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1 Tempo fa m’innamorai di Anna, la barista del caffè Roma, giù in fondo a via Garibaldi, vicino al Museo Archeologico Provinciale. È successo e basta, non mi chiedete perché: non lo so nemmeno io. Cioè, un’idea me la sono fatta, ma non so se è quella giusta. Di sicuro non è molto roman- tica, quindi forse è una sciocchezza, perché non puoi innamorarti di una donna solo perché è l’unica che vedi e ti parla tutti i giorni. Ecco, senza volerlo l’ho detto. All’epoca facevo il custode al museo. Non era un lavoro molto im- pegnativo: aprivo, accendevo il computer, controllavo il sistema di allar- me e videosorveglianza, quello di aerazione e quello di climatizzazione, e aspettavo. Aspettavo che venisse qualche visitatore, e staccavo i biglietti. I bambini fino a dodici anni non pagavano, gli studenti di Lettere o Ar- chitettura avevano lo sconto, come pure gli ultrasessantacinquenni. Era- vamo generosi, al museo; ma pure così, venivano in pochi. Avevo un collega, Antonio, che mi faceva compagnia, e lo pagavano per questo. Quando parlava lui di me, ero io a fargli compagnia, e venivo pagato per quello. È per dire che forse eravamo troppi, io e lui, lì dentro; e infatti ogni tanto arrivava la voce che avrebbero spostato uno di noi in qualche ufficio dove c’era da lavorare sul serio. Io e Antonio ci ridevamo su: se ne parlava ormai da un anno, ma per fortuna non succedeva mai niente. Lui è più vecchio di me - ai tempi di questa storia io avevo tren- tott’anni, lui quarantacinque - ma avevamo la stessa anzianità di servizio, e io ero distaccato al museo da più tempo. Se avessero voluto giocarci questo brutto scherzo, non era facile pronosticare chi avrebbe avuto la peggio. Alle nove e un quarto, puntualissima, arrivava Anna con i viveri: lat- te macchiato e un cornetto vuoto per Antonio, cappuccino e zeppola per me. Le davamo la scheda con le dieci consumazioni prepagate, e lei ci metteva una sigla; poi le raccontavo una delle barzellette che leggevo sul- le riviste di enigmistica. – Un uomo e una donna naufraghi su un’isola deserta. Lei sta scri- vendo un messaggio e dice all’uomo: “Questo voglio inviarlo per racco- mandata: ce l’abbiamo una bottiglia di champagne?”. – Carina.

BraDiPo

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"Ora vi starete chiedendo se Anna è bella. Accidenti, se lo è! Per le mie possibilità, almeno. Nel senso... non è che sono tutta ’sta bellezza, io. Le ragazze belle belle, quelle che gli altri gli sbavano dietro, manco le guardo. Tempo perso. Quando lavoravo al museo e mi svegliavo con la voglia di godermi una donna perfetta, aprivo un po’ prima, mi chiudevo dentro, andavo nella sala delle statue e passavo cinque minuti con una copia in marmo di tarda età imperiale della Venere di Milo. A grandezza naturale. Ogni tanto sognavo di farci delle cose, che se le avessi fatte davvero, come minimo mi avrebbero licenziato, e io quel lavoro non potevo perderlo. Poi invece l’ho perso, ma non per quel motivo lì".Un uomo con la passione per l'enigmistica s'innamora della barista che gli porta il caffè al lavoro. Quando decide di farle un regalo, le loro vite cambieranno radicalmente.

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Tempo fa m’innamorai di Anna, la barista del caffè Roma, giù in fondo a via Garibaldi, vicino al Museo Archeologico Provinciale. È successo e basta, non mi chiedete perché: non lo so nemmeno io. Cioè, un’idea me la sono fatta, ma non so se è quella giusta. Di sicuro non è molto roman-tica, quindi forse è una sciocchezza, perché non puoi innamorarti di una donna solo perché è l’unica che vedi e ti parla tutti i giorni. Ecco, senza volerlo l’ho detto.

