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Buongiorno Capra! - memorie di una vita improbabile - La gente da queste parti mi chiama Mamma Abigail. Ho 106 anni e continuo a fare il pane con le mie mani Mamma Abigail, ne L’Ombra dello Scorpione 1 Due anni di terrore A 10-11 anni avevo vissuto un paio di episodi, ciascuno più corto di un minuto, entrambi rimossi in fretta e poi tornati solo anni più tardi. Una volta mi sono alzato dalla sedia, ho preso il telecomando della TV che stava sopra la credenza e l’ho spostato sul tavolo. Un’altra volta mi sono alzato dalla stessa sedia, ho tolto dalla bocca l’apparecchio odontoiatrico e l’ho messo davanti alla faccia di mio padre che dormiva sul divano, come se volessi mostrarglielo. Non ero io a muovermi. Il mio corpo aveva fatto tutto da solo; io guardavo dall’interno e lasciavo che accadesse. Poi d’un tratto, tornato sulla sedia, tornavo in me e mi domandavo cosa fosse davvero successo. Mi impaurivo e poi dimenticavo. Qualcos’altro era scattato nel periodo di Leopardi, non il primo ’800, ma il mio’ periodo di Leopardi, quando la prof di italiano ci iniettava a forza le sue ansie nelle vene. La concezione del mondo secondo il poeta di Recanati era andata peggiorando negli anni. Prima aveva concepito il Pessimismo Individuale (sei triste perché sei sfigato, ma gli altri stanno meglio), poi il Pessimismo Storico (se ragioni non puoi essere felice, quindi spaccati di LSD e spera di bruciarti anche l’ultimo neurone), e infine il Pessimismo Cosmico (anche se perdi il cervello avrai comunque fame e sete e soffrirai per nutrirti. Quindi muori senza tante storie). Peccato che l’unico a non morire fosse proprio il Leopardi, con la sue poesie da tre facciate l’una che dovevamo imparare a memoria. Per carità, la mia memoria migliorò di netto con questo esercizio, ma l’avrebbe fatto anche memorizzando I Corti di Aldo, Giovanni e Giacomo... In più mi sarei risparmiato mesi di paranoie. Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. É il titolo di una sua poesia, e l’ultimo pensiero che precedette quell’istante. Ero seduto al solito banco, un lunedì di terza media. D’un tratto ebbi l’impressione di essere chiuso in una cella stretta e buia, con un piccolo spiraglio da cui osservavo il mondo. Era come se guardassi dalla visiera di un casco o dalla buca delle lettere. Muovevo braccia e gambe come avevo sempre fatto, le controllavo ma non erano "me". Erano qualcosa che muovevo a distanza e che guardavo da un monitor chiamato cervello, attraverso le riprese di una telecamera chiamata occhio. Io ero altrove, e proprio allora

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Buongiorno Capra!

- memorie di una vita improbabile -

La gente da queste parti mi chiama Mamma Abigail.

Ho 106 anni e continuo a fare il pane

con le mie mani

Mamma Abigail, ne L’Ombra dello Scorpione

1 Due anni di terrore

A 10-11 anni avevo vissuto un paio di episodi, ciascuno più corto

di un minuto, entrambi rimossi in fretta e poi tornati solo anni

più tardi. Una volta mi sono alzato dalla sedia, ho preso il

telecomando della TV che stava sopra la credenza e l’ho spostato

sul tavolo. Un’altra volta mi sono alzato dalla stessa sedia, ho

tolto dalla bocca l’apparecchio odontoiatrico e l’ho messo davanti

alla faccia di mio padre che dormiva sul divano, come se volessi

mostrarglielo. Non ero io a muovermi. Il mio corpo aveva fatto

tutto da solo; io guardavo dall’interno e lasciavo che accadesse.

Poi d’un tratto, tornato sulla sedia, tornavo in me e mi domandavo

cosa fosse davvero successo. Mi impaurivo e poi dimenticavo.

Qualcos’altro era scattato nel periodo di Leopardi, non il primo

’800, ma il mio’ periodo di Leopardi, quando la prof di italiano

ci iniettava a forza le sue ansie nelle vene. La concezione del

mondo secondo il poeta di Recanati era andata peggiorando negli

anni. Prima aveva concepito il Pessimismo Individuale (sei triste

perché sei sfigato, ma gli altri stanno meglio), poi il Pessimismo

Storico (se ragioni non puoi essere felice, quindi spaccati di LSD

e spera di bruciarti anche l’ultimo neurone), e infine il

Pessimismo Cosmico (anche se perdi il cervello avrai comunque fame

e sete e soffrirai per nutrirti. Quindi muori senza tante storie).

Peccato che l’unico a non morire fosse proprio il Leopardi, con la

sue poesie da tre facciate l’una che dovevamo imparare a memoria.

Per carità, la mia memoria migliorò di netto con questo esercizio,

ma l’avrebbe fatto anche memorizzando I Corti di Aldo, Giovanni e

Giacomo... In più mi sarei risparmiato mesi di paranoie.

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. É il titolo di

una sua poesia, e l’ultimo pensiero che precedette quell’istante.

Ero seduto al solito banco, un lunedì di terza media. D’un tratto

ebbi l’impressione di essere chiuso in una cella stretta e buia,

con un piccolo spiraglio da cui osservavo il mondo. Era come se

guardassi dalla visiera di un casco o dalla buca delle lettere.

Muovevo braccia e gambe come avevo sempre fatto, le controllavo ma

non erano "me". Erano qualcosa che muovevo a distanza e che

guardavo da un monitor chiamato cervello, attraverso le riprese di

una telecamera chiamata occhio. Io ero altrove, e proprio allora

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realizzai che il mondo non esisteva, non più di quanto esistesse

un universo virtuale all’interno di un computer. Credo che i

fratelli Wachowski abbiano sfiorato la verità con l’idea di

MatriX, sebbene il computer in questione non sia fatto di silicio

e non funzioni ad impulsi elettrici. Oltre a questo mi ero reso

conto di essere solo, in senso assoluto, perché nessuno avrebbe

mai potuto raggiungermi realmente, provare le mie sensazioni ed

emozioni, o capire i miei pensieri. La consapevolezza di

quell’istante non può essere spiegata in toto. Con essa compresi

il dubbio dei filosofi idealisti, cioè che neppure l’esistenza

dell’ "altro" è dimostrabile a priori, in quanto anch’egli è parte

integrante del mondo percepito. I protagonisti di MatriX non sanno

distinguere un vero uomo da un "agente", che è un programma, e

quindi in senso stretto non esiste. Ma non è tutto qui, il mio fu

davvero un senso di incolmabile separazione. Ciò che importa è che

provai un terrore indicibile e senza precedenti.

