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BREVE EXCURSUS SUI PRAEAMBULA FIDEI Giovanni Lauriola Una riflessione sotto voce. Non so se qualcuno ricorda che nella cultura cattolica, dalla fine dell’800 ad oggi, è stata abbastanza diffusa l’idea che, chi segue itinerari filosofici e teologici diversi dal “tomismo”, non è in sintonia con l’ortodossia della chiesa. Come se l’essere cristiano dipenda dal professare fedeltà al pensiero di Tommaso o di Aristotele. E’ un’idea che per più di 50 anni ha tormentato il mio spirito, che non l’ha mai digerita, specialmente in considerazione del fatto che per essere cristiano sembra sufficiente credere a Cristo; e che un autore, importante quando si vuole, è sempre figlio del suo tempo. Se un fatto storico viene elevato a teoretico, assolutizzandolo, si compie un’opera ideologica con tutte le relative conseguenze. Inoltre, l’attualità di un pensiero si misura in rapporto alle verità che resistono all’usura del tempo e al modo come avvicinano al mistero di Cristo, dal momento che soltanto per mezzo di Cristo si conosce il Dio cristiano. Allora, le domande esistenziali dovrebbero essere: chi è Cristo e perché c’è Cristo; e non se si è fedeli al pensiero di Tommaso o di Aristotele, che si sono fatti anche sostenitori dell’idea di una natura perfetta in se stessa, non bisognosa di alcuna rivelazione per conoscere quelle verità fondamentali che introducono alla fede, e che, tecnicamente, vengono chiamate praeambula fidei. Dalla loro conoscenza naturale, si passa logicamente alla fede. L’espressione “preamboli della fede” indica genericamente quell’insieme di verità che sono non solo introduttorie alla fede, ma che conducono naturalmente anche alla stessa fede. Tra esse bisogna ricordare: la dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, dell’immortalità dell’anima, del fine ultimo dell’uomo, della libertà, della verità, del diritto naturale, della sacralità della vita, della trascendenza della persona, del fondamento del mondo... Comunemente, si ritiene che queste verità siano conoscibili con la ragione naturale, tanto da costituire anche un logico passaggio verso la fede; mentre, la mia convinzione ha sempre pensato diversamente, senza mai tentennare. Anzi, con la dottrina del cristocentrismo ontologico, proposta dal francescano Duns Scoto, la certezza si è fatta sempre più profonda e convinta sia a livello storico che teoretico. Di conseguenza, la convinzione che i praeambula fidei siano più ambito della fede che della ragione, si è motivata di ragioni storiche e speculative, che ora guidano lo sviluppo della presente riflessione.

BREVE EXCURSUS SUI PRAEAMBULA FIDEI - centro Duns Scoto · papae (1075) di Gregorio VII, varie bolle (databili dal 1199 al 1202) di Innocenzo III, e infine la bolla ... dizioni strutturali

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BREVE EXCURSUS SUI PRAEAMBULA FIDEI

Giovanni Lauriola

Una riflessione sotto voce.

Non so se qualcuno ricorda che nella cultura cattolica, dalla fine dell’800 ad oggi, è stata

abbastanza diffusa l’idea che, chi segue itinerari filosofici e teologici diversi dal “tomismo”, non è

in sintonia con l’ortodossia della chiesa. Come se l’essere cristiano dipenda dal professare fedeltà al

pensiero di Tommaso o di Aristotele. E’ un’idea che per più di 50 anni ha tormentato il mio spirito,

che non l’ha mai digerita, specialmente in considerazione del fatto che per essere cristiano sembra

sufficiente credere a Cristo; e che un autore, importante quando si vuole, è sempre figlio del suo

tempo. Se un fatto storico viene elevato a teoretico, assolutizzandolo, si compie un’opera ideologica

con tutte le relative conseguenze. Inoltre, l’attualità di un pensiero si misura in rapporto alle verità

che resistono all’usura del tempo e al modo come avvicinano al mistero di Cristo, dal momento che

soltanto per mezzo di Cristo si conosce il Dio cristiano.

Allora, le domande esistenziali dovrebbero essere: chi è Cristo e perché c’è Cristo; e non se si è

fedeli al pensiero di Tommaso o di Aristotele, che si sono fatti anche sostenitori dell’idea di una

natura perfetta in se stessa, non bisognosa di alcuna rivelazione per conoscere quelle verità

fondamentali che introducono alla fede, e che, tecnicamente, vengono chiamate praeambula fidei.

Dalla loro conoscenza naturale, si passa logicamente alla fede. L’espressione “preamboli della

fede” indica genericamente quell’insieme di verità che sono non solo introduttorie alla fede, ma che

conducono naturalmente anche alla stessa fede. Tra esse bisogna ricordare: la dimostrazione

razionale dell’esistenza di Dio, dell’immortalità dell’anima, del fine ultimo dell’uomo, della libertà,

della verità, del diritto naturale, della sacralità della vita, della trascendenza della persona, del

fondamento del mondo...

Comunemente, si ritiene che queste verità siano conoscibili con la ragione naturale, tanto da

costituire anche un logico passaggio verso la fede; mentre, la mia convinzione ha sempre pensato

diversamente, senza mai tentennare. Anzi, con la dottrina del cristocentrismo ontologico, proposta

dal francescano Duns Scoto, la certezza si è fatta sempre più profonda e convinta sia a livello

storico che teoretico. Di conseguenza, la convinzione che i praeambula fidei siano più ambito della

fede che della ragione, si è motivata di ragioni storiche e speculative, che ora guidano lo sviluppo

della presente riflessione.

Come ogni scelta esistenziale orienta e condiziona la stessa ricerca, così anche la risposta ai

praeambula fidei dipende dal rapporto iniziale che si ha con Cristo. Ora, di Cristo la storia ha

registrato due grandi ipotesi interpretative: quella fuzionale e quella ontologica, che indicano il

modo diverso di leggere il mistero dell’Incarnazione. La prima risposta è proposta da Tommaso

d’Aquino e fatta propria anche dalla chiesa, anche se non in modo esclusivo; la seconda risposta è

propria di Duns Scoto e vive nella chiesa più nei documenti che nella pratica. Teologicamente, il

problema riguarda l’interpretazione del rapporto tra Incarnazione e Redenzione.

A nessuno sfugge che la concezione della vita è progettata diversamente, a seconda della risposta

data al mistero di Cristo, perché viene a cambiare la prospettiva di analisi e di valutazione

dell’essere. Nell’una, è l’uomo il centro che subordina il Cristo al suo “servizio”; nell’altra, invece,

è Cristo il centro da cui s’irradia la luce verso l’Alto e l’altro, cioè verso Dio, l’uomo e il mondo.

Nella prima prospettiva “funzionale”, Cristo libera l’uomo da; in quella “ontologica”, invece, Cristo

libera l’uomo per. La libertà-da è considerata principale dall’una, e secondaria dall’altra; mentre la

libertà-per è primaria per la seconda ipotesi e secondaria per la prima. L’ipotesi funzionale esprime

quel momento che si può chiamare anche conversione o libertà-da; l’ipotesi ontologica, invece,

quello della fede o libertà-per. La conversione è condizione indispensabile per la scelta della fede,

ma non può considerarsi passaggio logico e naturale alla fede, perché è la fede che esige e include

la conversione, ma non viceversa. Sembra la trascrizione dell’evangelico “convertitevi e credete al

vangelo”, che richiama la duplice finalità dell’azione di Cristo: gloria a Dio e pace all’uomo.

Questi semplici pensieri serpeggeranno per l’intera riflessione, cui si può aggiungere anche il

dolce ricordo di qualche pensatore moderno, come Pascal e Kierkegaard, Rosmini e Marcel,

Pareyson e Prini, Sciacca e Antiseri, così da offrire qualche riferimento storico per facilitare

l’interpretazione del retroscena culturale in cui siamo cresciuti e ancora viviamo, anche se qualche

volta si sente dire, che la chiesa "non propone una propria filosofia né canonizza una propria

filosofia a scapito di altre". Nella realtà però avviene tutto il contrario.

La riflessione si svilupperà, certamente, alla luce del ricordo della ricostruzione teologica e

filosofica del Maestro francescano, espressa ufficialmente dalla dottrina del “cristocentrismo

ontologico”, che ha come punto di forza il Primato di Cristo con tutte le derivanti possibili: gloria a

Dio e pace all’uomo. Come il ricordo è più delicato e vellutato all’ombra del silenzio, così anche

questa parola discreta prende spunto proprio dal Silenzio divino, nella speranza che possa entrare

nel silenzio di qualcuno e insieme proclamare ai quattro venti: con Cristo o contro Cristo.

Nel contesto del silenzio di Dio, Uno e Trino, emerge anche il silenzio dell’uomo e il limite della

sua ragione. Proprio da questi limiti costituzionali, si coglie l’occasione per esprimere in questo

breve excursus, il punto di demarcazione tra Dio e uomo, tra fede e ragione, tra mondo medievale e

mondo moderno, come premessa alla risposta dei praeambula fidei, così da evidenziare ancora una

volta il pesante silenzio versato su Duns Scoto. E proprio da questo silenzio imposto, si evidenzia la

soluzione del Maestro francescano intorno ai praeambula fidei, che, primo nella storia, affida con

sicurezza più all’ambito della fede che a quello della ragione, anticipando profeticamente l’attuale

orientamento culturale.

Per un primo approccio al rapporto fede-ragione bisogna risalire al medioevo, quando è stato

posto il problema intorno alla necessità della Rivelazione per raggiungere il fine ultimo dell’uomo.

Per Tommaso, la necessità del dato rivelato è d’ordine morale; per Duns Scoto, invece, d’ordine

ontologico. Le risposte rispecchiano non solo la diversa prospettiva di considerare il Cristo, ma

anche la differente situazione storico-culturale in cui gli Autori vissero e agirono, specialmente in

considerazione che nell’arco di pochi anni, le condizioni culturali cambiarono profondamente, quasi

a demarcare due epoche in poco spazio temporale. Si possono così sintetizzare: da un lato, un Cristo

in funzione per liberare l’uomo, e un Cristo libero per manifestare il modo di glorificare Dio; e

dall’altro una società in profonda trasformazione in ogni settore dello scibile umano, secondo le

esigenze legittime della vita terrena che mutano con il mutare dei tempi e delle circostanze, e il

necessariamente rigido ordinamento della Chiesa, giustificabile dalla sua preminente caratteristica

dello spirito, posto e concluso dogmaticamente.

Il periodo di riferimento è l’ultimo quarto del secolo XIII e il primo del successivo, che, mutatis

mutandis, sembra riprodurre essenzialmente lo stesso clima culturale moderno. Questo scorcio di

tempo, cronologicamente molto breve, presenta un ambiente di vita e di cultura assai complesso,

ricco di antinomie e d’indirizzi problematici antitetici, e anche sofferti rapporti tra stato e chiesa,

che, nell’insieme, documenta la crisi di trapasso da un’epoca all’altra, dalla via antiqua alla via

moderna. Duns Scoto si trova a vivere in prima persona questa delicata situazione di passaggio dai

vecchi ai nuovi moduli storici e culturali di condotta, che si avviano sicuramente verso una

ristrutturazione sistematica sempre più all’insegna dell’autonomia e in contrapposizione a quella

della dipendenza curriculare delle scienze dalla teologia.

A nessuno sfugge anche la delicata situazione che da un lato, si avvalora l’unione fra dottrina

rivelata e verità qualificate come preamboli riconoscibili dalla retta ragione; e dall’altro, si accetta il

giudizio della cultura dominante di ritenerle verità confessionali, aumentando così ulteriormente lo

iato fra pensiero credente e non credente. L’alternativa è profonda. Comporta una maggiore

separazione tra verità rivelata e verità di ragione, con la conseguente nascita di nuove

problematiche, come, ad esempio, fondare un’etica senza Dio, e la dignità e i diritti della persona

umana senza necessità di alcun riferimento trascendente. Certamente la nuova problematica

impegna speculativamente a ricercare il fondamento dell’essere su altre piste che non siano quelle

proposte fino a oggi. E la storia di piste alternative ne offre anche di grande respiro, come quella

scotista, che è l’espressione matura e scientifica dell’ideale francescano.

Duns Scoto, come il rappresentante più qualificato del pensiero francescano, discute la

“controversia tra teologi e filosofi”, cioè tra credenti e non-credenti, e pianifica già le rispettive

posizioni metafisiche, che oggi vengono ancora riproposte, ma con il segreto “pregiudizio”, nei

teologi, di possedere non solo la verità ma anche di doverla imporre. Si pensi, per esempio alla

pregiudiziale espressione: “la razionalità, come tale, non è ostacolo al cammino verso Dio, a patto

che sappia riconoscersi e auto-comprendersi come razionalità non indipendente”, cioè di ammettere

un Dio Creatore!, che è proprio il contenuto di un “preambolo della fede”, la creazione dal nulla,

che i Filosofi non riconoscono possibile alla ragione umana naturale. Lo stesso Pensatore

francescano aveva notato che la non apoditticità di tale dimostrazione razionale, non significa

impossibilità, ma solo limite della ragione, che, proprio in forza della sua intrinseca razionalità, non

dovrebbe chiudersi in sé stessa, ma restare aperta ad altre possibilità esterne, se ce ne fossero.

Possibilità che apriva la via alla “scelta della volontà” a voler andare oltre la stessa ragione,

entrando così nell’ambito del “principio di rivelazione”, ossia della fede, che si rivela

profondamente determinante ed essenziale nella ricerca delle verità essenziali per l’uomo.

Perché non è stato ascoltato?

Questo breve exursus è un tentativo di risposta. Di proposito, avviene sotto voce, come in

silenzio, senza entrare nel vivo della moderna discussione, perché quando il pensiero francescano

viene “ideologicamente” sottaciuto, diventa difficile dialogare con chi aprioristicamente pensa di

possedere già la verità da imporre. Il presente ricordo, tuttavia, viaggerà su un duplice binario:

quello storico-culturale e quello del rapporto fede-ragione, presupposti indispensabili per la

soluzione del problema dei praeambula fidei.

1. Crisi politico-religiosa al tempo di Duns Scoto

L’evoluzione della caratterizzazione temporalistica del potere spirituale segna delle tappe

fondamentali che, dall’apocrifa “donazione di Costantino”, attraverso le pietre miliari di Gregorio

VII e di Innocenzo III, raggiunge con Bonifacio VIII l’acme dell’espressione e anche l’inizio del

declino. In queste tappe si registra un crescente impegno politico della chiesa fino alla situazione

limite di un’adeguazione dello spirituale al temporale e del temporale allo spirituale. In pochi

secoli, il potere spirituale viene non solo esercitato, ma sistematicamente si temporizza,

raggiungendo l’espressione di teocrazia, ossia di un cosciente e intenzionale esercizio del potere

spirituale in termini di primato assoluto anche su materie di non spettanza diretta della chiesa, come

ad esempio la scienza, la politica, l’economia.

