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Pietro Invernizzi Bruno e Nietzsche. Uomo eroico ed Oltreuomo PREMESSA È stata la casualità per prima a suggerirmi di accostare Bruno a Nietzsche quando, circa un anno fa, mentre iniziavo a frequentare un seminario sul Nolano, leggevo per conto mio Così parlò Zarathustra. Dopo poco tempo in cui lezioni universitarie e letture private, Bruno e Nietzsche, camminavano al fianco, mi parve di riscontrare non poche affinità fra i due pensatori. Da allora ho desiderato approfondire questo confronto e soprattutto capire se effettivamente Bruno fosse stato letto e amato da Nietzsche e se pertanto avesse potuto ispirare qualche pagina delle sue opere. Intento delle pagine che seguono è dimostare filologicamente come sia avvenuto l’ ‘incontro’ a distanza di tre secoli; inoltre si vogliono evidenziare le assonanze e i punti di contatto tra i due filosofi, dapprima con una rapida rassegna delle tematiche più rilevanti, poi soffermandosi con maggiore attenzione su due figure che si muovono in due testi ‘principali’ dei rispettivi autori: l’Uomo eroico e l’Oltreuomo, negli Eroici furori e nel Così parlò Zarathustra. Il motivo per cui ci si è soffermati proprio su queste due figure è perché in esse si è vista la forza di un messaggio rivolto all’Uomo al di là del tempo, al di là dei secoli che separano l’uno dall’altro ed entrambi da noi. Inoltre su questo tema potrebbe consistere la maggiore influenza di Bruno su Nietzsche, stando a quanto e a quando quest’ultimo ha letto del Nolano. “- È però fastidioso e stridente avvicinare Nietzsche e Bruno: quasi una <sconvenienza> e una gaffe storiografica. Non si vorrà per caso sostenere che Bruno era il… profeta di Nietzsche! - La storia della filosofia per profeti non è certo una brillante trovata. Altra cosa è però la tesi heideggeriana del <non detto> del <detto>: nella parola di ogni filosofo si annunzia un non-detto di quel detto. Qualcosa che un filosofo non può dire, ma che è la condizione profonda di ciò che egli dice. (...) La <ripetizione> storiografica di un filosofo mira a dire l’eguale, o l’identico (sebbene ciò sia poi di fatto impossibile e illusorio); la <ripetizione> ermeneutica mira invece a dire il medesimo. Ora dietro la gaffe che qui può essere rimproverata sta il tentativo (più o meno felice, questo è un altro discorso) di una <ripetizione> ermeneutica di Bruno; un tentativo di dire l’<impensato> di Bruno” 1 ; non volendo fare di Bruno il profeta di Nietzsche, ma confidando che la massima distanza fra i due sia solo nel non-detto di quel detto, questo lavoro trova il suo massimo limite nel dichiarato intento di ricercare e di mostrare 1 Carlo Sini, Passare il segno. Semiotica, cosmologia, tecnica, edizione Il Saggiatore, Milano 1982, 109.

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Pietro Invernizzi

Bruno e Nietzsche. Uomo eroico ed Oltreuomo

PREMESSA È stata la casualità per prima a suggerirmi di accostare Bruno a Nietzsche quando, circa un anno fa, mentre iniziavo a frequentare un seminario sul Nolano, leggevo per conto mio Così parlò Zarathustra. Dopo poco tempo in cui lezioni universitarie e letture private, Bruno e Nietzsche, camminavano al fianco, mi parve di riscontrare non poche affinità fra i due pensatori. Da allora ho desiderato approfondire questo confronto e soprattutto capire se effettivamente Bruno fosse stato letto e amato da Nietzsche e se pertanto avesse potuto ispirare qualche pagina delle sue opere. Intento delle pagine che seguono è dimostare filologicamente come sia avvenuto l’ ‘incontro’ a distanza di tre secoli; inoltre si vogliono evidenziare le assonanze e i punti di contatto tra i due filosofi, dapprima con una rapida rassegna delle tematiche più rilevanti, poi soffermandosi con maggiore attenzione su due figure che si muovono in due testi ‘principali’ dei rispettivi autori: l’Uomo eroico e l’Oltreuomo, negli Eroici furori e nel Così parlò Zarathustra. Il motivo per cui ci si è soffermati proprio su queste due figure è perché in esse si è vista la forza di un messaggio rivolto all’Uomo al di là del tempo, al di là dei secoli che separano l’uno dall’altro ed entrambi da noi. Inoltre su questo tema potrebbe consistere la maggiore influenza di Bruno su Nietzsche, stando a quanto e a quando quest’ultimo ha letto del Nolano. “- È però fastidioso e stridente avvicinare Nietzsche e Bruno: quasi una <sconvenienza> e una gaffe storiografica. Non si vorrà per caso sostenere che Bruno era il… profeta di Nietzsche! - La storia della filosofia per profeti non è certo una brillante trovata. Altra cosa è però la tesi heideggeriana del <non detto> del <detto>: nella parola di ogni filosofo si annunzia un non-detto di quel detto. Qualcosa che un filosofo non può dire, ma che è la condizione profonda di ciò che egli dice. (...) La <ripetizione> storiografica di un filosofo mira a dire l’eguale, o l’identico (sebbene ciò sia poi di fatto impossibile e illusorio); la <ripetizione> ermeneutica mira invece a dire il medesimo. Ora dietro la gaffe che qui può essere rimproverata sta il tentativo (più o meno felice, questo è un altro discorso) di una <ripetizione> ermeneutica di Bruno; un tentativo di dire l’<impensato> di Bruno”1; non volendo fare di Bruno il profeta di Nietzsche, ma confidando che la massima distanza fra i due sia solo nel non-detto di quel detto, questo lavoro trova il suo massimo limite nel dichiarato intento di ricercare e di mostrare 1 Carlo Sini, Passare il segno. Semiotica, cosmologia, tecnica, edizione Il Saggiatore, Milano 1982, 109.

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soltanto le assonanze e le affinità fra i due, ignorando completamente un’analisi delle differenze, rinviando un simile compito all’occasione in cui sarà possibile sfruttare più spazio e più tempo.Devo poi confessare il vizio più grande che minaccia la mia ricerca, cioè che un amore furioso per l’idea di questa affinità mi possa aver reso cieco rispetto ad ogni altro vedere2.

2“Questa cecità è eroica, ed è tale, per la quale degnamente contentare si possa il presente furioso cieco, il qual tanto manca che si cure di quella, che viene veramente a spreggiar ogni altro vedere, e da la comunità non vorrebbe impetrar altro che libero passaggio e progresso di contemplazione [...]”. G. Bruno, Eroici furori, edizione Laterza, Roma-Bari 2000, 146.

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CAPITOLO PRIMO.

Bruno e Nietzsche, affinità tra i due filosofi.

1. Affinità elettiva. Due pensatori in tutto estremi, esempi di un filosofare che vuole sfuggire, e sfugge, alla pedanteria, di un filosofare che si scrolla di dosso il peso della riverenza alla tradizione per sollevarsi più leggero verso le vette del pensiero, che vola anche sulle ali dell’ironia pungente di chi si sente elevato rispetto alla moltitudine. Tre secoli a dividerli con un richiamo di esattezza nelle cifre che da solo esercita un fascino tanto discreto quanto privo di significato, Filippo Giordano Bruno viene arso vivo in Campo de’ Fiori a Roma il 17 febbraio 1600 e Friedrich Wilhelm Nietzsche muore folle il 25 agosto 1900. Non solo la data della loro morte suggerisce un richiamo, ciò che più ci colpisce in questa è il dramma che si consuma, epilogo di biografie profondamente intrise di umana tragedia. Un brevissimo accenno alle loro vite ci può dare un’idea di questo: Bruno passerà la vita inseguendo la libertà di espressione e di pensiero e sarà inseguito a sua volta dalle scomuniche di ben tre Chiese (oltre a quella cattolica anche da quella calvinista di Ginevra e da quella luterana di Helmstedt), ad ogni polemica risponde con opere taglienti che suscitano ancora più polemiche. La sua ricerca si mosse di nazione in nazione, Italia, Svizzera, Francia, Inghilterra e poi ancora in Italia, a Venezia, dove sarà tradito da un suo”discepolo” di cui già era profondamente deluso, il celebre Mocenigo; dovrà poi difendersi nei lunghissimi anni dei processi romani da accuse che non volle mai abiurare, fino alla fine a cui si è accennato. Ma il martirio di Bruno si trascinerà anche sulla sua memoria, la chiesa non riconoscerà le sue colpe nei confronti del Nolano fino alle dichiarazioni del cardinale Poupard in occasione del Grande Giubileo e quarto centenario del rogo, e la statua che oggi si erge in Campo de’ Fiori ha destato, quando la si pose, non poche polemiche nella curia romana ancora nel 1889. Nietzsche da parte sua inseguirà tutta la vita amicizie profonde di intelletti non viziati e conoscerà una delusione dopo l’altra, dal celeberrimo Richard Wagner, passando per i suoi più intimi amici: Paul Rèe e Lou von Salomè, e anche Heinrich von Stein, fino all’amaro distacco dalla madre e soprattutto dalla sorella. Anni di solitudine e sofferenza fisica e psicologica, vagando di eremo in eremo tra Italia, Francia, Germania e Svizzera, alleviati solo dalla luce delle proprie opere, ma sempre con la tristezza di non avere un vero discepolo e la paura che queste venissero fraintese, la paura di restare solo anche dopo la morte: incompreso. Il crollo psico-fisico a Torino nel 1889 e poi undici anni di follia, particolarmente inquietante per le tracce che ha lasciato in appunti e lettere3. Infine la morte e il temuto tradimento della memoria; la sorella, complici diversi intellettuali dell’epoca, mistificherà le sue pubblicazioni postume per biechi

3 Si rimanda per un approfondimento ad Anacleto Verrecchia, La catastrofe di Nietzsche a Torino, edito da Einaudi.

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ideali nazional-socialisti e antisemiti in misura tanto vasta che ancora oggi è difficile cancellarne le tracce4. Tre secoli a dividere le loro vite, pertanto non potremo parlare di un'unica persona costruita su due nomi, né tanto meno di un maestro e di un discepolo, tuttavia potremo cogliere quelle assonanze astoriche che affascinano, assonanze incalzanti, frequenti tanto nei contenuti delle opere quanto nella forza dello stile che le caratterizza; uno stile variopinto e alto a tal punto che di entrambi si può sussurrare: poeti. Cogliere la melodia intensa di queste assonanze, creare un filo che si intrecci nelle trame di questi due filosofi, significa vedere il filosofico furore che può animare il pensiero di un uomo, significa comprendere l’importanza di avere la convinzione di potersi migliorare, di potersi liberare da qualsiasi giogo; quel filo tesse un modello di riferimento a cui tendere, con cui confrontare le nostre vite e misurare le nostre scelte, è un modello che esprime la forza di chi vuol essere uomo coerente con se stesso fino alla fine, uomini consapevoli dei propri limiti, ma soprattutto della possibilità infinita di superarli, uomini eroici, uomini che divengono oltreuomini.

2.1 Contro dotti pedanti ed asini Colui che più di ogni altro nel sedicesimo secolo rende manifesta la sua avversità ai grammatici, creatori di rigide griglie che ingabbiano il pensiero, ai pedanti educatori, che insegnano polverosissime nozioni e dogmi come leggi, agli asini che hanno indossato la pelle dei leoni ragliando false religioni, false promesse, false minacce e falso sapere, colui che nell’Europa riformata, dove infuriavano le guerre di religione, si scagliò contro la pestilenza intellettuale del suo tempo: la professione di cieca fede; costui era Giordano Bruno, nato a Nola nel 1548. Nietzsche, nato a Rocken nel 1844, si è scagliato contro la pestilenza intellettuale del suo tempo: il nichilismo5, fratello gemello di una professione di cieca fede. Al di là della asperrima polemica rivolta a tutto ciò che di marcio vi è nelle religioni occidentali, polemica che vede lottare fianco a fianco Bruno e Nietzsche e di cui ci occuperemo fra poco, ciò che in primo luogo risulta sorprendente è l’affinità nello stile canzonatorio e anche la ricorrenza della tematica anti-asinina. Giordano Bruno apre la sua “Cabala del cavallo pegaseo” con il seguente sonetto:

Sonetto in lode de l’Asino. O Santa asinità, sant’ignoranza, Santa stolticia et pia divotione, Qual sola puoi fa l’anime sì buone,

4 Su questo argomento si rimanda a Ernst Nolte, Nietzsche e il nietzscheanesimo, edito da Sansoni, Firenze 1991. 5 “Richiamiamo il nichilismo con una battuta. Esso dice: nulla su questa terra ha senso, niente è destinato a durare; tutto è imperfetto e caduco; il mondo non è come dovrebbe essere perché esso è la <valle di lacrime>; nulla vale la pena. […] La risposa al nichilismo può allora essere che il <senso>, il <valore>, sono di questa terra, come annunziava lo Zarathustra di Nietzsche”. Carlo Sini, Passare il segno. Semiotica, cosmologia, tecnica, cit., 58-9.

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Ch’human ingegno et studio non l’avanza. Non gionge faticosa vigilanza D’arte qualunque sia o’nventione, Né de Soprossi contemplatione; Al ciel dove t’edifichi la stanza. Che vi val (curiosi) il studiare, Voler saper quel che fa la natura, Se gl’astri son pur terra, fuoco et mare? La santa asinità di ciò non cura; Ma con mani gionte e ‘n ginocchion vuol stare Aspettando da Dio la sua ventura. Nessuna cosa dura, Eccetto il frutto de l’eterna requie, La qual ne done Dio dopo l’essequie6.

L’asino personaggio bersaglio e protagonista della “Cabala del cavallo pegaseo” è anche un personaggio ricorrente in “Così parlò Zarathustra”, in particolare lo troviamo adorato da “devoti pazzi” nel brano “Il risveglio”, questa è la “litania devota” che ad esso rivolge “l’uomo più brutto”:

(...) in lode dell’asino adorato e incensato. Questa litania sonava così: Amen! All’Iddio nostro la benedizione e la gloria e la sapienza e la azioni di grazie e l’onore e la forza, nei secoli dei secoli! - L’asino a sua volta ragliò: I-A. Egli porta il nostro fardello, egli prese forma di servo, egli è paziente nel suo cuore e mai dice di no; ma colui che ama il suo dio, lo castiga. - L’asino a sua volta ragliò: I-A. Egli non parla: se non che dice sempre di dì al mondo, che ha creato: così egli esalta il suo mondo. La sua scaltrezza è di non parlare: così è difficile che abbia torto. - L’asino a sua volta ragliò: I-A. Egli va per il suo mondo senza farsi notare. Grigio è il colore del suo corpo, entro cui vela la sua virtù. Se ha spirito, lo nasconde; ma tutti credono alle sue orecchie lunghe. - L’asino a sua volta ragliò: I-A. Quale nascosta saggezza nel suo portare lunghe orecchie e dire sempre sì e mai no! Forse non ha creato il mondo a sua immagine e somiglianza, cioè il più stupido possibile? - L’asino a sua volta ragliò: I-A. Tu vai per sentieri diritti e tortuosi, poco ti cale ciò che a noi uomini sembra diritto o tortuoso. Al di là del bene e del male è il tuo regno. La tua innocenza è di non sapere che cosa sia l’innocenza. - L’asino a sua volta ragliò: I-A. Bada di non respingere alcuno via da te, non i mendichi e nemmeno i re. I fanciulli li lasci venire a te, e se i peccatori ti vogliono sedurre, tu dici un candido: I-A. - L’asino a sua volta ragliò: I-A. Tu ami le asine e i fichi freschi, tu non sei uno schifiltoso. Un cardo ti solletica il cuore, quando ti viene fame. In ciò è la saggezza di un dio. - L’asino a sua volta ragliò: I-A7.

6 G.Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, a cura di Fabrizio Meroi, edizione Bur, 2000, 67. 7 F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, versione e appendici di M.Montinari, nota introduttiva di G. Colli, edizione Adelphi 2001, 364-65.

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E ancora proseguiamo questo confronto con alcuni passi della “Declamazione al studioso, divoto e pio lettore”, che segue al “Sonetto in lode de l’asino” dove viene formulata un’ironica celebrazione dell’”asinitade” dei cristiani.

“(...)estinguete quella focosa luce de l’intelletto,che vi accende, vi bruggia e vi consuma; fuggite que’ gradi de scienza che per certo aggrandiscono i vostri dolori; abnegate ogni senso, fatevi cattivi alla santa fede, siate quella benedetta asina, riducetevi a quel glorioso puledro (...)”8 ; “Qua vedete chi son gli redemuti, chi son gli chiamati, chi son gli predestinati, chi son gli salvi: l’asina, l’asinello, gli semplici, gli poveri d’argumento, gli pargoletti, quelli ch’han discorso dei fanciulli; quelli, quelli entrano nel regno de’ cieli; quelli per dispregio del mondo e de le sue pompe calpestrano gli vestimenti, hanno bandita da sé ogni cura del corpo, de la carne che sta avolta circa quest’anima, se l’han messa sotto gli piedi,l’hanno gittata via a terra: per far più gloriosa e trionfalmente passar l’asina et il suo caro asinello. Pregate, pregate Dio, o carissimi, se non siete ancora asini, che vi faccia dovenir asini”9.

Zarathustra da parte sua non risparmia il paragone con gli asini ai saggi illustri e anzi vede che i re mandano innanzi un asino.

“Nel deserto hanno abitato, da sempre, i veraci, gli spiriti liberi, come signori del deserto; ma nelle città abitano, ben foraggiati, i saggi illustri, - gli animali da tiro. Essi infatti, in quanto asini, tirano sempre - il carro del popolo!”10.

“(...) se ne venivano a piedi due re, ornati di corone e di cinture di porpora, multicolori nelle loro vesti come fenicotteri: essi spingevano davanti a sé un asino gravato da una soma. (...) <Strano! Strano! Come mettere d’accordo tutto ciò? Io vedo due re – ma un solo somaro!>”11.

E per quanto concerne il fatto che i religiosi ci insegnano che i “fanciulli” sono quelli che “entrano nel regno de’cieli”, sempre Zarathustra dice degli apostati:

“(...) dove sono camerette, là sono anche i nuovi bigotti e le nebbie delle loro preghiere. Per lunghe serate siedono l’uno accanto all’altro e dicono: <diventiamo come i fanciullini e diciamo ‘buon Dio’!> - la bocca e lo stomaco rovinati da pasticceri devoti”12.

E aggiunge più avanti ne “La festa dell’asino”:

“- perché potevate infine tornare a fare come i bambini, cioè pregavate, giungevate le mani, e dicevate ‘buon Dio’! (...) Certo: se non diverrete come i fanciullini non entrerete in quel regno dei Cieli. (E Zarathustra indicò in alto con le mani)”13.

8 G.Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, cit., 86. 9 Ivi, 87-8. 10 F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 116. 11 F.Nietzsche,. Così parlò Zarathustra, cit., 283. 12 Ivi, 212. 13 Ivi, 369.

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Ma la polemica contro dotti e pedanti è un tema ricorrente nelle opere di entrambi i filosofi, anche al di là della tematica asinina, pungenti attacchi riferiti alla cultura de’ loro tempi e la dovuta presa di distanza da un sapere polveroso, asfittico, arido e mistificatore, li ritroviamo sparsi un po’ ovunque fra le pagine delle loro opere, bastino qui alcuni riferimenti. Per la penna di Giordano Bruno, dice Cicada nella “Parte prima” del “Dialogo primo” degli “Eroici Furori”:

“Cicada. Dunque, han torto certi pedantacci de tempi nostri, che excludeno dal numero de poeti alcuni, o perché non apportino favole e metafore conformi, o perché non hanno principii de libri e canti conformi a quei d’Omero e Vergilio, o perché non osservano la consuetudine di far l’invocazione, o perché intesseno una istoria o favola con l’altra, o perché finiscono gli canti epilogando di quel ch’è detto, e proponendo per quel ch’è da dire; e per mille altre maniere d’examine, per censure e regole in virtù di quel testo. Onde par che vogliano conchiudere ch’essi loro a un proposito (se gli venesse de fantasia) sarebbono gli veri poeti, ed arrivarebbono là, dove questi si forzano: e poi in fatto non son altro che vermi, che non san far cosa di buono, ma son nati solamente per rodere, insporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche; e non possendosi render celebri per propria virtude ed ingegno, cercano di mettersi avanti o a dritto o a torto, per altrui vizio ed errore”14.

E altrove, nello “Spaccio della bestia trionfante”, Sofia parlando con Saulino delle sorti di Ganimede con un gioco di parole allude agli amori omosessuali dei pedanti e richiama alla corruzione che regna nei collegi riformati: “Saulino. Or che sarà di quel povero fanciullo?

Sofia. Ha preso partito di mandarlo a studiar lettere umane in qualche universitade o collegio riformato, e sottoporlo alla verga di qualche pedante”15.

Lo Zarathustra di Nietzsche, invece, così parla “dei saggi illustri”:

“Ma in ogni senso voi, per me, vi prendete troppe confidenze con lo spirito; e spesso della saggezza avete fatto un asilo e un ospedale per poeti scadenti. (...)Voi siete per me dei tiepidi: ma fredda scorre ogni profonda conoscenza. Gelide sono le intime scaturigini dello spirito: un ristoro per mani che bruciano e per coloro che bruciano nell’agire. Voi ve ne state qui impettiti e rispettabili e con la schiena dritta, o saggi illustri! – non vi spinge un forte vento e volere”16.

