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Il disdegno di Beatrice e l’averroismo di Francesca RAFFAELE PINTO Universitat de Barcelona Societat Catalana d’Estudis Dantescos [email protected] RIASSUNTO: Nell’articolo viene analizzata la presenza di temi averroisti, e dell’influenza cavalcantiana ad essa vincolata, in due momenti del percorso poetico di Dante, quello collegato al disdegno di Beatrice, che costituisce la cifra metapoetica delle rime che non furono oggetto di interpretazione in prosa nella Vita Nuova e nel Convivio, e quello collegato al personaggio di Francesca da Rimini, nel canto V dell’Inferno. P AROLE CHIAVE: averroismo, Beatrice, Cavalcanti, disdegno, francesca, umiltà. ABSTRACT: This article analyses the presence of Averroan themes and the cavalcantine influence this emits, in two instances of Dante´s poetical itinerary: that which is linked to Beatrice´s contempt, represented by the meta-poetic number of verses which were not later subject to prose interpretation in the Vita Nuova and the Convivio, and that linked to the character of Francesca da Rimini in Canto V of the Inferno. KEYWORDS: averroism, Beatrice, Cavalcanti, disdain, Francesca, humility. 75

Beatrice e Francesca

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Il disdegno di Beatrice e l’averroismo di Francesca

RAFFAELE PINTO

Universitat de BarcelonaSocietat Catalana d’Estudis Dantescos

[email protected]

RIASSUNTO:

Nell’articolo viene analizzata la presenza di temi averroisti, e dell’influenzacavalcantiana ad essa vincolata, in due momenti del percorso poetico di Dante,quello collegato al disdegno di Beatrice, che costituisce la cifra metapoetica dellerime che non furono oggetto di interpretazione in prosa nella Vita Nuova e nelConvivio, e quello collegato al personaggio di Francesca da Rimini, nel canto Vdell’Inferno.

PAROLE CHIAVE: averroismo, Beatrice, Cavalcanti, disdegno, francesca, umiltà.

ABSTRACT:

This article analyses the presence of Averroan themes and the cavalcantineinfluence this emits, in two instances of Dante´s poetical itinerary: that which islinked to Beatrice´s contempt, represented by the meta-poetic number of verseswhich were not later subject to prose interpretation in the Vita Nuova and theConvivio, and that linked to the character of Francesca da Rimini in Canto V ofthe Inferno.

KEYWORDS: averroism, Beatrice, Cavalcanti, disdain, Francesca, humility.

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1. La ricognizione dei motivi averroisti (e neoaverroisti, ossia relativiall’averroismo latino) nell’opera di Dante ha privilegiato, come era logicoche fosse, il pensiero di Dante nei suoi aspetti filosofici, e si è quindi con-centrata sulle opere dottrinali, cioè il Convivio, il De Vulgari Eloquentiae la Monarchia, e sui luoghi della Commedia nei quali il poeta affrontatemi squisitamente dottrinari1. Un approccio più “letterario” alla questionedell’averroismo, che ne individui gli effetti sul suo pensiero poetico, si èverificato in rapporto a personaggi il cui simbolismo è più o meno chia-ramente impregnato di elementi riconducibili al filosofo di Cordova, comeè il caso dello stesso «Averoìs, che ‘l gran comento feo», nel IV dell’In-ferno (144) e di Sigieri di Brabante che appare nel Fiore (XCII, 9-112) enella Commedia (Par. X, 133-1383), nei quali il riferimento è ovvio, epoi di Guido Cavalcanti (nell’episodio relativo al padre, Inf. X4) e diUlisse (Inf. XXVI5). Un indizio di più stringente adesione all’averroismosul piano del pensiero propriamente poetico mi è sembrato poi rilevabilenella formula con cui Dante definisce il proprio stile in Purg. XXIV, 52-54:

E io a lui: «I’ mi son un che, quandoAmor mi spira, noto, e a quel modoch’e’ ditta dentro vo significando»

che ricalca la definizione dei modi significandi in Boezio di Dacia (Modisignificandi sive quaestiones super Prisc. m., q. 17): «Modi significandidictionum sunt principia per quae fit iunctura dictionum in contextu par-tium orationis ad exprimendum debito modo conceptum intentum» (cfr.Pinto 2002).

D’altra parte, relativamente al “disdegno di Guido” di Inferno X, inaltra occasione ho cercato di mostrare come l’errore di lettura del perso-naggio-Cavalcante consista proprio nella inversione di soggetto e oggettorispetto al predicato «ebbe a disdegno», per cui Guido più ed oltre chedisdegnante, viene lì presentato (secondo una delle due letture possibili)come disdegnato (Pinto 2000-2001). Il che da una parte coincide alla let-tera con l’immagine di amante disdegnato dalla donna amata che Guido

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esibisce di sé6, e dall’altra traduce sul piano romanzesco la tesi averroistacirca il carattere oggettivo, e non soggettivo, della posizione che l’indi-viduo (nell’esempio di Tommaso, Socrates) occupa nel processo di conos-cenza7. Il disdegno di cui è questione nel brano è quindi quello di Beatrice,cioè della donna in quanto astratto soggetto/oggetto di desiderio e conos-cenza dei due poeti.

Il “disdegno di Beatrice” apre un cammino esegetico privilegiato perosservare il modo in cui l’universo erotico-lirico si riconnetta, isomorfi-camente, all’universo filosofico-speculativo, giacché in Guido, come diconseguenza anche in Dante, esiste un preciso rapporto fra la concezionedolorosa dell’amore e la teoria averroista della unità dell’intelletto. Ciòche sul piano sentimentale si presenta come angoscia mortale determinatadal disdegno della donna, sul piano speculativo si presenta come impos-sibilità di tradurre i fantasmi del desiderio in principi razionali (poiché lapassione impedisce il salto conoscitivo verso l’universalità del concetto).Inoltre il nesso che unisce immediatamente filosofia e teologia, nella cul-tura dell’epoca, stabilisce una ulteriore connessione fra l’erotismo da cuiparte l’esperienza lirica e l’universo teologico della trascendenza reli-giosa, connessione tanto caratteristica dei due poeti, e dei cosiddetti stil-novisti, quanto sostanzialmente estranea alla poesia precedente8. In taleprospettiva, lo scambio di sonetti fra Bonagiunta e Guinizzelli (Voi cheavete mutata la mainera e Omo ch’è saggio non corre leggero) e la suarivisitazione da parte di Dante nei canti XXIV-XXVI del Purgatorio, san-ciscono inequivocabilmente che la rottura nella tradizione lirica italianae l’inizio della modernità letteraria coincidono con una sperimentazionepoetica che collega il desiderio sessuale alla ricerca filosofico-teologica(con forme e gradi diversi di approfondimento e complessità, nei variscrittori). Risulta quindi pienamente pertinente l’allusione, nella defini-zione dello stil novo cui si accennava prima, a linee di ricerca squisita-mente averroiste, come sono le teorie ‘modiste’ sul linguaggio, poichécon essa Dante mette in evidenza una componente ideologica essenzialedella propia poetica e dei suoi più immediati interlocutori. Può risultareincongruente addurre una tesi aristotelico-radicale sul linguaggio (quella

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dei modisti) accanto ad una fonte mistico-agostinana (quella che risultadallo spirito d’amore che «dictat interius», nella stessa terzina). Ma èproprio di Dante conciliare, nella “sua“ prospettiva teologica, ciò chenella logica storica e reale non lo sarebbe. Tali incongruenze sul pianodella teoria rappresentano appunto la specificità della sua poetica, che sa-rebbe riduttivo (data la statura del suo genio) analizzare esclusivamentecon i criteri della coerenza concettuale delle scuole di pensiero. Questesono, in realtà, il materiale che Dante trasforma in poesia, elaborandonuove e a volte stupefacenti sintesi, i cui percorsi concettuali vanno peròricostruiti per capire le strategie inventive del poeta. Risulta, di conse-guenza, criticamente necessario descrivere le modalità di trascrizionedella esperienza di desiderio in quella di conoscenza, soprattutto nei dueprincipali protagonisti di tale transcodificazione, cioè Cavalcanti e Dante,la cui solidarietà o complicità in materia poetica (ben documentata, al-meno fino alla composizione del libello giovanile, dalle affermazioni ivipresenti) si basa innanzitutto sulla comune adesione (totale in Guido, par-ziale in Dante) ai presupposti gnoseologici dell’averroismo.