Poi il panico cessò e tornai normale per qualche tempo, finché

non mi ammalai di Rosolia. Non dovendomi svegliare la mattina

dopo, stetti alzato a guardare un film di Mick Garris, L’Ombra

dello Scorpione, tratto dal romanzo omonimo di Stephen King. Fu la

sera della caduta, la sera della violenza, la sera della mia

pazzia.

Mamma Abigail era seduta sulla sedia a dondolo sul terrazzo

dietro la casa. Era una vecchia casa di campagna in assi di legno,

con un piccolo viale sterrato che scendeva sulla strada. Nell’ora

del tramonto era popolato da gatti randagi che venivano in cerca

di cibo fin sotto la sua gonna, implorando in coro un boccone di

carne grassa. Erano ormai gli unici amici che poteva permettersi

alla sua veneranda età; mentre i figli erano già in paradiso da un

pezzo, dall’alto dei suoi cent’anni Abigail riusciva ancora a

pulire la casa e a cucinare il pollame che lei stessa aveva

allevato. La schiena non le dava pace per tutta la giornata, ma la

notte dormiva ancora come un ghiro e ogni mattina era pronta a

ricominciare.

I suoi occhi infossati, nascosti in un mare di rughe, quella

sera fissavano il profondo del granturco, in mezzo alle spighe

verdi che nei giochi d’infanzia disegnavano un aspro labirinto.

Molte volte aveva corso alla cieca tra un filare e l’altro nel

vano tentativo di perdersi, ritraendosi in un mondo di luci e

ombre dove il sole giocava a nascondino tra pannocchie e foglie

urticanti.

Sapeva di non essere sola; era spaventata ma rincuorata dalla

fede in dio. Dio le aveva parlato attraverso i sogni e le aveva

mostrato quell’uomo dalla pelle scura quanto la sua. Tra non molto

sarebbero venuti da lei tutti gli altri, quelli che l’uomo nero

non avrebbe potuto radunare. Li avrebbe accolti come si fa in

famiglia e insieme avrebbero affrontato il male che si incarnava

in quella creatura. La razza umana stava morendo, sterminata dal

virus azzurro, e le lucciole smarrite si sarebbero radunate a

giorni attorno alla luce di una grande fiaccola, lei o l’uomo

nero.

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Fu un fulmine a mostrarne la sagoma, netta nei contorni ma vaga

nelle linee del volto. Una macchia scura, nera, nel mezzo di un

campo di grano. É quanto avrei ricordato senza sosta nei due anni

a venire, appesa come un poster nella testa che ruba spazio ad

altri pensieri ed impaccia la ragione.

Ricordo con vividi dettagli le sere prima di addormentarmi,

quando avrei voluto da mio padre le stesse coccole che ricevevo da

bambino. Ero una volpe impaurita, tremante nella tana delle

proprie coperte, e non potevo chiedere aiuto senza svelare il mio

terribile segreto. Per due lunghi anni l’uomo nero stazionò nella

mia mente. Quando poi se ne andò, senza preavviso, lasciò un solco

tanto profondo che la pazzia del mondo intero ci scivolò

attraverso.

2 Storie di casa mia

La famiglia Nautonier discende da un nobile cavaliere genovese di

nome Bortolamio, che nel 1227 si era trasferito a Venezia per fare

affari. I suoi figli e i suoi nipoti sarebbero nati e cresciuti

nel futuro Quartiere Nautonier della grande Repubblica marinara.

Talvolta ho il sospetto che Bortolamio avesse aderito alle idee

malsane che sarebbero state poi di Isaac Luria (1534-72), Sabbatai

Zevi (1626-76) e Jacob Frank (1726-91), patriarchi più o meno

volontari di una setta sanguinaria. Per lo più gli aderenti erano

banchieri, e molti di essi avevano cambiato il proprio cognome in

riferimento al mare, in omaggio agli déi anfibi dell’antica

Mesopotamia che erano emersi dal Golfo Persico per offrire

all’uomo cultura e gloria.

Da funzionari imperiali, cancellieri e senatori ducali, molti

dei miei antenati erano infine caduti in disgrazia, e ai primi del

’900 lavoravano a mezzadria le terre di altri signorotti. Con

qualche eccezione, è ovvio, come recita la storia di Santa

Adebanke, che era schiava e bambinaia per il nobile Federico

Nautonier. Credo sia stata una fortuna. Non vorrei essere come la

gente che comanda oggi: venduta, arrivista e senza pietà.

Da bambino ascoltavo storie terribili sul passato dei Nautonier,

storie che sembravano senza fine, ancora agitate nei membri più

anziani del mio parentado, e pronte di lì a poco a sconfinare

nella nuova generazione. Quella mia bisnonna, che mi tenne in

braccio fino ai tre anni di vita, mi dissero che fosse una

fattucchiera. E non era l’unica secondo alcuni: mio nonno aveva

avuto maggiore fortuna dei fratelli nel lascito ereditario del

padre, e una lite furibonda era ancora in corso, sebbene

mascherata da sorrisi maliziosi e frasi allusive. Quando mio nonno

si ammalò gravemente, il sospetto cadde subito sui fratelli e

sulle loro "arti" magiche.

Non so se il termine "gravemente" sia corretto, perché mio nonno

era ammalato solo il sabato e la domenica; dopodiché la febbre

scendeva dai 40 gradi ai 36.5 canonici, per risalire

immancabilmente la settimana successiva. Dopo un paio di mesi il

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suo fisico era talmente debilitato che si rese necessario il

ricovero.