E più avanti a proposito “dei dotti”:

“Giacché questa è la verità: io sono uscito dalla casa dei dotti: e per giunta ho sbattuto la porta alle mie spalle.(...) Io sono troppo ardente e riarso dai miei stessi pensieri: spesso mi si mozza il fiato. E bisogna che fugga all’aperto, via dal chiuso delle stanze polverose.

14 G.Bruno, Eroici furori, con introduzione di Michele Ciliberto, testo e note a cura di Simonetta Bassi; Editori Laterza, 2000, pag 25. 15 G.Bruno, Spaccio della bestia trionfante, in Dialoghi filosofici italiani,a cura di Michele Ciliberto, edizione I Meridiani – Mondadori, 2000, pag 489. 16 F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 117.

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Loro invece siedono freddi nell’ombra fredda: in tutto non vogliono essere che spettatori, e si guardano bene dal mettersi a sedere dove il sole arde i gradini. (...) A toccarli con mano, ti impolverano tutto come sacchi di farina (...)”17.

2.2 La posizione antiluterana, antipaolina, anticristiana Nietzche e Bruno, spiriti liberi dalla fredda ragione dogmatica e dallo statico torpore della tradizione che costringono al capo chino, si fanno profeti, annunciatori, Mercurii dello sguardo fiero; Filosofia e Religione (nova religio) si dovrebbero incontrare sul terreno della domanda, della vita sperimentata, della ricerca. Secondo i nostri Mercurii, una delle più gravi colpe, forse la più grave, dei pedanti, dei dotti e soprattutto della religione è stata quella di frenare la ricerca, la domanda, la prassi filosofica. In particolare la polemica antiriformista “brunonicciana”18 si infiamma sul tema delle opere, della praxis, infatti i temi cardine della riforma: predestinazione e iustitia sola fide, tolgono valore e nobiltà all’opera e portano all’ozio. “L’ocio non può trovarsi là dove si combatte contra gli ministri e servi de l’invidia, ignoranza e malignitade”19, Nietzsche e Bruno contro quest’ozio indotto che affligge le vite degli uomini rendendoli predisposti ai vizi scagliano le proprie vite, diventando uomini che agiscono sulle cose, che operano sul mondo e nel mondo cercano la loro ricompensa: “Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze!”20; “Siamo diventati uomini, - perciò noi vogliamo il regno della terra”21.Sia Nietzsche che Bruno vogliono che il regno dell’uomo sia la terra su cui vive, collocano l’uomo finito all’interno della struttura mondo, della struttura vita-materia infinita, ma non secondo una prospettiva prettamente umanistica, perché questa porrebbe l’uomo sopra la struttura mondo-natura, bensì semplicemente entrambi i pensatori restituiscono a questo animale borioso che è l’uomo l’importanza della tematica del corpo e dell’opera, entrambi attraverso la critica a Paolo e alla riforma di Lutero. “Uno dei più amari venefici inoculati dalla religione, sia per Bruno che per Nietzsche, è l’incomprensibile pretesa di separare l’uomo dalla natura”22, essi ritengono piuttosto che l’uomo possa e debba ricercare la vicinanza alla dimensione divina attraverso la vicinanza alla natura, “non è un caso, poi, che Bruno con gli Egizi, Nietzsche con i greci, rivalutino entrambi una superiore concezione che sentiva come un tutt’uno indistinto il vincolo uomo-natura-divinità. Quell’insana considerazione del rapporto uomo-natura tipica del cristianesimo, si ripercuote anche all’interno dell’uomo stesso: egli si ritrova antagonista di sé e della sua corporeità”23.

17 Ivi, 143. 18 Termine adoperato da D. Morea e S. Busellato, in Nietzsche e Bruno – Un incontro postumo, edizione Ets, 1999, 25. 19 G.Bruno, Eroici furori, cit., 23. 20 F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 6. 21 Ivi, 369. 22 D. Morea e S. Busellato, Nietzsche e Bruno – Un incontro postumo, edizione Ets, 1999, 28. 23 Ivi, 28-9.

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Se ricordiamo le parole di Paolo: “I desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello spirito portano alla vita e alla pace”, (Paolo, Rm. 8,6), risulta evidente come i nostri due pensatori siano ben lontani da questa posizione. Difatti Bruno in primis, secondo le accuse del Mocenigo nel processo veneziano, era convinto “che la chiesa faceva un gran peccato nel far peccato quello che si serve così bene alla natura”24, e difendendosi su questo punto, rispondeva con ironia:

“Quanto a questo io ne ho parlato qualche volta, dicendo che il peccato della carne, parlando in genere, era il minor peccato degli altri (...) ed ho fatto che il peccato della semplice fornicazione sia tanto leggero che fosse vicino al peccato veniale. Questo sì che ho detto qualche volta; e so e conosco d’aver detto errore, perché mi ricordo che san Paulo dice, <quod fornicarii non possiedebunt regnum dei>”25.

Nietzsche del resto attribuisce a quel “cervello balzano che fu Paolo” la grave responsabilità di aver inventato la cristianità che mortifica la carne e i sensi; così chiama l’insegnamento paolino: “una dottrina pagana di misteri che insegna alla fine ad accettare lo stato, spinge verso guerre, …torture …e odio”26. Altrove dice: “il loro delirio [dei cristiani] era credere che si potesse portare in giro un’”anima bella” in un aborto di cadavere”27. “Si renda agli uomini il coraggio dei loro istinti naturali. Si ponga sotto controllo il loro sottovalutare se medesimi (si sottovalutano non come individui, ma come natura…). Si tolgano le contraddizioni dalle cose, dopo aver compreso che ce le abbiamo messe noi stessi”28. La morale cristiana è secondo Nietzsche “la nichilistica negazione di ogni valore al mondo, e la conseguente volontà di abbassarlo ancora di più, disprezzandolo e umiliandolo (come si disprezza e umilia nella morale cristiana <la carne>)”29. “Nietzsche è tuttavia deciso ad includere Lutero nelle sue accuse ed il suo attacco alla sola fide di Lutero e al grande esempio di Lutero, Paolo, è anche più appassionato delle sue diatribe contro la Chiesa – a parte il fatto che per ‘Chiesa’ egli intende Protestantesimo non meno che Cattolicesimo”30. Se Lutero è “uomo non spirituale” a capo dei “contadini dello spirito”, Paolo per Nietzsche è “il primo cristiano”, (Aurora, 68), è colui che fa della fede una scusa per l’incapacità di compiere quella che uno considera l’azione giusta, è “l’uomo che rese possibile ai pagani di tutto il mondo di continuare il loro modo di vita pur chiamandosi cristiani”31. Paolo inoltre infanga la vita terrena a vantaggio di uno stato successivo alla morte; “il regno di Dio, sostiene Nietzsche, è nei cuori degli uomini e quando esso è ricercato in un’altra vita, la visione centrale di Gesù gli sembra tradita”32. Riassumendo: la posizione antiluterana che accomuna Bruno e Nietzsche è il disprezzo per una dottrina che, predicando la predestinazione e anche la giustizia divina secondo

24 V.Spampanato, Documenti della vita di G.Bruno, IV documento veneto (Terza denuncia di Mocenigo, 29 Maggio 1592). 25 Ivi, XII documento veneto (Quarto costituto, 2 giugno 1952). 26 F.Nietzsche, La volontà di potenza, § 167; Frammenti postumi ordinati da Peter Gast e Elisabeth Forster-Nietzsche; nuova edizione italiana a cura di M. Ferraris e P. Kobau, edizione Adelphi, 2003, 98 27 F.Nietzsche, Frammenti postumi, primavera 1888 (ed. Colli – Montinari 8, 14, 96). 28 F.Nietzsche, Frammenti postumi, autunno 1887 (ed. Colli – Montinari 8, 9, 21). 29 G.Vattimo, Introduzione a Nietzsche, (ed. Laterza, Roma - Bari 2001) 99. 30 W.Kaufmann, Nietzsche: filosofo, psicologo, anticristo, ed. Sansone, Firenze 1974, 361. 31 Ibidem. 32 Ivi, 363.

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criteri di sola fede, distoglie gli uomini dall’operosità e li abbandona all’ozio e ad una pecoresca rassegnazione; la posizione anticristiana e antipaolina invece vede i due filosofi schierarsi contro l’insegnamento che i bisogni del corpo sono da ripudiare, contro la assurda pretesa di separare l’uomo dalla natura in virtù di una vita oltremondana promessa dopo la morte. Tuttavia, avvicinando Bruno e Nietzsche nelle loro posizioni polemiche, emerge come accanto ad un autentico disgusto e fastidio per la “struttura-dottrina” delle chiese, degli asini vestiti da preti e cardinali, vi sia un autentico amore per un dio che non sia oppressore dall’alto, ma all’opposto: il dio della beatitudine terrena. “La ‘beatitudine’ non è cosa promessa: è già qui, se si vive e se si opera in un certo modo”33. “Nietzsche rimase più profondamente impressionato di quasi ogni altro uomo prima di lui” – a parere di chi scrive, tanto quanto Bruno, – “dal modo in cui la credenza in Dio ed una teleologia divina possano diminuire il valore e l’importanza dell’uomo: come questo mondo e la vita possano essere completamente svalutati ad maiorem dei gloriam”34. Per Nietzsche come per Bruno il problema era se fosse possibile mettere “al posto dei nostri ‘valori morali’ soltanto dei ‘valori naturalistici’”35 . “Questo esperimento non richiede la premessa che Dio non esiste, esso non richiede niente di più che accettiamo di non invocare Dio per tagliare corto alla discussione”36; e infatti entrambi gli autori riconoscono il valore del divino,”quella di Bruno non è mai irreligiosità fine a se stessa, giacchè è pure una forma di riconoscimento del valore divino dell’immensità dell’universo e della sua inesauribile forza animatrice (...) quella che, ad esempio, percorre molte pagine dei dialoghi De gli eroici furori(1585)”37; Bruno “esprime una sua religiosità, che non è più cristiana, e ritiene che questa sua religiosità sia il veicolo più proprio di una evoluzione morale dell’umanità”38. Dopo aver visto rapidamente e in modo piuttosto generale le critiche mosse alle grandi Chiese d’Europa dall’autore di un testo fortemente provocatore ed eretico come “Lo spaccio della bestia trionfante” che accusa direttamente il papa e tutta la cristianità, e dall’autore di un testo capace tre secoli dopo di suonare nuovamente provocatore come “L’Anticristo”, scopriamo in fine che l’intento di questi autori attraverso le loro opere, non è invitare ad una totale perdita del sentimento religioso, del divino, anzi essi ritenevano di professare la “religione” più autentica, la religione che sprona alla ricerca e all’amore per la vita, non la religione che pretende greggi di apostati che ripudino il mondo. Entrambi fedeli, perché per loro Dio è sinonimo di Verità e l’uomo fedele a se stesso, consapevole della sua partecipazione alla divina creazione, alla natura, vuole la verità; Nietzsche arriva a dire:

“(...) Ebbene si sarà compreso dove voglio arrivare, vale a dire che è pur sempre una fede metafisica quella su cui riposa la nostra fede nella scienza; che anche noi, uomini della conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere

33 F.Nietzsche, Frammenti postumi, novembre 1887 – marzo 1888 (ed. Colli – Montanari 8, 11, 360). 34 W.Kaufmann, Nietzsche: filosofo, psicologo, anticristo, cit. , 120. 35 F.Nietzsche, La volontà di potenza, § 462, op. cit., 259. 36 W.Kaufmann, Nietzsche: filosofo, psicologo, anticristo, cit. , 121. 37 G.Cacciatore, Giordano Bruno e noi, edizione Marte 2003, 20. 38 G.Canziani, Le metamorfosi dell’amore,edizione Cuem 2001, 116.

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anche il nostro fuoco dall’incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana che era anche la fede di Platone, per cui Dio è verità e la verità è divina (...)”39 .

3. Uno stile venato di alta poesia Un fitto manto di polvere ricopre i testi di religiosi, grammatici aristotelici, dotti e pedanti, la polvere nasconde la menzogna, la falsità, la polvere è la consuetudine formalizzata, l’autorità che costringe il pensiero in rigide e astruse costruzioni. Sollevare questo manto significa portare alla luce la forza espressiva di un testo, far rilucere di verità le parole. Nietzsche e Bruno sono entrambi sensibili al problema del linguaggio ed entrambi asservono e accomodano la parola al pensiero e non l’inverso; pensano all’uso della parola come ad una scelta nel molteplice, il risultato è per entrambi uno stile sempre vario, affascinante, colorato di colori accesi, spesso irriverente, se mi è permesso dirlo, uno stile che preferisce suscitare autentiche emozioni piuttosto che creare mendaci costruzioni analitiche. Là dove un loro passo è difficile da afferrare è perché il tema trattato è in alto, troppo in alto per molti, e la definizione sarebbe un errore, questo è il dire dei poeti, in loro intriso di vette filosofiche: la vastità che sta dietro la parola è la poesia. Questo dice Nietzsche “del leggere e scrivere”:

“Di tutto quanto è scritto io amo solo ciò che uno scrive col suo sangue. Scrivi col sangue: e allora imparerai che il sangue è spirito. Non è cosa dappoco intendere il sangue altrui: io odio i perdigiorno che leggono (...)Le sentenze devono essere vette: e coloro ai quali si parla devono essere grandi e di alta statura”40.

Tre secoli separano le loro parole ed essi nascono in due regioni molto diverse dell’Europa, è evidente che le differenze siano moltissime e tuttavia le analogie ci sorprendono in numero; entrambi esprimono il molteplice adoperando una molteplicità di personaggi; per citarne alcuni, con Nietzsche incontriamo: Zarathustra, Dioniso, Arianna, Cristo, il prete, le tarantole, Socrate… Con Bruno invece: il Nolano, Atteone, Coricante, Smitho, Manfurio, Onorio… “Vediamo così che il pensiero di Bruno e il pensiero di Nietzsche, si costellano e si muovono attraverso un nutrito numero di personaggi: portavoci, antagonisti, o ritratti autobiografici. Tali personaggi costruiscono nell’immanenza del farsi, il pensiero dello scrittore e rendono il lettore partecipe di un movimento in divenire. Essi nascendo dall’acquisizione filosofica del molteplice, hanno uno spessore e un’autonomia del tutto peculiare”41. In Nietzsche la forma letteraria diviene dissertazione artistico filologica, aforisma, semplice prosa, pura poesia. In Bruno è di volta in volta trattato, commedia, dialogo e pura poesia. Questa ricchezza di forme letterarie e registri linguistici è a riprova di una 39 F.Nietzsche, La gaia scienza,§ 344, versione di F. Masini, nota introduttiva di G. Colli, edizione Adelphi, 2003, 255. 40 F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, edizione a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, marzo 2001, 40. 41 D.Morea – S.Busellato, Nietzsche e Bruno – Un incontro postumo, cit., 38.

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profonda riflessione sul linguaggio. “La riflessione sul linguaggio costituisce uno degli elementi centrali della filosofia di Bruno. Come è noto – si tratta di un punto sul quale gli interpreti si sono soffermati con attenzione – il chiaro riconoscimento dell’esistenza, anzi della coesistenza di molteplici e ben distinte prospettive teoriche si accompagna, nella concezione bruniana, alla piena consapevolezza della dimensione plurale e tutt’altro che esclusiva dei linguaggi e delle terminologie filosofiche (...)”42; analoghe considerazioni possono essere avanzate riguardo a Nietzsche, e ancora: “l’acquisizione della pluralità dei linguaggi e l’idea di relatività delle lingue rappresentano dei presupposti concettuali decisivi per la creazione di uno spazio in cui novità dell’impianto filosofico e rinnovamento dello strumento espressivo vanno di pari passo (...)”43, in questo modo le gabbie imposte da grammatici aristotelici vengono aperte, la polvere di dotti e pedanti è rimossa e “la nuova visione del mondo si intreccia a una nuova concezione della lingua. Dal nuovo pensiero germina una lingua strutturalmente antipedantesca, capace di esprimere plasticamente, in modo duttile, la pluralità infinita dei linguaggi umani e naturali, la varietà della realtà, la ricchezza e complessità dell’uomo e delle sue esperienze, individuandone quei caratteri peculiari e specifici che i grammatici, cultori d’astratte sinonimie, ignorano e annientano programmaticamente”44. Nietzsche e Bruno fondono il loro stile su un continuo rimando al concreto, all’esperienza della vita. “Si dovrebbe parlare solo di cose delle quali si è fatto esperienza”,dice Nietzsche45, “per Bruno ‘lingua’ e ‘filosofia’ sono una sola cosa; nascono insieme, procedono insieme; sono aspetti della stessa unica, irripetibile ‘esperienza’”46; di realtà si impregna la penna del filosofo, che vola alta sulla menzogna: poesia, immagine in luogo di un concetto. Nietzsche: “Per il vero poeta la metafora non è una figura retorica, bensì un’immagine sostitutiva che gli si presenta concretamente, in luogo di un concetto”47. “Su queste basi il Nolano distingue i ‘poeti’ dai ‘versificatori’: questi ultimi, condannati a vivere nello spazio dell’asinità negativa, si aggirano nel regno dell’ozio; proprio questi ‘vani versificatori ch’al dispetto del mondo si vogliono passar per poeti’ (Spaccio, p. 744) si identificano i grammatici-pedanti. I poeti e i filosofi abitano, al contrario, la sponda opposta: dediti allo studio e alla ricerca si impegnano per penetrare il senso delle cose, perché la conoscenza non viene dall’alto ma è frutto del proprio lavoro intellettuale (...). Bruno considera la letteratura una filosofia-pittura, una raffigurazione della realtà nei suoi diversi aspetti, un’operazione artistica al servizio della sapienza (...) l’uso delle immagini è strettamente legato ai concetti che esse rappresentano; proprio attraverso le immagini è possibile cogliere il rapporto di mediazione tra oggetto e concetto”48.

42 F.Meroi, nell’Introduzione a Cabala del cavallo pegaseo di G.Bruno, ed. Bur 2004, 26 . 43 Ivi, pag 27. 44 M.Ciliberto, in Introduzione a Lessico di Giordano Bruno, ed. dell’Ateneo &Bizzarri, Roma 1979, XXVII. 45 (Lettera ad Heinrich von Stein a Berlino; Lipsia, 15 Ottobre 1885). 46 M.Ciliberto, Giordano Bruno, angelo della luce tra disincanto e furore, saggio introduttivo in Dialoghi filosofici italiani, ed. Mondadori 2000, LXXVI. 47 F.Nietzsche, La nascita della tragedia dallo spirito musicale, §8, versione di S. Giannetta, nota introduttiva di G. Colli, edizione Adelphi, 2003, 59. 48 N.Ordine, La cabala dell’asino, edizione Liguori, Napoli 2001, 165-66.

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Muovendosi tra le pagine delle opere dei nostri due filosofi questa tensione della parola tra prosa e poesia, tra oggetto e concetto è chiaramente percepibile; in particolare l’esperienza del furioso è difficile da comunicare e così la prosa si fa poesia negli Eroici furori, “(...) la scrittura scelta da Bruno nei Furori: una sorta di lingua ‘originaria’, intessuta di ‘prosa’ e ‘poesia’”49, allo stesso modo Zarathustra volendo esprimere in maniera diretta la sua personale e vastissima esperienza di pensiero intinge la sua penna nella poesia e alza la sua voce in canto.

“Ma che ti disse una volta Zarathustra? Che i poeti mentono troppo? – Ma anche Zarathustra è un poeta”50. “ – In quale linguaggio parlerà un tale spirito, quando parla da solo con se stesso? Il linguaggio del ditirambo. Io sono l’inventore del ditirambo”51. “È notte: ora parlano pìù forte tutte le fontane zampillanti. E anche l’anima mia è una zampillante fontana. È notte: solo ora si destano tutti i canti degli amanti. E anche l’anima mia è il canto di un amante”52.

La poesia è amore e l’amore diviene poesia: “l’amore, epicentro di ogni esperienza filosofico-esistenziale (Dioniso-Atteone) situata oltre i confini del comune linguaggio, diviene poesia, canto d’amore: di qui il Canto di Zarathustra, di qui gli Eroici Cantica53 del Furioso. Linguaggio, stile e pienezza del vissuto s’intrecciano a nodo sciogliendosi in metafore, immagini, miti”54. Bruno e Nietzsche li ritroviamo uniti nella grande varietà dello stile letterario e dall’eccellenza nella poesia, e uniti divengono anche dall’oscurità di questo stile poetico; infatti, se è vero che vi è una volontà comune di raggiungere un grande pubblico con un messaggio essoterico di forza politica, è altrettanto vero che questa volontà si scontra con la necessità di adottare una forma che, per altezza, per difficoltà espressiva, per portata, non può che risultare accessibile a pochi, non può che avere le vesti di un messaggio esoterico. E così “nonostante ogni buona intenzione, ieri come oggi, Bruno continua ad essere un ‘eccentrico’, un ‘irregolare’, un ‘cavaliere errante’ (direbbe Bayle), capace di parlare soprattutto a ‘eccentrici’, a ‘cavalieri erranti’ (...)”55 e Nietzsche rende manifesta la sua consapevolezza di questa antitesi tra essoterico ed esoterico con il sottotitolo del suo “Così parlò Zarathustra”: “un libro per tutti e per nessuno”.