2. Si considerino da una parte i sonetti di Cavalcanti A me stesso di mepietate vène (vv. 9-11) e Certo non è de lo ‘ntelletto accolto (vv. 12-14):

A me stessoperò che, quand’i’ guardo verso lei,rizzami gli occhi dello su’ disdegnosì feramente, che distrugge ‘l core.

Certo non èAncor dinanzi m’è rotta la chiavedel su’ disdegno che nel mi’ cor verso,sì che n’ho l’ira, e d’allegrezza è pianto9;

e dall’altra Donna me prega, 29-34:

[L’amore, cioè «un accidente che sovente è fero»]

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Non è vertute, – ma da quella vènech’è perfezione – (ché si pone – tale),non razionale, – ma che sente, dico;for di salute – giudicar mantene,ché la ‘ntenzione – per ragione – vale.

Il disdegno di lei, nei due sonetti, visualizza con una immagine di plas-tica evidenza («gli occhi / la chiave del disdegno») gli effetti psichica-mente distruttivi del desiderio, il cui doloroso scacco per l’io la canzoneinterpreta, a sua volta, como esaltazione totalizzante della sensibilità (ave-rroisticamente concepita come perfezione dell’anima), la quale occupa illuogo che spetterebbe alla razionalità, surrogandone le funzioni ed usur-pandone la attività di giudizio (usurpazione tanto più agevole in quantole attività di essa sono concepite come universali ed astratte, non sostan-zialmente collegate alla mente e alla persona). Un desiderio sessuale chesi dispiegasse nell’ambito della “normalità” fisiologica, infatti, non osta-colerebbe l’esercizio della ragione (l’intelletto agente, che dall’esternointerviene sui fantasmi prodotti dalla sensibilità, concettualizzandoli), poi-ché non invaderebbe con la sua oltranza («oltre misura di natura torna»,44) il dominio della razionalità. Tale premessa, implicita del ragionamentodi Guido, è essenziale, poiché costituisce uno degli assiomi condannati daTempier nella sua requisitoria contro l’aristotelismo radicale degli ar-tisti10. Questo presupposto si scontra infatti frontalmente con i requisiti as-cetici della cultura clericale, che fa della rinuncia alla sessualità lacondizione del proprio esercizio intellettuale (e il fondamento etico dellaidentità del chierico).

Non si capisce il pessimismo di Guido, cioè la sua interpretazione ago-nizzante del desiderio, se non lo si mette in rapporto con una teoria (l’a-verroismo, appunto) che spacca in due l’essere umano scavando un abissofra il lato sensibile e passionale della psiche e il suo lato intellettuale,abisso che solamente chi esercita la filosofia è in grado di colmare. Coluiche è vittima del desiderio, invece, è incapace di farlo, poiché il fascinoesercitato dal corpo della persona desiderata (la «veduta forma» di Donname prega, 21) ottenebra la sua mente imprigionandola nel circolo vizioso

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della passione, che non ha altro orizzonte che non sia quello rappresentatodalla persona sessualmente concupita, e che condanna quindi il soggettoa proiettarsi interamente in una dimensione, quella del corpo, destinata aperire con la morte. È questo il punto chiave della poetica di Guido cheDante evoca quando dice a Cavalcante, in Inferno X, che Guido nonavrebbe potuto essere lì perché fu oggetto di disdegno da parte delladonna che amava (la sua ‘beatrice’). In effetti, con quelle parole Dantenon fa altro che citare lo stesso Guido, la cui concezione dell’amore es-cludeva dal desiderio qualsiasi apertura razionale e metafisica. «Non c‘ènulla di strano», viene a dire al padre, «nel fatto che Guido non sia qui:egli stesso si è precluso questa possibilità considerando della donna esclu-sivamente il lato disdegnoso, cioè refrattario ad ogni processo di raziona-lizzazione». È chiara, d’altra parte, anche la differenza rispetto a Dante,il quale, non essendo oggetto di disdegno da parte della donna che amava(a partire da un certo momento della sua carriera letteraria), può ora esseresalvato da lei, che gli apre le porte della trascendenza chiamandolo a sé.Il perfetto (ebbe) che, alludendo alla morte di Beatrice, fa scattare la con-fusione in Cavalcanti, che crede invece morto il figlio, è velatissima allu-sione al tema del lutto che ha trasformato la percezione che Dante ha deldesiderio e della donna, allontanandolo dalle posizioni ‘averroiste’dell’amico.

In tale prospettiva esegetica appare chiarissima anche la posizione ete-rodossa e sovversiva di Guido (e di Dante, nella misura in cui ne condi-vide gli assiomi di matrice averroista): alla nostra sensibilità il suovittimismo ed il suo ripiegamento interiore appaiono frutto di un atteggia-mento ideologicamente rinunciatario, di un esasperato soggettivismo chesfugge al conflitto con l’autorità. Sul piano della storia politico-culturaleè invece esattamente il contrario, poiché (come perfettamente intesero icontemporanei) tale soggettivismo mina i fondamenti del sapere teologicoufficiale, il cui sistema integra il reale ed il trascendente in una visione ar-monicamente provvidenziale (nella quale risultano giustificate anche leeventuali dissonanze, come il male o l’azione del maligno). Guido nonsolo aderisce ad una corrente dell’aristotelismo non ortodossa (l’ave-

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rroismo latino), ma ne radicalizza gli effetti ideologicamente destabiliz-zanti traducendo in essa la patologia del desiderio sessuale, che nelle suemani si trasforma in un potente strumento di sovversione culturale. È ap-punto ciò che sottolinea Boccaccio nel racconto del Decameron che gli èdedicato, nel quale il poeta viene esaltato come portatore di un sapere fi-losofico irriducibile a qualunque norma o convenzione socialmente con-divise.