Febbre a parte, la TAAC e la la risonanza magnetica non

mostrarono nulla di anomalo, e lo stesso le analisi del sangue.

Clinicamente mio nonno stava bene, ma ogni giorno era sempre più

magro e sfinito. I medici si mostrarono perplessi e non poterono

far altro che prevederne la morte prematura a soli sessantacinque

anni di età.

Poi d’un tratto mio nonno si alzò dal letto e visse in salute

per altri ventitre anni, prima di lasciarci l’anno scorso. Cos’era

successo? Qualcuno, mi dissero, era andato con la sua foto

dall’esorcista. Forse era la prima volta che udivo quella parola,

e da allora mi si aprì un mondo, permeato da fascino oscuro ma

soprattutto dal terrore e dall’impotenza umana. Un mondo che

probabilmente è stato solo il frutto dell’immaginazione contadina.

A metà strada tra il ricovero e la morte s’innestò un episodio

di simile impatto, fatto di notti affannose in cui mio nonno si

svegliava soffocando. Quella volta l’esorcista consigliò di aprire

i cuscini e ne uscirono croci e cappi fatti di piume, insieme a

macchie di sangue rappreso. Questo mi dissero, perchè come al

solito non vidi nulla. Ero troppo piccolo per certe cose, ma

grande abbastanza per riempirmi la testa di ansie e paure. Non che

facessero apposta... L’esorcismo era parte integrante della loro

cultura e l’unica cura per malanni ostinati e disturbi psichici.

Un’altro famigliare smise di mangiare; ciò che ingeriva era

subito vomitato. Passarono i giorni e venne un altro ricovero, con

le lastre senza risposte e i medici muti. Dissero che sarebbe

morto in una settimana. Ma non andò così; di nuovo un’anziana

della famiglia portò la foto dall’esorcista e lui vomitò di nuovo,

stavolta un lungo nastro nero, largo un centimetro e spesso quanto

una Vigorsol. Da lì riprese a magiare e tornò in salute. Era stato

davvero una vittima del maligno? Molto dopo udii una vicenda

simile, che riguardava un uomo di ritorno da un viaggio in Africa.

Aveva avuto gli stessi sintomi e lo stesso risvolto finale. Nel

suo caso c’era stata però una diagnosi, un parassita ingerito per

caso con un pasto di pesce crudo, poi cresciuto nel suo stomaco e

diventato così ingombrante da impedire l’ingestione di cibo. Non

posso dire con certezza che i due casi coincidano, e comunque per

molto tempo non ho avuto coscienza del secondo.

Grazie a dio c’era Laika a proteggermi. Laika era un Coker

femmina dal pelo fulvo, classe 1982. Eravamo cresciuti insieme,

mangiando entrambi nella cuccia se il momento lo chiedeva. É

grazie ai miei natali se ho potuto rotolarmi nell’erba in sua

compagnia, correrle incontro e lasciarmi leccare il viso,

coccolare e accudire i suoi cuccioli, così piccoli che le mani di

mio padre bastavano a coprirli. Se fossi nato da un ricco

avvocato, magari a New York, al massimo avrei spalmato il mio

volto di smog come un gringo in battaglia.

L’inverno era forse inclemente con Laika, spesso sola nel

recinto a raggelarsi il cuore. Non me lo fece mai pesare, amandomi

da migliore amica non appena la liberassi, senza rancore. Io però

mi sento in colpa per averla tenuta in prigione mentre sedevo

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accanto alla stufa a montare le mie LEGO. Da piccoli si è stupidi

ed egoisti. Qualcuno persevera. Se ne andò da sola mentre stavo in

vacanza con i miei, ad Un Passo Dal Cielo1 sulle dolomiti di San

Candido e Dobbiaco. Avevo appena dimenticato l’ombrello in una

cabina telefonica e ripensavo alle parole di mio nonno, che dietro

la cornetta aveva detto di sentirla guaire. Aveva vomitato. Poi il

giorno seguente arrivò la notizia della sua morte. Piansi a lungo

e incolpai me stesso e i miei genitori per non essere tornati di

corsa, cercando aiuto da un veterinario senza perdere tempo in

canederli e ballate tirolesi.

Per fortuna l’amnesia prende in ostaggio i brutti ricordi e

allora quei posti mi mancano davvero. Ancora oggi un richiamo

primordiale mi trascina attraverso le creste per calpestarne la

polvere bianca macinata dai venti del Triassico. Le Dolomiti hanno

visto 250 milioni di primavere, abbastanza per dimenticare

l’ultimo volo del Quetzalcoatlus, il re dei dinosauri volanti che

occupava i loro cieli... Era un bolide di 250 chili e 12 metri di

apertura alare, il cui nome è preso in prestito da un dio dei

Maya. Ora è sepolto a centinaia di metri sotto strati di roccia

sedimentaria e il suo posto nel cielo è occupato dai rapaci:

falchi, aquile, corvi e poiane affamate. Il loro grido si confonde

nel gorgoglio dei ruscelli che si aprono tutto intorno,

sciolinando all’unisono la lingua di Eywa2. Lassù la borraccia è

inutile perchè l’acqua si trova dappertutto, fresca e buona. Anche

le stelle sembrano più vicine: una sera puntai il dito verso la

regione di Orione, indicando una fascia luminosa che si allungava

nitida nel cielo meridionale. Non avevo mai visto la Via Lattea e

chiesi a mio padre cosa fosse. Sembrava un fiume per davvero, nel

cui letto si specchiavano strane scintille. É naturale che gli

Egizi ci vedessero il Nilo celeste, com’è naturale che le piramidi

attorno disegnassero la mappa di Orione. Pensavo che fosse proprio

quell’acqua a cadere oltre la montagna, per poi riemergere dal

fondo delle sue sorgenti.

Ci sono posti nel mondo, lingue di roccia che si allungano nel

vuoto, pontili che si infossano nel mare, ovunque tu possa andare

sondando il limite tra te e l’infinito, tra te e il vuoto, tra te

e l’abisso profondo. Questi luoghi, capaci di toccare il cuore con

immagini dolci e terribili visioni, sono porte spalancate e ponti

sospesi che uniscono la Terra con il mondo degli Spiriti.