All’epoca facevo il custode al museo. Non era un lavoro molto im-pegnativo: aprivo, accendevo il computer, controllavo il sistema di allar-me e videosorveglianza, quello di aerazione e quello di climatizzazione, e aspettavo. Aspettavo che venisse qualche visitatore, e staccavo i biglietti. I bambini fino a dodici anni non pagavano, gli studenti di Lettere o Ar-chitettura avevano lo sconto, come pure gli ultrasessantacinquenni. Era-vamo generosi, al museo; ma pure così, venivano in pochi.

Avevo un collega, Antonio, che mi faceva compagnia, e lo pagavano per questo. Quando parlava lui di me, ero io a fargli compagnia, e venivo pagato per quello. È per dire che forse eravamo troppi, io e lui, lì dentro; e infatti ogni tanto arrivava la voce che avrebbero spostato uno di noi in qualche ufficio dove c’era da lavorare sul serio. Io e Antonio ci ridevamo su: se ne parlava ormai da un anno, ma per fortuna non succedeva mai

niente. Lui è più vecchio di me − ai tempi di questa storia io avevo tren-

tott’anni, lui quarantacinque − ma avevamo la stessa anzianità di servizio, e io ero distaccato al museo da più tempo. Se avessero voluto giocarci questo brutto scherzo, non era facile pronosticare chi avrebbe avuto la peggio.

Alle nove e un quarto, puntualissima, arrivava Anna con i viveri: lat-te macchiato e un cornetto vuoto per Antonio, cappuccino e zeppola per me. Le davamo la scheda con le dieci consumazioni prepagate, e lei ci metteva una sigla; poi le raccontavo una delle barzellette che leggevo sul-le riviste di enigmistica.

– Un uomo e una donna naufraghi su un’isola deserta. Lei sta scri-vendo un messaggio e dice all’uomo: “Questo voglio inviarlo per racco-mandata: ce l’abbiamo una bottiglia di champagne?”.

– Carina.

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Ci trattava sempre sbrigativamente, ma era tutta una finta. Ormai avevo imparato a conoscerla: da un paio d’anni ci vedevamo tutti i giorni, tranne la domenica, feste comandate, ferie mie e ferie sue. A proposito, quella volta che le chiesi quando ci andava, in ferie, me la ricordo bene.

– Perché, non mi sopporti più? − mi rispose. Mi rispondeva spesso con un’altra domanda, era fatta così.

– No, anzi: pensavo di prenderle anch’io quando le prendi tu. – Andiamo in vacanza insieme? – Sì, certo, come no!

− Ti farebbe schifo?

− Per carità, anzi! Ma chi ci spera! È solo perché così non facciamo come l’anno scorso, che tu sei tornata e io sono andato. Un mese con tuo fratello, mi hai lasciato!

– Che hai da dire su mio fratello? – No, era solo per... – Antonio, tu hai qualcosa da dire su mio fratello? – No, no, è un ragazzo a posto. – Bene, meglio così. In un lampo, agitando in una mano il vassoio e in un’altra il coper-

chio, si era avviata all’uscita, salutando a modo suo, strascicando quella bella voce cristallina.

– Ciao, ragaaaaaaaaazzi! A dopo, se volete! − e scomparve. Solo un quarto d’ora dopo mi resi conto che non aveva risposto alla

mia domanda. Ora vi starete chiedendo se Anna è bella. Accidenti, se lo è! Per le

mie possibilità, almeno. Nel senso... non è che sono tutta ’sta bellezza, io. Le ragazze belle belle, quelle che gli altri gli sbavano dietro, manco le guar-do. Tempo perso. Quando lavoravo al museo e mi svegliavo con la vo-glia di godermi una donna perfetta, aprivo un po’ prima, mi chiudevo dentro, andavo nella sala delle statue e passavo cinque minuti con una copia in marmo di tarda età imperiale della Venere di Milo. A grandezza naturale. Ogni tanto sognavo di farci delle cose, che se le avessi fatte davvero, come minimo mi avrebbero licenziato, e io quel lavoro non po-tevo perderlo. Poi invece l’ho perso, ma non per quel motivo lì.