49 M.Ciliberto Filosofia e lingua nelle opere volgari diBruno. 50 F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 146 51 F.Nietzsche, Ecce homo, a cura e con un saggio di R. Calasso, edizioni Adelphi, 2003. Così parlò Zarathustra, §7, 105 . 52 F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 121. 53 “In un primo momento, Bruno avrebbe voluto chiamare il suo dialogo Cantica. Poi decise per Eroici furori intendendo il termine eroico nella sua discendenza etimologica da Eros”. ( – Nota n°26 in D.Morea–S.Busellato, op. cit., 41 – ). 54 D.Morea – S.Busellato, Nietzsche e Bruno – Un incontro postumo, cit., 41. 55 M.Ciliberto, Saggio introduttivo a Dialoghi filosofici italiani, cit., LXXVII.

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4. Sull’ eterno ritorno e l’infinito

E noi medesimi e le cose nostre andiamo e vegnamo, passiamo e ritorniamo,

e non è cosa nostra che non si faccia aliena e non è cosa aliena che

non si faccia nostra. (G. Bruno, La cena delle ceneri)

In questo cammino che vuole mostrare le affinità che legano il pensiero di Nietzsche a quello di Bruno, un punto di incontro nasce dalle riflessioni sul tempo56. Entrambi mostrano una insofferenza al tempo presente, guardano con ammirazione a periodi passati e sono convinti di essere sul punto di una svolta epocale.

“(...) il presente più ne affligge che il passato, ed ambi doi insieme manco possono appagarne che il futuro, il quale è sempre in aspettazione e speranza, come ben puoi veder designato in questa figura la quale è tolta all’antiquità de gli Egizii, che ferno cotal statua che sopra un busto simile a tutti tre puosero tre teste, l’una di lupo che remirava a dietro, l’altra di leone che avea la faccia volta in mezzo, e la terza di cane che guardava innanzi; per significare che le cose passate affligono col pensiero, ma non tanto quanto le cose presenti che in effetto ne tormentano, ma sempre per l’avvenire ne prometteno meglio”57.

Senza soffermarsi sulle articolate motivazioni di questa convinzione, di questo stato d’animo, quello che qui interessa è la concezione del tempo che da esso scaturisce, e cioè una ennesima presa di distanza da una convenzione ebraico-cristiana: quella della linearità del tempo, che vede le vicissitudini del mondo originate in un momento dato: la creazione, e che condanna queste ad un momento finale: il giudizio universale. Sia Bruno che Nietzsche sostituiscono a questa concezione del tempo come successione lineare di momenti, dalla creazione al giudizio, una concezione del tempo circolare, maturata dalla riflessione sul problema dell’eterno; Bruno parlando di ruota del tempo e circolo universale, Nietzsche con la sua, tanto celebre quanto discussa, teoria dell’ eterno ritorno; l’eterno ritorno di Nietzsche si può interpretare come “la radicale riduzione del tempo lineare della storia al tempo ciclico della natura”58.

“[la ruota del tempo] si muove in circolo; dove il moto concorre con la quiete, atteso che nel moto orbicolare sopra il proprio asse e circa il proprio mezzo si comprende la quiete e fermezza secondo il moto retto; over quiete del tutto e moto, secondo le parti; e da le parti che si muoveno in circolo, si apprendeno due differenze di lazione, in quanto che successivamente altre parti montano alla sommità, altre dalla sommità discendeno al basso; altre ottengono le differenze medianti, altre tegnono l’estremo dell’alto e del fondo”59. “La revolution dunque, ed anno grande del mondo, è quel spacio di tempo in cui da abiti ed effetti diversissimi per gli opposti mezzi e contrarii si ritorna al medesimo:

56 Un riferimento costante per un approfondimento circa la nozione del tempo in Bruno deve essere fatto a Michele Ciliberto, La ruota del tempo, Editori Riuniti, Roma. 57 G.Bruno, Eroici Furori, cit., 95. 58 G.Vattimo, Introduzione a Nietzsche, cit., 77. 59 G.Bruno, Eroici furori, 1089, riferimento tratto da M. Ciliberto, Lessico di Giordano Bruno; 2 v.; ed. dell’Ateneo &Bizzarri, Roma 1979.

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come veggiamo ne gli anni particolari, qual è quello del sole, dove il principio d’una disposizione contraria è fine de l’altra, ed il fine di questa è il principio di quella”60. “Quello che sarà et è stato terra, non è, ne fu sempre terra; ma con certa vicissitudine, determinato circolo, et ordine, si de’ credere che dove è l’uno sarà l’altro; et dov’è l’altro sarà l’uno”61. “<(...)Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E quella lunga via fuori della porta e avanti – un’altra eternità. Si contraddicono a vicenda questi sentieri; sbattono la testa l’uno contro l’altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: ‘attimo’. Ma chi ne percorresse uno dei due – sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?>. – <Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo>“62.

Riflessioni sull’”anno grande del mondo”, sulla circolarità del tempo e quindi sull’eterno ritorno non sono nuove nella storia della filosofia, in particolare possiamo pensare che i nostri due filosofi vedano le loro radici su questo tema nella fisica e nella cosmologia degli stoici, degli orfici e dei pitagorici, i quali erano stati oggetto sia della vastissima biblioteca del Nolano sia della passione per la Grecia antica di Nietzsche; la filosofia greca aveva spesso elaborato concezioni del tempo che prevedevano dei cataclismi periodici, dopo i quali la storia del mondo ricominciava da zero. Gli stoici non solo fanno propria questa dottrina, ma la interpretano in una prospettiva perfettamente ciclica: la storia si ripete eternamente, infinite volte, fin nei minimi particolari. La realtà per gli stoici in quanto razionale, cessa anche di essere caduca; e non è più tale proprio perché eternamente diviene, immobile e sempre uguale, ‘secondo il ciclo’ .

“Di maniera che megliormente intese Democrito ed Epicuro, che vogliono tutto per infinito rinnovarsi e restituirsi: che chi si forza di salvare eterno la costanza de l’universo, perché medesimo numero a medesimo numero sempre succeda, e medesime parti di materia con le medesime sempre si convertano”63.

Questo richiamo a Democrito e ad Epicuro risulta particolarmente illuminante perché sottolinea che il ciclo vicissitudinale non porta una serie finita di forme e combinazioni, ma si articola attraverso il moto incessante degli atomi e le loro infinite combinazioni. La continua ‘rinascita’ degli enti, nel tempo circolare bruniano, non coincide con il ritorno dell’identico, secondo una prospettiva teorica di matrice stoica.

“Essendo la materia et sustanza delle cose incorrotibile, et dovendo quella secondo tutte le parti esser soggetto di tutte forme, a fin che secondo tutte le parti (per quanto capace) si fia tutto, sia tutto, se non in un medesimo tempo, et instante d’eternità; almeno in diversi tempi, in varii instanti d’eternità, successiva, vicissitudinalmente (...)”64.

60 G.Bruno, Eroici Furori,cit., 95. 61 G.Bruno, Cena delle ceneri, 218, riferimento tratto da M. Ciliberto, Lessico di Giordano Bruno, op. cit. 62 F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra,cit., 183-84. 63 G.Bruno, De l’infinito, universo e mondi, in Dialoghi filosofici italiani, ed. I Meridiani – Mondadori, a cura di Michele Ciliberto, 2000, 316. 64 G.Bruno, Cena delle ceneri, riferimento tratto da M. Ciliberto, Lessico di Giordano Bruno, op. cit.

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In ogni parte della materia vi sarebbe esplicata la potenza di tutta la materia, in ogni istante di tempo è racchiusa una combinazione eterna, perché come la materia si lega in ogni sua combinazione nello stesso principio animatore, l’”anima mundi”, tale per cui si potrebbe dire che nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma nella “vita-materia infinita”, così il tempo si costruisce nel legame di ogni istante con l’istante precedente e quello successivo, e ogni istante è una combinazione eterna e tutta l’eternità è un’unità, un istante; la materia e il tempo sono “Uno-Tutto”, in ogni unità vi una combinazione del tutto e il tutto è un’unità.

“Tansillo. Sì come il tempo è uno, ma in diversi suggetti temporali, cossì l’instante è uno in diverse e tutte le parti del tempo. Come io son medesimo che fui, sono e sarò; io medesimo son qua in casa, nel tempio, nel campo e per tutto dove sono. Cicada. Perché volete che l’instante sia tutto il tempo? Tansillo. Perché se non fusse l’instante, non sarebbe il tempo: però il tempo in essenza e sustanza non è altro che instante. E questo basta, se l’intendi (...)”65.

L’eternità è un circolo, il tempo è uno in cui tutto ritorna, le combinazioni sono infinite, così per Bruno possiamo affermare che di eterno ritorno si tratti, ma non di un eterno ritorno in cui le cose si ripresenteranno esattamente come sono nell’istante presente, non ci sarà per Bruno un Bruno futuro identico al Bruno presente e ad un Bruno passato; soltanto la vicissitudine è un ciclo della natura perché il tempo è un uno. Per Nietzche, secondo l’analisi che abbiamo condotto non possiamo ancora affermare una cosa del genere, tanto più che la dottrina dell’eterno ritorno è nota come eterno ritorno dell’uguale e che certi passi ad una prima lettura potrebbero suggerire questo.

“Ecco ch’io muoio e scompaio, diresti, e in un attimo sono un nulla. Le anime sono mortali come i corpi. Ma il nodo di cause, nel quale io sono intrecciato, torna di nuovo, - esso mi creerà di nuovo! Io stesso appartengo alle cause dell’eterno ritorno. Io torno di nuovo, con questo sole, con questa terra, con questa aquila, con questo serpente – non a nuova vita o a vita migliore o a una vita simile: - io torno eternamente a questa stessa identica vita, nelle cose più grandi e anche nelle più piccole, affinché io insegni di nuovo l’eterno ritorno di tutte le cose - (...)”66.

La vita di ogni singola unita è intrecciata nella vita del tutto, soprattutto nelle cause del tutto; nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma, anima e corpo scompaiono e tornano, dove? Terra, aquila, serpente; ma non sono vite migliori o simili: eternamente le stessa vita: la vita eterna della materia infinita! L’eterno ritorno: il tempo chiuso dei cicli del cosmo. L’identico che ritorna è la vita di tutte le cose. “Il genitivo che si riferisce all’eternità come eternità ‘di’, ‘ciò che’ è eterno, si dice in Nietzsche l’uguale, una parola che in un primo tempo suona un po’ strana, o addirittura insignificante. L’uguale non è lo stesso, ma neppure la molteplicità irrelazionata. Nell’ambito del pensiero di Nietzsche, l’ ‘uguale’ non può riferirsi né alla somiglianza esterna di una figura cosale, né alla mediazione sintetica di una riflessione che si

65 G.Bruno, Eroici Furori, cit., 90. 66 F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., pp. 259-260.

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costituisca attraverso opposizioni. Ciò a cui l’uguale si riferisce è l’eterno ritorno stesso e niente altro”67. Questa visione del tempo tanto per Bruno quanto per Nietzsche porta l’uomo che la comprende a glorificare l’attimo, l’istante, perché l’istante consacra le scelte dell’uomo nell’eterno ritorno; è anche un circoscrivere tutta l’attenzione al mondo terreno, si nega la fede a un tempo altro, oltremondano, ad un’eternità fuori del mondo, tutto si svolge qui: l’amore, la lotta, il ritorno. Una vera e propria dimostrazione ‘scientifica’ dell’eterno ritorno o della circolarità del tempo non è mai stata data, tentativi però si sono avanzati e Nietzsche stesso si è misurato in questo, ma la sua argomentazione rimane solo in appunti da lui mai pubblicati68, proprio perché esposta a critiche e soprattutto a confutazioni; ma qualora si reputi l’eterno ritorno anche solo come probabilità o possibilità “anche come tale, questo pensiero avrebbe la possibilità di trasformarci, così come ha fatto per tanti secoli la pura e semplice possibilità della dannazione eterna”69. Ecco che la concezione del tempo circolare, che abbraccia l’eternità nel cosmo, oltre che tesi cosmologica è tesi etica, diviene una motivazione per spingere la volontà dell’uomo verso quel sentimento eroico di amore e ricerca fedele alla terra, che rende l’uomo veramente degno di questo nome.

“Tutte le cose sono incatenate, intrecciate, innamorate, - -se mai abbiate voluto ‘una volta’ due volte e detto <tu mi piaci, felicità! guizzo! attimo!>,avete voluto tutto indietro! - tutto di nuovo, tutto in eterno, tutto incatenato, intrecciato, innamorato, oh, così avete amato il mondo, - - voi eterni, amatelo in eterno e in ogni tempo: e anche al dolore dite: passa, ma torna indietro! Perché ogni piacere vuole – eternità!”70.

La misura dell’esistenza di Bruno e Nietzsche è la totalità dell’esistenza della vita umana, e questa è eterna, in quanto sottratta al moto rettilineo della storia e accordata con i cicli sempre ricorrenti della vita universale.

5. La consapevolezza di essere eccezioni e il filosofico furore fino alla fine

Lascio che, chi sa se è pazzia questa, o quella? Disse un pirroniano:<Chi conosce se il nostro stato è morte,

e quello di quei che chiamiamo defunti è vita?> (G. Bruno, De la causa, principio et uno)

A fare del Nolano e del filosofo tedesco delle eccezioni a confronto è anche la loro consapevolezza di essere eccezioni, il loro proclamare questo carattere di Mercurii;

67 J.Stambaugh, L’uguale nel pensiero nietzscheano dell’eterno ritorno dell’uguale, (in A. Marini, Amicizia stellare, studi su Nietzsche di Beerling, Biser, Beaufret, Putz, Boehm, Granier, Staumbaugh, Pautrat, Vattimo, Nohl. – ed Unicopli, Milano 1982). 68 Si veda ad esempio in Frammenti postumi,( V,2, p.382, oppure VIII, 3, 165) (ed. Colli-Montinari). 69 G.Vattimo, Introduzione a Nietzsche, cit., 88. 70 F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra,cit., 376-77.

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portatori di luce in un mondo che giace pigro, nel buio, portatori di pensiero con la vita e con la scrittura, consapevoli che questo loro avvento rischia di isolarli avvertono comunque il loro messaggio come una necessità, in esso la speranza che nel flusso del tempo operi sugli uomini e sul mondo. “Noi, uomini nuovi, senza nome, difficilmente comprensibili, noi figli precoci d’un avvenire ancora non verificato”71…”lasceremo la moltitudine ridersi, scherzare burlare e vagheggiare su la superficie dei mimici, comici ed istrionici Sileni, sotto gli quali sta ricoperto, ascoso, e sicuro il tesoro (...)”72. “Perché morto discorro tra le genti?”73.“Quando sono in alto, mi ritrovo sempre solo. Nessuno parla con me, il gelo della solitudine mi fa tremare, che vado cercando nell’elevatezza?”74.75

“<Ci sono uomini che nascono postumi> dice Nietzsche, e uno di questi è anche Bruno. Caratteristica che accomuna fortemente le loro biografie, è il sentirsi costantemente inattuali, stranieri ovunque – anche in casa propria: è questo a spingerli al passo irrequieto del viandante”76. Non supereroi, niente di sovrumano ma anzi due esperienze di vita tragiche, estremamente umane; l’aspetto ‘eroico’ è una conseguenza della consapevolezza della portata del proprio pensiero,“per quel che concerne l’ ‘eroe’,(...) è la forma più accettabile di essere umano, soprattutto se non si ha altra scelta”,77 niente di più umano di questa consapevolezza: l’eccellenza della domanda filosofica, che porta l’uomo a divincolarsi dalla mediocrità con la domanda, affanno della mente che spinge la ricerca lontano dai compromessi, a fondo nel contrasto. La filosofia vicina al suo significato etimologico di amore per la sapienza, e cos’è l’amore se non l’esperienza dell’eros, dell’eroico? Esperienza furiosa ed estrema della tensione fra due poli, esperienza di due opposti che si incontrano “la separazione è la causa che troviamo piacere nella congiunzione; e generalmente esaminando, si trovarà sempre che un contrario è cagione che l’altro contrario sia bramato e piaccia”78, “Ah! Quanto poco sapete voi della felicità dell’uomo, voi gente pacifica e bonaria! - giacché la felicità e l’infelicità sono due sorelle, e gemelle, che diventano grandi insieme o, come accade per voi, restano piccole insieme!”79. Così parla Dario Del Corno a proposito degli eroi della tragedia greca: “La diversità, l’esclusione sono il tramite per il ritorno a una condizione umana, addirittura più piena e perfetta di quella concessa alla generalità degli uomini. Essi meritano questa sorta d’eccezione per la forza dell’animo, che ha concesso loro di rimanere fedeli alla propria natura, nonostante tutto”80. Ecco allora che mi affascina accostare queste due figure di filosofi, amanti della vita per la verità fino alla morte; 71 F.Nietzsche, La gaia scienza, cit., aforisma 382, 319. 72 G.Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, epistola dedicatoria. 73 G.Bruno, Eroici furori, dialogo quarto, parte seconda. 74 F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Dell’albero sul monte. 75 Il presente ‘dialogo’ tra Nietzsche e Bruno è stato trascritto dal testo di Donatella Morea e Stefano Busellato, Nietzsche e Bruno, un incontro postumo, cit., 53. 76 D.Morea – S.Busellato, Nietzsche e Bruno un incontro postumo, cit., 53-54. 77 F.Nietzsche, Lettera ad Heinrich von Stein ad Halle, <Genova>, inizio Dicembre 1882, in D.Morea-S.Busellato, cit., 61. 78 G.Bruno, Eroici Furori,cit., 34. 79 F.Nietzsche, La gaia scienza, cit., aforisma 358. 80 D.Del Corno, Letteraratura greca, Dall’età arcaica alla letteratura cristiana, Casa editrice Principato, 1995, 214.

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“Dov’è la bellezza? Là dove io non posso non volere con tutta la volontà; dove voglio andare e tramontare, affinché un’immagine non rimanga un’immagine soltanto. Amare e tramontare: ciò va insieme dai secoli dei secoli. Volontà d’amore: è accettare di buon grado anche la morte”81. “In viva morte morta vita vivo. (...) È altissimo per l’aspirazione dell’eroico desio che trapassa di gran lunga gli suoi termini; ed è altissimo per l’appetito intellettuale (...)”82.

“Il maggior valore di Nietzsche può ben trovarsi nel fatto che egli ha incarnato il vero spirito filosofico della <ricerca in me stesso e negli altri uomini> per citare l’Apologia di Socrate, e pochi uomini” – a parere di chi scrive Giordano Bruno spicca fra questi – “avrebbero potuto ripetere con maggior convinzione le parole del grande greco: < se mi dite… ti lasceremo andare, ma ad una condizione, che non dovrai più ricercare… in questo modo e che se sarai preso mentre fai questo, ancora una volta, morirai; se questa fosse la condanna alla quale mi lascerete andare , dovrei rispondere… fino che avrò vita e forza non cesserò mai di insegnare e di praticare la filosofia>“83. A proposito della vita di Nietzsche e dei suoi ultimi anni, “(...) giusta è l’asserzione che pochi uomini hanno combattuto più eroicamente contro la malattia e il dolore, cercando di capire se stessi attraverso la sofferenza (...)”84 anche se la follia infine si prenderà il filosofo, e in un certo senso, come Nietzsche, “anche Bruno spicca <un folle volo> - ma verso la sapienza, non verso la follia; anzi, verso la sapienza attraverso la follia (come i Furori si incaricheranno di chiarire)”85.

6. Una questione storiografica: Nietzsche ha letto Bruno?

“Le forme superiori nelle quali l’artista è solo una parte dell’uomo – per esempio Platone, Goethe, Giordano Bruno. Queste forme riescono di rado”.

(F. Nietzsche)86

Giunti a questo punto del nostro percorso che ha voluto affiancare il Nolano al filosofo tedesco, risulta doveroso porsi una questione di carattere filologico e storiografico: Nietzsche, aveva effettivamente letto e studiato Bruno? Se sapessimo con certezza che Nietzsche nei suoi studi ebbe modo di incontrare direttamente le opere di Bruno l’ipotesi fin qui condotta di un punto di incontro fra le due filosofie sarebbe senz’altro avvalorata e risulterebbe più interessante un approfondimento. Nella biblioteca di Nietzsche non si sono trovate opere bruniane, ma un primo incontro con esse potrebbe essere avvenuto nel 1881, precisamente “nell’estate del 1881, quando a Sils-Maria Nietzsche <scopre> per la prima volta l’eterno ritorno, egli si sta

81 F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 149. 82 G.Bruno, Eroici Furori,cit., 38. 83 W.Kaufmann, Nietzsche: filosofo, psicologo, anticristo,cit., 20. 84 Ibidem. 85 M.Ciliberto, Saggio introduttivo a Dialoghi filosofici italiani, cit., XXXI. 86 F. Nietzsche, Frammenti postumi, estate-autunno 1984, ed. Colli-Montinari, 7, 26, 42.