A quel tempo ridevamo di più, sia io che mia sorella. Purtroppo

una sola cosa ci ha accomunato nel tempo: il vedere i problemi

dove questi non ci sono. Ma non da bambini. Da bambini la testa

era libera di sognare e il cuore di innamorarsi. Bastava un muro,

un pallone, un gesso colorato e la voglia di correre.

A dieci anni passeggiavo per la campagna e scoprivo i nidi dei

verzellini mascherati dal fogliame dei vigneti. Se la stagione era

1 É voluto il riferimento alla serie televisiva Un Passo dal Cielo, trasmessa da RAI 1 con Terence Hill protagonista, ambientata

proprio a San Candido. 2 Eywa è la coscienza collettiva così com’è chiamata nel film Avatar di James Cameron. É lo spirito che riempie ogni aspetto del

creato e attraverso il quale ogni essere vivente viene connesso a tutto il resto. Il contatto con Eywa puó attirare gli animali, richiamare la pioggia o curare le ferite, nonché qualunque gesto sia appannaggio della natura. In ambito esoterico una tale credenza è chiamata panteismo.

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buona potevo trovarci la madre impegnata nella cova. A fine

inverno cercavo i primi bucaneve e mi sedevo a bordo della roggia

con un ramo spezzato e un coltellino dal manico ricurvo. Passavo

ore intere a cercare il legno più giovane, a pulirlo della scorza

e a ripiegarlo per legarci il filo da un capo all’altro,

stringendo il bandolo tra i denti finché premevo il ramo a terra.

Così costruivo arco e frecce, e mi allenavo al tiro contro

bersagli immaginari. Ero così contento di questa cosa che molti

anni più tardi provai a condividerla con Alys, la mia ragazza.

Purtroppo il filo non era dei migliori e si spezzò al secondo

lancio, ma tanto bastò a colorare una serata in mezzo ai campi,

nel buio pesto di una notte di febbraio.

L’ingenuità e il candore dei bambini è l’unica arma che ci può

salvare dal fracello del mondo. Cosa fa un bambino quando gli rubi

i giochi, la smetti di cambiargli il pannolino e non gli dai da

mangiare? Piange, urla, agita gambe e braccia. Vivere è un suo

diritto. Essere libero è un suo diritto, così com’è il nostro.

Ho molte foto delle vacanze a San Candido coi miei genitori. A

mia mamma piaceva un sacco fare foto e attaccarle con ordine negli

album di famiglia, corredata ognuna da commenti scherzosi o

semplici annotazioni. Poi i figli crescono e mandano a fanculo i

genitori senza pensarci due volte. Ieri mi è venuto in mente il

ricordo di una sera, quando mio padre tornò in ritardo dal lavoro

per passare in videoteca. Non stava noleggiando l’ultimo cine-

panettone, né l’ultima opera di Selen come facevano altri padri.

Era stanco dopo nove ore di lavoro passate chino sotto una pressa

idraulica. Eppure aveva allungato la strada in mezzo al traffico

per noleggiare Il Libro della Giungla di Disney. Sperava di farmi

sorridere ma lo attendeva un muso duro, mezzo offeso e addobbato

da un’irritante "mi fa schifo". Ci penso sempre dopo alle mie

cazzate. Comunque il mio distacco dai genitori portò con sé le

foto, che divennero sempre meno perché erano meno le occasioni di

stare insieme, finché l’avvento del digitale diede l’ultima

mazzata e chiuse gli album per sempre con un accumulo di pagine

vuote sul fondo.

Tra le foto rimaste c’è il ricordo di una passaggiata lungo il

cammino delle venti sorgenti. Per ogni sorgente il CAI aveva fatto

costruire una fontana di legno dove potersi abbeverare, corredata

da un pannello in plexiglas che ne spiegava la storia, il sapore e

le proprietà fisiologiche.

I miei genitori reggevano mia sorella in piedi sul bordo della

vasca, uno per parte così che allungasse le manine e portasse

l’acqua alla bocca. Quando più tardi arrivò Daisy, mio papà usò la

stessa accortezza in maniera creativa. Le sue mani erano grandi

abbastanza da formare una piccola ciotola ermetica, sufficiente a

raccogliere l’acqua e portarla ad altezza tartufo. Daisy affondava

il musetto tra i palmi e raccoglieva piccoli sorsi a colpetti di

lingua.

Per quasi 18 anni ha camminato al mio fianco, e ora è come un

arto mozzato che è perduto ma ancora si sente. Sento i suoi passi,

i colpetti delle unghie contro il marmo del corridoio e il naso

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bagnato che sfiora le mie mani in cerca di cibo. Nei giorni a San

Candido la nostra storia era appena cominciata, e lei era un

cucciolo di peluche che soffriva il mal d’auto (aveva vomitato

nella "vaschetta" del freno a mano, riempiendola fino al bordo

senza sporcare oltre). Aveva un anno quando una bimba al parco

giochi indicava il suo codino e chiedeva ingenuamente "Cos’ha? Un

pezzo di gomma?". Poco dopo avremmo camminato sul monte Ortigara,

io, Daisy, mio papà e il nonno, e un signore anziano si sarebbe

spaventato a morte credendola un topo troppo cresciuto.

Da qualche tempo la mia Yorki dorme all’ombra di una rosa; fa

compagnia a mio nonno che sta potando le vigne dei Campi Elisi;

scondinzola e improvvisa un girotondo attorno ai suoi piedi. Non

so perché se ne siano andati insieme, in poco tempo, portando con

sé il papà di Alys. "Si viene e si va, comunque ballando" dice il

Liga.

