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Bianca Sotgiu Ripepi...per non dimenticare

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Il coraggio di una giovane donna contro la ferocia del nazismo. RODI, seconda guerra mondiale: l’eccezionale testimonianza di Bianca Sotgiu Ripepi, tratta dal volume “Da Rodi a Tavolara. Per una piccola bandiera rossa” (AM&D Edizioni), sui tragici avvenimenti che coinvolsero la comunità ebraica nell’isola greca di Rodi.

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nono capitolo del volumeDa Rodi a Tavolara

Per una piccola bandiera rossa

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La fine del ’43 si trascinava a Rodi tra le mille diffi-coltà d’una città assediata, affamata e sotto l’oppres-sione tedesca che si faceva sentire in ogni aspetto dellavita quotidiana.

Quando ripenso a quel periodo la cosa che più èimpressa nel ricordo è la lunghezza delle giornate, lafatica del vivere quotidiano, il superare le infinite dif-ficoltà che si presentavano. I tedeschi con un edittoavevano decretato la requisizione di tutte le radio conla giustificazione di impedire l’ascolto di stazioni stra-niere. In realtà raccoglievano le radio e le spedivanocon gli aerei, i pochi che partivano dall’aeroporto diMaritza, in Germania. Poi era stata la volta della re-quisizione dei pianoforti e infine quella delle carrozzi-ne dei bambini. A dire il vero a quest’ultimo editto(che tuttavia era rimasto per settimane attaccato aimuri) nessuno aveva obbedito per l’enormità e la ridi-colaggine della cosa, e non si erano nemmeno viste lepattuglie che con i camion passavano, come era statole altre volte, nelle strade per portar via gli oggetti darequisire e per i quali veniva rilasciata regolare ricevutacon tanto di timbri e firme.

LA DEPORTAZIONE DEGLI EBREI

Bianca Sotgiu Ripepi

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Dalla voce dei protagonisti.PER NON DIMENTICARE.il giorno della memoria • 27 gennaio 2012

C’erano le minute vessazioni quotidiane: la gente,con le biciclette, andava in campagna a raccogliere erbecommestibili, radici di asfodelo che pur essendo leg-germente velenose fornivano, come si era sperimenta-to, sostanze preziose; altri si recavano presso i contadi-ni per cercare qualcosa da mangiare.

Spesso in prossimità di un ponte o ad un crocevia,o alla fine di una salita, una pattuglia tedesca fermavatutti i ciclisti (qualche volta anche i pedoni), seque-strava le biciclette e le borse e bisognava tornare a Rodia piedi e senza quelle misere provviste che con tantafatica si era riusciti a trovare.

Ricordo una mattina di maggio: mi ero recata, su-bito dopo il coprifuoco, al Mandracchio per ritirare ilquartino di latte che concedevano ai bambini piccoli eper trovare qualche verdura al mercatino. Avevo ap-poggiato la bicicletta con la borsa appesa dinanzi allavetrina della libreria che stava aprendo i battenti persalutare Rosa, la commessa ebrea, che era una cara ami-ca. Passa in quel momento un gruppo di tre tedeschi:si fermano, mi osservano e uno di loro dà un calcio allabicicletta e la fa cadere. La bottiglia del latte si rompee il latte si versa per terra. Furibonda grido loro: “Vival’eroe!”.

Ma forse non hanno neanche capito le mie parole.Rosa mi abbraccia e calma la mia disperazione perchémia figlia non avrà il latte per quella mattina.

Era la vita di ogni giorno questa, costellata dai bom-bardamenti inglesi e americani, dalle lunghe ore in-sonni passate in un rifugio.

Non sapevamo che un’altra bufera si addensava sul-

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le nostre teste, qualcosa che avrebbe superato l’imma-ginabile tra le sventure che una guerra e la follia degliuomini può realizzare. La bufera che avrebbe distruttola vita e l’esistenza dei 1800 ebrei che stavano a Rodi eche avrebbe rappresentato una esperienza destinata alasciare una traccia indelebile in chi l’abbia vissuta ancheda spettatore, facendo cadere le speranze di poter resi-stere per arrivare alla fine della maledetta guerra.

Quel giorno, il 19 di luglio, sembrava come tantialtri. Il cielo sereno e tanto, tanto caldo. Da alcuni giorninon avevamo avuto bombardamenti e ci si avviava adaffrontare gli impegni quotidiani. Il consueto pelle-grinaggio al Mandracchio per il latte, il giro dei nego-zietti per un po’ di verdura. Proprio al Mandracchio sisente circolare la notizia: i tedeschi hanno convocatogli ebrei maschi per il giorno 21 al comando tedesco,presso la caserma della Marina, la prima dopo l’ospe-dale civile, per una sorta di censimento. Solo i capifa-miglia ci si chiedeva? No, tutti gli uomini dai 15 anni insu, anche oltre gli 80 anni.

Erano tanti gli interrogativi: a cosa serviva tutto que-sto? Che significato poteva avere?