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interessando attivamente di Spinoza”87. Al di là dei molteplici legami fra il pensiero di Bruno e quello di Spinoza, per il quale sarebbe richiesto un vasto approfondimento che non può trovare spazio in queste pagine, resta il fatto che non è eccessivamente azzardato supporre che Nietzsche si stesse nel contempo interessando a Bruno, tanto più che “proprio in quel periodo si era fatto mandare da Overbeck, in prestito dalla biblioteca di Basilea, il volume della Storia della filosofia di K. Fischer”88 in cui si parla di Spinoza e anche di Bruno. Inoltre l’inizio dell’Ottocento in Europa in ambito culturale è caratterizzato da un vero e proprio ‘ritorno di Bruno’, proprio affiancato a Spinoza: “Bruno ritornò con Spinoza. Le Lettere sulla dottrina dello Spinoza di Federico Enrico Jacobi danno in appendice un pregevole estratto del De la causa: e già prima, risorgendo l’interesse storico per le filosofie del passato, il Brucker aveva raccolto notizie sul Bruno. La fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento fu il tempo del moltiplicarsi delle Storie della filosofia: Tiedemann, Buhle, Tennemann. Ma il Bruno suscitò un fervido interesse speculativo in due grandi:” – che Nietzsche conosceva molto bene – “ Schelling, che al Bruno intitolò il suo dialogo: Bruno o della natura; e Hegel, che al Bruno dedicò acute pagine d’analisi e interpretazione nelle Lezioni su la storia della filosofia. Il risvegliato interesse per il pensiero bruniano suggerì ad Adolfo Wagner” – che il giovane Nietzsche, lo abbiamo già accennato, conosceva personalmente – “una ristampa delle Opere italiane del Bruno in due volumi (1830) ristampa scorretta, eppure utilissima, perché su di essa il Bruno tornò ad essere letto largamente nell’Ottocento: su di essa fu letto dai patrioti italiani del Risorgimento”89. Tutte queste considerazioni però non provano che Nietzsche abbia letto Bruno, semplicemente ne avvalorano l’ipotesi; il primo e unico incontro certo con il Nolano lo si deve ad uno scambio epistolare con Heinrich von Stein90. Stein, grazie alla mediazione della comune amica Lou Salomé, avrebbe dovuto incontrare una prima volta Nietzsche a Lipsia, ma quest’ultimo fu costretto a partire improvvisamente, facendo sfumare l’incontro. Per scusarsi scrisse a Stein e gli inviò anche le bozze di Zarathustra; Stein grato di questo risponde e invia il suo Gli eroi e il mondo. Nel maggio del 1884 Nietzsche invia a Stein la terza parte dello Zarathustra appena terminata, ed è questo ad offrire l’occasione dell’entrata in scena del Nolano. Stein entusiasta scrive che non ha parole per ringraziare e per questo desidera condividere il piacere della lettura della traduzione di certe poesie di Giordano Bruno che ha per le mani. Così Nietzsche può leggere seppur in una traduzione né filologica, né tanto meno letterale, tre poesie di Bruno. Stein non specifica né il titolo né le differenti opere da cui le poesie sono tratte91.

87 G.Vattimo, Introduzione a Nietzsche, cit., 83-4. 88 Ivi, nota n°15 a 84. 89 Introduzione di Augusto Guzzo a G. Bruno, De la causa, principio e uno, Milano edizione integrale Mursia, 1985, 34. 90 Stein nacque nel 1857 a Coburgo; attirò l’attenzione di Nietzsche per la sua appartenenza alla cerchia di Wagner, del cui figlio Sigrfrid fu precettore, incaricò che lasciò per insegnare filosofia ad Halle, grazie a una tesi proprio su Giordano Bruno. Nel 1882 pubblica Gli eroi e il mondo, dedicandolo a Wagner. Nel 1887 dopo aver ottenuto la prima cattedra di estetica all’Università di Berlino grazie all’influenza del suo amico Dilthey, Stein muore. Stein conobbe Lou Salomé ed ella parlò di Stein a Nietzsche. Fu grazie a questa amica in comune che ebbe inizio lo scambio epistolare, destinato poi ad un incontro ‘di persona’. Cfr. D. Morea – S. Busellato, Nietzsche e Bruno, cit., 43. 91 Cfr. D. Morea – S. Busellato, Nietzsche e Bruno, cit., 44.

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Per capire meglio potrà risultare utile riportare qui il ‘cuore bruniano’ di questo carteggio che trascrivo, non integralmente, dalla traduzione ad opera di Donatella Morea e Stefano Busellato in Nietzsche e Bruno92. Berlino, 17 Maggio 1884 Stimatissimo signore! Come posso ringraziarLa per il Suo nuovo dono – per la calda verità, il cui pulsare fa battere di rimando il mio cuore. Farò come allora, quando Lei con tale benevolenza mi fece riuscire ad esprimere la mia gratitudine, e scriverò ciò che adesso ho di nuovo sotto le mani, poesie tradotte93 di Giordano Bruno, per condividerne la gioia con Lei. E chi mi impenna, e chi mi scalda il core, Chi non mi fa temer fortuna o morte, Chi le catene ruppe e quelle porte, onde rari son sciolti ed escon fore? L’etadi, gli anni, i mesi, i giorni e l’ore, Figlie ed armi del tempo, e quella corte, A cui né ferro, né diamante è forte, Assicurato m’han del suo furore. Quindi l’ali sicure a l’aria porgo, Né temo intoppo di cristallo o vetro; ma fendo i cieli, e a l’infinito m’ergo. E mentre dal mio globo agli altri astri sorgo, E per l’eterio campo oltre penetro, Quel ch’altri lungi vede, lascio al tergo. 94

*** Monte, sebbene la terra ti trattenga appoggiato con tenacia sulle tue radici profonde Ugualmente sai protenderti con la tua vetta fino agli astri. Mente, una mente a te affine ti chiama dal vertice sommo delle cose Perché tu sia discrimine ai Mani e a Giove. Non perdere qui il tuo privilegio legittimo e, sotto il loro assalto, non lasciarti impregnare delle acque dell’Acheronte, reclinandoti inerte sul tuo fondo. La natura tenti invece i recessi più sublimi, poiché quando Dio ti tocca sarai fuoco ardente95.

92 D. Morea – S. Busellato, Nietzsche e Bruno, opera cit. 93 Stein ovviamente parla di traduzione in tedesco, ed è questa che invia a Nietzsche; di seguito invece è riportata la versione in italiano. In particolare la seconda poesia in originale è in latino, qui è riportata la traduzione di M. Ciliberto. 94 G. Bruno, De l’infinito, universo e mondi, cit., proemiale epistola. 95 G. Bruno, De la causa, principio e uno, cit., proemiale epistola.

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E questa, già tradotta prima, che a suo tempo piacque a Wagner straordinariamente: Alle selve i mastini e i veltri slaccia Il giovane Atteon, quand’il destino Gli drizza il dubio ed incauto camino, Di boscarecce fiere appo la traccia. Ecco tra l’acqui il più bel busto e faccia, Che veder possa il mortal e divino, In ostro ed alabastro ed oro fino Vedde; e ‘l gran cacciator dovenne caccia. Il cervio, ch’a’ più folti Luoghi drizzava i passi più leggieri, Ratto voraro i suoi gran cani e molti. I’ allargo i miei pensieri Ad alta preda, ed essi, a me rivolti, Morte mi dan con morsi crudi e fieri96. (...) La ringrazio di tutto cuore e Le porgo i miei più rispettosi ossequi. Heinrich von Stein.

Rispose Nietzsche: Ad Heinrich von Stein a Berlino.

Venezia, San Canciano, calle nuova 5256, 22 Maggio 1884 Mio caro signor dottore, queste poesie di Giordano Bruno sono un dono per il quale le sono grato di tutto cuore. Mi sono permesso di appropriarmene, come se le avessi fatte io e per me stesso – e le ho <prese> come delle gocce corroboranti. Se solo sapesse quanto raramente ancora mi giunga dall’esterno qualcosa di corroborante! (...) Mio figlio Zarathustra può averle confidato che cosa si agita in me; e se ottengo tutto ciò che voglio da me stesso, morirò nella consapevolezza che i secoli futuri faranno sul mio nome i voti più solenni. (...) Suo, di cuore, Nietzsche

A seguito di questo scambio epistolare “Nietzsche invita Stein nel suo ‘rifugio’ a Sils-Maria, dove insieme trascorreranno tre giornate straordinariamente intense (26, 27, 28

96 G. Bruno, Eroici furori, dialogo quarto, cit., parte prima.

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Agosto 1884)”97; è estremamente probabile che in queste giornate abbiano parlato di Giordano Bruno, a giudicare dall’entusiasmo della risposta di Nietzsche, tanto più che “è datato proprio estate-autunno 1884 l’unico frammento postumo nicciano”- citato in apertura al paragrafo- “in cui appare il nome del Nolano: < Le forme superiori nelle quali l’artista è solo una parte dell’uomo – per esempio Platone, Goethe, Giordano Bruno. Queste forme riescono di rado>”98. Pertanto, se Stein dopo aver letto le prime tre parti dello Zarathustra spedisce a Nietzsche le tre poesie di Bruno è perché doveva aver riscontrato un’affinità di toni, slancio e contenuti fra i due autori. “Stein, quindi aveva sentito in Bruno e in queste tre poesie, un legame profondamente affine a Nietzsche e al suo Zarathustra. Non importa, qui, indagare quanta consapevolezza mediasse l’intuizione; fatto sta che Stein coglie occhiate complici fra Bruno e Nietzsche”99. In particolare tutte e tre le poesie, benché soltanto l’ultima appartenga agli Eroici furori, sono animate da una comune tensione, da un comune furore a ergersi all’infinito, al protendersi verso gli astri, rimanendo legati alla terra, al tocco di Dio che rende fuoco ardente, a un furore mortal e divino. Nietzsche a queste poesie e al loro tema si sente tanto vicino da appropriarsene, come se le avesse fatte lui stesso; era nata dunque una ‘amicizia stellare’100 fra questi due filosofi che si incontrarono solo fugacemente, fra l’incauto cammino di Atteone e le perigliose vie di Zarathustra. E chi può dire che la tensione e il furore di queste tre poesie, e in particolare, il cacciatore Atteone, figura simbolo dell’eroe bruniano, come sarà mostrato nel prossimo capitolo, non abbiano influenzato la successiva stesura della quarta e ultima parte del Così parlò Zarathustra, in cui Nietzsche ultima il ritratto, iniziato già dalla prima parte, dell’uomo superiore, del Superuomo? Se un giudizio in merito non ci è dato di esprimere, quello che è certo è che solamente di questo ‘incontro’ vi è una documentazione, e oggi, indipendentemente da quanta causalità e casualità occorse in questo incontro, due figure sono consegnate a noi, legate da un’amicizia stellare: l’‘uomo eroico’ degli Eroici furori di Bruno e l’ ‘Oltreuomo’ del Così parlò Zarathustra di Nietzsche.

97 D. Morea – S. Busellato, Nietzsche e Bruno, cit., 46. 98 Ibidem. 99 Ivi, 48. 100 È un termine usato da Nietzsche nella Gaia scienza nell’aforisma 279, per riferirsi ad amicizie distanti, caratterizzate dal brillare della stessa luce, affinità di spirito e di intenti: luce stellare. Distanti ma che si ritrovano in cielo. Ad ogni modo la definizione di “Amicizia stellare” viene analizzata molto nei suoi significati meno evidenti da Joachim Kohler, nell’ottavo capitolo del suo Nietzsche. Il segreto di Zarathustra (vedi la Nota Bibliografica).

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CAPITOLO SECONDO.

L’Uomo eroico di Giordano Bruno.

Mai fia che de l’amor io mi lamente, Senza del qual non voglio esser felice; Sia pur ver che per lui penoso stente, Non vo’ non voler quel che sì me lice.

Sia chiar o fosco il ciel. Fredd’o ardente, Sempr’un sarò ver l’unica fenice.

Mal può disfar altro destino o sorte Quel nodo che non può scorre la morte.

Al cor, al spirto, a l’alma Non è piacer, o libertade, o vita,

Qual tanto arrida, giove e sia gradita, Qual sia più dolce, graziosa ed alma,

Ch’il stento, giogo e morte, Ch’ho per natura, voluntade e sorte.

(G. Bruno, Eroici furori, Parte prima, Dialogo quinto)

Nel precedente capitolo si è mostrata l’opposizione netta che Giordano Bruno individua tra il compito del filosofo e il mestiere di dotti, pedanti ed asini; questa opposizione si articola, all’interno dell’opera del Nolano, principalmente nei sei testi che costituiscono i Dialoghi italiani composti in Inghilterra tra la primavera del 1583 e la fine del 1585 e, più precisamente, negli ultimi tre: lo Spaccio della bestia trionfante, la Cabala del cavallo pegaseo e gli Eroici furori. In quest’ultimo in particolare se è vero che inizialmente si accenna alla polemica con i religiosi e con i grammatici, è altrettanto vero che l’intento principale diviene quello di indicare una strada, una nuova via per la conoscenza umana. Oltre la polemica quindi vi è il disegno di un nuovo sapere, distinto nettamente dal “sapere dei sapienti”; dice in proposito Michele Ciliberto: “ (...) A Bruno, nell’ultimo dialogo italiano, la prospettiva rappresentata dal sapiente appare insufficiente. E tali gli appaiono sia la sua <conoscenza> che la sua <virtù>. Scaturisce di qui, da questa persuasione, il programma di ricerca messo a punto nei Furori, che rappresentano dunque una svolta essenziale nell’itinerario filosofico e intellettuale del Nolano”101. Sia sotto un profilo gnoseologico sia da un punto di vista etico la consueta prospettiva del sapiente appare manchevole e quel che manca appare con chiarezza già nel secondo dialogo della prima parte: Eros, l’Amore. Punto cruciale della distinzione tra la condizione del furioso e del savio-sapiente, l’Amore è quella tensione vissuta nell’esperienza dei contrari che tormenta, deletta e muove la ricerca di questo uomo eroico che è il furioso.

101 Introduzione di Michele Ciliberto a G. Bruno, Eroici furori, cit., XXII.

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Nettamente distinti l’uno dall’altro il <furioso> e il <sapiente> rappresentano certamente due esperienze di vita radicalmente diverse, a questo proposito Michele Ciliberto pone come fulcro la tematica del vincolo, vincolo d’Amore che accende il furioso: “Ma è una differenza che germina e si determina appunto sul terreno del vincolo, dell’esperienza intellettuale e, prima ancora, esistenziale del vincolare: cioè, nel caso specifico del furioso, dell’esperienza dell’essere vincolato da Cupido, dall’Amore. Il sapiente è estraneo al vincolo, a tutte le passioni di cui l’amore è fondamento (...). Sta nella casa della temperanza, nella indifferenza: non è contento, né triste, né freddo, né caldo. (...) Chi teme, chi spera, chi si gloria, chi s’insuperbisce è il furioso: vincolato da Cupido, dall’Amore, egli vive dentro di sé – nell’anima e nel corpo – tutte le passioni; al contrario del sapiente che le contiene e le controlla, e le controlla perché conosce la legge della <vicissitudine>, del <moto>, della <mutazione> di ogni cosa, e ispira ad essa la sua vita”102.

“Tansillo. Da qua avviene che l’amore eroico è un tormento, perché non gode del presente, come il brutale amore; ma e del futuro e del absente, e del contrario sente l’ambizione, emulazione sospetto e timore. Indi una sera dopo cena un certo de nostri vicini: - Giamai fui tanto allegro quanto sono adesso; - gli rispose Bruno, padre del Nolano: - Mai fuste più pazzo che adesso. – Cicada. Volete dunque, che colui che è triste, sia savio, e quell’altro ch’è più triste, sia più savio? Tansillo. Non, anzi intendo in questi essere essere un’altra specie di pazzia, ed oltre peggiore. Cicada. Chi dunque sarà savio, se pazzo è colui ch’è contento, e pazzo è colui ch’è triste? Tansillo. Quel che non è contento, né triste. Cicada. Chi? quel che dorme? quel ch’è privo di sentimento? quel ch’è morto? Tansillo. No; ma quel ch’è vivo, vegghia ed intende; il quale considerando il male ed il bene, stimando l’uno e l’altro come cosa variabile e consistente in moto, mutazione e vicissitudine ( di sorte ch’il fine d’un contrario è principio de l’altro, e l’estremo de l’uno è cominciamento de l’altro), non si dismette, né si gonfia di spirito, vien continente nelle inclinazioni e temperato nelle voluptadi; stante ch’a lui il piacere non è piacere, per aver come presente il suo fine. Parimente che la pena non gli è pena, perché con la forza della considerazione ha presente il termine di quella. (...)”103.

Questo amore che tormenta l’eroe è lo strumento che lo conduce nella ricerca di una sapienza autentica diversa da quella del savio, è la via da percorrere nella caccia alla 102 Introduzione di Michele Ciliberto a Eroici furori,cit., XX. (“Chi teme, chi spera, chi si gloria, chi s’insuperbisce è il furioso: vincolato da Cupido, dall’Amore, egli vive dentro di sé – nell’anima e nel corpo – tutte le passioni; al contrario del sapiente che le contiene e le controlla, e le controlla perché conosce la legge della <vicissitudine>, del <moto>, della <mutazione> di ogni cosa, e ispira ad essa la sua vita”. A parere di chi scrive in queste parole si potrebbe vedere una conferma di quel che ci si era azzardati ad affermare in un passaggio del paragrafo 4 del primo capitolo, e cioè che Bruno, con il furioso, come Nietzsche, con Zarathustra, glorifica l’istante. Infatti se l’atteggiamento del sapiente che ha compreso la vicissitudine è di mesta rassegnazione, lontano dalle passioni, temperato nelle voluptadi, annichilito; il furioso all’opposto si infiamma d’amore per l’attimo che vive e in questo esperisce con tormento gli estremi della contrarietade, l’incommensurabile, la tensione insanabile tra il finito e l’eterno, e in questo incarna la dimensione eroica. Se il sapiente contempla lo scorrere del tempo, il furioso lotta per il futuro. Tuttavia è doveroso sottolineare che questa è una mia personale considerazione e che Michele Ciliberto non accenna minimamente a questo). 103 G. Bruno, Eroici furori, cit., 35-6.

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verità. “A ben vedere, è il concetto di <verità>, di <felicità> e di <sapienza> che Bruno qui riproblematizza fin dalle fondamenta, ponendo in modi radicalmente nuovi la questione altrettanto decisiva delle <vie> e degli <strumenti> attraverso cui l’uomo ascende all’una e all’altra, ammesso - e non concesso – che questo sia nelle sue possibilità. Un elemento fondamentale egli ribadisce però con nettezza fin dall’inizio. Sono <vie> e <strumenti> che non hanno niente a che fare con quelli propri del sapiente. Si è visto, del resto: il sapiente sceglie di stare nella casa della Temperanza, di contemplare la vicissitudine, di essere virtuoso tenendosi nel <mezzo>. Il <furioso>, impegnato con tutte le sue forza nella <venazione> della più profonda e nascosta Verità, sceglie la strada opposta: oltre l’indifferenza sceglie la contrarietà, oltre la vicissitudine l’unità, oltre la virtù egli sceglie il vizio. Del resto, questo, un vizio, è in essenza l’eroico furore:(...) Vizio, passione, vincolo d’amore: appunto, è la vita del furioso. Eppure – ed è questa la <scoperta> dei Furori – solo di qui, dall’esperienza della contrarietà, dal <disquarto> di sé, dalla esplosione di tutte le passioni, insomma solo dal <vincolo di Cupido>, può essere aperta la strada al <primo vero>, alla <verità absoluta> (...)”104. Il furioso è dunque colui che problematizza il presente e nella compresenza di tormento ed estasi è proteso verso il futuro, in un atteggiamento decisamente più attivo e dinamico rispetto allo stolto inconsapevole o al savio contemplativo. L’amore eroico è un tormento, perché non gode del presente, come il brutale amore; ma e del futuro e del absente, e del contrario sente l’ambizione, emulazione sospetto e timore. Se tuttavia si è affermato che Amore è la chiave che apre le porte della Verità più profonda, è necessario capire di quale Amore si sta parlando, Bruno è molto chiaro nel distinguere subito fra amore eroico e brutale amore. L’amore brutale è quello puramente animale, finalizzato al piacere nel presente e subordinato alla generazione: “Da qua si vede che l’ignoranza è madre della felicità e beatitudine sensuale, e questa medesima è l’orto del paradiso degli animali (...)”105. L’amore eroico è quello di ispirazione divina finalizzato all’infinito e per questo proteso al futuro: “Con questo dimostra l’amor suo esser veramente eroico, perché si propone per più principal fine la grazia del spirito e la inclinazion de l’affetto, che la bellezza del corpo, in cui non si termina quell’amor c’ha del divino”106. “Il bruto è un vivente che si muove entro un perimetro esistenziale definito,senza mai neppure concepire il desiderio di superarlo”107. Gli amori del furioso, eroici e non puramente animali, invece:

“hanno per oggetto la divinità, tendeno alla divina bellezza, la quale prima si comunica all’anime e risplende in quelle; e da quelle poi o, per dir meglio, per quelle poi si comunica alli corpi; onde è che l’affetto ben formato ama gli corpi o la corporal bellezza, per quel che è indice della bellezza di spirito”108.

Questo passaggio è fondamentale perché Bruno ci fa capire che la differenza tra amore eroico e animale è radicale in relazione alla finalità e alla consapevolezza di questa, decisamente meno radicale in relazione al ruolo svolto dal corpo e dai sensi; del resto

104 Introduzione di Michele Ciliberto a Eroici furori,cit., XXII. 105 G. Bruno, Eroici furori, cit., 35. 106 Ivi, 39-40. 107 Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, ed. Libreria Cuem, Milano 2001, 186. 108 G. Bruno, Eroici furori, cit., 45.

