiato in fondo al mercato non tutti erano usciti. Nella stanza in alto, che dava sui tetti, qualcuno dormiva ignaro di quello che stava succedendo. Un bruciore al naso, provocato da un odore acre, lo aveva svegliato all’improvviso. Si alzò e, senza accendere la luce, scese silenziosamente le scale di legno che lo conducevano al piano di sotto. Chiamò a bassa voce gli altri abitanti della casa, ma non rispose nessuno. Ritornò su, acchiappò la giacca e scese di nuovo al piano di sotto. Fece il giro delle stanze, erano vuote, nessuno dormiva nel proprio letto. Che era successo, lo avevano lasciato lì da solo, ma perché? Il respiro si fece affannoso, la paura si insinuava lentamente, infida e strisciante come un serpente. Prese coraggio e uscì. Anche per strada non c’era nessuno, si guardò intorno sempre più spaventato. Poi in lontananza vide una luce intermittente illuminare un

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muro. “La police”, pensò spaventato. Fece una corsa e andò a nascondersi dietro un bancone. Aspettò qualche secondo, poi si alzò e si guardò di nuovo intorno. Non vide nessuno, fece uno scatto e andò a nascondersi dietro un’altra bancarella. Aspettò di nuovo e fece un altro scatto. “Je t’en prie, mon Dieu, aide moi”, mormorava spaventato. Scatto dopo scatto e bancarella dopo bancarella, percorse tutto il mercato, si fermò un attimo a riprendere fiato e a pensare in quale direzione andare. Più si avvicinava, più la luce dei lampeggianti diventava visibile. A un tratto udì delle voci e un gran scalpitio di passi. Erano i pompieri che andavano e venivano, tirando un tubo lungo lungo. Si acquattò sotto un bancone per non farsi vedere. Il lampeggiante illuminava a intermittenza un muro diroccato. Sopra c’era una scritta colorata e a ogni giro della luce riusciva a leggere una lettera. Si concentrò sulla frase, per non sentire la paura che lo attanagliava. “F o r z a P a l e r m o”, sillabò, poi formulò la frase tutta d’un fiato “forza Palermo”. Era facile, pensò. Ma dal bancone veniva un forte odore di pesce. “Puah! che odore dégueulasse”, pensò disgustato. Non poteva resistere un istante di più. Strisciò lentamente fuori di lì e riprese la sua corsa. Come un’ombra della notte nessuno fece caso a lui, né i pompieri, intenti a spegnere l’incendio, né la polizia che cercava di tranquillizzare la folla spaventata. La giacca chiusa, il berretto calcato sulla testa, quasi carponi e strisciando contro i muri arrivò in una via. Lì non c’era nessuno e la strada terminava con un grande muro. Si infilò nel vicolo, lo percorse velocemente fino a quando arrivò ansante davanti al portone di una palazzina. Lo spinse piano piano, per non fare rumore. Era aperto. La fortuna lo assisteva. Sgattaiolò dentro, richiuse il portone lentamente, per non farlo sbattere, e si mise alla ricerca di un posto dove nascondersi. Imboccò le scale, ma dopo i primi gradini si accorse che dietro l’ascensore c’era una piccola nicchia. Lì nessuno avrebbe potuto scoprirlo, almeno fino all’indomani mattina. Andò ad accucciarsi per terra, un braccio sotto la testa e le gambe rannicchiate. Chiuse gli occhi e riprese fiato. “Mamma, j'ai peur, - pensò disperato, - ma non piango. Faccio il bravo, j'ai promis. Dove sei mamma, je veux rentrer à la maison”, urlava silenziosamente nella sua testa. Sentì un groppo serrargli la gola e, sebbene lottasse con tutto sé stesso,

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cominciò a piangere sommessamente. Aveva paura che qualcuno lo scoprisse, perché sarebbe stato perduto. “Palermo Centrale”, annunciò l’altoparlante con voce metallica. In un attimo la metro si fermò con un grande stridio di freni. Pina aspettò impaziente che le porte si aprissero, prese la valigia e scese quasi al volo. “Dodici ore di viaggio, roba da non crederci!” sbuffò tra sé, spazientita. Uscì dalla stazione e andò alla fermata degli autobus. Aspettò sempre più nervosa una decina di minuti, poi si incamminò verso casa, tirandosi dietro la valigia. Di autobus neanche l’ombra. Non ce ne erano nei giorni normali, figuriamoci nei giorni di festa. Attraversò la strada e si avviò verso Via Roma C’era poco da fare, doveva essere il suo destino, o il suo karma per essere più fini, avere qualcosa da tirarsi dietro. Se non era la valigia era il trasportino della spesa, per non parlare del fatto che tutta la vita aveva tirato la “carretta”. Svoltò per Via Torino, la percorse tutta e sbucò in via Maqueda. L’attraversò e si fermò un attimo per riprendere fiato sotto l’Arco di Cutò. A dire il vero non era un vero e proprio arco, ma il portale centrale del Palazzo Filangeri di Cutò, che introduceva in Via Chiappara al Carmine, una strada pubblica. L’attraversò e si fermò di nuovo. ”C’è picca da fare, Berlino sarà bella, ma Palermo è sempre una meraviglia” pensò rincuorata. Una certa differenza con Berlino, a malincuore, doveva constatare che c’era. Qui, più che profumo di casa, si sentiva puzza di spazzatura mista a odore di frutta e verdura andate a male. Le cassette vuote delle mercanzie erano abbandonate agli angoli delle strade, insieme a immondizia di vario genere. “E dire che il centro storico di Palermo non solo è uno dei più vasti d’Europa, con i suoi duecentoquaranta ettari di estensione, ma anche uno dei più ricchi e articolati. Purtroppo, però anche uno dei più degradati”, pensò Pina sconsolata. In Germania, invece, era tutto pulito e ordinato, magari troppo per i suoi gusti. Comunque fosse, già respirava l’atmosfera di casa e del suo mercato, il Ballarò, e si sentiva rincuorata. Erano quasi due mesi che mancava e non vedeva l’ora di ritornare a casa.

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Percorse tutta la Via Chiappara, girò e continuò fino a Piazza del Carmine. Per una volta non voleva entrare nel suo vicolo da Casa Professa, non volendo passare davanti a Palazzo Torreforte. Solo a evocare il nome sentì una fitta al cuore. Chissà dov’era Stefano, che cosa stava facendo. Da quando l’estate precedente si erano conosciuti, la vita di Pina era completamente cambiata. A cinquant’anni aveva riscoperto l’amore e un po’ se ne vergognava. Scosse la testa per scacciare i pensieri e allungò il passo; la strada era deserta, il mercato, svuotato di tutte le sue mercanzie e sotto la luce fioca dei lampioni, sembrava avere perso tutto il fascino che aveva durante la giornata. Finalmente giunse in Vicolo San Michele Arcangelo e lo percorse tutto, la sua palazzina quasi fatiscente si trovava proprio in fondo al vicolo. Aprì il portone e si diresse verso l’ascensore. Pigiò il pulsante, ma non successe nulla. «Figuriamoci se funzionava», mormorò sempre più nervosa. Si avviò verso le scale e iniziò a salire, facendo sobbalzare il trolley. Quando arrivò al terzo piano, infilò la chiave nella toppa della sua porta e tirò un sospiro di sollievo. Il viaggio di ritorno le era sembrato interminabile. Appoggiò la valigia alla porta dello sgabuzzino, aprì la borsa, tirò fuori una foto e la posò sulla consolle della sala. “A casa siamo, Salvatore”, disse rivolta alla foto che ritraeva il marito, un giovane d’altri tempi. Girò per casa, aprì le finestre per fare arieggiare un po’, si diresse in sala, tirò fuori dalla borsa gli occhiali e la posta che aveva preso dalla cassetta, rientrando. Di certo non erano arrivate lettere importanti, tutt’al più qualche bolletta da pagare. Chi mai le doveva scrivere? Comunque le piaceva lo stesso aprire le buste, le sembrava come un regalo, anche se si trattava solo di pubblicità. Aveva l’impressione che qualcuno, chiunque esso fosse, si ricordava che esisteva anche Pina Barone, maestra di scuole elementari ormai in pensione. Bolletta dopo bolletta e pubblicità dopo pubblicità la Signora Pina, con ordine, apriva le buste e metteva da parte tutto quello che doveva essere gettato. Ma tra il mazzo di posta questa volta c’era una cosa insolita: una cartolina.