3 Dov’è il tuo dio adesso?

Cosa sono le religioni? Strumenti di potere, di controllo, di

divisione? Oppure sono davvero la manifestazione di un dettame

divino? In tal caso, manifestando ognuna un dettame diverso, solo

una di esse potrebbe esprimere quello vero. Una oppure nessuna. I

cattivi se ne fregano, oppure ne interpretano a piacere le leggi

per giustificare i propri istinti. I buoni ne seguono i precetti

per paura di apparire cattivi. Perdono ore seduti in chiesa o

inginocchiati in moschea, confessando a sconosciuti i peccati

immaginari di una vita in costante tensione, contrita dalla paura

di agire contro dio. Da qualche parte ho letto che "la religione è

la migliore cura contro le ansie che essa stessa crea". Non potrei

essere più d’accordo.

Non mi dilungherò sulle questioni insulse che riguardano il

sesso, ma qualcosa la voglio dire. I disturbi psichici si legano

al senso di colpa e tra le cause primarie (a sentire il mio amico

analista) rientrano a pieno titolo le ingerenze dei confessori

nella sfera sessuale. Dire a un adolescente che masturbarsi è un

peccato mortale o che potrebbe attrarsi il male (letteralmente)

con le proprie mani, non potrà che turbarlo, specie in un periodo

della vita in cui l’istinto a massacrarsi di seghe è gargantuesco.

Secondo il papa la sessualità dovrebbe limitarsi alla

riproduzione, ma in tal caso dovrebbe spiegare come mai tutti i

preti soffrono di problemi alla prostata, o perchè l’organismo

espelle da sé lo sperma in eccesso quando questo ristagna da

troppo tempo. Insomma, l’attività sessuale è fisiologica e non può

essere evitata senza farsi violenza. Anzi, considerando il

rilascio di benefiche enforfine, si direbbe altamente consigliata.

Qualcuno sostiene che una cosa è la religione e un’altra cosa i

religiosi. Così riesce a dimenticare le conversioni forzate, le

torture dell’inquisizione, le crociate e i massacri degli

gnostici. I cristiani erano stati perseguitati sotto Nerone (37 -

68), Decio (249 - 251), Valeriano (253 - 260) e sotto Diocleziano

(303 - 311), ma neanche cent’anni dopo erano loro stessi a

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indossare i panni dei persecutori. É la legge del nonnismo: entri

a scuola e ti picchiano; sei all’ultimo anno e picchi le

matricole. Il cristianesimo divenne religione di stato nel 391

sotto Teodosio e da quel momento risultò difficile distinguire i

vescovi da qualunque altro feudatario di nobili origini.

L’opulenza delle gerarchie fu respinta dagli gnostici, piccoli

gruppi cristiani insediati perlopiù ad Alessandria con emanazioni

in Siria (Giovanniti) e Spagna (Priscilliani). Gli gnostici

rifiutavano le cariche ecclesiastiche e qualunque altro

intermediario tra l’uomo e dio. Tra la fine del IV e l’inizio del

V secolo furono sterminati dall’azione dei vescovi Teofilo e

Cirillo. Allora come oggi, il potere era in lotta per proteggere

sé stesso dalla rivalsa del popolo, non importa quale vestito

indossasse. Gli gnostici rifiutavano la presenza di un 'prete' che

leggesse per loro la Bibbia, preferendo studiarla da sé insieme

alla matematica e alla scienza in genere. D’altro canto, per il

potere organizzato non c’era nemico più temibile di un popolo

sveglio, acculturato e unito. Perciò è molto improbabile che il

movimento cristiano dei primi tempi abbia qualcosa in comune con

la moderna religione che ne porta il nome.

Se escludiamo i discussi ritrovamenti di Qumran, i vangeli più

antichi arrivati fino a noi sono al più del IV secolo. Seppur

copiati da originali più antichi, non possiamo fidarci di

compilazioni collegate all’imperatore Costantino e al suo

enturage. Con il Concilio di Nicea (325 d.C.) Costantino aveva

aperto al cristianesimo le porte di Roma, e aveva usato la

massoneria dell’epoca (il Sol Invictus - Mitra) per diffonderlo

nell’aristocrazia equestre e nella classe militare. Era un unico

cristianesimo, scelto da Costantino tra 100 versioni e diffuso per

mezzo di un gruppo pagano guidato dal Pater Patrum, da cui verrà

il nome "papa" per il vescovo di Roma.

Storie di un tempo? Vogliamo parlare del ventennio 1964 - 1983?

É il periodo che comincia grosso modo con la fondazione della

Gladio e si conclude con le uccisioni di Mirella Gregori e Manuela

Orlandi. Monsignor Montini era appena diventato papa dopo più di

vent’anni trascorsi a capo dei Servizi Segreti Vaticani. Aveva già

scelto per Roosevelt i rappresentanti delle Commissioni Europee

nei paesi non alleati, e adesso si prodigava nel creare una cella

italiana della CIA chiamata Gladio. Lo stesso avveniva negli altri

paesi del blocco NATO, con la cella svizzera che prendeva nome P26

e che avrebbe sforato in Italia nella loggia massonica P2. Nei

suddetti vent’anni si assistette a una commistione tra Vaticano,

Mafia, Massoneria, Brigate Rosse, Nuclei per la Difesa e Servizi

Segreti. Le stragi di Piazza Fontana (1969), Peteano (1972),

Perugia (1980), le uccisioni di Aldo Moro e Giovanni Paolo I

(1978), il Golpe Borghese (1970), l’omicidio di Roberto Calvi

(1982), sono stati tutti tatticismi all’interno della cosiddetta

"strategia della tensione", volta a far oscillare continuamente

l’opinione pubblica in modo tale che nessuna forza politica

prevalesse nettamente sull’altra. Erano gli anni in cui lo IOR

riciclava centinaia di miliardi di lire per la mafia, usando il

Banco Ambrosiano come copertura. La mafia a sua volta vendeva la

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droga della CIA, ricevuta in pagamento per la vendita clandestina

di armi all’iraniano Khomeyni e ai Contras del Nicaragua. Oltre al

resto, il direttore dello IOR Monsignor Marcinkus (già avverso a

G.Paolo I) organizzava festini pedofili nell’abbazia di

S.Apollinare in Roma, con l’assenso del rettore della chiesa

Monsignor Pietro Vergari, del segretario di stato Cardinale

Villot, del vicecapo della vigilanza vaticana Raoul Bonarelli

(tutt’ora in servizio), e presumibilmente di Jimmy de Pedis (il

capo della Banda della Magliana). Una vicenda che coinvolse le

giovani Emanuela e Mirella, di 15 e 16 anni.