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Antonio non era innamorato di Anna, però è un pettegolo, e mi parlava di lei come se la conoscesse bene. Stando a quello che gli aveva-no raccontato, Anna era fissata per la pelle pallida, perché rendeva le donne più misteriose e affascinanti e dava risalto ai suoi capelli e occhi scuri. Per questo motivo dormiva circondata da fiori e piante, che le to-glievano l’ossigeno e il colorito. Francamente, non mi sembrava il tipo da credere a queste favole; e poi, chi glieli dava i soldi per riempirsi la stanza di roba così costosa? Antonio mi disse che il fioraio di fronte, Massimo, era un buon amico di Anna; poi aggiunse che era anche un bel ragazzo, e mi fece l’occhiolino.

– Anna, ti piacciono i fiori? − le chiesi, il giorno dopo. – Vuoi regalarmeli al mio compleanno? Manca ancora un mese. – No, solo curiosità. – Boh, dipende dai fiori. – Quali ti piacciono? – Ma è un test psicologico? Vuoi scoprire se sono pazza? La rispo-

sta è sì, non ti disturbare. Anna riusciva sempre a lasciarti senza parole, ti diceva solo quello

che voleva dirti, sempre con un sorriso, o con un broncio che valeva un sorriso. Magari una parola di meno, ma non una di più. Forse era vero, che voleva sembrare misteriosa. Ti spiazzava, rispondeva per enigmi. E questa è un’altra cosa che amavo di lei, perché all’epoca avevo l’hobby dell’enigmistica. Avevo cominciato da solutore, come tutti. Ho divorato pile di riviste, ho consumato penne, matite, tempo, occhi, zucchero, caffè e nervi. Prima i cruciverba, poi i rebus, le sciarade, le differenze, i cruci-verba senza schema, fino alle crittografie. Ho inviato soluzioni, ho parte-cipato a mille estrazioni, ho vinto un frullatore. Visto che me la cavavo col disegno, ho provato a inventare qualche piccolo rebus da condividere con gli amici. Sono piaciuti, mi sono sentito incoraggiato, e ho comincia-to a mandarli alle riviste con lo pseudonimo che mi ero scelto: “BraDi-Po”, dalle iniziali del mio nome; che poi rispecchiava pure la mia placida lentezza. Cominciai a creare qualche cruciverba, e tutti i giorni, al lavoro, nei lunghi tempi morti fra un biglietto e l’altro, buttavo giù schemi e di-segni, mescolavo lettere e sillabe, pensavo frasi, inventavo definizioni.

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Prima o poi avrebbero notato il mio talento, avrei visto “BraDiPo” stampato su una rivista importante, e avrei potuto dire di aver realizzato qualcosa nella vita.

Se riuscivo a finire un gioco di cui ero soddisfatto, dopo il lavoro passavo all’ufficio postale che sta a metà di via Garibaldi e lo spedivo a tre riviste, le più prestigiose. Quando il tempo era buono tornavo indie-tro e andavo a sedermi a un tavolino del caffè Roma, all’aperto. Non so-no uno di quelli che ama stare lì a osservare il passeggio, quella è roba per i pettegoli come Antonio; però capirete che dopo una giornata rin-chiuso in un museo, avevo bisogno di un po’ d’aria fresca.

Era sempre Anna che veniva a servirmi. Non avevo bisogno di or-dinare: prendevo sempre un caffè americano nel bicchiere grande di car-tone, quello che usavano per le spremute e i frullati. Non lo facevo per igiene, ma perché lì dentro il caffè si mantiene caldo più a lungo. Certo, per fare le cose per bene ci voleva il coperchio forato, ma si sono sempre rifiutati di comprarli, dicevano che sarebbe stata una spesa inutile, che nessuno voleva la risciacquatura di piatti che bevevo io. Quello almeno era il nome colorito che il padre di Anna dava al mio caffè. Offensivo più che colorito, a dirla tutta.

Quando Anna si abbassava un poco per posare il bicchiere sul tavo-lo, sentivo il suo fresco profumo di doccia appena fatta mentre davo uno sguardo veloce alla scollatura. Mi offriva sempre un nuovo scorcio delle sue tette: bastava un taglio diverso della maglietta o del reggiseno, e tutto cambiava. Anche il contrasto più o meno marcato fra il colore della pelle e quello della maglietta mi dava ogni volta un’emozione diversa. Mi sa-rebbe piaciuto parlarne con lei, ma come si fa? Come facevo a dirle: “Sai che fra le tue tette di ieri e quelle di oggi c’è una bella differenza?”. Se l’avessi fatto, avrebbe mandato suo padre o suo fratello a servirmi, e ad-dio.