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Si interrogò un attimo su chi aveva potuto spedirla, ma appena la girò ebbe un tuffo al cuore. “Je t’aime S.T”, c’era scritto. Riconobbe subito la calligrafia, rigirò la cartolina, ritraeva la Tour Eiffel. Stefano era a Parigi. Appena poche ore prima anche lei si trovava lì, all’aeroporto Charles De Gaulle, in attesa del volo che la riportasse in Italia. Sospirò e strinse la cartolina al cuore. “Anch’io ti amo” pensò, ma era tutto troppo complicato. Mise la cartolina nel mazzo di carte che non andavano buttate e proseguì il suo lavoro. Appena ebbe finito, accartocciò la maggior parte della sua corrispondenza e la infilò nella spazzatura. Solo allora si accorse che il vicolo era silenzioso e la sua casa sembrava più vuota che mai. “Certo Salvatore, saranno ancora tutti fuori, a festeggiare la pasquetta. La Signora Carmela e la Signora Rosa in campagna dai figli e il Cavaliere Boccafusca di sicuro da suo figlio Pietro. Che vuoi dopo tanto tempo in compagnia, il silenzio sembra sempre più silenzioso”, pensò rivolgendosi mentalmente a suo marito. Non ebbe nemmeno il tempo di formulare il pensiero che lo squillo del telefono la fece sobbalzare. “E chi è?” si chiese correndo a rispondere. I suoi figli no, li aveva chiamati appena scesa dall’aereo, visto che ormai possedeva anche il cellulare. Glielo aveva regalato Stefano, un giorno che non era riuscito a trovarla. Si fermò davanti all’apparecchio e tirò un sospiro. Il solo pensiero che poteva essere lui le faceva battere il cuore. «Pronto?» disse con voce tremante. «Signora Pina! Meno male che è in casa. È stato il Signore che la fece tornare.» rispose una voce di donna dall’altro capo del telefono. «Con chi parlo?» «Sono io, Angela Termini, la signora del piano di sotto!» «Ma che ha, si sente male?» chiese la Signora Pina notando un certo affanno nella voce. «Signora, mi pare che mi vennero le doglie e mio marito è fuori.» «Madonna Benedetta! Non si preoccupi, scendo subito. Apra la porta.» Pina si precipitò in sala, afferrò le chiavi di casa e corse giù per le scale fino all’appartamento del secondo piano. «Permesso, Angela, dove sei?» chiese entrando. «Venga, venga, sono qui.» Pina seguì la voce ed entrò nella stanza da letto della donna. Era sdraiata su un fianco e respirava affannosamente. «Che ti senti, figlia mia, che hai?»

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«Ho le doglie, sento la pancia che mi diventa dura dura.» «Ma il tempo lo hai fatto?» «Sì, proprio oggi sono nove mesi, ma mi avevano detto che siccome sono primipara, di sicuro portavo ritardo.» «Te lo disse il medico?» «Sì, l’ostetrico.» «Mah, mia cara ‘ste cose solo la natura le può sapere. Tuo marito dov’è?» «Al villino, con i suoi.» «E ti lasciò a casa da sola?» chiese la Signora Pina stupita. «Sì, ma sono stata io a dirgli di andare.» disse Angela per giustificare il marito. «Ci sono pure i miei suoceri. Arrivarono da Ragusa per passare la Pasqua con noi e restare per il parto, ma io oggi non me la sono sentita di muovermi. Così loro sono andati di mattina con mio cognato e Cosimo andò a prenderli verso le sei. Dovrebbe essere qui a momenti, ma io non ce la faccio più a resistere.» «Su, non ti scoraggiare, adesso ci sono io. Tuo marito lo hai chiamato?» «Sì, proprio prima di chiamare lei. Poi ho sentito dei rumori provenire dalle scale e ho pensato che fosse tornata. Tutte le mie preghiere furono a farla tornare.» «Certo figlia mia, però adesso mettiti a pancia all’aria e vediamo ogni quanto hai le doglie.» La ragazza ubbidì e lentamente si girò. Ogni qualvolta arrivava la contrazione la Signora Pina controllava l’orologio. Cinque minuti, due minuti, ogni minuto. Non c’era tempo da perdere a momenti il bambino avrebbe cominciato a spingere per uscire. E ora che doveva fare? Chiamare l’autoambulanza? Era l’unica soluzione. Nel vicolo sembrava non esserci nessuno e comunque tutti i suoi abitanti erano anziani e nessuno guidava l’automobile. Nemmeno lei, anche se aveva la patente non ne aveva mai posseduta una. No, i primi tempi che era sposata, Salvatore, suo marito, aveva una 127 turchese, ma quando lui era morto, l’aveva venduta, ritenendo che fosse un lusso che non poteva permettersi. Ma che fissarie andava pensando, a momenti la Signora Termini sgravava in casa e lei pensava all’automobile. Poteva chiedere aiuto a quelli delle pompe funebri che erano sempre aperti, ma subito fece le corna. Che cattivo gusto fare portare una partoriente su un carro funebre. In quell’istante sentì il rintocco delle campane di Casa Professa. Ma certo, Ignazio, il posteggiatore, lui di sicuro ci doveva essere, nei giorni di festa non perdeva l’occasione di un guadagno extra. «Continua a respirare, vado a cercare aiuto.»

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«No, la prego non mi lasci sola.» la supplicò la ragazza. «Stai tranquilla, respira con la pancia, io tra un attimo torno. Metto il ferro così la porta non si chiude.» Corse giù e si avviò verso la chiesa, alla ricerca del posteggiatore. Guardò sotto l’albero, dove erano soliti accamparsi i suoi familiari in attesa che Ignazio finisse di lavorare, ma non vide nessuno. Intanto i fedeli uscivano dalla chiesa e si era creato un caos di automobili che tentavano di uscire dai vicoli. La Signora Pina correva di qua e di là, non sapendo dove cercare, poi una voce la chiamò. «Signora Barone, bentornata!» le disse un omone fermo davanti alla scalinata della chiesa. «Grazie Ignazio, ben trovato.» «Si divertì in Germania?» «Sì, sì, ma non c’è tempo da perdere, mi deve aiutare!» disse in tono concitato. «Ricominciamo? Non è come l’altra volta che devo aprire una porta? Non è che si tratta di ammazzatine?» «No, no, niente ammazzatine, tutto il contrario. La signora Termini ha le doglie e suo marito deve essere rimasto bloccato sull’autostrada. Se chiamo l’autoambulanza, lei me la dà una mano a portarla giù? L’ascensore non funziona». «Certo, ci mancherebbe. Ma se vuole l’accompagno io all’ospedale.» «Come? con il lapino? Ma se non c’entriamo nemmeno in due.» «No, Signora mia, mi comprai una moto ape da paura. Ci entriamo tutti. Vada a preparare le robe che cerco qualche picciotto che ci aiuti a fare scendere la signora e sono subito da lei.» La Signora Pina corse di nuovo a casa e salì le scale a quattro a quattro. «Eccomi» disse alla ragazza che ansimava sempre di più. «Stai tranquilla, ci accompagna Ignazio in ospedale. Tutto pronto hai? La borsa, le cose del picciriddo?» «Sì, apra l’armadio, è tutto lì.» La Signora Pina aprì l’armadio, prese le borse e le portò davanti alla porta. In quel momento Ignazio comparve con due ragazzoni alti e robusti. «Eccomi qui, siete pronte?» chiese alla Signora Pina che guardava i picciotti incuriosita. Non li aveva mai visti da quelle parti, forse non erano del Ballarò. «Sono i picciotti del comitato elettore,» le disse Ignazio, prevenendo la sua domanda. «Comitato elettore? Ma di chi? Perché, le elezioni ci sono?»