Malgrado tutti i tentativi di ascoltare le radio stra-niere, non si aveva idea di quanto era accaduto in Eu-ropa riguardo alla deportazione degli ebrei. Si era sa-puto che tanti avevano lasciato la Germania e l’Euro-pa e lo spettro storico di questo malanimo verso gliebrei era certamente presente. Tante volte Girolamoaveva esortato i suoi allievi a scappare da Rodi. Solopochi lo avevano ascoltato a causa dei forti legami fa-miliari, non riuscendo a credere alle sue esortazioni,

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che del resto avevano vaghi riscontri nelle informazioni.Anche in questa occasione ai ragazzi, che si erano

precipitati a casa per chiedere lumi, lui consigliava dinon presentarsi, di fare qualcosa per sottrarsi a quelcensimento così strano e improvviso. Rodi era un’iso-la, una trappola infernale: la fuga in quel momento eraimpossibile. Cosa fare? Ognuno di quei giovani avevala famiglia; una madre, sorelle, talvolta un vecchiopadre, e non avrebbero potuto accettare di lasciarli soliin quel momento di paura e di incertezza. Sarebbe sta-to diverso prima; aveva ragione Girolamo, dovevanofarlo quando lui lo aveva consigliato, programmandotutto. Ora non restava che affrontare la situazione, qualiche fossero gli sviluppi. Forse non sarebbe stato nulladi grave… Speranze e illusioni come al solito; rasse-gnazione ancestrale ad un destino che troppe volte lastoria aveva registrato.

La giornata aveva perso la sua luminosità e Rodinon era più la bella isola così cara ai nostri pensieri: erasolo un grande carcere senza sbarre in cui aggirarsi senzameta e senza via d’uscita, lontana dal consesso civile,senza la possibilità di organizzarsi e prendere decisioni.

Anche il giorno seguente passò in una ridda di con-tatti e indecisioni

A sera, prima del coprifuoco, il nostro amico Ama-to ci viene a trovare: sapeva di chiedere molto, cono-sceva il rischio che avremmo corso, ma ci chiedevaegualmente, con le lagrime agli occhi, di prendere connoi Lina, la loro unica figlia, per nasconderla e proteg-gerla. Non sapeva cosa sarebbe potuto accadere, mavoleva essere tranquillo, almeno per lei. Avevano perso

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un maschietto, morto pochi mesi prima, alla nascita,e ora, dopo tanto dolore, era quasi contento di nontrovarsi nella condizione di esporre un neonato ad unasorte così incerta. Ci mettiamo d’accordo per farlavenire la sera dopo, appena prima del coprifuoco, na-scondendola prima dai nostri padroni di casa in modoche i fascisti della casa accanto non la vedano. Non erauna prospettiva allegra chiudere in casa una bambinadi nove anni, ma intanto avremmo visto come si sa-rebbero svolte le cose. Lui non l’avrebbe dichiaratacome componente la sua famiglia.

Penso che pochi abbiano dormito quella notte.Certamente non le famiglie ebree. Ma ognuno si chie-deva a che cosa mirassero i tedeschi nelle cui mani, cisi rendeva conto, c’era tutta la popolazione, e non solola comunità ebraica. Al mattino del 21, con regolaritàe con diligenza, tutti gli ebrei maschi si presentaronoal comando tedesco. L’operazione durò a lungo, si aspet-tava che nel pomeriggio sarebbero venuti fuori e cisarebbero state le spiegazioni.

Fuori del comando non c’è più nessuno, tutti sonostati fatti entrare nel cortile interno. Andiamo a trova-re gli amici per sapere se avessero avuto qualche noti-zia, ma nessuno sapeva nulla.

Fino a sera continua il pellegrinaggio e l’attesa. Manessuno torna. Come d’accordo passiamo dagli Ama-to per prendere Lina, ci tratteniamo con la moglie e lavecchia nonna, nella casa che ci aveva visti tante volteuniti a chiacchierare: ricordiamo il giorno in cui cieravamo trovati a casa loro durante un bombardamentoed eravamo scesi nel rifugio organizzato nella cantina.

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Una bomba era caduta nel giardino adiacente alla casa,e al ritorno avevamo trovato tutti i mobili della cucinacapovolti, le vetrine rovesciate, una scena incredibile,ma reale, persino ridicola per certi aspetti, per come lecose ordinatamente si erano disposte. Ora questa bom-ba che si abbatteva sulla loro casa era qualcosa di irre-ale, di angoscioso, di imperscrutabile. Conoscevo quellasensazione per l’esperienza vissuta quando i tedeschiavevano preso mio marito e sapevo che non c’era nullache potessimo dire o fare in quel momento per calma-re l’angoscia.

Dobbiamo sbrigarci perché si avvicina l’ora del co-prifuoco; la mamma prepara una piccola borsa e misembra contenta di allontanare la bambina da quel-l’atmosfera di nervosismo e di disperazione.