Di tale sovversione è cifra il disdegno ed i temi collegati. Il fatto cheesso indichi, in Dante, oltre che un atteggiamento morale di disprezzo(come nel messo del canto IX11), anche una poetica, i cui tratti distintivisono l’ostilità della donna e l’ottenebrazione mentale del soggetto, vieneesplicitamente affermato nel congedo di Amor che nella mente mi ra-giona, il quale, riferendosi alla ballata Voi che savete ragionar d’amore,che sembra quasi parodiare Cavalcanti con la sua insistenza sulla nozionedi disdegno (4 occorrenze in 28 versi), ne mette in evidenza il caratteremetaletterario, poiché lo oppone al concetto antagonista di umiltà. Ciòvuol dire che esistono due concezioni o esperienze del desiderio, la primabasata sul disdegno della donna e l’altra basata sulla sua umiltà. Mentrela prima è condivisa dai due amici (benché Guido possa rivendicare persé la priorità cronologica), la seconda è caratteristica del solo Dante, cheanzi proprio ad essa (sotto la virtuale etichetta di “poetica della lode”) af-fida la sbandierata novità del proprio stile12. La lettura autointerpretativadel Convivio, nei luoghi in cui il congedo della canzone viene interpretato,chiarisce bene il rapporto di isomorfismo che Dante ha stabilito fra ilpiano della sessualità (sul quale è in discussione il desiderio del soggettoe il suo riconoscimento da parte della amata) e il piano della filosofia, sulquale è in discussione la capacità del soggetto di intendere o no le sue ve-rità. Nella interpretazione letterale di III, 10, il disdegno della donna nellaballata viene spiegato in questo modo:

Dov’è da sapere che quanto l’agente più al paziente sè unisce, tantopiù forte è però la passione, sì come per la sentenza del Filosofoin quello De Generatione si può comprendere; onde, quanto lacosa desiderata più appropinqua al desiderante, tanto lo desiderio

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è maggiore, e l’anima, più passionata, più si unisce a la parte con-cupiscibile e più abbandona la ragione. Sì che allora non giudicacome uomo la persona, ma quasi come altro animale pur secondol’apparenza, non discernendo la veritade. E questo è quello per chelo sembiante, onesto secondo lo vero, ne pare disdegnoso e fero;e secondo questo cotale sensuale giudicio parlò quella ballatetta.

Nella interpretazione allegorica di XV, 19-20, invece, del disdegnoviene data questa spiegazione:

Dov’è da sapere che dal principio essa filosofia pareva a me, quantoda la parte del suo corpo, cioè sapienza, fiera, ché non mi ridea, inquanto le sue persuasioni ancora non intendea; e disdegnosa, chénon mi volgea l’occhio, cioè ch’io non poteva vedere le sue di-mostrazioni: e di tutto questo lo difetto era da lo mio lato.

Una attenta lettura dei due brani ci permette di capire bene in che modosi distribuiscano isomorficamente sui due piani gli elementi tematica-mente pertinenti. Nel primo il disdegno (apparente) della donna viene co-llegato alla distanza fra oggetto desiderato (l’agente, cioè la donna) esoggetto desiderante (il paziente, cioè l’amante), in modo tale che la ridu-zione di tale distanza implica immediatamente l’esacerbazione del deside-rio, che si inclina verso una pulsionalità non disciplinata (che si presentanel testo della ballatetta come un impasto di tensioni propriamente eroti-che e tensioni aggressive). Tale esacerbazione viene intesa dal poeta comeregressione dell’io verso la istintualità animalesca: «non giudica comeuomo la persona, ma quasi come altro animale». Implicitamente dob-biamo poi intendere che, al contrario, l’aumento della distanza fra agentee paziente attenua la violenza delle pulsioni e permette la loro razionaliz-zazione, ossia il controllo che la mente esercita sulle passioni. La distin-zione è fondamentalissima per capire il senso che ha la morte di Beatricenella Vita Nuova, poiché appunto morendo l’oggetto di desiderio del poetasi disloca dalla terra al cielo aumentando in modo radicale ed irreversibilela distanza da lui e scomparendo dal suo orizzonte visivo. Ma proprio taleinfinita distanza, che è fisica e metafisica nello stesso tempo, permette a

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Dante di cogliere la verità della donna e del desiderio, cioè il contenutofilosofico-teologico che nell’una e nell’altro si occulta13. Si consideri,d’altra parte, che il carattere di Beatrice prima della morte coincide per-fettamente con il fantasma femminile ostile descritto da Guido (come ap-pare nell’episodio del gabbo e nei sonetti che lo rievocano14), e che laparte di gran lunga più ingente della produzione lirica di Dante descriveappunto un fantasma femminile di questo tipo, che deve senz’altro essereidentificato con Beatrice (come la canzone Lo doloroso amor che mi con-duce espressamente afferma: «Per quella moro ch’ha nome Beatrice»,14)15. Ciò che, però, in questa sede deve essere sottolineato, dell’appas-sionamento di cui il disdegno della donna è figura, è il blocco delle fun-zioni intellettuali dell’io, che sono neutralizzate dall’eccesso di desiderio.È qui che Cavalcanti e, seguendo lui, Dante hanno collegato il tradizio-nale discorso poetico sull’amore con i più recenti sviluppi dell’aristote-lismo, che a partire dalle concezioni del filosofo di Cordova, avevanoteorizzato una frattura fra gli organi della sensibilità e le funzioni della ra-zionalità: essendo gli uni materiali (la fisiologia del corpo) e le altre im-materiali (i processi puramente teoretici del pensiero), il collegamento frale due sfere era considerato occasionale ed intermittente, dovuto unica-mente al fatto che la razionalità (unica per tutta l’umanità e separata daogni uomo concreto) ha bisogno, aristotelicamente («nihil est in intellectuquod prius non fuerit in sensu»), dei fantasmi prodotti dagli organi delcorpo. La mossa geniale di Guido consisteva nel trascrivere tale fratturagnoseologica nella esperienza del desiderio: se questo, nel suo grado es-tremo, è «tanto / ch’oltra misura – di natura – torna», allora diventa im-possibile, per la razionalità, gestirlo per i suoi scopi naturali (realizzare,cioè, la conversione del fantasma in concetto). Per questo motivo la pas-sione d’amore sulla razionalità (o “intelletto possibile”)

[...] mai non ha possanzaperché da qualitate non descende:resplende – in sé perpetual effetto;non ha diletto ma consideranza.

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Cioè: (l’amore) non è in grado di modificare la razionalità (e quindi diessere razionalizzato), poiché questa non è prodotta dal vario combinarsidegli elementi naturali (le qualità fisiche della materia); in essa, infatti,risplende solo la luce eterna della intelligenza; la razionalità non tieneconto del piacere che eventualmente producono gli oggetti presi in con-siderazione, ma semplicemente del loro valore conoscitivo.

L’aggancio analogico (o isomorfico, o allegorico) della esperienza didesiderio alla esperienza conoscitiva viene ribadito nel secondo brano,quello che interpreta i versi del congedo di Amor che nella mente secondol’allegoria. Qui il disdegno viene interpretato come incapacità del sog-getto di intendere le persuasioni e le dimostrazioni della filosofia (e sibadi al sinonimo «fera», che, come già nella canzone, al v. 76, riecheggial’«accidente» di Donna me prega, che sovente è «fero»). Indipendente-mente dalla forzatura autoesegetica della prosa, che attribuisce alla can-zone e alla ballata un simbolismo che sicuramente non avevano quandofurono composte e che dipende dal nuovo progetto culturale che ispira laredazione del Convivio, è però rivelatore il procedimento di trascodifica-zione che il brano mette in luce: il personaggio femminile evocato dallaballata va letto, nella sua genesi e nel suo significato, sullo sfondo di unateoria filosofica che problematizza il rapporto fra sensibilità e razionalità,rapporto che viene sostanzialmente spezzato da una esperienza di deside-rio nella quale la passione ha il sopravvento sulla ragione e ne mette a ta-cere il consiglio. È appunto la poetica di Guido, che la ballata Voi chesavete riproduce fedelmente. Ce ne renderemo conto meglio osservandola palinodia che il Fiore realizza rispetto alla Vita Nuova circa la compa-tibilità fra Amore e Ragione: mentre il libello la teorizzava, perché sinto-nizzato sul regime della umiltà della donna, e quindi sulla possibile edauspicabile razionalizzazione del desiderio, il Fiore, che rappresenta unripiegamento sulle posizioni averroistiche dell’amico, la sconfessa. Nel so-netto XXXVIII la trama intertestuale nei confronti della Vita Nuova edella poesia di Guido è fittissima:

L’Amante«Ragion, tu sì mi vuo’ trar[e] d’amare

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e di’ che questo mi’ signor è reo,e ch’e’ non fu d’amor unquanche deo,ma di dolor, secondo il tu’ parlare.da·llui partir non credo ma’ pensare,né tal consiglio non vo’ creder eo,chéd egli è mi’ segnor ed i’ son seofedel, sì è follia di ciò parlare.Per ch’e’ mi par che ‘l tu’ consiglio siafuor di tu’ nome troppo oltre misura,ché sanza amor nonn-è altro che nuìa.Se Fortuna m’à tolto or mia ventura,ella torna la rota tuttavia,e quell’è quel che molto m’asicura».