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«Signora mia, ma dove vivete?» le chiese il giovanotto dai capelli più scuri. «A momenti si vota e voi niente ne sapete?» «No, a dire vero no. Ma sono stata fuori più di un mese, mi sarà passato di mente.» «Mah, certo strano è che vossia non ricorda una cosa così importante.» «Scusate, ma che stiamo a fare conversazione e lasciamo che quella picciotta sgrava qui in casa?» disse per tagliare corto. «Già, ci scusasse. Possiamo entrare?» Finalmente fecero alzare la donna e lentamente cominciarono a scendere le scale. Tra una contrazione e l’altra, la donna tenuta a braccia dai ragazzi, arrivarono tutti quanti davanti al portone. «Un attimo che carico le valigie e poi salite voi.» disse Ignazio uscendo per primo. «Adesso potete venire.» urlò dalla strada. Pina uscì e vide una moto ape posteggiata all’indietro nel vicolo. La guardò perplessa, non era il solito lapino azzurro di Ignazio, ma un mezzo molto più grande. «Signora, ma lo vede che è bello? Si chiama Ercolino.» disse Ignazio indicando il furgoncino con orgoglio. Pina annuì per compiacerlo. Certo il nome era proprio adatto al posteggiatore; nella borgata, di inciuria, lo chiamavano Polifemo, per via della sua stazza. “Polifemo su Ercolino, mi sembra perfetto” convenne tra sé. «Dove ci dobbiamo mettere?» chiese avvicinandosi. «Dentro c’è posto per tutti e tre, ma se vossia preferisce si può mettere dietro. Ci sono dei sedili comodissimi!» disse l’uomo abbassando dei seggiolini di plastica. «Ma Ignazio, vero dite? E ‘sta picciotta dove la sdraiamo?» «Perché seduta non può stare?» «Sì, ma sarebbe meglio...» «Signora Barone lo faccio qui sto bambino. La prego mi aiuti.» gridò la Signora Termini tenendosi la pancia. «Sì, sì saliamo va, non c’è tempo da perdere.» Salirono a bordo e Ignazio partì sparato suonando ripetutamente il clacson. Arrivarono all’ospedale in un fiat e andarono dritti al reparto parturienti, senza passare dal pronto soccorso. Ignazio entrò in cerca di aiuto, ma tornò subito indietro. «Signora Pina, dentro non c’è nessuno, mi sa che dobbiamo salire da soli.» «Come sarebbe a dire? Ci serve una barella, ‘sta figlia non può camminare più.»

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«Ah, ho visto una sedia a rotelle, quella va bene?» «Benissimo, andate a prenderla.» Quando ebbero finalmente ricoverato la Signora Termini, Pina tirò un sospiro di sollievo. Ci mancava solo che il picciriddo nasceva dentro la moto ape. «Signora se lei non ha più bisogno di me, io andrei a casa. Mia moglie starà in pensiero, si fece tardi.» «Sì, certo. Grazie di tutto.» «E di che? Lo sa che per lei farei questo e altro. Ma piuttosto come ci torna a casa?» «Non lo so, ma non me la sento di lasciare sola la Signora Termini. Sa, è il suo primo parto, ci vuole qualcuno che le tiene la mano. Magari aspetto che arrivi la sua famiglia, poi il modo di tornare a casa lo troverò.» «Va bene, allora vado tranquillo.» «Vada, vada.» Rimasta sola la Signora Pina si sedette sulla panchina dell’ingresso del reparto. Anche lei aveva partorito tutte e due i suoi figli in quell’ospedale, ma ormai erano passati quasi trent’anni dall’ultima volta che ci aveva messo piede. Si guardò intorno, non c’era che dire, sembrava che lì il tempo non fosse passato. La panchina dove si trovava seduta in quel momento era la stessa su cui si sedeva, dopo il parto, quando aspettava la visita di suo marito Salvatore. Avrebbe giurato che anche i muri erano dello stesso colore di allora. Chiuse gli occhi un attimo, e per la stanchezza e per fare fluire meglio i ricordi. Il tempo era passato e lei aveva la sensazione di non avere assaporato bene gli istanti più importanti della sua vita. La nascita dei suoi due figli, la scoperta della maternità, il suo affacciarsi alla vita di moglie e di madre. Tutto era passato troppo in fretta. Per non parlare del fatto che Salvatore l’aveva lasciata sola dopo pochi anni di matrimonio. Aprì gli occhi, per spezzare l’intensità dei propri pensieri, ed ebbe quasi l’impressione di vederlo venire verso di lei. Trasalì e fece per alzarsi, come per andargli incontro. «Salvatore...» sussurrò. «Signora? È lei la parente della Signora Termini?» Pina si girò di scatto, non aveva sentito che qualcuno le si era avvicinato. «Come dice?» «La Signora Termini è una sua parente?» «Ah, no, insomma, come se fosse. È successo qualche cosa?» chiese

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preoccupata. «No, è andato tutto benissimo. Ha appena avuto un bel maschietto. Se vuole può vederla.» «Certo.» Si avviò con l’infermiera verso le corsie; man mano che si inoltrava nel reparto l’impressione di vivere un déjà vu diventava sempre più forte. Entrò nella stanza e vide la Signora Termini distesa sul letto, il volto stanco e i capelli spettinati. «Brava, mi disse l’infermiera che hai avuto un bel maschio. Sei contenta?» La ragazza annuì, mentre le lacrime le rigavano il viso. «Ma che fai piangi? Adesso che viene tuo marito ti fai trovare così?» «No, adesso mi passa. Sarà l’emozione.» «Sì, tutte noi mamme piangiamo, non ti preoccupare.» disse sedendosi accanto a lei, per confortarla. Le prese la mano e l’accarezzò, ma dentro di sé non vedeva l’ora che arrivassero i parenti. La ragazza doveva sentirsi sola e le dispiaceva che non poteva condividere quel momento con il marito, ma a dire proprio la verità, la Signora Pina si sentiva stanca morta e voleva andare a casa Quando arrivarono i familiari le trovarono così, mano nella mano, che dormivano stremate. Le svegliarono sussurrando, poi ci furono baci e abbracci. Pina si alzò dalla sedia per cedere il posto al marito di Angela, ma sentiva le gambe che non le reggevano. Raccontò di Ignazio e di come erano arrivate in ospedale. «È andato tutto bene» aggiunse per rassicurare il neo padre. «Un parto veloce, si vede che il bambino aveva fretta di nascere.» «Meno male che eravate in casa, non so come mi sperciò di lasciare mia moglie sola in casa. Se fosse successo qualcosa... Scusatemi, sto pensando solo a noi e voi dovete essere stanca. Fuori c’è mio padre che l’aspetta, per riaccompagnarla a casa.» «Grazie, vado, così vi lascio soli.» disse Pina, mentendo. Non vedeva l’ora di coricarsi nel suo letto. «Grazie di cuore.» «Ma di che. Ci mancherebbe altro. E poi se non ci si aiuta tra di noi…» Erano quasi le due di notte quando Pina raggiunse finalmente il Ballarò. Si fece lasciare dal Signor Termini-padre all’ingresso del mercato, sulla Via Maqueda. Preferiva fare quattro passi, disse pur di scendere dall’auto. Per tutto il tragitto il Signor Termini-padre non aveva fatto