Cerchiamo di chiacchierare con la bambina in modonormale, sulle cose che studia con insegnanti privati,sui suoi giochi con il cuginetto poco più grande di lei.Arrivati a casa, la lasciamo dai padroni di casa, i Ca-stronì, che hanno l’ingresso proprio sul centro dellacasa, nessuno ci ha notato: solo col buio e in gran si-lenzio la facciamo salire da noi. Ho preparato unaminestra e un po’ di formaggio che mi hanno regalatoper la bambina i Castronì. Guardiamo alcune cartegeografiche con tanti paesi lontani e pensiamo comesarebbe bello un giorno poterli visitare. Vorrei abbrac-ciare questa piccola bimba, stringerla e consolarla: èforse la prima volta che dorme fuori casa senza la ma-dre, ma devo fare in modo che non percepisca le sen-sazioni che ci sconvolgono. Le faccio tenere in bracciola mia bambina che stasera non vuol dormire e poi

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andiamo a letto. Le abbiamo organizzato un suo letti-no con un tavolino nella stanza da pranzo che non hafinestre sul retro.

Il mattino dopo, prestissimo, scendo al Mandrac-chio per avere notizie. Degli ebrei non si sa nulla, masi mormora che ci sarà un nuovo editto, perché si sonvisti tedeschi con manifesti che giravano per le strade.Girolamo va a trovare fratello Angelino, professore nellasua stessa scuola. Fratello Angelino gli rivela, dispera-to anche lui, che sono arrivati a Rodi due esponentidelle SS e che saranno chiamati a presentarsi anche ledonne e i bambini. È la deportazione.

Si comincia perciò ad elaborare piani per trovare lapossibilità di salvare qualcuno. Fratello Angelino si pre-para a chiedere che vengano risparmiati i bambini; unamico che lavora al tribunale, legge alla mano, comin-cia ad enumerare i casi in cui è possibile sottrarre qual-cuno ai tedeschi. Prima di tutto gli ebrei che sono diorigine turca; secondo, le donne sposate ad un “genti-le”. Ci viene anche l’idea di battezzare gli Amato: chis-sà che i cattolici non possano sfuggire alla deportazio-ne. Intanto è necessario fare un atto di adozione uffi-ciale della piccola Lina, ne parliamo alla madre che ac-cetta senza riserve. Insieme ad un altro amico, un cas-siere della Banca d’Italia che intende adottare il cugi-netto, ci rechiamo dal giudice tutelare del tribunaleche avvia immediatamente le pratiche per l’adozione.Ci viene in mente che la vecchia nonna di Lina, la madredi Amato, è turca. Le chiediamo di ricercare un docu-mento, qualcosa che dimostri la sua origine, poiché ledonne turche sposate ad uno straniero non perdono la

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loro nazionalità originaria. Per fortuna lei ha conser-vato i suoi documenti, anzi ci suggerisce di parlare conuna sua cugina, anche lei turca, che ha delle figlie. Delresto anche Halkadeff, il papà di Jach, il cuginetto diLina, è turco. Raccogliamo i documenti e in biciclettapercorro i dieci chilometri per arrivare alla residenzaestiva del console turco. Dopo una discreta attesa miriceve e gli espongo la situazione. È confuso e incerto,gli dò copia della legge preparata dal nostro amico giu-dice. Lui sa benissimo tutto questo, ma è impaurito enon sa cosa fare. Forse, dice, non succederà nulla, for-se li rilasceranno. Gli riferisco dell’arrivo delle SS e glispiego che si tratta di salvare alcune famiglie, che stia-mo facendo di tutto e che lui ha in mano il destino diqueste persone. “Lei è come Dio, gli dico, cosa decide-rà?”. È turbato e commosso. Mi dice di tornare il mat-tino dopo, lui farà di tutto per trovare una soluzione.

Torno velocemente a casa: la bambina ha bisognodelle mie cure e nel pomeriggio abbiamo l’appunta-mento con il vescovo che ci deve preparare i certificatidi battesimo, oltre a impartire i battesimi e celebrare imatrimoni falsi di cui si stanno occupando alcuni amici.In genere sono soldati che conoscevano o erano fidan-zati con ragazze ebree. Piccole gocce d’acqua nell’in-cendio che aveva investito la nostra comunità.

Girolamo mi racconta la sua avventura. Si erano av-vicinati, lui e fratello Angelino, alla caserma dove era-no trattenuti gli ebrei e avevano visto un garzone difornaio che era stato incaricato dal podestà della città(sapremo che è un agente del Security Service), diportare del pane ai prigionieri. Decidono di sostituirsi

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a lui per poter entrare nella caserma: lo pregano di darloro i sacchi del pane; fratello Angelino si toglie il saioe Girolamo la giacca che nascondono in un cespuglioe si caricano i sacchi. Spiegano alla sentinella che stan-no portando il pane e li lasciano passare. C’è solo qual-che sentinella, ma non sono visibili i due delle SS. Per-corrono i corridoi e arrivano nelle camerate. A quelpunto i ragazzi, i loro allievi, li riconoscono e si affol-lano intorno, vogliono sapere, raccontano come sonostati trattati. Nessuna spiegazione, condizioni durissi-me, proibizione di parlare anche tra di loro, nessunapossibilità di contatti. Sono pochi minuti, gli adultihanno preso il pane e lo dividono. Per fortuna questocrea una certa confusione perché in quel momento ar-rivano le guardie: hanno capito che c’è qualcosa chenon va, anche loro hanno paura delle SS. Girolamo efratello Angelino riescono a scappare protetti dalla folladei ragazzi. Intanto si fa avanti vicino all’uscita il gar-zone del fornaio che non capisce cosa stia succedendo,vede scappare i due, ma non fa in tempo a deciderecosa fare: viene preso dai tedeschi e bastonato di santaragione.

