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Book clinicadentale 2015

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Clinica Dentale Book 2015

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4 Dr. G. Parise Si vince insieme

6 Dr. G.Parise O meglio O niente

26 Dr. S. La Bella Musica: la più esoterica delle arti

38 Dr. A. Casarotto Cosa scrivono le gru…

44 Dr. A. Casarotto Fidelizzazione e tradizione!

45 Dr. A. Casarotto Armonia

48 Dr. A Russo Il Valore di Clinica Dentale

52 Dr. M Bettin Alla ricerca della felicità

54 Dr. A. Casarotto Musica: emozione e armonia

56 Dr.ssa M. Chiarello Francesco il fiducioso

58 Dr.ssa M. Conca Quando ti metterai in viaggio…

60 Dr. A. Dalla Riva Alla ricerca di un’idea

64 Dr. F. Framarin Spaghetti SuperStar

66 Dr. S. Gorini Speranza e qualità

68 Dr.ssa T. Lancilotti I miei esordi dal dentista

70 Dr. M. Maher Tutti siamo di Adamo,

tutti siamo fratelli

74 Dr.ssa L. Poli Louder than words

76 Dr.ssa E. Ruggeri Caro padre Giorgio…

78 Dr. P. Vidotto Un piccolo contributo

contro il mal di pancia

80 Dr. Ssa T. Zannelli Parole di felicità

82 Dr. M. Ardigò L’evoluzione del condizionamento

anestesiologico in odontoiatria

86 C. Ambrosini Buongiorno

88 M. Bombana …ad un tratto una canzone

mi rapisce

90 G. Castagnini dialetto/inglese inglese/dialetto

92 M.G. Castaman La potenza di un buongiorno

94 R. Colognesi “Un giorno senza un sorriso

è un giorno perso”

96 C. De Santi Una vita senza TV

98 M. Fazio Al giorno d’oggi…

100 A. Fochesato Ricucire la vita

104 G. Ghiotto Il seme e la formica

111 G. Ghiotto Il gelsomino di Montemarcio

115 G. Ghiotto L’omino Sapuszite

118 A. Giannoni A Lorenzo

120 M. Gobbi Il nostro sapere

122 V. Guiotto Grazie

124 O.Hlopina Le mie poesie

126 M. Mattiello Felicità

128 C. Pattaro Teo

130 J. Pozza Qual è la tua meta?

132 A. Serpe Tre uomini…

134 I. Sovilla La felicità in un sorriso

138 L’altra faccia del team chirurgico

140 G. Trivellato La fatina dei dentini

144 F. Zanetto Tempo

INDICE

IL NOSTRO STAFF

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150 C. Cappozzo Clinica dentale:

impressioni di un cliente

152 A. Lembo Bepin

156 A. Toniolo Piero “Munaro”

INDICE

DAI NOSTRI PAZIENTI

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Dr. Giancarlo Parise

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Si vince insieme

Non si può insegnare qualcosa ad un uomo, puoi solo aiutarlo a scoprirlo dentro di sè.In un mondo dominato dalla velocità con cui fai le cose, la sola cosa che può innestare un processo di cambiamento sia personale che professionale, sta’ in una sola parola: SEMPLICITÀ. Le reti di relazioni, meglio conosciute come “NETWORKING”, ci aiutano in un mondo che corre troppo e ha dimenticato d’insegnarci che nessun valore economico può prendere il posto della nostra matrice umana. Non è una dottrina religiosa o politica, è che essere buoni conviene, perché è una delle poche vie per poter risanare il debito sul quale abbiamo costruito gran parte del nostro futuro. Chi si mette a disposizione del prossimo è un vincente, non un perdente (molte ricerche dimostrano che i bambini più altruisti hanno risultati scolastici migliori).Le conseguenze del nostro comportamento decideranno se abbiamo scelto bene o male, perché il dare e ricevere sono differenti aspetti dell’unico flusso energetico.Il dare e avere hanno senso solo in presenza di onestà. Onestà e integrità morale sono i veri punti di forza degli individui e organizzazioni. Il Forum Corporation di Boston, in una ricerca su 341 venditori e 11 aziende, ha dimostrato che la percezione della qualità dei prodotti era data dall’onestà e sincerità dei venditori (non la competenza, la simpatia o la furbizia). L’onestà. Dall’onestà nasce un mutuo profitto. E’ concepire il guadagno come frutto del donare. E’ credere che il bene che si può fare agli altri contribuisca a rendere il mondo migliore e renderlo di conseguenza sensibilmente migliore anche per noi. E’ raggiungere i propri obiettivi e sogni compatibilmente con quelli altrui. E’ un sistema WIN-WIN, dove coloro che producono, vendono e comprano, in assenza di tendenze oligarchiche, possono trovare vantaggi, senza necessariamente impoverire la controparte.Per descrivere un’azienda ai giorni nostri, il paragone più opportuno è quello di un’astronave che viaggia nell’universo. Non possiamo buttare i rifiuti fuoribordo perché tutto quello che di sbagliato facciamo è destinato a ritorcersi contro. Non possiamo

lasciare indietro parte dell’equipaggio o fare a meno di esso. Non si può avere paura che qualcuno non faccia il proprio dovere, perché il rischio è la sopravvivenza di tutti.La PAURA blocca ogni forma di creatività, blocca le aziende e le aziende scelgono troppo spesso uomini bloccati, uomini che dicono troppo spesso si. Sono persone arroganti e furbe (nell’eccezione negativa del termine). Il loro fine è che nulla cambi (a parte il loro contratto). I curricula sono lunghi e scritti in inglese “fa tendenza ma non sostanza”. Si ha la sensazione che loro decidano, ma decidere è un rischio e loro non amano rischiare.Da Pozzo (un life coach) divide secondo la sua esperienza gli uomini in tre categorie: 1) gli inseminatori, sono coloro che osano, donano e non si curano di avere in contraccambio. Il loro compito è di stimolare, portare avanti il testimone. A loro dobbiamo tutto, ma spesso non glielo riconosciamo. I veri uomini, le vere donne esistono per il dono. 2) inseminatori-raccoglitori, con medio coraggio

e talento, sanno copiare e captare le idee e talvolta le fanno proprie. Nel contesto socio economico sono la colonna portante perché fanno.

3) i prendi-raccoglitori, conoscono il furto, privi di talento ma straordinari nel compromesso. Si schierano solo a risultato certo e non hanno il senso della parola. Uccidono la comunità togliendole la visione, ma la cosa peggiore è che hanno paura di chi ce l’ha. Mi capita spesso di trovarmi a vedere assieme alle mie figlie “Extreme makeover home edition”. La cosa che più mi affascina di quella trasmissione (oltre lo spirito di solidarietà che l’anima) è la convinzione dei partecipanti che SI VINCE INSIEME. Non c’è limite a ciò che un gruppo coeso può fare. Mentre non c’è limite agli ostacoli che un gruppo diviso può costruire. Anche in una società cinica come la nostra esiste ancora gente capace di credere e realizzare un sogno, migliorando così la propria condizione economico-sociale e quella altrui.

Dr. Giancarlo Parise

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O meglio O niente

Nel tentativo di condividere con colleghi e personale di Clinica Dentale un pensiero che spero diventi comune, cercherò di riassumere alcune mie letture. Si tratta in fin dei conti di un collage e della sintesi di un libro che mi ha particolarmente ispirato “o meglio o niente” di Jim Collins e la sua squadra di 21 ricercatori, che hanno analizzato 15 anni di performance azionarie di società con rendimenti 3 volte superiori alla media (Fortune 500, ovvero le 500 migliori società). La mole di lavoro è paragonabile a 10 anni di lavoro di una persona con 6.000 articoli letti, 2000 interviste trascritte e 384 megabyte di dati.E’ stata fatta una cernita di queste società ricavandone 11 (indipendentemente dal settore di appartenenza ), che sono transitate da buono all’eccellente ( GtoG ). Ho trovato questa lettura ispirante perché riassume in se una serie di affermazioni che condivido, e delle esperienze riportate, sovrapponibili alla mia vita professionale. Il punto è che queste idee funzionano, se applicate a qualsiasi situazione, migliorano la vostra vita e le vostre esperienze, e migliorano i risultati. E, strada facendo, potrete rendere eccellente quello che fate. Perciò chiedo: se non è più faticoso, se i risultati sono migliori, se il procedimento è più divertente, perché non dovreste cercare l’eccellenza? Naturalmente non sto dicendo che passare dal buono all’eccellente sia facile, o che ogni organizzazione riesca a compiere la trasformazione. Non è possibile, per definizione, che tutti si pongano sopra la media. Ma affermo che quanti si sforzano di trasformare il buono in eccellente non trovano il percorso più doloroso o faticoso della via di chi si accontenta di lasciar andare le cose nella mediocrità. Si, trasformare il buono in eccellente richiede energia, ma il lavoro restituisce alla squadra più energia di quanta ne sottragga. Al contrario, perpetuare la mediocrità è un processo intrinsecamente deprimente, che consuma più energia di quanta ne venga immessa.

PREFAZIONE

Il buono è nemico del meglio. Questo è il primo motivo perché poche cose diventano eccellenti. Poche persone conducono vite eccellenti, principalmente perché è fin troppo facile accontentarsi di una vita piacevole. La grande maggioranza delle aziende non giunge mai all’eccellenza, perché la grande maggioranza diventa abbastanza buona. Questo è il vero problema. Le società veramente eccellenti, in gran parte, lo sono sempre state. La maggior parte delle buone imprese rimangono solo tali, buone ma non eccellenti. Può allora una buona società diventare eccellente, e se si, in che modo? O questa malattia dell’essere “solo buona” è incurabile? La risposta è si. Tutte le organizzazioni possono accrescere in modo sostanziale le loro performance e forse diventare eccellenti, se applicano scrupolosamente lo schema di idee che sono state elaborate. Ora domanda cruciale diventa: cosa condividono le società GtoG ( good to great ) che le distingue dalle aziende confronto? Alla fine delle analisi ciò che ha stupito maggiormente è stato ciò che non è stato trovato rispetto alle similitudini di queste società eccellenti. Alcuni punti comuni erano:1) La maggior parte di LEADER (10 su 11 CEO)

provenivano dall’interno dell’azienda, le società a confronto hanno fatto ricorso 6 volte più spesso a CEO provenienti dall’esterno.

2) Non vi è collegamento tra la retribuzione e la transizione GtoG.

3) La strategia in se non distingue nettamente le società GtoG da quelle a confronto.

4) Le società GtoG si concentrano in misura eguale su cosa fare e cosa smettere di fare.

5) Non si punta sulla tecnologia per accelerare la transizione GtoG ma la si considera solo un mezzo.

6) Fusioni ed acquisizioni non giocano nessun ruolo nell’avviare la transizione (la somma di due grosse mediocrità non darà mai una azienda eccellente)

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7) Non si dedicano anima e corpo a motivare, controllare ecc. Viene da se..

8) A volte le società GtoG non si rendevano nemmeno conto della trasformazione ( verso l’eccellenza ) che stavano vivendo. Solo più tardi retrospettivamente se ne sono rese conto.

9) La cosa più sorprendente è che le società non operavano, generalmente, in settori industriali in forte sviluppo, anzi, lavoravano in settori con forte difficoltà. L’eccellenza non dipende dalle circostanze, risulta invece sia la conseguenza di scelte consapevoli.

DAL CAOS AL CONCETTO

Bisogna pensare alla trasformazione come ad un processo di potenziamento delle forze seguito dallo sfondamento, suddiviso in tre grandi sezioni:1) Persone disciplinate2) Pensiero disciplinato 3) Azioni disciplinateIntorno alla struttura si trova un concetto che abbiamo deciso di chiamare “volano”, che coglie la Gestalt dell’intero processo di passaggio dal buono all’eccellente.

Leadership di livello 5. Ci ha sorpreso scoprire quale fosse il tipo di leadership richiesto per trasformare un’impresa da buona ad eccellente. Rispetto ai dirigenti di alto profilo, con forte personalità, che compaiono sui giornali e

diventano delle celebrità, i dirigenti GtoG sembrano scesi da Marte. Si auto eclissano, sono silenziosi e riservati, a volte timidi. Questi leader sono un misto di umiltà personale e volontà professionale.

Prima chi poi cosa. Ci aspettavamo che questi leader iniziassero elaborando una vision e una strategia nuova. Invece abbiamo scoperto che prima hanno fatto salire sul bus le persone giuste e scendere quelle sbagliate, collocando le giuste nei posti giusti e poi hanno deciso dove andare. Quindi: “ LE PERSONE NON SONO IL VALORE PIU’ IMPORTANTE, LO SONO QUELLE GIUSTE”.

Affrontare la cruda realtà. Bisogna conservare la fiducia incrollabile di potercela fare, indipendentemente dalle difficoltà e contemporaneamente imporsi la disciplina di guardare in faccia la più dura realtà dei fatti, qualunque essa sia.

Concetto del riccio. Semplicità all’interno dei tre cerchi, che sono:1) in cosa potete essere i migliori al mondo 2) quale è la vostra passione 3) quale è il vostro motore economicoSe non siete il migliore nel vostro core business allora questa attività non può costituire il fondamento per una impresa eccellente. Dovete sostituirlo con un semplice concetto che rifletta una piena comprensione dei tre cerchi che si intersecano.

Cultura della disciplina. Se avete personale disciplinato, non vi serve gerarchia. Se avete un pensiero disciplinato, non serve burocrazia. Se avete una azione disciplinata, molti controlli diventano superflui. Quando unite una cultura della disciplina a un’etica della imprenditorialità, otterrete la magica alchimia delle performance d’eccellenza.

Acceleratori tecnologici. Le società GtoG pensano in modo diverso il ruolo della tecnologia. Non si servono mai della tecnologia come mezzo principale per innescare una trasformazione. Ma, sono pioniere nella applicazione delle tecnologie accortamente

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selezionate, perché la tecnologia di per se non è mai la causa della eccellenza o del declino.

Volano e spirale del declino. Coloro che scatenano rivoluzioni impressionanti, programmi di cambiamento e ricostruzioni sconvolgenti, quasi certamente non riusciranno a compiere il passaggio dal buono all’eccellente. Il processo ricorda invece il moto incessante di un volano gigantesco e pesante, giro dopo giro, che accumula energia fino al punto del balzo e oltre.

LA LEADERSHIP LIVELLO 5NON ERA QUELLO CHE CI ASPETTAVAMO

Per una questione di spazio parleremo principalmente di Darwin E. Smith ( CEO di Kimberly- Clark ) quale leader di livello cinque. Cresciuto in una cittadina dell’Indiana, laurea di primo grado lavorando di giorno e frequentando la Indiana University la sera. Un giorno in un incidente di lavoro perse parte di un dito, ma la stessa sera andò comunque a lezione e il giorno dopo al lavoro. Due mesi dopo la nomina a CEO le fu diagnosticato un Cancro al naso e gola, con una previsione di vita di meno di un anno. Ne informo il CDA, ma chiarì di non sentirsi ancora morto e di non avere nessuna intenzione di farlo a breve. Rispetto pienamente il suo programma di lavoro facendo il pendolare ogni settimana dal Wisconsin a Houston per la radioterapia, e visse altri venticinque anni, la maggior parte dei quali come CEO. Il Wall Street Journal non pubblico mai servizi spettacolari su di lui. La sua goffa timidezza e la mancanza di pretese facevano copia con la sua risolutezza. Smith applicò la stessa feroce determinazione alla ricostruzione della Kimberly-Clark ,quando decise di vendere gli stabilimenti e di passare dal core business della carta patinata a prodotti di largo consumo. Così come il generale che incendia le sue navi dopo essere sceso a terra, per avere una unica opzione, o vincere o morire, Smith annuncio la decisione di vendere le cartiere. I media definirono stupida la mossa e gli analisti declassarono le azioni. Smith non

ebbe mai esitazioni. Venticinque anni dopo Kimberly-Clark batteva Procter & Gamble in sei articoli su otto.Darwin Smith è un classico esempio di quello che abbiamo finito per chiamare leader di livello 5, un individuo che unisce una estrema umiltà personale a una forte volontà professionale. Alla guida di ogni impresa passata dal buono all’eccellente c’era un leader di questo tipo, durante il periodo della transizione. Come Smith cerano persone che si auto eclissavano e insieme mostravano un’enorme determinazione nel fare tutto il necessario per rendere eccellente l’azienda.I leader di livello 5 allontanano da se i loro bisogni egoistici e li indirizzano verso un più vasto obbiettivo, quello di costruire una azienda eccellente. Non che i leader di livello cinque non possiedano un ego o interessi personali. in realtà sono incredibilmente ambiziosi, ma la loro ambizione riguarda prima di tutto l’istituzione, non se stessi.Un leader di livello 5 incorpora tutti i livelli della piramide.

I dirigenti delle società GtoG erano tutti della stessa stoffa. Tutte queste società avevano al momento della transizione un leader di livello 5. Per contro l’assenza di questo tipo di leadership appariva una tendenza costante nelle aziende di confronto.I leader di livello 5 sono esempi di dualismo: modesti e decisi, umili e senza paura.

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UMILTA’ + DETERMINAZIONE = LIVELLO 5

Colman Monckler (CEO di Gillette ) affrontò tre attacchi, due come OPA ostili e uno da Coniston Parteners. Non si arrese mai scegliendo di lottare per il futuro di Gillette, quando lui stesso avrebbe potuto intascare una cifra sostanziosa in cambio delle sue azioni. I dirigenti di Gillette contattarono ogni singolo azionista, uno per uno e vinsero.Monckler e la sua squadra puntarono sul futuro della società, con enormi investimenti in prodotti radicalmente e tecnologicamente avanzati. Allora Sensor era un progetto segreto e non incideva sul valore delle azioni. Pensando a Sensor il CDA e Monckler credevano che il valore delle azioni avrebbe superato di molto il valore di allora.

AMBIZIONE NON PER SE MA PER L’AZIENDA

Quando David Maxwell divento CEO di Fannie Mae la società perdeva un milione di dollari per ogni giorno lavorativo. Nei nove anni successivi trasformò Fannie Mae in una impresa che rivaleggiava con le migliori società di Wall Street, guadagnando quattro milioni al giorno e superava per 3,8 a 1 il mercato azionario generale. Fannie Mae opera sotto concessione governativa. Quando Maxwell andò in pensione la sua liquidazione (proporzionale ai risultati raggiunti era di 20 milioni di dollari). Per non destare imbarazzo a Washington chiese che cinque milioni di dollari fossero devoluti alla fondazione Fannie Mae per l’edilizia popolare.David Maxwell come Darwin Smith e Coleman Monckler sono esempio di una caratteristica fondamentale dei leader di livello 5: l’ambizione è prima di tutto per il successo dell’azienda, anziché per la propria ricchezza e fama personale. I leader di livello 5 vogliono che l’impresa per cui lavorano ottenga un successo ancora maggiore nella generazione seguente e non temono che gran parte della gente non sappia mai che quel successo si deve a loro. Come diceva un leader di livello 5: “ un giorno o l’altro vorrei guardare, standomene sulla mia veranda, una delle massime società al mondo e poter dire: io lavoravo li.”In più dei tre quarti delle società di confronto

abbiamo trovato dirigenti che preparavano i loro successori al fallimento o gli sceglievano troppo deboli, o anche le due cose assieme.

UNA MODESTIA AMMIREVOLE

In antitesi allo stile egocentrico dei leader delle aziende di confronto, i dirigenti GtoG non parlavano mai di se. Intervistati parlavano dell’azienda e del contributo di altri manager ed evitavano di sottolineare il loro apporto. Le persone che hanno lavorato con loro li definivano con termini quale: tranquillo, umile, modesto, riservato, timido, gentile, educato.. Questi leader non desiderano diventare dei supereroi. Si tratta di gente all’apparenza ordinaria, che produceva risultati straordinari, ma lo faceva in silenzio.

FARE QUELLO CHE DEVE ESSERE FATTO

E’ molto importante comprendere che la leadership di livello 5 non si riduce a modestia e umiltà. Tra le sue componenti c’è anche una determinazione feroce, una volontà quasi stoica di fare tutto quanto è necessario per portare l’azienda all’eccellenza. Sono terribilmente motivati. Venderebbero gli stabilimenti o licenzierebbero i loro famigliari se serve per rendere eccellente l’azienda.Quando George Cain diventò CEO della Abbott l’azienda era sonnolenta e campava mungendo la sua mucca, l’eritromicina. Si mise al lavoro per sbarazzarsi di una delle cause principali della mediocrità della Abbott, Il NEPOTISMO. Ricostruì sia il CDA che la squadra di dirigenti, ricorrendo alle persone migliori che poteva trovare. Chiarì che nè i legami famigliari, nè l’anzianità aziendale potevano assicurare una posizione e uno stipendio. Mise così in moto un meccanismo di crescita che portò a un rendimento azionario superiore al mercato di 4,5 a 1, battendo superstar del mercato quali Merck e Pfizer. Tra gli undici CEO che hanno raggiunto l’eccellenza tre provenivano dall’interno della azienda. Un esempio superbo di cambiamento condotto dall’interno è quello di Charles R. Cork di Walgreen, trasformandola da servizi di ristorazione a dragatore, con il superamento del mercato azionario di 15 a 1 nel 1975.

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LA FINESTRA E LO SPECCHIO

I Leader di livello 5 non attribuiscono a sè i meriti ma alla fortuna. Essersi trovati nel posto giusto al momento giusto, aver avuto il successore giusto, e rifiutano di prendersi il merito del successo della società. All’inizio questa enfasi sulla buona sorte ci lasciava perplessi. Ma poi cominciammo a notare uno schema opposto: i dirigenti delle aziende di confronto attribuivano buona parte dei rovesci proprio alla sfortuna, spesso lamentando le difficoltà dell’ambiente in cui operavano.L’enfasi posta sulla fortuna fa parte di un modello che abbiamo battezzato “ la finestra e lo specchio “. I leader di livello 5 guardano fuori dalla finestra per attribuire il merito a fattori esterni, quando le cose vanno bene. Invece guardano allo specchio, per accollarsi le responsabilità quando le cose vanno male.Ken Iverson CEO della Nucor (catena di piccole acciaierie americane) considerava la concorrenza dei prodotti importati, una benedizione, un colpo di fortuna, diceva: “ siamo davvero fortunati, l’acciaio è pesante e i competitori lo devono spedire per nave dall’altra parte dell’oceano, dandoci un vantaggio enorme.” Questo mentre tutta l’industria dell’acciaio statunitense era al collasso.

COLTIVARE LA LEADERSHIP DI LIVELLO 5

La mia ipotesi è che esistono due categorie di persone: quelle che non hanno in sè il seme del livello 5 e quelle che c’è l’hanno. Le prime nemmeno se avessero a disposizione milioni di anni sottometterebbero i loro bisogni egoistici alla superiore ambizione di costruire qualcosa di più grande e più duraturo di loro stessi. Per queste persone il lavoro importa per quello che possono ricavarne: fama, ricchezza, adulazione, potere e quant’altro e non per quello che possono costruire.La grande ironia sta nel fatto che l’atteggiamento e l’ambizione personale che conducono a posizioni di potere sono l’opposto dell’umiltà richiesta dalla leadership di livello 5. Quando si aggiunge il fatto che spesso i CDA agiscono in base alla convinzione che per rendere eccellente

una organizzazione c’è bisogno di un leader di fortissima personalità ed egocentrismo, si capisce subito perché i leader di livello 5 compaiano solo raramente ai massimi livelli delle nostre istituzioni.Osservando i dati, abbiamo notato che alcuni leader incontrati nella nostra ricerca avevano vissuto significative esperienze, che potevano aver attivato o sostenuto la loro maturazione. (Per Darwin Smith fu il cancro, Joe Coleman fu profondamente influenzato dall’esperienza della seconda guerra mondiale ecc.)Io credo - anche se non lo posso dimostrare - che i leader di livello 5 siano molti. Sono intorno a noi, basterebbe saperli trovare, in situazioni che spiccano per l’eccellenza dei risultati e nelle quali nessuno si fa avanti per attribuirsi il merito. Ma nella scatola nera c’è un’altra scatola nera: lo sviluppo interiore di una persona di Livello 5.

PRIMA CHI, POI COSAGli uomini che hanno attivato la trasformazione GtoG non hanno deciso prima dove dirigere l’autobus, scegliendo poi le persone per condurlo. Al contrario: prima hanno fatto salire sul bus le persone giuste (facendo scendere quelle sbagliate) e poi hanno stabilito dove andare. Dicevano: se facciamo salire le persone giuste, le mettiamo ai posti giusti, e facciamo scendere quelle sbagliate, allora capiremo come raggiungere un grandioso traguardo.

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I leader GtoG hanno compreso 3 semplici verità 1) Si inizia con CHI anziché con COSA. Se le

persone sono salite sul bus perché motivate dalle altre che erano a bordo, allora è molto più facile cambiare rotta.

2) Se sul bus ci sono le persone giuste, il problema di come MOTIVARLE e guidarle in gran parte si dissolve. Questa gente non avrà bisogno di essere rigidamente diretta e nemmeno di essere stimolata, perché sarà auto motivata dalla spinta interiore.

3) Se si prende a bordo la gente sbagliata, non importa individuare la direzione giusta, perché comunque non si raggiungerà il traguardo di una azienda di eccellenza. P.S. “ una grande idea senza grandi persone non serve a nulla”

Dick Cooley CEO di Wells Fargo Bank aveva cominciato a formare una delle squadre di management più dotate del settore bancario. Covey prevedeva che le banche sarebbero andate incontro a cambiamenti radicali, ma non fingeva di sapere quale forma avrebbero preso quei cambiamenti. Così invece di tracciare una strategia pre definendo le trasformazioni, in accordo con il presidente, si preoccupò di iniettare un infinito flusso di talenti nelle vene della società. Assumendo persone con doti fuori dal comune, ogni volta e ovunque le trovassero, spesso senza avere in mente a quali incarichi destinarle. “Così si costruisce il futuro” diceva. “Se non sono abbastanza intelligente da capire i cambiamenti in arrivo, li capiranno loro. E saranno abbastanza flessibili da saperli affrontare.”Carl Reichardt, che diventò CEO dopo di lui, attribuì il successo della banca in gran parte alle persone che aveva intorno, molte delle quali scelte da Cooley. Quindi, prima si imbarcano le persone giuste, poi si sceglie la rotta.Anche Maxwell ( CEO di Fannie Mae) mise assolutamente in chiaro che ci sarebbe stato posto solamente per giocatori di seri A disposti a fare uno sforzo A+, e chi non lo era conveniva scendere dalla barca. Lo stesso standard fu applicato verso il basso e verso l’alto, in tutti i ranghi di Fannie Mae. I manager di ogni livello accrebbero così il valore delle loro squadre. Avevano un modo di dire: “Non fare finta in Fannie Mae.” O conoscevi la tua

materia o non la conoscevi, e in questo caso eri semplicemente fuori.Wells Fargo e Fannie Mae illustrano entrambe l’idea che “chi” viene prima di “cosa”. Prima della visione, della strategia, della tattica,della struttura organizzativa, della tecnologia.Questi CEO dicevano: “Non so dove dobbiamo portare questa società, ma so che se parto con le persone giuste, pongo loro le domande giuste, e le impegno in una vigorosa discussione, troveranno un modo per rendere grande questa impresa”.

UN GENIO CON UN MIGLIAIO DI AIUTANTI? NO, GRAZIE.

Nei casi confronto, il genio che domina dall’alto, principale forza traente del successo dell’azienda è una grande risorsa..ma fino a quando il genio non se ne va. Raramente queste persone formano grandi squadre manageriali, per il semplice motivo che non ne hanno bisogno, e spesso non le vogliono. Se sei un genio non ti serve una squadra come quella di Wells Fargo. Il modello”genio con un migliaio di aiutanti” prevale in modo particolare nelle società di confronto che non hanno mantenuto nel tempo le loro performance.

L’IMPORTANTE E’ CHI SI PAGA, NON QUANTO

Non abbiamo trovato nessun elemento che colleghi la retribuzione dei dirigenti alla transazione da buono a eccellente. Semplicemente, non esiste evidenza a sostegno dell’idea che una specifica struttura di remunerazione agisca da fattore chiave nel portare una azienda dal buono all’eccellente.L’unica differenza significativa che abbiamo riscontrato era che i dirigenti delle società GtoG dieci anni dopo la transazione ricevevano compensi in totale leggermente inferiori, rispetto ai loro omologhi delle società di confronto.Se imbarchi gli uomini giusti, fanno quanto in loro potere per costruire una società eccellente, non attirati da ciò che potranno avere in cambio, ma perché non si accontenteranno di niente di meno.

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Lo scopo di un sistema retributivo non dovrebbe essere quello di ottenere giusti comportamenti dalle persone sbagliate, ma quello di far salire sul bus le persone giuste e indurle a rimanere.Un esempio particolarmente chiaro è quello di Nucor, che ha costruito il suo sistema sull’idea che si può insegnare a un contadino come produrre acciaio, ma non si può insegnare l’etica contadina del lavoro a chi non c’è l’ha nella propria cultura. Nucor si è insediata in posti come Indiana, Nebraska, Utha. Luoghi pieni di veri contadini, che vanno a letto presto, si alzano all’alba e si mettono subito al lavoro senza tante storie.Per attirare e trattenere gli operai migliori, Nucor pagava meglio di ogni altra impresa siderurgica d’America. Costruì il suo sistema retributivo intorno a un vincolante meccanismo di premi di squadra, con più del 50% del salario legato direttamente alla produttività della squadra. Le squadre si presentavano al lavoro in anticipo, per preparare gli attrezzi ed essere pronte a schizzare dalla linea di partenza nel momento del cambio di turno. Il sistema Nucor non creava stacanovisti, ma un ambiente in cui chi lavorava sodo si trovava bene, e i pigri venivano scaricati. In una trasformazione GtoG, le persone non sono il capitale più importante, lo sono quelle giuste.

RIGOROSI, NON SPIETATI

Essere rigorosi, vuol dire applicare con coerenza, sempre a tutti i livelli standard elevati, specialmente nei confronti del management. L’unico modo per mantenere gli impegni con le persone che riescono è quello di non caricarle del peso di quelle che non riescono. Lasciare le persone nella incertezza per mese o anni, rubando loro tempo prezioso, che potrebbero usare trovandosi un’altra occupazione, quando alla fine lo faranno comunque: questo sarebbe spietato. Affrontare il problema e lasciare che la gente vada avanti con la sua vita: questo è rigore.

COME ESSERE RIGOROSI

Abbiamo trovato tre regole pratiche per essere rigorosi anziché spietati.

1) Nel dubbio non assumere; continua a cercare. Nessuna impresa può far crescere i suoi profili più velocemente della sua capacità d i trovare le persone giuste che implementino quella crescita, diventando anche una impresa eccellente. Gli acceleratori essenziali della crescita non sono i mercati, la tecnologia, la concorrenza, i prodotti perché c’è una cosa che viene prima di tutte le altre; l’abilità di trovare e trattenere una quantità sufficiente di persone giuste. Una parte enorme del nostro successo si può attribuire alla nostra costanza nello scegliere queste persone. 2)Quando una persona va sostituita agisci. Se si sente la necessità di controllare una persona molto da vicino, significa che si è fatto un errore nel momento della assunzione. Le persone migliori non hanno bisogno di essere gestite.Devono essere guidate, istruite, accompagnate, ma non rigidamente dirette. Spendere tempo ed energia per queste persone significa sottrarre risorse al lavoro con tutte le altre, continuando procedere a tentoni, finché la persona se ne va di propria iniziativa (con nostro grande sollievo) oppure decidiamo di passare all’azione (togliendoci un sassolino dalla scarpa), mentre i migliori intorno a noi si domandano: “Perché ci ha messo tanto?”. Lasciar ballonzolare in giro persone sbagliate è scorretto verso quelle giuste, che si ritrovano inevitabilmente a dover rimediare alle loro carenze o peggio ancora può far allontanare i migliori. Ogni minuto in più che si concede ad una persona di rimanere sul bus ed occupare un sedile, quando si sa che non c’è la farà, significa rubarle una parte di vita, sottrarle il tempo che le serve per trovare un altro posto, in cui potrebbe stare meglio. In realtà se siamo onesti con noi stessi, il motivo per cui aspettiamo troppo ha meno a che fare con la preoccupazione per quella persona e più con la nostra comodità. Le società GtoG mostravano questo modello bipolare: le persone rimanevano per lungo tempo oppure se ne andavano precipitosamente. In altre parole: le società GtoG non facevano più turnover, lo facevano meglio. Ogni minuto dedicato a mettere la persona adatta nella casella adatta, vale nel futuro, settimane di tempo. Potrebbe volerci molto tempo, per sapere con certezza se

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qualcuno è semplicemente al posto sbagliato o se invece deve scendere dall’autobus.Tuttavia, quando i leader GtoG capiscono di dover sostituire una persona, la sostituiscono. Ma come si fa a esser sicuri di aver capito? Possono aiutare due domande chiave. La prima: se si trattasse di decidere una assunzione, assumereste di nuovo quella persona?La seconda: se quella persona venisse a dirvi che si dimette, perché vuole cogliere una nuova opportunità, vi sentireste molto delusi o segretamente sollevati?3) I migliori si applicano alle opportunità Le società GtoG usavano mettere le persone migliori al lavoro sulle loro migliori opportunità, non sui loro maggiori problemi. Questa regola ha un importante corollario. Quando decidete di liquidare i vostri problemi, non liquidate le vostre persone migliori. E’ uno dei piccoli segreti del cambiamento. Se create un ambiente in cui i migliori hanno sempre un posto, tutti saranno più portati a sostenere il cambiamento. Potrete chiedervi quale sia la differenza tra un componente della squadra dirigenziale livello 5 e un bravo soldato. La risposta dice che il dirigente di livello 5 non obbedisce ciecamente all’autorità, ed è in proprio, un forte leader, così motivato e dotato da costruirsi in proprio il proprio spazio all’interno del meglio che esiste al mondo. Uno degli elementi cruciali per portare una azienda dal buono all’eccellente ha qualcosa di paradossale. Occorrono dirigenti che da un lato obbiettano e discutano, a volte accanitamente, alla ricerca delle risposte migliori, e che dall’altro si trovino uniti a sostenere la decisione presa, senza riguardo per l’interesse personale.

SOCIETÀ ECCELLENTI EQUALITÀ DELLA VITA

Quando chiesi in una intervista al mio interlocutore come Monckler avesse potuto riuscirci, la risposta fu: “Per lui non fu così difficile. Era bravo nel radunare attorno a sè la gente giusta, e mettere quelli giusti nei posti giusti, così non aveva bisogno di essere presente a tutte le ore del giorno e della notte.Quello era il segreto di Colman Mockler per avere insieme successo ed equilibrio”. La moglie di disse:

“Quando siamo andati tutti assieme al suo funerale, mi sono guardata intorno e ho capito quanto amore ci fosse per lui. Era un uomo che aveva trascorso quasi tutto il suo tempo con persone che lo amavano, che amavano quello che stavano facendo, e che si amavano reciprocamente, al lavoro, a casa, nelle sue opere di solidarietà, ovunque”. Chiudendo il mio colloquio con George Weissman di Philip Morris, avevo commentato: “quando parla dei suoi tempi in azienda, sembra racconti una storia d’amore”. Weissman e molti dei suoi colleghi mantennero degli incarichi in Philip Morris, ripresentandosi regolarmente in ufficio anche dopo il pensionamento. Weissman Culleman e altri continuarono ad andare in ufficio, soprattutto perché a tutti loro piaceva passare del tempo assieme. DicK Appert di Kimbely-Clark raccontò: “Nei miei 41 anni in azienda non ho mai sentito dirmi qualcosa di scortese. Ringrazio Dio del giorno in cui sono stato assunto, perché sono stato circondato da persone meravigliose. Persone in gamba che si rispettano e si ammirano a vicenda”.I menbri delle squadre GtoG tendono a diventare amici e a esserlo per tutta la vita. In molti casi si tenevano in stretto contatto per anni o decenni dopo aver lavorato assieme. Era straordinario sentirli parlare dei tempi che avevano condotto al successo, perché non importa quanto fossero bui quei giorni o quanto fosse impegnativo il lavoro: loro si divertivano! Amavano stare in compagnia gli uni degli altri e non vedevano l’ora di riunirsi per discutere. Molti dirigenti sostenevano che gli anni passati in quelle squadre erano stati il punto più alto delle loro vite. Le esperienze che raccontano andavano oltre il mutuo rispetto (che certamente praticavano), per arrivare ad una forma di cameratismo.L’adesione al principio “prima chi” potrebbe essere il collegamento più stretto tra una azienda eccellente e una buona qualità di vita. Perché indipendentemente da quello che otteniamo, se non viviamo la maggior parte del tempo con persone che amiamo e rispettiamo, non possiamo avere una gran vita. Le persone delle società GtoG che abbiamo intervistato amavano quello che facevano, in gran misura perché amavano le persone con cui lo facevano.