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che la valorizzazione del corpo e la comunione con la natura siano punti cruciali nel Nolano lo avevamo già affermato circa la critica mossa a Paolo di Tarso. “Il divino, sotto forma di bellezza, è dunque alla radice di ogni amore, e più precisamente: esso è il movente d’amore in quanto a partire dalle, o per meglio dire attraverso le anime, la bellezza divina si comunica ai corpi, permeandoli e rendendosi sensibile in quella che ci appare come la loro bellezza corporea, simbolo della bellezza spirituale. L’amore rettamente orientato è quello che riflette quest’ordine e che quindi si sofferma sulla bellezza corporea solo per oltrepassarla e coglierne il significato spirituale. Anche alla luce di questa interpretazione simbolica della dimensione somatica, resta che il passaggio attraverso il corpo è inevitabile: il corpo è il medium verso il meta-corporeo e la materia è (...) luogo di una teofania sensibile”109. Anche l’amore spirituale deve valorizzare il corpo e la materia, cogliere in essi il divino e amarlo, sia che si presenti in armonia di forme, in piacere dei sensi, in logica sublime o imperscrutabile. “Il corpo è l’immagine viva di dio: adorarlo è riconoscere l’orma di dio in lui!”110. “Una cosa pare certa: il barbaro è tale perché si ferma al ‘toccare’, alla modalità somatica dell’unione, meglio, perché vi si sofferma così unilateralmente da non saper concepire modi ulteriori dell’espressione dell’amore”111. L’amore eroico si protende verso la totalità e la totalità è legata da Amore. Il dio che lega il tutto, che tutto unisce e vivifica è il dio-spirito Eros; Eros è la Natura stessa, “è dunque l’energia stessa primordiale che tutto vivifica e muove, attraverso l’intersecarsi di legami (vincula), che formano la trama di tutto il cosmo (...)”112. Il furioso è l’uomo che si eleva sulla maggior parte degli uomini nello slancio del proprio intelletto animato da amore-furore. “È appunto questo l’aspetto che più qualifica il furor eroico-erotico dell’uomo: un’eccezione rispetto alla massa umana, ma, proprio per questo, secondo Bruno, particolarmente collegabile al filosofo, che sopra i molti aristocraticamente si leva, ma, come si vedrà, sconta spesso questa levatura, talvolta perfino con la vita, come del resto accadde a Bruno stesso”113. Questo amore-furore è lo slancio dell’intelletto di fronte al limite percepito in sé innanzi all’illimitato, all’infinito, è quello slancio teso al superamento che trova la sua forza non più solamente nella ragione, ma nella volontà; è sete del superamento; brama di avvicinarsi all’oltre, all’infinito; percepirsi limitato e sentire in sé una tensione che limite non conosce questa è la condizione che rende l’uomo furioso. La conversione dell’uomo in furioso “è infatti il frutto di un atto della volontà, presuppone un impegno straordinario del volere”114.

“Tansillo. Dice: 1. Chiama per suon di tromba il capitano Tutti gli suoi guerrier sott’un’insegna; Dove s’avvien che per alcun in vano Udir si faccia, perché pronto vegna, Qual nemico l’uccide, o a qual insano Gli dona bando dal suo campo e ‘l sdegna:

109 Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 195. 110 Luciano Parinetto, Processo e morte di Giordano Bruno, Rusconi Libri, 1999, 73. 111 Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 194. 112 Luciano Parinetto, Processo e morte di Giordano Bruno, cit., 70. 113 Ibidem. 114 Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 177.

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Cossì l’alma i dissegni non accolti Sott’un stendardo o gli vuol morti, o tolti. (...) 1. Questo capitano è la voluntade umana, che siede in poppa de l’anima , con un picciol temone de la raggione governando gli affetti d’alcune potenza interiori contra l’onde degli empiti naturali. Egli con il suono de la tromba, cioè della determinata elezione, chiama tutti gli guerrieri, cioè provoca tutte le potenze (le quali s’appellano guerriere per esserno in continua ripugnanza e contrasto), o pur gli effetti di quelle, che son gli contrarii pensieri, de quali altri verso l’una, altri verso l’altra parte inchinano; e cerca costituirgli tutti sott’un’insegna d’un determinato fine. (...)”115

“Il protagonismo della volontà è messo in evidenza da quel ‘piccolo timone’ della ragione, che è sì indispensabile all’orientamento del naviglio, ma appare esiguo rispetto alle forze della natura che lo circondano. Il discrimine rappresentato dal lume intellettuale, pur decisivo nella vicenda di cui Bruno ci sta parlando, opera in un campo nel quale confluiscono tutte le componenti dell’essere umano, e trae la propria efficacia dalla forza di volontà che di quel discrimine deve farsi interprete. Il tema stoico del controllo razionale delle passioni viene qui riproposto secondo una curvatura volontaristica nettissima e in funzione di un fine che, platonicamente, viene identificato con la bellezza”116. È questo lo spazio della lotta che l’individuo divenuto furioso si trova ad affrontare, identificato il fine nella platonica bellezza, nel bello della nuda verità, scopre che il suo ‘piccolo timone’ della ragione non è sufficiente a condurlo a destinazione, si trova quindi a dover affrontare l’onde degli empiti naturali, le onde delle passioni e a cercare di cavalcarle. Solo, con una ragione troppo piccola, conosce però il suo obiettivo, e in eroico tormento ed estasi lotterà, si tenderà per raggiungerlo. “Il furioso è l’individuo che giunto a un certo punto della propria crescita intellettuale e spirituale, decide, con una scelta nella quale non può che essere solo, di vivere senza schermi l’esperienza di quell’infinito che vede tralucere al di là dell’ombra delle cose. Ma questa è appunto la nascita di un eroe, ‘specchio exemplare’ per quanti vogliano vivere civilmente il proprio essere uomini”117. La nascita di un eroe, il momento in cui l’uomo diviene consapevole dei suoi limiti e dell’abisso che sta dietro questi limiti. Il momento in cui l’uomo comincia a desiderare di superare questi limiti. È un significato questo di ‘eroe’ ben lontano dall’uso comune moderno di questa parola, è un significato che rimanda agli eroi della antica tragedia greca che traggono la loro grandezza e la loro immortalità dallo scontro e dalla fusione con il fato, con gli dei; come l’Antigone di Sofocle o la Medea di Euripide, essi scelgono, determinano il loro futuro, ma il loro destino è già scritto, paradosso troppo grande per essere capito, paradosso in cui si vive massimamente l’autentica dimensione umana e ci si consuma nell’Eros che ci annienta e glorifica: uomini divengono eroi. Quel che è bene precisare con Bruno, è che l’approdare dell’uomo alla tragica dimensione dell’eroe non è mai un impulso irrazionale, così come ponderate dalla ragione e animate dall’amore erano le scelte di un’Antigone o di una Medea, così “l’<eroico furore> bruniano: esso non sfocia mai nell’irrazionalità, o in posizioni di carattere mistico o misticheggiante. Tutt’altro: è un’esperienza <estrema> di <umanità>

115 G. Bruno, Eroici furori, cit., 27. 116 Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 177-78. 117 Ivi, 176.

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e una radicale <riforma> del concetto di <ragione> e di <razionalità> in cui si fondono in modi nuovi intelletto <riformato> e volontà, sotto l’impulso <vincolante> dell’<impeto> di Amore. <Impeto razionale che siegue l’apprension intellettuale>: così appunto Bruno chiama l’<eroico furore> contrapponendolo in modo frontale all’<impeto irrazionale> del <furore> <ferino> e <insensato>”118.

“Tansillo. Poneno, e sono, più specie de furori, li quali tutti si riducono a doi geni: secondo che altri non mostrano che cecità, stupidità ed impeto irrazionale che tende al ferino insensato; altri consisteno in una certa divina astrazione per cui dovegnono alcuni migliori, in fatto, che uomini ordinarii. E questi sono de due specie; perché altri, per esserno fatti stanza de dei o spiriti divini, dicono ed operano cose mirabile senza che di quelle essi o altri intendano la raggione; e tali per l’ordinario sono promossi a questo da l’esser stati prima indisciplinati ed ignoranti; nelli quali, come voti di proprio spirito e senso, come in una stanza purgata, s’intrude il senso e spirito divino. (...) Altri, per essere avezzi o abili alla contemplazione, e per aver innato uno spirito lucido ed intellettuale, da uno interno stimolo e fervor naturale, suscitato dall’amor della divinitate,della giustizia, della veritade, della gloria, dal fuoco del desio e soffio dell’intenzione, acuiscono gli sensi; e nel solfro della cogitativa facultade accendono il lume razionale con cui veggono più che ordinariamente: e questi non vengono, al fine, a parlar ed operar come vasi ed instrumenti, ma come principali artefici ed efficienti”119.

Posta la iniziale distinzione fra l’amore eroico e l’amore animale-brutale, segue che questa distinzione divide in eguale modo la pluralità dei furori; per cui vi sono furori caratterizzati da ‘cecità’, ‘stupidità ed impeto irrazionale’ e furori di ‘divina astrazione’ che portano alcuni ad essere ‘migliori, in fatto, che uomini ordinarii’. Anche quest’ultima grande categoria di furori può essere suddivisa in due: quelli che ‘come vasi ed instrumenti’ ‘operano cose mirabile senza che di quelle essi o altri intendano la raggione’; e quelli che sono ‘principali artefici ed instrumenti’, che uniscono doti naturali di intelletto, amore e volontà e ‘accendono il lume razionale con cui veggono più che ordinariamente’.

“(...) gli secondi son essi più degni, più potenti ed efficaci, e son divini. Gli primi son degni come l’asino che porta li sacramenti; li secondi come una cosa sacra”120.

È evidente che il favore di Bruno vada ai secondi e che questi incarnino la figura di eroe ‘specchio exemplare’, rare eccezioni nella moltitudine degli uomini che escono dall’ordinario. Ma chi siano i primi è un altro discorso, questi semplici ‘vasi’ sono i profeti ‘passivi’: “Questo discorso rinvia al tema della profezia e alla figura del profeta o dell’eletto, di cui parlano i miti classici, i libri della Bibbia e di altre religioni, presentandolo ora come un capo (da Mosè a Salomone) ora invece come un semplice. La divinità si rende riconoscibile, talora, proprio in quanto sceglie di manifestarsi attraverso i semplici. Il divino si impossessa dell’idiota precisamente perché tutti lo ritengono tale: le parole o gli atti di costui appaiono tanto più meravigliosi, quanto più risultano inattesi. È il profeta passivo, un personaggio che nulla ha a che vedere con il risoluto e ardente protagonista dell’amore divino ritratto da Bruno

118 Introduzione di Michele Ciliberto a Eroici furori,cit., XXX. 119 G. Bruno, Eroici furori, cit., 42. 120 Ibidem.

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(...)”121. I furiosi del primo tipo sono solo dei ‘vasi’, recettori passivi; i furiosi del secondo tipo sono esempio dell’eroe furioso protagonista del dialogo bruniano: artefice e causa di eventi egli stesso. “Nelli primi si considera e si vede in effetto la divinità; e quella s’admira, adora ed obbedisce; ne gli secondi si considera e vede l’eccellenza della propria umanitade”122. In questi passaggi si vede come in Bruno permanga forte il senso religioso, il rispetto e l’adorazione per il divino e come questa sia da intendersi però strettamente legata con l’eccellenza umana, infatti è un’adorazione che non passa attraverso la possessione divina, o l’accettazione passiva, ma è l’adorazione del divino attraverso l’esaltazione dell’umanità, della natura umana, l’orma più marcata di divino sulla terra. L’eroe non è altro che il testimone di questa umanità. “L’eroe esalta nella propria eccellenza, quella di tutti gli uomini”123. L’uomo eroico bruniano credo lo si possa definire un cavo teso fra lo stato immediato della propria natura e un momento ‘oltre’ in cui questa natura è sublimata. “(...) Il furioso bruniano è un desiderante; contempla qualcosa che non riesce chiaramente a distinguere, e l’attitudine contemplativa si confonde con la proiezione verso l’oggetto, lo slancio verso l’oggetto, lo slancio nell’oggetto amato, secondo un’attitudine di ricerca. (...) È il passaggio dal mero essere nella propria natura, all’essere secondo la perfezione di questa natura, un essere, quest’ultimo, che consiste più in una tensione che in uno status”124. Verrebbe da dire che è una vita tra cielo e terra, tra luce e tenebra: che arde nell’ombra. La tensione e la dimensione eroica nascono dal fatto che nell’uomo non vi sono due nature, una protesa alle ‘sfere celesti’ e una rivolta alle ‘bassezze terrene’, bensì è la medesima natura umana che vive le sue passioni nella contrarietà, una contrarietà congenita all’uomo. Non si tratta di mettere a tacere un ‘lato’ di una disposizione duplice, ma di comprendersi in questa contrarietà e di vivere nella caccia dei contrari, il desiderio stesso nasce e si sostenta nei contrari125.

“ Vogliono gli platonici che l’anima, quanto alla parte superiore, sempre consista nell’intelletto, dove ha raggione d’intelligenza più che de anima; atteso che anima è nomata per quanto vivifica il corpo e lo sustenta. Cossì qua la medesima essenza che nodrisce e mantiene li pensieri in alto, insieme col magnificato cuore se induce dalla parte inferiore contristarsi e richiamar quelli come ribelli. Cicada. Sì che non sono due essenze contrarie, ma una soggetta a doi termini di contrarietade? Tansillo. Cossì è a punto. Come il raggio del sole il quale quindi tocca la terra ed è gionto a cose inferiori ed oscure, che illustra, vivifica ed accende; indi è gionto a

121 Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 201-2. 122 G. Bruno, Eroici furori, cit., 42. 123 Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 203. 124 Ivi, 204. 125 Bruno cita a proposito del desiderio un sonetto di Iamblico che voglio in parte qui riportare: “E colmo di desio al ciel arrivo:/talché soggetto a doi contrarii eterno,/Bandito son dal cielo e da l’inferno./ Non han mie pene tregua./Perché in mezzo di due scorrenti ruote,/de quai qua l’una, là l’altra mi scuote […]” Tratto da: . Bruno, Eroici furori, cit., 37.

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l’elemento del fuoco, cioè a la stella da cui procede, ha principio, è diffuso ed in cui ha propria originale sussistenza; cossì l’anima che è nell’orizonte della natura corporea ed incorporea, ha con che s’inalze alle cose superiori ed inchine a cose inferiori”126.

Questa tensione negli opposti è caratteristica dell’uomo ma non solo dell’uomo, è ciò che lega ogni natura alla Natura, ogni elemento nel tutto, ogni Uno nel Tutto. In questo ‘inseguirsi’ dei contrari l’uomo-eroe sta tra l’uomo e il divino perché unisce in sé l’elemento animale e quello intellettuale.

“Cicada. È vero ch’ho inteso che per trovarsi l’anima nell’ultimo grado de cose divine, meritamente discende nel corpo mortale, e da questo risale di nuovo alli divini gradi; e che son tre gradi di intelligenze: perché son altre nelle quali l’intellettuale supera l’animale, quali dicono essere l’intelligenze celesti; altre nelle quali l’animale supera l’intellettuale, quali sono le intelligenze umane; altre sono nelle quali l’uno e l’altro si portano ugualmente, come quelle de demoni o eroi”127.

Quello che mi preme di sottolineare è che l’ eroe che leggendo queste righe sembra essere ‘altro’ dall’intelligenza umana è, nell’ottica di Bruno, la piena realizzazione dell’umanitade, come in precedenza abbiamo già notato; “assume cioè l’attitudine intellettuale e affettiva, che lo pone al vertice dei gradi di perfezione propri della sua specie di appartenenza”128.È questa una differenziazione legata al ‘levarsi sopra la moltitudine degli uomini’ da parte dell’eroe che si protende nel divino, ma è bene ricordare che l’Uomo è fatto a immagine e somiglianza del divino e pertanto è dovere dell’uomo, l’eroe bruniano ci incalza, illuminare questa somiglianza con dio, troppo spesso dimenticata e mortificata.

“Cicada. Però ben si dice il regno de Dio esser in noi, e la divinitade abitar in noi per forza del riformato intelletto e voluntade. Tansillo. Cossì è. (...)”129

Il momento ultimo della tensione, della ricerca, dell’eroe furioso è la contemplazione del divino, il momento estatico in cui di fronte agli occhi si mostra la nuda verità. Giordano Bruno per descriverci questo passaggio circa l’oggetto ultimo dell’amor eroico, si rifà al mito di Atteone, cacciatore che inseguendo la sua preda, si trova innanzi alla dea della caccia: Diana, nuda mentre sta bagnandosi, la quale lo trasforma in cervo: oggetto a sua volta di caccia, il cacciatore divenuto preda, è sbranato dai suoi stessi cani. È l’epilogo tragico della caccia all’incommensurabile, Atteone rappresenta colui che ricerca il divino e la nuda verità. “Atteone significa l’intelletto intento alla caccia della divina sapienza, all’apprension della beltà divina”130. “Nella propria caccia, come sappiamo, il furioso – per usare un verbo dantesco – si ‘india’: la sua mente diventa un dio, attinge alla divinità”131. Il suo amore che lo ha sospinto nella ricerca, lo trasforma e converte nella cosa amata132.

126 G. Bruno, Eroici furori, cit., 63-4. 127 Ivi, 64. 128 Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 225. 129 G. Bruno, Eroici furori, cit., 55. 130 G. Bruno, Eroici furori, cit., 53. 131 Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 214.

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“Se l’eroe è l’uomo che sa promuovere al massimo grado la propria partecipazione all’intelligibile, egli è anche inevitabilmente, colui il quale più degli altri sa rendersi divino. Perciò l’eroe è anche colui che chiude il cerchio di quella ruota che dall’Uno/Tutto si articola nel molteplice infinito, per tornare infine alla propria unità”133.

“Vedde il gran cacciator: comprese, quanto è possibile e dovenne caccia: andava per predare e rimase preda questo cacciator per l’operazion de l’intelletto con cui converte le cose apprese in sé. (...) e s’accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri medesimo venea ad essere la bramata preda, perché già avendola contratta in sé, non era necessario di cercar fuor di sé la divinità”134.

Quando il furioso, il cacciatore della verità, vede la sua preda si riconosce parte di essa, l’uomo si riconosce parte del tutto, del divino, e i suoi cani, che rappresentano intelletto e volontà135 smettono una caccia ‘esterna’ e puntano al cacciatore stesso, all’interiorità. Questo perché il divino è nell’uomo e l’uomo è parte del tutto divino. La caccia di Atteone qualora abbia successo, ed è rarissima questa eventualità, è necessariamente destinata all’inversione dei ruoli per cui il cacciator diviene caccia. Infatti questa inversione di ruoli è il passaggio da un oggetto di caccia determinato, limitato e possedibile ad una preda, Diana, immagine terrena, specchio, di Apollo, di Dio, indeterminata, illimitata e, non solo non possedibile per il limitato e determinato cacciatore, ma essa stessa possidente di tutte le cose sulla terra, incluso il cacciatore stesso che, comprendendo per quanto possibile questa nuda verità non può che riconoscersi preda. “Non si tratta più di <cattivare a sé l’altre cosa>, come fa il cacciatore (anche metaforico: il cercatore della verità): in questa <divina e universale> venagione, il furente cacciatore d’infinito <viene talmente ad apprendere che resta necessariamente ancora compreso, assorbito, unito>. Come si esprime Bruno (De gli eroici furori, parte II, dialogo I, in fine): <L’ingegno umano (…) in un subito talvolta si trova ingolfato nell’abisso dell’eccellenza incomprensibile; onde il senso ed immaginazione vien confusa e assorbita, che, non sapendo passar avanti, né tornar a dietro, né dove voltarsi, svanisce e perde l’esser suo; non altrimenti che una stilla d’acqua che svanisce nel mare, o picciol spirito che s’attenua perdendo la propria sustanza nell’aere spacioso ed immenso>; e il naufragar gli è dolce in questo mare!”136. “Nel 1819 Giacomo Leopardi avrebbe concluso il suo Infinito con questi versi: ‘ (...) Così tra questa/ immensità s’annega il pensier mio:/ e il naufragar m’è dolce in questo mare’. Il naufragio leopardiano ha in comune con quello bruniano il senso dell’infinito e della mutazione, che il contatto con l’infinito comporta per il finito, sino al superamento o alla perdita del sé”137.

132 Cfr. G. Bruno, Eroici furori, cit., 54. 133 Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 214-15. 134 G. Bruno, Eroici furori, cit., pp. 54-55. 135 “Costui slaccia i mastini e i veltri. De quai questi son più veloci, quelli più forti. Perché l’operazion de l’intelletto precede l’operazion della voluntade; ma questa è più vigorosa ed efficace che quella […]”. Ivi, 53. 136 Luciano Parinetto, Processo e morte di Giordano Bruno, cit., 76-7. 137 Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 241.