Loro assistono nascosti nel cespuglio dove hannolasciato i vestiti, ma capiscono che non è il caso di in-tervenire. Troppe cose da spiegare. Quando il ragazzoviene fuori, malconcio e sanguinante, lo assistono e loaccompagnano a casa. Lui conosceva fratello Angeli-no e accetta, malgrado le botte ricevute, le spiegazioniche li avevano indotti alla sostituzione.

Il pomeriggio lo trascorriamo dal vescovo; è un vec-chio dal volto roseo e sereno che ci accoglie con molto

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calore; ma è vecchio e tende a raccontarci le sue espe-rienze. Noi non abbiamo tempo; io ho con me la miabambina che non posso lasciare sola e anche Lina, checosì può rivedere la mamma. Un sacerdote provvede albattesimo di un gruppo di donne. Non sappiamo acosa possa servire, ma ci aggrappiamo a tutte le spe-ranze. Dobbiamo convincere il vescovo a stilare gli attidi matrimonio per le persone di cui abbiamo i nomi.È una cosa complicata anche dopo che lui si è convin-to a compilarli, perché ci sono tutti gli atti burocratici.Intanto devono essere predatati, ma non troppo, per-ché i documenti devono essere trasmessi al comune.Gli assicuriamo che li porteremo noi perché abbiamopreso accordi con gli impiegati per la registrazione. Ilvescovo non capisce che abbiamo fretta e vorrebbe ri-mandare tutto al giorno dopo, ma si commuove allenostre preghiere e i suoi assistenti, consci dell’emer-genza, si danno da fare e sbrigano tutto. È sera quandousciamo dal vescovado e riaccompagniamo la mam-ma di Lina. Ad attenderle ansiosa c’è la vecchia nonnache soffre, non solo per la situazione, ma anche per ilrito della finta conversione, difficile da accettare perlei. La convinciamo che è tutta una messa in scena perottenere i documenti, un foglio di carta che speriamoserva a qualche cosa.

Torniamo in fretta a casa e, sempre seguendo il ri-tuale per nascondere Lina agli sguardi indiscreti, pas-siamo dai padroni di casa. Ci dicono che su c’è un ra-gazzo che ci aspetta. Nello studio (la porta è sempreaperta) c’è lo studente greco, Tzalumas, che è stato vi-cino a noi in tutti questi mesi. Ci riferisce, da fonti vi-

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cine alla Kommandatur, che le SS hanno decretato chefra due giorni dovranno presentarsi tutte le donne ebree.Dice che anche i comandi tedeschi sono preoccupati espaventati. Sono bastati questi due SS, sembra, duesergenti, a metter sull’attenti tutto il comando tedescoche non si nasconde la difficoltà della situazione a Rodi.Nessuno può interferire nelle decisioni di questi dueemissari del potere nazista.

È il colpo di grazia dopo una giornata già difficile.Mi sembra di non farcela, ma bisogna mettere a tavolaqualcosa e provvedere alle due bambine. Girolamo sidà da fare per distrarle mentre io mi trascino in cucina.

Al mattino, dopo aver organizzato con Marica ledue bambine, raccomandandole soprattutto di far at-tenzione perché Lina non si avvicini alla porta e alla fi-nestra posteriore, corro in tribunale per ritirare l’attodi adozione; poi devo raggiungere a Trianda il consoleturco per conoscere le sue decisioni. Non mi fermodagli Amato, non ho il coraggio di affrontare la situa-zione, nel caso che anche loro abbiano avuto sentoredelle nuove disposizioni.

Il console turco questa volta mi riceve subito: hastudiato il caso e cerca di darmi a intendere che ha avu-to disposizioni dalla Turchia (ma io so che non è pos-sibile). Mi assicura che sta preparando tutta la docu-mentazione e che prenderà contatto con le autorità te-desche. Lo prego di affrettarsi il più possibile perché,potremmo non fare in tempo. Devo tornare fra duegiorni.

Ripercorro la strada verso Rodi: alla mia sinistra ilturchino abbagliante del mare e laggiù le montagne

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della Turchia che si stagliano azzurre all’orizzonte. Sudi esse si sono appuntati sogni e speranze; così vicine ecosì lontane, irraggiungibili come il sogno della liber-tà e della fine della guerra.