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AFFRONTARELA CRUDA REALTA’(senza mai perdere la fede)

Krogher nel primo dopoguerra era una catena di drogherie grande meno della meta di A&P. Poi le società presero strade diverse e nei 25 anni successivi Krogher generò rendimenti cumulativi 10 volte superiore al mercato, e 80 volte migliori di A&P.A&P aveva un modello perfetto per la prima metà del secolo, quando le due guerre mondiali e una depressione economica avevano imposto agli americani la frugalità: generi alimentari a buon mercato venduti in negozi senza fronzoli. Ma nella ricca, e sempre più ricca, seconda metà del secolo gli americani cambiarono. Volevano articoli insoliti mentre facevano la spesa, tipo: controllare il conto in banca o fare la vaccinazione antinfluenzale. In breve non vollero più saperne delle drogherie. Volevano supermercati con la S maiuscola, che offrissero tutto sotto un tetto, con enormi parcheggi, prezzi bassi, e una esagerazione di casse. Negli anni 70 Krogher e A&P erano entrambe vecchie (82 sani la prima e 111la seconda), ed entrambi avevano quasi tutti i capitali investiti in negozi tradizionali. Entrambe sapevano come stava cambiando il mondo intorno a loro. Ma una affrontò a testa bassa la cruda realtà e l’altra ficcò la testa nella sabbia.Krogher sviluppò un modello completamente diverso. La squadra dirigenziale, negli anni 70, arrivò alla conclusione che le drogherie vecchio modello (il 100% del loro business ) si sarebbero estinte. A differenza di A&P Krogher affrontò la dura realtà e ci ragionò sopra.Decise di abbandonare, modificare, o sostituire i vecchi negozi, abbandonando tutte le situazioni non adatte alla nuova modalità.

I FATTI SONO MEGLIO DEI SOGNI

Uno dei temi dominanti emersi nella ricerca è che i migliori risultati si verificavano in seguito a una serie di buone decisioni, diligentemente applicate e coerentemente legate l’una all’altra. Hanno preso nell’insieme molte più decisioni giuste che sbagliate, molte di più delle società a confronto e hanno centrato l’obiettivo

quando si trattava di scelte davvero importanti. Le società GtoG mostrano 2 forme particolari di pensiero. La prima: immergono l’intero processo decisionale nella cruda realtà dei fatti. La seconda: per ogni decisione sviluppano un quadro di riferimento altamente illuminante.

IL CLIMA DELLA VERITA’

Se le persone con voi sono quelle giuste, sono capaci di auto motivarsi.Allora la vera domanda diventa: come dirigere una organizzazione in modo da non demotivare le persone? Una delle azioni più demotivanti che potreste fare è alimentare false speranze, destinate ad essere rapidamente spazzate via dai fatti. La leadership ha a che fare con la visione, ma anche con la capacità di creare un clima in cui si presta ascolto alla verità e si affrontano i fatti. C’è una grande differenza tra l’opportunità di dire quel che si pensa e quella di essere ascoltati. I leader GtoG conoscono questa distinzione e creano una cultura in cui le persone vengono ascoltate e in cui, perciò, si ascolta la verità. Come si crea un clima in cui si presta ascolto alla verità?Vi proponiamo quattro regole di base1) Gestire con domande, non con risposte.

Wurtzel (di Circuit City) spicca come uno dei pochi CEO di una grande società che facesse ai consiglieri di amministrazione più domande di quante loro ne facessero a lui. Diceva: “ Mi chiamavano pubblico ministero, perché puntavo dritto su una domanda e come un bulldog, non mollavo finché non avevo capito. Perché, perché, perché?” Come Wurtzel, i leader di tutte le transizioni dal buono all’eccellente seguivano una sorta di stile socratico. Usavano le domande per una unica ragione: capire, non per manipolare. Gestire la transizione GtoG non significa presentarsi con le risposte pronte e con quelle motivare gli altri, per indurli a seguire una visione messianica. Significa avere l’umiltà di riconoscere che non se ne sa abbastanza, non tanto da poter dare risposte, e quindi fare le domande che conducono alla miglior comprensione possibile.

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2) Impegnarsi nel dialogo e nel dibattito. Come ha potuto Nucor trasformarsi dalla pessima Nuclear Corporetion of America nella migliore, o quasi, società americana dell’acciaio? Per prima cosa beneficiò dei servizi di un leader di livello 5, come Ken Iverson, promosso da direttore generale dalla divisione carpenteria a CEO. In secondo luogo grazie a Iverson prese a bordo del bus la gente giusta, formando una squadra di persone eccezionali come Sam Siegel (definito da un collega “il migliore amministratore finanziario al mondo”) David Aycock genio nella gestione aziendale. Come A. Wurtzel, Iverson sognava di costruire una grande impresa, ma si rifiutava di iniziare con la risposta su come arrivarci. Giocò invece, il ruolo di Socrate in una serie di discussioni furibonde. Come Nucor tutte le società GtoG avevano un debole per il dialogo, specie se animato. Non usavano la discussione come frizione per far “dire la propria” alla gente e far accettare una decisione già presa. Somigliava più a un sostenuto dibattito scientifico, in cui tutti si impegnavano a cercare le risposte migliori.

3) Analizzare gli errori senza attribuire colpe. Nelle nostre interviste a Philip Morris siamo rimasti colpiti di come tutti attribuissero a se stessi la disfatta e ne discutessero apertamente. Cullman dice: “Mi prendo io la responsabilità di questa infelice decisione. Ma ci prenderemmo tutti la responsabilità di ricavare il massimo insegnamento dalla lezione subita”. Se si analizzano gli errori senza attribuirne colpe, si è fatto un bel passo avanti nel creare un clima favorevole alla verità. Se intorno a se ci sono persone giuste, non sarà quasi mai necessario trovare i colpevoli, ma ci si potrà dedicare ricavare dagli errori insegnamenti e nuove conoscenze.

4) Il metodo della bandiera rossa. Ho derivato l’idea della bandiera rossa da Bruce Woolpert, che nella sua azienda istituì uno strumento eternamente potente, che aveva chiamato ”pagamento ridotto”. Era un sistema che dava al cliente il potere, discrezionale e assoluto, di

decidere se e quanto pagare una fattura, in base alla sua valutazione soggettiva di quanto fosse soddisfatto di un prodotto o servizio. Doveva solo evidenziare l’articolo incriminato sulla fattura, detrarne il costo dal totale e saldare il conto. Il pagamento ridotto agisce da sistema di allarme, che ti costringe a rimediare in fretta, prima di perdere il cliente. Se siete un leader di livello 5 potrete non avere bisognoso di sistemi d’allarme, ma meccanismi come questo, forniscono uno strumento pratico e utile per trasformare un’informazione in qualcosa che non si può ignorare e creare un clima in cui la verità trova ascolto.

UNA FEDE INCROLLABILE

Nel corso della nostra ricerca ci tornavano spesso alla mente gli studi sulla resistenza condotti dall’Internetional Comitate for the Study of Victimization. questo lavoro aveva come oggetto persone che avevano sofferto gravi avversità - malati di cancro, prigionieri di guerra, vittime di incidenti- ed erano sopravvissute. Si era concluso in generale che le persone rientravano in 3 categorie. Quelle che rimanevano perennemente scoraggiate dell’accaduto, quelle che riprendevano una vita normale, e quelle che si servivano dell’esperienza come di un evento discriminante per diventare più forti. Le società GtoG appartengono al terzo gruppo, possedendo il “fattore resistenza”.

IL PARADOSSO DI STOCKDALE

Nel suo tragitto verso l’eccellenza ogni impresa GtoG ha incontrato difficoltà significative. In ogni vicenda, il management reagì con un potente dualismo psicologico: da un lato accettando stoicamente la cruda realtà dei fatti; dall’altro mantenendo una fede incrollabile nell’esito finale e con l’impegno di diventare una azienda d’eccellenza malgrado le avversità. Ciò che divide le persone, mi ha insegnato Stockdale (ammiraglio americano fatto prigioniero in Vietnam per otto anni),non è la presenza o assenza di difficoltà, ma il modo di affrontarle. Lottando con le sfide della vita, il paradosso di

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Stockdale (bisogna conservare fede nella vittoria finale e contemporaneamente guardare in faccia la realtà) si mostra potente per superare le avversità senza indebolirsi, ma rafforzandosi. Il paradosso di Stockdale è una peculiarità di tutti coloro che creano l’eccellenza. Churchill ne ha fatto uso durante la seconda guerra mondiale, l’ammiraglio Stockdale nel campo di prigionia. Se riuscite ad adottare questo schema dualistico, aumenterete in modo stupefacente le probabilità di prendere una serie di buone decisioni e specialmente di scoprire un concetto semplice, ma profondo, per arrivare alle decisioni veramente importanti.

IL CONCETTO DEL RICCIO Il concetto del riccio si rifà come aforisma al saggio scritto da Isaiah Berlin “La volpe e il riccio”. La volpe è una creatura astuta agile e capace di qualsiasi strategia per attaccare il riccio. Il riccio è bruttino, si muove ciondolando e passa le sue giornate tra la tana e la ricerca del cibo. La volpe tenta sempre inutilmente degli attacchi al riccio che puntualmente falliscono, si ritiene però troppo furba e ad ogni tentativo ne segue un altro, ma… il riccio vince sempre… Berlin dice che gli uomini sono i ricci e volpi.Le VOLPI perseguono molti fini contemporaneamente e vedono il mondo in tutta la sua complessità. Sono dispersive e si muovono su molti livelli senza mai integrare il loro pensiero in un unico concetto e visione unificante.I RICCI semplificano il mondo complesso in un’unica idea organizzatrice, in un principio di base che unifica e guida tutto. Il riccio riduce tutte le sue idee e dilemmi in una semplice idea da riccio e quello che non si collega a questa idea non ha importanza.Chi riesce a realizzare il massimo risultato sia come uomini che come aziende hanno in comune di essere dei ricci (capiscono che l’essenza della comprensione profonda è la semplicità). Non sono sempliciotti, hanno intuizioni penetranti che permettono di vedere attraverso la complessità e scorgere gli schemi sottostanti. I ricci vedono l’essenza e ignorano tutto il resto. Coloro che hanno costruito una società GtoG, erano chi più chi meno ricci.

Usavano la loro natura di ricci per puntare verso quello che abbiamo definito “concetto del riccio”. I leader delle aziende di confronto tendevano ad essere volpi, senza mai acquisire il vantaggio chiarificatore del riccio, essendo invece dispersivi e incoerenti.Walgreens si imbarcò in un sistematico programma di sostituzione di tutti i negozi in luoghi scomodi con altri più facili da raggiungere, preferibilmente situati in posizioni d’angolo, in cui i clienti potessero entrare e uscire da più direzioni. Poi Walgeens collegò il suo concetto di prossimità a una semplice idea economica, il profitto per ogni visita cliente. La densità di presenze (nove negozi in un miglio!) portava ad economie di scala, che fornivano la liquidità per realizzare altri gruppi di negozi, che a loro volta attiravano altri clienti. Aggiungendo servizi ad alto margine di profitto, come lo sviluppo e la stampa rapida di rullini fotografici, Walgreens aumentò gli utili per ogni visita/cliente. Isolato dopo isolato, città dopo città, regione dopo regione, Walgreens assomigliava sempre di più ad un riccio, con questa idea incredibilmente semplice.

I TRE CERCHI

Quello che più colpisce delle società GtoG è la loro semplicità nel concetto di fondo. Kroger con il suo concetto di ipermercato, Kimberly-Clark al passaggio ai prodotti per il consumo, Walgreens ai drustores di prossimità. Sono idee semplici, molto semplici.La differenza sostanziale tra le società GtoG e quelle di confronto sta in due distinzioni fondamentali. La prima: le società GtoG basavano le loro strategie su una comprensione approfondita, condotta lungo tre dimensioni chiave, che abbiamo finitore chiamare “tre cerchi”. La seconda: le società GtoG traducevano questa comprensione in un concetto semplice e cristallino che guidava tutti i loro sforzi: da qui il concetto del riccio che scaturisce dall’approfondita comprensione della intersezione dei tre cerchi.Il primo: in cosa potete essere i migliori al mondo (e altrettanto importante in cosa non potete esserlo).Il secondo: cosa spinge il vostro motore

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economico.Il terzo: di cosa siete profondamente appassionati.

Per afferrare velocemente il concetto dei tre cerchi, considerate una antologia a livello personale. Immaginate di realizzare una vita lavorativa che superi i tre tests seguenti.Primo: fate un lavoro per cui avete un talento innato e forse potete diventare uno dei migliori al mondo (sono nato per far questo..)Secondo: vi pagano bene per quello che fate (mi piace e mi pagano anche, è un sogno?)Terzo: state facendo un lavoro che vi appassiona e che adorate (non vedo l’ora di alzarmi dal letto e di buttarmi sul lavoro, credo davvero in quello che faccio). Se intersecate questi tre cerchi e traducete l’intersezione in un concetto semplice e cristallino che ispiri le vostre scelte di vita, allora avete un concetto del riccio tutto per voi.

ESSERE I MIGLIORI

Ogni azienda vorrebbe essere la migliore in qualcosa, ma poche capiscono realmente (con acume penetrante e chiarezza libera da interferenze) in cosa potenzialmente possono diventare le migliori e, egualmente importante, in cosa non possono diventarlo.Passare dal buono all’eccellente richiede superare la “maledizione della competenza”. Richiede la disciplina necessaria a dire: “Solo perché in questo siamo bravi, solo perché

facciamo i soldi e generiamo crescita, non è detto che possiamo diventare i migliori”. Le società GtoG hanno capito che ciò in cui si è bravi rende solo “buoni”, mentre concentrarsi esclusivamente su quello che si può fare meglio di tutti è l’unica strada verso l’eccellenza.Abbott Laboratories poteva diventare la migliore nel creare un portafoglio di prodotti che contribuissero che contribuissero a diminuire i costi della sanità (malgrado il fatto che il 99% dei suoi ricavi provenissero dai farmaci).Circuit City poteva diventare la migliore nell’attuare il modello delle quattro S (service, selection, savings, satisfaction cioè: servizio, scelta, convenienza, soddisfazione). La sua particolarità non sta nell’aver fatto ricorso al modello delle Quattro S, ma nella costante e accurata applicazione del modello.Fannie Mae poteva sviluppare una capacità unica nel valutare i rischi riguardanti i finanziamenti immobiliari.Gillette capì di possedere due professionalità molto diverse: La capacità di costruire prodotti a basso costo, ma di notevole qualità e precisione, e quella di creare marchi noti ai consumatori di tutto il mondo (una specie di Coca Cola dei rasoi e lamette)Kimberly-Clark comprese di avere un talento innato nel creare marchi “ammazza categoria” ( esempio Kleenex)Kroger applicò questa sua abilità alla domanda su come creare un super negozio con molti mini negozi ad alto margine riuniti sotto un unico tetto.Nucor riuscì capire che possedeva due capacità enormi in due attività: creare una cultura delle performance e sfruttare le nuove tecnologie produttive. Combinandole fu in grado di diventare il produttore d’acciaio a costi più bassi degli USA.Philip Morris poteva diventare la migliore per fidelizzazione al marchio (es: Marlboro)Walgreens poteva diventare la migliore nei drugstores di prossimità Wells Fargo poteva diventare la migliore nel far funzionare una banca come una impresa. Riconobbe poi di non essere la migliore al mondo ma di poterlo diventare negli USA occidentali.

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IL MOTORE ECONOMICO EIL DENOMINATORE

Il nostro studio mostra che non è necessario operare in un settore di eccellenza per diventare eccellenti. Ciascuna delle società GtoG ha costruito favoloso motore economico, indipendentemente dal settore in cui lavorava. Era in grado di farlo perché aveva una profonda conoscenza della propria struttura economica. Ricordate come Walgreens ha spostato il suo punto focale dal profitto per negozio al profitto per visita cliente. Tutte le società GtoG hanno individuato un proprio denominatore economico, mentre quelle di confronto solitamente non lo facevano.

COMPRENDERE LA VOSTRA PASSIONE

Può sembrare strano che si parli di passione, cioè di qualcosa di impalpabile e irrazionale, come parte integrante di un quadro strategico. Ma in una società GtoG la passione diventa una componente chiave del concetto del riccio. I dirigenti di Kimberly-Clark passarono ai prodotti di consumo soprattutto perché gli appassionavano maggiormente. Come disse uno di loro, i tradizionali prodotti dell’industria della carta vanno bene, solo che non hanno il carisma di un pannolino. Zeien (Gillette) parla dei sistemi di rasatura con lo stesso fervore che ci si aspetterebbe da un ingegnere della Bioing. Un dirigente di Fannie Mae disse: ogni volta che passo per un quartiere difficile che si sta riprendendo perché molte più famiglie sono proprietarie della loro casa, torno al lavoro carico di nuova energia. Potrete chiedervi che genere di persona si entusiasmi nel rendere efficiente una banca o consideri carismatico un pannolino. Ma, alla fine, non ha importanza. Il punto è che alcuni si appassionano a quello che fanno, in modo profondo e sincero.

TRIONFO DELLA CONOSCENZASULLA SPAVALDERIA

Ci si è spesso trovati nel gruppo di ricerca a parlare della condizione “pre riccio” e quella

“post riccio”. La prima significa brancolare nella nebbia. Nel secondo caso vedere chiaramente la strada. Quello che più colpisce nelle società di confronto è che con tutti i loro programmi di cambiamento e leader carismatici, raramente sono uscite dalla nebbia. Gli stessi elementi così semplici e chiari per le società GtoG sono rimasti complicati e nascosti nella nebbia per le società prese a confronto. Perché? Per due motivi. Il primo: le aziende di confronto non hanno mai posto le giuste domande suggerite dai tre cerchi.Secondo: si sono date obbiettivi e strategie più sulla base della spavalderia che della conoscenza. Nessuna delle aziende GtoG si concentravano sulla crescita in modo ossessivo, ma tutte cercavano una crescita duratura e redditizia, molto più significativa di quella delle aziende che avevano fatto della crescita il loro mantra. In media le società GtoG hanno impiegato circa quattro anni per chiarire il loro concetto del riccio. Come la conoscenza scientifica, il concetto del riccio rende semplice un mondo complesso e facilita le decisioni. Quando lo raggiungete, vi appare di una chiarezza cristallina e di una elegante semplicità, ma arrivarci può essere diabolicamente difficile, e richiede tempo. Bisogna capire che raggiungere il proprio concetto del riccio è un processo intrinsecamente ideativo e non un evento. L’essenza del procedimento consiste nell’impiegare le persone giuste in vigorosi dialoghi e discussioni, nel confronto con la cruda realtà dei fatti, facendosi guidare dalle domande poste dai tre cerchi (in quale campo possiamo veramente essere i migliori, cosa veramente muove il nostro motore economico, e cosa accende veramente la nostra passione). Uno strumento veramente utile è quello che abbiamo chiamato il “consiglio” formato da un gruppo di persone (giuste) che partecipano al dialogo e dibattito, guidato dai tre cerchi, sui problemi e sulle decisioni di importanza vitale per una organizzazione.

UNA CULTURA DELLA DISCIPLINA

Poche start-up diventano società di eccellenza, di solito perché reagiscono nel modo sbagliato alla crescita e al successo. Il successo

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imprenditoriale è alimentato da creatività, immaginazione, mosse audaci in acque inesplorate e zelo visionario.

Quando un’azienda cresce e diventa più complessa, inizia a inciampare nel proprio successo: troppa gente nuova, troppi nuovi clienti, troppi ordinativi, troppi prodotti nuovi. Quello che una volta era un grande divertimento si trasforma in un ingombrante groviglio di roba disorganizzata. Mancanza di pianificazione, contabilità non accurata, inefficienza di metodologie, creano problemi destinati ad emergere con i clienti, con il flusso di cassa, con le scadenze.Iniziano a spuntare come erbacce in un prato procedure, controlli e tutto il resto. Compare la catena di comando. Nasce la frattura tra “noi” e “loro”. Alla fine i manager professionisti mettono fine alla confusione. Creano l’ordine dal caos, ma così facendo uccidono lo spirito imprenditoriale. Non ci si diverte più, e via via se ne vanno le persone più innovatrici, nauseate dalla burocrazia dilagante e dalla gerarchia. La Start-up così interessante e dinamica si trasforma in società come le altre, senza niente di speciale. Il cancro della mediocrità comincia a crescere. George Rathmann capì che lo scopo della burocrazia era rimediare all’incompetenza e alla mancanza di disciplina, problemi che in gran parte scompaiono se si lavora con persone giuste. Molte società elaborano le loro norme burocratiche per gestire la percentuale di persone sbagliate che hanno preso a bordo, ma questo inevitabilmente allontana

le persone giuste, così aumenta ancora di più la percentuale di quelle che non funzionano e la necessità di ulteriore burocrazia per compensare la incompetenza e la mancanza di disciplina. Rathmann comprese che esisteva una alternativa: evitare burocrazia e e gerarchia e creare una cultura della disciplina. Quando si unisce cultura della disciplina e etica dell’imprenditorialità, si ottiene una alchimia di performance superiori e risultati duraturi.

LIBERTA’ (E RESPONSABILITA’) IN UN CONTESTO

Le società GtoG creano un sistema coerente, con limiti ben definiti, ma all’interno di tale sistema concedono libertà e responsabilità. Assumono persone disciplinate che non hanno bisogno di essere guidate in tutto ciò che fanno. Quindi gestiscono il sistema, non le persone. La transizione comincia non cercando di rendere disciplinata la gente sbagliata per indurla a un comportamento corretto, ma prima cosa trovando le persone auto disciplinate. Poi viene il pensiero disciplinato, perché l’azione disciplinata senza le persone auto disciplinate non regge. L’azione disciplinata senza il pensiero disciplinato è una buona ricetta per il disastro.Carl Reichardt (di Wells Fargo) capì che la chiave per diventare una società eccellente si trovava non in nuove geniali strategie, ma nella pura determinazione a eliminare un centinaio d’anni di mentalità da privilegiati. Chiuse i ristoranti per dirigenti, eliminò i jet aziendali, bandì le piante perché richiedevano manutenzione, abolì il caffè gratuito e gli alberi di natale e molto altro. Anche in Bank of America i dirigenti affrontarono la deregulation e riconoscevano la necessità di eliminare gli sprechi. Però, a differenza dei colleghi di Wells Fargo, non avevano la disciplina necessaria.

UNA CULTURA NON LA TIRANNIA

Mentre le aziende GtoG avevano leader di livello 5 che costruivano una cultura della disciplina, le aziende con crescita non mantenuta nel tempo avevano leader di livello 4 che con il loro intervento personale disciplinavano

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l’organizzazione, ricorrendo alla forza.In ogni società cresciuta in modo non durevole, vi era una ascesa spettacolare sotto la disciplina imposta da una forte personalità, seguita da un declino altrettanto spettacolare dopo la uscita di scena del tiranno, partito senza lasciare dietro di se nessuna vera cultura della disciplina.

ADESIONE ASSOLUTA AL CONCETTODEL RICCIO

Le società GtoG si attenevano ad un semplice mantra: “ Tutto ciò che non aderisce al nostro concetto del riccio, noi non lo faremo. Non ci lanceremo in imprese che gli siano estranee. Non faremo acquisizioni o joint venture non idonee. Ciò che non è adeguato non lo facciamo. Punto”. Ci vuole disciplina per dire: “ No grazie” a grandi opportunità. Il fatto che una certa cosa sia “l’occasione di tutta una vita” è ininfluente, se quella cosa non è adeguata ai tre cerchi.Ken Iverson ci raccontò che quasi il 100% del suo successo in Nucor era dovuto alla capacità di tradurre il suo semplice concetto in un’azione disciplinata, coerente con quel concetto. Nucor prese misure straordinarie per tenere alla larga le distinzioni classiste che alla lunga si intrufolavano in molte organizzazioni. Tutti portavano caschi dello stesso colore. Alcuni capisquadra protestarono perché caschi di colore diverso identificavano la posizione nella catena di comando. Nucor rispose organizzando una serie di incontri per sottolineare il fatto che status e autorevolezza, in azienda, nascevano dalla leadership, non dalla posizione. E se a qualcuno non andava bene allora Nucor non era il posto adatto. Quando Nucor aveva un anno di alti profitti allora tutti in azienda avrebbero avuto un anno ricco. Ma quando c’erano dei momenti difficili, ne risentivano tutti, dal vertice alla base. Nucor inanellò 34 anni consecutivi di profitti, mentre nel corso dello stesso periodo Bethlehem steel andò in negativo 10 volte con un profitto cumulativo inferiore allo zero.Per essere giusti, bisogna ricordare che Bethlehem aveva un problema gigantesco , che Nucor non dovette affrontare: rapporti conflittuali con le maestranze e sindacati sempre in trincea. In Nucor non c’era nessun sindacato

e l’azienda godeva di rapporti particolarmente buoni con i suoi operai. Quando una organizzazione sindacale visitò la fabbrica, i lavoratori si dimostrarono così ferocemente fedeli alla azienda che il management dovette proteggere i sindacalisti dagli operai urlanti e minacciosi. Ma perché Nucor aveva questo rapporto con i dipendenti? Perché Ken Iverson e la sua squadra avevano un concetto del riccio semplice e cristallino, che si manifestava nel far coincidere gli interessi degli operai con quelli del management, e cosa ancora più importante era deciso a prendere misure quasi estreme per rendere l’intera azienda coerente con quel concetto.

LE COSE DA NON FARE

Avete un elenco di cose da fare? Avete anche una lista di cose che dovete smettere di fare? Nella trasformazione da GtoG la pianificazione di bilancio serve per decidere quali settori vanno pienamente finanziati e quali non vanno finanziati per niente. In altri termini, stabilire il budget non riguarda il calcolo di quanto riceve una singola attività, ma significa decidere quali attività sostengono meglio il concetto del riccio e vanno rafforzate e quali vanno completamente eliminate.

ACCELERATORITECNOLOGICINon si crea una società d’eccellenza sfruttando le ultime tecnologie, gridando forte e speculando in un mercato azionario irrazionale. Lo si diventa solo se si capisce come applicare la tecnologia ad un concetto coerente con la comprensione dei tre cerchi.

LA TECNOLOGIA E IL CONCETTODEL RICCIO

Il cambiamento indotto dalla tecnologia non è una novità. la vera domanda non è quale sia il ruolo della tecnologia, ma come le società GtoG pensino diversamente alla tecnologia. In ogni società GtoG abbiamo trovato sofisticazione tecnologica. Però non si trattava

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mai di tecnologia fine a se stessa, ma della capacità delle aziende di essere pioniere nella applicazione di tecnologie attentamente selezionate. Kroger per esempio, fu tra le primissime a sperimentare i lettori a codici a barre, collegando i reparti vendita alla gestione delle scorte, e questo la aiutò a superare A&P. Può sembrare cosa da poco, ma se fate conto di entrare in un magazzino e di non vedere solo scatole di cereali o pallet con casse di mele ma banconote impilate e ordinate fino toccare il soffitto, è così che dovete pensare ad un magazzino. Ogni prodotto stoccato è denaro immobile e perciò inutile finché non lo vendete. L’uso che Kroger fece della tecnologia dei lettori ottici, per fare uscire dai magazzini centinaia di milioni di dollari e impiegarli al meglio, diventò un elemento chiave della sua abilità di fare la magia, tirando fuori non uno, non due, ma tre conigli dal cilindro. Per Gillette gli acceleratori tecnologici consistevano in gran parte in tecnologie di produzione. Investì più di 200 milioni di dollari in progettazione e sviluppo per creare il rasoio Sensor. La chiave dei sistemi di rasatura Gillette sta in una tecnologia di produzione così esclusiva da essere protetta, come la formula segreta della Coca Cola, con tanto di guardie armate e nulla osta di sicurezza.

LA TECNOLOGIA ACCELERA L’IMPULSO, NON LO CREA

Se usata correttamente, la tecnologia diventa un acceleratore dell’impulso, non lo crea. Le società GtoG non hanno mai iniziato la loro transizione introducendo per prime innovazioni tecnologiche, per il semplice motivo che non è possibile fare buon uso delle tecnologie finché non si sa quali siano le pertinenti. E quali sono? quelle che si collegano direttamente ai tre cerchi del concetto del riccio. Significa porre la seguente domanda: una tecnologia si adatta perfettamente al vostro concetto del riccio? Se si, allora dovete diventare pionieri della sua applicazione. Se no, allora quella tecnologia è ininfluente e la potete ignorare.

ELEMENTI INGANNEVOLI

Siamo rimasti abbastanza sorpresi, accorgendoci che un buon 80% dei dirigenti intervistati non citava la tecnologia come uno dei dei cinque fattori più importanti della transizione. Se la tecnologia ha una importanza così vitale, come mai i dirigenti GtoG ne parlano così poco? Di certo non perché la trascurano. La tecnologia faceva parte di Nucor ma era una parte secondaria. Ken Iverson dice : “il 20% del nostro successo sta nelle tecnologie adottate ma l’80% è nella cultura della nostra società “. Si sarebbe potuto fornire l’identica tecnologia, nell’identico momento, a qualsiasi altra società con le risorse di Nucor, ma non sarebbe riuscita a ottenere i risultati di Nucor. La mediocrità nasce soprattutto dal fallimento della gestione, non da quello della tecnologia. La tecnologia è un acceleratore non la causa. La tecnologia non può trasformare una buona impresa in impresa eccellente, ma nemmeno impedire, da sola, la catastrofe. In Vietnam, gli USA avevano la forza di combattimento più tecnologicamente avanzata mai vista al mondo. In realtà la fiducia nella tecnologia creò una falsa sensazione di invulnerabilità. Agli americani non mancava di certo la tecnologia, ma un concetto semplice coerente della guerra, sul quale innestare la tecnologia. Se mai vi capitasse di pensare che la tecnologia da sola sia la chiave del successo, allora riflettete sul Vietnam. La tecnologia è essenziale nell’accelerare la spinta in avanti. Ma quando è usata male, quando è presa come facile soluzione, senza la comprensione di come si colleghi ad un concetto chiaro e coerente, non fa altro che accelerare una fine che ci si costruisce con le proprie mani. Nessuna tecnologia può infondere la disciplina che serve per affrontare la realtà, nè una fede incrollabile. Nessuna tecnologia può sostituire la necessita della comprensione profonda dei tre cerchi e la traduzione di questa consapevolezza in un semplice concetto del riccio. nessuna tecnologia può creare una cultura della disciplina. Nessuna tecnologia può instillare la semplice convinzione interiore che lasciare non realizzato il potenziale a disposizione (permettendo che qualcosa resti nel buono quando potrebbe diventare eccellente) è un

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peccato. Coloro che rimangono fedeli a questi fondamenti e mantengono il loro equilibrio, anche in tempi di grandi sconvolgimenti, accumulano l’energia che crea la spinta verso l’eccellenza. Gli altri, che reagiscono brancolando, precipitano a spirale rimangono mediocri.

IL VOLANO ELA SPIRALE DEL DECLINOSpesso i media non si occupano di una azienda finché il volano non gira a una velocità altissima. Questo distorce la nostra percezione su come avvengano le trasformazioni, dando l’impressione che le imprese abbiano colto al volvolo sfondamento, come in una specie di metamorfosi da un giorno all’altro. Ma per quanto sia stato spettacolare il risultato finale, nessuna trasformazione è avvenuta di punto in bianco. Viste da fuori sembrano balzi, o sfondamenti spettacolari, quasi rivoluzionari. Ma all’interno delle società, sono vissute in modo completamente diverso, più come un processo organico di sviluppo. Pensate ad un uovo. Nessuno ci fa caso finché, un giorno, non si apre e ne spunta un pulcino. Mentre il mondo ignorava l’uovo, il pulcino evolveva, cresceva, si sviluppava.

NESSUN MOMENTO MIRACOLOSO

Le trasformazioni durevoli dal buono all’eccellente seguono il modello generale che abbiamo definito di potenziamento seguito dallo sfondamento. Per Circuit City il potenziamento richiese 9 anni, per Nucor 10, a Gillette 5, Fennie Mae 3, e Pitteney Bowes circa 2.

NON E’ QUESTIONE DI CONDIZIONI FAVOREVOLI

Le società GtoG sono soggette alla pressione di Wall Street quanto quelle di confronto. Però, diversamente da loro, hanno avuto la pazienza e la disciplina di seguire il modello del volano. E alla fine hanno raggiunto risultati straordinari, anche in base al metro giudizioso di Wall Street.

L’EFFETTO VOLANO

E’ chiaro che le società GtoG hanno ottenuto un impegno e un allineamento fuori dall’ordinario, gestendo il cambiamento in modo magistrale, ma senza perdere molto tempo sulla questione. Per loro erano totalmente automatici. Abbiamo imparato che nelle giuste condizioni i problemi dell’impegno, dell’allineamento, della motivazione e del cambiamento scompaiono, semplicemente in gran parte si risolvono da soli.

Se lasciate che a parlare sia il volano, non avrete bisogno di illustrare con fervore i vostri obbiettivi. La gente li deduce dalla energia del volano. “ Ehi, se continuiamo a farlo, guarda dove possiamo arrivare!” Quando si dice di trasformare il fatto del potenziale nella realtà dei risultati, l’obiettivo si stabilisce (quasi) da solo. Pensateci bene. Cosa vogliono le persone GtoG più di ogni altra cosa? Far parte di una squadra vincente. Vogliono contribuire a produrre risultati tangibili. Vogliono provare il piacere di essere coinvolte in qualcosa che funziona a pieno regime.

L’USO MALDESTRO DELLE ACQUISIZIONI

Perché le società GtoG avevano, specialmente nelle acquisizioni importanti, un tasso di successo particolarmente più alto? La chiave era che in generale le grandi acquisizioni avvenivano dopo lo sviluppo del concetto del riccio e dopo che il volano aveva accumulato una energia significativa. Usavano le acquisizioni come un

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acceleratore della forza del volano. Le società di confronto invece, cercavano frequentemente di ricorrere ad una acquisizione o una fusione per ottenere subito lo sfondamento. Non hanno mai imparato la semplice verità che mentre ci si può comprare un modo per crescere, è assolutamente impossibile comprare quello per raggiungere l’eccellenza. Due grandi mediocrità messe assieme non faranno mai una società eccellente.

UNO SCHEMA COMPLESSIVO

Ogni elemento del sistema rafforza gli altri, per formare un insieme integrato molto più potente della somma delle parti. I massimi risultati si ottengono soltanto con una coerenza protratta nel tempo il più a lungo possibile. Tutto inizia con i leader di livello 5, che tendono naturalmente verso il modello del volano. Non sono interessati a programmi vistosi che li facciano apparire come i più bravi. Fanno salire a bordo le persone giuste, e scendere quelle sbagliate. Collocano le persone giuste nei posti giusti. Questi sono tutti i passi cruciali nelle nelle prime fasi del potenziamento, spinte importantissime impresse al volano. Altrettanto

importante ricordare il paradosso di Stockdale (spingendo nella giusta direzione alla fine c’è la faremo). Affrontare la realtà dei fatti aiuta a capire i passi ovvi, benché difficili, che si devono fare per muovere il volano. Lo sfondamento significa avere la disciplina necessaria per prendere una serie di decisioni coerenti con il concetto del riccio. Si tratta di una azione disciplinata, determinata da persone disciplinate, che praticano un pensiero disciplinato. Quando avverrà, avrete di fronte tutta una nuova serie di sfide: come rispondere ad aspettative sempre crescenti, come garantire che il volano continui a girare in futuro. Allora la sfida non sarà più passare dal buono all’eccellente, ma passare dall’eccellenza all’eccellenza duratura.