Parlavo di questo già a 14 anni, spesso a sproposito e come atto

di ribellione. Un pomeriggio avevo finito i compiti e mi ero

alzato dalla sedia; avevo guardato mia madre indispettito, coi

pugni stretti e le braccia in tensione lungo i fianchi. Il mio

"non credo" era stato più esitante di quanto volessi e a fatica

avevo nascosto il tremore delle mani. "Non credo a Gesù né ai

miracoli" avevo aggiunto a rincarare la dose. Lei era rimasta in

silenzio per pochi secondi, scoppiando poi in lacrime una volta

elaborato il messaggio.

Forse mi avrebbe preso a schiaffi se non mi fossi defilato sul

retro di casa. Perciò trascorsi il resto della giornata con le

gambe a penzoloni dal muretto dello scivolo, aspettando che mio

padre tornasse dal lavoro. Contavo che mi avrebbe fatto da guardia

del corpo, portando i toni della discussione a un livello

tollerabile senza pianti né urla. Era freddo, buio e c’era la

nebbia, il perfetto cliché da giorno del giudizio.

In qualche modo la discussione si acquietò. Me la cavai col

soliloquio del genitore fallito che mortifica sé stesso per

stillare nel figlio i sensi di colpa. Sorbii la sua ammenda: "io

ho fatto di tutto per insegnarti qualcosa di buono, ma

evidentemente non sono stata capace". Era un modo come un altro

per affermare che i puri di cuore dovevano credere, altrimenti

avrebbero permesso al male di inondare le loro vite. Non era

cattiveria la sua, ma soltanto paura. Mia madre temeva davvero che

il male invadesse la nostra famiglia, suggestionata com’era dai

fatti succitati. Purtroppo a breve sarei stato più impaurito di

lei.

Nell’estate 1997 avevo 'comprato' un videogioco per l’Amiga 500.

Apparteneva alla fortunata serie della Lucas Arts che aprì un

genere a sé stante detto "Avventura Grafica". Per chi è cresciuto

a pane e Indiana Jones era stata esaltante la produzione di una

quarta storia (dopo I Predatori dell’Arca Perduta, Il Tempio

Maledetto e L’Ultima Crociata), sebbene come gioco e non in film.

La qualità grafica era un passo in avanti rispetto qualunque gioco

già visto; inoltre Harrison Ford aveva concesso la propria

immagine per i documenti e i giornali che apparivano nella nuova

avventura: Indiana Jones and The Fate of Atlantis. Già allora si

parlava di un quarto film, che se avesse seguito la trama del

gioco sarebbe stato a dir poco fenomenale. Invece abbiamo atteso

il 2008 per la patetica farsa di Indiana Jones e Il Regno del

Teschio di Cristallo.

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Nel gioco si parlava di Atlantide, l’isola perduta dove

l’umanità avrebbe raggiunto un progresso invidiabile per poi

decadere in seguito a un cataclisma. I suoi superstiti avrebbero

fondato la civiltà Egizia, quella Indiana e quella Olmeca in

Messico. Indiana Jones si muoveva dagli scavi in Islanda al

labirinto di Cnosso a Creta, passando per il tempio Maya di Tikal,

il deserto algerino e una Monte Carlo insidiata dai nazisti.

Soprattutto seguiva gli indizi mascherati da Platone e dal suo

esegeta Charles Sternhart.

Iniziai a mangiare libri, partendo da Il Mistero di Orione di

R.Bauval e Impronte degli Déi di G.Hancock, alla ricerca di una

verità che si innestasse alla base del mito. Fu sorprendente la

scoperta di quanta scienza si celasse nella storia di Atlantide:

il nostro mondo era stato davvero il bersaglio di meteoriti e

drastici cambiamenti di clima ad intervalli di 10-15.000 anni.

L’ipotesi che la Sfinge e il suo Tempio fossero precedenti a

qualsiasi civiltà non era poi così peregrina. In superficie

recavano i segni di piogge copiose cadute tra il 9.500 e il 3.500

a.C.. Il tempio mostrava sporgenze lavorate a davanzale e pietre

angolari tagliate ad L che esistevano uguali in Perù e Cambogia,

secondo uno stile che doveva rifarsi a un antenato comune.

Il mio entusiamo fu però schiacciato dal mio stesso cervello

impazzito. L’uomo nero era scomparso ma al suo posto aveva

lasciato qualcosa di peggio. Cos’era quel pulviscolo? Cos’era

quel minuscolo filo di lana attorcigliato che si nascondeva nel

ripiego delle pagine? Quante volte le pagine dei vostri libri

hanno avuto tracce di polvere o macchie di caffé, cioccolato o

quant’altro? Le persone 'normali' risolvono tutto con un soffio o

semplicemente se ne fregano e vanno avanti. Le persone com’ero io

non possono. Possono soffiare e la polvere resterà, indelebile

nelle loro coscienze, e saranno costrette a guardare e riguardare

la stessa pagina per convincersi che la polvere è andata. In caso

contrario quell’immagine bloccherà la mente senza lasciare spazio

a nient’altro. Interferirà con ogni piccolo pensiero e ogni

articolazione. Camminare con la schiena dritta, mantenere

l’equilibrio, tenere gli occhi aperti o la bocca vuota di saliva,

tutto è compromesso. Diventi un ritardato che non sa camminare né

parlare, solo per un pizzico di polvere.

4 Sogno di una notte di mezzo autunno

Stanotte ho sognato di svegliarmi. Sollevavo la schiena e mi

appoggiavo alla testiera del letto, scoprendo disorientato il

posto vuoto alla mia sinistra. Le coperte erano state

accartocciate verso il basso e un foglio bianco era stato

abbandonato sul materasso. C’era una scritta in pennarello nero:

"è arrivato il momento di crescere". Ho preso il foglio tra le

mani e ho pianto la mia compagna; l’ho chiamata 'bambina', come se

quel nomignolo affettuoso fosse stato reciproco, come se lei se ne

fosse andata con la coscienza di aver tenuto il suo candore fino

all’ultimo giorno.