Una tappa fondamentale per comprendere la struttura della teocrazia è certamente il passaggio

dalla pratica effettiva di essa alla sua teorizzazione definitoria in una prospettiva più ampia,

attraverso i principali documenti dei pontefici: bolla In nomine Domini (1059) di Nicolò II, Dictatus

papae (1075) di Gregorio VII, varie bolle (databili dal 1199 al 1202) di Innocenzo III, e infine la

bolla Unam sanctam (1302) di Bonifacio VIII. Di questi documenti, quello che meglio crea le con-

dizioni strutturali della teocrazia come ierocrazia, è certamente il Dictatus papae. Inizialmente la

teocrazia si configura come via per riaffermare la legittima libertà delle sfere di reciproca

competenza del potere spirituale dal potere temporale. In questo sforzo di autonomia, vengono

gettate le basi della teocrazia, in cui il potere temporale con quello spirituale sta in un rapporto,

anziché di contrapposizione o di cooperazione, di subordinazione.

L’accenno ai quattro punti caratterizzanti del Dictatus facilitano la conoscenza dell’ulteriore

qualificazione della teocrazia: il primo riguarda la figura e la prerogativa del papa; il secondo

concerne l’organizzazione centrale della chiesa; il terzo afferma l’assoluto primato della chiesa di

Roma su tutte le altre; e il quarto riguarda la supremazia del papa sull’imperatore. L’idea di fondo

che serpeggia nell’intero documento è quella del primato del potere spirituale sul potere temporale,

inteso nel senso che questo si legittima su e per quello. La conseguenza è grave: il potere politico

non si fonda più sull’autonomia originaria del potere temporale; e il potere laico è ridotto in un stato

di inferiorità che contrasta con quella concezione della sacralità del potere regio che era stato uno

dei cardini sui quali aveva poggiato tutta la costituzione politico-religiosa dell’alto medioevo.

Dopo Gregorio VII, la ierocrazia trova il più acuto sostenitore in Innocenzo III, che si preoccupa

di darle anche una base giuridica. Per la prima volta viene affermato il principio più caratterizzante

della ierocrazia, ossia quello della plenitudo potestatis. Ne è confermato dalla qualifica di “Vicario

di Cristo” che Innocenzo III si attribuisce primo nella storia, anziché di “Vicario di Pietro”; e così la

teocrazia si riveste anche della veste giuridica e si trasforma da potere spirituale in potere ec-

clesiastico. Infine, con Bonifacio VIII, la ierocrazia raggiunge contemporaneamente il culmine e

anche l’inizio del declino. La bolla Unam Sanctam rappresenta, infatti, il documento più esplicito e

anche più impressionante dell’ideale teocratico: la chiesa è investita dei due poteri, e,

conservandone comunque il controllo, lascia che il potere temporale lo esercitino le autorità civili.

Nasce così il concetto di “delega” che comporta anche la libertà di revocarlo.

Di fronte alle posizioni della chiesa si pone lo stato civile che reagisce duramente e anche

efficacemente. In linea generale, si può ritenere che i diritti della persona umana - da proteggersi

giuridicamente più che riconoscerli teologicamente - favoriscono il sorgere dello spirito laico, che si

estende in tutte le sfere dell’esistenza, specialmente nella politica e nella cultura. I diritti della

ragione e della libertà accentuano la valorizzazione del temporale sullo spirituale. Spesso, l’eccesso

della polemica si esprime in toni aspri e duri, da rasentare il rifiuto dello spirituale. La corsa

affannosa verso la concezione “omocentrica” della vita sociale si trasforma anche in quella dei

costumi e dello spirito. Tale rivendicazione è rivolta principalmente verso la Chiesa, ma anche

verso l’Impero.

Sul piano storico trova conferma il fatto che la laicità viene incarnata dalle varie istituzioni

politiche: da quella imperiale a quella monarchica, dalle repubbliche marinare ai comuni. Questa

nuova laicità è tutta concentrata sull’“uomo”, anche se aperta ai valori dello spirito. Tra le varie

tensioni nei rapporti tra Chiesa e Stato bisogna segnalare il conflitto fra Bonifacio VIII e Filippo il

Bello, che si conclude con il rafforzamento della mentalità laica del potere e con la crisi dell’ideale

ierocratico, al di là delle motivazioni storiche che lo avevano originato. L’interpretazione del

conflitto è duplice: storica da un verso e teoretica dall’altro.

L’entrata sulla scena culturale di Duns Scoto coincide con questo clima di profonda crisi

istituzionale, di cui ne avverte le contraddizioni e tenta di ricomporre una possibile soluzione, non

tanto risolutiva quanto chiarificatrice dei termini della questione, come si evince dalle lunghe e

approfondite analisi condotte nel “prologo” all’Ordinatio. La posizione del Dottor Sottile in questo

delicato conflitto viaggia meno sul binario storico che speculativo. Difatti, le tracce lasciate della

situazione sono piuttosto scarse e indirette, non avendo egli lasciato opere specifiche, ma soltanto

pochi riferimenti in alcune questioni di carattere morale, con i quali, tuttavia, è possibile evidenziare

le linee portanti del suo pensiero politico sociale e giuridico.

In riferimento ai rapporti tra fede e ragione, gli elementi della problematica vengono soltanto

precisati da Duns Scoto ma non problematizzati, come invece avverrà con Occam e Marsilio da

Padova. Evidente, però, è la convinzione di essere a un bivio della storia, cioè al trapasso da un

periodo all’altro. Tra le principali conseguenze di questo scontro-conflitto istituzionale tra Chiesa e

Stato, piace evidenziare alcuni aspetti culturali che hanno grande rilevanza nella comprensione della

speculazione scotista. In teologia, la laicizzazione del sapere farà sentire forte la sua rivendicazione

specialmente nel rapporto fede-ragione, che si ripercuoterà in tutto il sapere, come un ritornello; in

sociologia, l’autorità è ripensata criticamente e in funzione della libertà; in economia, prevale l’uso

del denaro e il diritto di proprietà meno naturale che storica; il clero perde il monopolio

dell’istruzione con la nascita di scuole e università statali; in politica, la mentalità laica esce

rafforzata e facilita la crisi dell’ideale ierocratico. In breve, si fa strada il concetto della dignità

dell’uomo, attraverso la fine delle due istituzioni universali, papato e impero. Questo, uno spaccato

della crisi politico-religiosa al tempo di Duns Scoto.

2. Crisi culturale al tempo di Duns Scoto

Tutto il periodo medievale è dominato dall’ideale cristiano della fede, anzi viene a coincidere

con la stessa terminologia di “filosofia cristiana” e viene adottato comunemente il metodo

anselmiano del fides quaerens intellectum, senza confondere i piani del sapere filosofico e del

sapere teologico: il teologo non ha la pretesa di trasformare in conoscenza la fede; né il filosofo, la

fede in scienza. Il filosofo medievale si domanda semplicemente se tra le proposizioni che crede

veraci ce ne sia qualcuna che alla sua ragione potrebbe saper vera.

Dopo il 1250 si affermano personalità scientifiche di alto spicco, che delineano indirizzi di

pensiero diversificati e originali, mentre la vita intellettuale registra grande risveglio e rigoglio. La

scomparsa quasi contemporanea di Bonaventura da Bagnoregio e di Tommaso d’Aquino, nel 1274,

favorisce la formazione delle “scuole” e, quindi, anche di conflitti, dovuti a meschine rivalità e a

mancanza di originalità. Conflitti che nel 1277 sfociano a formali condanne, con profondi strascichi

fino al 1286. Le rivalità tra le scuole tra Mendicanti e Secolari, per circa 15 anni, hanno lasciato il

segno nella storia della cultura filosofica e teologica, e nelle menti di coloro che si aprivano alla vita

scientifica, che erano costretti a prendere posizione. La spaccatura tra le due facoltà, quella delle

Arti e quella di Teologia, non era facilmente sanabile, a causa della superbia tenacia e dello spirito

intollerante con cui si difendevano le rispettive posizioni.

Il pomo della discordia è dato occasionalmente dal modo come considerare l’aristotelismo, ma

sfocia poi apertamente nel rapporto tra fede e ragione, ossia sulla necessità della rivelazione o

sull’autosufficienza della ragione intorno a determinate verità esistenziali. Si delineano ben presto

due correnti: una con a capo Sigieri di Brabante che segue la via del razionalismo naturalistico e

professa un aristotelismo eterodosso; e l’altra è seguita dalla maggioranza dei maestri che adottano

l’interpretazione moderata dell’aristotelismo, cioè rispettosa della visione cristiana della vita. In

breve: la facoltà delle Arti professa un pensiero autosufficiente e indipendente dalla rivelazione,

poggiante sull’autorità radicale di Aristotele; la facoltà di Teologia registra, invece, due tendenze:

quella che fa capo a Bonaventura che difende la sapienza cristiana dalla scienza pagana, e quella

che fa capo a Tommaso che tenta di armonizzare i due ambiti disciplinari. Molto brevemente per

ciascun autore prima di Duns Scoto e un cenno anche a Occam che lo segue immediatamente, così

da cogliere qualcosa del pensiero medievale sul problema tra fede e ragione, come presuposto

interpretativo dei praeambula fidei.

3. Fede e ragione in Bonaventura da Bagnoregio

Prima di entrare nel vivo dell’argomento, sembra utile, per qualche lettore poco esperto, di

richiamare le principali fasi storiche del rapporto fede-ragione, che ha come tempo d’ingresso nella

storia solo con il cristianesimo. Nella sua evoluzione, tale rapporto ha avuto diverse posizioni, a

seconda del clima culturale predominante e della capacità geniale dei singoli autori. Benché tutti gli

autori medievali distinguano i rispettivi ambiti disciplinari della fede e della ragione, tuttavia c’è in

alcuni la tendenza a dare più importanza o alla fede o alla ragione, determinando posizioni storiche

diverse da autore ad autore.

Con uno sguardo molto fugace, si può tracciare il quadro storico così: dagli inizi ad Agostino,

predomina la sfera della fede su quella della ragione, che persiste fino alla rinascita carolingia; nella

prima scolastica fino al secolo XII, prevale l’ottimismo anselmiano, secondo cui la ragione può

comprendere tutto anche il campo della fede; con l’ingresso del sistema aristotelico verso la fine del

secolo XII, che rivoluziona la metodologia della ricerca, dando vita a una nuova situazione, in cui

coesistono insieme elementi tradizionali ed elementi nuovi; nella prima prima metà del secolo XIII,

si assiste a una verifica critica dello statuto epistemologico e della filosofia e della teologia, con

l’acquisizione di una maggiore distinzione più chiara tra verità di ragione e verità di fede, tra verità

naturali e verità rivelate. In quest’azione di verifica e di confronto avviene una undebita ed

equivoca identificazione tra “ragione aristotelica” e “ragione pura”, che al teologo non poteva non

apparire antistorica e molto grave, dal momento che egli conosce ben quattro stati della ragione

umana: pura decaduta redenta e glorificata1.

Nasce così la problematica tra i due ambiti di verità. Come possono conciliarsi? Come possono

stare insieme? Quali i valori e i limiti di ciascuno? A chi riconoscere e attribuire una certa

supremazia? Fin dove si estende la priorità? Di che natura è? Che valore ha? E’ storico o teoretico?

A queste e simili domande, la storia ha registrato risposte alternative. Qui, per ovvia ragione di

spazio, vengono soltanto indicate. La prima può coincidere con la crisi del 1277, che nasce e si

sviluppa in concomitanza con la stessa sorte dell’assimilazione dell’aristotelismo in occidente2.

L’arco di tempo tra il XII e il XIII sec. coincide con un momento storico in cui la cultura appare

universalmente dominata dalla visione cristiana della vita e dall’influsso ecclesiastico in politica.

L’equilibrio tra potere religioso e potere politico si ripercuote anche in utte le manifestazioni

culturali e artistiche dell’epoca. L’influsso principale si nota specialmente nella struttura e

1 Per uuna prima visione cf G. LAURIOLA, Filosofia Medievale, Noci 1989-1991, I-V. 2 La prima metà del XIII sec. Può considerarsi come periodo di transiszione, nel senso che è segnato dall’iniziale

utilizzazione cristiana della letteretura scientifica efilosofica del mondo greco, attraverso la mediazione delle traduzioni arabe. Le prime sintesi non sono ancora perfette, perché non erano disponibili i testi originali in lingua greca. Solo dalla seconda metà del secolo XIII, gli autori cristiani aveveno non solo la tra traduzione diretta dal greco, ma anche l’intero corpus aristotelicus.

nell’organizzazione degli studi universitari: tutto lo scibile è gerarchizzato alla teologia, la scienza

che conduce a Dio. La stessa facoltà delle Arti o di Filosofia viene considerata propedeutica alla

facoltà di Teologia. E’ il frutto di una concezione teocratica della vita.

Quando questa complessa organizzazione politico-religiosa viene a contatto con la visione

sistematica del mondo greco e aristotelico in particolare, entra in crisi. Si pensi ai vari interventi

ufficiali presi dalle autorità competenti, che si trovano, di punto in bianco, di fronte a una

concezione profondamente diversa e scientificamente più accreditata. Concezione che s’impone

subito e dovunque all’attenzione degli studiosi come “espressione naturale della razionalità”. Di

conseguenza, Aristotele viene considerato come la forrma più perfetta e più alta della “razionalità

naturale”, e come fonte di verità. Nascono così i due campi della questione, quello della fede e

quello della ragione.

Questa nuova e generale situazione viene accettata più o meno da tutti gli autori medievali, ma,

nel determinare l’esatta collocazione dei due ambiti, le opinioni divergono a tal punto da creare

delle vere e proprie posizioni differenti da autore ad autore. Tra le idee che contribuiscono alla

formulazione delle diverse sintesi, certamente il valore che viene attribuito al termine “ragione”

gioca un ruolo fondamentale.

Come intenderlo? In senso storico o in senso astratto?

L’uno comporta una forte connotazione teologica molto complessa; l’altro invece una eccessiva

fiducia nell’uomo. Il senso storico presuppone l’esistenza di quattro situazioni o stati della ragione

umana: prima del peccato originale o puro, dopo il peccato originale o decaduto, con la redenzione

di Cristo o redento e, per ultimo, dopo la morte o glorificato. E’ la posizione del teologo. Il senso

astratto, invece, è propugnato dal filosofo che non accetta alcun condizionamento estrinseco, e

considera la ragione in se stessa autonoma e perfetta, senza alcun bisogno di riferirsi a una realtà

trascendente, anche di tipo religiosa.

Sembra la fotografia del nostro tempo!

Quale senso preferire?

Difficile la risposta.