Dr. Giancarlo Parise

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Dr. Sergio La Bella

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Musica: la più esoterica delle arti

Delle cosiddette arti liberali, che nel Medioe-vo comprendevano le arti del Trivio (Gramma-tica, Retorica, Dialettica) e arti del Quadrivio (Aritmetica, Geometria, Astronomia e Musica), quest’ultima appare decisamente la più esote-rica.

“Esoterico” è termine derivante dal greco (esotericòs), composto a sua volta dalle parole (esòteros) “interno” e (eikòs) “è naturale”.

Successivamente l’Alchimia ha inaugurato per il termine un significato più vicino a “segreto” o “nascosto”, per proteggere la propria prassi dal controllo autoritario della Chiesa, contraria ad ogni genere di sapere che non derivasse direttamente dalla propria esclusiva interpreta-zione delle Scritture.

Se dunque “esoterico”, nel suo significato pri-mordiale aveva a che fare con “l’interno”, con “l’interiorità” umana, ma anche con “ciò che è naturale”, ecco che allora l’arte che più di tutte si caratterizza per l’intimità, per il sentimento, per l’emozione, oltre che per la sua pervasività nel mondo e nell’Universo, non è altro che la Musica.

Divinità figlie di Zeus e di Mnemosyne, dea del-la memoria, le Muse erano per i Greci ispiratrici della arti. Così:

Clìo, “colei che rende celebri”, rappresentata figurativamente da una donna che svolge un rotolo di pergamena, si occupava di guidare divinamente i cantori della Storia, considerati artisti anch’essi;

Euterpe (la Musa propria della musica), “colei che rallegra”, ispirava i musici e i poeti lirici. Veniva rappresentata mentre si dilettava a di-teggiare un flauto doppio, emettendo, suppo-niamo, melodie ed armonie;

Talìa, “la festosa”, proteggeva la commedia e la poesia giocosa, comica;

Melpòmene, “colei che canta”, era la musa della tragedia;

Tersicòre, “colei che danza”, veniva rappresen-tata con la lira;

Eràto, “colei che suscita desiderio”, protegge-va la poesia lirica amorosa;

Polimnìa, “dai molti inni”, guidava la composi-zione di inni civili e religiosi, oltre ad ispirare i retori;

Urània, “la celeste”, era la Musa dell’Astrono-mia. Veniva rappresentata con un mappamon-do ed un compasso;

Callìope, “dalla bella voce”, si occupava della poesia epica, tenendo in mano stilo e tavoletta cerata.

Le Muse dunque avevano a che fare con il suo-no, con il ritmo, con il canto, con la parola, con la danza e con le stelle, ossia con l’Universo. Essendo generate da Memoria, esse avevano il compito, attraverso l’arte, di consegnare alla memoria imperitura dell’uomo l’anima sensibi-le ed i segreti della conoscenza dell’universo di ogni popolo.

La voce è il primo suono emesso dall’uomo, sia nella Filogenesi che nell’Ontogenesi. Mol-to prima di parlare, il neonato emette suoni con la voce ed è sensibile al ritmo, cosicchè il suo pianto si attenua quando viene lievemente e ritmicamente cullato, al suono di una dolce cantilena.

La reattività emozionale del neonato nei con-fronti dei suoni appare quanto mai preco-cemente, per cui, anche senza afferrare il significato delle parole, il semplice suono ras-sicurante della voce materna modifica l’espres-sione emotiva del bambino, che passa dal pian-to al sorriso. Spesso nè la madre, nè il bambino

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sanno perchè ciò avvenga, eppure da sempre avviene: è naturale!

Ecco dunque come, molto prima della razio-nalità, la musica, che è suono dotato di tono e ritmo, raggiunge esotericamente il bersaglio emozionale più interiore dell’essere umano, nel modo più naturale possibile.

Delle tre componenti fondamentali della musi-ca: Ritmo, Melodia ed Armonia, il primo è cer-tamente il più esoterico di tutti, in quanto ne è il più interiore, misterioso, il più arcaico, difficil-mente definibile razionalmente.

Presente in ognuno di noi, in modo più o meno spiccato, il senso del ritmo si nega ad ogni pos-sibile acquisizione con l’apprendimento. Esso è impresso nella natura di tutti esseri sensibili, ne è connaturato.

Tutto il regno animale ne è sensibile, pare an-che il regno vegetale, così come l’acqua pura.

Mentre Melodia ed Armonia sono esclusiva-mente legate al senso dell’udito, il Ritmo è percepibile con tutti i sensi: è sinestesico, in quanto legato al tempo. Inoltre è un fenomeno non esclusivamente sensibile, ma anche moto-rio. La danza infatti non è altro che ritmo puro in gesti.

Il ritmo è legato alla percezione del tempo, di-cevamo, ma in ciò si rivela come paradosso, in-fatti la percezione del tempo è legata alla suc-cessione, al rilievo di un prima e un dopo, alla presenza di una cesura, di una differenza. Eb-bene il ritmo, sia pur connesso al tempo è l’e-satto contrario della cesura, della distinzione, in quanto ripetizione identica di una sequenza.

La semplice percezione di distinti, con qualsiasi senso avvenga, non è ancora ritmo.

Ritmo è la ripetizione di una serie di distinti. I distinti devono essere ordinati in sequenza, perchè vi sia percezione del ritmo!

Talvolta ascoltando dei suoni si dice: “Non rie-sco a sentire il ritmo!”, significa che non riesco

a riconoscere la sequenza che si ripete.

Tempo e spazio, secondo Kant, sono intuizioni pure, ossia precedono qualsiasi esperienza di conoscenza di fenomeni empirici. Essi forma-no la cornice entro la quale ci rappresentiamo il mondo fenomenico. Non ci è dato di percepire nulla se non attraverso spazio e tempo. Richia-mando la teoria della “Identità degli Indiscer-nibili” (op. cit.), non si può non convenire con Leibniz sul fatto che “nell’identico non si rileva differenza alcuna”.

Ciò appare quanto mai ovvio. Meno ovvia, ma altrettanto conseguente è la deduzione del fi-losofo, quando afferma che due perfetti identi-ci anche spazialmente sarebbero indiscernibili, ossia sarebbero la stessa cosa. Quindi per con-verso due oggetti discernibili dovrebbero mo-strare almeno una differenza.

Tutto ciò dovrebbe verificarsi anche per la di-mensione temporale. Estendendo la teoria di Leibniz al tempo, potremmo dire che in assen-za di temporalità, ossia di successione, ovvero di un prima ed un dopo, non potremmo nem-meno distinguere gli eventi. “Evento” è infatti qualcosa che avviene, che viene ad essere, che prima non era. Quindi, grazie ad esso, possia-mo porre una differenza tra un prima ed un dopo.

Se noi ci ritrovassimo, senza sapere come, a fissare una scena statica davanti a noi, perfet-tamente immobili, senza far caso ai nostri mo-vimenti organici, come ad esempio l’ammic-care lo sguardo per inumidire gli occhi, senza far caso alla frequenza del nostro respiro, o al battito del cuore, come potremmo mai perce-pire il fluire del tempo, come potremmo porre un prima ed un dopo? Rispetto a che cosa vi sarebbe prima e dopo, se tutto rimanesse per-fettamente uguale?

Ora concediamo che la scena sia dotata di mo-vimento. Immaginiamoci mentre osserviamo la scena di un film. All’interno della scena potrem-mo porre ad esempio dei “prima” e “dopo” un certo movimento così e così, ed è solo per questi “prima” e “dopo” che potremmo per-

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cepire il movimento. Ma se la scena con il suo movimento si ripetesse infinitamente in manie-ra identica? Come potremmo distinguere un prima ed un dopo? Potremmo contare le ripe-tizioni della scena! In tal caso potremmo sol-tanto percepire la differenza tra un prima ed un dopo la sequenza numerale con la quale “noi” contrassegniamo le ripetizioni. Effettivamente percepiremmo solo la differenza nella “nostra” numerazione. Cioè percepiremmo una diffe-renza soggettiva nel nostro stato interno, non nella oggettiva ripetizione identica della scena di fronte a noi. Ciò infatti non avverrebbe ad esempio se noi contassimo sempre con lo stes-so numero, ad esempio: “uno, uno, uno, Ö”. In tal caso saremmo di nuovo impossibilitati a percepire il fluire del tempo.

Quindi la percezione del tempo necessita della percezione di una differenza, di un prima ed un dopo distinti. Seguendo l’impianto di Leibniz una sequenza che si ripetesse identica, sareb-be solo e soltanto una, ovvero la stessa. Non scorre tempo nella ripetizione di sequenze per-fettamente identiche, identiche anche nei loro eventuali contrassegni.

Come vedremo tutto ciò offre delle forti sugge-stioni circa la plausibilità di teorie sulla ciclicità del mondo, come ad esempio “l’eterno ritor-no”.

Vedremo come tutto questo ha a che fare con il ritmo come fenomeno esoterico.

La percezione del ritmo, dicevamo, necessita di una sequenza riconoscibile. Abbiamo anche detto che una successione di suoni, immagini, movimenti, diventa ritmico, quando si ripete con una sequenza riconoscibile. Il che significa che non tutte le sequenze sono ritmiche. Per-chè vi sia ritmo, è necessario che vi sia la “ri-petizione” della sequenza, ossia la ripetizione identica di una differenza.

In musica, una pausa di silenzio, sia pure ripe-tuta sempre uguale, non è ritmo, perchè non possiede differenze al suo interno, così come non lo è un suono continuo sempre uguale a se stesso (questi due esempi, per inciso, esempli-

ficano ottimamente la identità degli indiscerni-bili: all’interno di una pausa potremmo avere infinite sequenze identiche di pause, che diven-gono una sola stessa pausa. Allo stesso modo un suono monotono potrebbe contenere infini-te sequenze identiche e per ciò indistinguibili). Ritmo c’è invece in una successione di suono e pausa che si ripete identicamente. Quindi il ritmo necessita, come componenti essenziali, della differenza e dell’identico. La differenza si trova all’interno della sequenza (ed è per que-sto che è una sequenza), mentre l’identico con-siste nella ripetizione.

Da questo punto di vista paradossalmente un ritmo puro, sempre uguale a se stesso, sareb-be senza tempo!

Il Ritmo ha una potenza irrazionale, sin dalla sua stessa definizione, ecco perchè è così pe-netrante, irresistibile, arcaico, misterioso, pro-fondo, intimo e allo stesso tempo naturale, quindi esoterico.

Euterpe, musa della musica, chiama in soccorso la sorella Urania, musa degli astri e delle stelle, quando evoca il ritmo incessante dell’Universo.

In molte tradizioni religiose che si perdono nel tempo, si richiama un presunto ritmo del Crea-to. L’OM dei buddisti e degli induisti si riferisce al ritmico respiro della Terra.

Civiltà precolombiane oltreoceano prevedeva-no cicliche ere cosmiche che vedevano rinno-vare al loro interno nascita ed estinzione dell’u-manità.

Il movimento stesso degli astri è ritmico, nel senso che ripete sequenze identiche. Da qui il ritmico sorgere e tramontare del sole, nonchè il ritmico avvicendarsi delle stagioni.

La stessa Energia, nel suo versante ondulatorio, è un’onda dotata di frequenza. E che cos’è la frequenza se non un ritmo che si ripete all’in-finito? Ora se è corretta la interdipendenza tra massa ed energia immaginata da Einstein, allo-ra anche il corpo solido dell’Universo, la massa appunto, deve contenere in sè il sigillo della

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natura ritmica dell’Energia.

Viviamo dunque all’interno di un universo ritmi-co, quindi in modo naturale, nel senso esoteri-co di cui sopra, essendone generati, nasciamo e viviamo con il ritmo connaturato in noi.

Potremmo anzi arrivare ad affermare che è la ritmicità che garantisce la eternità dell’Univer-so.

E’ più plausibile infatti una teoria sulla eternità dell’Universo, magari con sequenze di esten-sioni temporali enormi, che si ripetono iden-tiche, quindi senza tempo, piuttosto che un Inizio Assoluto, un tempo zero in cui tutto sa-rebbe cominciato. Infatti una scienza rigorosa, dura, come ama autodefinirsi la fisica, è costret-ta ad introdurre una “singolarità”, ossia un atto che si verifica una volta sola, consapevole di contravvenire ai suoi stessi fondamenti episte-mologici, quando ipotizza teorie “creazioniste” come il Big Bang (vedi: “S. Hawking, Dal Big Bang ai Buchi Neri”, op. cit.).

Il tempo e lo spazio sarebbero iniziati con il Big Bang, quindi non avrebbe senso consequen-zialmente pensare a cosa vi fosse “prima” del Big Bang. Eppure, non potendo sfuggire alla griglia spazio-temporale di Kant, anche la Fi-sica ripropone teorie cicliche sull’Universo che prevedono una espansione dell’Universo dopo il Big Bang ed una contrazione prima del Big Bang.

Prigionieri della percezione, kantianamente in-serita nel tempo e nello spazio, non riusciamo a figurarci una ciclicità senza tempo, così come non riusciamo ad immaginare una estensione spaziale illimitata (il cosiddetto infinito in atto). Non riusciamo a figurarci un Inizio Assoluto (come evitare infatti la domanda: “cosa c’e-ra prima?”) e nemmeno un Infinito nel senso di Illimitato (se penso qualcosa lo penso spa-zialmente, quindi con limiti riconoscibili). Nel Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein (op. cit.) si dice: per vedere un limite devo po-ter vedere ambedue le facce del limite!

In un siffatto Universo ritmico ed eterno, qualsi-

asi cosa caduca deve necessariamente trovarsi all’interno di una sequenza, quindi è destinata a ripetersi eternamente.

La nostra umana percezione del tempo, pur essendo noi inseriti in un universo eterno, do-vrebbe essere possibile solo e soltanto perchè ci troviamo all’interno di una sequenza. Una se-quenza che, essendo ritmica, necessariamente deve ripetersi all’infinito.

Il concetto di ritmo, come sopra specificato, forse offre qualche stampella alla raffigurazione di idee come “eternità” ed “infinito”. Proprio il ritmo potrebbe esotericamente elargire alla nostra mente, limitata dalle categorie Kantiane a priori, una possibilità di avvicinarsi per analo-gia a concetti come Eternità e Illimitato.

Se volessimo pensare dunque alla Eternità non dovremmo far altro che pensare ad una Musi-ca che non termina mai: una Musica dal Ritmo infinito.

Il termine “Melodia” deriva dal greco (melodìa), proveniente dal verbo (melodèn), che significa cantare. Il verbo a sua volta deriva da (mèlos), che significa canto e (odi) anch’esso con signifi-cato di canto. Melos e Meìlia significano anche: “la cosa dolce”, “soave”.

Melodia è una successione di suoni di differen-te altezza e durata. Suoni, marcati da una cer-ta cadenza, che colpiscono l’orecchio in modo dolce e soave sono dunque Melodia.

L’orecchio umano può udire suoni nello spettro di frequenza che va da 16 a 20.000 Hz. Nella media della popolazione, la risoluzione uditiva dei suoni avviene per differenze minime di 2 Hz. Così nella scala a dodici suoni (toni e semitoni), la distanza sonora più piccola, nettamente di-stinguibile come suono musicale identificabile, dista un dodicesimo dalla nota fondamentale. Se cioè si aumenta la prima nota di un dodi-cesimo della sua frequenza, otteniamo il se-mitono superiore. Di conseguenza un tono di distanza, nella scala ascendente, equivale alla

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aggiunta di un sesto di valore alla frequenza fondamentale. Tutto ciò compone il cosiddet-to “sistema temperato”, ove gli intervalli di tono sono stati divisi a metà per convenzione, cosicchè le alterazioni ascendenti (diesis) ven-gono, per convenzione fatte coincidere con le alterazioni discendenti (bemolle). Nella tastiera del pianoforte ad esempio il tasto nero del “do diesis” coincide con il “re bemolle”.

In realtà il tono sarebbe diviso in sette parti detti “comma”. Strumenti musicali non tonali, come ad esempio il Sitar indiano, prevedono posizioni diverse per i diesis ed i bemolle. Pare che la sensibilità ultrafine della discriminazione dei comma si sia progressivamente persa con la introduzione di strumenti ad intonazione fissa. Musicisti che suonano strumenti ad arco come violino, viola, violoncello e contrabbasso, invece mantengono istintivamente tale capaci-tà discriminante, per cui eseguono mediamen-te i diesis un comma più alto dei corrispondenti bemolle, non senza qualche difficoltà di intona-zione in orchestra quando vi sia la compresenza di strumenti ad intonazione fissa.

L’altezza del suono (la nota) corrisponde in acustica alla frequenza del suono, mentre l’in-tensità o volume è proporzionale al quadrato dell’ampiezza dell’onda sonora. Il timbro cor-risponde invece alla forma dell’onda, cosicchè la stessa nota suonata da strumenti musicali diversi ha un suono diverso. Si parla di suoni quando l’onda è geometricamente regolare e ripetitiva. Onde irregolari in frequenza e forma cadono sotto la specie dei “rumori”.

Ogni oggetto a causa della sua struttura fisica possiede una serie di frequenze con le quali, se messo in vibrazione, risuona meglio. Tali fre-quenze sono chiamate armonici naturali. L’ar-monico di frequenza più grave è la nota fonda-mentale dello strumento (da cui “tromba in si bemolle” o “clarinetto in la” ecc.).

Melodia è una successione bella di suoni. Non sono i suoni di per sè ad essere belli, lo è inve-ce la loro successione.

Ora il “Bello” soddisfa una sensibilità innata,

un anelito inscritto nell’animo umano.

Siamo abituati a pensare alla gratificazione come soddisfazione di un desiderio. Davanti al Bello proviamo la stessa sensazione di gratifica-zione di un desiderio.

Ora il desiderio denuncia sempre alcunchè di mancante. Nessuno desidera cose che già possiede. Il desiderio persiste nell’intervallo distinto del tempo che intercorre tra la sua per-cezione e la sua soddisfazione. Il desiderio di qualcosa che già si possiede ha un intervallo nullo di soddisfazione, pertanto non è un vero e proprio desiderio.

Quindi, la fenomenologia del desiderio consi-ste in: vedo qualcosa che non possiedo, la de-sidero, cerco di ottenerla. Finchè non la possie-do, l’attesa diviene componente essenziale del desiderio, diciamo che il desiderio è di per sè un’attesa. Nel momento del raggiungimento del possesso della cosa anelata, qualora esso si verifichi, avviene la soddisfazione e con essa la fine del desiderio.

Nel caso del Bello siamo in una categoria diver-sa di desiderio, entro la quale l’oggetto deside-rato non è manifesto come tale.

E da dove ci verrebbe un desiderio di qualcosa di non raffigurabile, di invisibile? Come faccio a desiderare qualcosa di cui non possiedo nem-meno un’idea?

Siamo portati a pensare che quel qualcosa pro-venga dal Ricordo.

Si tratta di un ricordo impreciso, sfumato, una sorta di nostalgia di un tempo felice, un tempo non collocabile temporalmente, quando tutto era immerso nel Bello, quando tutto era bello.

Nello stato di preesistenza edenica, ad esem-pio, non vi era desiderio, come mancanza dell’oggetto desiderato, come attesa. Doveva esservi solo gratificazione pura, immediata e costante.

Ebbene la fruizione del Bello deve appartenere

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a quel genere di soddisfazione, senza causa ap-parente, senza cioè manifestarsi di un oggetto di volizione.

Quando siamo di fronte all’opera d’arte, l’ope-ra stessa ci richiama nostalgicamente il ricordo di un tempo felice. Ora il desiderio di quel ri-cordo e la soddisfazione di quel desiderio coin-cidono con l’opera d’arte. Ricordiamo che le Muse sono figlie di Mnemosyne.

Moltitudini di trattati hanno cercato di definire il Bello. Chiunque si è cimentato almeno una volta a cercare la ragione per cui un’opera d’ar-te possegga un potere di gratificazione totaliz-zante, una capacità di far vibrare corde intime ed emotivamente potentissime. Ma una defini-zione univocamente accettata di “Bello” non è mai sopravvissuta!

E non si tratta nemmeno di pura soggettività, che altrimenti non vi sarebbero opere d’arte imperiture rispetto al tempo ed alle mode.

L’arte, in questo senso, è facilitatrice del ricor-do. Un ricordo inscritto nell’inconscio collettivo che, talvolta di fronte all’opera d’arte, improv-visamente si manifesta imperioso ed irrefrena-bile.

Melodia viene dunque intesa qui come succes-sione di suoni fortemente evocativi di emozioni sepolte in un tempo archetipico lontanissimo, quando lo stato naturale era quello di pura gra-tificazione.

L’arte della musica consiste propriamente in questo: l’evocare il ricordo di epoche di pura felicità.

Il terzo fondamentale elemento della musica è l’Armonia, ossia l’arte di combinare una plura-lità di suoni.

Non tutti i suoni stanno bene insieme, ma in re-altà non vi sono incompatibilità pregiudiziali tra di essi. L’armonia è propriamente l’arte di far coesistere suoni diversi per ottenere un effetto

estetico superiore.

Armonia, dal greco “armòzein” (connettere, collegare, essere d’accordo), richiama significa-ti come “aderire”, “unire”, “disporre”. Armonia dunque come sintesi di parti diverse formanti un tutto proporzionato e concordante. La co-mune radice arcaica “ar-” connette “armonia” con “arte” e “aritmetica”.

Anche qui, nell’arte combinatoria dei suoni, si rileva la necessità della presenza di una “diffe-renza” tra le parti coinvolte in un tutto armoni-co.

Assenza di suono non crea armonia. Allo stesso modo, suoni uguali, unisoni emessi contempo-raneamente, non creano propriamente armo-nia. La “differenza” viene però superata nell’in-sieme armonico con il venire ad essere di una nuova entità che è “l’accordo”.

L’accordo armonico, sia in senso musicale, che per estensione in ogni senso, prevede la com-presenza di diseguali, che insieme formano una nuova entità, unitaria ed autonoma. Non sono i diseguali presi singolarmente a creare armonia, ma è l’arte della loro combinazione che susci-ta il bello. Esistono da secoli regole sintattiche nella musica che indirizzano il compositore nel-la creazione di contenuti armonici. Ovviamente le regole mutano con il tempo e con la moda, soprattutto con la maturità del sentire. Disso-nanze ardite, vietate un tempo, oggi albergano a buon diritto nella buona musica d’autore.

In tema di risonanza, pare che l’orecchio uma-no risuoni meglio con gli armonici degli accordi perfetti sul 1°, 4° e 5° grado.

L’armonia non è dunque esclusiva o preclusiva per taluni suoni, non è nemmeno democratica, nel senso che non tutte le coesistenze sono ammesse, o meglio non tutte sono armoniche.

Raramente la musica artistica si compone di pura e semplice melodia, che peraltro implica già in sè il ritmo (l’orecchio umano percepisce suoni anche senza successione, ma non vi è musica senza ritmo!). Il nostro orecchio, con la

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prassi d’ascolto, è abituato inconsapevolmen-te, a sottintendere armonie al semplice ascolto di melodie. Diciamo che, nella fruizione stan-dard della musica, di qualsiasi genere si trat-ti, la melodia forma le frasi tematiche, mentre l’armonia le accompagna componendo un tap-peto di riferimenti ai gradi della scala propria della tonalità in cui il brano si sviluppa.

Nel sistema tonale melodia ed armonia lavora-no riferendosi costantemente ad una gerarchia dei gradi della scala d’impianto, ossia della to-nalità.

Anzi si può affermare che una musica è tonale solo se sottintende tali gerarchie.

La nota principale di una tonalità è appunto la “tonica” o primo grado della scala. La tonica dà appunto il nome alla tonalità. Il “modo” mag-giore o minore è invece determinato dal terzo grado della scala: se questo dista due toni dalla tonica, ci troveremo in un modo maggiore, se la distanza è di un tono più un semitono, allora saremo in modalità minore. Universalmente l’o-recchio occidentale associa composizioni gio-iose ed allegre alle tonalità maggiori, mentre il triste o il malinconico si esprimono meglio in modalità minore. Non senza qualche eccezio-ne.

Mozart ad esempio maneggia con destrezza modalità in minore per esprimere contenuti al-legri, come nella sinfonia n. 40 K550 in sol mi-nore, dall’andamento decisamente gioioso.

La dominante, o quinto grado, della scala pos-siede una grandissima forza magnetica sulla to-nica, soprattutto quando armonicamente viene alterata in settima di dominante.

Quindi l’andamento della successione dei suo-ni melodici ed armonici fa sempre riferimento implicito alla suddetta gerarchia.

Gli accordi, ossia suoni di altezze diverse che suonano bene insieme, si formano in genere a distanze di terze, quinte e settime (più rara-mente none) rispetto alla nota fondamentale.

Le dissonanze, come ad esempio note distanti solo un grado tra loro, hanno l’effetto di richie-dere una immediata risoluzione verso accordi perfetti.

Così si articola il fraseggio musicale tonale, in un continuo riferimento, attrazione, repulsione e risoluzione verso la tonica.

Dopo le prime due o tre note l’orecchio intui-sce la tonalità, la “casa” per così dire. Una vol-ta “presentata” la casa dei suoni, lo svolgersi del fraseggio musicale consiste in una continua tensione emotiva tra una sensazione di allon-tanamento, quindi di nostalgia, e poi ancora di quiete con il ritorno alla casa. Tensione e di-stensione vengono sempre ricondotte alla to-nica.

Il sistema a-tonale, introdotto da Schoenberg, invece rigetta ideologicamente tale gerarchia, considerando i gradi della scala tutti paritaria-mente degni. L’effetto, per l’orecchio non av-vezzo, viene immediatamente percepito come mancanza di dinamiche di tensione-distensio-ne, di allontanamento-ritorno, nostalgia-quie-te.

Dal momento in cui nasciamo, immersi nell’at-mosfera tonale della nostra musica occidenta-le, sia essa colta o commerciale, il senso tonale diviene un pilastro che si incide in modo inde-lebile nel nostro cervello. Non vogliamo con questo affermare che la musica dodecafonica (dodici suoni della scala tra toni e semitoni) non sia una forma d’arte, così come non afferme-remmo che la pittura astratta non sia pittura d’arte, ma semplicemente che la musica tona-le, così come la pittura descrittiva, hanno im-presso in noi secoli di abitudine.

In molti rituali esoterici o religiosi la musica ri-veste un ruolo fondamentale. Non si tratta di musica didascalica o celebrativa, ma di una mu-sica che prepara ad uno stato psicologico diret-to verso la propria interiorità. La musica ritua-le quindi è una musica intimistica, psicoattiva. La finalità di esporre gli officianti alla musica è quella di alterare lo stato di coscienza per ren-derlo più consono all’officium.

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Nella condivisione del rito, la musica ha anche la funzione, più propriamente esoterica, di in-durre empatia tra i partecipanti. Essa ha la fun-zione di “armonizzare”, nel senso di cui sopra, singolarità diverse in un tutto armonico.

La musica rituale consiste dunque un flusso di melodie e armonie intimistico ed empatogeno, vero e proprio catalizzatore di stati di coscienza adatti al lavoro esoterico. In tal senso le vibra-zioni individuali vengono armonizzate in una “simphonia”, alla quale tutti i partecipanti con-corrono, esattamente come tutti i “toni” di una composizione orchestrale.

Ora, così come l’orecchio umano risuona me-glio con accordi perfetti sul primo, quarto e quinto grado, così tra la colonna sonora ed il soggetto deve realizzarsi una consonanza o ri-sonanza. Ecco che allora l’individuo scompare come elemento distinto e singolo e diviene parte di un insieme superiore autonomo e for-temente attivo. La colonna sonora rituale dun-que ha il compito di “armonizzare”, ossia di togliere la singolarità dei suoni per creare un superiore insieme.

La metafora musicale può essere applicata a qualsiasi forma di aggregazione umana che voglia essere funzionale al raggiungimento di uno scopo qualsiasi (la ragione sociale), dalla semplice compagnia di amici, alle società com-merciali, dalle associazioni culturali, ai gruppi ideologicamente aggregati. Gli elementi costi-tuenti, non necessariamente debbono essere omologati, anzi la diversità rappresenta una ric-chezza per il gruppo, ma la singolarità deve ce-dere il posto alla collettività, se si vuole realiz-zare l’armonia. L’orchestra deve suonare come fosse un unico strumento. Un Gruppo connes-so in rete in una particolare modalità, ossia armonizzato, ha un potere esponenzialmente superiore a quello dei singoli isolati. Così di converso, gruppi entro i quali alberghino parti-colarismi o individualismi che sovrastino gli altri individui, non hanno vita lunga.

Potremmo accostare a tale idea una analogia neurologica.

Le piccole cellule neuronali, prese singolar-mente conducono una esistenza piuttosto ele-mentare fondata su reazioni chimiche automa-tiche. La loro mirabile rete di connessioni, però determina una funzione elevatissima come la Coscienza Umana.

Potremmo ipotizzare, con un esperimento di pensiero, che per analogia noi uomini siamo singolarmente inconsapevoli di far parte di un organismo complesso e potentissimo che pro-babilmente ci sovrasta.

Potremmo citare a proposito la massima che: “Noi siamo Dio per le nostre cellule; noi siamo le cellule di Dio!”

La realizzazione del Tutto in atto consisterebbe allora nel prendere consapevolezza di far parte di tale organismo superiore e di avvicinarci a Lui, dialogare con Lui. Il primo passo consiste nell’’’armonizzarsi”.

Proviamo a percorrere insieme il seguente esperimento di pensiero:

- “Il pensiero è l’attività di neuroni collegati in circuito” (ipotesi 1)

- “I neuroni sono probabilmente inconsapevoli di strutturare il circuito della Coscienza” (ipo-tesi 2)

- “E’ un particolare circuito neuronale che pen-sa (la ipotesi 1)” (conseguenza)

- “Il circuito neuronale può pensare se stesso!” (conclusione)

Proviamo ora, per estensione, a costruirci una immagine mentale all’interno della quale mol-ti uomini pensanti collegati assieme formino un circuito il cui prodotto sia una Eggregora gigantesca, planetaria, come una Intelligenza Superiore, divina.

Ebbene abbiamo appena avvicinato l’Assoluto alla nostra dimensione!

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Allora nella Autoreferenzialità deve trovarsi una via d’accesso verso l’Assoluto!

Ma l’Autoreferenzialità deve venire da ambe-due i versanti: ossia dall’Assoluto che pensa noi, come suoi componenti costitutivi e da noi che pensiamo l’Assoluto come attività a noi so-vrapposta quando ci colleghiamo in un certo modo tra di noi. Tutto ciò allo stesso modo in cui avviene che il pensiero cosciente umano pensi ai suoi costitutivi circuiti neuronali e con-temporaneamente le ignare cellule neuronali, disposte in un particolare circuito, si elevino alla consapevolezza di essere i costituenti ele-mentari della Coscienza.

A questo punto, forse si rende perspicua una massima evangelica altrimenti misteriosa come:

“In verità vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualun-que cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela con-cederà. Perchè dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io, in mezzo a loro”.

La preghiera recitata in gruppo avrebbe un effetto enormemente superiore a quella del singolo orante, perchè in quel momento si connettono contemporaneamente due piani dimensionali altrimenti decisamente distinti.

Noi possiamo pensare a Dio, così come Lui pensa a noi, ma quando contemporaneamente noi pensiamo a Lui e Lui pensa a noi, allora si realizza la magia, la Unio Mystica, la elevazione oltre la umana dimensione. E’ come se si apris-se una porta cosmica, un varco multidimensio-nale che connetta due livelli altrimenti irrime-diabilmente distinti.

Se un numero abbastanza elevato di individui si unisse in meditazione con lo scopo elevato di far scendere la pace nel mondo, si potreb-be realizzare una Eggregora positiva planetaria tale da dissolvere definitivamente la violenza.

Ecco dunque come la funzione essenziale della Musica sia determinante nei rituali esoterici.

Ecco perchè la Musica è la più esoterica delle

arti!

Vi sono luoghi nei quali l’armonia esoterica ri-suona meglio. Alcuni sono luoghi naturali, altri sono luoghi edificati dall’uomo, come le catte-drali.

Pitagora nel suo Monocordo, aveva intuito la divisione geometrica degli armonici nei corpi solidi risuonanti. I rapporti armonici furono poi replicati nelle costruzioni architettoniche delle cattedrali. Ecco che ritorna ancora una volta la vicinanza tra numero (aritmetica, geometria) e suono (armonici propri di qualsiasi solido mes-so in risonanza).

Nella tradizione cabalistica il nome (o i nomi) di Dio non vengono mai pronunciati e nemme-no scritti per esteso. Ciò perchè il potere del-la divinità consiste proprio nel suono del suo nome. Chi conosce esattamente il suono dei nomi di Dio, condivide con lui il potere. Pare, a tal proposito, che Mosè fosse riuscito ad apri-re le acque del Mar Rosso con un atto magico, semplicemente pronunciando correttamente i settantadue nomi di Dio. Ovviamente la se-greta conoscenza dei nomi di Dio rimase nella esclusiva disponibilità personale di Mosè.

Le scritture stesse parlano di Dio come “Il Ver-bo” ed il “Verbo” è una parola, ossia un suono. Così, la creazione stessa degli esseri consistet-te nel dar loro un nome. Nel nome, quindi nel suono, deve essere riposto il sacro potere della Creazione.

Bisognerebbe dedicare delle energie rituali per cercare di conoscere il proprio “Nome Oc-culto”, che spesso non coincide con il nome profano. Tale nome dev’essere un suono. Lì c’è la nostra vera identità. Il “Nome Occulto” è an-che “La Nota dell’Anima”, è il nostro proprio assetto risonante.

Molti ordini iniziatici suggeriscono ai propri adepti di modificare il loro nome profano in un nuovo nome, in modo tale da segnare una net-ta cesura tra la vita profana e la rinascita alla vita illuminata.

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Attualmente il potere del suono è balzato nella evidenza della cronaca.

Si afferma che la musica suonata con una par-ticolare accordatura, provochi degli effetti psi-chici piuttosto evidenti. Normalmente la nota “la” viene accordata a 440 hertz. Pare che la musica eseguita con accordatura del “la” a 432 Hz porti con sè degli effetti psicoattivi molto decisi.

Tutto ciò a conferma che l’essere umano e la biologia in genere prediligono alcune frequen-ze e non altre. I segnali elettrici attraverso i qua-li il cervello comunica con gli organi sono con-dotti attraverso basse frequenze, che vanno al di sotto della soglia dell’udibile.

In conclusione abbiamo appena accennato al misterioso potere dei suoni, abbiamo sfiorato i misteri della Creazione, delle categorie dell’In-finito e dell’Eterno con il Ritmo; abbiamo toc-cato le corde sensibili dell’esperienza estetica con la Melodia; abbiamo immaginato la pos-sibilità di una Unio Mystica con la Eggregora superiore dell’Assoluto trattando dell’Armonia. Lasciamo alla fruizione individuale dei lettori la scoperta di tutti gli altri segreti che compongo-no l’intima e naturale essenza della Musica: la più esoterica delle arti.