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altro che parlare e parlare, di quanto fossero stati in pena, bloccati in autostrada, per la nuora, di quanto fosse bello il nipote appena nato e giù a parlare. E Pina avvertiva sempre più un senso di fastidio, capiva che non poteva ascoltare oltre. Scese dall’auto e con passo veloce si avviò verso Piazza Casa Professa. Ma appena sbucata fuori dal vicolo, un’ulteriore sorpresa l’aspettava. Il Ballarò era illuminato a giorno e la gente tutta per strada. I lampeggianti dei pompieri e della polizia davano al mercato un aspetto sinistro. Corse verso Vicolo San Michele, oltrepassò una transenna, ma venne bloccata all’entrata da una guardia. «Signora, non si può passare.» «Ma perché? Io abito lì.» «C’è un incendio proprio dietro il vicolo. Abbiamo dovuto far sgombrare tutta la zona.» «Un incendio? Ma dove? Una casa?» «No, i pompieri hanno detto che è una bottega. Ora la prego, indietreggi e mi lasci lavorare.» La signora Pina indietreggiò e cominciò a guardarsi intorno alla ricerca di volti familiari. Ma gli abitanti di Vicolo San Michele sembravano inghiottiti dalla notte. Vero è che ci abitavano in pochi, ma qualcuno doveva pur esserci! E Stefano? Il palazzo Torreforte era poco prima del suo vicolo e anche lì c’erano le transenne. Guardò in alto, ma non vide nulla se non piccole scintille che salivano in cielo. E poi Stefano di sicuro non c’era, magari in quello stesso istante era a Parigi e se la dormiva bellamente. Rassicurata da quel pensiero, vagò un po’ cercando di capire come e dove fosse divampato l’incendio. Ma le persone parlavano e parlavano dando ognuno una versione diversa. La Signora Pina fece spallucce, l’indomani avrebbe di sicuro saputo cosa era realmente accaduto. Era sfinita e andò a sedersi sul marciapiede davanti alla Biblioteca Comunale. “Ci mancava solo l’incendio! ‘Sta nottata non finiu più”, pensò sconfortata, ma non aveva altro da fare se non aspettare pazientemente che tutto finisse. Quando l’incendio fu domato, i poliziotti cominciarono a levare le transenne. La gente, ormai più stanca che incuriosita, andava lentamente verso la propria casa e la Signora Pina raccolse le ultime forze che le restavano per alzarsi e andare via anche lei. Nel giro di mezz’ora tutto era tornato alla normalità e il mercato era di

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nuovo silenzioso. Lei si avviò con passo stanco verso casa, raggiunse il portone e infilò la chiave. “Signore ti ringrazio”, pensò mentre si avviava verso la rampa di scale. Ancora un ultimo sforzo e sarebbe stata a casa. Passò davanti all’ascensore e lo ignorò, tanto sapeva già che non funzionava, ma proprio lì davanti sentì qualcosa. Si bloccò, terrorizzata. Non era un rumore, piuttosto un bisbiglio, come un singhiozzo sommesso. “O Gesù, Gesù, c’è qualcuno” pensò, avvicinandosi quatta quatta. Cosa doveva fare? Scappare per le scale o per la strada? Tutte e due le ipotesi vennero subito scartate, non avrebbe avuto le forze necessarie neanche per camminare, figuriamoci per correre. Non restava altro che verificare. “Magari è un gatto che si infilò qui, per sfuggire al fuoco” si disse per farsi coraggio. Girò dietro la cabina dell’ascensore e lì vide una sagoma. Si prese di coraggio e si avvicinò un altro po’. La “cosa animata” si rannicchiò ancora di più. Sembrava essere un fagottino, un mucchietto di roba che si muoveva. Ma certo, un bambino! Forte della sua intuizione si avvicinò decisa fino a sfiorarlo. «Chi sei?» chiese con la voce più ferma che riuscì a modulare. Neanche il tempo di dirlo che già il bambino si era alzato e cercava una via di fuga. «Vieni qui.» disse Pina, subito pronta ad acchiapparlo per un braccio. «Dimmi a chi appartieni!» gli intimò. Ma il bambino fissava i suoi piedi e non rispondeva. Pina si abbassò per guardarlo negli occhi. «Chi sei? Ti sei perso? Dimmelo, così ti posso riportare a casa.» Silenzio e testa sempre più incassata tra le spalle, il bambino strattonava per liberarsi. «No, bello mio, non ti lascio andare. A quest’ora di notte, solo, dove vai? Cammina con me va, ne parliamo a casa.» Strinse il braccio del bambino più saldamente e si avviò verso le scale tirandoselo dietro. Appena prima di salire i gradini pigiò il pulsante della luce e l’androne si illuminò. «Ecco, adesso possiamo salire.» disse rivolta al bambino. Lo vedeva bene solo adesso e quasi le pigliò un moto! «Hiii, Madonna Benedetta! Ma che sei turcu? Da dove vieni?» Silenzio e sguardo in giù. «Fammi vedere bene.» gli disse tirando via il cappello che il piccolo teneva calcato sulla testa. «Sì, africano sei. Da dove vieni?» gli chiese di nuovo.

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Sempre silenzio. «Vabbè ho capito, saliamo che poi si vede.» Una volta dentro casa Pina si tolse la giacca, sfilò il giubbotto al bambino e appese entrambi nello stanzino. Poi chiuse la porta a chiave, la estrasse dalla toppa e, mostrandola al bambino, se la infilò in tasca. «Da qui non si esce, almeno fino a domani mattina. Vieni, andiamo in cucina a parlare.» Si accasciò sulla sedia della cucina e gli fece segno di sedersi. «Allora da dove vieni? Parli italiano?» Silenzio e sguardo in giù. «Mih, ma tosto sei! Parli français, english, spagnolo?» Il bambino continuava a stare zitto e la Signora Pina pensò di cambiare strategia. «Hai fame? Sete? Non mi capisci?» Si alzò e aprì uno stipetto della cucina; estrasse biscotti, marmellata e pane a cassetta, poi andò a rovistare nel frigo. Non c’era di certo un granché visto che mancava da casa da quasi due mesi, ma qualcosa per addobbare la poteva sempre trovare. Sottilette, maionese, sottaceti e tonno per il momento potevano bastare. Anche lei aveva un certo languore. Considerato che non mangiava dall’ora di pranzo ed era sveglia da quasi ventiquattro ore, forse era meglio mettere qualcosa sotto i denti. E poi con la pancia piena si ragionava meglio. Prese anche una busta di latte e mise il tutto davanti al bambino. «Dimmi che cosa ti piace.» Lui sembrò capire e indicò il latte e le sottilette. Gli riempì un bicchiere di latte e gli preparò un panino con le sottilette, che il piccolo divorò in un attimo. Lei si fece un panino con il tonno e la maionese. «Adesso possiamo ragionare. Allora puoi dirmi chi sei?» ripeté per l’ennesima volta, e non ottenne di nuovo nessuna risposta. «A posto siamo, come faccio a farmi capire?» si chiese guardandolo. Quanti anni poteva avere? Dieci, non di più. Era gracilino, il viso scarno e grandi occhi neri. I capelli, anch’essi neri come la pece, erano riccissimi e aggrovigliati. Però non sembrava spaventato, ogni tanto alzava lo sguardo e sembrava quasi che se la ridesse di quella situazione. «Bene, bene, visto che non ti va di fare conversazione ci andiamo a lavare e poi ci corichiamo. Io a momenti strambio per la stanchezza.» Prese il bambino per mano e si avviò in bagno. Mise il tappo e iniziò a riempire la vasca da bagno, poi si sedette sul water. «Adesso, piccolo mio ti infili nella vasca. Vero è che nero su nero nun tince, ma lo stesso si vede che sei sporco.» gli disse cominciando a sfilargli il maglioncino.

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«Guardami negli occhi. Io mi chiamo Pina.» disse indicando se stessa. «Tu come ti chiami?» «Io Io.» rispose il bambino. «Ah! Ce l’hai la voce. Bene, almeno è un inizio. Io Pina e tu come ti c h i a m i?» ripeté scandendo le lettere. «Io io.» «Mih, ma sei duro!» si voltò verso la porta del bagno e la socchiuse. Dietro c’era appeso uno specchio a figura intera e Pina girò il bambino fino a quando non si videro riflessi tutti e due vicini. «Io Pina» replicò indicando se stessa. «E tu?» chiese toccandolo. «Io io» rispose di nuovo il piccolo. Pina sospirò sconsolata, non c’era verso di farsi capire. «Io io,» continuava a ripetere il bambino, imperterrito. A quel punto la Signora Pina ebbe un’intuizione. Qualcosa nella sua pronuncia le aveva fatto venire un’idea. «Ti chiami Yo-yo?» chiese titubante. Il bambino rise, illuminandosi. «Ho indovinato, non è così?» chiese ridendo anche lei. «Ma che nome è? Ti chiamarono come un giocattolo, lo sai?» Ma in fondo lei che ne sapeva di nomi africani? Niente, assolutamente niente. «Va bene, Yo-yo, adesso ci facciamo un bel bagno e poi ci andiamo a coricare, finalmente. Anche tu devi essere stanco morto.» disse sfilandogli prima i pantaloni e poi le mutandine. «Madonna benedetta dell’incoronata!» esclamò portandosi le mani alla testa. «Fimmina sei!» Si diede della stupida per non essersene accorta prima. La guardò meglio, forse avrebbe potuto intuirlo, ma a quell’età i bambini hanno tutti i lineamenti fini, c’è poca distinzione tra maschio e femmina. Si sentiva quasi emozionata, lei aveva tanto desiderato avere anche una figlia femmina e invece aveva avuto solo due maschi. E poi di nuovo due nipoti maschi. Si era consolata pensando che a casa Barone si sapevano fare solo maschi. E adesso aveva davanti una bimba trovata per caso dietro l’ascensore. Ma una mamma doveva pur averla e magari in quel momento la stavano cercando. «Maria Santissima! Il cuore mi si strazia se penso alla tua mamma. Adesso però infilati nella vasca, domani mattina andiamo in giro a chiedere se qualcuno ti sta cercando.» Si addormentarono nel lettone, la bambina vestita con una maglietta di