Storicamente, Bonaventura3 è stato il primo a prendere posizione ufficiale contro i nuovi

problemi e a offrire una soluzione che tenesse conto sia del valore della tradizione sia delle esigenze

delle moderne istanze scientifiche. Poiché l’interesse di Bonaventura verteva principalmente

sull’uomo “storico” e concreto, il suo pensiero è portato più a fondere i vari motivi teologici e

filosofici in una visione cristiana della sapienza, che a precisare la distinzione tra teologia e

filosofia, comunque chiaramente affermata.

3 Nato a Bagnoregio (Orvieto) tra il 1217-1221 e morto a Lione (F) il 15 luglio 1274.

Punto fondamentale: l’uomo, per Bonaventura, non esaurisce la sua avventura sulla terra, ma la

continua nell’al di là, attraverso i segni del peccato originale e della redenzione. In questa

prospettiva storico-teologica, il Dottor Serafico ritiene legittimo un uso “filosofico” e un uso

“teologico” della “ragione”, come già avveniva nelle facoltà delle Università. Tale uso viene

fondato sulla marcata distinzione di metodo, di principi e di contenuto.

Quanto al metodo: la teologia muove dalla Rivelazione o dalla fede e ricerca una certa

comprensione delle verità-misteri, secondo il classico adagio credo ut intelligam; la filosofia,

invece, dai dati naturali dell’esperienza umana, si sforza di analizzarne i processi e le cause che la

caraterizzano. Quanto ai principi: la filosofia si fonda su principi di ragione con i quali l’intelletto

costruisce in modo autonomo e autosufficiente la scienza acquisita razionalmente; la teologia, al

contrario, su principi di fede, con i quali, anche se ammessi implicitamente, l’intelletto costruisce la

scienza del dato rivelato. Quanto all’oggetto: la filosofia ha come oggetto la conoscenza certa della

verità in quanto conoscibile; la teologia, invece, la conoscenza religiosa della verità in quanto

credibile.

Nel problema se l’uomo può comtemporaneamente “conoscere” e “credere” a una stessa verità,

il Dottor Serafico è del parere che sia possibile la coesistenza tra lo scitum filosofico e il creditum

della fede, almeno per l’esistenza di Dio. Per quaesto distingue la verità in conoscibile o scitum e

credibile o creditum. L’una riguarda il campo del sensibile, del razionale e dello spirituale; e l’altra

quello del credibile in quanto intelligibile o teologia, del credibile in quanto credibile o fede, e del

credibile in quanto godibile o beatitudine. Applicando tale distinzione all’esistenza di Dio si può

avere il seguente schema:

scitum esistenza

uomo di Dio.

creditum essenza

Mentre dall’insieme si può ancora precisare la distinzione in ordine ai livelli di verità o ai

rapporti tra filosofia e teologia:

scitum-filosofia teologia

verità fede

creditum beatitudine.

Per Bonaventura, quindi, la teologia è una scienza acquisita, benché si fondi su principi di fede;

non è un prodotto esclusivo dell’intelletto speculativo, ma anche della verità inclinata dall’affetto

dell’anima o “fede informe”. La teologia si trova a esistere tra la filosofia e la fede.

Onde, un nuovo problema: che rapporto intercorre tra teologia e fede?

Per spiegare tale relazione, Bonaventura introduce il fecondo principio della “subordinazione”.

Una scienza si dice “subalternata” quando all’interno del suo sistema non può spiegare alcune

proposizioni e fa ricorso, quindi, a una scienza superiore. La teologia, pertanto, è solo

apparentemente “scienza”, perché, pur avendo dati metafisici propri, ricorre in molti punti alla fede

o Scrittura. Ne consegue: una scienza si dice subalternata se accetta come propri principi le

conclusioni di una scienza superiore, detta appunto subalternante, conservando come oggetto di

studio il medesimo della scienza superiore, anche se lo determina in maniera più particolare.

Per quanto attiene alla filosofia, Bonaventura ne afferma con insistenza il valore che consiste nel

condurre l’uomo verso la “verità” e la “certezza” delle cose. E ciò è reso possibile dal fatto che essa

è fondata sui primi principi dell’essere e della ragione, che sono autoevidenti veri e certi. E in

questo, Aristotele è un vero Maestro.

Alla domanda: se si può conoscere con pari certezza anche quel gruppo di verità che va sotto il

nome di praeambula fidei, preamboli della fede, come l’esistenza di Dio, la creazione del mondo

dal nulla, l’immortalità dell’anima, la libertà dell’uomo, il diritto naturale, il fine ultimo dell’uomo?

E’ opportuno distinguere l’ordine delle verità in ordine di certezza: quella raggiungibile con la

sola ragione e quella con la fede. Nell’intermezzo tra l’una e l’altra si collocano le verità cosiddette

di introduzione alla fede ossia i praeambula fidei. Al primo ordine di certezza oltre a tutte le verità

di natura filosofica, si pensava che anche i “preamboli della fede” appartenessero all’ambito della

razionalità4, mentre tutte le verità strettamente legate ai misteri dell’Incarnazione e della Trinità

all’ambito della fede.

Come tutti gli autori del XIII sec., anche Bonaventura ritiene possibile tale raggiungimento di

verità con la sola applicazione della ragione umana. Nel commento al testo di Pietro Lombardo,

però, sembra avanzare qualche dubbio: «Benché qualcuno possa provare l’esistenza e l’unità di Dio

con argomenti stringenti, tuttavia credere che la stessa esistenza divina e la stessa unità di Dio e

come quell’unità non escluda la pluralità delle persone, non è possibile purificarla se non per mezzo

4 F, CORVINO, Bonaventura da Bagnoregio, francescano e pensatore, Bari 1980, p. 332: «Solo se si tiene conto dell’effettiva situazione degli studi nel momento in cui comparve l’opera bonaventuriana, se ne può valutare esattamente l’originalità: essa invero fu il tentativo più organico, fin allora compiuto, di utilizzare tutta la scienza del tempo - logica e metafisica, fisica ed etica – per la costruzione di un sistema teologico completo, che in ciascuna sua parte mostrasse quel che poteva essere affermato in base aprocedimenti razionali, scientifici o filosofici, e quel che invece dipendeva esclusivamente dal dato rivelato; così ad esempio, l’esistenza di Dio, la creazione del mondo dal nulla e nel tempo, l’idividualità dell’anima erano dottrine ritenute acquisite mediante la sola ragione, mentre non venivano considerate tali la dottrina trinitaria e le altre verità note esclusivamente in base alla rivelazione»; B MONDIN, Storia della filosofia medievale, Roma 1985, pp. 323-327, specialmente pp. 326-327.

della fede»5. Questo pensiero di Bonaventura è da mettere in relazione con quello della IV Collatio

de dono scientiae, in cui precisa le quattro claritates scientiarum, ossia i quattro gradi di certezza

del sapere: «filosofico teologico sapienziale e beatitudinale»6.

Al di là delle differenze di livelli o gradi di conoscenza, quello che emerge dall’intera collatio,

ossia “conferenza”, è la progressione logico-naturale degli stessi gradi, nel senso che il primo

livello dispone naturalmente al secondo, e il secondo al terzo e il terzo al quarto. Nel contesto

dell’acquisizione del sapere filosofico, Bonaventura precisa molto bene il posto della filosofia e ne

delimita il campo effettivo della sua azione, senza creare vuote illusioni, come ad es., la pretesa di

comprendere tutto lo scibile, ossia che sia in grado di dare una risposta a ogni problema

dell’esistenza e dello stesso uomo. Il Dottor Serafico mette in guarda, perciò, dal pericolo di

“assolutizzare” la filosofia come l’unica e vera scienza, perché nel suo ambito non solo non si

pongono tutti i problemi dell’uomo, ma neppure viene risolto la stessa sua esistenza. Difatti, «la

scienza filosofica è via a un’altra scienza»7.

Di fronte a questo pericolo “assolutistico” non solo potenziale ma anche reale alla facoltà delle

Arti, Bonaventura mette a fondamento della sua indagine il concetto “storico” di ragione, e non

quello astratto e avulso da ogni riferimento al soprannaturale. Nell’uomo storico si connette in

modo inscindibile e il piano naturale e il piano della grazia. A tale concezione vuole rispondere la

filosofia cristiana o sapienza, in cui i problemi filosofici s’intrecciano con quelli teologici così

strettamente da non poterli più separare, se non astrattivamente.

Interessante la nota di Bonaventura: tutte le volte che i filosofi si sono avventurati nel mondo del

soprannaturale, cioè nei problemi racchiusi nell’espressione praeambula fidei, si sono sempre

smarriti e sono in corso in molti errori8. Ciò testimonia, secondo il Dottor Serafico, non tanto

un’imperfezione intrinseca alla ragione umana, quanto piuttosto i limiti della stessa ragione a

indagare da sola tali problemi, che invece sono connessi con la grazia. Per questo, per Bonaventura,

i praeambula fidei non si possono conoscere senza l’aiuto della rivelazione o della fede. Onde la

sua osservazione molto pertinente nei confronti dello Stagirita: il sistema filosofico non ha alcuna

soluzione da proporre al credente, anche se getta molta luce nel campo delle scienze naturali.

L’atteggiamento critico di Bonaventura verso l’aristotelismo si accentua dal 1265 in poi, quando,

nella facoltà delle Arti, si fa strada la corrente dell’aristotelismo eterodosso attorno alla personalità

5 Sententiarum III, d. 24, a. 2, q. 3, Respondeo: «Quamvis enim aliquis possit rationibus necessariis probare Deum esse et Deum esse unum, tamen cernere ipsum divinum esse et ipsam Dei unitatem et qualiter illa unitas non escludat pesonarum pluralitatem, non potest nisi per iustitiam fidei emundetur»

6 BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Collatio IV, n. 3: «Hic notandum est, quod est claritas scientiae philosopficae, de la scientia theologica, de la scientia gratuita et claritas scientiae gloriosae».

7 Ibidem, n. 12: «Philosophica scientia via est ad alias scientia». 8 Oltre ai praembula fidei, Bonaventura si riferisce a maggior ragione alle verità proprie della fede, quelle inerenti ai

due misteri principali, ossia all’Incarnazione e alla Trinità.

di Sigieri di Brabante, che, in fondo, sfocia naturalmente in una filosofia separata e avulsa dalla

visione cristiana. L’intervento di Bonaventura suona come un campanello d’allarme per gli altri

autori cristiani a non lasciarsi incapsulare in una filosofia chiusa in se stessa e autosufficiente,

perché essa non costituisce un sapere assoluto, meno ancora una sapienza di vita. Per il Dottor

Serafico, quindi, la metafisica aristotelica si presenta inconciliabile con quella sottesa

all’insegnamento biblico; mentre per la visione strettamente scientifica delle cose naturali, giudica

Aristotele un maestro degno di valore.

A conclusione della posizione di Bonaventura sul rapporto fede-ragione, piace rrichiamare la

distinzione tra fede e teologia: le due scienze hanno per oggetto entrambe il creditum, ma l’una in

quanto credibile e l’altra in quanto intelligibile, e sulla teoria della subordinazione della ragione alla

fede, secondo il suo classico De reductione artium ad theologiam. In rapporto ai praeambula fidei,

penso si possa dire che, per il Dottor Serafico, essi appartengono alla ragione che naturalmente è

aperta alla fede secondo i quattro livelli di certezza del sapere.

4. Fede e ragione in Tommaso d’Aquino

Indipendentemente dall’ingresso dello statuto ipistemologico aristotelico, la concezione

scientifica medievale genericamente si basava sul formulario della conoscenza come sapienza e

come certezza, l’una raggiungibile per rivelazione divina e l’altra per impegno della ragione umana.

Le esigenze della trascendenza della fede erano facilmente rispettate, come è testimoniato sia da

Bonaventura che da Alberto Magno. Con l’introduzione del concetto di epistéme, si differenziano

più marcatamente i valori della scienza da quelli della fede: l’una è acquisita, l’altra infusa; la

scienza ha per oggetto l’universale e il necessario, la fede tratta dei fatti particolari e singolari; la

scienza procede per principi autoevidenti e per sé noti, la fede al contrario per autorità; la scienza si

sviluppa da principi e conclusioni per via dimostrativa, la fede dall’ignoto al noto mediante verità

rivelate.

Postulato inviolabile della nuova concezione scientifica è il procedumento da principi noti per

sé, esattamente il contrario da quello della fede che ha per principio base proprio la non-evidenza;

caratteristica peculiare della scienza è la perfetta libertà o padronanza del soggetto nei confronti

degli stessi principi autoevidenti, condizione apertamente contraria alla fede che, per definizione,

richiede lo spirito di obbedienza. La caratteristica propria della scienza, quindi, consiste

propriamente nel movimento dello spirito umano che procede dal noto all’ignoto mediante

ragionamento.

Sul concetto aristotelico di epistéme, Tommaso d’Aquino9 fonda il suo statuto epistemologico

della filosofia e anche della teologia. Con esso costruisce l’immagine del sapere a forma piramidale,

al cui vertice c’è la sapienza teologica, mentre in discendenza tutte le altre discipline, subalternate

tra di loro con a capo la filosofia. E come tutti gli autori medievali, anche lui è principalmente un

teologo che si serve della filosofia per interpretare il dato rivelato, che non può misconoscere la

situazione storica dell’uomo, causa il peccato originale e relativa redenzione, elemento necessario

della visione cristiana della vita, e che parla della necessità della rivelazione, per orientare la ricerca

dell’uomo verso le verità di fede e, forse, anche i praeambula fidei10. Può essere utile la stessa

testimonianza giovanile di Tommaso: «Ogni scienza procede da principi di per sé noti…Gli articoli

della fede - che sono i primi principi della fede - non sono di questo genere, poiché non sono noti di

per sé e non possono essere risolti in maniera dimostrativa in questi ultimi; per cui delle verità

divine che si sanno per fede non può aversi scienza»11. Interessante è anche l’altro testo giovanile:

«Tutte le scienze e le arti sono ordinate a un unico fine, cioè alla perfezione dell’uomo che è la sua

beatitudine o felicità. E’ necessario quindi che ci sia una scienza guida di tutte le altre, che

giustamente rivendica il nome di sapienza. Difatti, è proprio del sapiente ordinare gli altri»12.

Di quale beatitudine si parla? Di quella terrena o soprannaturale?

Delicato a arduo problema13.

In una prospettiva storiografica di dipendenza aristotelica, la felicità ultima dell’uomo consiste

nell’esercizio spirituale della sua capacità di intendere e di volere, che ha come termine l’Essere

supremo. Per Aristotele si chiama Motore Immobile, e per Tommaso, Dio. Le risposte possono

identificarsi? Sembra di no! La difficoltà non è solo d’ordine psicologico, ma anche ontologico, nel

senso che l’intelletto umano per sé non può cogliere l’essenza della vita soprannaturale. Come

spiegare il desiderio di vivere una più alta perfezione? Tommaso fa ricorso alla rivelazione:

«L’uomo si costituisce beato secondo l’evangelico: ‘Questa è la vita eterna, che conoscano te, Dio

9 Nasce a Roccasecca (FR) nel 1225 e muore a Fossanova (LT) il 7 marzo 1274. 10 Sembra ancora utile ricordare che tali “preamboli” al tempo di Tommaso erano tranquillamente patrimonio della

ragione umana. E il motivo è anche plausibile: si viveva in una società altamente dominata dalla visione cristiana della vita. Molto esplicitamente in B. MONDIN, Op. cit., pp. 326-327: «Anche la ragione può fare qualcosa per la fede e, in effetti, secondo Tommaso essa può rendere alla fede un triplice prezioso servizio: 1) dimostra i “preambuli della fede” (esistenza di Dio, libertà umana e immortalità dell’anima)…» .