Una volta proposi una mia creazione alla rubrica “Aguzzate la vi-sta”. Due disegni affiancati, all’apparenza uguali: una cameriera con ca-pelli e occhi scuri che serve un caffè americano a un cliente al tavolo di un bar. Sembravano uguali, ma osservando bene avreste notato un taglio diverso della maglietta, l’assenza dello scontrino su uno dei vassoi, due

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bustine di zucchero contro una, le fogge diverse dei fermacapelli... Non me lo pubblicarono, ma l’ho sempre considerato un piccolo capolavoro.

La sera che Anna mi aveva detto del compleanno, mentre sorseg-giavo il mio caffè al tavolino del bar, decisi che le avrei fatto un regalo. Di fronte a me vedevo Massimo, il fioraio, che sbrigava i suoi clienti. Sì, d’accordo, era belloccio, ma lo trovavo un po’ volgare, con quei capelli lunghi a coda di cavallo, le magliette a righe e i jeans strappati. Di sicuro anche lui le avrebbe fatto un regalo, forse un enorme fascio di fiori e-normi e rarissimi, di quelli che succhiano un litro di ossigeno al minuto; oppure una pianta fatta venire dal Madagascar, dalla Cambogia o dalla foresta amazzonica. Se volevo attirare l’attenzione di Anna, dovevo fare di più e meglio di lui.

L’idea mi venne quasi subito. Al museo avevamo un deposito, dove da quasi due anni erano conservati reperti medievali. Li avevano trovati durante i lavori per le fondazioni del nuovo Tribunale. Furono mandati da noi provvisoriamente, in attesa che un architetto della Soprintendenza provvedesse alla catalogazione, ma non avevamo ancora visto nessuno. Ufficialmente il contenuto di quelle due grosse casse era ignoto, ma io li conoscevo tutti, i reperti, uno per uno. Ce n’era uno bellissimo, un picco-lo frammento di mosaico: una testa di donna, una domina longobarda con capelli e occhi scuri come Anna, addobbata con uno sfarzoso copricapo e diversi monili. Certo, Anna non è un’aristocratica, ma per me è sempre stata una principessa. Così decisi che le avrei regalato quel piccolo mo-saico, di cui nessuno si curava, e sul biglietto avrei scritto: “Alla princi-pessa Anna, dal suo umile servitore Brando”. Ovviamente l’avrei invitata a dire a tutti che si trattava di una copia: sarebbe stato il nostro piccolo segreto.

Qualche giorno dopo, durante una delle nostre brevi conversazioni del mattino, Anna sganciò una bomba nucleare.

− Chissà, magari presto cambierò lavoro!

− Come sarebbe? − chiesi.

− Come sarebbe “come sarebbe”? Non è chiaro?

− Pensavo che volessi continuare l’attività di tuo padre.

− C’è già mio fratello. Siamo troppi, e si guadagna poco.

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− Ma... che lavoro? Dove?

− Eeehhh, troppe cose vuoi sapere! E poi non c’è niente di certo. Sto preparando un concorso.

Provai a insistere, ma non riuscii a cavarle di bocca una sola parola di più. Ora, che mi crediate o no, nella vita avevo solo tre certezze: il mio lavoro, il fatto che avrei pubblicato su una rivista di enigmistica, e Anna. Il pensiero di non vederla più mi mandava al manicomio. Mi ripromisi di indagare meglio, ma avevo cose più urgenti di cui occuparmi.

Per impadronirmi del mosaico aspettai con pazienza l’occasione buona. Di tanto in tanto capitava che io o Antonio lasciassimo il museo qualche minuto o anche mezz’ora prima della chiusura. Prassi consolida-ta, ci davamo una mano a vicenda quando era necessario. Un giorno An-tonio mi chiese di uscire in anticipo perché doveva portare la figlia a un saggio di danza. Come sempre, gli dissi che non c’era nessun problema, lui mi ringraziò, e all’ora stabilita se ne andò. Al momento opportuno spensi il computer e le telecamere, chiusi l’ingresso dall’interno e andai nel deposito con la mia borsa a tracolla. Non me l’aspettavo, ma il cuore mi batteva forte, come quello di un innamorato. E non lo ero, forse? Non era per Anna che stavo facendo tutto questo? Tirai fuori il piccolo mosaico, aprii la borsa e l’infilai dentro. Era la prima volta, da quando non ero più un bambino, che rubavo qualcosa.