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Pina che le arrivava ai piedi e un paio di mutandine di uno dei suoi nipoti, che teneva di scorta per quando, raramente, andavano a trovarla. La Signora Pina si svegliò che erano le dieci passate. Aveva dormito a tratti, ogni tanto apriva gli occhi per controllare che Yo-yo fosse accanto a lei. Si alzò silenziosamente e andò in cucina. Mise la caffettiera sul fuoco e aprì le finestre per sbirciare dalle persiane. La Signora Carmela, la sua dirimpettaia, non l’aveva chiamata come era solita fare ogni mattina, e ciò significava che in casa non c’era. Di sicuro era andata a passare la Pasqua con i figli. Anche Concetta non c’era, questo lo sapeva già perché si erano scambiate sms per farsi gli auguri. Guardò in giù, per vedere se almeno la Signora Rosa era in casa, ma le persiane erano chiuse. Del Cavaliere Boccafusca, l’inquilino del primo piano, non aveva notizie, i signori Termini erano in ospedale, quindi doveva supporre che nel vicolo ci fosse solo lei. Si sedette sulla sedia per bere il caffècon calma. Doveva pensare al da farsi, Yo-yo doveva aver pure una madre che magari in questo momento la stava cercando ed era disperata. Andò nel salone, accese la televisione e si sedette sul divano. Di sicuro il notiziario locale avrebbe parlato dell’incendio e della scomparsa di una bambina. Attese pazientemente che il giornalista sciorinasse le notizie del giorno ma, quando arrivò allo sport, capì che non ne avrebbe parlato. “Roba da impazzire, qui ci fu un incendio e scomparve una bambina e nessuno al telegiornale dice niente!” pensò sconfortata. E adesso che doveva fare? Andare alla polizia? E come si doveva giustificare di non essere andata la notte stessa, ammesso che avrebbero creduto che aveva trovato Yo-yo nascosta dietro l’ascensore,? Cominciava a intuire di essersi cacciata in un grosso guaio. Certo che gliene venivano in testa di pensate. Come aveva fatto a non riflettere su quello che stava facendo? “Salvatore, ma lo vedi che sono scimunita? E ora che cosa faccio? A chi posso chiedere un consiglio?” chiese rivolgendosi mentalmente a suo marito. Poteva chiamare Stefano e parlare con lui, ma scartò subito l’ipotesi. Doveva chiamare al cellulare e magari lo disturbava, per non parlare del fatto che da quasi due mesi non si sentivano più. Esattamente da quando lei era partita per la Germania, per andare a trovare i suoi figli. Per quanto si sforzasse, non le veniva in mente nessuna soluzione se non andare dritta alla polizia.

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Però poteva mentire e dire che l’aveva trovata soltanto al mattino; la bambina parlava poco l’italiano e di sicuro non l’avrebbe smentita. Sì, forse quella era l’unica soluzione. «Pina!» disse una vocina all’improvviso. «Yo-yo, sveglia sei?» ebbe appena il tempo di girarsi che già la bambina le era saltata in braccio. «Ne hai fame? Vieni andiamo in cucina, che ti preparo una bella colazione.» La Signora Pina osservava Yo-yo mentre faceva colazione. Era proprio una bella bambina, un po’ magrolina, ma il viso era luminoso, gli occhi grandi con ciglia lunghissime. Stava seduta composta e mangiava silenziosa, stando attenta a non fare briciole, con il tovagliolo in una mano e il biscotto nell’altra. Non sembrava una bambina di strada, aveva un che di educato e si capiva che qualcuno doveva essersi preso cura di lei. Lei di bambini ne capiva, era stata maestra di scuola elementare per tanti anni e le bastava uno sguardo per intuirne il carattere. Yo-yo sembrava timida o forse era solo spaventata, ma aveva dormito tranquilla e non aveva pianto neanche un istante. “Strano, pensò, tutti i bambini piangono perché vogliono tornare a casa”. Qualunque fosse la sua lingua il pianto era un linguaggio internazionale e lei lo avrebbe capito. Questo pensiero la costrinse a fare nuove riflessioni. Certo, poteva essere una bambina di quelle arrivate con gli sbarchi clandestini, se ne sentivano ogni giorno di queste notizie, e magari era scappata da qualche posto. Lei su quell’argomento non ne sapeva granché, solo quello che dicevano in televisione o che scrivevano i giornali. Poco, a dire il vero. Se era così non poteva portare Yo-yo alla polizia, magari era figlia di qualcuno che viveva nei dintorni e sarebbe bastato scendere al Ballarò per ritrovare i genitori. “Ma certo, Salvatore, deve essere questa la soluzione!” disse ad alta voce facendo trasalire Yo-yo, che la guardò sbalordita. «Su, sbrighiamoci e usciamo, di sicuro la tua mamma ti sta cercando.» la esortò aiutandola a scendere dalla sedia. Andarono nella stanza da letto e Pina rovistò nell’armadio tra le cose dei suoi nipoti alla ricerca di vestiti puliti che le potessero andare bene, ma fu una ricerca ardua. Yo-yo era minuta mentre i suoi nipoti, perfino il più piccolo, erano

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robusti; comunque alla fine trovò una canottiera di lana e un maglioncino che sembravano andare bene. Per i pantaloni non ci fu nulla da fare e dovette infilarle di nuovi i suoi, sporchi per quant’erano. Davanti all’ingresso si infilarono i giubbotti e Pina aprì la porta dello stanzino per tirare fuori il trasportino della spesa. Tutti al mercato erano abituati a vederla andare in giro in quel modo e di certo rispettare la consuetudine non avrebbe incuriosito gli altri più di tanto. Prima di uscire mandò un bacio alla foto di suo marito. “Tra poco torno”, gli disse mentalmente, non volendo farsi sentire dalla bambina. Uscì dal vicolo e girò per il mercato, tirandosi dietro con una mano il trasportino e con l’altra Yo-yo. Mentre camminavano si aspettava che da un momento all’altro qualcuno la fermasse e le chiedesse della bambina. Ma più si inoltrava nel mercato più cominciava ad avere la consapevolezza che nessuno sembrava cercarla. Si guardò attentamente attorno anche alla ricerca del luogo dell’incendio della notte precedente. Ma sembrava non essere successo nulla. Eppure i pompieri e la polizia e le transenne di certo non se le era sognate. Ma la vita del Ballarò sembrava scorrere come ogni giorno. Il mercato era gremito di gente e i commercianti abbanniavano per reclamizzare la propria merce. Continuò a camminare tenendo stretta la mano della bambina, avendo paura che con uno scatto si liberasse e scappasse via. Ma Yo-yo le camminava accanto tranquilla e, quando lei la guardava, le sorrideva serena. Ogni tanto Pina si fermava per comprare questa o quella cosa, doveva riempire di nuovo la dispensa dopo la sua lunga assenza. Camminando, oltrepassarono la chiesa della Madonna del Carmelo, tirarono ancora dritto quasi fino alla fine del mercato. A quel punto Pina ebbe quasi la certezza che nessuno cercava la bambina. Si fermò un attimo per decidere la direzione da prendere: continuare verso Corso Tukory o girare per la Via delle Pergole. Optò per la seconda ipotesi, scegliendo di sbucare in Via Maqueda e rientrare al Ballarò da Casa Professa. Era l’unica speranza che le rimaneva. Magari lì c’era qualcuno che poteva aiutarla. Percorse la Via Maqueda in senso contrario e girò a sinistra per ritornare nella sua borgata. Raramente Pina usciva dall’Albergheria, la sua vita si svolgeva quasi tutta lì, tra il suo vicolo e il mercato del Ballarò, che rappresentava il cuore pulsante della borgata. Tutt’al più arrivava fino alla Via Maqueda, ma erano talmente poche le occasioni, da potersi contare sulla punta delle dita. Lì aveva trascorso tutta la sua