11 Super librum Boethii De Trinitate expositio, q. 2, a. 2, ad 5um: «Praeterea, omnis scientia procedit ex principiis per se notis, quae quisque probat audita, aut ex principiis quae ab his fidem habent. Sed articuli fidei, qui sunt prima principia in fide, non sunt huiusmodi, quia neque sunt per se nota neque ad principia per se nota resolvi possunt demonstrative, ut dictum est. Ergo de divinis quae fide tenentur non potest esse scientia».

12 Aristotelis Libri, in Libros Metaphysicorum, prooemium: «Omnes autem scientiae et artes ordinantur in unum, scilicet ad hominis perfectionem, quae est eius beatitudo. Unde necesse est, quod una earum sit aliarum omnium rectrix, quae nomen sapientiae recte vindicat. Nam sapientis est alios ordinare».

13 La problematica nasce dal fatto che oggi avanza, tra alcuni storici, l’interpretazione di derivazione agostiniana di Tommaso, come vera forma del suo pensiero.

vero e vivo»14. In altre parole: il fine ultimo dell’uomo - la beatitudine – può essere raggiunto con

la sola ricerca filosofica, oppure c’è bisogno della rivelazione e della fede?

Dilemma: da un lato, la fede dice che l’uomo è stato elevato a un fine soprannaturale che supera

ogni possibilità conoscitiva della ragione umana; dall’altro, la metafisica afferma di conoscere con

certezza il fine ultimo dell’uomo nel pensiero di pensiero (nous noeticos), detto anche Dio o

Motore Immobile15. In che senso allora la filosofia raggiunge i così detti “preamboli della fede”?

Di fronte a questi problemi, le conclusioni della ragione fine a che punto sono valide e sicure?

Coincidono con le stesse conclusioni della fede? Il termine “ragione” è inteso in senso storico o

astratto? E’ identico anche dopo il peccato originale?

Su questi argomenti, Tommaso è tornato molte volte a seconda delle occasioni, e tutte le volte ha

conservato essenzialmete lo stesso pensiero16. In forma molto schematica si espone tale pensiero

con le stesse parole dell’Autore, onde evitare equivoci d’interpretazione. Nel Commento alla

Trinità di Boezio scrive tra l’altro: «Sebbene alla conoscenza di alcune verità divine possa giungere

anche l’intelletto umano durante la vita presente con le sole forze della ragione sì da acquistare vera

scienza, tuttavia occorre la fede per i cinque motivi addotti da Maimonide: 1) Per la profondità e la

sottigliezza dell’oggetto, per cui le realtà divine sono occultate al nostro intelletto. Ora, perché

l’uomo non fosse completamente sprovvisto d’ogni cognizione di tali realtà, è stato provveduto che

le conosca almeno mediante la fede. 2) Per la debolezza cui soggiace I’intelleto umano all’inizio.

Infatti esso raggiunge la perfezione solo alla fine; ma affinché non ci sia mai un tempo in cui sia

privo della cognizione di Dio, occorre la fede mediante la quale percepisca le realtà divine sin

dall’inizio. 3) Per la quantità di precendenti che occorrono per arrivare alla conoscenza di Dio

mediante la ragione. Si esige infatti un sapere pressoché universale, perché la conoscenza di Dio sta

alla fine di tutto. Ora sono assai pochi coloro che possono arrivare fino a tal punto. Quindi la

conoscenza di Dio viene somministrata dalla fede, affinché la maggior parte degli uomini non ne

resti affatto priva. 4) Perché molti, data la loro costituzione fisica, sono incapaci di raggiungere una

perfetta conoscenza mediante la ragione e ci riescono solo mediante la fede. Per questo, affinché

non ne restino privi, viene loro concessa la fede. 5) Per le molte occupazioni alle quali gli uomini

devono attendere. Esse fanno sì che a molti diventi impossibile acquistare di Dio la scienza

14 Aristotelis Libri, in Librum de Causis, prooemium, n. 6: «Oportet igitur quod ultima felicitas hominis quae in hac

vita haberi potest, consistat in consideratione primarum causarum, quia illud modicum quod de eis sciri potest, est magis amabile et nobilius omnibus his quae de rebus inferioribus cognosci possunt, ut patet per Philosophum in I de partibus animalium; secundum autem quod haec cognitio in nobis perficitur post hanc vitam, homo perfecte beatus constituitur secundum illud evangelii: haec est vita aeterna ut cognoscant te Deum verum unum».

15 F. ADORNO, La filosofia antica, Milano 1961, p. 324. 16 In Boethii De Trinitate (1257-1258); Summa contra Gentiles (1259-1264); Summa theologiae (1267-1273).

necessaria mediante la ragione, perciò è stata messa a loro disposizione la via della fede affinché

quelle cose che da alcuni sono conosciute da altri siano credute»17.

Quanto alla compatibilità tra le verità di fede e la ragione, Tommaso ha scritto molto

chiaramente: «Sebbene la verità della fede cristiana superi la capacità della ragione, tuttavia i

principi naturali della ragione non possono essere in contrasto con la verità di fede»18; a cui si può

aggiungere significativamente anche il testo: «Le cose sensibili conservano in sé un certo ‘vestigio’

della causalità divina, però così imperfetto da essere del tutto insufficiente a manifestare la stessa

natura di Dio… La ragione umana nel conoscere le verità di fede è in grado di raccogliere certe

analogie, che, però, non sono sufficienti a dimostrare codeste verità per intuizione intellettiva.

Tuttavia è proficuo per la mente umana esercitarsi in tali ragionamenti per quanti inadeguati, purché

non si abbia la presunzione di comprendere o di dimostrare, poiché intendere anche poco le realtà

più sublimi procura la più grande gioia»19.

A questi testi si possono accompagnare alcuni della Summa theologica. Al “Sed contra” del

primo articolo della prima questione dal titolo: «Se sia necessario avere un’altra dottrina oltre le

disciplne filosofiche», risponde commentando il passo di Paolo a Timoteo20: «La Scrittura

divinamente ispirata non appartiene alle discipline filosofiche, che sono un prodotto della ragione

umana. E’ utile, dunque, che oltre alle discipline filosofiche ci sia anche la scienza divinamente

17 In Boethii De Trinitate, q. 3, a. 1, Respondeo: «Ad quorum quaedam plene cognoscenda possibile est homini

pervenire per viam rationis etiam in statu huius vitae. Et horum quamvis possit haberi scientia et a quibusdam habeatur, tamen necessarium est habere fidem propter quinque rationes, quas Rabbi Moyses ponit. Prima scilicet propter profunditatem et subtilitatem materiae, per quam occultantur divina ab hominum intellectu. Unde ne sit homo sine eorum qualicumque cognitione, provisum est ei ut saltem per fidem divina cognoscat, Eccl. 7: alta profunditas, quis cognoscet illam? secunda propter imbecillitatem intellectus humani a principio. Non enim provenit ei sua perfectio nisi in fine; et ideo ut nullum tempus sit ei vacuum a divina cognitione, indiget fide, per quam ab ipso principio divina accipiat. Tertio propter multa praeambula, quae exiguntur ad habendam cognitionem de Deo secundum viam rationis. Requiritur enim ad hoc fere omnium scientiarum cognitio, cum omnium finis sit cognitio divinorum; quae quidem praeambula paucissimi consequuntur. Unde ne multitudo hominum a divina cognitione vacua remaneret, provisa est ei divinitus via fidei. Quarto, quia multi hominum ex naturali complexione sunt indispositi ad perfectionem intellectus consequendam per viam rationis; unde ut hi etiam divina cognitione non careant, provisa est fidei via. Quinto propter occupationes plurimas, quibus oportet homines occupari; unde impossibile est quod omnes consequantur per viam rationis illud quod est de Deo necessarium ad cognoscendum, et propter hoc est via fidei procurata, et hoc quantum ad illa quae sunt ab aliquibus scita et aliis proponuntur ut credenda»; trad di B. MONDIN, Op. cit., p. 326.

18 Summa contra Gentiles, I, cap. 7: « Quamvis autem praedicta veritas fidei christianae humanae rationis capacitatem excedat, haec tamen quae ratio naturaliter indita habet, huic veritati contraria esse non possunt. »

19 Ibidem, cap. 8; « Considerandum etiam videtur quod res quidem sensibiles, ex quibus humana ratio cognitionis principium sumit, aliquale vestigium in se divinae imitationis retinent, ita tamen imperfectum quod ad declarandam ipsius Dei substantiam omnino insufficiens invenitur. Habent enim effectus suarum causarum suo modo similitudinem, cum agens agat sibi simile: non tamen effectus ad perfectam agentis similitudinem semper pertingit. Humana igitur ratio ad cognoscendum fidei veritatem, quae solum videntibus divinam substantiam potest esse notissima, ita se habet quod ad eam potest aliquas verisimilitudines colligere, quae tamen non sufficiunt ad hoc quod praedicta veritas quasi demonstrative vel per se intellecta comprehendatur. Utile tamen est ut in huiusmodi rationibus, quantumcumque debilibus, se mens humana exerceat, dummodo desit comprehendendi vel demonstrandi praesumptio: quia de rebus altissimis etiam parva et debili consideratione aliquid posse inspicere iucundissimum est, ut ex dictis apparet».

20 1Tm 3,16.

ispirata»21; mentre al “Respondeo”: «Io dico che fu necessario alla salute umana che ci fosse

un’altra dottrina secondo la divina rivelazione. L’uomo è ordinato a Dio come a un fine che supera

la comprensione della ragione… E’ necessario che il fine sia preconosciuto dagli uomini, i quali

devono ordinare intenzioni e azioni verso il fine. Fu necessario, quindi, per la salvezza dell’uomo

che a lui fossero noti per rivelazione divina ciò che eccede la ragione umana»22.

Alla questione: «Se è necessario credere qualcosa sopra la ragione umana per la salvezza»,

Tommaso alla luce della testimonianza della lettera agli Ebrei23, così risponde: «Solo la natura

razionale creata ha l’immediato ordine a Dio… A differenza delle altre nature… quella razionale,

in quanto conosce l’universale del bene e la ragione dell’ente, ha l’immediato ordine al principio

universale dell’essere. La percezione della natura razionale, perciò, consiste non solo in ciò che le

compete secondo la sua natura, ma anche in ciò che le si attribuisce da una certa partecipazione

soprannaturale della divina bontà. L’ultima beatitudine dell’uomo consiste in una certa visione

soprannaturale di Dio, cui l’uomo non può arrivare se non per modo che lo impari da Dio maestro.

Di questo insegnamento, l’uomo diventa partecipe non subitaneamene, ma successivamente,

secondo il modo della sua natura. Chi impara, deve credere che perverrà alla perfetta scienza…

Perciò, l’uomo che perviene alla perfetta visione della beatitudine si presuppone che creda in Dio,

come il discepolo al maestro che insegna»24. Senza l’aiuto della rivelazione o della fede, nota

Tommaso: «La verità su Dio, quale la ragione umana può conoscerla, sarebbe ben nota a pochi, e

ciò dopo lungo tempo e con mescolanza di molti errori»25.

Che cosa dedurre da questi e altri testi?

Di proposito si lascia al lettore il confronto con tutte le dimostrazioni che Tommaso adduce

sull’esistenza di Dio, specialmente con le famose “5 vie”, e sull’immortalità dell’anima, perché

possa farsi un’idea propria, dal momento che è ritenuto l’alfieri dei praeambula fidei come

appartenenti all’ambito della ragione. Dalla personale esperienza, limitata quanto sia, ho sempre

21 Summa theologiae, I, q. 1, a. 1, Sed Contra: «Sed contra est quod dicitur II ad Tim. III, omnis Scriptura divinitus inspirata utilis est ad docendum, ad arguendum, ad corripiendum, ad erudiendum ad iustitiam. Scriptura autem divinitus inspirata non pertinet ad philosophicas disciplinas, quae sunt secundum rationem humanam inventae. Utile igitur est, praeter philosophicas disciplinas, esse aliam scientiam divinitus inspiratam».

22 Ibidem, Respondeo: «Respondeo dicendum quod necessarium fuit ad humanam salutem, esse doctrinam quandam secundum revelationem divinam, praeter philosophicas disciplinas, quae ratione humana investigantur. Primo quidem, quia homo ordinatur ad Deum sicut ad quendam finem qui comprehensionem rationis excedit, secundum illud Isaiae LXIV, oculus non vidit Deus absque te, quae praeparasti diligentibus te.

Finem autem oportet esse praecognitum hominibus, qui suas intentiones et actiones debent ordinare in finem. Unde necessarium fuit homini ad salutem, quod ei nota fierent quaedam per revelationem divinam, quae rationem humanam excedunt.».

23 Eb 11, 6: «Senza della fede è impossibile piacere a Dio». 24 Summa theologiae, II-II, q. 2, a. 3, 25 Ibidem, I, q. 1, a. 1, Respondeo: «Ad ea etiam quae de Deo ratione humana investigari possunt, necessarium fuit

hominem instrui revelatione divina. Quia veritas de Deo, per rationem investigata, a paucis, et per longum tempus, et cum admixtione multorum errorum, homini proveniret, a cuius tamen veritatis cognitione dependet tota hominis salus, quae in Deo est».

sostenuto26 questa conclusione: la necessità della fede, anche se indirettamente, è presupposta agli

stessi argomenti addotti per dimostrare l’esistenza di Dio e dell’anima, e alla dimostrazione di tutti i

“preamboli della fede” con la ragione umana. Ancora una volta, all’osservazione se l’uomo con le

sole sue forze naturali può raggiungere la salvezza o, che è lo stesso, la conoscenza di Dio,

Tommaso dichiara che con la fede l’uomo arriva più presto alla conoscenza della verità divina; che

la conoscenza di Dio, essendo la più importante per la vita eterna, non può essere privata a

moltissimi uomini; e che la fede è più certa della ragione.

Domanda: il Dio di cui si dimostra razionalmente l’esistenza con le “5 vie” è lo stesso Dio della

fede, ossia il Dio remuneratore di coloro che lo cercano27?

Vi sono serie considerazione per escluderlo.

Il “Primo Motore” di Aristotele o l’”Essere Necessario” di Avicenna non sono lo stesso Dio in

cui si crede. Difatti, mentre il Dio della fede è anche Primo Motore ed Essere Necessario, non si

può dire il contrario che il Primo Motore e l’Essere Necessario sia il Dio della fede. Credere

nell’esistenza di Dio non è la stessa cosa che credere al Primo Motore o all’Essere Necessario.