Si considerino in particolare i versi 9-10 («Per ch’e’ mi par che ‘l tuoconsiglio sia / fuor di tu’ nome troppo oltre misura»): da una parte c’è il«consiglio di Ragione», che l’Amante si rifiuta di seguire; dall’altra c’èla citazione da Donna me prega «oltre misura», che indica un eccesso da-ll’Amante attribuito non all’amore, di cui è fedele seguace, ma alla Ra-gione, il significato del cui nome viene smentito dai consigli che dà. Ilparadosso si spiega, ovviamente, con la circostanza che l’Amante parla ot-tenebrato dal desiderio, poiché in lui la «’ntenzione per ragione vale».

3. Ma l’aspetto più interessante di tale categorizzazione filosofica delfantasma femminile è il fatto che la ballata rappresenta, oltre che se stessa,anche tutti i testi lirici di Dante in cui il fantasma femminile si atteggianello stesso modo, cioè secondo la modalità “disdegnosa”. Come ho pro-vato a mostrare in altre occasioni (Pinto 2008, Pinto 2010a, Pinto 2010c)le Rime di Dante anteriori all’esilio possono essere utilmente raggruppatesecondo la categorizzazione fornita dal Convivio, distinguendo la serieispirata dal disdegno e la serie ispirata dall’umiltà (l’uno e l’altra predicatidella donna). Al loro interno, le due serie possono poi essere ulteriormenteraggruppate secondo precise affinità tematiche. Per comodità del lettoreriproduco qui il grafo (relativamente alle sole canzoni):

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1. POETICA DEL DISDEGNO 2. POETICA DELL’UMILTÀ

Cavalcantismo ortodosso

1.1. Lo doloroso amor che mi con-duce

1.2. E’ m’incresce di me sì duramente

2.1. La lode

2.1.1. Amor che nella mente mi ra-giona

2.1.2. Donne che avete intellettod’amore

Cavalcantismo neoplatonizzante

1.3. La dispietata mente che pur mira

1.4. Amor che movi tua vertù dalcielo

2.2. Il lutto

2.2.1. Donna pietosa e di novellaetate

2.2.2. Li occhi dolenti per pietà delcore

2.2.3. Voi che ‘ntendendo il terzo cielmovete

Cavalcantismo rigoroso

1.5. Io sento sì d’amor la gran pos-sanza

1.6. Io son venuto al punto della rota

1.7. Al poco giorno ed al gran cerchiod’ombra

1.8. Amor, tu vedi ben che questadonna

Cavalcantismo estremo

1.9. Così nel mio parlar vogli’ esseraspro

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Rinvio ai lavori citati per una discussione dettagliata sui criteri (freu-diani) che ispirano tale ordinamento. Qui mi preme osservare che tutte lecanzoni della serie dell’umiltà sono state oggetto di interpretazione inprosa (nella Vita Nuova e nel Convivio) e tre di loro sono state citate nellaCommedia (Amor che nella mente, Donne che avete, Voi che ‘ntendendo);nessuna dell’altra serie appare commentata o citata nelle tre opere16. Ildato mette in evidenza la operatività della distinzione ermeneutica fradisdegno e umiltà: il principio di razionalizzazione collegato alla secondasi manifesta attraverso la potenziale utilizzazione del testo a fini intepre-tativi, vuoi sul piano storico-biografico (secondo il modello ermeneuticodella Vita Nuova) vuoi sul piano filosofico (secondo il modello ermeneu-tico del Convivio). La rottura del rapporto fra sensibilità e razionalità (cheaverroisticamente ispira il tema del disdegno della donna) preclude talepossibilità e impedisce che il senso dei testi possa essere aperto attraversola prosa. È il principio fissato nel cap. XXV della Vita Nuova, per il qualel’uso delle metafore da parte dei poeti non può essere indiscriminato, masempre soggetto alla formulazione di verità suscettibili di essere poi di-chiarate attraverso la prosa interpretativa: «degno è lo dicitore per rima difare lo somigliante [cioè metafore], ma non sanza ragione alcuna, ma conragione, la quale poi sia possibile d’aprire per prosa».

Nello stesso brano viene chiamato in causa proprio Guido. E si trattadi un riconoscimento dovuto perché proprio lui, a Firenze, ha inauguratola sistematica conversione dei temi lirici in postulati filosofici. Dante in-dubbiamente, nel libello, sta sperimentando su un terreno teologico moltodiverso da quello dell’amico; ma ciò che conta soprattutto (all’altezzadella Vita Nuova) è l’iniziativa stessa della conversione, che introduceuna frattura irreversibile nella tradizione lirica stravolgendo il rango ed icontenuti culturali della poesia; è invece (ancora) relativamente irrilevantela linea filosofico-teologica adottata:

E acciò che non ne pigli alcuna baldanza persona grossa, dico chené li poete parlavano cosè sanza ragione, né quelli che rimanodeono parlare così, non avendo alcuno ragionamento in loro diquello che dicono; però che grande vergogna sarebbe a colui che

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rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, do-mandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, inguisa che avessero verace intendimento. E questo mio primo amicoe io ne sapemo bene di quelli che così rimano stoltamente.

Ciò che qui il poeta rivendica è, in astratto, la possibilità di dedurredalle figure della poesia contenuti di verità filosofica17. È questa possibi-lità ciò che, all’interno della tradizione, segna una svolta irreversibile(svolta auspicata già da Guinizzelli, citato nel capitolo XX attraverso il so-netto Amor e il cor gentile, e che attualmente è gestita da Guido e daDante), indipendentemente dalla specifica qualità ideologica di tali con-tenuti. Coloro che, senza tener conto dei moderni requisiti filosofici dellapoesia, «rimano stoltamente» secondo il vecchio stile di una metaforicitàfine a se stessa, sono i ben noti obiettivi polemici di Guido e Dante, cioèGuittone e i guittoniani (con i Siciliani sullo sfondo), in nome dei qualitutti farà ammenda Bonagiunta in Purg. XXIV. Qui Dante, citando gliaverroisti (cioè Boezio di Dacia e i ‘modisti’), a proposito di Donne cheavete, ribadisce i limiti filosofici della vecchia scuola già denunciati nel“libello”.