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Tentare di abbracciare con la conoscenza la totalità, è una tensione all’infinito, questa tensione è il superamento del limite, il superamento del limite è accostare la propria determinazione, finitezza e vita all’indeterminato tutto, al punto da fondersi in questo, come le ali di un Icaro si sciolgono quando si avvicina al sole. “(...) il sole, la <face> metafisica, non possono essere contemplati dall’intelletto, senza che questo venga disintegrato, assieme al suo portatore”138. Questo slancio finale che rende l’uomo eroe furioso è il tentativo di comprensione dell’incomprensibile ossimoro Uno/Tutto e del suo moto che concorre con la quiete, del suo tempo circolare. Non ‘prensione’ con il pensiero ma intuizione, una visione ultima che è diversa da quella degli occhi, l’uomo resta sempre cieco di fronte alla totalità del vero, anche Atteone vede Diana, specchio di Apollo, non Apollo stesso, la sua visione è tanto più ‘nuda’ quanto più divino saprà cogliere nella natura intorno a sé e in sé, ma Il divino Uno e Tutto non è vedibile. Non è dato possedere ‘in sostanza la verità’, e ‘indiarsi’ significa espandere il divino in sé, ma non divenire dio; pena il completo annullamento del sé nella totalità, nel dio stesso.

“Perché il fine ultimo e finale di questa venazione è de venire allo acquisto di quella fugace e selvaggia preda, per cui il predator dovegna preda, il cacciator doventi caccia; perché in tutte le altre specie di venaggione che si fa de cose particolari, il cacciatore viene a cattivare a sé l’altre cose , assorbendo quelle con la bocca de l’intelligenza propria; ma in quella divina ed universale viene talmente ad apprendere che resta necessariamente ancora compreso, assorbito, unito. (...) Cossì gli cani, pensieri de cose divine, vòrano questo Atteone, facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de perturbati sensi, libero dal carnal carcere della materia; onde non più vegga come per forami e per fenestre la sua Diana, ma avendo gittate le muraglie a terra, è tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizonte. Di sorte che tutto guarda come uno, non vede più per distinzioni e numeri, che secondo la diversità de sensi, come de diverse rime fanno veder ed apprendere in confusione. Vede l’Anfitrite139, il fonte de tutti i numeri, de tutte specie, de tutte raggioni, che è la monade, vera essenza de l’essere de tutti; e se non la vede in sua essenza, in absoluta luce, la vede nella sua genitura che gli è simile, che è la sua imagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa monade che è la natura, l’universo, il mondo; dove si contempla e specchia, come il sole nella luna, mediante la quale ne illumina trovandosi egli nell’emisfero delle sustanze intellettuali. Questa è la Diana, quello uno che è l’istesso ente, quello ente che è l’istesso vero, quello vero che è la natura comprensibile, in cui influisce il sole ed il splendor della natura superiore, secondo che la unità è destinta nella generata e generante, o producente e prodotta”140.

“<Morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de perturbati sensi, libero dal carnal carcere della materia>, diventato <tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizzonte>, Atteone <vede l’Anfitrite, il fonte de tutti i numeri, de tutte specie, de tutte ragioni>, vede la <monade>, la vera essenza de l’essere de tutti>. E questa è la sua grandezza. Non la vede in <sua essenza, in absoluta luce>, la vede <nella sua genitura che gli è simile, che è la sua immagine>: e questo è il <limite> in cui egli strutturalmente resta.

138 Luciano Parinetto, Processo e morte di Giordano Bruno, cit., 82. 139 È usata dai poeti latini, è una ninfa, sposa di Poseidone, e simboleggia l’oceano e quindi l’indeterminato/senza fine. 140 G. Bruno, Eroici furori, cit., 127-28.

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Ma Atteone, infine, vede. Non vede Apollo, vede Diana, non vede la natura producente, vede la natura prodotta, non vede la natura generante, vede quella generata. Vede l’universo, l’ombra, il simulacro, lo specchio del <primo principio>. Ma oltre i numeri e le distinzioni, egli coglie l’unità, gode dell’unità. E qui sta la sua felicità. Dal punto di vista di Dio – del <semplicissimo ed individuo principio> - la <sproporzione> fra ente e accidente, fra tempo ed eternità, uomo e Dio, resta dunque intatta”141. Questa <sproporzione> tra uomo e Dio, fra determinato e infinito è per l’appunto l’insanabile dimensione eroica. Atteone vede a tutto occhio l’aspetto de tutto l’orizzonte, ma è l’orizzonte dell’ombra, dello specchio, del limite: è un affacciarsi all’abisso dell’<absoluta veritate> dell’universo. “Di questo universo è simbolo la Diana che Atteone sorprende e in cui si perde, perché lì l’eroe – addestratosi con la logica e la filosofia della natura – si affaccia sul ‘fonte’ della verità, su un’unità che nella sua originaria, divina, perfettamente semplice espressione sta oltre la logica dei distinti e che si situa ai confini del tempo e della vicissitudine. La ‘absoluta veritate’ è infatti il senso e il fine della vicissitudine e non viceversa (...)”142. Così l’uomo entra definitivamente nella dimensione eroica quando comprende di essere parte dell’Uno/Tutto, comprende di avere in sé il divino e tuttavia che Dio sarà sempre irraggiungibile ed ‘invisibile’, quando comprende anche di essere parte dell’eterno ciclo della vicissitudine, quando comprende di comprendere sempre in maniera limitata; entra definitivamente nella dimensione eroica quando matura la consapevolezza della sua autentica natura, del conflitto insanabile che glorifica la sua specie; si affaccia su questo abisso di comprensione e in esso si specchia. “L’ombra, lo specchio, il simulacro non riduce la <sproporzione> fra ente e accidente, tempo ed eternità, fra Dio e uomo: ma scandendone i caratteri e le forme si costituisce – e non è poco – come il terreno, nell’infinito di una <comunicazione>, di un <vincolo> che riscatta al massimo, senza mai annientarlo, il <limite> dell’uomo”143. L’eroe, Atteone, vede in sé e nella natura solo lo specchio del divino, ma ad ogni modo vede: “la sua visione è quella del ‘filosofo’, perché è preparata, come s’è detto, dallo studio che dispone all’ ‘apprensione’, all’apprendimento, e perfezionata dal comunicarsi del divino, dal concedersi di quest’ultimo con atto istantaneo e immediato; non è la visione dell’ ‘ignorante’ - del profeta passivo – che non cerca, e a cui pure Dio può manifestarsi in modo ugualmente istantaneo e immediato. La visione dell’eroe corrisponde non all’attitudine sporadica e eccezionale del Dio che decide di mostrarsi, ma a quella inscritta nell’ordine fisso delle cose, del Dio che vuole essere cercato. Ma soprattutto, questa visione è al tempo stesso un sublime accecamento”144. La cecità degli occhi come tramite di un’illuminazione della mente è un’allegoria diffusa nella letteratura, Bruno costruisce su di essa il quarto e il quinto dialogo della seconda e ultima parte degli Eroici furori.

141 Introduzione di Michele Ciliberto a Eroici furori,cit., XXXIII. 142 Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 244. 143 Introduzione di Michele Ciliberto a Eroici furori,cit., XXXV. 144 Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 245.

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“ Severino. Vedrete dunque la raggione de nove ciechi, li quali apportano nove principii e cause particolari de sua cecità, benché tutti convegnano in una causa generale d’un comun furore”145.

Vengono infatti introdotti nove personaggi resi ciechi dalla maga Circe a causa dei loro furori. Del resto si usa dire ‘accecato dall’amore’, e il furore eroico, lo abbiamo detto, è amore; inoltre essere accecati può essere conseguenza della troppa luce, metafora questa di Dio e della somma verità. “E ancora: la cecità è causata dalle lacrime con cui l’uomo tanto più inarrestabilmente piange la debolezza delle proprie facoltà quanto più forte è l’impulso verso la perfezione; o dall’inaridirsi dei suoi occhi, per le troppe lacrime versate al constatare la sproporzione tra la nostra natura e quella del divino”146. L’accecamento è anche una punizione che la maestà divina infligge a chi ha voluto guardare troppo in alto, peccando quindi di ùbris, l’accecamento è la punizione che si auto infligge Edipo, nella tragedia di Sofocle, per essersi reso conto di non aver saputo riconoscere la verità sulla terra, davanti ai suoi occhi. Negli Eroici furori colei che rende ciechi è Circe, seconda immagine femminile dopo Diana che incarna la Natura, e in entrambi i casi, l’uomo innanzi alla Natura è trasformato. “Circe, essa è dunque la trasparente allegoria della Natura, in cui il divino (<padre de le forme>) si rispecchia adombrandosi. Nella materia/natura vige l’incantesimo della perpetua trasmutazione, in cui, come si sa ormai benissimo, per Bruno, l’uomo, effimero, transeunte, limitato, è come cieco nei confronti dell’illimitato e incommensurabile divino, perché non lo può cogliere com’è, all’interno del divenire”147. Circe rende ciechi i suoi ‘amanti’, ma dona loro un ‘vase fatale’, che altro non è che la possibilità di una nuova visione, quella unitaria della ‘genitura’ divina. Ma questa visione diretta, l’apertura del vaso fatale, non è possibile, o quasi: una speranza è data all’uomo furioso:

“ Perché vuol il destin che discoperto Mai vegna, se non quando alta saggezza E nobil castità giunte a bellezza V’applicaran le mani; D’altri i studi son vani Per far questo liquor al ciel aperto. Allor s’avvien ch’aspergan le man belle Chiunque a lor per remedio s’avicina, Provar potrete la virtù divina Ch’amirabil contento Cangiando il rio tormento, Vedrete due più vaghe al mondo stelle”148.

In conclusione, la visione delle due più vaghe stelle, la bellezza e la bontà divina, pare essere un momento rimandato a tempo indeterminato, ma non vi sono altre vie di ricerca, altri studi son vani, che l’apprendimento di un’alta saggezza che miri al Bello, e

145 G. Bruno, Eroici furori, cit., 138. 146 Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 246. 147 Luciano Parinetto, Processo e morte di Giordano Bruno, cit., 91. 148 G. Bruno, Eroici furori, cit., 152.

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che non dimentichi le opere e la corporeità, per questo si aplicaran le mani, le man belle, di modo tale che la condizione dell’amante, del furioso sia sì un tormento ma che si cangia in contento, in virtù della speranza e della bellezza dell’oggetto della sua ricerca. È lecito chiedersi quale sia il significato di questa posizione ‘finale’ di Circe e dei suoi nove ciechi, dopo il mito di Diana ed Atteone; Luciano Parinetto suggerisce che sia “un passaggio dalla risoluzione puramente personale, soggettiva del rapporto del singolo col divino ad una mediazione della materia/natura che si interpone tra singolo e divino, forse nell’intento di graduarne il rapporto e di evitarne la disintegrazione, sia pure eroica”149.A parere di chi scrive, per quanto sia vero che la natura/Circe non disintegri il suo amante come aveva fatto la natura/Diana, il ruolo di mediazione e interposizione tra singolo e divino è comune ad entrambe le figure, sono, lo si è già detto, entrambi specchi e ombre di una visione diretta. Quello che invece è interessante notare, insieme con Luciano Parinetto è il passaggio da una dimensione intima e solitaria dell’esperienza eroica ad una più collettiva: dal singolo Atteone ai nove ciechi. “Il rapporto solitario/eroico, eccezionale, di Atteone con Diana qui si è mutato nel rapporto dei nove ciechi con Circe: un rapporto con l’Uno, mediato dalla dialettica-magica Natura, che, dunque, non è più quello del singolo col tutto, ma di un gruppo intersoggettivo col tutto. Qui assieme alla natura, riappare la società; il singolo non è più segregato dal collettivo, ma ad esso collegato”150. Questo passaggio, da Atteone a Circe, dal singolo soggetto che si dissolve nella divinità ad una collettività che ha da peregrinare per il mondo cercando tutti i numerosi regni151 nella sua ricerca della bellezza divina, sembra essere una sottolineatura della portata etico/politica del messaggio riformatore del furioso, dell’uomo eroico come modello di prassi nella società. “Un orientamento alla positiva valutazione dell’attivo intervento nel mondo: apertura sulla prassi, sulla riforma, certamente da furente, ma non da furente tolto nel divino, che ne cancelli la prassi mondana. Bruno, con la presentazione di Circe, pare che assuma le vesti di chi, in nome del legame coll’infinito, non prescinda tuttavia dal finito, ma anzi voglia dar mano a mutarlo. E qui, a mio parere, si colloca anche l’utopia di Bruno:che nella vicissitudine cieca delle cose e della natura inserisce il consaputo divenire e mutare dell’uomo: una rivoluzione cosciente nella rivoluzione inconscia”152. “Nei nove ciechi si compendia la condizione dell’umanità, nei suoi limiti e nella sua eccellenza”153.L’eroe, il furioso, afferma la dignità di questa dimensione, sino al tormento e all’estasi della divinizzazione, lo fa attraverso una avventura solitaria e intima, rinunciando completamente al compiacimento e all’approvazione della moltitudine, ma avendo sempre in mente la condizione della moltitudine e ponendosi consapevolmente innanzi ad essa come esempio e modello di prassi. 149 Luciano Parinetto, Processo e morte di Giordano Bruno, cit., 96. 150 Ivi, 96-7. 151 “[…] – O curiosi ingegni, Prendete un altro mio vaso fatale, Che mia mano medesma aprir non vale; Per largo e per profondo Peregrinate il mondo, Cercate tutti i numerosi regni […]” G. Bruno, Eroici furori, cit., 152. 152 Luciano Parinetto, Processo e morte di Giordano Bruno, cit., 98. 153 Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 247.

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“All’eroismo si perviene da soli, attingendo a tutte le forze di cui si è stati dotati per tentare di realizzare in sé quella “similitudine” del divino, che segna l’aprirsi dello sguardo dell’uomo sulla dimensione dell’intelligibile e che è quindi una sorta di apoteosi dell’umano. Questa apoteosi, culmine di un’esperienza assolutamente individuale, è la condizione perché la specie mantenga il rapporto con la fonte del bene e perché il bene e la verità possano quindi diffondersi tra gli uomini nella forma della civilitas”154. L’eroe si trova faccia a faccia con l’ineluttabilità del fato e tuttavia legittima ed esorta l’Uomo all’autoaffermazione, alla lotta per la determinazione della sua dignità, a discapito di qualsiasi forma di rassegnazione o di qualsiasi passiva attesa. L’azione, la praxis terrena è l’arena per la morale del furioso, all’opposto della iustitia sola fide di Lutero, la giustizia universale sta nell’affermarsi dell’uomo nel suo operare, il suo dovere è, riconosciutosi parte dell’Uno/Tutto, operare nel ciclo vicissitudinale di questo. Il furente degli Eroici furori ha un compito che non è più singolo-soggettivo, ma si inserisce nel disegno cosmico di riforma del mondo; se la meta del furioso è oltre il mondo, il suo ruolo si gioca nel mondo; se la sua ambita preda è l’Uno-divino, la sua caccia si muove nella moltitudine, fra gli uomini. In virtù di questa caccia gli uomini “non formalmente son dèi, ma denominativamente divini, rimanendo la divinità e divina bellezza una et esaltata sopra le cose tutte”155. “Il divino non è il termine di un percorso rettilineo, è invece il luogo di un’esplorazione che non può finire; non è il più puro e il più alto oggetto della conoscenza,” – perché non è mai pienamente conoscibile – “è piuttosto l’oggetto dell’amore e il mare nel quale tornare ad immergersi, in un’esperienza di vita senza eguali”. – Il divino è oggetto d’amore sul piano del ‘terreno’, vedere la sua immagine, la sua orma, nelle cose del mondo è scoprire il mare dell’infinito in cui immergersi per levare la propria esperienza di vita oltre l’ordinario. – “Al di là del vero, platonicamente, il bene. (...) Da un lato, al centro dell’esperienza del furioso sta una figura tipica della modernità, quella lo si è detto, dell’individuo, che qui acquista una prepotente consistenza morale (...). Dall’altro lato, l’avventura umana dell’eroe interessa l’intera specie, cui l’eroe appartiene (...)”156.

“ Or benché sappiam vana ogni speranza, Cedemo al destin nostro e siam contenti

Di non ritrarci da penosi stenti, E mai fermando i passi (Benché trepidi e lassi),

Languir tutta la vita che n’avanza”157.

154 Ivi, 248. 155 G. Bruno, Eroici furori, cit., 147. 156 Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 250-51. 157 G. Bruno, Eroici furori, cit., 153.

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CAPITOLO TERZO.

L’Oltreuomo di Friedrich Nietzsche.

“Il futuro e ciò che sta in remota lontananza sia la causa del tuo oggi: nel tuo amico devi amare il superuomo come causa di te

Amici, non l’amore del prossimo vi consiglio: io vi consiglio l’amore del remoto”.

(F. Nietzsche)158

Nel precedente capitolo si è detto che gli Eroici furori di Giordano Bruno prendevano le mosse dalla volontà dell’autore di mostrare la possibilità e l’esigenza per l’uomo di superare la sua condizione, che fino a quel momento nella sua forma più elevata era incarnata dal sapiente, per divenire, nello slancio del furore, un uomo nuovo: l’eroe. Nietzsche pare mosso dalla stessa volontà quando fra il 1883 e il 1885 fa pubblicare il suo Così parlò Zarathustra, in cui per la prima volta fa la sua apparizione pubblica, per l’appunto, Zarathustra, che si rivolge al popolo con queste prime parole:

“Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo?”159.

Come dire: uomini ci siete nati, l’uomo di natura è manchevole e imperfetto, quello che avete fatto fino ad ora per migliorarvi non è ancora abbastanza, è il momento che impariate ad essere ‘umani’in un modo più nobile, nuovo: oltre-uomini, superuomini160.

158 F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 68. 159 Ivi, 5. 160 Il termine adottato da Nietzsche è Uebermensch, tradotto nella maggior parte dei testi in italiano con ‘Superuomo’ e in questa traduzione diventato noto ai più. La parola potrebbe essere stata suggerita a Nietzsche dal poeta del II sec. a.C. Luciano, che troviamo citato nei suoi appunti; Luciano adoperava la parola hyperantropos; tuttavia la parola ‘uebermensch’ la ritroviamo anche fra i tedeschi già dal 1600 con H. Muller, passando per J. G. Herder, fino a Goethe, stimatissimo da Nietzsche, che la adopera in una poesia (Zueignung) e nel ‘Faust’ (parte I, verso 490). Ad ogni modo, d’ora in avanti mi servirò di due traduzioni diverse del termine: la prima, Superuomo, la seconda che io preferisco, Oltreuomo. Quest’ultima è adoperata da Gianni Vattimo, che la introduce nel suo Il soggetto e la maschera (Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione. Milano 1983); “per marcare la differenza tra questa umanità sognata da Nietzsche e l’uomo della tradizione precedente; l’oltreuomo non è un potenziamento dell’umanità del passato”. (Queste parole Vattimo le scrive in. Introduzione a Nietzsche, opera cit., 71). D’accordo con questa distinzione di Gianni Vattimo, preferisco ‘Oltreuomo’ anche perché più distante dall’inglese ‘Superman’, che nel contesto contemporaneo suggerisce rimandi fuorvianti a modelli direi ‘cinematografici’ di uomini con ‘innati super poteri’, ben diversi dalla dimensione ‘ultra umana’, cioè estremamente umana, e dalla prospettiva di crescita dell’uomo ‘nicciano’. Tuttavia, proprio perché un chiarimento è possibile ed anche poiché da un punto di vista prettamente linguistico credo sia più corretto ‘Superuomo’, non sarà per me un problema d’ora in avanti adoperare entrambe le traduzioni. In particolare poiché nelle citazioni sarà sempre ‘Superuomo’ perché questo il termine usato nell’edizione dell’opera di riferimento, per non creare

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“Ancora non è esistito un superuomo. Io li ho visti tutti e due nudi, l’uomo più grande e il più meschino: - Sono ancora troppo simili l’uno all’altro. In verità anche il più grande io l’ho trovato – troppo umano!”161. Possibile che nessuno si sia superato? Che nessuno tra gli uomini, neppure tra i grandi uomini che Nietzsche ha ammirato: Eraclito, Empedocle, Platone, Spinoza, Goethe, sia stato superuomo? Forse che in loro la ricerca non si è spinta abbastanza ‘oltre’, non ha osato abbastanza? Forse. Oppure la giusta interpretazione di questo passo è un invito a superarsi sempre e comunque, perché la natura propria dell’uomo è l’acquisizione di conoscenza, la ricerca, e a questa non è dato un limite? Un viaggio, quello dell’uomo che ricerca, che non arriva mai a destinazione, la mente e lo spirito si elevano, ma mai abbastanza in alto da poter vedere il tutto. Anche il migliore esempio tra gli uomini che hanno camminato sulla terra sarà sempre “troppo umano!”; per condurci verso l’infinito, verso la comprensione del ‘tutto’, serve una guida ‘oltre l’uomo’. Oltre. Oltre ogni bassezza umana, ma anche oltre ogni consueta altezza umana; al di là di ogni cosa, di ogni aspetto della vita, di ogni concetto, di ogni risultato… l’oltreuomo è il persistere nella tensione al superamento. L’uomo stesso è un qualcosa che deve essere superato. “I più preoccupati si chiedono oggi: <come può sopravvivere l’uomo?>. Zarathustra invece chiede, primo ed unico: < come può essere superato l’uomo?>”162. Non è questo più di ogni altro un invito alla ricerca, alla domanda, ad un’esperienza di vita nella ‘tensione amorosa ed eroica’ verso l’oltre? Da sempre, poeti, artisti, religiosi e filosofi hanno guardato alla condizione umana come affannata alla ricerca di un significato, di risposte alle sue domande, da sempre l’uomo si è sentito straziato fra tensioni opposte: cielo e terra, anima e corpo, ragione e sentimento, bene e male, il divino ed eterno e il bestiale e mortale dentro di sé. Questa tensione distingue l’animale-uomo dal mero animale, che inconsapevole porta avanti i suoi giorni, soddisfa i suoi appetiti per mero istinto di sopravvivenza; ma quando l’uomo raggiunge la consapevolezza di questa distinzione dalla mera bestialità, raggiunge anche la consapevolezza di essere limitato di fronte all’illimitato, si rende conto di essere finito di fronte all’infinito, imperfetto innanzi alla perfezione e che le sue azioni sono sempre costrette in questa imperfezione. Agli uomini che sono giunti a questa prima consapevolezza, diventando già uomini superiori rispetto agli inconsapevoli, dice Zarathustra:

“E anche se qualcosa di grande vi è riuscito male, siete voi per questo – malriusciti? E se voi siete malriusciti, è riuscito male per questo – l’uomo? Ma se l’uomo è malriuscito: ebbene! Coraggio!