Credere a Dio è credere a Colui che E’ e che ha Parlato. Caratteristiche che non si riconoscono

minimamente nel Motore Immobile o nell’Essere Necessario, che invece presuppongono il mondo

che va verso di Lui, ma non è Lui che va verso il mondo creandolo, amandolo. Di conseguenza,

l’esistenza di Dio di cui si dimostra razionalmente l’esistenza, non è che un Dio impersonale a cui il

mondo non appartiene; mentre l’esistenza di un Dio personale e creatore si conosce solo per mezzo

della fede. Il Dio della conoscenza razionale, pur essendo il massimo per l’uomo, non è tuttavia

sufficiente per identificarlo con il Dio della fede28.

In breve, per quanto riguarda la questione dei praeambula fidei, si possa distinguere in Tommaso

una posizione giovanile più orientata all’influsso della fede che della ragione; e, al contrario, una

posizione matura più incline all’influsso della ragione che della fede. Pertanto, nella distinzione tra

verità di fede e verità che introducono alla fede, il Dottor Angelico, facendo pendere la bilancia più

dalla parte della ragione che della fede, lascia intendere che i praeambula fidei appartengono

certamente all’ambito razionale e non a quella della fede. Questa, l’interpretazione ufficiale del

tomismo fino ad oggi.

5. Fede e ragione in Duns Scoto

26 G. LAURIOLA, Filosofia medievale, IV. 27 Eb 11, 6. 28 Per una prima visione cf G. LAURIOLA, Filosofia medievale, IV, pp. 50-65.

Per intendere la portata dell’intervento di Duns Scoto nella questione dei rapporti tra fede e

ragione, bisogna tener presente l’istanza teologica del suo pensiero. Quando egli interviene nella

questione, lo fa attraverso un aspetto specifico del rapporto tra “filosofi” e “teologi”, tenendo

presente esplicitamente i principali punti delle verità di fede - assoluta trascendenza di Dio, infinita

libertà di Dio, creazione come atto di assoluta libertà di Dio, Incarnazione e Redenzione...- come si

evince dalla semplice trama dottrinale delle questioni trattate nel “Prologo” all’Ordinatio: necessità

della rivelazione; sufficienza della Scrittura; oggetto della teologia; teologia come scienza; teologia

come scienza pratica.

Senza operare alcuna forzatura, si può affermare che la semplice elencazione dei titoli delle

questioni prefigura la trama speculativa del pensiero di Duns Scoto che si snoda per tutta

l’Ordinatio. Per il problema specifico del rapporto fede-ragione interessa, ora, accennare soltanto

alla prima questione del Prologo all’Ordinatio, che è chiarificativa di tutte le altre, e che ha per

titolo: “Controversia tra filosofi e teologi”. Con potenza espressiva e fortemente evocativa della

situazione storica esistente al suo tempo, Duns Scoto propone la questione del rapporto fra filosofi e

teologi come un aspetto peculiare delle relazioni tra fede e ragione: «Sembra esserci controversia

tra filosofi e teologi: i primi sostengono la perfezione della natura e negano la perfezione

soprannaturale; i secondi invece conoscono la debolezza della natura, la necessità della grazia e la

perfezione soprannaturale»29.

La corretta comprensione dei termini è sicura garanzia dell’interpretazione del pensiero. Nello

sviluppo dell’analisi, Duns Scoto non parla mai di Teologia e di Filosofia, né di Fede e Ragione, ma

sempre di teologi e filosofi, di cristiani e filosofi, di cattolici e filosofi. E questo per evitare di

attribuire alla “ragione” ciò che dipende soltanto da una situazione di fatto e non di diritto, perché

tra fede e ragione non ci può essere vera opposizione, derivando entrambe da Dio stesso.

La terminologia di Duns Scoto, quindi, si colloca su di un piano storico-esistenziale: per

“filosofi” intende principalmente Aristotele, Avicenna e Averroé, e secondariamente coloro che

prescindono dalla rivelazione; per “teologi”, invece, coloro che si basano sulla luce della

rivelazione per interpretare l’esistenza strutturale dell’uomo. Terminologia che era già passata a

esprimere anche le posizioni dottrinali dell’università medievale tra facoltà delle Arti e facoltà di

Teologia; studenti e maestri della facoltà delle Arti si chiamavano appunto “filosofi”.

Perché questo dissidio?

Il dissidio verte sulla diversa interpretazione dell’esistenza umana: i filosofi affermano che non è

necessario che sia data all’uomo alcuna dottrina speciale perché egli possa conoscere tutto quello

29Ordinatio, I, prologo, pars 1, q. 1, n. 3, (n. 6): «In ista quaestione videtur controversia inter philosophos et theologos. Et tenent philosophi perfectionem naturae, et negant perfectionem supernaturalem; theologi vero cognoscunt defectum naturae et necessitatem gratiae et perfectionem supernaturalem».

che gli occorre per il raggiungimento del fine ultimo dell’esistenza; i teologi invece sono convinti

che se l’uomo non abbia a disposizione conoscenze più complete e adeguate, non potrebbe mai

perseguire il suo vero fine, che è quello della beatitudine eterna. Il dissenso è profondo. I filosofi

non vedono alcuna necessità di fare ricorso alla rivelazione, perché ritengono la natura umana

perfetta e completa in sé, anzi escludono che possa essere perfettibile. Il contrario pensano i teologi

che dichiarano la necessarietà del dato rivelato e la perfettibilità intrinseca della natura umana.

Alla base del dissidio, quindi, c’è una visione diversa dell’uomo: i filosofi sono per la perfezione

della natura umana; mentre i teologi, per il difetto della natura, a causa del peccato originale.

Di che carattere è l’intervento di Duns Scoto?

Dalle considerazioni esposte fin qui, non è difficile intuire che Duns Scoto entra nel dibattito più

da teologo che da filosofo, o, meglio, da teologo e filosofo insieme, cioè da filosofo illuminato dalla

fede e da teologo sorretto dalla ragione, riproponendo scientificamente il classico filosofare nella

fede, secondo la visione cristiana dell’antropologia alla luce delle ultime conquiste del pensiero

umano.

Fondamentale nell’antropologia cristiana è la verità del peccato originale e la necessità della

grazia, cui soggiacciono le verità della contingenza radicale del mondo e la libertà creatrice di Dio.

E Duns Scoto non transige su questi punti che, proprio perché fondati sulla rivelazione,

costituiscono più un punto di partenza che un punto di arrivo e anche un superamento del

necessitarismo greco-arabo. Senza seguire da vicino l’analisi condotta da Duns Scoto, è opportuno

accennare al concetto della presunta perfettibilità della natura umana, che non è per niente

determinata in maniera univoca, perché gli autori divergono l’uno dall’altro nell’interpretazione,

pur salvando le linee essenziali dell’antropologia filosofica cristiana.

A differenza di Tommaso, che parla di antropologia filosofica distinta dall’antropologia

teologica con obiettivi e metodi propri; e di Bonaventura che afferma l’esistenza di una sola e unica

antropologia, di cui l’aspetto filosofico si presenta come una preparazione indispensabile all’aspetto

teologico; Duns Scoto, invece, si pone in una posizione intermedia: in linea di diritto afferma la

continuità tra le due antropologie, mentre in linea di fatto ne ammette la distinzione. Chiarificatrice

è la “nota” premessa da Duns Scoto all’intera discussione: «Non si può dimostrare con argomenti

razionali che qualche perfezione soprannaturale sia presente nell’uomo viatore, né che sia

necessariamente richiesta per la sua perfezione; né colui che possiede una perfezione soprannaturale

può sapere di averla. E’ impossibile, quindi, utilizzare argomenti di ragione contro Aristotele in

questa questione; né si può argomentare dalla verità di fede, perché il Filosofo non concederebbe

una premessa creduta (o poggiata sulla fede). Le ragioni addotte, perciò, contro il Filosofo, che

hanno una premessa creduta o dimostrata dalla fede, non sono altro che persuasioni teologiche che

restano nel campo della fede»30.

Di conseguenza, secondo Duns Scoto, non si possono invocare argomenti di qualsiasi tipo per

affermare l’esistenza di un ipotetico stato soprannaturale, anzi risulta inconcepibile lo stesso

tentativo di volerne ammettere la possibilità. Per criticare l’antropologia filosofica, bisognerebbe

sconfinare in quella teologica, con il rischio di mescolare premesse razionali con premesse di fede.

Mentre il procedimento razionale della filosofia raggiunge una certezza apodittica, quello teologico

con le sue premesse credute non raggiunge una certezza razionale assoluta, ma soltanto una grande

convenienza di probabilità.

Dal contesto della controversia emerge la constatazione che nessuno dei dialoganti è disposto a

rivedere le proprie posizioni, in quanto ognuno è fortemente radicato nelle proprie convinzioni;

nessuno è disposto a rinnegare la prerogativa fondamentale di cui si gloria la ragione umana, quella

cioè di essere una creatura dotata di intelligenza, di libertà e di personalità; nessuno è riuscito a

spiegare sicuramente in che cosa consiste la dignità inalienabile della natura umana; e nessuno ha

precisato concretamente in che cosa consiste la vera felicità dell’uomo.

In conclusione, Duns Scoto afferma che, intorno all’enigma di fondo della vita, filosofi e teologi

non hanno sufficienti risposte esaustive: o bisogna rassegnarsi allo smacco o sperare in qualcuno,

superiore all’uomo, che possa e voglia rivelare le verità che sono utili e necessarie per il

raggiungimento del fine ultimo. Ragione e fede - qui usati impropriamente come sinonimi di

filosofi e teologi - sono due realtà autonome e indipendenti sia nel metodo sia nell’oggetto sia nei

principi e, quindi, anche nelle conclusioni.

L’impegno speculativo di Duns Scoto, pertanto, si concentra nel tentativo di trovare un elemento

comune alle due posizioni così da garantirne il possibile dialogo. E lo trova nella concezione di una

metafisica più radicale e generale che superi le aporie delle due posizioni. Questa nuova scienza

metafisica, avendo come oggetto l’essere in quanto essere, comune e all’oggetto della Fisica e

all’oggetto della Teologia può trascendere l’ambito fisico e aprirsi a quello teologico, senza alcuna

ombra di contraddizione o interferenze di ambiti.

Puntualizzazione che denota il diverso e nuovo atteggiamento speculativo di Duns Scoto: pensa

da filosofo e da teologo insieme. Ciò è fondamentale per comprendere il suo pensiero e la sua

dialettica. La sua nuova metafisica si colloca come ponte tra la filosofia e la teologia, pur

mantenendo distinte e separate le due discipline nelle loro rispettive autonomie. Qui, l’originalità di

30Ordinatio, I, prologo, pars 1, q. 1, n. 6, (n. 15): «nullum supernaturale potest ratione naturali ostendi inesse viatori, nec necessario requiri ad perfectionem eius; nec etiam habens potest cognoscere illud sibi inesse. Igitur impossibile est hic contra Aristotelem uti ratione naturali: si arguatur ex creditis, non est ratio contra philosophum, quia praemissam creditam non concedet. Unde istae rationes hic factae contra ipsum alteram praemissam habent creditam vel probatam ex credito; ideo non sunt nisi persuasiones theologicae, ex creditis ad creditum».

Duns Scoto. In forza della sua nuova concezione metafisica, ridimensiona, da un lato, il campo

delle certezze filosofiche, nel senso che i così detti “preamboli della fede”, tradizionalmente ritenuti

oggetto di indagine razionale, non sono più ritenuti conclusioni valide e apodittiche, perché entrano

a far parte dell’ambito della fede; e, dall’altro, le ventilate certezze razionali su Dio sono ridotte a

semplici persuasioni o ipotesi.

Come a dire: l’ambito della fede è qualitativamente diverso da quello della ragione, pur avendo

un sottilissimo punto di contatto nell’unità concettuale dell’essere con la nuova categoria onto-

teologica dell’essere che permette di tener legato l’essere contingente-finito con l’essere necessario

e infinito. Più che gusto demitizzante, quello di Duns Scoto è soltanto esigenza di coerenza

intellettuale: certezza nella volontà libera di Dio nel creare e fiducia nel valore ontologico e

trascendentale delle leggi del pensiero e dell’essere.

6. Fede e ragione in Guglielmo d’Occam

Sembra opportuno accennare dalla ricca fioritura della scuola francescana anche alla personalità

scientifica dell’inglese Guglielmo d’Occam31, che, nonostante le diatribe biografiche, a volte

montate ad arte, rappresenta un punto obbligato del passaggio dal periodo medievale a quello

moderno, specialmente in considerazione della sua formazione strettamente filosofica, in cui

difficilmente s’intrecciano problemi teologici, dal momento che aveva frequentato soltanto la

Facoltà delel Arti. Viene ricordato dalla storia con i titoli onorifici di Doctor invincibilis, per

indicare la straordinaria capacità logica di leggere l’essere, o di Venerabilis Inceptor o

semplicemente Inceptor, cioè Iniziatore, per ricordarlo come fondatore della corrente del

nominalismo e anche come libero pensatore, perché non insegnò né come dottore né come

professore.

Una delle caratteristiche peculiari del suo pensiero è certamente l’afferrmazione della netta

autonomia tra ambito della fede e ambito della ragione, tra teologia e filosofia. Il campo della fede

è basato sulla rivelazione, quello della filosofia sulla ragione umana. Inevitabile la conseguenza: la

ragione non può arrecare alcun argomento apodittico nelle verità rivelate, ma solo persuasioni

probabili. Pertanto, la ragione non può essere giudice competente né in materia di fede né nelle

dimostrazioni dei praeambula fidei.

Una simile posizione, se non intesa rettamente, può dare adito al principio della “doppia verità”:

ciò che è vero in teologia, può essere falso in filosofia, e viceversa. In Occam, però, non ci cela

minimamente questo pericolo, in quanto egli si limita ad affermare, con piena coerenza alle sue

31 Nato ad Occam, presso Londra, intorno al 1280, e morto a Monaco nel 1349.

dottrine logiche e gnoseologiche, che la ragione non ha la capacità di dare esauriente giustificazione

a verità trascendenti l’esperienza, dal momento che il suo potere conoscitivo è limitato proprio dal

campo dell’esperienza.

Al di là delle intrinseche giustificazioni al pensiero occamista, bisogna tener presente che, fin

dall’inizio del XIV sec., i così detti praeambula fidei, ritenuti ambito comune della filosofia, ora

invece sono demamdati al patrimonio della fede. Si fa più marcata la distinzione tra il campo della

fede e quello della ragione o scientifico-filosofico, anzi si gettano le basi per affermare l’autonomia

delle singole scienze, e, quindi, il distacco dalla fede, dalla teologia e dalla morale.

Con questa puntualizzazione occamista, si può affermare che le verità di fede brillino di maggior

chiarezza?