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La malinconia non mi abbandona nemmeno quando dormo. Forse avrei

dovuto uscire di casa lo stesso, tanti anni fa, senza paura che la

mia deficienza mi rendesse sgradito o mi trasformasse nel perfetto

bersaglio per i bulli di quartiere. Gli amici delle medie stavano

aprendo le porte alla libertà, tra droghe, alcool e atti

vandalici. Periodicamente occupavano le pagine dei giornali nelle

vesti de "i soliti ignoti": dopo 15 anni c’è ancora qualcuno che

addobba l’albero di Natale con le palle di vetro rubate al pino di

Piazza Libertà. Ma non era certo questo a spaventarmi, né i

cassonetti rovesciati nei fiumi o i vapori della ganja consumata

in "stanzetta". Mi spaventavano i silenzi, le domande non risposte

perché la mia mente viaggiava altrove, e tutti quei pegni che

avrei pagato per la mia distrazione. Avrei fumato sigarette di

cenere e cacca di gatto, avrei raccolto pugni alla bocca dello

stomaco e avrei strisciato per terra, avrei cantato a richiesta

come un juke box stonato e avrei portato a vita dei nomiglioli

fastidiosi. Credevo di risparmiarmi il dolore, ma la versione

light l’avrei comunque subita qualche anno più tardi.

Intanto il tempo lo passavo a casa, e i miei genitori si

sentivano felici, perché non piantavo grane e non davo grattacapi.

A scanso di equivoci mi avevano proibito il motorino, precisando

che non potevo comprarlo neppure coi miei soldi. Potevo inseguire

i miei coetanei in bicicletta, aggravando la mia già debole

posizione, ma preferii non farlo e me ne stetti buono buono.

Nell’estate tra medie e superiori non cercai nemmeno un lavoro: i

soldi non mi servivano.

In compenso ero stato spedito al gruppo Giovani della

parrocchia, dove avrei goduto della compagnia di altri sfigati

come me: i ragazzi vincenti stavano fuori dalla porta e la

aprivano di tanto in tanto per gettare all’interno petardi accesi.

Diversamente da loro ero una bestia chiusa in gabbia, magari non

frustata e seviziata, ma docile agli ordini e accucciata

nell’angolo di una stanza buia che solo io potevo vedere.

La scuola era intanto una valvola di sfogo. I più scapestrati mi

rispettavano purché li lasciassi copiare, una cosa che avrei fatto

comunque, per vanità, perché fregare i professori mi dava gran

soddisfazione, perchè molti di loro non meritavano quel posto. Ci

fu un compito di algebra e metà classe prese voti sopra il 7,

mentre il resto stazionò dal 4 in giù. La planimetria dell’aula

mostrava due zone separate di netto, con il mio banco al centro

della zona 7. La matematica per me era un gioco, un ritmato

susseguirsi di ovvietà... in molti casi non serviva che studiassi

e nemmeno che stessi attento alla lezione: nella mia testa c’era

un unico sentiero praticabile.

Studiare non era poi così importante, non i libri di scuola. La

mia mente aleggiava piuttosto sugli oceani, sulla nave Ra di Thor

Heyerdahl3. La sua avventura mi aveva riempito d’ammirazione. Il Ra

3 Thor Heyerdahl (Larvik, 6 ottobre 1914 - Colla Micheri, 18 aprile 2002) è stato un antropologo, esploratore e regista norvegese.

Biologo, specializzato all’Università di Oslo in antropologia delle isole del Pacifico, svolse la sua attività preminentemente come archeologo. Pronto a mettere in discussione le teorie allora correnti sulla diffusione umana via mare sul pianeta, non esitò ad organizzare ardite navigazioni con natanti ritenuti rudimentali. I suoi progetti navali si basavano in realtà su precise documentazioni storiche o protostoriche ed erano eseguiti con l’aiuto di maestranze indigene ancora abili a tali lavorazioni. I

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era una barca di cinque metri per due, realizzata con fasci di

papiro tenuti insieme da corde naturali, secondo i precetti di

Antichi Egizi e antichi Teotihuacani (popolo boliviano). Benché

separati dall’Atlantico, 5000 anni fa costruivano barche identiche

intrecciando steli di papiro: Heyerdahl navigò per 3.270 miglia

dal Marocco ai Caraibi, con lo scopo dichiarato di dimostrare un

antico contatto tra i due popoli. Gli artefici del mezzo erano gli

indios Aymara, i discendenti dei Teotihuacani che abitano ancora

oggi il lago Titicaca, sulle Ande boliviane. Un popolo misterioso,

la cui lingua è talmente rigida negli schemi da apparire

artificiale, tanto che molti software di traduzione usano proprio

l’aymara come passo intermedio tra una lingua e l’altra.

Preferivo sorprendere i compagni con digressioni in questi lidi

poco chiari, piuttosto che perder tempo sui quaderni. Ogni tanto

sfoggiavo un’interrogazione o un compito eccellente, annunciando

in anticipo il risultato così da ricordare chi fossi e dove

potessi arrivare. Dalla prima media non facevo i compiti per casa,

e sono stato coerente fino alla fine della quinta superiore,

indifferente alle note di demerito che risolvevo a firme false o

strappando le pagine del registro di classe. Non sono mai stato

capace di abbassare il capo davanti al padrone. Similmente non ho

letto libri finché mi hanno ordinato di farlo, mentre oggi non ho

abbastanza spazio in casa per contenerli.

Se la mia mente impazziva, finivo sdraiato sul pavimento, al

freddo del marmo accartocciato sotto la scrivania. Allungavo una

mano cercando il viso di Daisy, sperando che mi leccasse le dita o

mi scaldasse lo stomaco, riportandomi in qualche modo alla vita

sensibile. Più avanti avrei imparato a graffiarmi o a mettere le

mani nel fuoco del camino, svegliandomi tra grida soffocate.

Pensavo a Caio, il dinasta di Hokuto in terra siriana, forgiato

dal dolore al punto tale da non provare alcunché mentre tendeva le

mani alle fiamme.