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vita da donna. Da quando si era sposata, quasi trent’anni prima, aveva abitato e lavorato lì, nella vicina scuola elementare. Certo, ultimamente era stata in Germania dai suoi figli, e, come ogni volta che si allontanava da casa, si sentiva spaesata. Ma che doveva fare? I suoi figli venivano raramente a trovarla, uno viveva in Germania e l’altro in Australia e almeno una volta l’anno cercavano di stare tutti insieme. Era un impegno che avevano preso tacitamente, ormai da anni, e non vi erano mai state deroghe. Lei in Australia non voleva andare, le pareva di dover attraversare l’intero continente a piedi, e allora si vedevano a metà strada, per così dire. Quell’anno il loro appuntamento era coinciso con la Pasqua. «Pina» la bambina la chiamò strattonandole la mano. «Che c’è Yo-yo? Sei stanca?» La bambina annuì. In effetti camminavano da più di due ore e anche lei cominciava sentire le gambe pesanti. Per di più quella mattina c’era un sole cocente. Succedeva sempre così, a marzo. Si passava da un clima quasi estivo a temperature invernali. Certo niente al confronto delle temperature tedesche, che aveva appena lasciato. Solo al pensiero rabbrividì. «Forza Yo-yo andiamo a casa, che si fece quasi ora di pranzo.» Passarono davanti alla chiesa della Madonna del Ponticello e Pina si fermò un attimo. “Madonnina miracolosa del Ponticello, fa che ritrovi la mamma di questa bambina”, supplicò in silenzio, poi riprese il cammino. Giunta davanti a Casa Professa si fermò di nuovo alla ricerca di Ignazio. Lui di sicuro doveva essere informato sui fatti accaduti la notte precedente. Lo individuò subito che saltellava tra una macchina e l’altra, con il suo cappello grigio in testa e il fischietto tra le labbra. Gli fece un cenno e lui la salutò di rimando, facendole segno che era troppo occupato. Pina allora gli andò incontro. «Ignazio!» gridò per attirare di nuovo la sua attenzione. «Signora Barone, se ha un attimo di pazienza faccio posteggiare ‘sta machina e vengo subito da lei.» Pina annuì e andò ad appoggiarsi al grande ficus che troneggiava nell’angolo della piazza. «Siediti qua Yo-yo, che tra poco andiamo a casa.» La bambina ubbidì e si sedette sul marciapiede. Qualche minuto dopo Ignazio la raggiunse.

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«Buon giorno, Signora cara, se venne per raccontarmi di ieri sera non c’era bisogno. Stamattina presto venne il Signor Termini in persona a contarmi del picciriddo. Naturalmente mi volle ringraziare per avere accompagnato sua moglie in ospedale.» «No, Ignazio. Cioè sì.» si corresse subito per non offendere il posteggiatore, anche se a dire il vero manco le era passato per la testa di andargli a raccontare della nascita del primogenito Termini. «Volevo chiederle anche se aveva saputo niente di quello che successe stanotte al Ballarò.» «Stanotte? Perché, successe qualche cosa di particolare? Niente ne so.» «Dell’incendio niente ne avete saputo?» «Ah, di quello sì, certo. Ma mi dissero che prese fuoco la baracca del fruttivendolo in fondo al mercato. Niente di grave, appena una piccola cosa. Dice che si scordò di spegnere il gas acceso sotto la pignata delle patate bollite.» «Di Pasquetta? Perché, aperto era il fruttivendolo?» «Ma chi saccio! A me così mi dissero.» «Vabbè lasciamo stare. E poi che vi contarono?» «Niente. Perché, che mi dovevano raccontare?» A quel punto Pina non sapeva che fare; doveva chiedere se qualcuno aveva cercato la bambina oppure era più prudente tacere? Per esperienza sapeva che Ignazio non avrebbe parlato con nessuno, se lei glielo avesse chiesto. Fece cenno a Yo-Yo di avvicinarsi. La bambina le si mise accanto e le diede la mano. «Mih, ma che bel bambino! Chi è, un vostro nipote?» chiese Ignazio accarezzandole il volto. «No, Ignazio, ma che dite! Io ho solo due nipoti masculi.» «Perché, questa femminuccia è?» «Sì, femmina. Di’ come ti chiami.» disse rivolgendosi alla bambina. «Yo-yo» rispose lei con voce squillante. «Mih, che sei bedda! Se non è vostra nipote allora chi è?» chiese Ignazio intuendo che qualcosa non andava. «Ecco, qui sta il punto. Non lo so, l’ho trovata ieri notte, dietro l’ascensore.» «Ma che va dicendo?» chiese meravigliato. «Vado dicendo quello che successe.» «Ma sicura siete che non appartiene a nessuno?» «Certo a qualcuno deve pure appartenere, non può essere spuntata dal nulla, ma stamattina mi feci tutto il giro del mercato e nessuno mi fermò. Non è detto che abiti qui, ma non credo neanche tanto lontano.

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Forse scappò da qualche casa durante l’incendio.» «Certo, strano è. Comunque io non ho sentito niente in giro. Alla Signora Carmela avete chiesto? Lo sapete che quella megera sa sempre tutto.» «Sì, lei sa sempre tutto di tutti, ma non è ancora rientrata. Immagino sarà andata a passare le vacanze di Pasqua da suo figlio.» «Beh, mia cara Signora, non so come posso aiutarla. Voi che intendete fare?» «Non lo so, Ignazio, ancora non ho deciso. Però voi fatemi una cortesia, non dite a nessuno della bambina e se sentite qualcosa mi venite a chiamare.» «Come volete. Ma riflettete bene su quello che fate, perché mi sa che sento puzza di abbrucio in questa faccenda e non mi riferisco di certo all’incendio.» «Sì, state tranquillo, rifletterò bene. Grazie sempre.» «Lo sapete, per vossia, sempre a disposizione.» Pina si incamminò di nuovo tenendo per mano la bambina. Aveva ragione Ignazio, la faccenda puzzava di bruciato lontano un miglio e lei non sapeva che pesci prendere. Giunta davanti al portone di casa alzò la testa per controllare se le persiane della signora Carmela fossero aperte. Erano ancora chiuse, di certo la sua dirimpettaia non era ancora tornata. Anche quelle di Concetta erano chiuse, lei approfittava delle vacanze dei bambini per stare un po’ in campagna con i suoi e riposarsi. Si girò e infilò la chiave nel portone. Solo allora si rese conto che le finestre della casa del Cavaliere Boccafusca, che davano sul vicolo, erano accostate, segno che era tornato. «Meno male, Yo-yo, almeno c’è il Cavaliere. Vieni, andiamo a bussare alla sua porta.» Cominciarono a salire le scale e Pina con una mano tirava la bambina e con l’altra il trasportino della spesa. Era pesante, pieno di derrate fino all’orlo, e lei faticava a tirarlo su. Lasciò la mano della bambina e lo acchiappò con tutte e due le mani, maledicendo mentalmente l’amministratore e l’ascensore che non funzionava mai. Finalmente arrivarono al primo piano e Pina si fermò affannata. «Fermati Yo-yo, che devo bussare al Cavaliere.» Aspettò di riprendere fiato e poi bussò alla porta. «Chi è?» «Cavaliere, io sono, la Signora Pina.» La porta si aprì e comparve un uomo anziano, dai capelli bianchi.