Non sembra. I limiti riconosciuti alla ragione sono stati trasportati anche nell’ambito delle verità

di fede, nel senso che, sottoposte all’esame della ragione, esse metterebbero in luce i paradossi cui

andrebbero incontro. Se si prendono in esame, infatti, le proposizioni dei “preamboli della fede” e

quelle pertinenti specificatamente alla fede, il pensiero di Occam si evidenzia con molta chiarezza.

L’idea di fondo che guida il Dottor Invincibile è la convinzione dell’imppossibilità da parte

dell’uomo di poter conoscere in modo apodittico il concetto di “creazione”, da cui derivano, poi,

tutte le altre conseguenze, come necessari colrollari.

Alla domanda: l’uomo con le solo sue forze naturali può dimostrare l’esistenza del vero Dio?

Occam con la consueta perspicacia risponde negativamente. La stessa risposta negativa riserva

alla domanda circa la dimostrabilità razionale dell’immortalità dell’anima. Negatività che estende,

di conseguenza, a tutti gli altri “preamboli della fede”.

Ecco alcune sue affermazioni: «Alla questione - se glia rticoli di fede possono essere dimostrati

con la sola ragione - rispondo che non possono essere dimostrati dall’uomo viatore né con

dimostrazione a posteriori (quia) né con dimostrazione a priori (propter quid)… Perciò l’uomo può

solo attingere la conoscenza nominale delle cose che cadono sotto i sensi, e di cui abbiamo una

certa esperienza»32. Nella Logica: «Gli articoli di fede non sono principi di dimostrazione né

conclusioni né sono probabili: giacché a tutti o a più o a sapienti appaiono falsi; e ciò prendendo per

“sapienti” i sapienti del mondo e per coloro che si avvalgono principalmente della ragione naturale,

poiché in tal modo s’intende il sapiente nella descrizione che la scienza o la filosofia ne danno»33.

E nei Quodlibeta: «Intendendo per anima intellettiva una forma immateriale e incorrutibile che sia

tutta in tutto il corpo e tutta in ciascuna parte, affermo che essa - come forma del corpo e come

32 Quodlibeta, II, q. 3. 33 Summa logicae, III, 1: «Et sic articuli fidei nec sunt principia demonstrationis nec conclusiones, nec sunt

probabiles, quia omnibus uel pluribus uel maxime sapientibus apparent falsi. Et hoc accipiendo sapientes pro sapientibus mundi et praecise innitentibus rationi naturali, quia illo modo accipitur 'sapiens' in descriptione probabilis».

sostanza per intendere - non si può conoscere con evidenza, né mediante la ragione né mediante

l’esperienza… (non mi curo qui delle opinioni del Filosofo, perché ha parlato dell’anima in modo

dubitativo), ma bisogna crederla soltanto»34.

Anche intorno alla dimostrabilità dell’esistenza di Dio come causa efficiente, in quanto

includente il concetto di creazione dal nulla, Occam esprime ugualmente la sua perplessità: «In

primo luogo, affermo che non può essere dimostrato dalla ragione naturale che Dio è causa

efficiente immediata di tutte le cose... perché non può essere sufficientemente dimostrato che altre

cause... non siano sufficienti a spiegare i molti effetti, e che, quindi, non si ponga invano una causa

efficiente immediata di essi... Affermo inoltre che non può dimostrarsi con la ragione naturale che

Dio è causa efficiente di alcun effetto, perché non può dimostrarsi in modo soddisfacente che

esistono fenomeni effettibili che non siano quelli generati e corruttibili le cui cause sufficienti sono

corpi naturali e celesti… Per cui si può concludere che non può naturalmente dimostrarsi che Dio è

causa efficiente totale o parziale di alcun effetto»35.

E neppure è possibile dimostrare mediante la ragione naturale che esiste un solo Dio. Così

scrive: «Alcuni sostengono che è possibile perché - come è detto nel libro XII della Metafisica - un

solo mondo non può avere che un solo principe; ora, poiché si può dimostrare filosoficamente che

c’è un mondo solo, come attesta Aristotele nel I libro del De coelo36, si può anche dimostrare

filosoficamente che c’è un signore solo, ma tale signore è Dio... Si può tuttavia opporre che un

articolo di fede non è mai dimostrabile in modo evidente; e siccome la proposizione che vi è un solo

Dio è un articolo di fede, quindi... Prima di rispondere alla questione, spiegherò che cosa si debba

intendere con il termine “Dio”. Del termine “Dio” si possono dare due diverse definizioni: 1) Dio è

qualcosa che supera ogni altra cosa diversa in eccellenza e in perfezione; 2) Dio è l’essere di cui

non esiste uno migliore e più perfetto. Se prendiamo il termine ‘Dio’ nella prima definizione, non

possiamo dimostrare per via apodittica che esiste un solo Dio. La ragione: non si può sapere in

maniera evidente se Dio esista, e quindi non possiamo neppure sapere con evidenza se Dio sia

soltanto uno... Se si potesse dimostrare in modo evidente l’esistenza di Dio.., si potrebbe anche

dimostrare la sua unicità. Dico ugualmente che non è dimostrabile l’unicità di Dio, se intendiamo

‘Dio’ nel senso della seconda definizione... Però è possibile dimostrarne l’esistenza, altrimenti si

verificherebbe un processo all’infinito, che è assurdo... Noi teniamo solamente per fede che esiste

un solo Dio»37 .

34 Quodlibeta, I, q. 10. 35 Ibidem, II, q. 1. 36 De coelo, 8, 276°. 37 Quodlibeta, I, q. 1.

Già da questi testi si può notare che Occam è convinto, e non a torto, che senza l’intervento della

fede non si possono conoscere sicuramente quelle verità che sono indispensabili per la salvezza

eterna: unicità di Dio, immortalità dell’anima... La sua critica non risparmia alcun argomento

proposto dalla tradizione, ma li investe tutti per ricordare che non bisogna facilmente confondere il

piano della fede con quello della ragione nell’indagine della verità. L’argomento ontologico di

Anselmo non è del tutto sicuro dalle critiche di Occam, neppure con la coloratio di Duns Scoto,

perché non è sufficientemente noto che la proposizione “Dio esiste” sia evidente. Il valore che

Occam riconosce a tale forma di argomentazione è soltanto “probabile”, ed è ristretto unicamente

all’esistenza di Dio, e non alla sua unicità e neppure all’assoluta sua perfezione. Concessione,

comunque, abbastanza lontana dal concetto di Dio offerto dalla fede: essa riguarda unicamente un

“essere” più perfetto degli altri, per evitare il processo all’infinito, riconosciuto da tutti impossibile

e assurdo.

Anche l’argomento dal “moto” non presenta, per Occam, tanta solidità come appare a molti, ma

solo valore probabile. Con molta precisione, egli puntualizza che tale argomento è fondato su due

principi che sembrano indiscutibili: “tutto ciò che è mosso, è mosso da altri”, e “non è posibile un

processo all’infinito nella serie delle cause”. In realtà, però, essi non sono così evidenti come si vuol

far credere. Il primo, infatti, non dimostra assolutamente nulla, perché anche l’angelo, ad es., muove

se stesso, così come la forza di gravità nella discesa muove se stessa; il secondo, invece, non può

concludere a un primo motore immobile, perché, come dice lo stesso Aristotele, il mondo è eterno e

infiniti sono gli uomini.

La stessa serrata critica rivolge Occam all’argomento della “causalità”, che non avrebbe valore

assoluto, benché sia l’argomento preferito dai filosofi. Poiché Occam non crede possibile provare

contro i filosofi il processo all’infinito nella serie delle cause attuali, egli pensa di aggirare

l’ostacolo mediante l’argomento della “provvidenza” o “conservazione” del mondo da parte della

sua causa. La conclusione, però, risulta più probabile che necessaria. Lo stesso risultato di

probabilità si raggiunge, secondo Occam, nel tentativo di voler provare l’unicità della prima causa.

Non appare contraddittorio, infatti, ammettere una pluralità di cause prime tutte eguali; né si può

escludere una pluralità di mondi, ciascuno dei quali potrebbe essere governato dalla sua prima

causa. E questo perché - come riconoscono tutti - la potenza di Dio non è esaurita con la creazione

di “questo” mondo, né si può escludere la possibilità dell’esistenza di altri mondi, uguali o diversi

dal nostro.

Qual è lo scopo recondito della critica di Occam? Forse negare che ci sia un solo Dio dotato di

infinita potenza e di infinita perfezione? No, di certo! Egli vuol dire soltanto che, poiché la

dimostrazione razionale addotta dai filosofi intorno all’esistenza e unicità di Dio non è esauriente,

ossia non sorpassa la semplice probabilità, è meglio affidarsi alla fede che alla ragione38. E’ un

modo molto chiaro di affermare le autonomie curriculari delle scienze umane dalla fede, dalla

teologia e dalla morale, in continuità con il pensiero scotista. Concetto di grande attualità!

7. I praeambula fidei oggi

Per tante circostanze storiche e particolari scelte avvenute nell’ambito ecclesiale, la tesi che i

praeambula fidei appartenessero all’ambito della ragione si è diffusa contemporaneamente con la

diffusione del tomismo nella storia del pensiero cristiano, specialmente ad opera della Compagnia

di Gesù, che aveva assunta come propria la ratio studiorum del tomismo. Situazione che si è

ufficializzata a partire dalla seconda metà del XIX sec., ad opera dell’intervento del Concilio

Vaticano I, con la costituzione Dei Filius del 1870, e specialmente di Leone XIII con l’enciclica

Aeterni Patris del 1879, che ripropongono “d’autorità” una ripresa del tomismo, onde il nome di

neo-tomismo. Nella successiva crisi modernista, viene addirittura proposto come un argine

all’ortodossia filosofica, per difendere l’ortodossia dottrinale dagli attacchi dello storicismo.

Caratteristica di questa politica ecclesiale è la pubblicazione di uno speciale vademecum filosofico

da parte della Congregazione degli Studi39, che divenne la piattaforma della formazione

intellettuale degli ecclesiastici e dei cattolici fino al Vaticano II, e perdura tutt’ora, anche se si

comincia ad ascoltare qualche voce che denuncia la situazione di crisi e di fallimento del

tomismo40.

Fonte storica privilegiata del tomismo intorno ai praeambula fidei sembra l’interpretazione data

al testo di Tommaso: «Come la sacra dottrina [teologia] è fondata sopra la fede, così la filosofia è

fondata sulla ragione naturale; per cui è impossibile che ciò che appartiene alla filosofia sia

contrario alla fede, al massimo è diverso. Tuttavia, tra la filosofia e la teologia ci sono delle

analogie e anche delle premesse dall’una verso l’altra, come la natura è introduttoria alla grazia. Se

pertanto tra gli scritti dei Filosofi ci sono delle cose contrarie alla fede, questo non è dovuto alla

filosofia, ma piuttosto all’abuso di argomenti filosofici per difetto della ragione. Perciò è possibile

dai principi filosofici rigettare l’errore o manifestando che esso è del tutto impossibile o che non è

necessario. Come ciò che appartiene alla fede non può essere mostrato apoditticamente, così ciò che

gli è contrario non può essere mostrato apoditticamente che sia falso, ma può invece essere

38 Per una prima informazione cf G. LAURIOLA, Filosofia medievale, V, pp. 78-119. 39 Theses (XXIV) approbatae philosophicae thomisticae, del 1914. Comportamento che influenzerà potentemente

anche l’iter di beatificazione di Giovanni Duns Scoto con la richiesta delle famose Adversationes per continuare il processo. Cf il paragrafo dell’Introduzione al volume G. LAURIOLA, Elementi di Spiritualità Scotista, Alberobelo 2012.

40 S. MURATORE, La crisi della neoscolastica, in Teologia e Filosofia, Roma 1990, pp. 135-167, ch a p. 157 distingue bene tra neotomismo e Tommaso.

mostrato che non sia necessario. Così dunque nel campo della dottrina sacra [teologia], possiamo

servirci della filosofia in tre modi. Primo, per dimostrare le premesse razionali della fede

(praeambula fidei), che si devono necessariamente conoscere per poter credere, come quelle verità

riguardo a Dio che si possono provare con la ragione naturale, per esempio che Dio esiste e che è

Unico e così ancora altre verità riguardanti Dio e le creature, provate in filosofia, che la fede

presuppone. Secondo, per chiarire con esempi ciò che appartiene alla fede, come scrive Agostino

nel De Trinitate, che usa molti esempi presi dai Filosofi per manifestare la Trinità. Terzo, per

respingere ciò che si dice contro la fede manifestando che è falso o non necessario»41.

Nei tempi moderni, la crisi comincia a farsi sentire nel momento in cui il neo-tomismo, almeno

praticamente, viene identificato con la neo-scolastica, creando problemi a problemi, perché il

pensiero cristiano si solidifica attorno a tale nucleo, perdendo ogni sua creatività e ricchezza della

pluralità. Si assiste, infatti, a un cammino parallelo del pensiero cristiano con quello, chiamiamolo

così, laico, senza alcuna possibilità di dialogo, anzi avallando sempre di più la differenza tra i due

mondi culturali42, tra credenti e non credenti.

Nei tempi recenti, il campanello di allarme circa la crisi del tomismo e il valore diverso dei

praeambula fidei sembra provenire dagli stessi tomisti. Il riferimento specifico è a due articoli

dovuti a Giovanni Ferretti43 e a Saturnino Muratore44. Dal primo articolo, vengono offerti alcuni

spunti ritenuti interessanti al nostro problema, specialmente in ordine al modo di come la teologia

ha inteso da sempre l’ufficio di “ancillarità” della filosofia. Difatti, il Ferretti così scrive: «La natura

delle vicende che hanno portato a tale “frattura” [risalgono alla] sintesi medievale in cui la

cristianità si era globalmente riconosciuta. Una sintesi in cui... la teologia era riuscita ad essere

41 In Boethii De Trinitate, q. 2, a. 3, Respondeo: « Sicut autem sacra doctrina fundatur supra lumen fidei, ita

philosophia fundatur supra lumen naturale rationis; unde impossibile est quod ea, quae sunt philosophiae, sint contraria his quae sunt fidei, sed deficiunt ab eis. Continent tamen aliquas eorum similitudines et quaedam ad ea praeambula, sicut natura praeambula est ad gratiam. Si quid autem in dictis philosophorum invenitur contrarium fidei, hoc non est philosophia, sed magis philosophiae abusus ex defectu rationis. Et ideo possibile est ex principiis philosophiae huiusmodi errorem refellere vel ostendendo omnino esse impossibile vel ostendendo non esse necessarium. Sicut enim ea quae sunt fidei non possunt demonstrative probari, ita quaedam contraria eis non possunt demonstrative ostendi esse falsa, sed potest ostendi ea non esse necessaria. Sic ergo in sacra doctrina philosophia possumus tripliciter uti. Primo ad demonstrandum ea quae sunt praeambula fidei, quae necesse est in fide scire, ut ea quae naturalibus rationibus de Deo probantur, ut Deum esse, Deum esse unum et alia huiusmodi vel de Deo vel de creaturis in philosophia probata, quae fides supponit. Secundo ad notificandum per aliquas similitudines ea quae sunt fidei, sicut Augustinus in libro de Trinitate utitur multis similitudinibus ex doctrinis philosophicis sumptis ad manifestandum Trinitatem. Tertio ad resistendum his quae contra fidem dicuntur sive ostendendo ea esse falsa sive ostendendo ea non esse necessaria».