Dr. Sergio La Bella

BIBLIOGRAFIA

Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura.- Laterza, 1991

F. Martinello,L’Identità Degli IndiscernibiliIn Leibniz. Edizioni Albo Versorio. Milano. 2006

S. Hawkins,Dal Big Bang Ai Buchi Neri.Breve Storia Del Tempo.Rizzoli. 1990

L. Wittgenstein,Tractatus Logico-Philosophicus.Einaudi. 1989

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Dr. Alberto Casarotto

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Cosa scrivono le gru….La divinazione nelle culture antiche enella societa’ contemporanea

Quand’ero un giovane studente, ci fu un fatto fra i tanti che attirò la mia attenzione: come in un ambito sociale e culturale così evoluto, come quello classico – romano, potesse trovare posto una pratica come la divinazione, vale a dire l’arte di prevedere il futuro. Lo spunto ad approfondire il problema mi venne dalla lettura di un testo di Cicerone, il De Divinatione, un dialogo in due libri, nel quale si affronta niente-meno che questo argomento: si può prevedere il futuro? Ovvero, per formulare il problema in modo meno brusco, i profeti, le profetesse, i pazzi, gli invasati, gli astrologhi, quelli che trag-gono auspicio dai dadi, coloro che osservano il volo degli uccelli, che spiegano i sogni, che leggono le viscere degli animali, insomma, tut-to il molteplice e variopinto mondo degli indo-vini che popolava l’antichità classica, era in pos-sesso di una vera scienza della previsione o no? La risposta di Cicerone fu: no. Tutte le pratiche divinatorie, secondo Cicerone, sono prive di fondamento. Questo atteggiamento di Cicero-ne è molto nobile ed è spesso capace di susci-tare la nostra simpatia intellettuale, visto che egli, per confutare le affermazioni del fratello Quinto, protagonista del libro e fautore delle pratiche divinatorie, fa ricorso agli stessi argo-menti che anche noi moderni useremmo in si-mili circostanze: bisogna spiegare con argo-

menti e con ragioni perché una certa cosa avviene. Perché Cicerone scrive contro la divi-nazione e in quel preciso momento? Forse lo attraeva l’idea di veder trionfare la ragione al-meno nella scrittura, visto che nella vita politi-ca, dopo la sua caduta in disgrazia con Cesare, avendo appoggiato Pompeo, esso stentava ad affermarsi. Una cosa comunque è certa: per un intellettuale romano, la divinazione era un ar-gomento molto serio da trattare. Non si tratta-va solo di un fenomeno privato, di questo o quel superstizioso che consultava maghi e oro-scopi. A Roma la divinazione aveva anche un ruolo pubblico; essa faceva parte delle istitu-zioni dello Stato, e conte tale era amministrata da organismi di carattere ufficiale, il collegium e l’ordoaruspicum, da persone esperte del sa-pere divinatorio, paragonabili a commissioni o corti o altri organismi politici tipici delle società democratiche moderne. Salvo che il diritto su cui tali organismi fondavano la loro azione non era quello parlamentare o costituzionale, ma quello augurale. Faccio un esempio. Nell’anno 99 a.C accadde che due corvi cominciarono a battagliare proprio nella porzione di cielo so-vrastante il luogo in cui si sarebbe dovuta tene-re una certa assemblea. Trattandosi di un even-to straordinario, e soprattutto proveniente dal mondo degli uccelli, considerato particolar-

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mente significativo dal punto di vista divinato-rio, si ritenne subito necessario consultare gli aruspici, i quali, dopo aver analizzato il segno in questione, risposero che era necessario fare un sacrificio ad Apollo e rinviare l’assemblea. Come si vede, la scienza augurale degli aruspi-ci poteva esercitare una funzione che era an-che, e prima di tutto, politica, come quella di far rinviare lo svolgimento di un’assemblea de-liberante. Per capire pienamente il significato di questo responso, bisogna tener conto del fatto che in quell’occasione il tribuno Sesto Ti-zio intendeva far approvare una legge agraria, la quale avrebbe provocato una redistribuzione delle terre, non accetta ad una certa classe po-litica, per cui non sorprende il fatto che Apollo si fosse così allarmato da spedire subito due corvi nell’assemblea. Si potrebbe dire anche così: a Roma le divergenze politiche, i conflitti sociali, gli scontri fra gruppi, potevano manife-starsi anche nella forma di segni inviati dagli . La divinazione pubblica romana era una pratica “falsa” da un punto di vista della ragione, non c’è dubbio. Questo non impedisce però che essa costituisse contemporaneamente una pra-tica capace di veicolare conflitti e problemi tutt’altro che falsi dal punto di vista della vita sociale. Questo è un aspetto che l’atteggia-mento illuminista e di preclusione di Cicerone verso la divinazione, potrebbe mettere in om-bra. Del resto Cicerone stesso apparteneva al collegio degli auguri ed in alcuni momenti cru-ciali della sua carriera, come durante la congiu-ra di Catilina, aveva mostrato di prendere mol-to sul serio alcuni prodigi, che aveva utilizzato a fini politici. Era dunque un impostore, nel senso che scriveva in un modo e si comportava in un altro? NO! Cicerone dà più l’idea di un uomo che vive contemporaneamente dentro due cul-ture: quella romana, in cui la divinazione è un modello di pensiero che è un tutt’uno con un insieme di pratiche religiose e politiche da cui è molto difficile separarlo, e quella di tipo filoso-fico neo – accademico che gli veniva da gruppi intellettuali, i quali si ponevano come obbietti-vo la necessità del distinguere il vero dal falso. Dato che la divinazione pubblica romana pote-va avere un’influenza così determinante nella vita politica, non stupisce vedere che i suoi stessi procedimenti erano a loro volta soggetti

a procedure di carattere politico.La società ro-mana non era una società teocratica, ma de-mocratica, almeno nel senso che ledecisioni importanti venivano sempre prese in seguito alle deliberazioni di un organo competente . Questo valeva anche per i prodigi che venivano esaminati e posti in discussione proprio come se si fosse trattato di una proposta di alleanza o del resoconto di una ambasceria. Tecnicamen-te la procedura era la seguente: prima di tutto il prodigio doveva essere comunicato (nuntiari) ai consoli; a questo punto i consoli, dopo aver raccolto testimonianze e informazioni relative all’evento, dovevano riferire al senato su que-sta materia (consuleresenatum de prodigiis). Il senato, dopo accurata discussione, aveva il di-ritto di accettare o meno il prodigio (prodigia-suscipere), e solo a questo punto si dava man-dato agli specialisti di spiegare cosa non andasse, per es. con quella statua di Marte che sudava o piangeva o perché a Lanuvio fossero piovute delle pietre. L’influenza della divinazio-ne sulla vita pubblica romana, non si manifesta-va solo in occasione dei prodigi. La cultura po-litico – divinatoria dei Romani, infatti, prevedeva non solo che si interpretassero i segni inviati li-beramente dagli , ma anche che, in determina-te circostanze, questi segni venissero volonta-riamente provocati, per poter poi essere analizzati dagli specialisti. Prima di prendere una decisione importante, dalle elezioni popo-lari alle imprese militari, era previsto infatti che il magistrato che ne aveva il potere, chiedesse gli auspicia agli auguri o agli aruspici che erano preposti a questo compito. Questi auspicia po-tevano essere presi osservando il volo degli uc-celli, oppure analizzando le viscere di un anima-le appositamente sacrificato. Una volta interpretati, questi auspicia diventavano degli auguria, in pratica assumevano la forma di una autorizzazione a compiere una determinata azione. Forse potrà risultare interessante il fatto che la parola auguria proviene dalla stessa radi-ce da cui viene la parola auctoritas. Solo dopo aver ottenuto i necessari auguria, ossia la ne-cessaria autorità, una certa azione poteva esse-re ritenuta legittima. Facciamo l’esempio del comandante che intendeva attaccare battaglia. Prima di farlo, egli era tenuto a prendere gli au-spicia, per esempio chiedendo agli esperti di

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osservare il modo in cui certi polli (che il co-mandante si portava dietro in gabbia per que-sto scopo) beccavano il mangime che era loro offerto. Se i polli beccavano di buon appetito, allora si poteva legittimamente attaccare batta-glia. Era rimasto famoso il caso del console Gaio Flaminio (v. Tito Livio) che, prima di scen-dere in campo contro Annibale al Trasimeno, aveva trascurato il fatto che i polli non mostra-vano alcuna voglia di beccare. Flaminio, in tono sarcastico, aveva chiesto al pullarius, l’addetto ai polli: E che cosa faremo noi se i polli conti-nuano a non beccare”. Il pullarius aveva rispo-sto: “Continuiamo ad aspettare. Gaio Flaminio aveva dato ordine di attaccare lo stesso, e la giornata del Trasimeno si concluse in un vero disastro per i Romani, facendo diFlaminio l’im-magine stessa del comandante empio, disprez-zante gli e la tradizione della città.Ma, dato l’esito della battaglia, viene il legitti-mo sospetto che il pullarius, oltre che di polli, si intendesse anche di tattica militare Noi pos-siamo muovere un passo ancora più avanti, di-cendo che quel prodigio, pur restando falso, poteva però costituire un modo per veicolare, nel linguaggio della divinazione, una scarsa vo-lontà di combattere da parte dei soldati, così come un conflitto di autorità sulla redistribu-zione delle terre, poteva manifestarsi nella for-ma di un combattimento fra corvi. C’è un altro aspetto della divinazione nelle società antiche. Per la cultura romana, e prima ancora per la cul-tura etrusca, da cui i romani avevano derivato la loro disciplina divinatoria e per le culture meso-potamiche di due millenni prima, la divinazione costituiva una scienza a tutti gli effetti, non certo nel senso moderno, ma nel senso che si fonda-va su un sapere molto sofisticato e organizzato da un insieme di regole. Vedi, per esempio, la classica pratica dell’osservazione del volo degli uccelli, volo che veniva letto” a tutti gli effetti dagli interpreti antichi. A questo proposito Ci-cerone si dimostrava molto ironico quando si riferiva alla divisione della volta celeste da par-te degli Etruschi in sedici parti, e non in quattro come i romani. Bastava – diceva – moltiplica-re per quattro. Niente meglio di un mito può illustrare gli stretti rapporti che intercorrevano fra l’interpretazione del volo degli uccelli e la pratica della scrittura – lettura. Si raccontava in-

fatti che a scoprire i caratteri dell’alfabeto fosse stato il Dio Mercurio osservando il volo delle gru, che quando volano esprimono delle let-tere. Nel cielo gli uccelli scrivono, e per saper decifrare i loro arcani messaggi, bisogna essere padroni di un’arte che assomiglia a quelladella lettura di un testo.Il carattere “scientifico” della divinazione anti-ca, emerge ancora più chiaramente dalla exti-spicina (da exta = viscere), ossia la pratica di interpretare le viscere di un animale, apposi-tamente sacrificato, per estrarne indicazioni di carattere divinatorio. Il più fatidico degli organi era il fegato, che veniva valutato nel suo colore, grandezza, abbondanza di sangue e così via. Per esempio, a Roma gli aruspici distinguevano nel fegato due parti, la pars hostilis e la pars familiaris, corrispondenti rispettivamente alla zona dei prodigi favorevoli e sfavorevoli. Ve-nivano osservate le divisioni, le depressioni, e in particolare la testa (caput). Per esempio, se la testa del fegato si presentava divisa in due lobi,era chiaro che ci sarebbe stata una guerra civile. Come si vede, l’analisi degli exta delle vittime prevedeva il possesso di un sapere spe-cifico, che derivava da una tradizione. Esistono dei documenti archeologici (più etruschi che ro-mani, come un fegato in bronzo), che ci svelano come, nella pratica delle interpretazioni delle viscere, si potesse fare ricorso a veri e propri modellini anatomico – divinatori. Anche dalla Mesopotamia (scavi di Mari), ci sono pervenuti numerosi fegati d’argilla, i quali venivano usati come atlanti divinatori. Per fare un esempio: se in una certa occasione divinatoria l’aruspice ve-deva che il fegato della vittima presentava con-formazione anatomica simile a quella che, anni prima, si era presentata allorchè aveva avuto luogo una rivolta, era autorizzato a pensare che, anche in questo caso, il fegato doveva essere letto come segno di rivolta imminente. Anche se l’associazione causa – effetto in que-sto tipo di sapere non offre alcuna garanzia di scientificità, resta però il fatto che, adottando la pratica dell’osservazione, della raccolta dei dati, della loro archiviazione e della ricerca dei nessi causali, la scienza divinatori antica mos-se un passo deciso nei confronti del pensiero moderno. Giovi ricordare che i Mesopotamici usavano conservare nel sale gli organi che era-

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no stati oggetto di analisi divinatoria, per per-mettere un controesame divinatorio a distanza di tempo. Siamo agli albori dell’anatomia pato-logica (meglio sarebbe dire: anatomia divina-toria). Facciamo ora un salto nella società mo-derna: possiamo dire che Cicerone ha vinto, nel senso che la superstitiodegli indovini, come lui la chiamava, è stata cancellata definitivamente? Direi proprio di no. Le nostri reti televisive pul-lulano di maghi, di astrologhi, mentre non c’è settimanale, anche il più rispettabile, che non offra al lettore la possibilità di consultare il pro-prio oroscopo. A quanto pare, le gru continua-no a scrivere imperturbabili i loro messaggi e noi continuiamo a leggerli con interesse nono-stante la presenza della scienza e della tecnolo-gia. Leggere l’oroscopo è bello non solo e non tanto perché si crede che possa rivelarci certe cose del nostro futuro, ma perché dà l’impres-sione che qualcuno si occupi finalmente di noi.Da millenni, gli essere umani hanno fatto del cielo il grande libro in cui leggere non solo i movimenti degli astri, ma il senso del loro de-stino. Astronomia e astrologia sono nate in-sieme, due discipline “gemelle”, dall’antica Mesopotamia alla nostra modernità, quando i nuovi “filosofi della natura” (non si usava an-cora il termine scienziato) come Galileo, Car-tesio, Newton non disdegnavano di compila-re oroscopi, proprio quando facevano a pezzi l’antica cosmologia geocentrica che costituiva il quadro concettuale più adatto per la predi-zione degli astrologi. Era soprattutto un modo di guadagnare prestigio presso i potenti o ad-dirittura di sbarcare il lunario. Lo scetticismo sarebbe venuto dopo, come testimonia lo stes-so G. Leopardi che, nella sua giovanile Storia dell’Astronomia, non risparmiava il sarcasmo per i compilatori di oroscopi, venditori di illu-sioni. Ma il voler fare a meno delle illusioni non è a sua volta una illusione? Probabilmente il gioco degli oroscopi rappresenta una traccia di una nostalgia del cielo che qualunque rigida concezione del sapere non può cancellare.Secondo uno studio condotto dall’antropologa italiana Cecilia Gatto Trocchi, il 25% degli italia-ni consulta le stelle prima di iniziare la propria giornata: certo per taluni sarà più che una de-vozione un passatempo guardato con un po’ di ironia, come il caso di quel noto scienziato

il quale aveva l’abitudine di tenere nello studio un ferro di cavallo. “Ma come”gli disse un col-lega “tieni un ferro di cavallo nel tuo studio?”. “Non ti preoccupare” gli rispose lo scienziato “mi hanno detto che funziona anche se non ci si crede”. Questa situazione è talmente sconcer-tante, da farci porre questa domanda: “come può accadere che persone capaci di tenere un comportamento logico, agiscano in un modo nient’affatto logico?”. Come chi, per esempio, al mattino acquista una certa automobile solo dopo averne valutato la rete di assistenza e al pomeriggio consulta invece un astrologo per conoscere l’esito dei propri amori. Negli anni settanta questo problema è stato affrontato in modo brillante da un grande antropologo bri-tannico, Evans Pritchard, il quale elencava le ri-sposte che a questa domanda avrebbero dato, conformemente alle teorie che professavano, alcuni fra i padri fondatori della scienza moder-na. Malinowski e Freud risponderebbero così: “Per allontanare le proprie tensioni psicologi-che”. Questa spiegazione può aiutarci a com-prendere gran parte della fortuna goduta dalla divinazione nelle società antiche, ma soprattut-to della fortuna che gode presso di noi. La so-cietà contemporanea, infatti, è molto attenta ai problemi delle tensioni psicologiche. La nostra è una società fondata sui tranquillanti, sul relax, sulla fuga dallo stress, sulla ginnastica: tutto per allentare le tensioni psicologiche. Probabilmen-te è proprio per questo nostro bisogno di relax a tutti i costi che, nonostante Cicerone e altri moderni, la pratica della divinazione è tollera-ta, anzi incoraggiata e questo (di allontanare le tensioni psicologiche) è un merito così grande che siamo pronti a perdonare qualsiasi conces-sione al “ragionamento sbagliato”. Tutto ciò riguarda la divinazione come fatto privato. Ma la divinazione come fatto pubblico ed istituzio-nale, esiste ancora come ai tempi di Roma? Si. I politici moderni non prendono più gli auspi-cia prima di procedere a decisioni importanti, osservando la forma del fegato di una qualche vittima, però è altrettanto vero che i nostri poli-tici commissionano dei sondaggi di opinione, i quali agli auspicia assomigliano moltissimo. La pratica della divinazione si fonda infatti sul se-guente presupposto: il mondo è governato da una volontà superiore, quella degli dei. Se dun-

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que si vuole che le azioni importanti vadano a buon fine, è indispensabile conoscere l’orienta-mento di questa volontà superiore in anticipo, altrimenti si rischia di fallire. Ma anche il mo-derno sondaggio di opinione muove da pre-supposti analoghi. Anche in questo caso si ha a che fare con una volontà superiore (non più quella degli dei, ma quella della gente), che bi-sogna avere dalla propria parte ed è indispen-sabile conoscere l’orientamento di tale volontà in anticipo. Ecco allora che i politici moderni, invece di convocare degli specialisti in aruspici-na, si rivolgono a degli specialisti in sondaggi, i quali realizzeranno delle interviste o telefonate mirate sulla base di accurate campionature so-ciali. Una volta ottenuto un sondaggio favore-vole, il politico di turno si presenta sulla scena e dice: la gente cui ho chiesto gli auspicia, mi ha fornito gli auguria che volevo, provveden-domi così della auctoritas necessaria ad agire nel modo che ho deciso io. Il problema è però che la cosiddetta gente, proprio come gli dei, costituisce un soggetto difficile da interrogare: gli dei perché sono arcani per loro natura, la gente perché è composta da migliaia di indi-vidui che non è possibile intervistare tutti. Bi-sogna quindi conoscere la volontà della gente indirettamente, cioè attraverso la mediazione di un interprete (sociologo o statistico), che la-vora su un certo numero di segni o campioni, la cui interpretazione è spesso aleatoria, con pos-sibili errori. Così, come i Romani hanno perso delle battaglie importanti, anche dei sondaggi di opinione si sono dimostrati sbagliati o per-ché il campione prescelto non era adeguato, o perché la campionatura era stata influenzata dalle aspettative di chi aveva commissionato il sondaggio. Vedi per esempio Chirac in Francia nelle elezioni politiche del 1996: aveva indetto le elezioni in base ad un sondaggio favorevole, convinto di vincere e invece aveva perso. Più di recente, nelle elezioni americane del 2004: tutti i sondaggi erano per Kerry e vinse Bush. Per-ché? La campagna elettorale pro – Bush aveva toccato il tasto emozionale delle persone con i temi: Patria, Dio e Famiglia. Evidentemente, sia Chirac che Kerry non avevano valutato at-tentamente come beccavano i loro polli, come Gaio Flaminio al Trasimeno. C’è però una dif-ferenza tra presa degli auspicia e sondaggio di

opinione: il secondo si basa su modelli scienti-fici. In comune fra i due: entrambi sono utiliz-zati per fornire auctoritas ai politici alla vigilia di un’azione importante e questa auctoritas è ottenuta sulla base di una interpretazione di segni ritenuti capaci di rivelare l’orientamento di una volontà superiore. La funzione religiosa e augurale svolta dal sondaggio di opinione nella nostra cultura risulta evidente anche dal-le espressioni “lo vuole la gente” o “la gente non considera questo un reato”. Il sondaggio basato su un campione scelto e analizzato se-condo certi parametri è diventato “la gente”, proprio come, una volta prodotto l’augurium, si diceva: gli Dei lo vogliono”, e non si pensava più che questa volontà degli Dei era semplice-mente il risultato della forma di un fegato. Una volta Annibale, sconfitto da Scipione a Zama, e fuggiasco presso il re Prusia di Bitinia, voleva convincere il suo ospite a scendere in guerra. Ma Prusia esitava perché gli auspici erano sfa-vorevoli e le viscere non presagivano niente di buono. “E tu – gli disse Annibale – ti fidi più di un pezzo di carne che non della tua espe-rienza?”. A volte, in effetti, si preferirebbe che i politici si fidassero più delle loro capacità, esperienze e convinzioni, piuttosto che badare a ciò che vuole la gente. Verso la fine dell’opera Cicerone dice al fratello Quinto che, da quan-do ho lasciato l’attività forense, i suoi giorni e le sue notti sono più tranquilli, senza alcun segno premonitore, nonostante tutto quello che sta accadendo (tantispraesertim de rebus). Cesare era stato ucciso alle Idi di Marzo del 44 a.C., altri capi come Antonio Ottaviano avevano rag-giunto potere e fama e altre guerre si profilava-no all’orizzonte. Lasciò i suoi studi filosofici per ritornare alla politica (vedi Filippiche contro l’o-diato Antonio). Forse, ostinatamente, continuò a non sognare nulla in quei mesi movimentati. Il 7 dicembre del 43 a.C. i sicari di Antonio lo decapitarono mentre si era rifiutava di fuggire. Aveva scritto nel De divinazione: “Non cono-scere i mali futuri è molto più utile che cono-scerli”. Bene per lui. Anche noi la pensiamo allo stesso modo?

Dr. Alberto Casarotto

In occasione dell’inizio di Clinica Dentale a Grancona

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Fidelizzazione e tradizione!

1973: lavoro a “6 mani” in quel di Torri di Quartesolo

2013: dopo 40 anni, stesso paziente, stesso operatore:lavoro a “4 mani” in Clinica Dentale a Torri di Quartesolo

“La tradizione è fatta di radici e tronco che ad ogni primavera devono generare rami,germogli, fiori e frutti sempre nuovi” (Victor Hugo)

Dr. Alberto Casarotto

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Armonia

Nel passato, durante i miei frequenti soggiorni

senesi, ebbi occasione di partecipare, magari

solo di riflesso mordi e fuggi, a convegni, se-

minari promossi dall’Università di Siena, città

dalla vita culturale multiforme.

Fra questi ricordo un fine settimana con Enrico

Cheli, sociologo e psicologo, docente a Siena

dove dirige un master in comunicazione e re-

lazioni interpersonali. Riprendo in mano alcuni

appunti che vorrei condividere con voi e che

riguardano l’armonia nell’ambito lavorativo.

Avevo incominciato a parlarne nel Book 2010

con il noto apologo di Menenio Agrippa, eroe

della concordia: senato e popolo, come fosse-

ro un unico corpo, con la discordia periscono,

con la concordia rimangono in salute.

Con debiti aggiustamenti (mutatis mutandis):

anche in Clinica esiste un mondo (corpo) va-

riegato ed eterogeneo (titolari, operatori, assi-

stenti, segretarie…) fra i quali dovrebbe regna-

re l’armonia o meglio la concordia, ossia una

unità di intenti. Così, come l’unità di intenti di

diversi gruppi di cittadini garantiva la vita di

Roma, il benessere comune, così ciascun mem-

bro di Clinica dovrà pensare ed agire con un

unico medesimo cuore, in armonia con ciascu-

no degli altri: un viatico di successo, pensando

anche al nostro Menenio.

Ritorniamo a noi. Trascorriamo al lavoro lunga

parte del nostro tempo, e quindi avere buone

relazioni con colleghi e datori di lavoro è molto

importante: sono molti gli ambiti lavorativi in

cui vengono richieste conoscenze e competen-

ze a riguardo, peraltro fondamentali anche sul

piano personale, poiché la qualità delle nostre

relazioni (nella coppia, in famiglia, a scuola, nel

lavoro) influisce a fondo nel benessere psicofi-

sico e sulla realizzazione esistenziale di ognuno

di noi. Purtroppo collaborare in armonia non è

facile, e anzi spesso il luogo di lavoro è carat-

terizzato da rapporti freddi di pura facciata, da

invidie e gelosie, da conflitti latenti tra colleghi,

o da addirittura dinamiche di mobbing.

Le relazioni interpersonali incidono notevol-

mente in tutte le principali sfere del nostro vi-

vere sociale: plasmano e modificano le nostre

identità e il senso di individualità, determinano

il grado di soddisfazione ed insoddisfazione

nella vita privata, si riflettono sulla gratificazio-

ne o frustrazione che riceviamo dal lavoro.

Se chiediamo alle persone che cosa le rende

felici, la maggior parte ci risponderà: l’essere

innamorati, il sentirsi amati, l’avere una buona

relazione con il partner, con gli amici, con i figli

e con i colleghi di lavoro.

Se chiediamo loro cosa le rende infelici, ci di-

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ranno: litigare co qualcuno, non sentirsi com-

presi, avere un cattivo rapporto con i colleghi

di lavoro… Se poi si vuole indagare più a fondo

sulla insoddisfazione lavorativa, scopriremmo

che la maggior parte delle persone non si la-

menta della retribuzione (cambio di livello, rim-

borso chilometrico) o del fatto che il lavoro che

svolge non corrisponde al titolo di studio pos-

seduto, ma del fatto di lavorare in un ambiente

poco accogliente e di avere relazioni non armo-

niose con colleghi/titolari.

Insomma, sia la felicità che l’infelicità, sia la gra-

tificazione che l’insoddisfazione, dipendono

non solo da aspetti materiali ma anche soprat-

tutto da fattori comunicativi, emotivi e relazio-

nali.

Lascio a psicologi, sociologi, psicoterapeuti o

consulenti specializzati, il compito di affrontare

queste problematiche nel loro insieme, e aiuta-

re a migliorare l’organizzazione del lavoro con

una positiva ricaduta sulla produzione e sul be-

nessere aziendale. Vorrei accennare alle situa-

zioni che più di altre possono compromettere

o minare una relazione armonica.

1. L’incomprensione: in ogni relazione posso-

no crearsi incomprensioni o fraintendimen-

ti, a causa di una scelta inappropriata delle

parole, di una incongruenza tra verbale e

non verbale, di una interferenza (rumore)

che ne impedisce la perfetta ricezione. Il

circolo vizioso che si crea a seguito di una

incomprensione/fraintendimento può por-

tare ad un blocco della comunicazione,

cioè si smette di comunicare quando ce ne

sarebbe più bisogno. Una volta originatosi,

il blocco si autorinforza, al punto che risulta

sempre più arduo risolverlo.

2. La competizione per l’attenzione ed il pote-

re su di sé. Suggestive a proposito le quat-

tro figure proposte da J.Redifield (quello

del noto bestseller “Le profezie di Cele-

stino”) definite drammi del controllo: l’in-

timidatore, l’inquisitore, il troppo riservato,

la vittima. Il loro scopo è appunto quello

di ottenere il controllo della situazione e

dell’altro.

3. Mancanza di ascolto: la capacità di ascol-

to e di osservazione è un presupposto pri-

mario per una comunicazione efficace, sia

perché permette di conoscere meglio l’in-

terlocutore, sia perché ci fa rendere conto

di eventuali fraintendimenti e problemi re-

lazionali. Ascoltare non è facile: ascoltare

l’altro significa sia cercare di capire cosa sta

dicendo, sia come sta reagendo ai nostri

messaggi mentre ci ascolta.

4. Mancanza di empatia: l’empatia fa parte

della comunicazione non verbale come la

simpatia e la compassione, quest’ultima

sempre più intesa come avere pena per la

sofferenza altrui. Il termine è libero da con-

notazioni di senso comune come simpatia

o religioso come compassione. Percepire

le emozioni dell’altri, stabilire un contatto e

far sentire la propria presenza e premura:

siamo spesso restii ad attuarlo; è la paura

dell’altro ed i condizionamenti culturali che

ci trattengono dallo sperimentare questo

senso di unione intima con gli altri.

Domanda: come creare un clima positivo

nell’ambiente di lavoro?

1. Accogliere ed essere accolti. “Il buon gior-

no si vede dal mattino” recita un noto pro-

verbio, e questo vale per la comunicazione

interpersonale, il cui esito risente molto, in

parte o meglio della prima impressione che

ognuno si fa dell’altro. Accogliere l’altro e

sentirsi accolti, orientano in positivo l’inte-

ro processo comunicativo, e creano i pre-

supposti emozionali per una buona riuscita

dell’interazione. Una buona accoglienza

mattutina (BUONGIORNO!) ha anche il

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potere di prevenire in partenza il ricorso

a forme critiche in caso di dissidi e, qua-

lora l’altro sia incazzato, a ridurre l’”entità

dell’incazzatura”.

2. Apprezzare gli altri ed accettare i loro ap-

prezzamenti. Fare l’inquisitore è uno dei

modi per manipolare gli altri e farli sentire

inferiori. Il critico crea un clima scarsamente

collaborativo di chiusura, tensione, sospet-

tosità, un clima poco adatto alla crescita.

Se vogliamo instaurare invece un’atmosfe-

ra serena, accogliente, armonica, dobbia-

mo usare l’ingrediente opposto: l’apprez-

zamento, vedere cioè il bello che c’è negli

altri e anche in noi stessi, e sviluppare la

capacità di comunicare il nostro apprezza-

mento per ciò che uno è o che uno fa, senza

vergogna o eccessiva modestia. La parola

“critica” è diventata sinonimo di visione ne-

gativa, mentre dovrebbe significare sempli-

cemente “commentare”. La nostra società

è imperniata sulla stigmatizzazione dell’er-

rore; eppure è dimostrato che le persone

imparano meglio se vengono rinforzati e

premiati i loro comportamenti positivi, piut-

tosto che rimarcando e punendo quelli ne-

gativi.

3. Affrontare i problemi e le divergenze in

modo costruttivo. Affrontarli in modo co-

struttivo, significa non ferire l’altro, né se

stessi e tantomeno intaccare la stima e la

fiducia reciproci, ad esempio evitando di

rimproverare l’altro e di dargli la colpa di ciò

che accade. Spesso non è tanto il compor-

tamento dell’altro che ci dà fastidio, ma l’in-

terpretazione ed il significato che le diamo.

Esempio: Carla ha assegnato quel compito

ad un collega invece che a me, quindi non

ha fiducia in me. La prima parte della frase

è l’accaduto, la seconda è l’interpretazio-

ne, ed è proprio sulla interpretazione che

tendiamo a drammatizzare, ad interpretare

l’accaduto in senso negativo, proiettando

sull’altro rancori, ferite non rimarginate..

Il primo passo per affrontare il problema, è

quello di prendere le distanze dalle emo-

zioni, in modo da valutare obbiettivamente

l’accaduto e soprattutto valutandolo coin-

volgendo l’altro, cioè comunicando con lui

o con lei. E prendere le distanze vuol dire

sdrammatizzare: l’umorismo e l’autoironia

sono aspetti essenziali per vivere una vita di

relazioni consapevole e realizzante.

4. Gestione costruttiva dei conflitti. I conflit-

ti possono spuntare prima o dopo in ogni

relazione. L’ingrediente fondamentale per

una prevenzione efficace ed una gestione

costruttiva dei conflitti è la comunicazione,

tant’è che da sempre l’alternativa alla guer-

ra è la diplomazia, che è una forza di comu-

nicazione fra stati.

5. Creare un clima di sostegno e di rispetto

reciproco.

Ed ora prendiamoci per mano, formando ide-

almente un cerchio, a significare una sintonia

di gruppo, imparare ad affidarci e a prenderci

cura degli altri componenti e ad apprezzarli.

Dr. Alberto Casarotto

In occasione della riunione plenaria di Clinica

Dentale il 25 Settembre 2014

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Dr. Alessandro Russo

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Un giorno, mentre visitavo una signora deside-

rosa di avere una soluzione per ritornare a sor-

ridere, il marito mi chiese: ”voi vi ritenete cari?”

Quella domanda che inizialmente mi lasciò ba-

sito, oggi ritengo essere stata non solo intelli-

gente, ma anche assolutamente opportuna e di

grande stimolo.

E di certo non mi sono lasciato scappare l’oc-

casione per ingenerare una profonda riflessio-

ne che ancora oggi suggerisce creatività e idee

costruttive.

Se guardiamo alla situazione attuale, purtrop-

po anche in ambito salute, come in altre abi-

tudini di consumo e di spesa, le scelte delle

persone sono straordinariamente condizionate

da fattori economici. In questa ottica abbiamo

tutti perfettamente chiaro come, dal 2009 in

poi, l’incertezza economica e quella politica,

l’aumento della disoccupazione e la difficoltà

di ricollocamento, la stretta creditizia per im-

prese e famiglie abbiano avuto un impatto im-

pressionante sulla domanda di cure dentali da

parte delle famiglie.

Non possiamo quindi non considerare questo

tema come strategicamente rilevante per Clini-

ca Dentale che opera come struttura odontoia-

trica leader nel suo settore.

In particolare, gli aspetti sociali e culturali ca-

ratterizzanti varie tipologie di pazienti, debbo-

no far pensare ad un futuro nel quale la nostra

organizzazione dovrà soddisfare sempre più

esigenze e desideri fortemente differenziati ed

eterogenei, con un’offerta di servizi flessibile e

mirata alla soddisfazione di bisogni mutevoli.

Consideriamo ora le aspettative dei pazienti,

questi si dimostrano non solo più informati,

ma anche esigenti e selettivi, e danno maggior

peso al rapporto beneficio atteso, servizio rice-

vuto, denaro e tempo impiegati. I cittadini sono

sempre più orientati a migliorare la qualità del-

la vita e hanno forte aspirazione a soddisfare i

propri desideri, non soltanto i bisogni.

Se ripercorriamo i passaggi della storia di Clini-

ca Dentale, dal sogno del Dr Parise, passando

attraverso la fondazione della Società, per ap-

prodare all’ambiziosa realtà di oggi, è possibile

estrapolare il meccanismo strategico alla base

di questa evoluzione.

In primis è stato importante maturare una con-

sapevolezza e una capacità di visione per com-

piere un percorso approfondito di raccolta e

analisi dei trend di settore, della propria attività

e dei dati del proprio “intorno”, per poi passa-

re all’azione identificando la strategia aziendale

da adottare in risposta alle opportunità e alle

minacce che provengono dal mondo esterno,

facendo leva su quelli che sono i punti di forza

e livellando le debolezze interne. Clinica Den-

tale, dallo studio di campagna alla realtà azien-

dale odierna, è quindi un vero e proprio siste-

ma caratterizzato da una serie di elementi tra

loro interdipendenti, combinati in modo tale

che il loro “insieme” fornisca prestazioni supe-

riori a quelle che risulterebbero dalla semplice

sommatoria delle singole unità.

Clinica Dentale e il suo apparato organizzativo

è pura interazione dinamica con l’ambiente in

cui è inserita e da cui dipende: se da un lato

riceve “energia”, dall’altro si pone nella con-

dizione di trasformare questa “forza vitale” e

restituirla verso l’ambiente esterno, cioè verso

i pazienti. Clinica Dentale non è fatta delle sole

prestazioni che offre, si tratta invece di un si-

stema complesso proprio perché composta da

una serie di elementi correlati e dipendenti tra

loro: dentisti, assistenti e dipendenti, fornitori

Il valore di Clinica Dentale

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e collaboratori esterni, ma non solo. Le attività

operative e di marketing, l’organizzazione in-

terna dello studio stesso, le strategie aziendali,

gli obiettivi da raggiungere e gli investimenti

affrontati, sono anche essi elementi costituenti

il sistema al pari delle risorse umane coinvolte.

È soprattutto la capacità organizzativa e im-

prenditoriale a fare la differenza. Qualità tipiche

delle piccole e medie organizzazioni italiane:

intuizione, creatività, entusiasmo, competenza

manageriale, orientamento al cambiamento,

doti comunicative, attitudine alla leadership e

capacità di delega, tutto questo siamo noi oggi

e ci proponiamo di esserlo sempre più nel fu-

turo.

Ma io rilancio, Clinica Dentale è molto di più!

La qualità di Clinica si riflette nell’operato di

ogni singola persona che ci lavora dentro, tutte

persone selezionate perchè innegabili talenti

non solo sotto il profilo tecnico, ma anche, anzi

direi soprattutto, per qualità umane che con-

tribuiscono a rendere ogni giorno di lavoro un

momento di crescita collettiva. La mia soddisfa-

zione più grande non è vedere un segno positi-

vo sul bilancio aziendale, ma entrare ogni mat-

tina in studio e incrociare lo sguardo di persone

leali, motivate, creative, brave e coraggiose, in

poche parole mi emoziona pensare di collabo-

rare con persone eccezionali che rendono Cli-

nica Dentale unica.