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«La bella Signora Barone! Ben trovata.» «Grazie Cavaliere. Lei sta bene? Passò una buona Pasqua?» «Ottima, grazie. In compagnia dei miei figli e dei miei nipoti. Sono tornato stamattina. E lei quando è rientrata?» «Ieri sera, ma poi le conto. Avrei bisogno di parlarle di una faccenda seria.» disse con tono grave. «Non mi dica che si tratta di nuovo della scomparsa di qualcuno!» «No, Cavaliere mio, questa volta è tutto il contrario.» «Che volete dire?» Pina indicò la bambina che subito si strinse alla sua gamba, intimidita dall’aspetto severo del Cavaliere. «E chi è, un vostro nipote? Vostro figlio si maritò cu una nivura?» «No, ed è una femminuccia.» rispose tagliando corto. «Quindi devo intuire che invece di una scomparsa si tratta di una comparsa. Dobbiamo parlare di lei, non è vero?» Pina annuì. «Si accomodi e mi racconti tutto.» «No, adesso siamo stanche morte. Se per voi è possibile verrei nel pomeriggio.» «Certo, con gran piacere.» «A più tardi allora.» disse Pina afferrando di nuovo il trasportino e avviandosi sulle scale. «Signora Barone, ma perché andate a piedi?» «Cavaliere, quest’ascensore non funziona mai!» «Questa volta vi sbagliate. Mentre eravate via mi sono presa la briga di lamentarmi con l’amministratore e stamattina, come promesso, ha mandato l’ascensorista ad aggiustarlo.» «Bravo, questa sorpresa non me l’aspettavo proprio. Approfittiamo, finché dura è fortuna.» disse Pina pigiando il pulsante. «Vieni Yo-yo, andiamo a casa. A più tardi Cavaliere.» «A più tardi, mia cara.» le rispose lui richiudendo la porta dell’ascensore. «Ciao Salvatore, siamo tornate.» disse mandando un bacio alla foto del marito. «Non cavai un ragno dal buco, ma poi ti conto che adesso devo preparare da mangiare. La bambina star morendo di fame. Ne hai fame, Yo-yo?» La bambina la guardava sbalordita, sembrava non capire con chi stesse parlando. «Questo qui è mio marito Salvatore» disse Pina prendendo in mano la

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fotografia. «Ti piace?» «Papà!» esclamò Yo-yo ridendo. «Ma allora sai parlare!» «Papà.» ripeté la bambina battendo le mani. «No, non è il tuo papà. Lui è Salvatore, dimmi come si chiama il tuo papà.» Yo-yo non rispose e corse in cucina. «Scusami Salvatore, ma adesso ho da fare.» posò la foto sul mobile e corse anche lei in cucina. Sedute intorno al tavolo Pina e Yo-yo mangiavano in silenzio. Ogni tanto Pina le rivolgeva qualche domanda, ma la bambina rimaneva ostinatamente in silenzio. Che capiva tutto ormai ne era certa, ma non riusciva a credere che potesse essere così silenziosa. Ogni tanto la guardava e le sorrideva, sembrava serena e anche compiaciuta di quello che stava mangiando. Sparecchiarono la tavola e andarono nel salone. Pina sentiva il bisogno di riposarsi le gambe e si distese sul divano. Accese la tv e cercò un programma di cartoni animati, pensando che a Yo-yo facesse piacere guardarli. Ma la bambina ignorò la televisione e si mise a sedere a terra vicino a Pina, poggiò sul tavolinetto davanti al divano l’album e i colori che lei le aveva comprato al mercato e iniziò a disegnare. Pina le accarezzò la testa, i capelli ricci e fitti, con tenerezza. Chiuse gli occhi, aveva bisogno di pensare. Quando li riaprì ebbe la consapevolezza di essersi addormentata e saltò su a sedere. Yo-yo era sempre seduta accanto a lei e colorava i suoi disegni. «Che brava che sei! Che hai disegnato?» le chiese alzandosi. «Pina.» rispose la bambina mostrandole il disegno. «A me disegnasti? Ma mi hai fatto più bella. Continua, io vado in cucina.» “Farina, uova, burro, zucchero, mi pare che ci misi tutto” pensava la Signora Pina mentre impastava la pasta frolla. Voleva portare qualcosa al Cavaliere e le era sembrato che una crostata di mele andasse bene per un pomeriggio ancora invernale. Stese la pasta sulla teglia, la ricoprì con un velo di marmellata di albicocche, - la regina delle marmellate la chiamava lei - dispose le mele a cerchio, le spruzzò di zucchero poi aprì il forno e infilò la teglia.

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Nel giro di un’ora sarebbe stata pronta. Dopodiché si lavò le mani e si sfilò il grembiule. Stava per sedersi quando si ricordò che Yo-yo era ancora nel salone. Andò nell’altra stanza a controllare la bambina, che continuava a disegnare tranquillamente, dopodiché tornò in cucina. Si sedette sulla sedia e appoggiò il mento sulla mano. Aveva bisogno di pensare a cosa fare, ma non sapeva decidersi. Si rendeva conto che più passavano le ore più la sua posizione, nel caso fosse andata alla polizia, si aggravava. Era così preoccupata che sentiva un vuoto nella bocca dello stomaco, e man mano che imbruniva diventava sempre più nervosa. Schizzò dalla sedia e andò alla finestra. L’aprì di scatto sperando che le finestre della Signora Carmela fossero illuminate. Niente, buio completo. “Ma com’è possibile, dico io, che sta gran camurria della Signora Carmela, che è il tormento della vita mia, una volta che mi serve non c’è?” pensò contrariata. In quell’istante un’altra finestra si illuminò. “La Signora Rosa è tornata”, pensò sconsolata. Quella era rimbambita, di certo non avrebbe potuto darle nessun suggerimento. Stava per chiudere le imposte quando vide un’ombra passare davanti alla finestra illuminata. Ma quella non era la Signora Rosa, era un masculo e sembrava... nudo? No, aveva le mutande. E chi era? E la Signora Rosa che fine aveva fatto? Ma che stava succedendo? Incendi, bambine che comparivano all’improvviso, maschi al posto di vecchie signore. Si sentiva sempre più confusa. «Pina!» Pina trasalì e si girò di scatto. «Yo-yo, mi hai fatto spaventare.» La bambina rise e le mostrò un foglio. «Mih, è bellissimo. E chi sono questi qui?» chiese indicando le figure del disegno. «Papà, Yo-yo, mamma.» rispose la bambina. «Ma brava.» disse Pina compiaciuta. Più per i progressi nel parlare che per il disegno. In un giorno erano arrivate a quattro parole: Pina, Yo-yo, mamma e papà. Non era molto, ma era già un inizio. «Vieni, usciamo la torta dal forno, così, appena si raffredda, andiamo a trovare il Cavaliere.» «Mia cara Signora Barone, venga, accomodiamoci nel mio studio.» disse il Cavaliere facendo entrare Pina e la bambina. «Se per lei è lo stesso preferirei andare in cucina. Sa, mi sono presa la libertà di preparare una torta.» gli disse porgendogli il piatto. «Ma certo. La ringrazio del pensiero, allora bisognerà preparare il tè per