Nell’analizzare le posizioni ideologiche degli stilnovisti, bisognaquindi tener conto di una duplice frattura: quella che separa tutti i membridel gruppo (comunque questo sia formato) dalla poesia toscana (cioè guit-toniana) anteriore; e poi quella che separa, all’interno del gruppo, gli “ave-rroisti” (o “artisti”18) dai teologi. Relativamente a quest’ultima, fra i primibisogna includere ovviamente Guido e poi il Dante delle rime del disdegno;fra i secondi bisognerà includere Guinizzelli (almeno quello di Amor c’alcor gentile), il Dante delle rime dell’umiltà, e Cino. All’altezza della VitaNuova, l’unica frattura significativa è la prima. La seconda lo diventa conDonna me prega. Infatti, sarà proprio Guido che, rispondendo con lagrande canzone dottrinale alla Vita Nuova, metterà in primo piano i con-tenuti filosofici della transcodificazione, teorizzando l’orizzonte neces-sariamente averroista del desiderio poeticamente trattato. Mentre Danteritiene, nel “libello”, che la poetica del disdegno sia compatibile con que-lla dell’umiltà, essendo la seconda nient’altro che uno sviluppo della

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prima, Guido assiomatizza come definitoria dell’amore la spaccatura frasensibilità e razionalità, e quindi la improponibilità di qualunque letturateologica del desiderio19. Donna me prega assume così un valore straor-dinario nello sviluppo del rapporto fra i due amici non solo relativamentea Guido, che grazie ad essa occupa un luogo di assoluto rilievo nella tra-dizione letteraria italiana20, ma anche relativamente a Dante, che solodopo la perentoria presa di posizione di Guido avverte la irreversibilitàideologica delle proprie scelte filosofiche, che nel “libello” gli appaionotutte solidali e convergenti ad una medesima finalità estetica.

4. Sulla parentela ideale tra Francesca da Rimini e Guido Cavalcanti hainsistito G. Sasso (2008: 173-196), che però esclude, nel personaggio,l’eco di assiomi averroisti in senso stretto21. Credo invece che il personag-gio sia dedotto da Dante proprio da quegli assiomi, e che sia necessariointenderne la invenzione nel quadro del problema capitale del libero ar-bitrio, che da una parte costituiva tema di dibattito fra aristotelici e teologi,e dall’altro è fondamento teorico dell’al di là dantesco. Se, infatti, solo apartire dalla libera volontà di scelta del soggetto sono teologicamenteplausibili la sua condanna o la sua salvezza, Dante non poteva ignorare (enon ignorava, come vedremo subito) che l’accentuazione aristotelica sullacomponente razionale della scelta, caratteristica dell’averroismo, rispettoa quella volontaristica propria della tradizione agostiniana, incrinava la pu-rezza etica dell’atto di volontà, facendone una funzione della maggiore ominore consapevolezza razionale del soggetto (vid. Nardi 1944). Risolu-tamente percorsa da un Sigieri di Brabante, questa strada era ben familiareallo stesso Tommaso, che infatti fu coinvolto, per alcune sue tesi al ri-guardo, nella condanna parigina del 1277. Indipendentemente dalle posi-zioni esplicitamente assunte da Dante (soprattutto in Purg. XVIII e Mon.I; vid. Vanni Rovighi 1965), che comunque a Nardi risultano omogeneea quelle degli averroisti, la lussuria dei primi peccatori dell’Inferno pro-priamente detto poneva, relativamente al libero arbitrio, un problemasquisitamente teologico, poiché la loro colpa consiste propio nel fatto chela «ragion sommettono al talento» (cfr. Nardi 1944: 301), e risulta quindi

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più che mai plausibile la domanda: fino a che punto è responsabile deipropri atti chi, essendo accecato dalla passione, non può disporre di un «li-berum de voluntate iudicium»? L’intero edificio teorico di Donna meprega, d’altra parte, poggia sull’assioma che «(Amore) for di salute giu-dicar mantene / ché la ‘ntenzione per ragione vale: / discerne male in cuiè vizio amico» (32-34). La conseguenza di tale ottenebrazione mentale èla morte: «Di sua potenza segue spesso morte» (35), come ribadisce Fran-cesca: «Amor condusse noi a una morte» (106). Si osservi come l’attri-buire ad Amore la responsabilità della colpa, facendone il soggetto di tuttii predicati (fra il verso 100 e il verso 106) è struttura speculare rispetto allacanzone di Guido, della quale Francesca si limita ad estrarre le implica-zioni sul piano del vissuto, mostrando, in atto, come l’amore accechi lacoscienza dell’amante facendogli credere di non poter opporre alcuna re-sistenza ai suoi fatali dettati.

Prima di intervistare Francesca, Dante ha incontrato Minosse, e l’havisto giudicare le anime ed assegnare a ciascuna il suo posto ed il conse-guente castigo, considerandole, quindi, pienamente responsabili dei loroatti (V, 1-24). Ma lo sono davvero? Lo sono sempre, ed in ogni circos-tanza? Nelle sue due parlate la donna segue un’unica semplice strategia,che è quella di attribuire ad altri (Amore, Gianciotto, Lancillotto, «il libroe chi lo scrisse») la responsabilità del suo crimine, smentendo così il prin-cipio su cui l’idea stessa di colpevolezza si basa. Il che è cosa diversa dalrestare fedeli al proprio peccato, come fanno quasi sempre i dannatidell’Inferno: lei non solo continua a peccare (cioè a godere e a soffrire delsuo peccato), ma ne rifiuta anche la responsabilità. Nella sua prospettiva,Minosse l’ha condannata per un gesto di cui né lei né Paolo sono respon-sabili. La perplessità di Dante personaggio (che infatti chiede a Francescache gli narri le circostamze in cui Amore indusse lei e il cognato a com-mettere l’atto che li avrebbe condannati) è quindi innanzittuo motivatadal sorprendente atteggiamento di Francesca stessa, che allontana risolu-tamente da sé la responsabilità che le è stata attribuita.

Per capire le ragioni di Francesca, il suo punto di vista, bisogna adden-trarsi proprio in quegli assiomi averroisti che Guido così sapientemente

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aveva tradotto nella logica del desiderio. Si considerino tali proposizioni(entrambe provenienti dagli ambienti dell’aristotelismo radicale), con-dannate da Stefano Tempier nel 1277:

168. Quod homo agens ex passione coacte agit22.

169. Quod voluntas, manente passione et scientia particulari in actu,non potest agere contra eam23.

Tali assiomi negano che l’uomo sia libero di agire quando è mossodalla passione. In particolare la seconda proposizione fu messa in rela-zione con alcune tesi di Tommaso d’Aquino:

Immutatio hominis per passionem duobus modis contingit. Unomodo, sic quod totaliter ratio ligatur, ita quod homo usum rationisnon habet, sicut contingit in his qui propter vehementem iram velconcupiscentiam furiosi vel amentes fiunt, sicut et propter aliquamaliam perturbationem corporalem; huiusmodi enim passiones nonsine corporali transmutatione accidunt. Et de talibus eadem estratio sicut et de animalibus brutis, quae ex necessitate sequunturimpetum passionis, in his enim non est aliquis rationis motus, etper consequens nec voluntatis (S.T., I-II, q. 10, a. 3, resp.)24.

Ille qui est in passione constitutus, non considerat in particulariid quod scit in universali, inquantum passio impedit talem consi-derationem. Impedit autem tripliciter. Primo, per quandam distrac-tionem, sicut supra expositum est. Secundo, per contrarietatem,quia plerumque passio inclinat ad contrarium huius quod scientiauniversalis habet. Tertio, per quandam immutationem corporalem,ex qua ratio quodammodo ligatur, ne libere in actum exeat, sicutetiam somnus vel ebrietas, quadam corporali transmutationefacta, ligant usum rationis. Et quod hoc contingat in passionibus,patet ex hoc quod aliquando, cum passiones multum intenduntur,homo amittit totaliter usum rationis, multi enim propter abundan-tiam amoris et irae, sunt in insaniam conversi. Et per hunc modumpassio trahit rationem ad iudicandum in particulari contra scien-tiam quam habet in universali (S.T., I-II, q. 77, a. 2, resp.). [corsivonostro].