Per questo motivo non è necessario sacrificare

la qualità al fine di essere più competitivi: non

c’è spazio nella società di oggi per low cost im-

provvisati, non scordiamoci che stiamo parlan-

do di salute e di benessere.

Clinica Dentale ha il grande obiettivo di rispon-

dere a esigenze e desideri dei pazienti attraver-

so un’organizzazione costituita da eccellenze e

una struttura unica nel suo genere per gran-

dezza, completezza, tecnologie integrate, raf-

finatezza del servizio, nel pieno rispetto degli

standard qualitativi che ci contraddistinguono

indispensabili a garantire e preservare la salute

dei nostri assistiti in maniera economicamente

sostenibile.

Oggi alla domanda di quei signori che sono di-

ventati nostri pazienti soddisfatti “voi vi ritene-

te cari?” io rispondo orgoglioso: “noi siamo le persone giuste per voi!”.

Dr. Alessandro Russo

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Dr. Matteo Bettin

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Dove la troviamo…è impossibile, dove, dove, dove??????

Forse nella ricchezza o forse nella povertà.

Forse nei social o nella semplicità del donarsi, nelle piccole gioie e nell’amare.

Nel prendersi del tempo o nel vivere affannati.

Non viviamo per il lavoro ma per goderci le relazioni.

Eliminiamo le COSE e godiamoci le persone.

Sono le relazioni che ci portano alla pace, relazioni positive,che NOI facciamo diventare positive!!!!

Non inventiamoci scuse, non raccontiamoci bugie!

Impariamo a dire di NO.

Apriamoci ai veri valori della vita e ci riempiremodi relazioni gratuite, semplici, ricche di amore e… di felicità!

Dr. Matteo Bettin

Alla ricerca della felicità

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Dr. Andrea Casarotto

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Di tutte le arti, la musica è quella più capace di evocare emozioni. Che sia gioia, commozio-ne, serenità, eccitamento, malinconia, nessuna emozione è assente dalla tavolozza della mu-sica e non vi è nessuno che non abbia provato uno speciale sentimento all’ascolto di un brano speciale. La musica può arrivare a coinvolgere il corpo, a suscitare voglia di muoversi: il ballo, le marce militari, le danze tribali non esistono a caso. L’associazione di musica e poesia in una bella canzone può farci piangere come bambi-ni. Nessun’altra arte, pittura, scrittura, poesia o letteratura, per quanto apprezzate e seguite, si avvicinano alle capacità emotive della musica. Perché? A quali parti di noi parla così forte? E come fà? Certi brani musicali suscitano emozio-ne in quanto legati a momenti significativi della nostra vita. Questo caso è semplice da spiega-re: la musica rievoca ricordi, e questi, a loro volta, evocano le emozioni. Sono i ricordi più che la musica, a suscitare l’emozione. Ma una musica può evocare emozioni anche quando la sentiamo per la prima volta: le evoca “per come è”, non perché è già legata a nostre pre-cedenti esperienze. Avviene anche spesso che ascoltatori diversi senza una cultura comune, giudichino nello stesso modo - allegra o triste, serena o angosciosa, consonante o dissonante

etc etc – una medesima musica ascoltata per la prima volta. Tutto ciò suggerisce che la musica “parla” a parti di noi che abbiamo in comune, semplicemente in quanto esseri umani, indiffe-rentemente dal sesso, esperienze, conoscenze, scolarità, censo, educazione musicale, gusti, tendenze. Si ama la musica per il piacere, ma-gari epidermico, che dà all’orecchio l’ascolto, per il timbro degli strumenti e delle voci, oppu-re per la stupefacente armonia con cui le note si inseguono, si combinano, concordano, oppure ancora perché la musica sembra dotata di un sottinteso metafisico che rinvia ad un assoluto, all’armonia delle sfere di cui parlava Pitago-ra. C’è un nesso inscindibile che lega musica, vita e memoria. Le vicende esistenziali, i tempi e i luoghi, gli studi compiuti e gli affetti sono come segnati da un sottofondo musicale: una colonna sonora li accompagna. La musica ama-ta ritorna e vive in noi perché legata al passato, ma la memoria, a sua volta, acquista smalto e verità proprio perché la musica (una certa sona-ta, un’aria d’opera, anche un semplice e banale motivetto) ne ha come trasposto il possibile si-gnificato, lo ha come esaltato a livelli misteriosi e sublimi.

Dr. Andrea Casarotto

Musica: emozioni ed armonia

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Dr.ssa Marica Chiarello

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Il 25marzo 2014 ho nuovamente ricevuto la gra-zia della nascita di un figlio. Quando , durante i primi mesi la gravidanza minacciava di interrompersi, il parere dei me-dici che mi hanno visitata, e che hanno visto il piccolo in ecografia, era concorde nel dire che: sì siamo a rischio, ma il bambino sta bene, si vede, è felice. Ora, come fare a vedere che un bimbo è felice da un’immagine ecografica, di-rete voi?? Effettivamente potrei considerarlo un modo di dire, una frase come un’altra per met-termi tranquilla. Ma non è stata pronunciata da una sola persona. Effettivamente se penso a quelle immagini di lui che fluttuava dolcemen-te, che nuotava in modo sinuoso, nel tepore del mio ventre, l’aggettivo che mi viene in mente è proprio questo: felice. Forse non rassicurato da un corpo materno impeccabilmente idoneo, ma immensamente amato e desiderato fin dal primo istante, anzi direi da molto prima, fin da quando da bambina giocavo a fare la mamma. Avrà certo sentito la mia tensione quando ero costretta, per proteggerlo, all’immobilità, ma avrà sentito anche la mia gioia quando ho per-cepito i suoi primi colpi, la mia felicità, il mio sollievo ogni volta che lo sentivo ‘vivere’. Forse è la consapevolezza di essere amato che lo ha reso così incline al sorriso, o forse è il suo ca-rattere. Ma si sa, i neonati, anche se non sanno nulla, sanno tutto. Percepiscono le emozioni della mamma, sanno se sono desiderati oppure no, sanno che ‘in braccio si sta meglio’, possi-

bilmente cullati e consolati da una dolce ninna nanna. Sanno che per vivere devono attaccarsi al seno della mamma. Sanno che le urla dei fra-tellini, per quanto fragorose, non sono cose per cui ci si deve spaventare. Sanno che a volte in-vece il silenzio fa molta paura, perché ci ricorda di essere soli. Sanno. Possiedono una sapienza antichissima, seppure siano appena venuti alla luce. Ma la cosa più importante che sanno è questa: che la mamma e il papà sono capaci di prendersi cura di loro. Credo che sia questa consapevolezza che rende Francesco così sorri-dente, anche quando non è molto in forma, o è stanco, o bisognoso di attenzioni. E’ la fiducia. Sapere che possono esserci dei momenti diffi-cili, ma che qualcuno si prenderà cura di lui, e che questo qualcuno conosce il modo e il tem-po migliori per farlo. Così potremmo pensare la vita. Sapersi parte di un progetto che non comprendiamo appieno, che va oltre la nostra intelligenza, un magnifico progetto, abbando-narsi tra le braccia di un Padre che ci porterà dall’altra parte del fiume dei nostri problemi, mentre noi possiamo tranquillamente dormire, perché Lui pensa a tutto .Così, dopo Filippo il Valoroso, e dopo Martina l’Impavida, è nato Francesco il Fiducioso. EVVIVA FRANCESCO!!!”

Dr.ssa Marica Chiarello

Francesco il fiducioso

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Dr.ssa Melania Conca

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Quando ti metterai in viaggio per Itacadevi augurarti che la strada sia lunga,

fertile in avventure e in esperienze. I Lestrigoni e i Ciclopi

o la furia di Nettuno non temere, non sarà questo il genere di incontri

se il pensiero resta alto e un sentimento fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.

In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,nè nell’irato Nettuno incapperai

se non li porti dentro se l’anima non te li mette contro.

Devi augurarti che la strada sia lunga. Che i mattini d’estate siano tanti

quando nei porti - finalmente e con che gioia - toccherai terra tu per la prima volta:

negli empori fenici indugia e acquista madreperle coralli ebano e ambre

tutta merce fina, anche profumi penetranti d’ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi,

va in molte città egizie impara una quantità di cose dai dotti.

Sempre devi avere in mente Itaca - raggiungerla sia il pensiero costante. Soprattutto, non affrettare il viaggio;

fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio metta piede sull’isola, tu, ricco dei tesori accumulati per strada

senza aspettarti ricchezze da Itaca. Itaca ti ha dato il bel viaggio,

senza di lei mai ti saresti messo sulla strada: che cos’altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso

già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.”

Itaca, Costantino Kavafis

Dr.ssa Melania Conca

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Dr. Antonio Dalla Riva

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Alla ricerca di un’idea

“...È nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie...” Con questa “piccola” cita-zione di un genio di altri tempi, niente di meno che Albert Einstein nel 1931 (ma niente di più attua-le), volevo introdurre il motivo di quello che troverete in quest’articolo. Per dirla ancora più semplice e per dirla in maniera basilare “...quando l’acqua tocca il .... s’ impara a nuotare...”

In questo spazio “ho raccolto” alcune delle frasi più famose di un genio dei nostri tempi, con la spe-ranza che... visti i tempi di crisi....possano stimolare, accendere una luce, un flash, un lampo di genio, accendere un fuoco dentro di sé, aprire un cassetto nella propria fantasia per aiutare a reinventarsi o per trovare un cambiamento positivo per sé e per gli altri.

STEVE JOBSè una persona di riferimento ed un’ispirazione continua.

Il motivatore “Non perdete tempo a vivere la vita di qualcun altro. Siate affamati, siate folli”.

Il realista “Non puoi semplicemente chiedere ai consumatori cosa vogliono e poi provare a darglielo. Non appena l’avrai costruito, loro vorranno qualcosa di nuovo”.

Il buon imprenditore“Le persone che lavorano sono la forza motrice che sta dietro al Macintosch. Il mio lavoro è creare uno spazio per loro, per pulire il resto dell’organizzazione e tenere tutto sotto controllo”.

L’onesto “Qualche volta quando innovi fai degli errori. E’ meglio ammetterli velocemente e continuare mi-gliorando le altre innovazioni”.

L’innovatore “Accendi il cervello. Le nuove idee nascono guardando le cose, parlando alla gente, sperimentan-do, facendo domande e andando fuori dall’ufficio!”

Il marketer “Il sogno dei vostri clienti è una vita migliore e più felice. Non muovere prodotti, arricchisci le loro vite”.

Il modesto “Noi pensiamo che il Mac venderà zillioni, ma non abbiamo costruito il mac per qualcun altro, l’ab-biamo costruito per noi stessi. NOI eravamo il gruppo di persone che avrebbe giudicato se fosse stato grande o meno. NOI non saremmo andati fuori a fare ricerche di mercato. Volevamo solo co-struire la cosa migliore che si potesse costruire”.

Il decisore “E’ solamente dicendo ‘no’ che puoi concentrarti sulle cose veramente importanti”.

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Il profetico “Questo è uno dei miei mantra: concentrazio-ne e semplicità. Il semplice può essere più forte del complesso. Devi lavorare duro per pulire il tuo pensiero e renderlo semplice. Ma alla fine ne vale la pena perché una volta ottenuto ciò, puoi spostare le montagne”.

Il non convenzionale “Ai folli. Agli anticonformisti, ai ribelli, ai pian-tagrane, ai pioli rotondi nei buchi quadrati, a tutti coloro che vedono le cose in modo diver-so – non amano le regole… perché solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo lo cambiano davvero”.

L’ottimista “Ci sono voluti tre anni per costruire il compu-ter neXT. Se avessimo voluto dare ai consuma-tori ciò che dicevano di volere avremmo costru-ito un computer con cui sarebbero stati felici per un anno, ma non qualcosa che vorrebbero adesso”.

L’ingegnoso “Il design non è come sembra o come appare. Il design è come funziona”.

Per quanto possa condividere in pieno tutte le sue frasi... purtroppo, a me, ancora non è venu-ta L’IDEA... ma se per quanto poco, nel leggere queste righe, qualcuno ha trovato una geniala-ta e desidera condividerla con me. Non esitate a contattarmi, disponibile 24 ore su 24 ...

Dr. Antonio Dalla Riva

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Dr. Filippo Framarin

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Spaghetti SuperStar#SSS

Runaway

Runnin’ through the sun of a day, I was waitin’ fordon’t even look back on your way and keep on lookin’ for more

I wanna wake upHave a good time boyz and girls tonight uaoh

Runnin’ through the fun of a game, I wanna make some noise

And when you scream and try to make upset the worldyou gotta squeeze your heart, feelin’ no control

you say don’t leave a blame inside your body and soulbut, darling, you’re not arrived, come on and keep on running running

You needed three days without pain, to believe ina stuff they shot in your brain, come on and ask for more

You gotta wake upYou really, really gotta have a good time boyz and girls tonight, uaoh

And finally let it explodeI’m gonna make a lot of noise

And when you scream and try to make upset the worldyou gotta squeeze your heart, feelin’ no control

you say don’t leave a blame inside your body and soulbut, darling, it’s not the end, come on and keep on running running

And when you scream and try to make a lot of noiseyou gotta squeeze your heart, feelin’ no control

you say don’t leave a blame inside your body and soulbut, darling, stay alive, come on and keep on running

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Dr. Filippo Framarin

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Dr. Simone Gorini

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Mi presento, sono il Dr.Simone Gorini. Credo di essere l’ultimo arrivato in Clinica Dentale e vi voglio raccontare come l’ho conosciuta. E’ tutto merito del “nuovo” Socio Dr Alessandro Russo. Entrambi ci siamo conosciuti a Brescia e un bel giorno mi propone: “ Simone, abbiamo bisogno di una persona come te qui in Clinica, te la senti?” Io dico: “Perché no?!, andiamo a vedere!” E a luglio 2014 conobbi questa nuo-va realtà. Sinceramente non ho avuto nessun problema ad ambientarmi, grazie alla cortesia e semplicità con cui sono stato accolto sia a Grancona che a Torri. Ringrazio di cuore tutti quanti perché non è mai semplice intraprende-re una nuova strada ma non potevo desiderare accoglienza migliore!Ma perché vi voglio parlare di Speranza e Qua-lità? Cosa significano insieme queste due pa-role? E’ da tempo che mi persuade l’idea che ogni giorno, nel nostro piccolo dobbiamo col-tivare semi di speranza. Siamo bombardati da immagini, notizie e fatti sempre negativi. Tutto ci dice che stiamo fallendo, che siamo un paese morto. Il terrorismo, la crisi economica, i fatti di cronaca ci mettono angoscia e in fondo al nostro cuore abbiamo paura. Paura del futuro, di cosa vivranno i nostri figli, siamo incerti che si possa vivere in pace. Ed è vero, certe notizie ci sconvolgono e rattristano e purtroppo tendia-mo ad assuefarci. Corriamo il rischio che certe cose non ci tocchino più l’anima; preferiamo voltare lo sguardo. Ma la realtà se la guardiamo con occhi semplici, come quelli dei bambini, ci dice anche tanto altro. Ogni giorno accadono fatti “miracolosi”. Ci sono persone che mostra-no vera solidarietà verso chi ha bisogno, sia da un punto di vista materiale ma soprattutto sa-pendo ascoltare e accogliere le sofferenze al-trui. Ogni giorno abbiamo la libertà di sceglie-re se donare un po’ di Speranza. Basta poco, a volte un sorriso sincero, un piccolo gesto di cortesia, far bene il proprio lavoro. Amo molto il mio lavoro, credo che non avrei saputo fare altro. Siamo responsabili della salute delle per-

sone, abbiamo la possibilità di farle tornare a ridere! Dico ridere e non sorridere, perché cosa c’è di più bello di una “risata” spontanea??? magari in compagnia di amici, colleghi e delle persone che amiamo! E abbiamo la responsa-bilità di far tornare le persone a “godere” delle nostre specialità culinarie.. ( provare per crede-re dalla Sandra, Trattoria Munaretto a Granco-na.. grazie a Denis che me la fatta conoscere!). Risate e buon cibo, solo per questo dovremmo curare i nostri pazienti. E qui entra in gioco la Qualità. Tutti si riempiono la bocca di questo nome. Adesso tutto è di qualità! Dal made in China all’artigianato di lusso.. Per noi di Clinica qualità vuol dire valore della persona, che vor-rei esprimerlo così: umanamente professionali. Se c’è il valore umano di sicuro ci sarà anche la professionalità, perché parliamo della stes-sa cosa! Una persona che ha a cuore se stes-sa, la propria umanità farà molto bene anche il proprio lavoro, perché quest’ultimo lo aiuta ogni giorno ad essere migliore, ad essere più se stesso. E se siamo pienamente noi stessi po-tremo insieme infondere Speranza, perché sa-premo accogliere veramente i problemi delle persone, dando le risposte che meritano e allo stesso tempo fornire Qualità perché sapremo dare qualcosa che duri nel tempo contribuen-do a migliorare la qualità della vita delle per-sone.

“Tutti i grandi sono stati bambini una volta. (Ma pochi se ne ricordano)”.

Dr. Gorini Simone

Speranza e qualità

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Dr.ssa Tiziana Lancilotti

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Ho sempre pensato che la mia scelta profes-sionale tragga origine anche dall’incontro con la mia prima dentista, una simpatica dottoressa che ha saputo “mettermi le mani in bocca” fa-cendo sembrare la cosa come la più naturale e innocua del mondo.Sorridente e gentile, aveva saputo mettermi a mio agio fin da subito e tra di noi si era di con-seguenza instaurato un ottimo rapporto. Anche quando mi rimproverò per l’insufficiente uso dello spazzolino seppe farlo senza ecces-siva severità. Questo suo atteggiamento mi in-dusse a seguire scrupolosamente le sue indica-zioni e infatti la prima ed unica carie mi è stata riscontrata a 29 anni.L’aver vissuto serenamente i primi incontri con

il dentista ha sicuramente lasciato in me un’im-magine estremamente positiva della figura dell’odontoiatra e credo che, più o meno co-scientemente, mi abbia portato a pensare che quella del dentista fosse una scelta professio-nale molto valida. E non ho cambiato parere!

Dr.ssa Tiziana Lancilotti

I miei esordi dal dentista

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Dr. Malki Maher

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“Il Messaggero crede in quello che è stato

fatto scendere su di lui da parte del suo

Signore, come del resto i credenti: tutti cre-

dono in Allah, nei Suoi Angeli, nei Suoi Libri e

nei Suoi Messaggeri. Non facciamo differenza

alcuna tra i Suoi Messaggeri”.

E dicono:”Abbiamo ascoltato e obbediamo.

Perdono, Signore! E’ a Te che tutto ritorna.”

(Al Baqara 285)

Questo versetto del Corano, dimostra che uno

dei pilastri della fede nell’Islam è la fede di tut-

ti i profeti e religioni, quindi non è riconosciuto

musulmano se uno non crede in tutti i messag-

geri di Dio e dei suoi profeti.

Il Profeta Maometto (già nel 610dC) la prima

cosa che fece quando cominciò la sua missione

fu stabilire il trattato con gli ebrei e i cristiani

che vivevano in città, includendo regole e prin-

cipi che consentissero di raggiungere la giu-

stizia assoluta e la completa parità tra gli esseri

umani di tutti colori, lingue e religioni. Assolu-

tamente la fede è una cosa tra l’uomo e il suo

Signore.

“Non c’è costrizione nella religione .”

(Al Baqara 256)

Il Corano ha confermato che l’abuso e attac-

co alla dignità umana (a prescindere dal credo

religioso) è uno dei peggiori crimini commessi

al mondo.

“Chiunque uccida un uomo che non abbia

ucciso a sua volta o che non abbia sparso la

corruzione sulla terra , sarà come se avesse

ucciso l’umanità intera . E chi ne abbia

salvato uno, sarà come se avesse

salvato tutta l’umanità.”

(Mâ’ida 32)

Il significato dell’Islam in arabo è la pace, l’a-

more e la fede nell’esistenza di Dio Creatore

dell’universo. Ciò è coerente con tutte le reli-

gioni celesti. La storia di convivenza positiva tra

l’Islam e le altre religioni è una cosa naturale

che esiste da quattordici secoli!

Ciò che è venuto da Mosè lo ha portato Jesu e

si è concluso in Maometto, messaggeri di Dio e

tutti sono chiamati a conoscere e adorare. L’ori-

gine delle religioni è unica e ciò che differenzia

Tutti siamo di Adamo, tutti siamo fratelli...

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l’una dall’altra è la legislazione (cioè il modo in

cui si praticano ad esempio la preghiera, il di-

giuno e il pellegrinaggio,ecc).

Quello che sta accadendo oggi, purtroppo, è

un tentativo di falsare, screditare l’Islam e scol-

legare la coesistenza con le altre religioni, col-

legando la religione con il terrorismo, la politi-

ca, gli interessi personali, ecc. Ciò ha portato

alla creazione del termine “Guerre di Religio-

ne”, al fine di oscurare gli interessi economici

e la voglia di controllo delle rotte commerciali e

delle risorse naturali del territorio di altri.

Ci sono bande, purtroppo chiamate Stati Isla-

mici (ISIS), che uccidono e massacrano persone

con lo slogan “Rianimare il Califfato Islamico”,

mentre l’Islam e i musulmani non sono che vit-

time innocenti.

Con un semplice sguardo alla storia, al perio-

do dei Califfato islamico (quello vero!!) qualche

secolo fa, si possono trovare tanti esempi belli

di convivenza pacifica.

I califfi a quel tempo raccomandavano un buon

trattamento dei non musulmani e assicurava-

no la protezione della loro proprietà, dei loro

luoghi di preghiera e di prendersi cura di loro

quando uno era incapace di lavorare. Questo

ha prodotto una civiltà che eccelleva nel cam-

po della medicina, filosofia, ingegneria, mate-

matica, fisica, chimica, ecc.

Vorrei concludere che tutte le religioni cercano

di raggiungere la felicità, la serenità, la dignità

umana, rimuovere le differenze e promuovere i

valori della tolleranza e della cooperazione col-

lettiva. Perchè tutti siamo di Adamo, tutti siamo

fratelli.

Dr. Malki Maher

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Dr.ssa Lisa Poli

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Ci lamentiamo e litighiamoCi insultiamo non appena ci vediamoMa queste cose che facciamo...Queste occasioni assiemeCon la pioggia il sole o la tempestaQueste cose che facciamo...Con l’eleganza di chi é stanco del mondoCi siamo presi i nostri postiPossiamo maledirla o prendercene cura e darle un nome.Oppure rimanere a casa accanto al fuocoAbbattuti dal desiderio, attizzando la fiamma.Ma siamo qui per la corsa. È più forte delle paroleQuesta cosa che facciamoPiù forte delle paroleIl modo in cui si spiega.È più forte delle paroleLa somma delle nostre partiIl battito dei nostri cuoriÈ più forte delle parole.Più forte delle parole. Le corde si piegano e scivolanoMentre le ore scorrono viaUn vecchio paio di scarpeIl tuo blues preferitoBatte il ritmo.Seguiamo la correnteOvunque essa vada.Siamo più che vivi. Più forte delle paroleQuesta cosa che chiamano ANIMAÈ lì che palpitaPiù forte delle parole.

Pink Floyd

Dr.ssa Lisa Poli

Louder than words

Un’opera...semplicemente questo...pelle d’oca, occhi lucidi,parole che rappresentano l’anima! A volte “È più forte delle parole”...

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Dr.ssa Elena Ruggeri

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Caro padre Giorgio,quest’anno dedico a te il mio spazio sul book, perchè sono convinta vada ricordata la tua vita affinchè tu possa essere grande esempio di bontà ,coraggio e umanità anche per chi non ti ha conosciuto.Hai avuto la capacità di realizza-re grandi progetti dove non c’era nulla, hai spe-so tutta la tua vita per gli altri, per i piu’ poveri, i piu’ soli, per i bambini, per i malati, hai inse-gnato ai giovani a coltivare il proprio desiderio di felicità, a cercare il senso profondo della vita, a spendersi per gli altri....e tutto sempre con il sorriso.Ci siamo conosciuti sulle Ande Peruviane, quel-le meravigliose montagne dai grandi spazi, dal-le notti silenziose dove il cielo è tanto vicino alla terra da poter contemplare le miriadi di stelle che lo popolano.Ti ricordo con la tua jeep sem-pre carica di malati da accompagnare ai lon-tanissimi ospedali, di volontari che arrivavano o ripartivano per l’Italia, di viveri, di medicinali.Spesso facevi tappa a S.Marcos per un caffè e una volta perchè io e il dr Daniel potessimo dare una “ sistematina “ ai tuoi denti...ma velo-ce...perchè i tuoi viaggi erano lunghi e le strade tortuose e pericolose.Tante le tue opere realiz-zate in 25anni di America Latina :le numerose scuole professionali gratuite per emancipare nel lavoro i ragazzi, la fornace semindustriale per mattoni per costruire case piu’ dignitose, il sistema di acqua potabile per 4000 abitazioni ,le scuole materne, il piccolo ambulatorio me-dico , la casa dei bambini e tanto altro....sono felice di aver visto da vicino molti dei tuoi pro-getti realizzati, di averti ritrovato poi qui in Italia ai campi di lavoro dei ragazzi dell’operazione mato grosso che sapevi trascinare con gran-de carisma a regalare un po’ del loro tempo ai meno fortunati.Un grande esmpio è stato per me il tuo corag-gio nell’affrontare la malattia , hai scelto di ritor-nare in Peru’ dopo la triste diagnosi nonostan-te la diversità delle cure che avresti ricevuto in Italia, hai voluto stare fino alla fine vicino ai tuoi

poveri, agli anziani soli e malati, ai centinaia di bimbi che andavano e venivano dall’oratorio della tua parrocchia, alle famiglie, ai volontari in missione.Hai scelto di rimanere per sempre su quelle bellissime montagne dai panorami mozzafia-to...ti capisco....prima o poi ci ritornero’...Sei volato in cielo proprio quando il mio bam-bino spegneva la sua prima candelina...è strana la vita...ma so che da lassu’ il tuo dolce sguardo ci guiderà.Mi dispiace non essere riuscita a salutarti di per-sona, so che sono venuti in tantissimi dall’Italia, da tutto il Peru’ ma soprattutto a piedi da tutti i villaggi vicini e lontanissimi della Cordigliera e come loro ti ringrazio ti saluto e ti auguro Buon Viaggio...:

“GRATIAS Y HASTA SIEMPRE PADRECITO!”

Dr.ssa Elena Ruggeri

Caro padre Giorgio...

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Dr. Paolo Vidotto

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Un piccolo contributo contro il mal di pancia

A chi non è mai capitato di uscire tardi da casa?

E trovarsi invariabilmente imbottigliato nel

traffico, con immancabili appuntamenti cui far

fronte e una FIAT 127 carica di suore che pro-

cede ai 40 km all’ora davanti, senza possibilità

alcuna di sorpasso!

Le conseguenze di questi stress ripetuti non

sono solo quelle di guadagnarsi una fama di

persona inaffidabile e ritardataria, sono le no-

stre stesse viscere che alla lunga pagano il con-

to: c’è chi ha parlato, a proposito dell’intestino ,

di un secondo cervello cui si possono applicare

gli stessi parametri di valutazione che usiamo

per descrivere gli stati mentali ingenerati nei

nostri neuroni.

Perciò le nostre budella saranno veramente fe-

lici o tristi , calme od agitate , sveglie od addor-

mentate proprio come le nostre circonvoluzioni

cerebrali ( che per altro vi assomigliano molto!).

Le simpatiche suorine, ligie al codice della stra-

da possono essere quindi inconsapevoli porta-

trici di danni sociali, psicologici ed anche fisici.

Mentre siamo in coda lo stomaco si contorce,le

viscere impazziscono, i villi intestinali s’aggrovi-

gliano e tutta questa tempesta si abbatte sulle

nostre mucose inermi.

Urge una soluzione : ma quale? Ecco la mia

modesta proposta , frutto di anni ed anni di

peregrinazioni automobilistiche in tutti gli an-

goli del nostro bel Veneto. Nulla di nuovo, si

intende epperò un metodo pratico alla porta-

ta di chiunque : una meditazione incentrata sul

numero 4.

Iniziamo dalle 4 ruote della macchina che ci

ospita, che diventano le 4 città venete di pia-

nura ( Padova Rovigo Verona Vicenza), che ci

ricordano i 4 grandi fiumi che attraversano i no-

stri campi(Adige Bacchiglione Brenta Po), che

ci portano ai 40 chilometri di guida che separa-

no Padova e Vicenza o i 40 minuti di treno tra

Padova e Venezia, che riportano ai 400 chilo-

metri da Padova a Torino o da Padova a Roma,

che fanno pensare ai 4000 metri di altezza del

Monte Bianco o del Monte Cervino, che pre-

cedono i 40000 chilometri di circonferenza ter-

restre, che anticipano i 400 mila chilometri che

separano la terra e la luna che preludono ai 4

milioni di abitanti dell’Emilia Romagna od ai 4

milioni di euro della Lotteria Italia.

E cheddire dei 40 milioni di bovini sparsi sulle

campagne dell’Europa continentale o dei 400

milioni di euro di tagli disposti dal Governo...

A questo punto la FIAT 127 delle sorelle do-

vrebbe essere sparita, la coda dissolta , la stra-

da sgombra; la testa, persa in un groviglio di

numeri ed associazioni, non ha avuto ragioni

per tristezze o nervosismi. E quello che più con-

ta, le viscere non si sono ribaltate e le mucose

dello stomaco sono rimaste rosa e felici come

nei momenti migliori della nostra infanzia.

Dr. Paolo Vidotto

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Dr.ssa Tiziana Zannelli

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Le parole hanno il potere magico di costruire la nostra realtà.

A seconda di quelle che scegliamo di usare, il nostro cervello farà partire un film nel nostro ci-nema interiore.

Spesso le sottovalutiamo o le diciamo senza pensare veramente al loro significato, ma le pa-role sono il codice con cui interagiamo con noi stessi e con gli altri.

Sceglierle con cura, proprio come facciamo con il cibo che mangiamo o i vestiti che indos-siamo, è in grado di fare una grande differenza nella nostra vita.

Le 7 affermazioni da dire ogni mattina!

1. Più amore dono, più amore ricevo

2. Condivido la mia gioia con gli altri e gioisco dei loro successi, sapendo che ce n’è abba-stanza per tutti

3. Sorrido alla vita e la vita mi sorride

4. Vado bene così come sono

5. Tutto ciò che deve essere è

6. Tutto avviene per il mio bene

7. Provo gratitudine per le benedizioni che la vita mi dona

Auguri per anno ricco di Amore!

Dr.ssa Tiziana Zannelli

Parole di Felicità

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Dr. Marco Ardigò

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L’evoluzione del condizionamentoanestesiologico in odontoiatria.

Dall’anestesia locale alla sedazione cosciente e profonda, l’attenzione al paziente ha cambiato l’approccio al dolorenelle terapie dentali.

Lo studio dentistico ha da sempre susci-tato ansia, fobie, diffidenze, a causa della plu-ralità di condizioni sensoriali da cui il paziente viene investito; spesso esse possono portare a sperimentare varie forme di disagio, dagli odo-ri sgradevoli, a sibili fastidiosi e non confortanti, a disagi posturali per obbligo di posizione, a sgradevoli sensazioni legate alla stimolazione del cavo oro-faringeo, salivazioni fastidiose, conati di vomito, percezioni non propriamen-te gradevoli di trazione su elementi dentari o ossei. Ancora più importanti, tuttavia, sono le vere e proprie esperienze dolorose connes-se primariamente alla patologia di base e alle conseguenti manovre terapeutiche durante le quali non sempre è possibile produrre una con-dizione di anestesia perfetta.Tutto questo riporta il paziente a sperimentare varie forme di disagio e paure, spesso irrazio-nali e persistenti, nosograficamente definite “odontofobia”, una condizione patologica ri-conosciuta e certificata dall’Oms che stima un coinvolgimento della popolazione mondiale in percentuale variabile tra 20-60%. Il paziente va considerato non soltanto come caso clinico nel suo dettaglio tecnico ma come persona nella sua interezza, imponendo quindi un’adeguata risposta a tutti i livelli di bisogno. Anche l’aspettativa psico-fisica, etica e deonto-logica dei pazienti ha guadagnato nuova con-sapevolezza e chiede quindi un più impegna-tivo livello di risposta, passando dalla stretta necessità operativa alla visione più completa e complessa del processo di trattamento all’uo-mo nella sua integralità. In questo contesto, il vissuto di un’esperienza dolorosa rischia di in-fluenzare la relazione tra dentista e paziente, con ricadute negative sulla fiducia e la fideliz-zazione al professionista. Spesso, anzi, l’odon-

toiatra si trova difronte a soggetti che già han-no vissuto in precedenza esperienze negative; queste vanno riaffrontate con proposte e solu-zioni, chiare, efficaci, innovative.Risulta pertanto importante ottimizzare le pro-cedure di controllo del maggior numero di agenti stressanti, fisici e induttivamente psi-cologici. Quando lo stato emotivo del pazien-te pregiudica il buon esito del trattamento, o quando la terapia si prevede invasiva, comples-sa per il tipo di paziente, lo studio dentistico deve valutare la opportunità di soluzioni spe-cifiche. Le possibilità di controllo di tutti que-sti disagi, fisici e induttivamente psico-emoti-vi, sono enormemente ampliate e perfeziona-te dall’intervento di una figura professionale congiunta a quella dell’odontoiatra: il medi-co-anestesista; congiuntamente all’operatore odontoiatrico e con propri specifici ruoli, mezzi e competenze, l’anestesista previene, elimina, sopprime ogni condizione psico-emotiva e fi-sica sgradevole attraverso la somministrazione di specifici farmaci opportunamente associati e dosati. La collaborazione professionale tra odontoiatra e anestesista presso gli studi odontoiatrici stessi, si va sempre più diffonden-do nella realtà clinica quotidiana a causa della maggior consapevolezza dei pazienti, ma gra-zie soprattutto alla disponibilità di metodiche efficaci, sicure, gradevoli, prevedibili, che sol-tanto 10-12 anni fa non erano disponibili !! An-che le maggiori potenzialità di certe procedure implantologiche e correlate chiedono una assi-stenza al paziente più specificamente orientata al suo benessere totale.

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Il trattamento che il medico-anestesista effettua nel contesto odontoiatrico, spazia su di un ampio ventaglio di possibilità; tecniche più idonee vengono scelte in base alle condi-zioni operative, alla sensibilità psicologica del singolo paziente, alla sua sensibilità al dolore, alla tollerabilità posizionale, alla sensibilità al ri-flesso del vomito, al grado di ansia percepito, al tipo di intervento a cui deve essere sottoposto. Le tecniche disponibili spaziano dalla semplice ansiolisi alle sedazioni profonde, dipendente-mente dal contesto clinico. In tal modo si può affrontare ogni tipologia di paziente : ansioso, fobico, adulto, anziano, bambino, disabile, oli-gofrenico, autistico.

I trattamenti del medico-anestesista si realizzano attraverso la somministrazione en-dovenosa di farmaci ad effetto sedativo, ipnoti-co, amnesico e analgesico dalla cui opportuna associazione è possibile assicurare le diverse azioni che di volta in volta si rendessero neces-sarie: rimozione dell’ansia e delle fobie, elimi-nazione del riflesso del vomito, realizzazione della condizione di amnesia – ossia incapaci-tà di rievocare eventi connessi alla procedura

odontoiatrica pur vissuti con consapevolezza cosciente - analgesia – ossia la eliminazione delle varie componenti di dolore o fastidio in-traoperativi - sonnolenza, anche profonda, fino alla soppressione della coscienza, che assicu-ra una condizione di benessere e abbandono sufficienti ad alleggerire il tempo soggettivo di durata della procedura. Al termine delle cure odontoiatriche, il paziente riprende in pochi minuti le normali condizioni di benessere, autonomia fisica, luci-dità cognitiva. E’ in grado quindi di riprendere una normale quotidianità in condizioni di be-nessere fisico e di rilassatezza psico-emotiva altrimenti irrealizzabili.