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fare onore a questa delizia.» Il Cavaliere fece strada e, una volta in cucina, mise il bollitore sul fuoco, poi si apprestò a prendere le tazze. «Cavaliere non c’è bisogno che vi disturbate...» «Nessun disturbo mia cara, semmai un piacere. Sono rare le occasioni di preparare il tè per qualcuno.» «Quand’è così...» «E allora mia cara, di cosa volevate parlarmi?» disse sedendosi. «Cavaliere, succedono cose strane.» «Avete ricominciato a fare indagini?» chiese l’uomo ridendo. «No, insomma, non ancora!» «Di che si tratta?» «Di lei e non solo.» disse Pina indicando Yo-yo che se ne stava in silenzio a disegnare. «Ah, già mi avevate accennato. È una vostra parente?» «No.» «E allora perché sta con voi?» «È questo il punto. Non so niente di lei!» «È alquanto strano allora che stia con voi.» «Cavaliere, certo che è strano, se no mica ve lo venivo a contare!» «De facto...» «Cavaliere, non cominciamo con il latino, che già ho il mal di testa.» «Scusi, mia cara. Volevo dire che di fatto la bambina è qui; quindi in un certo qual modo qualcuno ve la deve avere affidata.» «Sì, l’ascensore.» «Come dite?» «Che se mi fate contare forse è meglio.» disse Pina spazientita. «Certo, mia cara. Però riterrei più saggio bere il tè con calma e poi accomodarci nello studio per parlare del vostro misterioso problema.» disse alzandosi per prendere il bollitore che fischiava. «Se è più saggio...» Il Cavaliere preparò il tè, poi lo versò nelle tazze e tagliò la crostata, porgendone una fetta a Pina e una a Yo-yo. Faceva tutto con calma, gesti lenti e sicuri, e la bambina lo guardava incantata e intimorita. Nonostante l’età era alto e dritto, indossava una giacca da camera di un blu intenso che faceva risaltare il candore dei suoi capelli, ancora folti. Era stato un esimio professore di storia e, a parte che aveva la mania di declamare in latino, Pina provava stima e rispetto per lui. E poi lo considerava come uno di famiglia, con cui ci si poteva confidare, ma di cui, soprattutto, ci si poteva fidare.

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«Inutile dire che la torta è squisita.» disse il Cavaliere dopo che ebbe mangiato la sua fetta. «E allora non lo diciamo.» ribatté Pina che a volte si spazientiva per tutte quelle cerimonie. «Prima di parlare di cose serie, vorrei dire che la trovo in splendida forma. Suppongo, quindi, che la sua lunga vacanza le abbia giovato.» «Suppone bene, anche se in Germania mi sento un po’ spaesata. E poi non mi piace stare così tanto tempo fuori casa. Ma che vuole fare, per amore dei figli... » «Pro bono pacis, mia cara, comprendo bene. Ma io non mi riferivo solo alla vacanza recente.» Pina sussultò. Certo, il Cavaliere era l’unico ad avere intuito che tra lei e Stefano c’era qualcosa di speciale. Anzi era l’unico a saperlo. Ci mancava solo che quella vipera della Signora Carmela lo venisse a sapere che sarebbe diventato il pettegolezzo di tutta la borgata. «Se si riferisce all’altra vacanza, purtroppo devo dirvi che è finita.» rispose a malincuore. «Questo mi addolora, ma a guardarla non direi proprio che sia finita. Sembra diversa, mia cara, oserei dire più giovane.» «Cavaliere voi volete scherzare…» «No, non mi permetterei mai di prenderla in giro.» «Comunque sia è finita. Che volete farci, è tutto troppo complicato.» «Non credo, deve trattarsi piuttosto di una piccola baruffa. Ricordatevi che amantium irae amoris integratio est.» «Chi dice?» «Una lite tra innamorati è un amore che si rinnova!» «Ah, mah, non lo so. Vi ripeto che è tutto complicato.» disse tagliando corto. Non le piaceva raccontare i fatti propri nemmeno al Cavaliere. «Bene, si vedrà. Vogliamo accomodarci nello studio e parlare dell’altra faccenda?» Pina annuì e si alzò per seguire il Cavaliere. Prima di uscire dalla cucina diede uno sguardo a Yo-yo che se ne stava tranquilla a disegnare. «Io vado di là, se hai bisogno mi chiami.» le disse uscendo dalla stanza. «Allora, mia cara, mi racconti.» «Vi racconto se non mi interrompete ogni tre secondi.» «Dica, l’ascolto.» La Signora Pina raccontò del suo ritorno dalla Germania, della Signora Termini e del suo parto, della polizia e dei pompieri, del ritrovamento

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della bambina dietro l’ascensore, del suo vagare per il mercato senza riuscire a trovare i genitori della piccola e dell’incendio che non era un incendio. Il Cavaliere l’ascoltava annuendo e accarezzandosi il volto con una mano, senza interromperla. Quando ebbe finito di raccontare, Pina si appoggiò allo schienale nell’attesa del suo responso. Ma lui non parlava e continuava ad accarezzarsi il viso con la mano. «E allora, niente avete da dire?» chiese impaziente. «Certo, ma ben poco. In primis devo ricordami di congratularmi con i Signori Termini per la nascita del loro primogenito.» «Cavaliere, non mancherà tempo...» «Per il resto relata refero,» continuò il Cavaliere. «Quindi prendetela come notizia non proprio vera. Stamattina mi hanno riferito che un barbone si era nascosto nella bottega del fruttivendolo. Forse si è addormentato con la sigaretta accesa e quest’ultima ha dato inizio all’incendio.» «Chi ve lo disse?» «È notizia della borgata.» «E allora com’è che Ignazio mi ha raccontato che fu il gas acceso a provocare l’incendio?» «Questo non glielo so dire. Le ripeto: relata refero.» «Siamo alle solite. Qui non c’è mai una sola verità. Però la bambina la trovai e questo è un dato certo.» «Inconfutabile oserei dire.» «Già ma non so a chi appartiene e soprattutto non so cosa fare.» disse Pina sconsolata. «Apertis verbis...» «Cavaliere, per favore...» «Scusi. Apertamente le dico che lei ha una bella gatta da pelare.» «Fin qui ci ero arrivata anche io.» ribatté Pina. «Ha pensato alla cosa più logica?» «Cioè?» «Andare alla polizia.» «Sì, ma scartai subito l’idea pensando che la bambina è figlia di qualcuno che vive qui nei dintorni.» «De facto la bambina è ancora qui. È sicura che non appartiene a nessuno della borgata?» «Sicura no, ma certo che andai su e giù per il mercato e nessuno mi chiese niente.» «Questo però non esclude nulla. Ha domandato a qualcuno?»

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«No, tanto sapevo già che era inutile. Lo sa come siamo noi palermitani, se dobbiamo raccontare tutti i nostri guai la lingua si scioglie, ma appena uno fa una domanda nessuno sa più niente.» «Sì, concordo. Allora conviene aspettare, al punto in cui siamo. De iure… » il Cavaliere si corresse subito. «Secondo la legge siete comunque colpevole, quindi tanto vale essere certi prima di affidare la bambina a qualcuno, sia pure la polizia.» Pina sospirò, aveva sperato in un aiuto, ma il Cavaliere sembrava saperne meno di lei. «Però adesso che ci penso,» disse come illuminato. «Il nipote della signora Rosa è quasi un avvocato. Potremmo chiedere a lui, magari conosce qualcuno che ci può aiutare.» «Ah, ecco chi era l’uomo in mutande!» «In mutande mia cara?» «Sì. Mentre chiudevo la finestra,» mentì Pina. «Ho visto un uomo in casa della Signora Rosa. Mi domandavo per l’appunto chi fosse.» «È Sebastiano, il figlio di sua figlia. Ve lo ricordate?» «No, non mi pare. E la Signora Rosa come sta? Non l’ho vista.» «Infatti non c’è. Ha perso ormai cognizione di ogni cosa e i figli hanno ritenuto più opportuno portarla a vivere con loro. Così Sebastiano si è trasferito qui, l’università gli viene proprio a due passi.» «In parole povere la Signora Rosa stulitio. Certo vecchia assai è, se lo dovevano aspettare.» disse Pina, un po’ dispiaciuta per l’anziana signora. «Non è detto mia cara che essere anziani significhi essere necessariamente rimbambiti.» rispose il Cavaliere con tono offeso. «Ci mancherebbe, Cavaliere, però può capitare. A proposito, la Signora Carmela non c’è, voi lo sapete come mai non è ancora tornata?» Il Cavaliere si dette una manata sulla fronte. «Mi scusi, avevo proprio dimenticato. Ho un messaggio per lei da parte sua. Mi ha lasciato il numero di telefono del figlio, se non vi è troppo di disturbo vorrebbe essere chiamata.» «Ma perché, sta male?» «No, anche se si lamentava molto negli ultimi tempi. Secondo me, sentiva la vostra mancanza e così ha deciso di andare a stare a casa del figlio. Sono certo che appena saprà che siete rientrata tornerà immediatamente.» FINE ANTEPRIMACONTINUA...

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