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Il fatto che le passioni, in particolare quelle dell’amore e dell’ira, limi-tino o annullino l’efficacia del libero arbitrio (conseguenza necessaria diuna concezione intellettualistica della libertà, come è, almeno parzial-mente, sia in Tommaso che in Dante), era stato dallo stesso Dante teoriz-zato in due testi scritti immediatamente a ridosso della composizione delV dell’Inferno, cioè nel sonetto a Cino da Pistoia Io sono stato con amoreinsieme, e nella Epistola a Moroello Malaspina che accompagna la can-zone ‘montanina’. Si consideri il sonetto (9-14):

Però nel cerchio della sua palestralibero arbitrio già mai non fu franco,sì che consiglio invan vi si balestra.Ben può co· nuovi spron punger lo fianco;e qual che sia ‘l piacer ch’ora n’adestra,seguitar si convien, se l’altro è stanco.

Qui la negazione del libero arbitrio (in chi è vittima dell’amore) vieneaddotta capovolgendo le affermazioni di Vita nuova III circa il «fedeleconsiglio della ragione». Nella Epistola, invece, leggiamo formulazioniletteralmente coincidenti con i testi tomisti citati più sopra («Ratio [...] li-gatur»), e nelle quali il responsabile della alienazione razionale dell’io è,come in Donna me prega e in Francesca, l’amore:

...inspecta flamma pulchritudinis huius, Amor terribilis et impe-riosus me tenuit. Atque hic ferox tamquam dominus pulsus a patriapost longum exilium sola in sua repatrians, quicquid eius contra-rium fuerat intra me vel occidit vel expulit vel ligavit. Occidit ergopropositum illud laudabile quo a mulieribus suis cantibus astine-bam, ac meditationes asiduas quibus tam celestia quam terrestriaintuebar quasi suspectas impie relegavit; et denique, ne contra seamplius anima rebellaret, liberum meum ligavit arbitrium, ut nonquo ego sed quo ille me vult me verti oporteat. Regnat itaque Amorin me nulla refragante virtute (Epistola a Moroello Malaspina)[corsivo nostro].

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Ho affrontato in altre occasioni il problema delle palinodie di Dante, re-lativamente all’amore (Pinto 2007 e 2010a). Qui mi preme indicare sem-plicemente il rapporto concettuale che esiste fra le dichiarazioni diFrancesca e le scuse addotte da Dante nei confronti di Cino e di Moroelloper spiegare, in un caso, l’impossibilità (per Cino) di controllare razional-mente la passione, e nell’altro (per lui stesso) di svolgere le mansioni cheil suo servizio presso il Marchese richiederebbe. L’immagine di una Fran-cesca ingenua (vittima innocente della passione o intellettuale di provin-cia) va senz’altro scartata, in favore di una Francesca ‘loica’ cheaverroisticamente mette in discussione la plausibilità teorica del liberoarbitrio in chi è travolto dalla passione d’amore, e quindi la legittimitàdella condanna di cui lei e il cognato sono vittime. In tale prospettiva, in-fatti, credo che si chiarisca perfettamente il senso del verso 103: «Amorch’a nullo amato amar perdona», che tanta perplessità desta negli inter-preti. Posto che il significato letterale non può essere altro che ciò che iltesto dice, e cioè che chi è oggetto d’amore non può a sua volta rifiutarsid’amare (e quindi è anch’egli vittima di una passione che gli impediscedi esercitare la propria libertà di volere), bisogna soffermarsi sulla suastruttura sintattica, speculare ed inversa rispetto al verso 100: «Amor ch’alcor gentil ratto s’apprende». I due versi sono speculari in quanto entrambiattribuiscono all’amore la responsabilità della colpa, esimendo da essachi ne è vittima; sono inversi in quanto il verso 100 considera il problemadal punto di vista dell’amante (Paolo) mentre il verso 103 lo considera dalpunto di vista dell’amata (Francesca). Mentre il desiderio del primo è ori-ginario (poiché implica quei processi di fantasmatizzazione del corpodell’altro che la psicologia e la poesia dell’epoca analizzavano con tantaprecisione), il desiderio della seconda è riflesso, cioè scaturisce, per imi-tazione, da quello dell’amante. Francesca, da buona ‘loica’, sa bene cheil libero arbitrio, e la responsabilità che ne deriva, sono funzioni etiche ra-dicalmente individuali (l’eventuale castigo infernale colpisce la persona,non i gruppi), e che quindi la protesta di innocenza deve essere dimostratanon relativamente alla coppia considerata nel suo insieme, ma relativa-mente a ciascuno dei suoi componenti, e quindi utilizza, relativamente a

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Paolo, il diffuso assioma cortese sulla necessaria relazione fra l’amore ela nobiltà, e relativamente a se stessa un assioma, originalmente suo, cheestende all’oggetto del desiderio la stessa impunità di cui gode (secondolei) il soggetto del desiderio. Che dell’amore di Paolo sia poi rilevanteproprio il momento attivo o soggettivo, viene ribadito nella seconda par-lata di lei, che mostra il cognato nell’atto di prendere l’iniziativa del baciofatale, il che, come si sa, rappresenta una flagrante contraddizione rispettoal modello libresco, nel quale è Ginevra che bacia Lancillotto e non vice-versa. Ma ciò che a noi moderni sembra irrilevante (le funzioni attiva epassiva del desiderio) è invece essenziale nella cultura antica (basti pen-sare alla distinzione fra amante e amato in Platone) e medievale (bastipensare alle complicate combinatorie degli innamoramenti in AndreaCappellano).

5. I suggerimenti qui proposti ci permettono di stabilire un legame pre-ciso fra il disdegno di Beatrice (la cui cifra metapoetica rappresenta il de-bito ideologico di Dante nei confronti del suo «primo amico», e checomprende quasi tutta la sua produzione lirica fiorentina esclusa dai dueprosimetri) e l’averroismo di Francesca. Il personaggio della ravennate èla proiezione sul piano teologico-romanzesco della esperienza poetica diDante refrattaria ai grandi esperimenti di razionalizzazione e sublimazionedella Vita Nuova e del Convivio. L’etica del desiderio, che i lirici hannoformulato a partire da un io prigioniero dei propri fantasmi, in Francescasi dispiega romanzescamente nel reale, nella prospettiva di un io femmi-nile che traduce quei fantasmi in una narrazione tanto più persuasiva, sulpiano della verisimiglianza fattuale, quanto più vicine alla cronaca sonole sue vicissitudini25. E allora Francesca è davvero «una tappa inferiore,simpatica (o simpatetica) e respinta, dell’itinerario dantesco», secondo lamemorabile analisi di Gianfranco Contini (1970: 348), una tappa checoincide con il polo lirico-irrazionalista della sua sperimentazione, quelloche dipende interamente dal magistero cavalcantiano. Che proprio conlei inizi la serie dei personaggi a tutto tondo intervistati nella Commedia,e quindi il primo dannato di cui Dante deve ricostruire il carattere terreno

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e il destino escatologico, significa che essa rappresenta il banco di provadi un esperimento poetico di natura opposta a quello che il disdegno diBeatrice indica: l’esperimento della Commedia, appunto, che si riallacciaa quello a sua volta rappresentato dalla umiltà di Beatrice, cioè le rime checostruiscono sul fantasma benigno della donna la loro ipotesi di raziona-lizzazione del desiderio.

In Scrimieri 2009 viene ricostruito in modo magistrale il rapporto chelega la canzone ‘montanina’ a Cavalcanti da una parte e alla composizionedella Commedia dall’altra26. La numinosa figura femminile grazie allaquale l’amore atterrisce di nuovo il poeta riprendendo su di lui quel potereche per un certo periodo si era eclissato, rappresenta, nella lettura dellastudiosa, il lato “disdegnoso”, e quindi umbratile della coscienza di Dante,che prefigura l’avvento della Beatrice celeste (la «donna della salute») dicui il Poema si prepara a celebrare il trionfo, e che costituisce una tappa,negativa ma obbligata, nel percorso che conduce verso la suprema subli-mazione dell’eros:

La donna della canzone sarebbe [...] una sorta di schermo che oc-culta ma che nello stesso tempo prepara la rivelazione di Beatrice;sarebbe la manifestazione stravolgente dell’anima, e dei suoi effettinuminosi di attrazione e terrore, ma ancora non proiettata sulla fi-gura concreta di Beatrice, come invece lo era stata nel passato, ecome poi lo sarà nella Commedia (Scrimieri 2009: 126).