Mi fermo nella campagna circostante per trovarequalcosa da mangiare. Riesco a racimolare un po’ dipatate e una manciata di una verdura particolare, lecorna greche, che in Italia non esiste, ma che sembrasia ricca di proteine. Da una contadina che conoscoriesco a farmi dare due uova. Rifletto sulle cose che mirestano da fare nella giornata, mentre pedalo con tuttele mie forze per arrivare presto a casa; mi sembra diessere ripiombata nella disperazione dei giorni dellacarcerazione di Girolamo, ma ora ho in più la respon-sabilità di tutta la famiglia sulle spalle. Mentre ci di-battiamo nell’affannosa ricerca di soluzioni e di vied’uscita per salvare qualcuno, il problema di procurar-ci la roba da mangiare ritorna ogni giorno inesorabilee frustrante. Come se tutto questo non bastasse devoricordare, anche se in questi giorni lo avevo dimenti-cato, che aspetto il mio secondo bambino. Ho scorda-to le nausee mattutine mentre correvo in bicicletta versoTrianda o quando mi arrampicavo per le scale del tri-bunale e ho anche dimenticato tutte le preoccupazio-ni che questa nuova gravidanza ci aveva procurato. Èun problema che non devo affrontare in questo mo-mento: siamo nuovamente dinanzi alla ferocia tede-sca, e dico siamo, perché in questa occasione tutta lacomunità di Rodi, a qualunque religione e nazionalitàappartenessero i singoli componenti, si era mobilita-ta. Tutti si erano dati da fare per trovare i presunti fi-

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danzati, cercare di mantenere i contatti con i prigio-nieri, facendo lunghe soste sotto le finestre della caser-ma, da dove chiamano gli amici ebrei quando si allen-ta la sorveglianza tedesca. Bisogna dire che i soldatitedeschi cacciavano via la gente quando erano presen-ti i due inviati delle SS; per il resto della giornata la-sciavano correre.

Si confondono nella memoria i giorni dell’attesa.Erano stati affissi i manifesti che invitavano le donneebree a presentarsi in caserma e contemporaneamentevenivano messe in giro voci che raccomandavano lorodi portare con sé denaro e gioielli, per affrontare ogniemergenza. Avevamo parlato con la mamma di Linaed era terribile constatare come non si vedesse nessunaaltra alternativa al presentarsi come vittime predesti-nate alla mercé delle due SS. C’era la piccola speranzadel console turco, ma non avevamo alcuna certezza.Da tutte le parti, come risulta da varie narrazioni, sicercava di fare pressione per impedire la deportazione.

Fratello Angelino aveva chiesto che almeno i ragaz-zi fossero salvati. Ma era chiara l’impressione che leautorità tedesche non avevano nessuna possibilità diinterferire con le decisioni dei due inviati.

Nella notte del 20 luglio ’44 Girolamo, ascoltandoRadio Londra, ha notizia dell’attentato a Hitler. Hi-tler è morto; mi sveglia, non riusciamo più a dormire:forse si può salvare tutto. Cosa succederà ora? Cosadobbiamo fare?

Al mattino sistemo le bambine per avere un po’ ditempo, poi mi avvio al Mandracchio. Girolamo è uscitopresto prendendo contatto con amici per organizzare

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qualcosa. Mi imbatto nella processione delle donneebree che si presentano in caserma. Anche la signoraAmato si è già avviata e così non ho la possibilità diparlarle, so che devo far sapere loro la grande notizia,può essere una speranza. Mi avvio alla caserma e miintrufolo con gli ultimi gruppetti di donne che entra-no: non incontro nessuna difficoltà.

Nelle camerate la visione è terribile. Ammucchiatiper terra, senza aria, le finestre sono sprangate, sporchie distrutti, giacciono terrorizzati coloro che fino a quat-tro o cinque giorni prima erano degli uomini, con laloro vita, i loro pensieri, i loro affetti e le loro speranze.Ora non c’è più nulla. Con l’arrivo delle donne la si-tuazione si aggrava perché gli uomini avevano speratoche almeno le famiglie fossero salve. Le donne cercanoi propri cari ed è un ritrovarsi disperato perché si ha lasensazione della fine. Sono anch’io disperata, in que-sto clima di tragedia che sento dentro di me, sulla miapelle, molti sono nostri amici. Vedo Rosa, la commes-sa della libreria, l’abbraccio e le chiedo dove posso tro-vare gli Amato, le confido che Hitler è stato ucciso eche forse qualcosa succederà. Mi accompagna in unacamerata, vedo gli Amato e gli Alkadeff e riferisco lorola grande notizia. Ci abbracciamo e poi scappo per-ché devo cercare di uscire; ormai tutte le donne sonoentrate.

Ripercorro indisturbata i corridoi, scendo la rampadi scale ed esco nel cortile che è quasi deserto. Cerco diguadagnare il cancello ma un urlo mi ferma: è l’SS chesi avvicina e mi grida in tedesco; è a torso nudo e ha alpolso sinistro una fascia di cuoio; si avvicina anche la

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guardia e qualche altro soldato. Io spiego loro che sonouna italiana e che non sono un’ebrea. Ma quello nonvuol sentir ragioni. Devo tornare dentro. Ho un istan-te di panico, ma rimango calma. In un angolo del cor-tile vedo una donna che si rotola per terra e urla: capi-sco che ha le doglie: come per istinto, senza riflettere,con uno scatto da atleta, mi precipito verso di lei, lasorreggo per le spalle e la aiuto fino alla fine delle con-trazioni. Con il mio scatto ho sbalordito il gruppo. Mirialzo e con calma ma a voce alterata, come di coman-do, dico: “Questa donna sta per partorire deve andarein ospedale, io sono la levatrice, l’ho accompagnataperché sapevo che sarebbe avvenuto da un momentoall’altro. Ho avvertito il marito che l’avrei portata inospedale. Qualcuno di voi mi deve accompagnare per-ché da sola non potrei farcela, se avrà altre doglie perstrada”.