Venne il giorno del suo compleanno. Nei giorni precedenti mi ero accertato che avrebbe lavorato normalmente. Non potevo darle il mio regalo davanti ad Antonio, non volevo rischiare nulla. Così, quando arri-vò al museo con le nostre colazioni, le feci gli auguri e le diedi un pac-chettino. Ne fu stupita, e mi chiese se poteva aprirlo subito. Le dissi di sì. Era un fermacapelli di legno con intarsi in madreperla. Mi piaceva quan-do teneva i capelli raccolti, e volevo incoraggiarla. Disse che era bellissi-mo. Mi sembrò sincera, anche perché mi ringraziò con due piccoli baci sulle guance. Non ci eravamo mai baciati prima, e il contatto con la sua pelle liscia e profumata mi lasciò stordito e felice.

Dopo il lavoro andai al bar. Anna venne a servirmi, e sentii il mio cuore che batteva forte di nuovo. Guardai fra i suoi capelli, ma il mio fermacapelli non c’era.

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− Ho un altro regalo per te.

− Uh, davvero?

− Te lo darò fra mezz’ora, appena cala il buio.

− Che cosa misteriosa!

− È un regalo molto prezioso, ma nessuno dovrà saperlo. Anna perse d’un tratto il suo buonumore.

− Ascolta, ti ringrazio, ma non credo di poter accettare regali pre-ziosi, soprattutto se poi devo tenerli nascosti.

− Non dovrai tenerlo nascosto, ma dirai che si tratta di una copia di un bravo artigiano. Quando lo vedrai, capirai.

− Va bene, ora però devo tornare dentro.

− Vai pure. Io finisco il caffè, completo un cruciverba e aspetto il buio.

Le consegnai il mosaico in un pacchetto anonimo. Le dissi di fare attenzione, perché si trattava di un oggetto fragile, anche se avevo usato il millebolle per proteggerlo. Mi ringraziò, prese il pacchetto, se lo infilò nel tascone del grembiule e andò via. Questa volta niente baci, però.

Il giorno dopo non la vidi: era domenica, non lavoravo. All’alba del lunedì i carabinieri suonarono alla mia porta.

− Di Popolo Brando?

− Sì, sono io.

− Lei è sospettato di furto archeologico. Dobbiamo perquisire l’appartamento e portarla in caserma per accertamenti.

Scoppiai a piangere, non tanto per l’umiliazione e la paura, ma per il tradimento di Anna. Poi, sì, avevo anche una maledettissima paura che mi faceva tremare tutto. Finita la perquisizione, che non ebbe alcun esito, fui portato in caserma e interrogato. Ammisi la mia responsabilità, spie-gando vagamente il motivo che mi aveva spinto a quel gesto riprovevole. Fu allora che scoprii che a consegnare il mosaico e a fare il mio nome era stato il padre di Anna. Una fiammella di speranza mi si accese in petto, come se quella circostanza potesse cambiare di una virgola quanto mi stava accadendo.

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I giorni seguenti furono davvero penosi, mi scuserete se non ne par-lo. Dirò solo che non misi più piede al lavoro, e ci fu tutta una lunga se-quenza di avvocati, giudici, udienze, e poi provvedimenti disciplinari, car-te, firme. Antonio mi scrisse un messaggio chiedendomi cosa diavolo a-vessi combinato, che l’amore è una brutta bestia, e che se avevo bisogno di qualcuno che testimoniasse sulla mia buona condotta, l’avrebbe fatto volentieri. Fu l’unica consolazione, e confesso che piansi a dirotto, quan-do lo lessi.