Il circolo ermeneutico che conduce all’averroismo di Francesca sichiude attraverso la considerazione del rapporto intertestuale che lega lacanzone ‘montanina’ al canto V dell’Inferno (tema cui Natascia Tonellidedicó la propria relazione nel convegno di Setcases -luglio 2008- che il“Gruppo Tenzone” celebrò intorno alla canzone Amor, da che convien purch’io mi doglia27). Il cavalcantismo della canzone28 e quello di Francescasono in realtà il cavalcantismo di Dante, che il poeta deve retrospettiva-mente affrontare e superare nella fase iniziale del suo grandioso progettopoematico. Solo dopo aver dimostrato, innanzitutto a se stesso, che lacondizione di innamoramento necessaria per ogni impresa poetica29 non

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preclude l’uso della ragione (da cui dipende l’esercizio della libertà), ilviaggio nell’oltretomba può essere effettuato, poiché su quell’uso e suquella libertà si basa la plausibilità del destino escatologico degli esseriumani, cioè la dimensione “teologica” che la Commedia abbraccia. InFrancesca Dante ha quindi proiettato gli argomenti che escluderebberotale dimensione, cioè l’averroistica negazione del libero arbitrio, da cuiGuido aveva dedotto il carattere moralmente distruttivo del desiderio eche Dante stesso aveva accolto, attraverso la poetica del disdegno, comeelemento teorico essenziale della propria concezione dell’amore. Il suosuperamento, cioè la dimostrazione a contrario che libertà e responsabi-lità sono elementi costitutivi del soggetto umano, avviene attraverso ladenuncia dell’errore che Francesca mette in evidenza, cioè quello di unafinzione letteraria («il libro ... Galeotto», ossia “le prose di romanzi”) checon i suoi illusionismi mimetici perverte l’intelligenza dei lettori. Ciò cheDante scopre, attraverso Francesca, è quindi il lato perverso della moder-nità letteraria, quello che trionfa socialmente quando l’etica del desiderionon è sorretta e giustificata dai procedimenti di razionalizzazione e subli-mazione di cui il mito della umiltà di Beatrice è veicolo.

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NOTE

1 Rinvio, per un riepilogo sulla questione, a Veglia 2000, Vasoli 2001 e Curti2002. Il carattere eterodosso e quindi “sovversivo” dell’averroismo latino fu san-zionato dalle condanne di cui le tesi dell’aristotelismo radicale furono oggetto aParigi nel 1270 e nel 1277 (sulle quali si veda Hissette 1977).

2 «Mastro Sighier non andò guari lieto: / a ghiado il fe’ morire a gran dolore /nella corte di Roma, ad Orbivieto». Sul significato politico del Fiore, e quindisull’averroismo ideologico che lo caratterizza, rinvio al mio Pinto 2007.

3 «Questi onde a me ritorna il tuo riguardo / è ‘l lume d’uno spirto che ‘n pen-sieri / gravi a morir li parve venir tardo: / essa è la luce etterna di Sigieri, / che,leggendo nel Vico de li Strami, / silogizzò invidïosi veri».

4 «E io a lui: ‘Da me stesso non vegno: / colui ch’attende là, per qui mi mena/ forse cui Guido vostro ebbe a disdegno’. / Le sue parole e ‘l modo de la pena /

m’avean di costui già letto il nome; / però fu la risposta così piena. / Di sùbitodrizzato gridò: ‘Come / dicesti? elli ebbe? non viv’elli ancora? / non fiere li occhisuoi lo dolce lume’».

5 Relativamente a Ulisse, Corti (1993) ha illustrato l’“averroismo” del perso-naggio. Si veda anche Gagliardi 1991 e Pinto 2006. Si osservi, in particolare, lacoincidenza fra l’“orazion picciola” di Ulisse («Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza»), con laformulazione di Giacomo di Douai (Questiones de anima III, 18) circa il caratterenon compiutamente umano di quanti non perseguono i fini intellettuali specificidegli uomini: «nec merentur isti homines dici homines... sed tales homines suntbruta deteriores cum non sequantur illud ad quod nati sunt».

6 Oltre i testi indicati nel lavoro appena citato, va collegato all’episodio dellaCommedia il sonetto di risposta di Guido S’io fossi quelli che d’amor fu degno(responsivo al dantesco Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io), in cui lo stessoGuido differenzia la propria poetica da quella dell’amico a partire da un disdegnoamoroso di cui è vittima.

7 In Sigieri di Brabante (De anima intellectiva, II) l’alternativa viene postacosì: «Sunt igitur unum anima intellectiva et corpus in opere, quia in unum opusconveniunt; et cum intelligere dependeat ex corpore quia dependet ex phantas-mate in intelligendo, non dependet ex eo sicut ex subiecto in quo sit intelligere,

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sed sicut ex obiecto, cum phantasmata sint intellectui sicut sensibilia sensui». Asua volta Tommaso d’Aquino (S.T., I, q. 76, a. 1), relativamente alla teoria diAverroè sull’anima, ne mette in rilievo le paradossali implicazioni antropologi-che: «Ex hoc ergo quod species phantasmatum sunt in intellectu possibili, non se-quitur quod Socrates, in quo sunt phantasmata, intelligat; sed quod ipse, vel eiusphantasmata, intelligantur». La separatezza dell’intelletto possibile, che Averroèlegge erroneamente (secondo Tommaso) in Aristotele, implica che il soggettoconoscente (Socrates) è passivo non solo rispetto alla realtà sensibile, ma ancherispetto al conoscere stesso, per cui egli, più che capire con l’intelletto, sarebbecapito dall’intelletto

8 Intendo la teologia come disciplina formalmente strutturata, e non come fedee ideologia religiosa. Il carattere antireligioso della esperienza lirica è elementofondativo di questa sia in Provenza che in Italia.

9 Sulla più che probabile identificazione di Dante col destinatario del sonetto,si veda Pinto 2001: 41-43.

10 Si veda in particolare la proposizione 207 (172): «quod delectatio in actibusvenereis non impedit actum seu usum intellectus». Sebbene non sia esplicita-mente formulato dagli aristotelici, tale principio è facilmente deducibile dalla in-dipendenza sostanziale della razionalità dalla sensibilità: se l’esercizio delleattività collegate ai sensi resta nell’ambito delle funzioni ad essi naturalmenteassegnate, non c’è alcuna ragione perché essa ostacoli l’attività dell’intelletto,che interviene appunto sui fantasmi dei sensi, razionalizzandoli. Sul carattereideologicamente eversivo del fantasma d’amore coltivato dai poeti, che in Dantediventa addirittura condizione per l’uso salutare dell’intelletto, si veda Pinto:2010b: 156-157.

11 In realtà il disdegno del messo anticipa tematicamente quello di Beatrice, es-sendo entrambi emissari o rappresentanti di Dio. Su piani diversi, cioè il messonei confronti dei diavoli e Beatrice nei confronti dell’eretico Guido, tutti e dueostentano sovrano disprezzo nei confronti dell’arroganza di chi si crede esentedalla legge divina. Il fatto che nel canto VIII anche Dante si mostri sdegnoso neiconfronti di Filippo Argenti (rincarando il castigo cui è già condannato nell’In-ferno) è un modo di autorizzare se stesso, la cui missione lo situa dalla parte diDio, e quindi investito di una autorità morale che Guido, evidentemente, non ha.