Non dicono nemmeno una parola, faccio un cennoal soldato che mi è vicino e che ha tradotto le mie pa-role e ci avviciniamo alla donna, la solleviamo e ci av-viamo all’ospedale. Ma il soldato deve aver capito lamia messa in scena e mi dice sottovoce. “Signora, nonci provi un’altra volta”. Sento che è dalla mia parte.L’ospedale per fortuna non è lontano: ce la caviamocon altre due doglie, poi la lasciamo nelle mani deimedici. Dopo aver partorito, preferirà tornare con ilmarito e con gli altri due suoi figli. Non sono mai tor-nati.

Rientro a casa distrutta per le emozioni provate, perla paura, per il dramma a cui ho assistito. Non ho nem-meno la forza di raccontare quanto mi è accaduto. Dico

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solo: “Ho visto gli Amato e ho detto loro che Hitler èmorto”. Ed ecco l’ultima goccia. Girolamo, con visogrigio e cupo, mi informa che le ultime notizie diconoche Hitler non è morto, che si è salvato nell’attentato!Mi chiudo in camera e piango, seduta in un angolo.Non so perché piango: per la speranza vana che hosuscitato, per il destino folle che salva Hitler da unabomba sotto la sua sedia, per l’altro destino che di-strugge invece tutte le persone che ho visto questamattina, per quel bambino che sta per nascere e nondoveva nascere nel mondo schifoso in cui si troverà.Forse è la stanchezza. Devo ricompormi e consolareLina che oggi ha perso la mamma. Sa anche che il cu-ginetto, per il quale il loro amico cassiere della bancad’Italia aveva chiesto e ottenuto l’adozione, non havoluto abbandonare la mamma. Ha pianto tanto fin-ché la madre non l’ha preso con sé.

Al mattino mi organizzo per tornare dal consoleturco ma per le strade c’è un insolito movimento: te-deschi dappertutto, via vai di mezzi militari e di guar-die armate. Non c’è possibilità di muoversi. Arrivaintanto l’allievo greco, Tzalumas, ha riflettuto, ha chie-sto conferma agli altri ragazzi e sa di sicuro che anchela nonna di Hanan, il ragazzo ebreo dai capelli rossi,ha una nonna turca. Cosa possiamo fare? Girolamopropone di parlare con lui per farci dire se c’è una pos-sibilità di trovare un documento che lo comprovi. Ciavviamo, io e Tzalumas, alla caserma dove troviamonumerose persone e qualche volto che dalle sbarre dellefinestre cerca di comunicare. Tzalumas in greco gridaper farsi chiamare il rosso. Si incrociano i richiami e le

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invocazioni; io chiedo degli Amato, a un tratto sentola voce di Batami Alkadeff che ha capito che sono giùe mi chiama, implorandomi di fare di tutto per porta-re fuori suo figlio da quell’inferno. Le grido che parle-rò con qualcuno, che farò di tutto, che parlerò con ilgiudice. Vado avanti e indietro sotto quelle finestresenza riuscire a riflettere e prendere una decisione. Adun tratto finisco addosso ad una guardia: mi scuso emi accorgo che lo conosco. È uno degli addetti allaKommandatur che si trova a pochi passi dalla casa deinostri amici sardi, gli Spano, e l’ho visto tante voltegiocare a pallone con i loro ragazzi. Gli sorrido e glichiedo se mi può fare un favore: c’è un ragazzo lì den-tro che è stato adottato da tempo da una famiglia ita-liana senza figli, è cattolico e solo per errore si trovadentro. Ho tutti i documenti, posso provarglielo. Cre-scerà in una famiglia italiana. Può farlo venire fuori inmodo che lo possa riportare dai suoi genitori adottivi?

Mi guarda a lungo poi mi dice: “Oggi piccolo ebreo,domani grande ebreo. Ebrei kaputt!”.

Mi sento gelare perché queste parole, dette da unpiccolo tedesco sciocco e ignorante, rivelano quantograndi siano i guasti prodotti dalla propaganda nazista.

Intanto Tzalumas è riuscito a rintracciare Hananche si era arrampicato sulle sbarre: vedo le mani e unaparte del volto. Gli chiedo se sua nonna ha qualchedocumento della sua origine turca, ma lui non sa, biso-gnerebbe fare una ricerca nella casa. Gli spiego il mo-tivo della mia richiesta, anche se ho paura di accendereuna inutile speranza. Le case degli ebrei sono state si-gillate. Ci precipitiamo dal giudice chiedendo un per-

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messo per entrare nella casa degli Hanan. Il giudice cimanda dal pretore che affida ai carabinieri la perquisi-zione della casa. Tutto viene rimandato al pomeriggio.Aver coinvolto il tribunale ci dà una maggiore sicurez-za che ancora non è speranza. Girolamo è riuscito nel-la mattinata ad avere la documentazione del consoleturco che però vuole essere accompagnato dalle auto-rità italiane. Chi, il vice governatore? Non ci fidiamodel personaggio, è meglio rivolgersi al tribunale, sug-geriscono al console, spiegandogli che certamente l’au-torità giudiziaria può avere un maggiore ascendente equindi una maggiore autorità di fronte alle SS tede-sche, anche perché i giudici vanno sempre accompa-gnati dai carabinieri. L’appuntamento è per il giornodopo.