Sebbene facessi fatica a conservare la concentrazione per le tante in-combenze e preoccupazioni, cercavo caparbiamente di inventarmi qual-che nuovo gioco: era l’unico modo che conoscevo per distrarmi, e l’unica certezza che mi era rimasta, forse l’unica cosa che potesse tenermi ancora in vita. Completai una sciarada, un indovinello e delle parole crociate senza schema che mi sembravano decenti, ne feci le solite tre copie e le imbustai. Aspettai il buio e andai alle Poste di via Garibaldi. Entrai e mi misi in fila. Diedi un’occhiata agli sportelli, per vedere se c’era Michele, l’unico impiegato simpatico. Non c’era, purtroppo. C’era invece una gio-vane donna che somigliava moltissimo ad Anna, se non fosse stato per quei capelli raccolti in una coda e una casta camicetta bianca. Dietro di lei un’impiegata più anziana la guidava nelle operazioni. Guardai meglio, no-tai nella ragazza dei gesti familiari. Era proprio Anna, non c’erano dubbi. Nel momento in cui la riconobbi alzò lo sguardo e incrociò il mio. La-sciai immediatamente la fila e uscii, incamminandomi a passo svelto ver-so casa.

− Brando! Era la sua voce che mi chiamava. Mi voltai. Veniva di corsa verso di

me, come nei film. Ero scosso da un misto di dolore, speranza, rancore, desiderio. Restai immobile ad attenderla.

− Brando! Ciao! Non risposi, la guardai con ostentato stupore.

− Ascoltami, lo so che sei furioso con me, ma ho bisogno di parlarti.

− Hai dovuto aspettare d’incontrarmi per caso?

− L’unico numero di telefono che avevo era quello del museo. So che abiti in via Crispi, ma non conosco il civico, e non potevo mettermi

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a cercare il tuo nome sui citofoni. Capirai anche che non potevo chiedere a nessuno informazioni su di te.

− Ad Antonio potevi chiederle.

− No, nemmeno a lui. Ti spiegherò, se vorrai. Ho solo un minuto, devo rientrare: è il mio secondo giorno di lavoro.

Rimasi zitto, come scettico. Le toccava fare ancora un altro passo.

− Vediamoci stasera, in un posto tranquillo. Conosci il bar delle Ro-se?

− È un po’ fuori mano.

− Appunto. Stasera alle nove? Il bar delle Rose era un locale squallido, in una zona squallida della

città. Fosse stato per me, non l’avrei mai proposto per un appuntamento con Anna; ma in quel momento mi sembrò il posto più bello del mondo.

− Va bene, ci sarò.

− Grazie. Ora devo proprio andare, o mi licenziano in tronco. La vidi correre via, leggera ed elegante come non l’avevo mai vista.

Chissà se si era accorta della gaffe di quelle ultime parole, rivolte a uno che il licenziamento lo rischiava sul serio, da un momento all’altro. Sperai di no, e mi accorsi che non mi auguravo per lei la minima sofferenza, il minimo turbamento. Dovevo essere davvero innamorato.

Arrivai al bar delle Rose con largo anticipo: non volevo che Anna trascorresse da sola in quel posto anche un solo minuto. Mi sedetti a un tavolo e ordinai un cognac. Bevevo di rado quel tipo di alcolici, ma quella era un’occasione speciale. Anna arrivò in orario, mi alzai per salutarla e le strinsi la mano. Era una cosa un po’ formale, ma non trovai un modo più adatto di accoglierla. Si sedette di fronte a me. Portava il fermacapelli che le avevo regalato. Ero estasiato, ma feci finta di non notarlo.

− Cosa prendi?

− Un caffè, grazie.

− Americano? − chiesi con un sorriso. Sorrise anche lei, con una dolcezza nuova.

− No, un espresso va bene.

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Ordinai il caffè e restai a guardarla mentre si liberava del giubbino e della borsa.

− Volevo portarti un omaggio, ma dopo l’ultima volta ho preferito evitare.

Lo dissi con il sorriso, per rompere il ghiaccio, ma lei si sentì morti-ficata. La rincuorai subito.

− Su, scherzavo, lo sai.

− Se ce l’hai con me hai ragione, ma ho voluto incontrarti proprio per spiegarti...

− Ti ascolto. Arrivò il caffè. Anna aprì la bustina di zucchero e cominciò a parlare

con gli occhi rivolti alla tazzina, prima di fissarli nei miei.