Una cosa riesce tanto più raramente quanto più alta ne è la specie. Voi, uomini superiori, non siete tutti – malriusciti?

un inutile confusione anch’io adotterò per lo più ‘superuomo’ nello svolgimento del capitolo, mentre in alcuni punti e soprattutto nel titolo rimane ‘Oltreuomo’ per la preferenza di cui sopra. 161 F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 103. 162 Ivi, 334.

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Fatevi animo, che importa! Quante cose sono ancora possibili! Imparate a ridere di voi stessi come si deve! E che c’è da meravigliarsi se voi siete malriusciti e mezzo-riusciti, voi mezzo-infranti! Non urge, non spinge in voi il futuro dell’uomo? Ciò che per l’uomo è più lontano, profondo, eccelso come le stelle, la sua forza immensa: non spumeggia tutto questo in contraddizione nella vostra pentola?”163.

Dunque l’uomo superiore di fronte alla contraddizione, alla consapevolezza del proprio limite, non si deve scoraggiare, ma anzi farsi coraggio e pensare alla possibilità, (quante cose sono ancora possibili), di riuscita della specie. In altre parole, la perfezione e il superamento del limite sono visti come una possibilità per la specie umana, con questo obiettivo, il singolo deve condurre la sua ricerca, la sua lotta eroica nelle contraddizioni. E nelle contraddizioni risiede la massima forza dell’amore: “Zarathustra non ha trovato una potenza maggiore delle opere degli amanti: ‘bene’ e ‘male’ è il loro nome”164.“<L’uomo deve diventare migliore e peggiore> - così insegno io”165.

L’uomo superiore, mezzo infranto è spinto alla sua azione individuale dalla possibilità dell’universale, dall’amore per la totalità della specie cui appartiene: non urge, non spinge il futuro dell’uomo? L’uomo superiore non si deve arrestare nella sua ricerca della verità qualora si renda conto di non riuscire a raggiungerne l’oggetto: il superuomo, perché la sua ricerca della verità si realizza nel tentativo di divenire Oltreuomo. Il primo obiettivo della ricerca è il tentativo stesso e il primo passo sulla strada per divenire Oltreuomo è proprio la continua ricerca dell’ ‘oltre’; l’amore per l’ ‘oltre’ è un’amore che non vuole essere ricambiato.

“Ogni grande amore non vuole amore: - vuole di più!”166.

L’amore ha un ruolo chiave nella tensione al superamento, nella ricerca della verità, non è un tema evidente e preponderante in Zarathustra come negli ‘Eroici furori’ del Bruno, ma egualmente vi gioca una partita essenziale, e trova una delle sue principali rappresentazioni nel ruolo dell’amore dell’amico, contrapposto all’amore del prossimo. “Io non vi insegno il prossimo, bensì l’amico. L’amico sia per voi la festa della terra e un presentimento del superuomo”. 167

Il cristiano ‘amore del prossimo’ non è altro il cattivo amore per se stessi168 , mentre l’amore

163 Ivi, 340-341. 164 Ivi, 66. 165 Ivi, 335. 166 Ivi, 341. 167 Ivi, 68. 168 “Voi vi affollate attorno al prossimo e avete belle parole per questo vostro affollarvi. Ma io vi dico: il vostro amore del prossimo è il vostro cattivo amore per voi stessi”. Ivi, 67.

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per l’amico è l’amore per uno ‘specchio’ nel quale si trova un mondo compiuto169. Nell’amico puoi specchiarti inserito nel mondo, nell’amico ami te stesso nel mondo, nel prossimo ami l’altro. Nell’amico ami il remoto: cercando di vedere in lui il superuomo, questo diventa il modello che causa te stesso, l’amico diventa un ponte sulla strada verso il superuomo. “Il futuro e ciò che sta in remota lontananza sia la causa del tuo oggi: nel tuo amico devi amare il superuomo come causa di te. Amici, non l’amore del prossimo vi consiglio: io vi consiglio l’amore del remoto”170. Un amore per uno ‘specchio’ era l’amore per Diana specchio di Apollo, per l’eroe di Bruno, in cui l’eroe giungeva ad amare se stesso nel protendersi al divino; così nell’ ‘amico’ Zarathustra ci insegna ad amare il remoto, il riflesso del Superuomo, perché questo significa giungere ad amare se stessi protendendosi al superamento.

“L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, - un cavo al di sopra di un abisso. Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi. La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto. Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono una transizione. Io amo gli uomini del grande disprezzo, perché essi sono anche gli uomini della grande venerazione e frecce che anelano all’altra riva. Io amo coloro che non aspettano di trovare una ragione dietro le stelle per tramontare e offrirsi in sacrificio: bensì si sacrificano alla terra, perché un giorno la terra sia del superuomo. Io amo colui che vive per la conoscenza e vuole conoscere, affinché un giorno viva il superuomo. E così egli vuole il proprio tramonto. (...) Io amo colui che della sua virtù fa un’inclinazione e un destino funesto: così egli vuole vivere, e insieme non più vivere per amore della sua virtù. (...) Io amo colui del quale l’anima si dissipa (...) Io amo colui che giustifica gli uomini dell’avvenire e redime quelli del passato: a causa degli uomini del presente egli infatti vuole perire. (...) Io amo colui che castiga il suo dio perché ama il suo dio: giacché egli dovrà perire per l’ira del suo dio.(...) Io amo colui del quale l’anima trabocca da fargli dimenticare se stesso, e tutte le cose sono dentro di lui: tutte le cose divengono così il suo tramonto”171.

169 “Io vi insegno l’amico nel quale il mondo si trova compiuto, una coppa del bene – l’amico che crea ha sempre da donare un mondo compiuto. E come il mondo ruotando si è dispiegato per lui, così pure ruotando tornerà ad avvolgersi in anelli per lui, in quanto divenire del bene mediante il male, divenire degli scopi della casualità”. Ivi, 68. 170Ibidem. 171 Ivi, 8-9.

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Questa lunga citazione tratta dal prologo di Zarathustra oltre a elencare una serie di caratteristiche proprie dell’uomo che ricerca e che ambisce al superamento, ha lo scopo di ribadire la centralità dell’amore per la condizione del superuomo, colui che ama infatti è Zarathustra stesso. Ciò che ama è l’uomo teso al superuomo, che altro non è che l’uomo nella sua dimensione autentica, appunto quella di cavo teso tra bestia e superuomo, dall’essere un ponte, da qui nasce la sua grandezza, il suo eroismo. Ama coloro che non hanno bisogno di vedere l’invisibile per anelare al superamento, non chi aspetta passivamente di vedere dietro alle stelle, ma chi agisce sulla terra, chi guarda sulla terra e sulla terra consuma il suo amore si sacrifica in virtù di un superamento che in sé non sarà ancora perfettamente compiuto ma di certo rappresenta un passo avanti sulla strada del superuomo per la specie. Egli infatti guarda al futuro, con attenzione agli errori del passato e con lo sdegno della situazione presente. Colui che vive per il superuomo è colui che vive per la conoscenza. Colui che vive per la conoscenza è colui che ama nei contrasti , colui che diviene consapevole e si riconosce parte del tutto e della vicissitudine, e per questo vuole sì vivere, ma anche ricongiungersi al tutto e alla vicissitudine, dissipare la sua anima, dimentico di se stesso, perché tutte le cose sono comprese in lui e lui in queste tramonta. Come Atteone, la sua fine è essere sbranato dall’oggetto della sua caccia che potremo chiamare dio, perché dio è la risposta: tutte le cose divengono il suo tramonto; e la caccia è desiderio e castigo insieme di quel dio che infine lo costringe a perire.

L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, - un cavo al di sopra di un abisso. Nietzsche ha visto in questa tensione di opposti “la condizione ontologica” dell’uomo. La condizione umana è di essere ‘tesi’ tra due poli, uno verso il basso e uno verso l’alto, la ricerca è il movimento che solleva. Il cavo a cui ‘aggrapparsi’ è l’uomo stesso, lo sguardo rivolto a se stesso, l’amore per se stesso, che passa attraverso l’amore riflesso nell’altro. Senza aggrapparsi a questo cavo si cade nell’abisso della pigrizia, in un’oziosa e inconsapevole vita da animale, nel gregge della moltitudine. Il messaggio di Zarathustra è un’esortazione all’impegno attivo e critico dell’individuo, egli non cerca ‘fedeli’, non vuole essere ‘pastore’ di un gregge, di una moltitudine, all’opposto vuole sì parlare a molti, ai più possibile, ma parlando ad ognuno e ‘scuotendo’ i singoli affinché essi stessi a loro volta diventino ‘creatori’, consapevoli di sé. Sulla via della prassi e lontano da ozio, passività e abissi di vaneggiamenti si deve spingere l’uomo, lontano dal gregge ‘fedele’ e dal pastore ‘asino’: “A portar via molti dal gregge – per questo io sono venuto. Pieni di collera verso di me, hanno da essere il popolo e il gregge: predone vuol essere chiamato dai pastori Zarathustra”172. Perché Zarathustra sottrae anime e menti, uomini risvegliati al giogo di questi pastori che credo potremmo chiamare ‘preti’, ‘grammatici’, ‘dotti, pedanti ed asini’.

“Io dico pastori, ma loro si chiamano i buoni e i giusti. Pastori io dico: ma seguaci dell’ortodossia si chiamano loro.

172 Ivi, 17.

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Guardali questi buoni e giusti! Chi odiano essi massimamente? Colui che spezza le loro tavole dei valori, il distruttore, il delinquente: - questi però è il creatore. Guardali i credenti di tutte le fedi! Chi odiano essi massimamente? Colui che spezza le loro tavole dei valori, il distruttore, il delinquente: ma questi è il creatore. Compagni per il suo viaggio cerca il creatore e non cadaveri, e neppure greggi e fedeli. Compagni nella creazione, che scrivano nuovi valori, su tavole nuove”173.

Questa precisazione mi pare fondamentale perché ci fa capire che Zarathustra-Nietzsche non vuole essere un imbonitore della folla, al contrario contro questi si muove. In queste poche frasi si capisce anche di che genere siano i rapporti interpersonali tra uomini autentici: questi cercano la compagnia di chi sta facendo il loro stesso viaggio, e lungo il viaggio sussiste la cooperazione, là dove ognuno crea e si rinnova è ‘specchio’, come accennato per l’ ‘amico’, per la creazione e il rinnovamento dell’altro. Dice Zarathustra: “Compagni vivi mi occorrono, i quali mi seguano, perché vogliono seguire se stessi – là dove io voglio”174. Compagni di viaggio che seguono se stessi, che sono sui miei passi perché stanno cercando se stessi, non perché seguano un pastore; così io proseguo sulla strada che io voglio, della mia ricerca. È comunque un cammino solitario quello del ‘creatore’, anche quando muove in mezzo ad altri, ma in questo è doppiamente pericoloso:

“E guardati dai buoni e giusti! Essi crocifiggono volentieri coloro che inventano le proprie virtù – essi odiano il solitario. Guardati anche dalla santa semplicità! Per essa non è santo tutto quanto non è semplice; essa scherza volentieri col fuoco – dei roghi175. E guardati dagli accessi del tuo amore! Troppo precipitoso è il solitario nel tendere la mano a colui che incontra. (...) Tu devi voler bruciare te stesso nella tua stessa fiamma: come potresti voler rinnovarti, senza prima essere diventato cenere!”176.

La compagnia dunque è da auspicare solo quando faciliti la crescita individuale tramite ‘rispecchiamento’, così accade tra viaggiatori, così deve essere il rapporto con l’amico. Ma Nietzsche, o meglio Zarathustra, parla anche del rapporto con la donna, e in questo ci pare nuovamente vicino al Nolano177; nella donna è ravvisato infatti il rischio di ‘inebetirsi’, di sviluppare con lei solo l’amore bestiale e non una crescita verso l’ ‘oltre’; tuttavia non è escluso un rapporto proficuo là dove, e questo pare essere molto raro, 173 Ibidem. 174 Ivi, 17. 175 Qui il riferimento alla Chiesa, a parere di chi scrive è assolutamente evidente, per di più l’avvertimento che procedendo contro di essa si rischia il rogo, in un lavoro che costruisce un confronto con Giordano Bruno, non po’ non suggestionare, a questo inoltre si aggiunge l’esortazione a diventare cenere per rinnovarsi… 176 Ivi, 71. 177 La vicinanza che io ravviso fra il Nolano e Nietzsche circa la visione della donna come possibile ‘tramite’ di crescita, ma nel contempo rischio di crollo, è parallela ad una considerazione circa la funzione del corpo nella conoscenza, secondo entrambi i filosofi non si può prescindere dalle esigenze del corpo, il quale è quindi impegnato nel processo di conoscenza, e tuttavia su di esso l’eroe o ‘il creatore’ non può indugiare. Su questo confronto mirato sarebbe interessante sviluppare un approfondimento che qui non trova spazio, qualcosa si è comunque accennato nell’articolarsi del primo capitolo.

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entrambi siano consapevoli dei propri limiti e delle proprie ambizioni più nobili. Il matrimonio, e una conseguente procreazione, devono essere augurati solo quando siano il giusto gradino in una scala che si va costruendo verso l’alto. In altre parole solo l’uomo teso al superuomo e sufficientemente consapevole, può considerare una unione con una donna, compagna di viaggio, in grado di camminare lungo la stessa strada.

“Al di sopra di te devi costruire. Ma ancor prima tu stesso devi essere costruito tetragono nel corpo e nell’anima. Non soltanto devi procrearti, ma creare più in alto di te! A ciò ti aiuti il giardino del matrimonio! Un corpo più nobile devi creare, un moto primo, una ruota da se stessa ruotante – tu devi creare un creatore. Matrimonio: così io chiamo la volontà di creare in due quell’uno che è qualcosa di più dei due che lo crearono. Io chiamo matrimonio il venerante rispetto reciproco di coloro che hanno una tale volontà. Questo sia il senso e la verità del tuo matrimonio”178.

Questo è intendere l’unione con la donna come un passo sulla strada della Verità, questo è l’Amore nobile, l’Eros che risveglia nell’uomo l’eroe. Il rischio che questa unione si converta nell’affossamento dell’eroe è però alto:

“Questi partì come un eroe in cerca di verità, e alla fine la sua preda fu una piccola menzogna in ghingheri. La chiama il suo matrimonio. Quegli era schivo nei rapporti con gli altri e schifiltoso nelle sue scelte. Ma in un sol momento si guastò la compagnia per sempre: la chiama il suo matrimonio”179.

Guidare il proprio amore sul giusto cammino, di nuovo questo sembra essere l’imperativo per il raggiungimento del superuomo. Imparare ad amare! Un anelito all’elevazione, felicità e tormento: tensione al momento estatico di contemplazione di ciò che è oltre-l’uomo.

“Ma anche l’amore vostro più nobile non è altro che un simbolo estatico, un doloroso ardore. È una fiaccola che deve illuminarvi verso sentieri più alti. Al di sopra di voi stessi dovrete amare, un giorno! Perciò imparate prima di tutto ad amare! E per questo foste costretti a bere il calice amaro del vostro amore. Amarezza è nel calice anche dell’amore più nobile: tale è l’anelito che esso ridesta verso il superuomo, questa è la sete che esso mette a te che sei il creatore! La sete del creatore, la freccia anelante verso il superuomo: dimmi, fratello, è questa la tua volontà di matrimonio? Santi sono per me una tal volontà e un tal matrimonio”. 180

Questo cammino dell’amore pone il superuomo non solo come meta, di più, lo rende il senso dell’esperienza esistenziale: “Io voglio insegnare agli uomini il senso del loro essere: che è il superuomo e il fulmine che viene dalla nube oscura uomo”181. 178 F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 77. 179 Ivi, 78. 180 Ivi, 78-9. 181 Ivi, 14.

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Una straordinaria esperienza esistenziale, aggrappandosi con disperato amore alla sua propria umanità, l’individuo, conosce se stesso, si interroga, si sforza di tendere alla meta: al superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo? “Che cos’è per l’uomo la scimmia? Un ghigno o una vergogna dolorosa. E questo appunto ha da essere l’uomo per il superuomo: un ghigno o una dolorosa vergogna”182. Giunti a questo punto, considerando le esortazioni di Zarathustra, si potrebbe cadere, in particolare dopo queste ultime parole, in una interpretazione di prospettiva darwinista; questo sarebbe un errore imperdonabile, che pure in passato si è largamente diffuso. Nietzsche stesso definisce coloro che in questo modo lo giudicano dei “dotti bestioni”183; infatti, il superuomo è l’aspirazione del singolo a superare i dualismi tra ‘interiore ed esteriore’, tra ‘pensiero e azione’, tra ideale e realtà184; il superamento è un’aspirazione possibile per ogni individualità, è uno stimolo per seguire una condotta di vita, da soli o con altre individualità animate dallo stesso desiderio, dalla stessa volontà, ‘dallo stesso furore’: è il fine e il mezzo per l’educazione di se stessi e conseguentemente per la formazione di una civiltà migliore; non per un cambiamento biologico della razza uomo. Altrove Nietzsche è più esplicito nel negare la prospettiva darwinista e nel ribadire il messaggio etico-politico:

“Il problema che io pongo qui non riguarda il posto che l’umanità deve prendere nella serie successiva degli esseri (l’uomo è una fine [ende]), bensì quale tipo umano deve essere allevato, deve essere voluto, in quanto tipo di superiore valore, più degno di vivere, più certo dell’avvenire”185.

È uno strumento per educare, il superuomo, non il prossimo gradino dell’evoluzione della specie, come vorrebbero i darwinisti. Guardando al superuomo ci possiamo scrollare di dosso valori e insegnamenti falsi e opprimenti e riappropriarci di una formazione orgogliosa. In opposizione all’ ‘uomo moderno’, al gregge, all’uomo ‘buono, giusto e ortodosso’ alla maniera dei cristiani e dei nichilisti. Tenendo sempre bene a mente che del superuomo non si deve fare un idolo da venerare, Zarathustra non vuole fedeli, e che noi non dobbiamo diventare pecore di un gregge, il superuomo deve essere un obiettivo rinnovato sempre innanzi al sé che indaga. All’interno di una dimensione pienamente umana, porsi sulle orme del superuomo è già essere oltre-l’uomo, nella sublimazione della propria natura. L’uomo consapevole onora il suo io, la sua intima natura, nel furore della ricerca. “L’<umano, superumano> si riferisce dunque al nostro vero io e il <superuomo> è quello che ha trasfigurato la sua physis e acquisito autocontrollo”186; e, nel contempo, “egli rappresenta il modo d’essere a cui tutti aspiriamo; egli possiede l’unico valore finale che esista”187. 182 Ivi, 6. 183 F. Nietzsche, Ecce Homo, op. cit, 57. 184 Cfr. , W.Kaufmann, Nietzsche: filosofo, psicologo, anticristo, cit., 331. 185 F. Nietzsche, L’Anticristo, versione di F. Masini, nota introduttiva di G. Colli, edizione Adelphi, 2003, 168. 186 W.Kaufmann, Nietzsche: filosofo, psicologo, anticristo, cit., 332. 187 Ivi, 334.

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Lo Uebermensch, l’Oltreuomo, il Superuomo “ha superato la sua propria natura animale, organizzato il caos delle sue passioni, sublimato i suoi impulsi e dato uno stile al suo carattere, o come dice Nietzsche di Goethe: <egli ha disciplinato se stesso fino a raggiungere la completezza, egli ha creato se stesso> ed è diventato <l’uomo della tolleranza, non per debolezza ma per la sua forza>”188. Nietzsche quattro anni dopo la pubblicazione dell’ultima parte di Zarathustra scriverà in una sua opera:

“L’uomo che ha organizzato il caos delle sue passioni ed integrato ogni aspetto del suo carattere , redimendo anche ciò che è brutto e dandogli un significato in una totalità bella, questo Uebermensch si renderebbe anche conto di quanto inestricabilmente il suo essere è implicato nella totalità del cosmo e nell’affermare il suo essere, egli affermerebbe anche tutto ciò che è, è stato o sarà”189.