Il tempo ci scivola tra le mani. Vengono amici, siparla, si discute, abbiamo fretta non possiamo lasciarenulla di intentato. Di pomeriggio con il pretore e i ca-rabinieri ci rechiamo, io e Tzalumas, nel quartiere ebrai-co, in casa di Hanan. Rotti i sigilli, cominciamo a fru-gare in ogni angolo, in ogni cassetto, in ogni posto do-ve poteva essere conservato un documento, cerchia-mo, frughiamo, con la disperazione nel cuore, ma anchecon ostinazione. Dopo due ore dobbiamo arrenderci:non c’è nulla che possa giustificare una azione del con-sole turco. Chiedo al magistrato se possiamo cercarenei registri comunali. Possiamo fare un tentativo, pen-sa. Ci rechiamo al comune, ma anche dai registri nonrisulta nulla. Nella travagliata storia delle lotte tra tur-chi e greci, nelle vicende talvolta tragiche che hannocoinvolto queste popolazioni, molto probabilmente

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gli emigrati turchi nascondevano ai greci la nazionali-tà di origine. Ricordo il viso sconfitto del pretore, latristezza che appare su quelli dei carabinieri. Tzalumasmi abbraccia perché sente il mio dolore che è anche ilsuo, perché aveva tanto sperato per il suo amico. Do-mani bisognerà ricominciare.

Mentre rievoco queste memorie sullo schermo tele-visivo scorrono le immagini tragiche dei fuggiaschi delKossovo e rivivo gli sconvolgenti avvenimenti di queigiorni lontani che pesano, senza possibilità di rimo-zione, sulla nostra vita, sulla nostra maturazione e sututta la concezione dell’esistenza. Sembra impossibileche tutto questo possa accadere alle soglie del duemi-la, dopo l’esperienza del nazismo, dopo cinquant’annidi lotte per il riscatto della dignità umana, che era stataschiacciata e distrutta da una forza bruta e folle, perimpedire che la guerra e il sopruso potessero aver ra-gione sulla tolleranza e sulla pace.

Ma queste immagini sono una realtà: ritornano nellamia esperienza il senso di impotenza di quei terribiligiorni, la coscienza di essere annullati da qualcosa cheincombe, distrugge la razionalità e ci rende schiavi.

Quanto dura questa corsa contro un destino assur-do e quante persone riusciamo a sottrargli non sapreiprecisare: forse dieci, forse quindici… A noi era sem-brato che il tempo si fosse fermato, che il mondo sifosse fermato, che non esistesse altro che l’oppressionetedesca e la deportazione degli ebrei.

Durante la notte ci sorprende un furioso bombar-damento: non sappiamo che fare. Non possiamo re-

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carci al solito rifugio della scuola maschile con Lina, ètroppo pericoloso. Decido che affiderò la nostra pic-cola Maria Federica, la nostra “pulcina” come la chia-miamo, ai nostri padroni di casa che vanno nel rifugioorganizzato da alcuni nostri amici in una cantina difronte alla nostra abitazione. Torno a casa e aspettia-mo tutti e tre la fine del bombardamento. Girolamoapprofitta dell’occasione per salire in terrazza e ascol-tare Radio Londra nessuno potrà spiare: sono tutti corsiai rifugi. Finalmente, recuperata la figlia, andiamo aletto, cercando di riposare perché avremo ancora tan-to da fare nella giornata che ci aspetta. Non sappiamoche il 23 luglio del 1944 sarà una di quelle giornate cheresteranno incise nella memoria e che niente potrà maicancellare.

Al mattino presto Girolamo con i rappresentantidel tribunale e il console turco si recano al Castello pertrattare il rilascio degli ebrei cittadini turchi, secondoaccordi già avvenuti. Per fortuna tutto si svolge rapi-damente, gli stessi tedeschi sanno che non c’è tempoda perdere. Gli Alkadeff, gli Amato e un’altra famigliacomposta da tre persone anziane, otto in tutto, vengo-no tirati fuori dalla caserma, mentre in città si sparge lanotizia che una nave è arrivata nel porto. Le ragazzeebree per le quali eravamo riusciti ad avere un certifi-cato di matrimonio con italiani, non si erano per for-tuna nemmeno presentate.

È convinzione generale che la nave porterà via gliebrei da Rodi. Gli interrogativi sono tanti: dove liporteranno? Quale sarà il loro destino? Saranno avvia-ti al lavoro; ma dove? In Germania? Non è possibile,

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troppo lontana. In Grecia? A far cosa? Si sa che gli in-glesi sono ormai dappertutto, forse riusciranno a libe-rarli. Forse qualunque cosa è meglio dell’inferno dellacaserma di cui abbiamo avuto notizie, filtrate dai ra-gazzi che portano qualche razione di viveri che il sin-daco puntualmente invia ogni giorno. Sappiamo cheli hanno spogliati di qualunque cosa avessero con sé.Soprusi e bastonature, condizioni igieniche spavento-se, segregazioni nelle camerate, dove sono ammucchia-ti, senza aria e senza luce, senza spazio nemmeno persdraiarsi per terra. Talvolta viene negata loro l’acquada bere e solo in ore stabilite possono avvicinarsi aigabinetti. Niente medicine per gli ammalati e vi sonoalmeno un centinaio di bambini.