− Quando ho scartocciato il pacchetto e ho capito di cosa si tratta-va, sono andata nel panico. Non sapevo cosa fare, volevo restituirtelo, ma ho avuto la pessima idea di parlarne a mio padre. Non so per quale motivo, per prima cosa ha chiamato Antonio, il tuo collega. Sono in con-fidenza, e c’è un altro motivo che li lega... che ci lega, come ti dirò fra un attimo. Insomma, non ci crederai, ma Antonio gli ha consigliato di de-nunciare il fatto. Mio padre non voleva, la pensava come me, che bastas-se restituirti il mosaico, e tutto sarebbe finito lì. E invece quello stronzo ha insistito.

− E voi perché gli avete dato retta?

− Qui viene la parte di cui mi vergogno di più. Lui ha un grosso po-tere su di noi: sua sorella era in commissione per il concorso alle Poste, ci eravamo accordati perché lo passassi. Se non avessimo ubbidito, sarebbe saltato tutto, e io di quel lavoro avevo bisogno.

− Ah, ecco...

− Vorrei capire perché Antonio ti ha fatto questa porcheria. Non siete amici?

− Credo di saperlo. Quanto all’amicizia, non ha per tutti lo stesso si-gnificato.

− Posso conoscerlo, il motivo?

− Non è importante. Piuttosto, sei contenta del nuovo lavoro?

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− Oddio, mi sento un po’ persa, ma mi abituerò.

− Se riesci a salutare e a sorridere a tutti, sei già più brava della metà dei tuoi colleghi. Al bar lo facevi. Continua così.

− Grazie per il consiglio. Ora però devo chiederti un favore: non parlare a nessuno di questo incontro, altrimenti potrei avere dei proble-mi.

− Non ne parlerò, promesso. Mi ringraziò e restammo in silenzio per qualche istante mentre lei

finiva il suo caffè e io il mio cognac.

− Ho ancora una domanda da farti − le dissi. − I carabinieri non mi hanno mai nominato il bigliettino con la dedica. Come mai?

− Perché l’ho messo da parte prima di parlare con mio padre: era una cosa troppo personale, oltre che molto bella. Anche il mosaico era bellissimo. Ah, e anche il fermacapelli. Lo vedi?

Girò la testa di lato per mostrarmelo bene. Io finsi sorpresa e sorrisi. Poi mi chiese della mia situazione giudiziaria, delle conseguenze sul mio lavoro, ma io preferii sorvolare, trattandole come questioni di poco con-to, bagattelle da liquidare con un’alzata di spalle. Parlammo ancora di qualche sciocchezza, poi uscimmo. Mi baciò sulle guance premendole forte contro le mie, come per risarcirmi dei dolori che mi aveva procura-to; poi se ne andò via sul suo scooter. Io mi avviai verso casa, ma la sera-ta era tiepida, e mi venne voglia di starmene in giro per pensare ad Anna, ad Antonio, alle cose belle e brutte della vita. Mi muovevo lentamente, come il bradipo che ero, anche perché i tanti pensieri rischiavano a ogni passo di farmi inciampare. Tornai a casa all’una di notte, e dormii come non avevo mai più dormito dall’alba di quel lunedì.

La sera dopo passai davanti al negozio di Massimo. Pensai di entrare per chiedergli quali erano i fiori preferiti di Anna. Volevo inviarglieli a-nonimamente, poi sarei passato alle Poste e mi sarei rivelato. Ma non po-tevo rischiare che Massimo riferisse a qualcuno di quell’incontro. Riflettei sul fatto che, pur volendo, non potevo parlare apertamente nemmeno con Antonio o con i familiari di Anna, le uniche altre persone che mi le-gavano a lei. La parola piana, franca, ormai mi era preclusa. Potevo parla-

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re solo per enigmi, o tacere. E siccome mi ero convinto che dei miei e-nigmi non interessava a nessuno, d’ora in poi avrei taciuto.

Quando tornai a casa presi le buste che avevo preparato la sera pri-ma e le buttai nel cestino. Presi altri tre fogli bianchi e vi scrissi di mio pugno: “Non riceverete altri plichi da parte mia. Grazie per l’attenzione che non mi avete mai dato”. Firmai col mio nome per esteso, infilai i fo-gli nelle solite buste e scrissi i soliti indirizzi delle solite tre riviste di e-nigmistica. Poi mi misi a scrivere un’altra lettera.