42 Per quanto riguarda lo scotismo cf il paragrafo specifico dell’Introduzione al volume G. LAURIOLA, Elementi di Spiritualità Scotista.

43 G. FERRETTI, Filosofofia e teologia: alla ricerca di un nuovo rapporto, in Teologia e Filosofia, Roma 1990, pp. 15-55.

44 S. MURATORE, La crisi della neoscolastica, in Ibidem, pp. 135-167; IDEM, Lo studio della filosofia nelle facoltà teologiche e nelle università pontificie. Di questo articolo ho perduto la scheda bibliografica, ma si è conservato traccia nella mia dispensa “Corso di Metafisica” utilizzata durante l’insegnamento all’Istituto Interreligioso Pugliese di Santa-Fara (BA), alle pp. 10-16, da cui riporto qualche riferimento senza della fonte. Chiedo venia.

egemone... capace di riassorbire nell’orizzonte totalizzante del suo sguardo... ogni altro sapere,

compreso il sapere filosofico... La filosofia era quindi di fatto tenuta sotto tutela costante nel

momento stesso in cui le si chiedeva di prestare il libero ufficio “ancillare”: 1) di assicurare i

praeambula fidei, 2) di offrire i “materiali” concettuali per la costruzione teologica, 3) di

controbattere apologeticamente le contestazioni mosse alla fede in nome della ragione. Tre “servizi”

classici, che la teologia neoscolastica [neotomismo], riprendendo Tommaso, ha cercato di far valere

anche in epoca moderna, riuscendo bensì ad imporli nelle scuole teologiche confessionali, ma non

certo più a far accettare istituzionalmente in ambito filosofico»45 .

Già dalle prime battute viene posto il dito sulla piaga direttamente: la teologia ha svolto opera egemonica nei confronti della filosofia, mal interpretando la funzione di ancillarità, che, nata in un periodo storico in cui la cristianità era globalmente riconosciuta, è stata “a-criticamente” estesa e applicata anche al periodo moderno, in cui vige invece una visione pluralistica delle concezioni e delle vedute filosofiche, non certamente tutte “scolastiche” e non per queste meno valide. Viene anche accennata alla delicata questione dei “preamboli della fede” e anche alla constatazione che l’opera “ideologica” è riuscita, ma non in toto, a imporre la visione neotomista nelle scuole cattoliche, senza conquistarsi l’ambiente filosofico, che invece si è sempre più allontanato dalla posizione rigida e precostituita della Chiesa e dei suoi seguaci.

Come non tener conto di questa mutata condizione storica? Come trascurare tutte le osservazioni avanzate da Duns Scoto e da Occam, in ordine a questi problemi racchiusi nei così detti “preamboli della fede”? Come non prendere in seria considerazione lo sviluppo che la filosofia ha avuto da Cartesio a Husserl, da Heidegger a oggi, che ha vissuto anche la famosa “rivoluzione copernicana” in ambito filosofico?

Procedendo nell’analisi, il Ferretti precisa che la “frattura” tra teologia e filosofia deriva dalla “crisi del modello neoscolastico” [neotomisto]. Così scrive: «Per quanto riguarda il modello “neoscolastico”, la crisi derivò essenzialmente: 1) dall’inattualità della filosofia aristotelico-tomista, che nonostante i suoi aggiornamenti si mostrò sempre più inadeguata a costituire l’unico punto di riferimento del discorso teologico moderno; 2) dall’insoddisfazione crescente per il modo “estrinseco” del ricorso alla filosofia come strumento di fondazione ed elaborazione del discorso teologico»46.

Al nostro intento serve sola l’affermazione del primo motivo della crisi: “inattualità della filosofia aristotelico-tomista” o neotomismo. E’ il primo riconoscimento storico, almeno così sembra, di un tale fallimento del modello neotomista. E ciò è sufficiente per non essere “costretto” a seguire la stessa via, altrimenti non si svolge un sano servizio alla Chiesa e ai giovani, cui si è chiamati a dare indicazioni sicure storicamente e criticamente sui principi filosofici per la loro formazione umana e di quella teologica, basata direttamente sulla rivelazione e sulle dichiarazioni ufficiali del Magistero.

45 G. FERRETTI, Art. cit., pp. 17. Il corsivo è di chi scrive. 46 Ibidem, pp. 22-23.

La sintesi aristotelico-tomista, quindi, è stata riconosciuta in crisi. Secondo noi è stata sempre in crisi, dal momento che si è voluta imporla “ideologicamente”. La visione di Tommaso è grande quanto si vuole, ma rispecchia sempre il suo tempo. Una concezione storica se viene assolutizzata e imposta come dottrina di riferimento obbligato diventa opera ideologica. E’ vero che oggi si assiste a un curioso scherzo storico. Una volta ammesso la crisi del modello neotomista, i sostenitori del movimento si chiedono: il vero Tommaso è proprio quello letto fin ad oggi in chiave aristotelica oppure c’è un altro Tommaso che si può leggere in chiave agostiniana e che risale al periodo giovanile?

Che storicamente la domanda sia legittima per appurare il vero pensiero di un autore, nessuno lo può mettere in dubbio. Dubbio sollevato anche da chi scrive, ma per altre ragioni47. Il sospetto nasce: perché la domanda non si è posta prima? E perché non si riesce a fare marcia indietro?

Si risponde semplicemente così: fallito lo scopo, ci si vuole arrampicare sugli specchi per restare sempre a galla a tutti i costi, cioè in posizione egemone o ideologica. Non si ha il coraggio dell’umiltà intellettuale, che sarebbe anche una valida testimonianza di “povertà” intellettuale di un certo modello e dell’uomo in ordine a problemi a lui superiori e trascendenti, che trovano risposta nella fede e con la fede. Riconoscere i propri limiti o i limiti di un modello è onestà intellettuale che fa onore. Invece, si vuole trovare a ogni costo cavilli per riaffermare la medesima “ancillarità”, ma camuffata.

Storicamente si domanda: oltre a quello tomista, non c’è altro modello a cui ispirarsi in filosofia e in teologia? La storia, puta caso, registra in ampo cattolico anche un “modello bonaventuriano”, un “modello scotista”, che, vuoi o non vuoi, hanno pieno titolo per svolgere la funzione di modello di riferimento sia in filosofia sia in teologia. Specialmente la ricostruzione scotista ha una prospettiva completamente novativa, perché fondata su un diverso modo di leggere sia Cristo che l’essere. E’ vero che le vicissitudini storiche, insieme alle vicende del processo di beatificazione di Duns Scoto e il clima ideologico già attuato nelle istituzioni ecclesiastiche, non ha permesso la conoscenza e quindi l’approfondimento del suo pensiero nelle strutture competenti. Pertanto, il suo ricco e inesporato bagaglio dottrinale è rimasto patrimonio “incapsulato” nei pochissimi addetti ai lavori.

Il suo sviluppo dottrinale ha come anima pulsante la concezione del Dio biblico Essere e Carità insieme, che liberamente vuole il Cristo, attorno al qual viene organizzata ed effettuata la stessa attività ad extra di Dio nell’assoluta libertà: dalla creazione alla redenzione e alla glorificazione finale. Il concetto base è quello della Libertà sia in Dio che in Cristo, e, di riverbero, anche nell’uomo. Questo schema si chiama tecnicamente cristocentrismo ontologico in teologia, che riverbera i suoi influssi anche in filosofia con il concetto dell’essere in quanto essere predicato univocamente e dell’essere finito e dell’Essere infinito. In questo modo, la famosa “ancillarità” della filosofia si potrebbe anche capovolge: è la teologia che diventa “ancilla” della filosofia, perché viene in aiuto ai limiti della ragione e dalla ragione riconosciuti.

47 G. LAURIOLA, Filosofia medievale, IV, p. 22.

E’ un altro modo di pensare; è un altro modo di fare filosofia; è un altro modo di fare teologia. E’ un modello del tutto diverso, perché affonda le sue profonde istanze anche nelle intuizioni di Francesco d’Assisi, che ha posto a fondamento della sua vita il Cristo. Se si ha paura di questo modello scotista, vuol dire che si ha paura di Cristo e, quindi, di Dio stesso. Allora è inutile continuare a parlare!

Anche per quanto riguarda l’articolo di Muratore dal titolo Lo studio della filosofia nelle scuole teologiche e nelle università pontificie, si utilizza solo qualche passaggio che ha una certa ripercussione sui praeambula fidei. Dopo una panoramica storica sulla valorizazione della filosofia nell’ambito teologico, in cui, nella prima parte, non sembra metta bene in luce l’apporto di Duns Scoto, perché lo accomuna all’intera scolastica medievale, senza far notare il suo specifico proprio, l’Autore continua dicendo che non si meraviglia che la «rinascita neoscolastica [neotomismo] si sia dimostrata ben presto “inadeguata” al ruolo di mediare convenientemente il messaggio cristiano nel contesto della cultura occidentale»48.

E’ una testimonianza di tutto rispetto. Si riconosce apertamente l’inadeguatezza del modello neotomista di stampo aristotelico, quello cioè che da sempre è stato portato avanti dal mondo cattolico. L’Autore, conoscendo il contenuto dell’articolo del Ferretti, non esplicita di più il contenuto di tale fallimento, in compenso offre una breve sintesi storica di questo dichiarato fallimento: prima del concilio Vaticano II, durante il concilio e dopo il concilio stesso, fino ai giorni nostri. Meraviglia, però, l’affermazione che dopo il concilio «la filosofia neoscolastica [neotomista] viene a perdere improvvisamente la sua principale raison d’être, di fornire gli indispensabili strumenti logici e concettuali a una teologia dogmatica a prevalente carattere deduttivo»49 .

Quello che non si comprende è quell’avverbio “improvvisamente”. Come se l’apporto della filosofia neotomista abbia costituito in precedenza un valido supporto al pensiero cristiano e che per incanto sia venuto meno. Invece di dire che non ha mai funzionato, e precisamente non ha funzionato l’azione egemone svolta per “forza” e “a tutti i costi” dalla corrente neotomista, che è stata imposta non per intrinseca validità, ma per estrinseca autorità! E una dottrina che s’impone per autorità estrinseca non può mai continuare a regnare egemonicamente, perché la libertà di pensiero presto o tardi affiora a livello di coscienza critica e storica, e denuncia il fatto ideologico e tenta di costruire con pari libertà su un altro fondamento che s’impone per ragioni intrinseche e non più estrinseche.

Impressiona l’ingenuità, che rasenta forse una certa furberia, con cui l’Autore tenta ugualmente di compattare la positività dell’esperimento quando, pur riconoscendo il fallimento, scrive: «si deve forse concedere che la filosofia neoscolastica [neotomista], per quanto si sia dimostrata inadeguata al compito di mediare il confronto con la modernità e sia anche risultata fuorviante nella misura in cui ha accreditato quale base interpretativa l’essenzialismo di una visione arcaica e fissista, pure ha costituito per decenni [più di un secolo!] un importante strumento di formativo [!] della mente, un tirocinio intellettuale particolarmente prezioso in un’epoca attenta più al particolare e al concreto

48 S. MURATORE, Lo studio della filosofia nelle scuole teologiche e nelle università pontificie, p. 80. 49 Ivi.

che a trattare questioni di fondo e visioni generali. Questo spiega perché, in mancanza di meglio [!], c’è ancora chi [ed è la totalità] ricorra nell’insegnamento a trattati e manuali filosofici di taglio neoscolastico [neotomistico], che presentano - bisogna riconoscerlo - un pensiero estremamente compatto ed esigente nel suo impianto concettuale»50.

C’è sempre il colpa di coda! Di fronte a una palese e dichiarata disfatta e a un’azione “furviante” esercitato dall’influsso

neotomista, si sente ancora l’orgoglio di trovare una giustificazione, se non storico-teoretica almeno didattica. Bella soddisfazione! Come si fa a dire: “in mancanza di meglio”? La filosofia si è fermata, per caso, al 1274! Non ci sono altri modelli? E che non ci siano per la Chiesa lo si evince, suo malgrado, dalla lettera enciclica Fides et Ratio di Giovanni Paolo II, che sorvola a pier pari tutta la fase francescana della filosofia medievale51! Peccato, poteva costituire veramente un nuovo

50 Ibidem, p. 81. 51 Forse, non poteva fare altrimenti, in considerazione dei tanti documenti emanati dai suoi predecessori. Alcuni: LEONE XIII (Aeterni Patris del 4 agosto 1879; e nella lettera del 27 novembre 1898 al Ministro Generale

dell’Ordine, ordina che i Francescani devono seguire la dottrina di san Tommaso). PIO X nel Breve del 23 gennaio 1914 e nel motu proprio Doctoris Angelici del 29 giugno 1914, oltre ad affermare le

posizioni precendi di Leone XIII, precisa il senso dell’avverbio “praecipue” della Pascendi dell’8 settembre 1907. Rinnovava le precedenti disposizioni: «Ciò che importa anzitutto è che per "filosofia scolastica", che Noi ordiniamo di seguire, si debba principalmente intendere quella di san Tommaso d'Aquino: intorno alla quale tutto ciò che il nostro Predecessore stabili, intendiamo che rimanga in pieno vigore e, se è necessario, lo rinnoviamo e confermiamo e severamente ordiniamo che sia osservato da tutti. Qualora nei seminari ciò fosse trascurato, toccherà ai vescovi insistere ed esigere che in avvenire si osservi. Lo stesso comandiamo ai superiori degli ordini religiosi; 2) Rettificava il significato di "praecipue": «Giacché, poi, avevamo detto in tale occasione che bisognava seguire “principalmente” la filosofia dell'Aquinate, e non dicemmo “unicamente”, alcuni credettero di obbedire, o comunque di non opporsi al Nostro volere, insegnando la filosofia di uno qualunque tra i dottori scolastici, per quanto opposta ai principi di san Tommaso. Però si sbagliarono completamente. E' chiaro che, stabilendo san Tommaso come principale guida della filosofia scolastica, intendevamo riferirci soprattutto ai suoi principi, su cui questa filosofia poggia; ���3) Sottolineava l'efficacia del tomismo contro gli errori moderni: «Tanto più per il fatto che, se la verità cattolica fosse privata del valido aiuto che questi principi le prestano, invano, per difenderla, si cercherà qualche elemento nella filosofia che condivide, o per lo meno non respinge, i princìpi erronei su cui poggiano il materialismo, il monismo, il panteismo, il socialismo e le diverse specie di modernismo. I punti più importanti della filosofia di san Tommaso non devono essere considerati alla stregua di opinioni, discutibili sotto ogni aspetto, bensì come fondamenta su cui poggia tutta la scienza del naturale e del divino: se si respingono o in qualunque modo si corrompono tali punti capitali, ne seguirà necessariamente che coloro che studiano le scienze sacre non potranno nemmeno cogliere il senso delle parole con cui il Magistero della Chiesa espone i dogmi rivelati da Dio»; ���4) e concludeva quasi accorato: «Noi vogliamo ammonire tutti coloro che si occupano dell'insegnamento della filosofia e della teologia che se si allontanassero anche di un passo (“si ullum vestigium”), specialmente in metafisica, dall'Aquinate, ciò non sarà senza gran nocumento» in AAS VI (1914), pp. 336-338. Principi che vengono codificati nel CIC can. 589, § 1 con queste parole: «I religiosi, dopo essere stati istruiti convenientemente nelle discipline inferiori, allorché compiono gli studi di filosofia della durata di almeno un biennio, e di sacra teologia della durata di almeno un quadriennio, aderendo alla norma del canone 1366, § 2, si applichino con diligenza alla dottrina di san Tommaso, secondo le istruzioni della Sede Apostolica».