L’Anestesista,Dr. Marco Ardigò

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Chiara Ambrosini

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Buongiorno Clinica Dentale!Ricordo con molto interesse l’ultima riunione plenaria di Clinica Dentale, tenutasi il 25 set-tembre 2014.E’ stata l’occasione per un incontro (anche con-viviale) con tutte le persone che lavorano in questa grande famiglia, con le quali non sem-pre è possibile vedersi e “chiacchierare” un po’ insieme.L’esposizione dei traguardi raggiunti da Clinica, mi ha permesso di capire quali sarebbero stati i futuri obiettivi da raggiungere insieme ai miei colleghi.Tra tutti i vari discorsi, tecnici e amministrativi, l’intervento del Dr.Casarotto Alberto è stato quello che ha colpito un po’ tutti per il suo lato umano e paterno.L’importanza della collaborazione tra colleghi è sicuramente una delle carte vincenti di Clinica, ma alla base di ogni relazione e di ogni rappor-to, c’è sicuramente il saluto.Il Buongiorno si vede dal mattino: dalle perso-ne che arrivano di corsa, da un bambino che entra piangendo, dalla persona anziana che si sente smarrita e dai ragazzi che entrano con lo sguardo sempre sul loro smartphone.

Arrivare al mattino e rivolgere a tutte le perso-ne che incontriamo un bel saluto, è un valore importante, segno di cultura, di personalità, di educazione e soprattutto di intelligenza.Il saluto deve venire sempre dal cuore, come un abbraccio, una carezza, perchè questi segni migliorano le nostre giornate, a volte spente e grigie.Non è facile essere sempre allegri e sorridenti, ma dobbiamo imparare a lasciare fuori dall’am-biente lavorativo i nostri problemi personali e, al contrario, tralasciare i problemi lavorativi, quando siamo a casa con le nostre famiglie: an-che questo ci permette di vivere meglio il no-stro Buongiorno.

Dedico a tutti voi il mio Buongiono, in partico-lare a Giulia e Marco.

Chiara Ambrosini

Buongiorno

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Micaela Bombana

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Toc...toc scusate il disturbo...in punta di piedi e sottovoce vorrei dedicare a tutte le persone che hanno condiviso quest’anno con me alcu-ne rime tratte dalla canzone Song for Someone degli U2.Appena l’ho ascoltata ho provato una forte emozione che l’ha fatta diventare una delle mie canzoni preferite. Sarà capitato anche a voi di intuire che una canzone ti parli come se fosse dedicata a te. Ecco, questa è la sensazione che mi ha trasmesso Song for Someone. Come tutti, anche io mi sono trovata ad affrontare da sola delle difficoltà che sembravano insupera-bili... in quei momenti ciò che non mi ha mai abbandonato è stata la fiducia e la speranza

che la sofferenza e le difficoltà prima o poi si superano e si trasformano in qualcosa di bel-lo. Quindi, quello che ho sentito ascoltando la canzone è che la speranza per me è una luce che mi accompagna e che non voglio far spe-gnere. Nella vita, una parte del cammino lo devo fare da sola, ma grazie alle persone che condivi-dono la strada con me mi sento più allegra e ottimista. Mi ritengo fortunata ad avere accan-to, anche al lavoro, delle persone che hanno la loro umanità e che, nonostante le tante diffi-coltà hanno la mia stessa fiducia nel futuro e continuano a camminare assieme a me.

...ad un tratto una canzone mi rapisce

Dedico a questi compagni queste rime....Grazie a tutti

Micaela Bombana

If there is a light you can’t always seeAnd there is a world we can’t always beIf there is a dark within and withoutAnd there is a light, don’t let it go out

And this is a song, song for someoneThis is a song, a song for someone

Se c’è una luce che non puoi sempre vedereE c’è un mondo dove non possiamo sempre stareSe c’è il buio dentro e fuoriE c’è una luce, non lasciarla spegnere

E questa è una canzone, canzone per qualcunoQuesta è una canzone, canzone per qualcuno

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Giada Castagnini

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La tecnologia non è il mio forte ma, nell’era del tecnologico, bisogna adeguarsi.

E così, qualche tempo fa, per mezzo di tutti questi messaggi, gruppi, mms, ho ricevuto un elenco interessante di espressioni e ho pensato che avrebbe potuto essere utile.

Poiché Clinica ha sempre più la necessità di avvicinarsi alla lingua inglese, per chi è recidivo efa ancora la traduzione dialetto\italiano\inglese, ecco una piccola lista

di espressioni veloci direttamente da:

dialetto\ingleseinglese\dialetto

Giada Castagnini

dialetto\inglese inglese\dialetto

Twohands

I have expensive

Hungry a charity

Always finger

I’m papered

It’s a boom missing winds

Gold verygood

For power

I come cakes

If you fly

My father yes

It’s not glass

Website out?

They locked meà

Doman

Go caro

Fame na carità

Sempre dito

Me son incartà

Ze un boto manca venti

Oro benon

Par forsa

Vegno torte

Se te voi

Me par de sì

No ze vero

Sito fora?

I me gà ciavà

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Maria Giulia Castaman

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Ci sono libri e film ed intere raccolte sul si-

gnificato della vita....penso che in realtà non

si possa darle un significato in particolare ma

l’importante sia viverla a pieno e con estremo

coinvolgimento!!!

Perciò dico “grazie”!!!!

Grazie di cuore per tutte le sensazioni che in

due anni in clinica ho provato....un arcobale-

no di emozioni...come delle bolle di sapone di

mille dimensioni e sfumature che stupiscono e

travolgono terribilmente!!!

Grazie perché....il vostro “buongiorno” mi fa’

sentire proprio come una bambina che scopre

l’incredibile bellezza della vita!!!

Maria Giulia Castaman

La potenza di un “Buongiorno”

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Rodolfo Colognesi

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Questo citava non molti anni fa Charlie Chaplin. In un’epoca, la nostra, in cui l’estetica e la pri-ma impressione giocano spesso la “mano vin-cente” nella maggior parte dei campi, da quel-lo lavorativo a quello personale, tale frase non potrebbe essere più significativa. Perché il sor-riso, assieme allo sguardo, risultano comune-mente i due fattori principali di cattura dell’at-tenzione nel nostro prossimo. E mai come negli ultimi anni, e sempre più in crescendo, la bella presenza, l’accuratezza della propria immagine fino all’estremo negativo, sono ri-chiesti anche in settori in cui fino a poco tempo fa non erano presi in considerazione. Anche e soprattutto grazie, o forse per colpa, dei mass media il gusto estetico ha preso il sopravven-to sul buon gusto. Gusto estetico inteso come

omologazione dei canoni di bellezza, in cui ad esempio un sorriso “alla Julia Roberts” viene ormai richiesto anche da signore in cui l’età o semplicemente le proporzioni del viso non lo permetterebbero. E si assiste ad una vera e propria difficoltà da parte del professionista, odontoiatra o odontotecnico che sia, nel far capire che mantenere il più possibile la natura-lezza della propria bocca e del proprio sorriso garantiscono di gran lunga il risultato migliore sulla propria fisionomia e che l’omologazione a certi stereotipi imposti dalle continue pubblici-tà non giovano ma anzi contribuiscono a creare un gruppo di soggetti con simili requisiti fisici ma nessuna caratterizzazione individuale.

Rodolfo Colognesi

“Un giorno senza un sorriso è un giorno perso”

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Cleusa De Santi

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Sono passati 17 anni dall’ultima volta in cui mi sono seduta su un divano per guardare una tra-smissione.Una scelta fatta coscientemente e senza nes-sun rimpianto. Da questo ho capito che noi, esseri umani, abbiamo bisogno di ritornare a casa. Forse perchè, in un posto in cui la tecno-logia ha soffocato una quantità incommensura-bile di preziosità umane, i principi più sani della nostra società sono stati sotterrati da valanghe di inutili distrazioni e i veri sentimenti che ci mantenevano uniti vanno via via sparendo nel nulla.

Andiamo al profondo delle cose e restiamo nella superficie di noi stessi. Ci avventuriamo ad esplorare altri pianeti e non conosciamo il nostro mondo interiore. Desideriamo ogni ge-nere di comfort e ignoriamo la ricchezza dei gesti più semplici. Ci sentiamo degli dèi quan-do creiamo ali per attraversare oceani, ma po-che sono le volte che ci sentiamo veramente umani.

Per fortuna l’uomo non riesce a vivere lontano da se stesso per tanto tempo. Non lo sopporta. Lui è stato fatto per vivere centrato nella propria essenza. Tutte le volte che lui si separa dall’asse è come se avvertisse una grande incongruenza. Lui si domanda: ma che cosa voglio io? Dove vado? Cosa faccio? Vado alle Piramidi per sva-garmi???

Questi sono i sintomi più comuni di qualcosa che non va. Ha sempre una voce che lo invita a tornare a casa, in quello spazio dove il silenzio ha un senso e la serenità è il frutto più dolce. Un desiderio infinito, una sete di se stesso. Dopo tanto guardare fuori ha la necessità di uno sguardo per quello che si ha dentro, un ritorno all’interiorità.

E tutto questo riesco ad osservarlo molto più facilmente, non essendo condizionata dalle mi-sere notizie che non hanno altro da darci se non pessimismo e superficialità. Che mi importa la vita degli attori o dei politici quando loro di te non se ne importano? Quan-do stai male o stai bene, se lavori o se sei disoc-cupato, se sei single o divorziato?Non ho tempo da perdere con cose inutili, ma rispetto le opinioni contrarie.

La storia è tante volte ciclica. Quando si per-dono determinati valori antropologici, indi-spensabili per poter continuare la traiettoria dell’umanità, insorgono fattori che vengono per riscattare quello che si è perso.

Cleusa De Santi

Una vita senza TV

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Massimo Fazio

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Al giorno d’oggi ci viene chiesto di...vincere, piacere e funzionare!

Io non credo di vincere spesso,nè di piacere a tutti o di funzionare in ogni occasione...

ma credo di riuscire brillantemente ad essere sempre me stesso...nella speranza che tra i mille errori e le centinaia di cose

che avrei potuto fare meglio...rimanga la possibilità di essereCAPITO e AMATO da qualcuno!

Massimo Fazio

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Alessia Fochesato

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“La vita è come una scatola di cioccolatini!Non sai mai quello che ti capita.”Tom Hanks, Forrest Gump.

E all’improvviso il tuo cuore si dilata a tal punto da collassare! Ti trovi così a ri-vivere nella con-dizione di trapiantato, a fare i conti con i mean-dri inconsci, un po’ scomodi e spesso insicuri, di quel territorio dai confini incerti che sta tra la malattia e la guarigione.

Un affascinante intreccio di sofferenza e alle-gria, di speranza e delusione, di fortuna e vo-lontà, di molta di quella sostanza complessa che compone la materia di cui è fatta la vita degli uomini. Perché un trapianto non è sem-plicemente un’operazione chirurgica, ma un evento complesso in cui un’incredibile quantità di conoscenze, di variabili, di opportunità si in-trecciano in un’unica grande storia che esplora il senso della vita stessa.

Una storia fatta anche di giorni no, di controlli che a volte vanno un po’ così e allora occorre aggiustare il tiro, di sintomi nuovi che ogni tan-to compaiono e a cui bisogna dare una spie-gazione e magari un rimedio, di ansia e paura per un futuro incerto, di quelle 13 pastiglie che ogni giorno mi permettono di essere viva...ma di cui non cambierei una virgola, perché rina-scere ha un sapore speciale, profuma di fresco e di mattina!

E allora…

Cogli l’attimo: “Ieri è storia, domani è un mi-stero, oggi è un dono ed è per questo che si chiama presente”. La vita ci si presenta ogni giorno sotto forma di molteplici opportunità ed è importante imparare a fare le scelte necessa-rie per viverla al meglio.

Sii avventuroso: Esplora, vivi, esponiti alla vita e accogli le nuove sfide. Prendi la strada meno

battuta :la vita vissuta con una giusta dose di avventura è più appassionante!

Ama te stesso: Focalizza la tua attenzione sul-la tua bellezza, interiore ed esteriore, scopri le cose di te che più ami. L’accettazione viene dall’interno.

Trova uno scopo nella vita: Cosa dà significato alla tua vita e per che cosa vale la pena vivere? Una relazione affettiva, il tuo lavoro, una perso-na oppure un’attività che ti appassiona. Decidi tu quale significato vuoi che abbia la tua vita, darti degli obiettivi e agisci a piccoli passi per raggiungerli.

Cerca l’equilibrio. Soffermati a comprendere la notte ed il giorno, l’avanti ed il dietro, il buono ed il cattivo di ogni cosa.

Sii positivo. Concentrati su pensieri positivi e attrarrai cose positive. Non essere troppo seve-ro con te stesso. Parla, pensa e agisci con posi-tività.…il bicchiere è sempre mezzo pieno!

Sii spensierato. Desideri, ossessioni e possesso sono in grado di possederti. Lascia andare le tue compulsività. Prendi la decisione di avere delle semplici necessità quotidiane.

Sii flessibile. Accetta il cambiamento come un fatto positivo e impara a seguire il flusso natu-rale delle cose.

Ispira te stesso. Fai qualcosa che ti sia di ispi-razione, sia che si tratti di assumere un ruolo, sia che si tratti semplicemente di leggere delle citazioni importanti, la vita è migliore quando ci si sente ispirati, soprattutto da sé stessi.

Non dare niente per scontato. Apprezza ogni cosa e ogni persona che ti circonda

Non lasciare che il senso del possesso controlli

Ricucire la vita

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la tua vita. Non permettere che sia la tecnolo-gia, i vestiti, o una macchina a decidere chi tu sia. Le cose materiali non sono che accessori di te e della tua vita, tu vieni prima di tutto.

Non ti arrendere. Non accettare una sconfitta, anche se farlo ti può sembrare l’unica opzione possibile.

Non smettere di imparare. Non importa quale sia la situazione che stai affrontando, concen-trati sempre su quello che puoi imparare dall’e-sperienza che stai vivendo, pensa a come puoi evolvere e a che cosa puoi fare per affrontare al meglio e con più efficacia il futuro.

Sii Felice.

La felicità è sempre una scelta.

La sofferenza non deriva mai da condizioni esterne, soffriamo sempre a causa del significa-to che attribuiamo alle cose, l’infelicità deriva solo dai nostri pensieri.

Oggi guardo la mia cicatrice,cerco di immaginarti tutto,

i tuoi sogni, le tue amicizie,

i tuoi progetti per il futuroQuel futuro che hai donato a me

e che posso leggere negli occhi di mio figlio

Al mio angelo

Alessia Fochesato

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Giorgio Ghiotto

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Immagina di volare sopra una variopinta mon-golfiera.Il vento ti porta di qua e di là e la tua mongol-fiera ti permette di oltrepassare vallate, di sca-valcare montagne e di graffiare il cielo. Ora, però, immagina che la tua mongolfiera stia attraversando una pianura; una bellissima ed estesa pianura. Dall’alto sembra una variopinta distesa colorata e assomiglia alla tavolozza di qualche strano pittore. Il giallo dei campi di girasole e il verde dei pascoli dominano sugli altri colori e le casette sembrano tanti buffi fun-ghetti. Sembra che tutto intorno aleggi pace e serenità. Qui tutto è bello e rigoglioso fino ai piedi di una collina; al di là il panorama cambia completamente. Si estende un’altra pianura molto più brulla e triste. Qui niente è rigoglio-so. La terra è spazzata da gelidi venti d’inverno, taglienti come lame d’acciaio e d’estate il sole picchia così intensamente da non aver pietà né per gli uomini né per gli animali.Ogni giorno, gli uomini lavorano duramente per coltivare questa terra arida, al fine di pro-durre un magro raccolto e gli animali lottano e soffrono per la costante ricerca di cibo. E mentre, oltre la collina, vige il benessere e la serenità, in questo desolato lembo di terra, non c’è spazio per la benevolenza e la dolcez-za. Qui, tutti sono accumunati dallo stesso de-stino; le loro vite si incrociano ogni giorno con un unico scopo in comune: sopravvivere.Proprio qui si svolge la nostra storia.Una mattina, di buon ora, quando il sole co-minciava a risvegliarsi, il contadino iniziò la sua dura giornata di lavoro sul suo campo posto ai

margini della collina. Senza grosse speranze, abituato da troppo tempo a raccogliere ben poco da questa magra terra, incominciò a dis-sodare il terreno, combattendo duramente per spezzettare le dure zolle. Il sole era già alto nel cielo e il caldo era insopportabile, ma il con-tadino continuò il suo lavoro e, spargendo i chicchi di qua e di là nel suo campo, completò anche la semina. Poi, finalmente, quando il sole incominciava a tramontare, completò la sua fa-tica, portando l’acqua per irrigare la terra. La fatica era stata tanta, anche perché i pochi ruscelli presenti in questa parte di pianura era-no poveri di acqua ed erano lontani. “Questa è una terra maledetta. Tanta fatica per racco-gliere pochi frutti”, pensò tra sé il contadino, asciugandosi la fronte carica di sudore. Invidia-va profondamente i contadini che vivevano fe-licemente al di là della collina e che potevano contare su una terra fertile e ricca di tutto. Era giunto il momento di tornare a casa e gua-dagnarsi il giusto riposo e, mentre si stava in-camminando, diede un ultimo sguardo verso il suo campo, cercando un po’ di soddisfazione.E rimase esterrefatto! Un gruppo di cornacchie era atterrato sul suo campo e, gracchiando allegramente, stava ban-chettando mangiando i semi appena gettati. “ Oh, no! Andate via, bestiacce !”, urlò il conta-dino. Ma le cornacchie rimasero lì, imperterrite. Allora il povero contadino corse verso il campo e iniziò a sbracciarsi ed a urlare ancora più forte verso di loro con l’intento di spaventarle. Ma quelle, però, senza grande sforzo, si facevano beffe di lui, spostandosi da una parte all’altra

Il seme e la formica

Cari lettori, mi presento per la prima volta , portando una favola che ho scritto qualche anno fa e che , dopo aver partecipato digni-tosamente ad un concorso a tema, ha emo-zionato e divertito grandi e bambini in diverse interpretazioni animate .Rispetto ad altre favole, dal contenuto e titolo molto simili, questa è “ originale” per due mo-

tivi: il primo è dato dall’ispirazione che mi è ar-rivata attraverso lo studio di una leva articolare del Quinna (un arte marziale cinese) che si chia-ma” la pianta che cresce”; il secondo motivo perché i personaggi principale di questa favola non sono due, ma tre. Il terzo è un personaggio duro e silenzioso ma fondamentale. Siete cu-riosi di sapere chi è? Allora…buona lettura….

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del campo, senza nessuna paura. Il povero con-tadino, rincorrendo le cornacchie, urlò in con-tinuazione :“Andate via! Mi state rovinando il campo. Andate a mangiare al di là della collina! Per colpa vostra il mio lavoro è rovinato, ma-ledette bestiacce!”. Ma le cornacchie avevano un cuore piccolo e una pancia grande da riem-pire e continuarono tranquillamente a beccare sul campo seminato. Allora, il contadino si infuriò e, ormai fuori di sé, cominciò a lanciare delle pietre e dei sassi contro gli uccelli. Ormai era diventato un cam-po di battaglia e l’unica cosa che si vedeva vo-lare non erano le cornacchie ma solo dei grossi sassi.Uno di questi, cadendo, rotolò nel campo e andò a finire proprio sopra uno dei semi che poco generosamente le cornacchie avevano ri-sparmiato alla loro fame. Così, alla fine, le cornacchie, scocciate ma sa-zie, si alzarono in volo e se ne andarono. Il contadino continuò a inveire contro di loro e, grattandosi la testa come per cercare ispirazio-ne, cercò di quantificare i danni che i maledetti pennuti avevano provocato. Infine sconsolata-mente se ne tornò a casa. E un sasso, un comune sasso come milioni di altri, se ne stava ben accovacciato sopra a un piccolo seme.Come le cornacchie, così anche gli altri animali soffrivano la fame, in questa triste pianura al di là della collina.In particolare, le formiche: organizzate come un piccolo esercito in miniatura, procedevano nella loro frenetica ricerca di cibo, anche sot-toterra.Così una piccola formichina, allontanatasi dal suo gruppo, vagando tra una zolla e l’altra, si accorse del seme prigioniero del grosso sasso.“Finalmente!”, esclamò. “Dopo tanto cammi-nare ho trovato qualcosa di buono da portare al formicaio”. Si avvicinò ad esso e, con tutte le proprie forze, tentò di estrarlo ma non ci riuscì. Provò allora a spostare il sasso. Macché! Quel-la strana pietra, era troppo pesante e impediva alla formichina di sfilare il seme. “ Come pos-so fare?”, si chiese tra sé e sé. “Potrei chiedere aiuto alle mie compagne. Eh, sì. E’ l’unica solu-zione. L’unione fa la forza…”. Poi rifletté un at-timo dubbiosa: “E se poi, mentre io mi assento,

qualcun altro ne approfitta e mi ruba il seme?” Rimase così, indecisa sul da farsi, pensando nervosamente alla soluzione migliore per por-tare il seme al formicaio, quando ad un tratto: “Idea! Potrei tagliare il seme in tanti piccoli pezzi. Sicuramente mi sarà più facile trasportar-lo. Giusto! Farò così!”.Si avvicinò di nuovo al piccolo seme e, mentre stava mettendo in movimento le sue potenti mascelle, una voce attirò la sua attenzione: “ Ferma! Non farlo, ti prego”.La formichina si arrestò immediatamente e dis-se: ”Ma chi è che parla?”“Sono io”, aggiunse preoccupato il seme. “Ti prego non farlo!”.“E perché non dovrei farlo?”, ribatté la formi-china. “Perché se tu mi spezzerai, io morirò e così non saprò mai cosa significa germogliare”, disse ansimando il seme. La formichina ci pensò e gli disse: “Ebbene, cosa porterò al formicaio? E’ tutto il giorno che vago senza aver trovato nulla. Se non porto niente, mi prenderanno in giro e mi tratteranno male. Già si comportano così per il fatto che sono la più piccola di tutte. Prova te al mio po-sto”. E il seme allora: “Al tuo posto? Guarda come sono messo io: prigioniero di un sasso e a discutere con una testarda formica”. Discussero a lungo e alla fine la formichina, vo-lendo concludere questa strana conversazione, disse: “ Sei destinato a soccombere. Questo sasso impedirà all’acqua di dissetarti. Inoltre, la poca terra che ti ricopre non potrà proteg-gerti dal freddo. Quasi, quasi, ti faccio un favo-re! E poi devo portare qualcosa al formicaio”. “Aspetta!”, urlò il seme. “ Se mi aiuti farò in modo che tu abbia tanti semi da portare al tuo formicaio. Tutte le tue compagne rimarranno stupite. Nessuno ti prenderà più in giro.” “E come?”, disse incredula la formichina.Il seme aggiunse: “Se tu mi aiuterai e mi pro-teggerai, io potrò germogliare; il mio germo-glio diverrà una piantina che irrobustendosi darà vita a tante spighe dorate, da cui nasce-ranno tanti e tanti nuovi semi…”Ma come farai a germogliare, con quella pietra pesante che ti sta sopra? Ti impedirà di cresce-re”, obbiettò confusa la formichina.“Insieme, con il tuo aiuto, ce la faremo”, rispo-

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se il seme. “Ci stai?”Alla formichina tutto ciò sembrava pazzesco, ma decise di non andare via, e tra sé pensò: “ Ormai sono stanca ed è troppo tardi per tor-nare al formicaio. Stanotte rimarrò qui e mi ri-poserò vicino a questo seme. Domani avrò più forza e riuscirò ad estrarlo da sotto il sasso”. E così concluse con un: “..Domani vedremo..”, che convinse davvero poco il povero seme.Durante la notte, però, cominciò a sferzare su tutta la pianura un terribile vento freddo pro-veniente dal Nord. Allora il seme cominciò a gemere: “Formichina, presto! Proteggimi! Ho tanto freddo! Questo vento freddo mi sta fa-cendo soffrire”. Allora la formichina si destò e corse a recuperare ciò che poteva per proteg-gere il seme. Raccolse delle foglie e dei pic-coli steli e li avvolse attorno al seme come se fosse una piccola copertina di lana; inoltre gli sistemò un po’ di terra attorno, affinché fosse maggiormente protetto. Ma il suo lavoro non si limitò a questo. Infatti, fu costretta a recuperar-ne ancora anche nei giorni successivi. Sì, perché il vento durò ancora per giorni e giorni. E non solo era un vento molto freddo ma era anche dispettoso: ogni volta faceva vo-lar via tutta la protezione attorno al seme. Così, ogni volta, la formichina doveva ricominciare tutto da capo, correndo su e giù per le zolle, per recuperare altre foglie e altri steli.Il vento cessò ma arrivò un caldo insopportabi-le. “Formichina…formichina”, ansimò il seme. “Ho tanta sete! Se non vengo dissetato non sopravvivrò!”.Allora la formichina camminò a lungo per cer-care acqua e, dopo averla trovata, la raccolse con una piccola foglia e la portò al seme. Ma l’acqua non bastava mai e il caldo si faceva sempre più pesante e così la povera formichina dovette più volte andare a cercarne dell’altra. Poi, senza tregua, arrivò la pioggia. E ne arrivò davvero tanta. Troppa! “ Formichina… Formichina… Aiutami!”, urlò il seme. “La pioggia sta portando via la poca terra che ricopre il mio guscio. Se continua così rimarrò inzuppato e marcirò”. E ancora una vol-ta, sull’attenti come un vero soldatino, la formi-china provvide a sistemare il terriccio ai fianchi del seme e, se pur fradicia di pioggia, continuò incessantemente il lavoro di riparazione. Era

abile in questo: lo aveva imparato al formicaio dove spesso la pioggia danneggiava le pareti. L’unico a non preoccuparsi di quello che gli succedeva intorno era il sasso che impietosa-mente rimaneva impassibile e fermo sopra il povero seme.Il tempo era veramente inclemente su questa terra e se ne rese conto anche la povera formi-china, che non aveva mai avuto un momento di pace. Inoltre, per restare vicina al seme non era più rientrata al formicaio. E alla sera era ve-ramente triste e malinconica. Pensava al suo formicaio e alle sue compagne che, anche se la prendevano in giro, rappresentavano sempre la sua famiglia. Così il seme cercava di confor-tarla: “ Su, non essere triste. Vedrai! Quando crescerò, sarai l’orgoglio di tutte le formiche. Non dovrete più affannarvi per cercare cibo. E questo grazie a te!”Chiacchieravano spesso per far passare il tem-po. La formichina raccontava del suo passato; il seme, invece, descriveva quello che immagi-nava per il suo futuro; mentre il presente di en-trambi era formato dalla loro sempre più forte amicizia. Più forte anche delle avversità che col-pivano senza pietà quel desolato lembo di ter-ra. Ogni volta bisognava ricominciare da capo: un giorno, il vento e la tempesta spazzavano via tutto; poi arrivava la siccità e poi di nuovo la pioggia. La formichina lavorò così incessantemente per proteggere il seme che quasi non si accorse che era già spuntato su di esso un piccolo ger-moglio verde. Pensò tra sé: “E’ nato un piccolo germoglio. Il seme aveva ragione. Ma non so-pravvivrà per colpa di quel sasso posto sopra di lui. Comunque ho promesso al mio amico seme che lo aiuterò”, e continuò costantemen-te il suo lavoro.Un bel giorno, però, la formichina, era talmen-te stanca che non si svegliò. Rimase accucciata nella sua tana sotterranea, che si era costruita a fianco del seme, e dormì a lungo, per tanto tempo, ininterrottamente. Aveva lavorato trop-po e ora era esausta. Dormì profondamente e sognò. Sognò di vivere su una pianura bel-lissima e verdeggiante e di essere avvolta da tanti piccoli semi. E sognò anche che tutte le formiche erano allegre perché non avevano più bisogno di affannarsi alla ricerca di cibo. E tutte

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la rispettavano. Ma improvvisamente il sogno svanì.La formichina si svegliò bruscamente come se qualcosa la disturbasse: infatti un raggio di sole la stava abbagliando. “Che strano” pensò, “Cosa ci fa il sole sotto-terra?” Si guardò intorno e notò che il sole penetrava attraverso uno squarcio sul soffitto della tana e che il sasso non c’era più. “Caspita! Devo dirlo al seme”. Ma il seme era sparito. Al suo posto c’era un groviglio di radici ancorate al terreno. “Oh, no!”, urlò. “Mi hanno rubato il seme… Hanno approfittato del fatto che dormivo e hanno rubato il mio seme”. Ma dalla fessura del soffitto arrivò una voce: “Formichina, sono qui. Sono io”.La formichina uscì, ma non capì da dove veniva la voce. Si guardò intorno e notò che il sasso era capovolto, ma del seme nessuna traccia.“Sono qui, testona. Guarda in su”.La formichina alzò la testa e vide una bellissima piantina sopra di sé. Era incredula. “Hai visto cosa sono diventato? Mentre tu dormivi le mie radici si sono rinforzate e si sono aggrappate al terreno; il mio germoglio è cresciuto e si è for-tificato talmente tanto che ha avuto la forza di spostare il sasso. Lo sforzo è stato così intenso che si è spostata anche la terra attorno a me, tanto da creare un piccolo buco da dove riesce a penetrare anche il sole. Incredibile, vero? Or-mai quel sasso che mi ostacolava è diventato una piccola, insignificante, cosa. E tutto grazie a te e alla tua tenacia! Grazie piccola grande formichina! Grazie amica mia!”.E così arrivò il giorno in cui il contadino, scon-solatamente, andò a visionare il magro raccolto

del suo campo. Quel poco, che era riuscito a sopravvivere, era veramente scarso. Si guardò attorno e, ad un certo punto, qualcosa attirò la sua attenzione: tra le poche sparute piantine che erano sopravvissute, troneggiava in mezzo al campo una bellissima pianta, carica di spighe dorate. “Ma come è possibile?”, pensò. Così il contadino rimase incredulo in mezzo al campo, grattandosi in continuazione la testa, nel vano tentativo di capirci qualcosa.Le cornacchie, dall’alto, videro che c’era poco da sgranocchiare su quel campo e decisero di seguire il vecchio consiglio del contadino e di emigrare nella parte migliore della pianura, ol-tre la collina.La piantina ormai si era già dimenticata di es-sere stata un seme prigioniero di un antipatico sasso. Aggrappata ad essa c’era la formichina che dall’alto si stava godendo il magnifico pa-norama, all’ombra di tante spighe dorate cari-che di nuovi semi.Ora, dopo tanta fatica, poteva gustarsi il meri-tato riposo, aspettando di dividere la soddisfa-zione assieme a tutte le altre formiche. E il sasso? Il sasso è ancora lì, immobile e capo-volto. E’ il testimone silenzioso dell’incredibile grande amicizia tra un seme e una formica. Ora, dopo aver ascoltato questa storia, se ve-drai un piccolo germoglio sbucare da sotto qualche sasso, fai attenzione a non spostarlo! Potresti svegliare una piccola formichina che sta riposando beatamente accanto al suo seme.

Giorgio Ghiotto Marzo 2010

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Il povero vecchio cuore di don Giuseppe non resse allo spavento. Con le mani sul petto sci-volò a terra e, senza emettere un gemito, spirò. Ettore rimase stordito. Non voleva spaventarlo ma solo, a modo suo, convincerlo ad ospitarlo per la notte. Nient’altro. E adesso? Era un contrabbandiere non un assassino. Al mattino, durante uno scontro a fuoco, aveva ferito gravemente un guardia di confine e ora lo stavano braccando. Oltretutto il suo zaino era pieno di quasi quaranta chi-logrammi di puro hashish, senza considerare poi che altra mercanzia, costituita da armi ed esplosivo, era nascosta in alcuni anfratti poco lontani. Nessuno, poi, avrebbe creduto alla morte per spavento del vecchio parroco. Rapidamente, nascose la pistola e lo zaino. Poi prese il cadavere e lo distese sul letto. Rovistò tra le misere cose del prelato e d’istinto decise di indossare una vecchia tonaca. Fece appena in tempo a sistemarsi il colletto che , all’improv-viso, sentì picchiettare il vetro della finestra del cucinino. “ E adesso chi sarà”: pensò con terrore. Si av-vicinò alla finestra lentamente e appena l’aprì, si trovò davanti una gavetta fumante che ema-nava profumo di stufato. Una mano avvizzita spostò la gavetta e sbucò fuori la testa di una ricurva vecchia signora. “E tu chi sei?”: disse freddamente, allungando il collo rugoso verso l’interno della stanza, tan-to da sembrare una testuggine quando spunta fuori dal suo guscio per curiosare. Ettore preso alla sprovvista, si immedesimò subito nella par-te e quasi bisbigliando, rispose: “ sono…sono un prete”. “Questo l’avevo capito! Sono vecchia ma non sono scema. E immagino che il prete abbia an-che un nome, vero? “Il nome! Il nome! Non aveva avuto il tempo di pensarci. Usare Don Ettore era troppo perico-loso. Ebbe l’ispirazione puntando l’occhio su di un ramo fiorito che intravedeva dalla fine-stra. “ Mi chiamo… don Gelsomino.”

“ Don Gelsomino, tanto piacere. Io sono Ro-sina e basta”: ribatté la donna. E indicando la gavetta: “Qui c’è la cena, ma basta solo per don Giuseppe”“Si, appunto… don Giuseppe ha avuto un ma-lore…”: balbettò don Gelsomino. La Rosina vide il corpo esanime del vecchio parroco e non si sbilanciò più di tanto. Disse solo: “e anche don Giuseppe non è più dei nostri. Lo seppelliremo domani.“ Don Gelsomino preoccupato avvertì di non aver mai celebrato un funerale. Ma Rosina lo tranquillizzò: “questo non è un problema . Ulti-mamente Don Giuseppe si muoveva poco, era diventato sordo e non parlava più. Chi credete lo aiutasse a celebrare messa? E comunque, vi-sto che siete nuovo, ricordatevi che io porto la gavetta due volte al giorno alla stessa ora e lavo la biancheria due volte la alla settimana. Regolatevi. “ E senza salutare, se ne andò.Il sospetto e la freddezza della Rosina non devono trarre in inganno: rappresentavano in modo perfetto il pensiero comune della gente del posto rispetto a tutto ciò che era estraneo a questo piccolo posto ameno chiamato Monte-marcio. Il progresso si era dimenticato di passa-re per di qua: niente telefono; niente luce elet-trica; niente TV. Tutto era scandito da ritmi del passato e solo un piccolo sentiero collegava Montemarcio alla cosiddetta civiltà. Da tempo i giovani lo avevano abbandonato per andare a lavorare lontano e i trecento abitanti rimasti, vecchi e un po’ acciaccati, ma con uno spirito ed una dignità temprata da anni di sacrifici, si arrangiavano vicendevolmente come una co-munità organizzata. Ognuno faceva qualcosa per il prossimo senza chiedere nulla in cambio. E a dirigere il tutto, come un comandante mili-tare, c’era sempre la Rosina. La leggenda narrava che Monte Marcio fosse sorto sulla sommità di un vulcano spento, forse perché era sempre avvolto da un nebbiolina tutto il tempo dell’anno. In ogni caso sembra-va proprio un posto dimenticato dal mondo.