Appena sappiamo che gli Amato sono tornati a casafacciamo tornare anche Lina che così può riabbrac-ciarli. Non ho tempo per farmi raccontare l’esperienzavissuta, ma vedo i loro volti devastati dall’orrore. Rie-scono solo a piangere tra le braccia della bambina edella vecchia madre. Ci abbracciano e non hanno ilcoraggio di parlare.

Andiamo via per tentare un ultimo colloquio colconsole turco che si è fermato in città, dopo l’incontrocon le autorità tedesche. Ha parlato con gli Alkadeffed è anche lui sconvolto. Vorrebbe, lo comprendiamo,fare qualcosa, ma ha paura, vorrebbe un documentoper tirar fuori la famiglia di Hanan. Ha paura anche dicompromettere quello che ha già fatto per le prime trefamiglie.

Ritiro il latte al Mandracchio per la bambina e cor-ro a casa.

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Sono contenta per Lina e i suoi, ma sono angosciataper tutti i ragazzi con i quali ho diviso tanti giorni se-reni, malgrado le difficoltà del vivere quotidiano, trala lettura di un canto di Dante o la discussione su unautore latino. Mi sembra di sentirli discutere e ridereattorno alla scrivania, felici di questa strana scuola dovesi sentono vivi e liberi mentre attendono che arrivi ilprofessore. Quando li potremo rivedere ora che li por-tano via?

Organizzo le cose di casa e poi con la bambina eMarica andiamo al centro sulla via dell’ospedale che èsolo cinquecento metri prima della caserma della gen-darmeria, per vederli quando passeranno andandoverso il porto. Ho voluto che venisse Marica perchévedesse anche lei e ricordasse. Girolamo ci raggiunge,aspettiamo per due interminabili ore. Intorno a noi eper tutta la discesa si è raccolta una folla silenziosa eatterrita. Poi finalmente si vede la massa di gente cir-condata dai soldati con i mitra spianati che scende len-tamente, quasi trascinandosi.

Ora li vediamo da vicino, non sono più esseri uma-ni: curvi e piegati come sotto un peso insostenibile,non osano nemmeno alzare la testa per rispondere al-meno con gli occhi ai nostri cenni di saluto. Non c’ènulla di umano nel loro andare, nulla che possa ricor-dare le persone che abbiamo conosciuto. Avevano finoa pochi giorni prima una casa, una vita più o menoagiata, alcuni ricchezze notevoli, tutti sogni e speran-ze, la vita. Ora non c’è più nulla di tutto questo. “Diomio, penso, sono già morti, in otto giorni li hannodistrutti”.

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Li seguiamo nella discesa fino al porto, ma non riu-sciamo a cogliere un cenno di vita. I cancelli si chiudo-no e da lontano vediamo questo gregge salire a bordo:poi più nulla. La folla in un silenzio spaventoso si di-sperde. Nessuno ha il coraggio di parlare, di fare unqualsiasi commento. Non abbiamo nemmeno la forzadi maledire: qualcosa è morto dentro di noi. È mortala fiducia nella vita, la speranza nella forza della pietà,la speranza nella forza della giustizia umana o divinache sia. A che serve vivere se si deve assistere a questaaberrazione?

Accanto a me cammina una donna greca e sentoche continua a sussurrare “Panaitzamu, panaitzamu,Madonna mia, Madonna mia”. Capisco che anche leiha perso la speranza.

A casa nessuno parla; non abbiamo mangiato nullaper tutto il giorno. Ripetiamo i gesti consueti, senzasapere quello che facciamo. Non c’è più nulla che ab-bia un senso. Anche Marica è silenziosa e mi chiede sepuò dormire da noi stasera: non ha più senso tornarea casa.

Fatico ad addormentare la bambina che ha dormitoper tutto il pomeriggio. La stringo e la cullo, ma nonc’è gioia nel mio abbraccio, c’è solo paura e disperazio-ne. “Non chiedere mai per chi suona la campana: essasuona per te” aveva scritto Hemingway, ed era profon-damente vero. A letto non abbiamo la forza di stareabbracciati per cercare una qualche consolazione. Sia-mo stati scaraventati in una realtà che non è nostra, inuna dimensione che non ha regole o confini, al di làdella quale c’è un baratro e non vale tendere la mano

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per tirarsene fuori. Tra di noi ci sono i fantasmi di qual-cosa che non riusciamo a decifrare, che non c’è corag-gio al mondo che possa superare, qualcosa che modi-ficherà la nostra vita. Non possiamo più pensare: do-mani è un altro giorno. Non ci sono più giorni. C’èsoltanto una strada da percorrere senza una meta daraggiungere.