In queste parole vediamo ribadita la necessità di guidare l’amore: organizzare le passioni, inoltre ci viene detto che l’aumentare della conoscenza non può che essere un comprendersi nella totalità e comprendersi nella totalità è dare un significato ai contrasti, al bello e al brutto, abbracciare tutte le cose; diremmo con Bruno, essere consapevoli di fare parte del Tutto. Ma rendersi conto di quanto inestricabilmente si è implicati nella totalità del cosmo è anche inscriversi nel tempo di questo, eterno e circolare, e questa dimensione temporale è la necessaria dimensione affettiva ed etica dell’Uebermensch, del superuomo; “(...) l’unica via attraverso cui si può operare quel <salto> che deve condurre all’oltreuomo è una trasformazione del modo di vivere il tempo”190. Nell’affermare il suo essere egli affermerebbe anche tutto ciò che è, è stato o sarà. Infatti proprio in ‘Così parlò Zarathustra’ Nietzsche articola il suo discorso circa l’ ‘eterno ritorno’191 e qui si coglie il nesso tra l’idea del ritorno dell’uguale e il superuomo: vivere l’attimo immenso, amare se stesso e la vita per glorificare l’attimo e consegnarlo all’eterno, rendere eterno il momento. Dice Gianni Vattimo che come ipotesi etica significa che “se si pensasse alla possibilità che ogni attimo della nostra vita diventi eterno e si ripeta all’infinito, avremmo un esigentissimo criterio di valutazione: solo un essere perfettamente felice potrebbe volere una tale ripetizione eterna”192. In un momento iniziale di riflessione sul tempo, l’uomo odia il divenire, la sua volontà si ribella al peso del passato e teme il futuro, soffrendo tremendamente per la fuggevolezza del presente, e il rischio è che essa si rifugi nella speranza di un tempo ‘oltremondano’.

“ Che il tempo non possa camminare a ritroso, questo è il suo rovello; ‘ciò che fu’ – così si chiama il macigno che la volontà non può smuovere. (...) Così la volontà, invece di liberare, infligge sofferenza: e oggetto della sua vendetta, per non poter volere a ritroso è tutto quanto sia capace di soffrire. Ma questo, soltanto questo è la vendetta stessa: l’avversione della volontà contro il tempo e il suo ‘così fu’. (...)

188 W.Kaufmann, Nietzsche: filosofo, psicologo, anticristo, cit., 336. 189 F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, nota introduttiva di M. Montinari, traduzione di F. Masini, edizione Adephi, 2002, 49. 190 G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, cit., 76. 191 Per quanto riguarda l’eterno ritorno dell’uguale ed anche una comparazione con la concezione del tempo in Bruno, mi permetto di rimandare al § 4 del primo capitolo , intitolato appunto: “Sull’eterno ritorno e l’infinito”. 192 G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, cit., 85.

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Lo spirito di vendetta: amici, su nient’altro finora gli uomini hanno meglio riflettuto; e dov’era sofferenza, sempre doveva essere una punizione. (...) E poiché in colui che vuole è la sofferenza di non poter volere a ritroso, - così il volere stesso e la vita in tutto e per tutto dovrebbero essere – punizione! Ed ecco che sullo spirito si accumulò nube su nube: e alla fine la demenza si mise a predicare: <Tutto perisce, perciò tutto è degno di perire!>. (...) Ogni ‘così fu’ è un frammento, un enigma, una casualità orrida – fin quando la volontà che crea non dica anche: <ma così volli che fosse!> - Finchè la volontà che crea non dica anche: <ma io così voglio! Così vorrò!> (...) Bisogna che la volontà – in quanto volontà di potenza – voglia qualcosa al di sopra di ogni conciliazione (...)”193.

L’uomo che vive nel convenzionale tempo lineare è ossessionato e schiacciato dal macigno del ‘così fu’, e si vendica infliggendo a sé e agli altri le crudeltà della morale dei ‘buoni e giusti ed ortodossi’, della religione, dell’ascesi e si lamenta: <tutto perisce, perciò tutto è degno di perire!>; la vita per costui diventa casualità orrida, un significato non è dato se non oltre il tempo e oltre la terra. Invece l’insegnamento di Zarathustra, del superuomo, è di restare fedeli alla terra e fedeli al tempo della vita, la vita è casualità orrida solo finchè la volontà di affermare il proprio essere non dica: così volli, così voglio, così vorrò! L’uomo con la volontà, la volontà di potenza, si inscrive consapevolmente nella catena di cause della vicissitudine, nel tempo circolare dell’eterno ritorno, in cui si comprende eterno protagonista attivo: eterno, nelle cause infinite che hanno portato a lui e negli effetti infiniti di cui lui sarà causa. È una presa di posizione attiva istante dopo istante innanzi all’ ‘essere nel mondo’. “(...) Nietzsche non vuole semplicemente l’accettazione rassegnata delle cose come sono; vuole un mondo in cui sia possibile volere il ritorno eterno dell’uguale”194. Tuttavia il rapporto tra la decisione e l’eterno ritorno non è troppo semplice da conciliare perché non si può ridurre eterno ritorno e circolarità del tempo a conseguenza della comprensione e alla accettazione dei medesimi da parte del soggetto mediante volontà, far risultare una concezione ‘fisica e cosmologica’ come conseguenza della decisione di un singolo è evidentemente un controsenso; neppure del resto la circolarità del tempo e l’eterno ritorno dell’uguale come dottrina traggono il loro valore dall’essere una vera e propria ‘teoria scientifica – cosmologica ’ affermata e comprovata, come abbiamo precedentemente chiarito195. Resta quindi un’unica certezza: circolarità del tempo ed eterno ritorno che siano possibilità, probabilità o convinzione del soggetto sono comunque la dimensione temporale del superuomo che, libero dal senso di condanna della temporalità lineare giudaico-cristiana, può slanciarsi, mi permetto di dire ‘con eroico furore’ a glorificare la sua vita terrena: non più orrida casualità, ma creazione della volontà. La volontà, spinta dall’amore, diventa il fulcro dell’autentica esperienza esistenziale, dell’autentica felicità umana, l’uomo che vuole ed è consapevole della sua volontà è l’uomo forte:

193 F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 163-64. 194 G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, cit., 93. 195 Il riferimento è qui nuovamente al §4 del primo capitolo, dove si affermava che una dimostrazione matematica dell’eterno ritorno è stata tentata da diversi studiosi, incluso Nietzsche stesso, e tuttavia non si è mai pervenuti ad alcun risultato valido scientificamente.

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“Qual è la cosa più gravosa da portare, eroi? Così chiede lo spirito paziente, affinché io la prenda su di me e possa rallegrarmi della mia robustezza”196. Gli inconsapevoli sono gli uomini deboli, i deboli sono quella moltitudine che contrasta il corpo, la vita, l’Amore eroico, i deboli si difendono dai forti facendosi pastori o seguendo il gregge e costruendo così religioni e stati intrisi di pregiudizi morali e menzogne. “L’uomo è l’animale che ha inventato la <cattiva coscienza> e altre tecniche per tormentarsi”197. “Il piacere di essere gregge è più antico del piacere di essere io: e finchè la buona coscienza si chiama gregge, solo la cattiva coscienza dice: io”198. Al di là di cosa venga nominato di volta in volta ‘buono’ o ‘cattivo’ di certo è che l’uomo è un cavo teso fra questi estremi, il ‘gregge’, che è la scelta più facile e più antico piacere, in quanto scelta di non-autodeterminazione, in quanto non-scelta, rappresenta certo il polo ‘animale’, mentre all’opposto un piacere più celato e più ostico è quello dell’io che si autodetermina. Dell’io che ama, ragiona ma si infuria, vuole, insegue e non si arrende, da solo, consapevole e sempre più consapevole del limite e dell’oltre.

“Davvero un fiume immondo è l’uomo. Bisogna essere un mare per accogliere un fiume immondo, senza diventare impuri. Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è il mare nel quale si può inabissare il vostro grande disprezzo”199.

E il naufragar mi è dolce in questo mare! Bisogna sentire il mare dentro di sé per anelare alla foce del fiume, quel fiume immondo in cui siamo tutti immersi. Oltre il limite ci si perde e si naufraga nell’assoluto, ma inabissarsi è la meta e massimo desiderio.

“Qual è la massima esperienza che possiate vivere? (...) L’ora in cui diciate: <Che importa la mia virtù! Finora non mi ha mai reso furioso. Come sono stanco del mio bene e del mio male! Tutto ciò è indigenza e feccia e benessere miserabile!>”200.

“Zarathustra è <un indovino? Un sognatore? Un ubriaco? Un interprete di sogni? Una campana di mezzanotte?>. Lo chiede agli uomini superiori, ma che ne sanno di lui? È una <goccia di rugiada?>. Non sanno che è appena morto. <Non lo udite?>, chiede Zarathustra, (...): <Non lo odorate, non lo vedete?>. No, nessuno sente, né intuisce, né vede, cosa significhi questo canto di morte. <Non lo sentite?> chiede Zarathustra. <Proprio ora, il mio mondo divenne perfetto, mezzanotte è anche mezzogiorno, - dolore è anche un piacere… la notte è anche un sole – andate via o vi toccherà imparare che un saggio è anche un folle>. La felicità e il dolore di mezzanotte hanno fatto impazzire Zarathustra. <Avete mai detto di sì a un piacere?>, così parla agli uomini superiori, 196 F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 23. 197 G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, cit., 11 198 F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 65. 199 Ivi, 6-7. 200 Ivi, 7.

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<allora dite sì anche a tutta la sofferenza>. L’avranno capito? La campana rintocca: <Perché ogni piacere vuole – eternità!>. Che piacere ha in mente Zarathustra? Il piacere-dolore che vuole <l’eternità di tutte le cose>: esso <vuole miele, vuole feccia, vuole mezzanotte ebbra, vuole avelli, vuole il conforto delle lacrime sui sepolcri>. Vuole se stesso, perché <è più assetato, più tenero, più affamato, più pauroso, più misterioso di ogni sofferenza, vuole se stesso> (...)”201. Il messaggio di Zarathustra non sempre si lascia vedere chiaramente, innanzitutto perché non è un ‘sistema’ né un comandamento per i fedeli, ma un cammino dell’individuo, inoltre perché la meta stessa di questo cammino non è dato descriverla, essendo oltre il limite, essendo proprio quell’assoluto in cui ci si inabissa. Tuttavia resta la forza dell’esortazione alla massima esperienza di vita e un ammonimento a scuotersi di dosso la morale convenzionale, ‘il bene e il male’ come norme dettate e indiscusse, gabbie per il furore. Zarathustra ha in mente il piacere-dolore proprio dell’eroe, dell’uomo consapevole, che vuole l’eternità, volere l’eternità è il volere di se stesso qui e nell’istante. Quanto più aumenta la consapevolezza di quale sia la dimensione dell’esistenza umana, della sua finitezza e dell’infinità del tutto, tanto più aumenta il dolore e la rabbia e con essi il desiderio di dissolversi nel tutto. Ma tanto più aumenta anche il piacere e l’amore per il momento in cui possiamo essere protagonisti nel tutto e l’amore per tutte le cose in cui ci sentiamo compresi e destinati a dissolverci. Mi pare di poter dire che non è un messaggio di luce che rischiara la parola di Zarathustra, ma un accecamento che illumina. Come i nove furiosi sono resi ciechi da Circe, dice Zarathustra:

“Io non voglio essere né significare luce per questi uomini di oggi. Costoro – io li voglio abbagliare: fulmine della mia saggezza! cava loro gli occhi!”.

“Ma, in nome del mio amore e della mia speranza, ti scongiuro: non buttar via l’eroe che è nella tua anima!

Mantieni sacra la tua speranza più elevata!”202.

201 Joachim Kohler, Nietzsche. Il segreto di Zarathustra, a cura di Fabio Minazzi, edizione Rusconi, 1994, 569. 202 F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 44-5.

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CONCLUSIONE.

Ultime considerazioni.

“ Un animale ingannevole, sempre e a ogni modo è l’uomo. Ma pure, parla: può darsi che tu riveli qualcosa di buono che è in noi,

o una possibilità troppo grande per la mia mente ignorante. Dì a tutti quello che pensi, in pubblico:

perché di tutti sarà il beneficio che credi di poter procurarci”. (Aristofane, Gli Uccelli)

1. La conoscenza: un cammino individuale Bruno e Nietzsche si sono presentati a noi come Mercurii, come ‘angeli della luce’203, portatori di un messaggio rivolto a tutti, ma intesi come individui e non come folla o massa. Entrambi credono che forse nessuno potrà non fraintendere almeno in parte le loro parole, ma questo ha un’importanza relativa, perché la fortuna che entrambi augurano alle loro opere è di spingere gli individui a iniziare un cammino, un cammino di crescita ispirato alla massima onestà intellettuale, un cammino che inizia là dove il singolo comincia a credere fermamente nelle infinite possibilità dell’autodeterminazione. Credere in questa possibilità di autodeterminazione, oltre le contraddizioni, è un’esperienza di vita eccezionale, una morte e una rinascita, oltre ai testi anche le biografie di Bruno e Nietzsche ci parlano di questo. Mi pare di poter dire che sia Bruno sia Nietzsche, e in particolare sia gli ‘Eroici furori’ sia ‘Zarathustra’, corrono costantemente sui binari paralleli di individuo e società, nel senso che il loro obiettivo è insieme risvegliare la coscienza dell’individuo e scuotere una società che pare essere intorpidita, per non dire malata. Entrambi infatti denunciano le piaghe della contemporaneità, false religioni, false pretese, cattivi costumi, e nel contempo mettono in guardia dagli errori in cui può incappare colui che vuole cambiare lo stato di cose e cioè l’eroe furioso o il creatore. L’eroe furioso o il creatore sono animati, o devono essere animati, dall’amore, come desiderio naturale e volontà di potenza in primis, convertire questo in ricerca di conoscenza in un secondo momento e per mezzo di questa ricerca, infine, crescere sempre di più nella consapevolezza La conoscenza, come loro ce la consegnano, è appannaggio proprio dell’individuo, perché non è mero nozionismo, ma comprensione che nel suo grado più riflessivo si traduce in consapevolezza. Dire che solo l’individuo comprende autenticamente non vuol dire ovviamente precludere al resto del mondo la comprensione, ma vuol dire che necessariamente solo l’io può dire: <ho capito!>.

203 L’espressione è adoperata da Michele Ciliberto in relazione a Giordano Bruno in diverse opere, si veda ad esempio il saggio introduttivo a G. Bruno, Dialoghi filosofici italiani,(op. cit.) oppure l’introduzione a G. Bruno, Eroici furori (op. cit.).

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Questo perché l’illuminazione è esperienza dell’io ed è incomunicabile o per lo meno difficile da esprimere all’altro, come il fulmine di Zarathustra o la Diana nuda di Atteone. In questo senso non accettare il passato né il presente come un punti di arrivo di alcunché è conseguenza necessaria: Platone o Hegel sono individui con il loro proprio bagaglio di comprensione, per me non sono punti di arrivo di nulla, bensì possono diventare oggetto a loro volta della mia ricerca prima e della mia comprensione poi, ed allora ‘illuminato’ dirò: <ho capito!>. Le loro parole, ma soprattutto la mia comprensione di quelle parole saranno la verità che mi eleva e il mio nuovo punto di partenza; questo a me hanno insegnato Bruno e Nietzsche.

2. Un senso all’esistenza Vedere ogni limite, ma soprattutto il limite rispetto all’infinito, come l’obiettivo da superare, che sia per essere ‘eroi furiosi’ o ‘oltreuomini’, dà un senso all’esistenza, e dà un senso all’esistenza qui sulla terra, senza proroga nell’oltremondano. Così come un senso all’esistenza è dato dal credere nello sviluppo della specie; sulla base di questa fiducia noi agiamo attivamente con le nostre opere, da quelle materiali quotidiane, ai rapporti umani che istituiamo, fino al generare un figlio.

3. Un messaggio politico: tra individuo e società Se facciamo nostro questo significato dell’esistere siamo necessariamente portati ad impegnarci fortemente in una prassi politica, ma l’impegno non è inserito nella logica della società, di nuovo è un impegno tutto dell’individuo: è il riflesso la speranza per la società, e uno specchio sono per l’individuo i migliori esempi che ha. La conoscenza, la consapevolezza desiderata per sé stesso è l’autentica crescita suggerita, non la conoscenza perché è richiesta da altri. Se la nostra formazione fosse mirata a soddisfare la richiesta di altri, sarebbe mistificata, sarebbe il sapere di quei savi e sapienti che non sono consapevoli: non sono eroi né tendono all’oltreuomo. Ispirarsi ad un modello di vita che ricerca in sé stesso è difendersi dai modelli di vita imposti o comunque è un rendersi consapevoli di quanto di imposto vi è nella nostra condotta di vita; non solo, ma ispirarsi ad un modello di vita che ricerca in sé stesso è anche la via più efficace per innovare l’ ‘altro’, per riformare autenticamente la società.

4. Il messaggio nella società di oggi Questo insegnamento che io ho ricavato dal confronto fra l’’eroe furioso’ e lo ‘Zarathustra’ lo sento tanto più prezioso quanto più attentamente guardo alla società in cui vivo; è questa infatti una società dove fortunatamente non manca il pluralismo, voci di ogni genere su ogni argomento giungono da ogni parte, così a me sembra e in questo vedo un grande bene, ma una minaccia si nasconde: il ‘pecoresco’ conformarsi è tanto più mascherato quanto più numerosi sono i ‘pastori’. Nel senso che, essendoci costantemente proposta una grande varietà di ‘prodotti’, mi riferisco tanto alla cornucopia di beni nei supermercati quanto, ad esempio, alle ‘offerte’ politiche, siamo costantemente impegnati in scelte, sulle quali forse non abbiamo un sufficiente grado di consapevolezza; scegliamo tra due, tre o mille offerte ma non riflettiamo sul valore della scelta in sé, sulla necessità di quella scelta.

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L’illusione di autodeterminarsi, di far cooperare intelletto e volontà, è creata ad arte dalla pubblicità e dal messaggio mediatico in genere, carattere che domina e forse definisce la società contemporanea; il media quanto più è invadente tanto più agisce come un oppiaceo sulla coscienza dei nostri desideri. Furiosi e creatori sfuggono al gregge e riflettono sulla natura dei propri desideri, guidano la volontà.

5. Un monito alla società dei computer Dalla comparazione tra il messaggio di Bruno e di Nietzsche è emerso un comune messaggio di valorizzazione della dimensione umana, non un messaggio ‘umanista’, ma di amore per l’uomo nel suo ruolo tragico e nobile, questo messaggio può essere utile oggi percepirlo anche come un monito per l’espansione del ruolo delle macchine e della cibernetica, non un freno, ma appunto un monito. Un messaggio che ci può ricordare che l’uomo deve stare sempre sopra a ciò che produce, senza scadere in visioni di fantascienza, è un fatto che macchine e calcolatori sono sempre più diffusi e anche più ‘autonomi’, l’uomo consapevole e padrone di sé stesso deve essere anche padrone di ciò che crea.

6. Tempo circolare: nuovi valori Un’altra riflessione legata al mondo in cui vivo, nasce in me dall’aver analizzato la concezione del tempo di Bruno e Nietzsche, la caratteristica comune emersa è la rottura di una concezione lineare del tempo per prediligere una concezione del tempo circolare. Questo, lo si è visto, è fondamentale tanto per l’eroe quanto per l’oltreuomo e si può tradurre in un messaggio etico e politico. Una concezione del tempo lineare è un sentire il tempo come flusso di storia. Questa concezione oltre ad essere propria della tradizione giudaico – cristiana è anche propria della produzione economica e della ricerca tecnologica. Produzione economica e ricerca tecnologica sono ambedue tese al superamento materiale sulla base dell’ ‘acquisito’, tese al progresso come somma costante. Rompendo con questa concezione e riflettendo sull’attimo nell’eterno, sulla vicissitudine, e adottando quindi una concezione del tempo circolare e dunque ‘astorica’, viene meno la logica della progressione per accumulazione e si pone attenzione alla ‘personalità umana’, all’educazione dell’Uomo per la crescita etica e politica della società, in un circolo virtuoso; altrimenti i valori sono rovesciati, si lascia da parte la ‘personalità umana’, percepita come effimera e passiva nella ‘somma’ e a lavorare è la crescita economica e materiale della società, che rende arida, quando non schiava di questa logica, l’educazione morale e politica dell’Uomo, il ‘progresso’ rimane appannaggio di beni materiali e la coscienza schiava di questi.

7. In conclusione: una premessa Il lavoro svolto fin qui mi ha da ultimo suggerito alcune brevi riflessioni sul mondo contemporaneo di carattere etico e politico. Tuttavia poiché il presente lavoro nasce da una comparazione di interesse filologico e storiografico e su tale terreno poggia le basi di uno sviluppo che qui non ha trovato sufficiente spazio, voglio considerare ciò che ho scritto fino ad ora soltanto come una premessa, una presentazione di Bruno a Nietzsche, come quella avvenuta storicamente nelle lettere di Heinrich von Stein, e confido nel

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tempo che verrà per mettere a nudo tutta la trama che può essere tesa tra questi due autori. Mostrare in modo più forte le assonanze, facendole rilucere nel contrasto con le differenze. Certamente un’analisi più completa, che includa le differenze e che si muova con cura tra tutte le opere di questi due autori, potrà suggerire nuove riflessioni sia sul piano storiografico che su quello delle implicazioni etiche e politiche.

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