Il gelsomino di Montemarcio

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Ma questo non importava a nessuno, tanto che il motto di questo paese era: “se il mondo non voleva Montemarcio, Montemarcio poteva fare a meno del mondo”. Le origini di questo paese erano le ultime pre-occupazioni per Ettore, ora alias don Gelsomi-no. “Resterò qui qualche giorno, finché si quie-tano le acque, e poi fuggirò lontano”: pensò tra sé. Il giorno dopo tutti vennero a dare l’ultimo sa-luto a don Giuseppe. La mesta cerimonia fu molto rapida. Tonio dell’Acero, il falegname del paese, che era anche il custode di tutte le bare già pronte per ogni Montemarcese, por-tò quella destinata a Don Giuseppe nel centro della chiesa. Poi ci misero la salma, chiusero il coperchio e Don Gelsomino, coadiuvato dalla Rosina, fece una breve e impacciata cerimonia funebre che terminò con la Rosina, che scuo-tendo la testa bisbiglio un po’ più forte: “ Con la mano destra, Don Gelsomino…con la mano destra si fa il segno della croce. …” Don Gelsomino non aveva mai faticato così tanto in vita sua, ma nessuno se ne avvide e se anche fosse successo, a nessuno questo impor-tava. Salutarono Don Giuseppe e lo seppelliro-no nel piccolo cimitero dietro il sagrato. E poi ognuno, silenziosamente, continuò a occuparsi delle attività quotidiane. Mentre don Gelsomino si stava togliendo i pa-ramenti in sacrestia, comparvero davanti a sé due carabinieri. Rimase immobile come para-lizzato. “Comandi. Sono il maresciallo Ciro Cartapece e questi è l’appuntato Salvatore Trapani. Il par-roco suppongo”.” Don Gelsomino, immobile, annuì. “Reverendo. A seguito di fatti molto gravi ve-rificatesi nei pressi di Monte Marcio, abbiamo l’ordine di creare un avamposto, per cui, in at-tesa venga predisposta una caserma, ci stabi-liremo in questo paese. Faccia sapere ai suoi parrocchiani che d’ora in poi saranno protetti da ogni minaccia ma devono collaborare con le Autorità, qualora dovessero avvertire movi-menti e fatti ritenuti sospetti”. La situazione si stava facendo pesante. Dopo una rapida riflessione decise di seppellire la pi-stola nell’orto e di bruciare tutto l’hashish nel caminetto. Infatti, quando calò la sera, buttò lo

zaino nel fuoco ma, sventura volle che la bassa pressione fosse in vena di scherzi. Così il co-mignolo vomitò il pesante fumaccio nero che, scivolando lungo il tetto, cadde in strada e si incanalò in ogni vicolo. La gente uscì e, pen-sando che la chiesa stesse bruciando, si riversò in strada lasciandosi avvolgere dal fumo e dai suoi effetti. Quando don Gelsomino si accorse del guaio era troppo tardi: iniziò una baldoria mai vista. Balli, canti, bevute. Perfino il mare-sciallo si unì alla festa e tutti vi parteciparono sino notte fonda. Alcuni dissero di aver visto ballare perfino la Nunzia che da dieci anni or-mai non camminava più . Tonio dell’Acero, con in testa un berretto da carabiniere, scorse Don Gelsomino alla finestra e alzando il bicchiere in-vitò tutti a fargli un brindisi: “Don Gelsomino. Il tuo arrivo è una benedizione”.Nessuno ricordava una festa così meravigliosa. Fu da quella sera che si fece strada l’idea che il nuovo parroco avesse dei poteri speciali.Don Gelsomino si sentì in trappola. Passarono i giorni, le settimane e i muri della vecchia chiesa gli sembravano quelli di una prigione. Mentre camminava nervosamente avanti e indietro, rimase colpito dalla raffigurazione di Gesù in croce con accanto i due ladroni. Avvertiva qual-cosa di famigliare in questo, e voleva capire perché. Aveva molto tempo a disposizione e, nell’attesa del momento propizio per la fuga, cominciò a dedicarsi alla lettura dei testi sacri. Dapprima con un po’ di distacco e poi con sempre più intensità e convinzione. E fu una riscoperta. Amore, speranza, carità, perdono. Non c’era traccia del Dio punitore che gli era stato imposto a suon di bacchettate sulle mani quando era in riformatorio. Gesù aveva un vol-to nuovo. Cominciò a vedere le cose in modo diverso e promise che, se sarebbe riuscito a scappare, avrebbe cambiato vita. Trascorreva le sue giornate meditando, aiutando la gente di Montemarcio e prendendo il quotidiano caf-fè con il maresciallo. E quest’ultima abitudine era importante perché così si teneva aggior-nato sulle indagini che potevano coinvolgerlo. E infatti un giorno, venne a sapere dal Carta-pece che era in corso un massiccio rastrella-mento alla ricerca di depositi d’armi intorno a Montemarcio. Non c’era più tempo da perde-re. Rischiava di essere smascherato.

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La notte stessa Don Gelsomino lavorò senza soste per recuperare l’esplosivo e le armi che aveva nascosto. Mise tutto in un unico anfratto lontano dal paese con l’intento di far sparire ogni traccia dell’arsenale facendolo esplodere. Cominciava già ad albeggiare, e mentre si sta-va allontanando, dopo aver acceso la miccia, improvvisamente si trovò di fronte a Radi, il pastore, che sorpreso disse: “Don Gelsomino, cosa fai qui a quest’ora?” Don Gelsomino, molto agitato, rispose: “…sta-vo pregando…vieni via ora”. Fece appena in tempo a strattonarlo lontano, che un enorme botto fece sobbalzare entrambi . La terra cominciò a tremare per qualche lun-ghissimo attimo e poi, nel punto dello scoppio , uscì una colonna di acqua calda alta una venti-na di metri. E si innalzò al cielo, per giorni, set-timane, mesi. I geologi, avvalendosi di appro-fonditi studi e non certo a leggende popolari, non avevano dubbi: era pura acqua termale proveniente da un’antica fonte sotterranea di origine vulcanica che aveva deciso di scaturire in superficie spontaneamente, per puro caso. Ma per gli abitanti di Montemarcio non c’era alcun dubbio: era tutto merito delle preghie-re del loro don Gelsomino. E riguardo al meri-to avevano proprio ragione. E così si strinsero ancor di più al loro parroco, facendogli svanire ogni velleità di fuga, che giorno per giorno an-dava via, via sfumando.Negli anni successivi, attorno alla colonna d’ac-qua nacquero alberghi, terme, centri estetici. Sorse un’autentica cittadina dal nulla, che pre-se il nome di Monte Sole, ritenuto più adatto per una stazione turistico termale, rispetto a Monte Marcio, anche se quest’ultimo vantava pieni diritti territoriali. Fu l’ennesimo smacco da parte del mondo nei confronti dei paesani di Don Gelsomino. Ma i Montemarcesi tiraro-no dritto per la loro strada, con il solito orgo-glio e dignità.Erano già passati una decina d’anni: Monte Sole era diventata una ricercata località turisti-ca mentre Montemarcio era sempre la stessa anche se gli abitanti erano diminuiti. Rosetta, Rodi, Tonio e molti amici se ne erano anda-ti, ma non lo spirito che aveva alimentato da sempre questa piccola comunità, che gravitava attorno alla figura dell’ormai mitico don Gelso-

mino. Anche la Curia cominciò ad interessarsi, con discrezione, alla figura di questo parroco e, con l’efficacia del miglior servizio segreto, giunse a risultati sorprendenti.Un giorno, come tanti, don Gelsomino stava pranzando in canonica quando udì picchiettare il vetro della finestra del cucinino. Ebbe un sus-sulto. “ La Rosina?! Non è possibile”. Aprì ma ebbe un’altra sorpresa. Era il maresciallo Car-tapece, con a fianco l’appuntato armato di mi-traglietta. Don Gelsomino sorridendo, esordì:” caro maresciallo, per un attimo pensavo fosse la Rosina e…” Ma il maresciallo, cupo in volto, lo interruppe: “don Gelsomino, purtroppo…..insomma…..siamo qui per arrestare Ettore Puricelli. Può convincerlo ad uscire senza fare resistenza, per favore?” Don Gelsomino rimase un attimo in silenzio e poi rispose: “ Ho capito. Ora esco.” Era un bellissima giornata e i gelsomini incor-niciavano la primavera. Era proprio il giorno in cui Ettore salutò don Gelsomino e tutta la sua Montemarcio.

Giorgio Ghiotto Aprile 2013

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Tratto da una storiarealmente accaduta…a me!

“Chissà che bel panorama, si vedrà da lassù in cima”, pensò Robertino mentre incantato os-servava l’imponente quercia situata nel cortile della scuola. Dal suo banco, a fianco della fine-stra, può vedere ogni cosa e fantasticare libera-mente quando si annoia.Ma la quercia è la cosa che più lo attrae: gran-diosa! Il fatto è che Robertino si annoia spesso quan-do è in classe e spesso si distrae. Di questo se ne è accorta anche la maestra che è costretta a rimproverarlo perché ha sempre la testa fra le nuvole. “Se non stai più attento, domani ti cambio di posto, Robertino!” sentenziò la ma-estra, mentre gli porgeva il foglio con il compi-to in classe.L’esercitazione di quel giorno era alquanto in-solita: un cruciverba composto da tante righe orizzontali, su cui bisognava scrivere le rispo-ste e, se erano giuste, la soluzione del compito compariva sull’unica colonna verticale, inca-strata al centro del cruciverba. “Devo stare più attento. Non voglio che mi cambi di posto. Rischio di andare vicino all’ar-madietto! Concentrati! Pensa al compito”, ri-fletté Robertino, tra sé e sé.Ma il compito era talmente noioso! “Due orizzontale (sei lettere): Imperatore ro-mano di nome Giulio? Mmm… La risposta è Cesare. Ma un imperatore con questo nome è troppo austero”, pensò Robertino. “Oggi ho deciso di cambiare: si chiamerà PISOLO”, e scrivendo questa parola pensò: “Giulio Pisolo, l’imperatore romano più simpatico, anche delle lezioni di Storia e… Buon riposo! Ah! ah! Ah!”“Cinque orizzontale (quattro lettere): Può esse-re viziata… Sicuramente l’aria! Ma è più viziata Anna, la mia compagna di banco”. E scrivendo ANNA, aggiunse: “ed è pure una smorfiosa”.“Sette orizzontale (sette lettere): “l’erba delle sigarette…Beh! La risposta giusta è tabacco!

Ma lo sanno tutti che le sigarette fanno male, per cui scriverò DANNOSA” e riportandolo pensò: “E’ proprio un erba dannosa per la sa-lute. Altroché!”“Otto orizzontale (quattro lettere): il suono del-la campanella... Dovrei scrivere drin”, rifletté Robertino, “Ma se il suono segnala la fine delle lezioni, la risposta giusta è URRÁ!” E lascian-do sfogare la fantasia, interpretò le domande in piena libertà, scrivendo quello che più gli piaceva.La noia scomparve e il divertimento aumentò, ma la colonnina verticale, che avrebbe dovuto rappresentare la soluzione del compito, era diventata un guazzabuglio incomprensibile di lettere.Robertino provò a leggere quello che la colon-nina riportava: “LOMINOSAPUSZITE….Uhm! E che cosa vuol dire?”. Rilesse attentamente e soddisfatto esclamò: Ah, ecco! L’OMINO SA-PUSZITE!”Improvvisamente, come per magia, dal cruci-verba uscirono tutte le lettere dell’alfabeto e si materializzò, davanti a lui, un buffo personaggio completamente costituito da lettere: la “O” era la testa; le gambe erano formate da un paio di “L”; le braccia erano due “I”, alle cui estremità erano attaccate un paio di “E”, che fungevano da inconsuete manine; il corpo era tutto un in-treccio di lettere dell’alfabeto maiuscole e mi-nuscole. Gli occhi, poi, erano racchiusi da uno strano paio di occhiali, composto da una “B” a rovescio. Infine, una “C”capovolta chiudeva l’espressione del viso con un simpatico sorriso.“Mi hai chiamato e sono qua. Sono L’OMINO SAPUSZITE!”, si presentò lo strano personag-gio.Robertino rimase ammutolito e l’Omino allora aggiunse, indicando la finestra: “Ti va se andia-mo sopra quella magnifica quercia?” “Sì!”, ri-spose, senza esitare, Robertino, che già nutriva una forte simpatia per il nuovo arrivato. Usciro-no senza che nessuno se ne accorgesse e anda-rono in cortile.

L’omino sapuszite(fiaba partecipante Premio Andersen 2010)

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La quercia era alta, allora l’Omino Sapuszite estrasse una “A” dal suo corpo, l’allungo e la trasformò in una scala, appoggiandola al tron-co dell’albero.“Che buffa scala con un solo piolo!” ridacchiò Robertino.Salirono fino in cima e Robertino vide uno spet-tacolo grandioso: le colline da una parte e le montagne dall’altra; e in mezzo, il mare.”Non ci sono mai stato al mare”, sospirò il bim-bo.“Andiamoci subito, allora!”,sentenziò allegra-mente l’Omino. Prese per una mano Robertino, mentre con l’al-tra si tappò il naso e gonfiò la “O”, che aveva per testa, fino a farla diventare un pallone ae-rostatico e si misero a volare. L’Omino Sapuszi-te e Robertino in volo verso il mare! Che strana coppia!Appena giunsero sulla spiaggia, l’Omino trasse un profondo respiro e si sgonfiò, ma Robertino non se ne accorse perché era felicemente di-stratto da tutto ciò che lo circondava: la sabbia, le onde, il rumore del mare.“Vuoi che ci imbarchiamo?”, domandò allegra-mente l’Omino Sapuszite.“E come?”, chiese dubbioso Robertino. “Presto detto e presto fatto!”, e così dicendo, l’Omino estrasse dal suo buffo corpicino la let-tera “V”, l’allungò, la ingrandì e ci mise sopra una grande “I”.“Questo e il ponte della nave”, disse sorriden-do l’Omino.Poi ci attaccò sopra una “T”, trasformandola nell’albero maestro della nave, a cui assicurò una bella vela, usando la lettera “D”. Mise il tutto in acqua e invitò Robertino ad im-barcarsi.”Prego capitano, si accomodi”.E così, quella strana imbarcazione, solcando le onde, puntò al largo e si diresse verso l’oriz-zonte. Il vento gonfiava la buffa vela e la simpatica barchetta navigava magnificamente in mezzo al mare . “Che giornata favolosa. Da non crederci!”, pensò Robertino.La brezza marina gli accarezzava il visetto bir-bo e, mentre era assorto da tutto ciò che gli stava intorno e da tutte le cose fantastiche che

stava vivendo, un leggero torpore lo avvolse. Sdraiato sul ponte della nave si stava quasi ad-dormentando e, quando stava per chiudere gli occhi, gli si presentò di fronte l’Omino Sapuszi-te che gli chiese: “Robertino, che fai? Dormi?”. “Che strano…”,pensò il bambino nel dormive-glia, “ Come mai adesso l’Omino ha la stessa voce della maestra?…” “Insomma, Robertino! Svegliati subito!”Robertino si alzò di scatto, spaventato. Tutto era sparito: la nave; il mare e anche l’Omino Sapuszite; c’era solo il banco, il compito e una maestra adirata che gli stava urlando addosso.“E’ così che fai il compito, vero? Dormendo e scrivendo sciocchezze! Cancella subito e rifà tutto, altrimenti ti metto una bella nota sul dia-rio!E con un “Sí, signora maestra!”, mestamente il povero Robertino, rimise la sua testa sul foglio e cominciò a ripulirlo con la gomma.“Caspita, che spavento! Però è stato un magni-fico sogno!”Poi guardò la grande quercia e, prima di can-cellare la colonna verticale, rileggendola, disse tra sé:“ Arrivederci, Omino Sapuszite. Alla prossima avventura!”

Giorgio Ghiotto

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Alessandra Giannoni

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A Lorenzo, 02 ottobre 2013. “Avrai sorrisi sul tuo viso come ad agosto grilli e stelle storie fotografate dentro un album rilegato in pelle tuoni d’aerei supersonici che fanno alzar la testa e il buio all’alba che si fa d’argento alla finestra avrai un telefono vicino che vuol dire già aspettare schiuma di cavalloni pazzi che s’inseguono nel mare e pantaloni bianchi da tirare fuori che è già estate e un treno per l’America senza fermate. Avrai due lacrime più dolci da seccare un sole che si uccide e pescatori di tellinee neve di montagne e pioggia di colline avrai un legnetto di cremino da succhiare avrai una donna acerba e un giovane dolore viali di foglie in fiamme ad incendiarti il cuore avrai una sedia per posarti e ore vuote come uova di cioccolatoed un amico che ti avrà deluso, tradito e ingannato Avrai avrai avrai il tuo tempo per andar lontano, camminerai dimenticando, ti fermerai sognandoAvrai avrai avrai la stessa mia triste speranza e sentirai di non avere amato mai abbastanzase amore amore avrai Avrai parole nuove da cercare quando viene sera e cento ponti da passare e far suonare la ringhiera, la prima sigaretta che ti fuma in bocca un po’ di tosse Natale di agrifogli e candeline rosse avrai un lavoro da sudare mattini fradici di brividi e rugiada,giochi elettronici e sassi per la strada avrai ricordi ombrelli e chiavi da scordare avrai carezze per parlare con i cani e sarà sempre di domenica domani avrai discorsi chiusi dentro e mani che frugano le tasche della vita ed una radio per sentire che la guerra è finita Avrai avrai avrai il tuo tempo per andar lontano, camminerai dimenticando, ti fermerai sognando Avrai avrai avrai la stessa mia triste speranza e sentirai di non avere amato mai abbastanza se amore amore amore amore avrai se amore amore amore amore avrai “. Mamma e Papa’.

Alessandra Giannoni

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Manuela Gobbi

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Di recente ho visto un film da cui ho imparato che uno dei principali scopi della vita è traman-dare il nostro sapere.Ma da cosa è rappresentato tutto questo? Il sa-pere non è altro che la nostra esperienza, la no-stra volontà di conoscenza arricchita da risultati a volte soddisfacenti ed a volte un po’ meno; è la padronanza di noi stessi, lo sviluppo per-sonale che ci permette di evolvere, di liberarci delle false credenze e di diventare liberi.Amo partecipare a corsi di crescita personale per non fermarmi mai, per essere in continuo progresso perché credo che il contributo di ogni singolo individuo sia fondamentale per apportare un cambiamento.

Solo tramandando il proprio sapere e racco-gliendolo dagli altri sono state realizzate opere straordinarie nella storia. Amo dare un po’ di me nelle amicizie, in fami-glia, nel mondo del lavoro, alle persone che in-contro: mai nulla di splendido è stato realizzato se non da chi ha osato credere che dentro di sé ci fosse qualcosa di più grande delle circo-stanze.

Manuela Gobbi

Il nostro sapere

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Vania Guiotto

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Ebbene sì, sono 11 anni che faccio perte di questa grande FAMIGLIA.

Ringrazio tutti per avermi fatto crescere professionalmente,per essermi stati vicini nei momenti difficili e nei momenti felici e

sopratutto per aver contribuito a rendermi la persona che sono oggi.

GRAZIE

Vania Guiotto

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Oleksandr Hlopina

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Oleksandr Hlopina

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Mattia Mattiello

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Le emozioni sono componenti fondamentali della nostra vita, da esse, sovente, traiamo gli stimoli che muovono le nostre giornate. Sep-pure ogni singola emozione sia importante e permetta a chi la sperimenta di sentirsi vivo, l’uomo è soprattutto alla ricerca di quelle sen-sazioni ed emozioni che lo facciano star bene e lo appaghino, in una parola è alla ricerca di quello stato emotivo di benessere chiamato fe-licità . Quest’ultima è data da un senso di appa-gamento generale e la sua intensità varia a se-conda del numero e della forza delle emozioni positive che un individuo sperimenta. Questo stato di benessere, soprattutto nella sua for-ma più intensa, ovvero la gioia, non solo viene esperito dall’individuo, ma si accompagna da un punto di vista fisiologico, ad una attivazione generalizzata dell’organismo. Molte ricerche mettono in luce come essere felici abbia notevoli ripercussioni positive sul comportamento, sui processi cognitivi, nonché sul benessere generale della persona. Ma chi

sono le persone felici? In questo momento lo sono io, degno di essere partecipe di Clinica Dentale ma soprattutto della vostra vita e di regalarvi un sorriso. Gli studi poi che hanno cercato di rispondere a questa domanda evi-denziano come la felicità non dipenda tanto da variabili anagrafiche come l’età o il sesso, né in misura rilevante dalla bellezza, ricchezza, salute o cultura. Al contrario sembra che le ca-ratteristiche maggiormente associate alla feli-cità siano quelle relative alla personalità quali ad esempio estroversione, fiducia in se stessi, sensazione di controllo sulla propria persona e il proprio futuro. Riassunto dell’esistenza terrena: voi ci regalate felicità con la fiducia e noi attraverso la vostra fiducia vi regaliamo un sorriso indelebile.

Degno di essere partecipe di una squadra come Clinica Dentale...

Mattia Mattiello

Felicità

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Cinzia Pattaro

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Dopo lunghe riflessioni sul nome da dare al nostro cucciolo che all’epoca aveva due mesi, ha predominato il nome Teo, di poche lettere e facile da pronunciare. Il nostro pastore tedesco ora ha due anni e mezzo, pesa 40 kg e quando si appoggia solamente sulle due zampe anteriori e quelle posteriori te le ritrovi addosso, crede-temi che è anche alto! Ovviamente questi sono gesti di affetto, un po’ fastidiosi quando non hai l’abbigliamento adatto! Ogni famiglia che ha un cane, sa quanto ci si affeziona e quanto “di casa” divenga. Il nostro Teo è stato portato a casa molto piccolo, e la prima settimana è sta-ta un andirivieni tra casa e cuccia per consolarlo dal distacco dai propri fratelli. Sembrava vera-mente il pianto di un neonato. Passato il primo periodo di ambientamento è diventato presto il cucciolo di casa: come sta Teo, ha mangia-to, l’hai portato a fare la passeggiata, abbiamo crocchette a sufficienza, erano le frasi ricorrenti. Poi sono subentrati i giochi di addestramento, con i tipici giochi a forma di osso che emettono

il suono: dopo pochi giorni aveva compreso da dove partiva il suono e stanne certo che con i denti lo faceva tacere per sempre! A Natale ho acquistato un gioco che, al momento sem-bra resistere agli azzanni ed è ancora integro: è veramente divertente vederlo scodinzolare at-torno all’osso, azzannarlo e non capire da dove proviene il suono. Nonostante la stazza, è un cane molto affettuoso: è bello quando rientri a casa, vederlo che aspetta te, che scodinzola e dallo specchietto dell’auto vedi che ti segue, fino ad aspettarti che tu esca dall’auto, per rice-vere carezze e coccole.

Cinzia Pattaro

Teo

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Jessica Pozza

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Se noi tutti volgessimo il pensiero al fatto che tutte le donne sono cercatrici d’oro e gli uo-mini dei maschilisti dove potremmo arrivare? Saremmo statici.Si dice che la felicità è l’accettare quello che è. L’uomo felice è quello contento della sua sor-te, ma questo non va confuso in nessun modo, forma o aspetto con l’accettazione passiva del-lo “status quo” o con la rassegnazione.

Una tra le mie passioni è quella di leggere e do-cumentarmi su quello che è la crescita dell’indi-viduo e da ciò’ ne traggo sempre grande bene-ficio personale.Consideriamo sempre che dobbiamo migliora-re in continuazione le nostre relazioni d’amo-re, amicizia, situazione lavorativa, salute e be-nessere psico-fisico e non si tratta di stare ad aspettare che la felicità ci piombi addosso.. an-che perché ciò succederebbe molto di rado e sarebbe poco probabile: si deve imparare l’arte di far accadere le cose.Se ci preoccupiamo per qualcosa che potrebbe succedere, il subconscio ci spingerà nella situa-

zione in cui quella cosa negativa accada; allo stesso modo, se noi creiamo un’idea positiva allora il risultato diverrà tale.

Quest’anno è particolarmente importante per me in quanto sono in procinto di coronare ciò che è il sogno d’amore di me ed Alberto: stu-diandoci in tempi record ciò che è l’universo della bioedilzia tra fiere, architetti, ingegneri, geometri, direttori artistici, arredatrici, notai, famiglie sto maturando ancora di più’ che la componente fondamentale consiste nell’agire e sbloccare tutti i meccanismi per comporre i tasselli che questo cammino luminoso ma in sa-lita ti pone davanti.

Se desideri una cosa, di qualsiasi tipo ed enti-tà devi sentirla nel cuore e nella mente, fare di tutto per perseguirla ed afferrarla. Fa in modo che i tuoi pensieri volgano sempre al positivo. E’ molte volte difficile ma devi riu-scirci, anche questa è una delle mie mete.

Jessica Pozza

Qual’è la tua meta?

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Adriana Serpe

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Tre uomini collaborano assieme per un proget-to comune, ciascuno eseguendo la stessa man-sione degli altri due.

“Cosa state facendo?” fu loro chiesto. Il primo rispose: ”Ammucchio pietre”. Il secondo inve-ce disse: “Costruisco”. Il terzo: “Stiamo edifi-cando una chiesa”.

Dalla risposta di ciascuno risalta un approc-cio differente per svolgere la stessa attività, la vita e ciò che ci circonda. Il primo lavoratore si considera niente più che uno strumento mec-canico, un robot senza sentimento, senza vita. Il secondo appare un professionista. Il terzo at-tribuisce un alto valore, un valore aggiunto, il progetto prende vita.

Con quale dei tre ti identifichi? Ammucchi pie-tre? La tua vita, il tuo lavoro è un peso o un sa-crificio?

Per avere un senso la vita necessita di senti-mento in tutto quel che facciamo, di uno scopo preciso, solo così dettagli quotidiani divente-ranno importanti.

“Chi potrebbe infatti disprezzare il giorno delle piccole cose” (Zaccaria 4:10)

Adriana Serpe

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Irene Sovilla

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Sin dall’età di cinque anni avevo messo da par-te libri di favole e album da colorare per anda-re a frugare nell’anta più alta della scrivania e prendere quel librone grande e grosso di nome “Atlante”.

Lo sfogliavo incuriosita più e più volte, misura-vo le grandezze dei continenti, l’altezza delle montagne e, nonostante sapessi appena leg-gere, conoscevo a memoria le capitali di tutti gli stati del mondo tanto da aver già imparato a sorprendere gli adulti con le classiche doman-de trabocchetto: “Qual è la capitale del Brasi-le?” “Rio de Janeiro”, mi rispondevano in coro, ed io li prendevo in giro dicendo loro: “Brasilia, è così facile!”.

Ora capisco dov’è nata la mia passione di viag-giare.

Sono convinta che non ci sia alcuna ricchez-za al mondo più grande di viaggiare, girare il mondo, conoscere nuove culture, nuove popo-lazioni, nuove religioni così diverse da noi, dal nostro quotidiano, ma allo stesso tempo così simili.

A volte non ci accorgiamo che proprio più in là del nostro naso, c’è un universo da scoprire.Viaggiare apre la mente, fa conoscere nuo-vi orizzonti e ci fa imparare molte più cose di quelle che si studiano sui libri. E quando si ini-zia, si scopre che è così bello, da non poterne più fare a meno.

Ho avuto la fortuna di visitare molti luoghi d’Europa, isole paradisiache nel bel mezzo dell’Oceano Indiano e dei Caraibi, ma nulla mi è rimasto dentro più dell’Africa, terra che mi ha portato a ritornarci più e più volte e della quale desidero spendere due parole.

Già scendendo dall’aereo ci si inoltra in un’au-rea che sembra magica. Il calore che emana questa terra polverosa, questi occhi bianchi

che spiccano sui volti scuri e che scrutano qual-siasi nostro movimento, bambini urlanti e felici che si fanno avanti piano piano per rimediare qualche caramella dai nostri zaini.

E poi i colori, così forti e sgargianti a partire dall’azzurro intenso del mare, al verde smeral-do delle palme, al giallo ocra della savana che dolcemente sfuma nel rosso energico dei tra-monti infuocati.

I silenzi intermittenti della savana, vengono poi interrotti dai versi di branchi di zebre e gazzel-le che gironzolano tranquille qua e là, incon-sapevoli che proprio dietro l’angolo, o meglio, dietro al cespuglio, si nasconde il nemico più acerrimo: il leone.

Poi, basta spostarsi qualche chilometro più in là, nelle vicinanze dei villaggi, per assaporarne tutta la loro essenza tra un brulicare di donne, talvolta pitturate in viso per proteggere la pelle dal sole, intente ad accendere fuochi su cui cu-cinare poveri piatti a base di riso, altre ancora chinate a ricamare magnifici parei colorati con tanto di pizzi e merletti.

Non mancano poi i negozietti pullulanti di pri-mizie a costo zero tra cui banane, ananas, pa-paya; altri ancora con appesi a ridosso della strada pesci di ogni tipo, intervallati a lunghe baguette, il tutto avvolto da un profumo pun-gente di spezie.

Anche gli uomini hanno il loro lento “bel da fare”, intagliando statuine di legno dall’alba al tramonto.

Ma ciò che più riempie il cuore e dove ritorno sempre con grande gioia, sono le scuole, co-struite con sterco di animali, cinque metri per cinque, in grado di ospitare anche cinquanta bambini, urlanti e festosi che ci accolgono con le loro canzoncine locali.

La felicità in un sorriso

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Ne ho visitate diverse, dal Kenya, passando per Zanzibar, al Madagascar e le emozioni che pro-vavo entrando in quei luoghi sono ancora oggi indescrivibili e vivi nella mia memoria.Ricordo i loro disegni, appuntati su piccole la-vagnette, i loro sorrisi e le loro manine che ci circondavano, attendendo ansiosi una penna in dono.

E che dire dei loro occhioni gremiti di felicità e speranza? Non avevano nulla, non avevano quaderni, zainetti e giocattoli eppure erano fe-lici e dispensavano sorrisi ed abbracci sinceri che valevano più di mille parole.

Per cui una delle tante cose che ho imparato viaggiando e che prima purtroppo sottovaluta-vo, è quella di essere grata alla vita, alle perso-ne che incontro, siano esse positive o negati-ve, perché da ciascuna di loro si può attingere qualcosa di costruttivo e soprattutto di donare sempre un sorriso al prossimo, un sorriso vero, proprio come quello dei bambini africani…

Irene Sovilla

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Manola Bertinazzi Jessica Sgreva

Diletta Zecchin Elisa Miottello

Michela Carraro Dr. Alessio Franchina

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L’altra faccia del Team Chirurgico

“ Il nostro non e’ solo lavoro: E’ UNA PASSIONE!!”

La professionalita’ che ci contraddistinguesi unisce alla simpatia e alla sinergia di lavoro che caratterizza il nostro Team,

pertanto la vogliamo condividere con voi!

Eccoci in tutto il nostro splendore:quello che voi solitamente non vedete,

ma che ci rende speciali!!

Manola, Diletta, Elisa, Jessica, Michela

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Giovanna Trivellato

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“Muro muro fa che il mio dentediventi più duro”.

Quando ero piccola,ogni volta che mi cadeva un dentino lo nascondevo in uno dei tanti bu-chini di quel fantastico Muro, vecchio e stan-co, ma tanto magico.Per tre volte di seguito , battendo con la mano sul muro,pronuncianvo a voce alta la frase magica che mi avevano in-segnato mamma, papà, zii e nonni, dicendo: “ Muro muro fa che il mio dente diventi più duro”.Era il muro della casa della Fatina dei Dentini.Il giorno dopo trovavo sotto il cuscino un picco-lo soldino che poi conservavo nella “ musina”, quel magico salvadanaio di un tempo,fred-do,pesante e cigoloso a forma di valigetta di colore metalizzato.Un giorno i dentini non caddero più, ormai erano tutti belli e forti. Ed il muro era sempre là, vecchio e stanco, ma sempre presente…e c’erano sempre i miei dentini. Caspita!!Era pro-prio vero, la Fatina dei Dentini non si era di-menticata di me!!Io crebbi, ma crebbi proprio tanto. Dopo la scuola, iniziai a lavorare in giro per il Mondo

per far divertire la gente che andava in vacan-za.Ed ogni volta che tornavo a casa, il muro era sempre là, con i miei dentini.Quel muro non era solo la casa della Fatina dei Dentini, ma pure del burlone e biricchino Zio Ben, il fratello del mio papà.Purtroppo un gior-no Zio Ben si ammalò e col passare del tempo ci salutò….La sua casa era abbandonata e tutto taceva; pure il muro era ormai solo e cresceva in lui l’er-ba tra i mattoni. Ma i dentini erano sempre là.Quel muro stanco, pieno di erbacce, un giorno mi parlò e per tre volte disse: “Ricostruisci, lei tornerà. Ricostruisci e lei tornerà”.Subito , toc-cando quel muro sporco e umido capii.C’era bisogno di cambiare, di rinascere..Un giorno decisi di usare i soldini della Musi-na e quelli guadagnati lavorando in giro per il Mondo per comperare quel muro e far sì che la Casa della Fatina dei Dentini diventasse la mia Casa dei Sogni.Allora acquistai pure il terreno che stava vicino, buttai giù la casa dello Zio Ben ma conservai ad uno ad uno i mattoni del magi-co muro, pulendoli piano piano per farli diven-tare le colonne della nuova casa.Ancor oggi tra un mattone e l’altro ci sono dei

La Fatina dei Dentini

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fantastici buchini pronti per accogliere i piccoli dentini, quelli che un giorno saranno dei miei bimbi, ai quali insegnerò questa magica e fan-tastica storia della Fatina dei Dentini.

E ricordate bimbi:

“Ogni momento è importantenon aver fretta ma sì costante,gioca, crea e ti diverticon la fantasia si è più contenti”.

Dedicato ai bimbi del fantastico mondo

di RicyCla’Gio

Giovanna Trivellato

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Francesco Zanetto

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“Il Tempo è un artifizio umano così come il bel-lo e il giusto” (Aristotele).Il Tempo è inoltre misura dell’esperienza, dell’e-nergia e dell’emozione soggettiva, mi permet-to di aggiungere.Secondo il dizionario, il tempo è la successione illimitata ma suddivisibile dei fatti e degli eventi umani in corrispondenza allo svolgersi di deter-minati fenomeni, ovvero la durata delle cose, distinta e misurata in periodi.Se la vita fosse un contenitore, esso conterreb-be tempo; il tempo quindi è l’unità di misura della nostra vita. Avete mai provato a chiedervi come impiega il tempo l’essere umano occidentale medio? Si alza presto, corre subito al lavoro, torna a casa per cena, guarda la tv, va a letto presto, per poi ricominciare il ciclo la mattina seguente. Il tutto si svolge a velocità folle: di corsa la mattina, per arrivare in tempo al lavoro; al lavoro, ritmi este-nuanti per produrre il più possibile nel minor tempo possibile; a pranzo, fast food per gua-dagnare tempo...Quanto tempo dunque gli rimane per sè? Intendo tempo per amare, elevare il proprio spirito, conoscere gente, coltivare i propri inte-ressi…insomma, per Vivere?

La risposta la conosciamo tutti, sta scritta negli occhi e nei cuori di tutte le donne e di tutti gli uomini che vivono in questa parte di mondo.Ogni giorno invece è come se noi tutti fossimo rinchiusi in un vagone che corre a velocità folle senza una meta ben precisa: suo unico scopo è viaggiare sempre più veloce, i binari sui quali corre sono il sistema sociale nel quale viviamo.Se dunque la velocità, la fretta, la corsa sono la quintessenza di questo sistema, allora IO PRE-FERISCO LA LENTEZZA, perchè il cuore batte a sessanta battiti al minuto, e nessuno può an-dare più veloce del proprio cuore…senza per-dere la propria umanità.

Aiutiamoci a fermare il tempo, riprendiamoci la vita, prendiamoci tempo, tempo, tempo.Riflettiamo, chiudiamo gli occhi e rendiamoci conto che invece siamo perennemente circon-dati dall’eternità, sin dal nostro primo respiro e da prima ancora, ed essa non si misura, non ha tempo. Respiriamo questa eternità per poterci estendere in ogni direzione...in questo modo il tempo non avrà più tempo.