Feci passare la notte e il giorno successivo, poi ancora una notte e un altro giorno. A sera andai alle Poste e mi misi in fila. Anna era allo sportello, da sola: non c’era nessuno che le dicesse cosa fare. Un uomo anziano andò da lei con un pacchetto, e lei gli sorrise. Sorrisi anch’io. Venne il mio turno, mi toccava un altro impiegato. Finsi di avere ancora un modulo da compilare e feci passare avanti il tizio che stava dietro di me. Finalmente fui chiamato da Anna. Ci salutammo e ci sorridemmo. Le consegnai le tre buste, lei mi disse il costo e le affrancò. Le diedi i sol-di, e insieme ai soldi un’altra busta.

− Questa non ha bisogno di affrancatura, è per te.

− Grazie. Leggerò appena torno a casa. A casa ci tornai prima io. Mi preparai un tè e rilessi la brutta copia

della lettera, ricostruendo il testo finale fra le innumerevoli aggiunte e cancellature.

“Mia carissima Anna, dopo le spiacevoli vicende che ci hanno diviso e poi unito ho scoperto che sei l’unica persona con la quale posso parlare apertamente e senza vergognarmi. Tu sai che non sono un ladro, che ho preso un piccolo mosaico abbandonato con l’innocenza di chi strappa un fiore in un campo, solo per fartene dono, come fanno gl’innamorati. So bene di non avere speranze con te, ma questo ha reso il mio dono ancora più disinteressato: mi bastava che sapessi che ero pronto a rischiare tutto per farti felice. Ora la mia vita ha preso una brutta piega, non posso più tacerti la verità: mi licenzieranno, e forse finirò in carcere. Se non andrò in carcere, o dopo la galera, mi trasferirò da un mio cugino, a ottocento chilometri da qui, e cercherò di trovare il modo di sopravvivere, anche col suo aiuto. Non mi vedrai più. Avevo pensato di salutarti con un in-

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dovinello, una sciarada, ma poi ho capito che nulla vale un pensiero e-spresso in maniera semplice e chiara, senza la vanità di depistare e ingan-nare, senza voler suscitare stupore e ammirazione, in tutta umiltà. È cu-rioso che proprio ora che comincio a trovare le parole che per tanto tempo ho sfuggito, non potrò più farne uso, almeno con te. È curioso che questa mia trasformazione coincida con la tua: ti ho conosciuto alte-ra, sfuggente ed enigmatica, ti ritrovo modesta e sincera. Ti ho amato al-lora, e ti amo adesso. Ti auguro tutto il bene possibile, almeno quanto ne ho ricevuto da te in questi anni senza che tu lo sapessi. Tuo, Brando.

“PS A proposito di parole che non ti ho detto... Quella che preferi-vo fra le tue magliette è quella di cotone color pesca mélange, con il pizzo che sottolinea la scollatura. La tua acconciatura più bella è quel lento chignon che lascia fuori le orecchie e una piccola selva di ciocche ondulate sulla fronte e sul collo. Il profumo che più ti si addice è Rose Imaginaire. Della tua pelle, adoro il colore che prende verso la fine di maggio, quan-do la primavera l’ha scaldata un po’, vincendo quel pallore che sembra piacerti tanto. Il trucco più elegante è quel leggero ombretto viola, senza eyeliner, con un velo di fard rosa sulle guance. Il tuo gesto più seducente è quel darmi le spalle di scatto con finta aria offesa e andar via alzando una mano e muovendo le dita come per un beffardo saluto.

“Mi fermo qui per pudore, ma potrei andare avanti a lungo. Ti pre-go di conservare con cura queste parole: sono il dono più prezioso che potessi farti, più del mosaico, perfino più del fermacapelli”.

Ricopiai la lettera con la grafia più pulita che mi riuscì, la chiusi in una busta, la sigillai e la infilai nel cassetto del comodino. Tenerla con me mi avrebbe aiutato a illudermi che almeno una, fra le certezze della mia vita, non era svanita per sempre.

Quanto alle cose che sono successe da quel giorno in poi, non vale la pena parlarne. Basti dire che sono sopravvissuto.