12 Il tema dell’umiltà della donna è presente anche in Guido (per esempio inChi è questa che vèn, 7: «cotanto d’umiltà donna mi pare»; e in Veggio negli

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occhi, 15: e «par che d’umiltà il suo nome canti»). Esso però non viene assioma-tizzato (per esempio, in Donna me prega) come principio di una poetica diffe-rente che contempli la possibilità di una razionalizzazione del desiderio. Nei duecasi citati l’io vive l’esperienza ultraterrena di cui la donna è portatrice comescacco emozionale ed impotenza intellettuale.

13 Sulla distanza dal poeta della Beatrice morta nella Vita Nuova, rinvio a Pinto1994: 85-97.

14 Si tratta dei capitoli XIV-XVI. Si osservi che i tre sonetti commentati inquesti capitoli «sono gli unici che hanno come interlocutrice Beatrice, e sono poiquelli in cui più scoperta è la sua adesione al tono e agli stilemi cavalcantiani. Sesi considera che l’episodio del gabbo è quello in cui la distanza fra Dante e Bea-trice è minore (è l’unico in cui i due personaggi si incontrano in un luogo chiusoe privato), e che i tre sonetti che seguono sono programmaticamente destinati adescrivere lo stato del poeta, si potrà osservare facilmente che Dante ha collegatol’incremento del contenuto passionale del desiderio alla funzione destinatariodelle proprie poesie (in modo tale che al massimo incremento della passionalitàcorrisponde l’assunzione di Beatrice come interlocutrice lirica) ed ha poi tradottoromanzescamente tale assunzione riducendo al minimo la distanza fra sé e Bea-trice sul piano della visione» (Pinto 1994: 91-92).

15 Per un ordinamento delle Rime che prenda in considerazione il tema sostan-ziale della coppia disdegno / umiltà, rinvio a Pinto 2008.

16 Non tengo conto, ovviamente, delle ipotesi che si sono fatte sulla possibileinclusione di altre canzoni nel Convivio (su cui rinvio a Vasoli 1988: xiii). Os-servo, però, che mentre è plausibile pensare che Tre donne, Doglia mi reca ePoscia ch’amor avrebbero potuto essere oggetto di interpretazione nell’opera fi-losofica, non lo è pensare che potessero esserlo le canzoni del disdegno. Di fatto,le osservazioni su Voi che savete valgono appunto ad escludere tale eventualitàper tutto il gruppo del disdegno. La illazione di Contini sulla utilizzazione alle-gorica di Amor che movi (1984: 404) sembra quindi molto improbabile. Discorsoa parte merita Le dolci rime d’amor ch’io solia, che collega l’apparenza disdegnosadella donna all’abbandono delle “rime d’amore”, e che sembra un tentativo di ri-funzionalizzare in chiave ideologico-politica la categoria metapoetica del disdegno,tentativo isolato e privo di sviluppi (in Doglia mi reca, che presenta tante analogietematiche con Le dolci rime, il disdegno delle donne viene auspicato come con-tromisura alla degradazione morale degli uomini; cfr. Pinto: 2008b).

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17 Che si tratti di questa verità, e non di altra, si desume dalla citazione diAristotele al principio del capitolo.

18 Il termine viene usato, in questo significato, da Cino da Pistoia nel suo so-netto a Guido Cavalcanti Qua’ son le cose vostre ch’io vi tolgo. Qui Cino sischiera dalla parte del Dante “teologo” contro Guido “averroista”. Sul sonetto,vid. Pinto 1994: 57-73.

19 L’averroismo di Cavalcanti è stato nuovamente e finemente descritto (sultesto di Donna me prega) da Gennaro Sasso (2008: 115), che ha ribadito, nellafilosofia del poeta, la spaccatura fra sensibilità e razionalità: «Per come, nel suomomento filosoficamente più puro e rigoroso, Cavalcanti lo concepiva, per unverso l’intelletto non era vulnerabile dall’amore, che infatti, nel suo ambito, nonpoteva essere accolto e trovare posto. Ma, per un altro, e a causa proprio della suapurezza, non dunque di un limite che fosse attribuibile alla sua potenza, non po-teva sottometterlo alla sua legge, giudicarlo o controllarlo».

20 I commenti di cui fu oggetto la canzone in campo extraletterario (da Dinodel Garbo a Francesco dei Vieri) costituiscono un momento importante della ri-flessione sull’amore che attraversa la cultura del Rinascimento (cfr. Fenzi 1999).

21 «Sarebbe assurdo e, anzi, ridicolo se della ‘prima donna moderna’ della let-teratura italiana, oppure della ‘intellettuale’ di provincia, si facesse l’autrice diuna filosofia alternativa, una puntigliosa discepola dell’aristotelismo radicale,appreso sui libri e ‘esposto’ con esplicita intenzione» (Sasso 2008: 185). AncheRenzi (2007: 66) esclude che nel brano vi siano allusioni all’averroismo.

22 Cfr. Hissette 1977: 261: «Quand il agit sous l’emprise des passions,l’homme agit par contrainte». Sebbene la fonte di tale proposizione non sia stataidentificata, la consonanza con le posizioni, per esempio, di Sigieri di Brabanteè evidente: «voluntas vult ex iudicio rationis, quae se habet ad opposita. Sed ap-petitus senisitivus ex iudicio sensus» (Tractatus de necessitate et contingentiacausarum, in Sigerus de Brabantia 1908: 118).

23 Hissette 1977: 262: «Quand la passion amène la raison à juger d’un cas par-ticuliere dans le sens contraire à ce que dicte la saine raison en général, la volontéest-elle impuissante devant cette raison perverse?».

24 La caratterizzazione del peccato di lussuria, in Purg. XXVI 82-87, rifletteproprio questo passaggio di Tommaso: «Nostro peccato fu ermafrodito; / ma per-ché non servammo umana legge, / seguendo come bestie l’appetito, / in obbrob-

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bio di noi, per noi si legge, / quando partinci, il nome di colei / che s’imbestiònelle ‘mbestiate schegge».

25 Si consideri, d’altra parte, che la struttura narrativa dell’episodio, cioè latrama rappresentata dalla triangolazione fra una donna, il marito, l’amante, è loschema classico secondo il quale viene tradotta romanzescamente la fin’amordel trovatori, sia nelle vidas (cioè le biografie ducentesce composte in Italia daUc de Saint Circ), sia nei grandi cicli romanzeschi francesi: Tristano e Lancelot.Su questa triangolazione si veda Pinto 2010b: 29-64.

26 Si veda anche Pinto 2010a: 94-96.27 Di tale intervento Emilio Pasquini fornisce una breve sintesi nella Premessa

del volume che raccoglie gli atti del convegno (Pasquini 2009: 9).28 Particolarmente significativo è il riscontro dei versi 26-27: «Quale argo-

mento di ragion raffrena / ove tanta tempesta in me si gira?», che da una parte rin-via all’assioma principale di Donna me prega («ché la ‘ntenzione per ragionevale», 33) e di Inf. V («che la ragion sommettono al talento»), e dall’altra evoca«la bufera infernal che mai non resta» che metaforizza la passione amorosa.

29 È questa la premessa della canzone ‘montanina’, e cioè che solo il discorsosull’amore e dell’amore garantisce l’attenzione e l’ascolto del pubblico, poichéesso modernamente rappresenta la condizione di ogni fare poetico (cfr. Pinto2009: 85-96).

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