PIO XI nelle Lettera enciclica Studiorum Ducem del 29 giugno 1923, ribadisce quanto sopra già detto, e nella costituzione apostolica Deus scientiarum Dominus del 24 maggio 1931, stabiliva: «Nella facoltà teologica il posto d'onore sia riservato alla sacra teologia. Inoltre, questa disciplina deve essere insegnata sia con il metodo positivo sia con quello speculativo; perciò, una volta esposte le verità della fede, e una volta dimostrate a partire dalla Sacra Scrittura e dalla Tradizione, se ne ricerchi e se ne spieghi l'intima natura razionale secondo i principi e la dottrina di san Tommaso d'Aquino… Si insegni la filosofia scolastica, e in maniera tale da educare gli uditori con una completa e coerente sintesi della dottrina in conformità al metodo e ai princìpi di san Tommaso d'Aquino. Partendo poi da questa dottrina si esaminino e giudichino i diversi sistemi degli altri filosofi», in AAS 23 (1931), p. 253.

PIO XII nell’enciclica Humani generis del 12 agosto 1950 ripete le stesse cose anche per i religiosi: «Giacché, come ben sappiamo dall'esperienza di parecchi secoli, il metodo dell'Aquinate si distingue per singolare superiorità tanto nell'ammaestrare gli alunni quanto nella ricerca della verità; la sua dottrina poi è in armonia con la rivelazione divina ed è molto efficace per mettere al sicuro i fondamenti della fede come pure per cogliere con utilità e sicurezza i frutti di un sano progresso”».

inizio. Non si ha il coraggio di riconoscere altre fonti al sapere teologico e filosofico. E questo è segno di povertà intellettuale, che fa male all’uomo, al credente e alla cultura.

Il fallimento della mediazione della filosofia con la teologia, della filosofia con la cultura contemporanea è dovuta alla riproposizione di un pensiero, che, importante quanto si vuole, è sempre figlio del suo tempo, e di un tempo subito caduto in crisi e superato dal Rinascimento fino ai nostri giorni. Riproporre una simile sintesi dottrinale come modello di mediazione culturale e cristiana è stata veramente un’impresa a dir poco “insensata” e scarso gusto speculativo.

Il provvedimento di Leone XIII, se giustificabile storicamente ma non teoreticamente, perché mirava ad arginare il fenomeno inarrestabile del marxismo, si è trovato arroccato in una fortezza senza contrafforti né guarnigioni adeguate. La dichiarazione leonina è stata vista come un peana, e tutti si sono orientati e preparati a cantare sulla lira di Tommaso. Le migliori menti del cristianesimo si sono dovute cimentare a far resuscitare un “morto” di tanto rispetto. Si è aperta così la via alla tradizione del Magistero, che non ha lesinato occasioni per ribadire nelle diverse circostanze storiche la scelta leonina. Dopo più di un secolo, in cui tutte le generazioni ecclesiastiche e cattoliche vengono formate culturalmente e spiritualmente alla sorgente del tomismo, ci si chiede: perché si continua a scegliere ancora ciò di cui si sa in partenza che è un falimento educativo e formativo insieme? Si risponde: “in mancanza di altro” si preferisce continuare a sbagliare! La motivazione è sempre la stessa: la sintesi neotomista è “un pensiero estremamente compatto ed esigente nel suo impianto concettuale”.

Che cosa si pretende di ottenere con un’imposizione esplicita di una simile posizione? Non certamente un clero e dei cattolici che siano all’altezza del dialogo culturale con il mondo

contemporaneo, né tanto meno che possano incidere sulla nuova azione evangelizzatrice dell’uomo e delle istituzioni che regolano la vita degli uomini tra loro e con le cose su differenti fondamenti.

Questo, uno dei tanti motivi veri e fondamentali della poco credibilità della proposta culturale ispirata al cristianesimo oggi. La proposta d’ispirazione cristiana, nei termini fin’ora fatta, cioè con l’ausilio della filosofia neotomista, sembra viva ancora il periodo aureo del “mito”, dal quale bisogna uscirne subito e presto se si vuole dare incremento all’opera evangelizzatrice dell’uomo e della società.

Per uscire dal mito bisogna avere il coraggio di voler lasciare la situazione di imballo, riconosciuta da alcuni esponenti di prestigio, e tentare altre vie ugualmente valide e sicure, dal momento che in campo di spiritualità non è da meno a nessuna componente vitale della Chiesa. Il riferimento è a Francesco d’Assisi e al suo ideale sistemato e teorizzato scientificamente da Giovanni Duns Scoto, con la dottrina del cristocentrismo ontologico, unica vera chiave di volta per

Vaticano II in alcuni documenti, suo malgrado, rinnova le stesse indicazioni: OT n. 16: «Inoltre, per illustrare integralmente quanto più possibile i misteri della salvezza, gli alunni imparino ad approfondirli e a vederne il nesso per mezzo della speculazione, avendo san Tommaso per maestro»; GE n. 10: «Si coltivino le singole discipline secondo i propri principi e il proprio metodo, in quella libertà propria della ricerca scientifica [...] e [...] si colga più chiaramente come fede e ragione si incontrino nell'unica verità seguendo le orme dei dottori della Chiesa, specialmente san Tommaso d'Aquino».

Il nuovo Codice di diritto canonico, can. 252, § 3, sancisce le dichiarazioni del Concilio Vaticano II, trattando dell'istruzione dei chierici: «Vi siano lezioni di teologia dogmatica, radicata sempre nella parola di Dio e nella sacra Tradizione, mediante le quali gli alunni imparino a penetrare più intimamente i misteri della salvezza, seguendo soprattutto la dottrina di s. Tommaso».

diaologare con l’uomo e con il mondo, perché è Cristo stesso il perfetto Dialogo: vero Dio e vero Uomo.

Le applicazioni filosofiche che ne scaturiscono sono abbastanza interessanti. Qui è importante aver avuto il coraggio di prendere in mano la chiave giusta per continuare un’opera di difficile ricostruzione. Le difficoltà diminuiscono con progressione geometrica, in considerazione del fatto che in tutti c’è un forte desiderio di cambiamento e di ricerca della verità senza alcun condizionamento o prevenzione. Si respira un’aria di libertà. Si spera di contribuire a tale aurea liberante.

Nel tentativo di risposta a “quale filosofia” rivolgersi per tale azione di liberazione, il Muratore dà il proverbiale colpo di coda. Prima si chiede il motivo della non “riproposizione” del modello neotomista: «prima di pensare a una sua [della filosofia] ulteriore riproposizione, c’è quanto meno da capire perché la trasposizione neoscolastica [neotomismo] non ha funzionato, né può ulteriormente funzionare»52; trovando la spiegazione nel mutato linguaggio culturale del nostro tempo che è un linguaggio «caratterizzato e condizionato dalle categorie scientifiche e filosofiche elaborate nella modernità»53. E poi ha l’ardire di scrivere: «è certamente uno dei maggiori fraintendimenti della filosofia di san Tommaso voler continuare a leggerla (come è accaduto regolarmente nella scolastica e nella neoscolastica) [cioè da sempre!] a partire dai parametri aristotelici...»54.

Prima di concludere, sembra doveroso riportare ancora un’altra autorevole opinione. Nel maggio del 1996, il cardinale Joseph Ratzinger tiene una conferenza a Guadalajara, in Messico, dal titolo La fede e la teologia ai giorni nostri, dove affronta questioni teologiche e filosofiche di fondo. ���Si riporta la conclusione sul tema dei rapporti tra ragione e fede: «Ritengo che il razionalismo neoscolastico sia fallito nel suo tentativo di voler ricostruire i Praeambula Fidei con una ragione del tutto indipendente dalla fede, con una certezza puramente razionale; tutti gli altri tentativi che procedono su questa medesima strada otterranno alla fine gli stessi risultati»55, cioè il fallimento.

Non ci sono parole per commentare simile affermazione! Si commenta da sé. Per onestà intellettuale e per verità storica si deve precisare qualche idea, che può aiutare a comprendere, ma non a giustificare, questo quazzabuglio d’intrighi. Storicamente è risaputo che nel medio evo due erano le correnti principali di pensiero: la corrente di tendenza aristotelica e la corrente di tendenza agostiniana, con tutte le varie sfumature del caso che qui non vengono accennate per ragioni di spazio ma saranno ricordate in ambito strettamente storico della filosofia medievale. Come capostipite della prima corrente è riconosciuto sicuramente Tommaso d’Aquino, e nessuno lo può smentire; come capostipite della corrente agostiniana si ricorda invece Bonaventura di Bagnoregio, altro grande Maestro della scolastica contemporaneo di Tommaso.

Oltre a questa duale corrente di pensiero e di dottrina, verso la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV secolo si sviluppa un’altra corrente del tutto personale, che fa tesoro delle due precedenti, e ne

52 S. MURATORE, Lo studio della filosofia…, p. 83 53 Ivi. 54 Ibidem, p, 184. 55 In OR 27 ottobre 1996.

crea una terza: quella che fa capo a Duns Scoto. La sua opzione è stata una scelta veramente geniale e personale, perché, invece di scegliere una delle correnti già affermate e collaudate, si apre una nuova via più difficile, pur tenendo in debito conto i risultati già acquisiti dalle rispettive scuole, da lui già giudicate «antiquae». Egli, con un metodo sicuramente più rigoroso sotto l’aspetto storico-critico, e con principi metafisici più generali e astratti, costruisce una nuova pista di lettura della realtà attraverso il modello del Cristo totale.

L’anima della sua impalcatura teoretica è certamente il cristocentrismo ontologico che in filosofia si preannuncia con la teoria della “natura comune o indifferente”, con la teoria dell’essere in quanto essere predicato univocamente e oggetto della Metafisica, che, segnando il mondo trascendente dal mondo empirico, riduce al massimo la distanza tra l’Essere infinito e l’essere finito, tra Dio e uomo. La conseguenza epistemologica principale di questo principio speculativo è la demarcazione del “limite” della ragione umana verso il trascendente e il ricorso, in ultima istanza, “al principio di rivelazione” per superare lo iato esistente nei confronti dell’Assoluto autentico. In questo modo il rapporto fede-ragione viene ulteriormente precisato e definito: il soprannaturale appartiene alla fede, e la ragione non può naturalmente dimostrarne che la possibilità, invece per aderirvi accorre una “scelta” libera e responsabile della volontà.

Questo, il segreto della costruzione speculativa di Duns Scoto. La volontà come espressione della partecipazione della volontà di Dio o di Cristo, il veramente e assolutamente Libero nel campo dell’essere, che costituisce anche il “filo di Arianna” per raggiungerlo, con un atto libero della volontà ben illuminato dalla ragione.

E’ ugualmente risaputo che anche nel movimento della neoscolastica, bisogna riconoscere almeno due filoni fondamentali: quello aristotelico e quello agostiniano. Duns Scoto oltre a vivere autonomamente si orienta più facilmente verso il secondo filone, pur accettando criticamente le istanze fondamentali del primo. Se si considera che il periodo dello sviluppo della neoscolastica viene a coincidere con il turbolento e strano processo di beatificazione di Duns Scoto, si comprende bene e si giustifica il ritardo dello sviluppo del suo pensiero, ancora tutto da esplorare e da utilizzare. Pensiero che resta ancora una miniera vergine da sfruttare in seno positivo, specialmente in considerazione che il suo pensiero è stato sempre confrontato con quello di Tommaso, e, perché diverso, è stato sempre rifiutato! Solo nel 1972 si è superato tale “anacronistico” pregiudizio. Si comprende la verginità del suo pensiero!

Fatta questa breve ma doverosa puntualizazione, sembra doveroso chiedersi: quale indirizzo scolastico essenziale è più vicino non tanto al metodo quanto alla mentalità prima biblica e poi del pensiero moderno e contemporaneo?

Se si sente l’urgenza - nei neotomisti - di cambiare rotta ermeneutica dall’aristotelismo all’agostinismo, la risposta dovrebbe essere scontata, cioè dirigere l’attenzione direttamente verso l’indirizzo neoagostiniano. Tra gli esponenti principali di tale indirizzo figura al primo posto Bonaventura da Bagnoregio! Ma se si tien conto che a livello storico sia l’ermeneutica aristotelica sia l’ermeneutica agostiniana sono state all’inizio del XIV secolo oggetto di attenzione critica da parte di Duns Scoto, ci si accorge che la posizione del Dottor Sottile resta allora storicamente la più

accreditata come scelta ermeneutica. Il suo pensiero, infatti, viene riconosciuto come iniziatore della via moderna, cioè della filosofia o del pensare moderno.

Dove sta questa “modernità”? A livello metodologico è sufficiente accennare che dal nuovo rapporto fede-ragione, in cui viene

precisato l’ambito di ognuno e l’impossibilità, almeno di fatto, di passare naturalmente da un piano all’altro, Duns Scoto apre la via all’autonomia della filosofia dalla teologia e delle scienze dalla filosofia. Il passaggio è assicurato da una scelta arazionale ma non irrazionale che la volontà compie per aderire a qualcosa di superiore e di cui avverte una certa nostalgia o esigenza, dovuta al concetto di imago Christi che rimanda alla dipendenza strutturale della sua origine, cioè dall’Essere Assoluto, del quale resta sempre capax, nonostante le sue vicissitudini storiche e morali. La modernità di Duns Scoto consiste perciò nell’aver tracciato un cammino nuovo e autonomo all’ambito della fede e all’ambito della ragione in tutte le sue manifestazioni, dalla teologia alla filosofia e dalla filosofia alla scienza empirica. Il passaggio dal naturale al soprannaturale è questione di scelta e non di passaggio o conclusione.