Francesco Zanetto

Tempo

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Dai nostri pazienti

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Ho telefonato alla Clinica Dentale e ho chiesto di parlare con il dr. Parise che conosco da tanto tempo. Mi ha risposto una voce maschile, cal-da e gentile:-Sono Mattia, in cosa posso esser-le utile? Ho pensato che hanno fatto bene a mettere una persona cortese al centralino, è importante che chi parla con i clienti non abbia la luna e se ce l’ha non lo dimostri: la prima impressione positiva è un bel biglietto da visita.Il dr. Parise mi ha dato l’appuntamento in Clini-ca, anziché a Pederiva:- Sai dov’è? Siamo vicini alle Piramidi, vieni lì!Subito volevo rispondergli che la Farnesina sconsiglia, visto il clima politico che c’è in que-sti giorni in Egitto. Poi ho capito e sono andato in Clinica.Come sono cambiati in fretta i tempi. Me ne sono reso conto frequentando, come paziente, la Moderna Clinica Dentale. E’ stato inevitabile per me fare il confronto con il passato e andare, sull’onda dei ricordi, alla mia infanzia, che non è poi così lontana. Mio nonno, classe 1890, era contadino e cava-denti, stimato e richiesto, tanto che il medico del paese quando arrivava qualcuno con il mal di denti nel suo ambulatorio lo dirottava dal nonno:-Andate da Giovanni – diceva loro – e ditegli che vi mando io.Così, il nonno, si sentiva in obbligo e si sdebita-va con il formaggio di capra di sua produzione che piaceva tanto al dottore. Ricordo che quando arrivava qualcuno su al Malleo con la mano nella mascella e la testa piegata, la nonna lo faceva accomodare sotto il portico ( la waiting-room) e andava a chiamare il nonno che era nel campo. Il quale piantava la forca in terra, si puliva le mani sulle braghe, in un gesto abituale e chiamava il paziente al chiaro sotto la pergola per controllare (la first visit-room): il paziente guardava i grappoli di uva fragola con la bocca spalancata e il nonno ci guardava dentro.Andava a prendere le tenaglie, avvolte in una

pezzuola ingiallita e batteva sul dente.Come si sa, quando fa male un dente, quelli vicini, per simpatia, fanno male anche loro. Per questo non era raro sentire, dopo le urla del paziente, il nonno che con il suo intercalare che lo caratterizzava e con onestà professionale di-ceva, guardando il dente nella tenaglia contro il sole:-Cramento, Mabile, no l’è mia questo! Il più delle volte, però, indovinava e i pazienti lo ringraziavano perché, come si sa “via il dente via il dolore”.Aveva imparato durante la prima guerra. Era Alpino, del battaglione Bassano, aiutante di Sa-nità. Quanti denti aveva estratto! Naturalmente senza anestesia. Non esistevano cure canalari od otturazioni. Allora quando si parlava di impianti si intende-va solo di radicchi o di piante da frutto.Così, finita la guerra era tornato a casa con una borsetta di ferri e alcune bottigliette di disin-fettante (tintura di iodio) che ha usato per tutta la vita. Le ultime estrazioni le ha fatte a ottanta anni negli anni settanta del secolo scorso.Esercitava all’aperto, sull’acciottolato davanti casa (first aid).Faceva accomodare il paziente su una sedia impagliata che prendeva in cucina e gli diceva di tenersi forte nei gradini della stessa. Si spu-tava nelle mani per avere una buona presa e, afferrato il dente, non lo mollava più. Poi lo mo-strava, come un trofeo al suo proprietario che lo guardava con gli occhi grossi e lucidi. Per i grandi, allora, non c’era neanche la consolazio-ne della formichina che portasse qualcosa. Il nonno faceva sputare il sangue e poi dava il di-sinfettante che colorava la bocca e le labbra di marrone. Pareva che il paziente avesse bevuto direttamente nel secchio del catrame liquido.-Cosa Vi devo dare, Giovanni? – diceva sputan-do sangue e tintura.-Niente, Angela. Quando è il tempo delle mari-nele venite ad aiutarmi a raccoglierle.Se era un uomo se lo accaparrava per qualche lavoro pesante ché, allora, la manodopera era

Clinica dentale: impressioni di un paziente

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sempre scarsa e richiesta.Così i pazienti, oltre al male sopportato dove-vano anche faticare per sdebitarsi.Tutto avveniva mentre attorno le galline razzo-lavano, le mucche ruminavano, noi ragazzi cor-revamo e la nonna sferruzzava. L’esile barriera che separava l’alta chirurgia dal mondo comu-ne (la courtesy line) poteva essere una carriola di letame.

Insomma, meglio oggi che dobbiamo districar-ci con l’inglese per trovare la confortevole pol-trona, agevolati dalle signorine e dalla loro cor-tesia, anche se abbiamo perso un po’ di quella poesia, ma per fortuna che c’è l’anestesia.

Claudio Cappozzo

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Aveva compiuto da poco vent’anni quando, dalla campagna della Sinistra Piave si era trovato sul campo di Sadowa. Era il 3 luglio 1866 e il soldato di leva Basso Giuseppe, classe 1846, appunto, 1° Battaglione dell’Infantry Re-giment Graf Haugwitz n° 38 era al suo posto, come tante altre reclute della sua zona. Bepìn, così chiamato da sempre in fa-miglia, aveva ricevuto la chiamata in marzo, ma la cosa non gli aveva procurato particolari emozioni, né positive né negative. Era una pos-sibilità…ed era capitata, come la pioggia o la grandine o l’autunno…, come tutto ciò che il Padreterno o l’Imperatore o la natura potevano decidere. Bepìn era un contadino veneto, con-tadino come il 90% dei veneti di allora, una dif-fusa classe sociale di un popolo per cui la vita era organizzata ancora secondo ritmi patriarcali e radicate tradizioni. Contadino, buon lavoratore, devoto cattolico, come la maggior parte dei suoi com-paesani. Concetti come “democrazia” o “unità d’Italia” o desiderio di partecipazione a pro-cessi politici o decisionali gli sarebbero sem-brati più bizzarrie che eresie. Il Padreterno, il Papa, l’Imperatore, la sua famiglia, la casa, la campagna, il lavoro, la “morosa”, anche, a una certa età erano le certezze dentro cui era nato e vissuto e che facevano parte della vita, in modo naturale, preordinato. Bepìn sapeva leggere un po’ e qualche volta, in casa, vedeva lo zio Toni, il primogenito, scapolo, che viveva con loro, leggere un gior-nale. Lo zio era stato arruolato nel 1847 e aveva combattuto nelle campagne del 1848 e 1849. Era stato col Principe di Liechtenstein a Sorio e a Vicenza, sempre con il 38°, perché in quel pe-riodo risiedeva nel veronese, ed era tornato poi a casa, congedato, nel 1850, con la Tapferkeit Medaille d’Argento di 1° classe e un premio di smobilitazione in denaro. Qualche volta, da piccolo, Bepìn era stato ammesso a vedere e a toccare i cime-li militari dello zio che aveva conservato vivi ricordi di quel periodo. “Barba Toni” ( come

veniva chiamato, rispettosamente, alla veneta) aveva anche visto da vicino il Feldmaresciallo Radetzky quando, schierato a Monte Berico, a Vicenza, aveva assistito all’uscita dalla città dei difensori, dopo la resa della città. Quando era arrivata la chiamata per il nipote, con relativa visita di leva, lo zio lo ave-va accompagnato e, fatto abile il nipote, aveva parlato, un po’ in ostrogoto e un po’ in tede-sco, con il sottufficiale che sembrava il respon-sabile e gli aveva fatto vedere i suoi documenti e la medaglia. In conclusione la recluta Basso Giuseppe era stata arruolata nel glorioso 38° Reggimento, quello dello zio Toni ( un cugino, invece, era stato a Solferino, nel 1859, con il 16° Wernhard, sempre italiano, ma il 38° era un’al-tra cosa, diceva sempre lo zio!).Bepìn si era poi trovato a combattere sul fron-te nord, contro i Prussiani, sotto il comando del Feldmaresciallo Benedeck, con tutto il suo reggimento, inviatovi per la scelta fatta dal comando supremo di non far combattere, se possibile, reggimenti di lingua italiana contro i “Piemontesi” ( così a Custoza, ma questo Bepìn non poteva saperlo, si era trovato solo il 22°, di lingua italiana, questo è vero, ma costituito da istriani e dalmati). A Sadowa (o Königgrätz, se preferite) si erano scontrate due armate di forza simile che avevano contrapposto quasi mezzo milio-ne di uomini, si diceva…la più grande battaglia di tutti i tempi dopo Lipsia! Ancora una volta il vecchio reggimento a reclutamento italiano aveva onorato la sua fama e i suoi uomini si era-no battuti bene, per l’Imperatore e per la ban-diera. Bepìn, in particolare, aveva trovato modo di distinguersi. In un momento difficile aveva capito che doveva fare di più, e lo aveva fatto. La sua compagnia era duramente impegnata sotto il fuoco e aveva già avuto perdite che avevano provocato visibilmente sbandamenti e turba-mento nella truppa. Bepìn non era un solda-to esperto ma aveva senso della disciplina e dell’onore da vendere, oltre che uno spiccato

Bepìn

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senso delle gerarchie e una concretezza atavi-ca che richiedeva certezza e ordine. Da buon veneto era tendenzialmente portato non tanto ad assistere quanto ad offrire le sue braccia e le sue capacità per affrontare eventi sfavorevoli. E sfavorevoli erano certamente: il tenente era se-riamente ferito ad un braccio e in difficoltà nel guidare i propri sottoposti e nel tenere i colle-gamenti, alcuni sottufficiali feriti o caduti . Il te-nente era un nobile friulano di grande famiglia e, quindi, era in grado di capire perfettamente anche il veneto. Bepìn gli si era accostato e gli aveva chiesto se poteva rendersi utile in qual-che modo particolare. L’ufficiale, per un attimo incerto, aveva colto bene l’offerta e, debole per la perdita di sangue e quasi senza voce per il gran gridare ordini fatto fino a quel momento, gli aveva affidato il compito di portavoce e staf-fetta, sia all’interno della compagnia sia invian-dolo con un suo biglietto richiedente istruzioni al comandante di battaglione. Bepìn aveva corso avanti e indietro, da un reparto all’altro, con due righe del tenente che lo autorizzavano a svolgere tale compito. Al ritorno da una di queste piccole ma preziose missioni, svolte con entusiasmo tra commilitoni con cui aveva anche scambiato battute e inco-raggiamenti, si era beccato pure una scheggia in un polpaccio ma era tornato dal suo coman-dante e, volgendo ormai la giornata verso la fine ed essendo chiara la sconfitta, aveva tra-smesso alla compagnia l’ordine di raggruppar-si e di ripiegare in ordine. Non ultima cosa era riuscito a procurarsi un cavallo sciolto, vi ave-va fatto salire il tenente e, accanto a lui, aveva continuato a trasmettere istruzioni e incorag-giamenti ai commilitoni. Al termine della giornata, caduto o di-sperso anche il comandante di battaglione, il tenente, grazie anche all’imprevisto aiuto dato-gli dalla volonterosa recluta, era rientrato negli acquartieramenti con un reparto in ordine e in buon assetto, per quanto possibile, cui si erano accostate anche altre compagnie, meritandosi aperte lodi da alcuni superiori. Qualche giorno dopo, nell’accampa-mento, in attesa di istruzioni e sviluppi ulteriori, tra le voci più disparate relative al futuro e, in particolare, al futuro dei soldati veneti, il capita-no conte X lo aveva mandato a chiamare. L’uf-

ficiale, ancora un po’ pallido e con il braccio al collo, vestiva una divisa fresca di sartoria su cui spiccavano nuovi lucidissimi gradi e la presti-giosa Croce d’oro al merito con corona; in una stanza dell’abitazione civile requisita e diventa-ta comando del reggimento Bepìn scattò nel saluto ma il suo ex tenente, dopo aver risposto, lo invitò a sedersi e prese da un cassetto della scrivania una scatoletta di pelle tendendola al soldato. Bepìn la prese e l’aprì e scattò imme-diatamente in piedi quando si vide in mano la Medaglia d’oro al valore, la “Tapferkeitsme-daille” con l’effigie dell’Imperatore, la massima ricompensa al valore allora conferibile ad un soldato. Confuso ed emozionato Bepìn era ri-masto a guardare il capitano ma questi gli ave-va detto, in veneto (era nato in un castello della famiglia proprio ai confini del trevigiano), che era ben meritata e che se la appuntasse tran-quillamente sull’uniforme. Poi lo aveva conge-dato ringraziandolo ancora per il suo compor-tamento durante la battaglia. Bepìn era rimasto ancora un po’ nell’I.R.Esercito e aveva fatto scorta fino a Vien-na, con un gruppetto di militari, sottufficiali e decorati al valore, alla bandiera del Reggimen-to che rientrava nella capitale. Poi il ritorno a casa, in Italia, non più nel Veneto, smobilitato dal suo vecchio esercito, richiamato ma subito congedato da quello nuovo… Per Bepìn era ripresa la vita del con-tadino veneto, in parte piccolo possidente, in parte fittavolo. Si era sposato, aveva avuto cin-que figli, tra maschi e femmine e poi nipoti e pronipoti…I ricordi militari si affievolivano col tempo ma la sua “Goldenetapferkeitmedaille” (ben 27,9 grammi di oro fino!) era conservata nel cassetto del suo comodino, in un tempo in cui si andava a dormire senza sprangare la por-ta e non era usuale trovarsi in camera, di notte, qualche estraneo. Una medaglia conservata e non dimen-ticata, perché nulla di riprovevole poteva trovar-si nel ricordo di un ordine, di una certezza che era ben lontana, negli ultimi decenni del 1800, da un Veneto diventato, nel nuovo regno, terra di fame e di emigrazione. La sua vita si avviava così, tranquillamente, verso la fine quando, nel 1915, l’Italia era entrata in guerra contro il suo

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vecchio Imperatore e il suo vecchio esercito, coinvolgendo anche due suoi nipoti in età di leva che avevano, ovviamente, risposto ad una non eludibile chiamata, andando a combattere proprio contro di loro. Bepìn non si spiegava l’entusiasmo di alcuni esagitati, presenti anche nel suo paese, che gridavano “Trento” e “Trieste” e inneg-giavano alla guerra. Il vecchio contadino non riusciva a capire cosa potesse cambiare per un territorio o per un popolo essere parte di uno Stato o di un altro, lui che si era trovato fra com-militoni che parlavano tedesco, magiaro e cro-ato e altre strane lingue ma che combattevano tutti per l’Imperatore sotto un’unica bandiera: aquila bicipite da una parte e Santissima Vergi-ne dall’altra. La Chiesa, poi, si era subito mani-festata risolutamente contraria alla guerra, sen-za tentennamenti e senza concessioni all’una o all’altra parte, e non ne faceva mistero, facendo una sua battaglia per la pace sulla stampa cat-tolica e dai pulpiti. Nel 1916 Bepìn aveva compiuto set-tant’anni, una bella età per quei tempi, ma era ancora attivo e vigoroso e molto gli dispiacque quando, dopo qualche mese, alla fine dell’an-no, morì l’Imperatore la cui testa era impressa sulla sua famosa medaglia. Passò ancora un anno; intanto uno dei nipoti se l’era portato via, sull’Isonzo, una delle famose battaglie di sfondamento: carneficine tanto usuali ai comandi italiani di allora. Un giorno, all’improvviso, dopo che il cannone si era fatto sentire a lungo da lontano, si intuì che qualcosa di strano stava avvenendo. Il paese di Bepìn era su una direttrice di marcia verso il fronte ma mentre era cessato il flusso degli italiani in quel senso si cominciò a vedere un transito del tutto nuovo in senso inverso. Soldati a gruppetti, qualche veicolo, carretti carichi di civili con masserizie, il tutto in una confusione indescrivibile e crescente. La voce “arrivano i Tedeschi”, “scappa-te”, il passaggio di quello che era diventato un fiume di carrette di civili in fuga, di gruppi di soldati sbandati o, comunque, male in arnese, faceva prevedere che altri li avrebbero insegui-ti, incalzandoli e puntando verso Ovest. La mattina dopo, alzatosi ancor più per tempo, Bepìn si diresse in piazza e qui, da al-

cuni carabinieri di retroguardia, ebbe ancora l’invito a sfollare e l’informazione che le avan-guardie tedesche erano a non più di due ore, precedute da voci di devastazioni, di ruberie, di incendi e peggio, quasi si vedesse nel futuro e si potesse intuire il comportamento di altre truppe “democratiche”, liberatrici di città ita-liane qualche decennio dopo. Se erano tedeschi, pensò Bepìn, li cono-sceva abbastanza bene e non c’era da temere per la famiglia e per il paese. Ricordava ancora che, dopo il disastro di Sadowa, lui e moltissimi commilitoni veneti erano stati ospitati e sfama-ti dalla popolazione tedesca dell’Austria prima della smobilitazione. Così il soldato Basso Giu-seppe, classe 1846, prese una decisione: rien-trò velocemente a casa e indossò, in verità con fatica, la vecchia giubba con le mostrine rosa del 38°, si cucì bene la medaglia, andò dal par-roco e, radunati alcuni esponenti della piccola comunità locale, si piazzò in attesa, davanti al municipio. Verso mezzogiorno, preceduti da alcuni drappelli di cavalleria, giunse un reparto di fan-teria che occupò la piazza e mise in postazione alcune mitragliatrici in direzione del nemico in fuga.Arrivò poco dopo un’auto con un anziano uffi-ciale che a Bepìn sembrò un colonnello, il qua-le scese, salutato da alcuni sottoposti. Dopo poche parole uno di questi, un sottufficiale, si avvicinò al gruppo dei civili che osservavano la scena e chiese, in pessimo italiano, se qualcuno capisse il tedesco. Era ancora il momento di Bepìn! In un tedesco simile, per qualità, all’italiano dell’al-tro, si presentò secondo le regole che aveva imparato tanti anni prima, poi si toccò la me-daglia e aggiunse:” Sadowa”. Il sottufficiale lo salutò militarmente, cosa che incuriosì molto i due distinti gruppi che assistevano al colloquio, e gli chiese di avvicinarsi al gruppo degli uffi-ciali. Intanto altri militari austriaci e civili italiani affluivano. Davanti al colonnello parlò il sottuffi-ciale, poi Bepìn si presentò: cognome, nome, compagnia, battaglione, reggimento, e il co-lonnello gli rispose in italiano chiedendogli chi fosse stato il suo comandante. Esaurite le pre-sentazioni e un veloce scambio di battute il co-

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lonnello, fatta schierare la truppa, parlò ai suoi, ai civili presenti e a Bepìn. Disse che i soldati di S.M.I.R. l’Imperatore Carlo, che Dio lo conser-vasse a lungo, avrebbero mantenuto i migliori rapporti possibili con la popolazione ma disse anche, chiaramente, che le truppe necessita-vano di molte cose e che i territori occupati dovevano contribuire. Disse anche che ogni tentativo di sabotaggio sarebbe stato punito e represso secondo le leggi di guerra. Aggiunse, alla fine, che la presenza in paese di un vecchio e valoroso soldato dell’imperatore, che aveva combattuto a Sadowa come suo padre, che vi aveva lasciato la vita, era, fino a prova contraria, una garanzia sufficiente per gli uni e per gli al-tri: tutto doveva avvenire in un clima di recipro-ca correttezza e confidava che così sarebbe sta-to. Gli italiani, garante Bepìn, avrebbero offerto sincera ospitalità e tutto ciò che potesse essere utile ai soldati di S.M.I.R.A., questi avrebbero rispettato beni e persone, pagando o dando ricevuta per eventuali prelievi straordinari. Alla fine il colonnello, dopo un altro rife-rimento familiare alla madre, italiana di Gorizia, confermò nelle sue funzioni il sindaco, affianca-to da Bepìn in veste di garante e di interprete e, al momento di ripartire, volle sancire que-sto patto con un gesto inusuale: una stretta di mano al vecchio soldato dell’Imperatore. E la vita riprese tranquilla nel paese, tranquilla come poteva esserlo in tempo di guerra e a poca distanza dal fronte. Il peso del-la guerra, di quel terribile anno in cui la Duplice Monarchia, affamata ma ancora in armi, tene-va due fronti si fece sentire anche a …. ma in modo più equo, come una calamità inevitabile ma derivante da quella “inutile strage” che il cattolico Bepìn aveva sentito con tanta forza condannare, senza distinzioni fra belligeranti, anche dal nuovo Papa genovese, Benedetto XV, dopo la morte di un suo lontanissimo cugi-no di Riese, Sarto Giuseppe, poi diventato Pio X. Purtroppo agli appelli del Papa aveva rispo-sto positivamente solo un giovane coi baffetti e il cappotto con il colletto di pelliccia che era passato durante l’inverno anche per il paese di Bepìn, l’Imperatore d’Austria e Apostolico Re di Ungheria Carlo, oggi, aggiungo, ma Bepìn non poteva saperlo, il Beato Carlo d’Asburgo. Venne anche il giugno del 1918, quan-

do l’Impero tentò l’ultimo sforzo, quando il “suo” esercito gettò cuore ed anima oltre il Piave nell’ultima battaglia, Poi venne la ritirata, non la sconfitta, con il disimpegno ungherese e i soldati delle varie nazionalità che prendevano la via di nuove patrie. Bepìn lo aveva già prova-to, molti lo provavano ora, qualcuno, come l’e-breo galiziano Joseph Roth, lo avrebbe narrato in pagine indimenticabili e struggenti. Sullo slancio della cosiddetta “Bat-taglia di Vittorio Veneto”, nel vuoto apertosi all’improvviso, tornarono i soldati italiani, l’am-ministrazione italiana, i carabinieri. E i Reali Carabinieri, debitamente informati, vennero a prenderlo pochi giorni dopo, prima della fine di Novembre. Sequestrarono alcuni “corpi del reato”: la sua giubba e la Goldenetapferkeit-medaille, prove se non di alto tradimento certo di connivenza e di simpatie filoasburgiche. Si ritrovò caricato su un treno, col parroco, con al-cuni contadini, col conte di C. e con il barone S. e via, in Sicilia, al confino, e che ringraziasse il Cielo per la sua età. Ora l’Italia era grande e magnanima, non fucilava più, come nel 1861, chi aveva te-nuto nel cassetto le stampe con Francesco II e Maria Sofia, ma quella medaglia con l’effigie del defunto “Impiccatore” (così lo avevano chiamato) meritava comunque una sanzione, anche perché l’opera di Bepìn, tesa ad una pa-cifica coesistenza con l’esercito occupante, era una chiara prova di collaborazionismo! Bepìn non tornò più a casa dalla Sici-lia e nessuno sa dove siano finiti i 27,9 gram-mi d’oro fino del corpo del reato con l’effigie dell’Imperatore/Impiccatore. E la giubba con le mostrine del glorioso 38°? La giubba di Sa-dowa? Forse Bepìn era riuscito a nasconderla in qualche modo per indossarla ancora nel mo-mento in cui si fosse presentato al suo vecchio Imperatore, là dove non esistono più nemici o collaborazionisti, ma dove chi ha onestamente portato un’uniforme può indossarla per l’eter-nità, anche di fronte al Dio degli eserciti.

Alberto Lembo

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“Berto..oo, levate ch’el caro xe cargo e la mus-sa tacà” oppure “dai, ndemo, movete ch’el sole magna le ore”. Così mi dava la sveglia e sollecitava Piero “Mu-naro”, di primo mattino, per partire con il car-ro a traino dell’asina, con il carico di farine da consegnare ai contadini della campagna e al contempo ritirare i sacchi di granaglie per la macina del pomeriggio; nuovo giro e riconse-gna il giorno dopo e così per tutta la settimana.Poco oltre metà anni 50, adolescente in prima età scolare, trascorrevo le vacanze estive pres-so i nonni a Torri di Quartesolo nella casa al ponte sul Tesina e giusto contrapposta al muli-no azionato dalla ruota ad acqua.Contigua alla casa dei nonni, l’abitazione di Piero Munaro e stalla dell’asina.

Piero “Munaro”, all’anagrafe Pietro Zoppellet-to aveva all’epoca circa 65 - 70 anni.Faceva il classico lavoro di mugnaio, provvede-va alla raccolta delle granaglie presso le fami-glie contadine alle quali il giorno dopo conse-gnava la farina per il pane e la polenta.Il personaggio è lo stereotipo del mugnaio del novecento: di piccola statura, un pò cicciot-tello, panciotto e cappello sbiancati di farina ciglia comprese, matita e taccuino (ricordate i quaderni con copertina nera e pagine borda-te rosso) sempre in tasca per segnare i chili di macina.Persona buonissima, cordiale e sempre dispo-nibile a dare una mano (in quei tempi non scar-seggiavano le difficoltà di tirare avanti e su quel libretto ce ne erano di sacchi di farina annotati e mai pagati).Distinto, pulito (oserei dire profumato) e vesti-to di tutto punto, immancabilmente ogni do-menica mattina, non accompagnato, prendeva la corriera (la fermata della Siamic era pure di fronte al mulino) e andava a Messa a Monte Be-rico; il pomeriggio a fare il carico del Lunedì. La macina veniva fatta al mulino Carampin, mosso dalla ruota ad acqua e adiacente al bel-lissimo ponte sul Tesina, ponte la cui costru-

zione risale al 16° secolo su disegno di Andrea Palladio.Il mulino di Torri, come tutti gli altri numerosis-simi piccoli mulini sparsi nel territorio, è stato chiuso per l’impossibilità di sopravvivere, soffo-cati dall’incombente avvento dei grossi gruppi molitori di granaglie.Così è stata tolta la bella grande ruota ad acqua (non poteva restare come ricordo?) e anche è stata chiusa la centrale elettrica, che, accanto al mulino, si prendeva parte delle acque del Te-sina e forniva illuminazione a tutto l’abitato di Torri più frazioni di Marola e Lerino.La casa dei nonni era di 4 stanze ed un vano scale: in tutto 5 lampadine da 15 candele (leggi Watt) e un filo di corrente elettrica per una ra-dio gracchiante.Ma pure nella modestia, si viveva e si respirava una sensazione diffusa e positiva verso il futuro. Nell’epoca odierna dove i riferimenti sono le grandi genialità di personaggi quali Steve Jobs, Mark Zuckerberg ecc.. abbiamo poca o per niente memoria dei Cavalieri d’Italia del primo 900.Il nostro paese viveva in una grande arretra-tezza rurale, costoro fecero cose grandiose e lungimiranti, che furono propedeutiche poi alla crescita delle condizioni e benessere sociale.Mi riferisco al Cav. TullioTescari che a Torri pro-mosse la costruzione della centrale, e poi nel ns Veneto Gaetano Marzotto, Alessandro Rossi, Bortolo Bertolaso ecc…. e sempre di quell’e-poca inventori, fisici come Natta, Marconi, Fer-mi ecc..L’orgoglio di essere di essere compatrioti di questi illustri ci dia forza e fermezza a mettere a posto le attuali difficoltà socio economiche.

Torniamo a Piero. Il giro consegne inizia dalla SS11 e giù per il groviglio di stradine di campagna direzione Lo-calità Secula di Longare. Era uno spazio ampio, immacolato di campagna, grano, erba medica, filari di vigne…la grande tenuta dei Zanini dove a Settembre si diceva c’era gran passaggio di

Piero “Munaro”...“Amarcord” nostranodi episodi dalla polenta Al 3d printing

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“fiste” (pispole) e “garzanele” (cesene). Non me ne vogliano gli anticaccia. Nell’aria qualcosa faceva presagire lo sviluppo incombente: l’Autostrada in progetto e appe-na tracciata, poi la Banca, Le Piramidi, il Centro Commerciale,…il Cinema Multisale, La Clinica Dentale, ecc… Intanto …nell’attesa che maturassero gli even-ti… le necessità di cure dentali (e solo per estremo bisogno) venivano soddisfate dal ben-voluto e stimato Dr Meneghini (pure Sindaco oltreché medico condotto), per il cinema si andava in bicicletta al Parrocchiale di Grumolo delle Abbadesse a vedere Peppone e Don Ca-millo o, cosa più eccitante, si andava a Camisa-no a vedere Clint Eastwood o le prime di 007.

….Fa molto caldo sopra il carro in pieno sole di Agosto , quasi mi vien sonno…Piero e la “mus-sa” sanno bene la loro strada…………..

……….E faceva pure molto caldo in quel fine Novembre dell’83 nel mio 1° viaggio ad Ade-laide (Australia). Già…se vi capita di andarci non dimenticate che là le stagioni sono 6 mesi avanti (o indietro che è uguale) rispetto a noi. Quel giorno avevo pranzato ospite a casa To-resan.Nella sala da pranzo, sul muro una bella foto gigante del Ponte degli Alpini di Bassano.Commovente.

Avete già capito che erano emigranti veneti partiti negli anni 20 per l’Australia.A pranzo…..“ Vutu raici ?” (Vuoi ancora radic-chi?), la madre anziana parla immutato il nostro dialetto degli anni 20. Mi racconta con emo-zione la dura vita degli immigrati giunti in quel paese allora non organizzato all’accoglienza e inserimento degli immigrati come ora. Per non parlare delle diversità sociali e i distin-guo tra colonie di origine tedesca o inglese. Il figlio un po’ più “aussi” (leggi: ossi = austra-liano) mi porta orgoglioso a vedere l’attività e la sua cantina; mi indica con la mano: qui ab-biamo le “tenche”??? …Mi vien da ridere, .. ma capisco subito che nel suo veneto- australiano le tenche (dialetto veneto) non sono il pesce tinca ma le tank ( inglese) ovvero i serbatoi di vinoCome resiste la radice Veneta. Si fanno belli incontri in Australia, chi lavora sodo e con “testa” può trovare l’America (in Australia).E’ il caso del mio compianto amico Bryann Mac Mahon con il cui fratello Roger avevo rapporti di rappresentanza di macchinario industriale.Mi sono occupato per 25 anni della vendita di impianti di imbottigliamento in tutto il mondo.Bryann, dal nulla, aveva messo insieme una grande impresa di costruzioni strade, posa di gasodotti che attraversavano l’Australia, gran-di opere edili ecc…; raggiunta l’età over 70 si dedicava di persona e con soddisfazione al re-

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stauro di magnifiche auto d’epoca.Nella foto sono con una sua Rolls Royce 1920 con cui mi ha impegnato in un raduno di 2 gior-ni nella zona Adelaide e Barossa Valley (come dire la Napa Valley della California o il Borde-aux in Francia).Passando per le strade con la Rolls in testa della carovana, le gente sgranava gli occhi e salutava come passasse la Regina di Inghilterra……..

……e avanti con Piero e il carro…facciamo un tratto di Riviera Berica sino a Debba.C’è una pattuglia della Polizia Stradale a lato strada con 2 splendide motociclette Guzzi Fal-cone.Non c’è problema….sorridono..”Ciao Piero”; tutti lo conoscono.

Giugno 1985: Altro tipo di pattuglia, 5 parami-litari, di tutto punto in assetto antiguerriglia (o guerriglia??) e con mitragliatori in mano, sen-za troppi riguardi ci forzava a fermarci lungo la carretera Cali – Medellin (Colombia – America del Sud). “Nuestra Senora de Monserrate, tengo miedo” (Madonna di Monserrate, Ho paura)….Se hai paura tu, figurati io.Tramonti..…(pseudonimo) il mio corrisponden-te commerciale in Sud America, impallidito mi bisbiglia: l’avevo detto che siamo in un’area controllata dai narcos, usano travestirsi da forze militari governative per fermare la gente e fare rapimenti. Bella prospettiva passare mesi (anche anni)ra-piti, in mani loro nelle boscaglie.Fortunatamente non fu così, erano veramente militari governativi.I miei tre compagni di viaggio, Tramonti.. Stimm… e Wulf…(pure pseudonimi), sollevati dallo scampato pericolo, diventano loquaci e confidenti.Tramonti, friulano lascia l’Italia bambino a fine 2° conflitto.Come “buona” scelta la sua famiglia va in Equa-dor: ve lo immaginate l’Equador nel 47 – 48?.Mi dice che era inospitale, arretrato e selvaggio come all’epoca del conquistador spagnolo Piz-zarro 3 secoli prima.Tramonti, un bella figura d’uomo mezzo Johnn Wayne e mezzo Silvester Stallone, mi racconta

che da giovinetto (qua si potrebbe dire giovi-nastro), andava per le paludi amazzoniche ar-mato di Winchester a cacciare coccodrilli.Puntualizza che bisogna sparagli negli occhi poiché in altro modo la loro corazza li proteg-ge…in seguito a casa sua me lo ha mostrato il Winchester.Guardo i biondi tedeschi (lo avevate capito) Stimm.. e Wulf..; dico: Voi pure siete giunti qui a fine 2° guerra…..Con uno sguardo duro e intimatorio annuisco-no e rispondono: vuoi sapere altro?.......:NO… (punto).Se ne trovano di persone che per varie vicis-situdini o implicazioni dei genitori, se ne sono andati in fretta dall’Europa a fine 2° guerra. Proseguiamo verso Licorera di Caldas per un impianto di imbottigliamento ron (rhum) e te-quila.

Potrei raccontare di tante persone conosciute con storie di vita interessanti e più o meno for-tunose.Ricordo di avere portato a far delle visite enolo-giche in Piemonte l’amico Bob Trinchero (Italo americano).Passando per S. Marzanotto Alto nelle Langhe Monferrato, paese di origine del padre, si mise a piangere. E’diventato uno dei maggiori produttori di vino della California; con gli impianti che ab-biamo venduto aveva una capacità produttiva di 50.000 bottiglie ora (= 100 milioni bottiglie all’anno).. …….e intanto avanziamo con il giro consegna farina e raccolta granaglie. Siamo a Casale in Strada Cà Perse. Ad ogni gruppo di case al vederci i bambini ci corrono incontro…xe qua Piero… e salgono sul carro per restarci per un po’ di strada. Piero sorride a tutti e lascia fare.Ci fermiamo una ennesima volta per consegna-re il macinato e caricare il grano. Io sul carro con le briglie in mano.…aspetto.… Piero si attarda… vado a vedere dov’è l’uomo.Lo trovo allegro a tavola della famiglia davanti a un fiasco di vino mezzo vuoto.Vieni mi dice… bevi anche Tu che Ti fa bene. Improvvido, ma forse per la sete del caldo esti-vo, tracanno a stomaco vuoto un bicchiere e

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dopo qualche altra chiacchiera torniamo al car-ro.Faceva caldo anche per la “mussa” che era ri-masta senza conducente in strada e aveva pen-sato bene di mettersi all’ombra di una pianta sul ciglio del fosso: così però mettendo il carro in bilico e con mezzo carico finito rovesciato a terra.Senza arrabbiarci (quando mai due persone un po’ bevute si arrabbiano ??), con allegria ripor-tiamo la “mussa” in strada, risistemiamo il cari-co e il giro riprende.

Da Borgo Casale la “mussa” procede senza co-mando (dei quasi ebbri conducenti) ma sicura per istinto nel cammino verso casa. Alla Stanga ci si immette nella statale 11 dire-zione Torri.Giù dal cavalcavia che sovra passa la ferrovia, la “mussa” sembra avere qualche incertezza…o forse nell’ebbrezza sono io?... …..subito sulla destra Via Zamenhof che al tempo non era stata ancora né pensata né par-torita….……già, Via Zamenhof, la Via della tecnologia orafa di Vicenza dove, lo scrivente, raggiunta la pensione e un po’ stanco di fare il giramondo, si è dedicato alla progettazione e produzione modelli di gioielleria con tecnologia 3D (= tri-dimensionale).Ne io e tantomeno Piero Munaro potevamo im-maginare che premendo un pulsante una mac-china 3D Printer (assomiglia ad una fotocopia-

trice) in poche ore potesse sfornare quasi dal nulla come per magia l’oggetto fisico (il gioiello o altro) che si vuole realizzare. Fosse qui, Piero avrebbe detto che l’Onnipo-tente avrà usato qualcosa di simile o un po’ più grande nel fare il creato. ….Ma….Le più recenti ipotesi danno più pro-babile l’impiego dei bosoni di Higgs (???.... e bravo chi ci si raccapezza,…. poi tanto i misteri restano misteri)….

Procediamo, o meglio visti gli allegri conducen-ti, la “mussa” procede. Si oltrepassa Settecà e siamo in vista di Torri. ..…Non ho più tempo di raccontare altri episodi e ne avrei visto che mi sono fermato al 1985…. Finalmente grazie all’istinto di sopravvivenza (quasi saggezza) del nostro animale si arriva al ponte e al mulino di Torri. Rosa, moglie di Piero, ci accoglie e vede che la situazione è di una allegria anomala (ma evi-dentemente non inconsueta).Un buon pranzo con poco vino e un breve ri-poso nella calura pomeridiana riporta tutto alla normalità e poi via alla macina per il giro del giorno dopo.Non me ne voglia l’anima del grande Fellini per questo nostrano “Amarcord” che tuttavia mi auguro abbia interessato e divertito.

Creazzo, 24.03.2014

Alberto Toniolo

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