A febbraio 1998 rientrai di diritto tra i candidati alla

bocciatura, così che mia mamma tornò incazzata nera dal colloquio

coi professori. Avrei pensato "stai scialla, sorella", se non

fossi stato troppo impegnato a schivare ciabatte volanti. Da parte

mia ero sicuro che non mi avrebbero bocciato, e infatti recuperai

tutto nei 4 mesi successivi, uscendo senza debiti e salutando i

ben dieci bocciati con cui avevo condiviso la nomination.

Nel frattempo avevo conquistato la nomea di piromane e avevo

rischiato di incendiare la scuola, un’evenienza che mi avrebbe

avvicinato all’eroina dell’epoca, la biondina Buffy o

l’ammazzavampiri di Sunnydale. Nel mio caso non si trattava di una

frotta di vampiri, da intrappolare in palestra e gettare nel

fuoco, ma del semplice fascino di una fiamma lenta che consuma la

vita. Arrotolavo pezzi di carta e li strizzavo come un panno

bagnato. Dopodiché bastava un accendino, una piccola vampata sulla

punta che subito veniva spenta e lasciava spazio ad una brace

rossa. Il "cannone" avrebbe spruzzato il suo fumo per tutta l’aula

dubbi della comunità scientifica dell’epoca si riferivano generalmente all’uso di materiali poco noti e ritenuti inaffidabili quali Legno di Balsa, Papiro, Giunco.

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e per il tempo necessario a consumare la carta, salvo incediare

uno zaino troppo vicino al bersaglio di tiro.

5 Senza farti distrarre dai prodigi

"Senza farti distrarre dai prodigi, osserva ciò che hai davanti

gli occhi: quest’uomo è ancora vivo". Così aveva detto la maestra

alla giovane strega mentre volgevo le spalle alla casa nel bosco.

Sono stato concepito nella prima metà di dicembre, come doveva

essere per i re della stirpe di Davide. Ho emesso il primo vagito

in un pomeriggio di settembre, vomitando sangue e liquido

amniotico; il primo abbraccio l’ho ricevuto da un’incubatrice che

cercava disperatamente di darmi calore. La mia sopravvivenza vìola

il buonsenso; forse avrei dovuto passare per il camino di

Auschwitz e andarmene insieme agli altri. Morte, vita, passione e

violenza: tutto cade nello stesso vortice che tutto logora. Questo

mondo non ha alcun senso. Si ride e si soffre per abitudine, si

lavora per abitudine, si muore con l’aiuto di troppi dottori4.

Siamo robots sulla linea di montaggio, ingranaggi di una macchina

perfetta. Nessuno si chiede se sia giusto o sbagliato, semmai

legale e obbligatorio. Puoi lavorare alla Bayer per anni, gustarti

la pubblicità del papà perfetto che alza il figlio tra le braccia

mentre passa la scritta 'Sanofi Aventis', senza sapere che

800.000.000 di persone sono morte per causa loro. Non per errore

ma per il gas, per il Zyclon-B, un prodotto la cui natura e

obiettivo è soltanto la morte.

Stanotte ho creduto di andarmene, per l’ennesima volta, con la

mente logora e il respiro affannoso, la gola stretta da una mano

invisibile. Eppure sono vivo, come le altre volte. Ogni volta,

all’ultimo istante, è arrivato qualcosa o qualcuno per tenermi in

vita. Sono stato io a vederlo? Forse sono state scuse, inventate

dall’inconscio per sfuggire all’ignoto che si inoltra nella notte.

La prima volta che ho visto il baratro non dormivo da 72 ore, ero

ubriaco fradicio e non sentivo più il mio battito. Il formicolio

mi induriva braccia e gambe, incespicavo, cadevo e vomitavo. Poi

ho aperto quella porta e ho visto le ragazzine. Provavano un

balletto per il corso di Hip Hop. Avevano gli occhi di chi non

vede il male, occhi di speranza e voglia di scoperta. Erano la

vita, soprattutto lei che aveva la luce della piccola leader, la

più carina e la più cretina. In un istante ho capito che per tutte

loro avrei dovuto restare. Il mondo doveva cambiare, e forse

proprio per questo sono ancora vivo.

Nemmeno tre mesi prima ero venuto al mondo, legando a catene la

timidezza e spingendo il mio corpo a muoversi in avanti, per

affondare lo sguardo tra la gente. Ero uscito di casa e mi ero

presentato in mezzo a loro, a tutti i miei coetanei già saturi di

sesso e cocaina. Non traspariva una vena di emozione, una ruga del

volto o lacrima dagli occhi. Ero immune alle inutili domande e mi

facevo strada tra i sorrisi di scherno. Afferrai un bicchiere

4 La frase “Muoio grazie all’aiuto di troppi dottori” è attribuita ad Alessandro Magno, Re di Grecia e Macedonia, Imperatore di

Persia (356 - 323 a.C.)

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colmo di birra appena spinata. Non sapevo di chi fosse ma lo

alzai, affermando a gran voce di voler essere uno di loro, bevendo

d’un fiato e chiedendo gli attrezzi per tagliare le frasche. Poche

ore più tardi eravamo insieme sul carro della cuccagna, protetti

da una foresta di corniolo che a fine serata sarebbe finita

sull’asfalto e ci avrebbe costato una denuncia. Il carro ci

avrebbe portati in piazza e da lì saremmo scesi per iniziare la

scalata e conquistare la folla. Le ragazze piangevano in preda

alla sbornia, e tutti quanti puzzavamo del grasso di motore che

colava dalle nostre facce. Iniziammo rimbambiti e disorganizzati,

con poca paglia e zero rispetto, stritolando i nostri colli e

incastrando arti su arti nel tentativo di realizzare la piramide

umana. Ci riuscimmo, merito di Mike, il sobrio e patetico Mike.

Di notte riempimmo le strade di graffiti e solo l’alba

accompagnò il mio rientro. Mia madre aspettava sulle scale,

preoccupata da quel figlio che fino a ieri stava accucciato sul

divano e dondolava la testa in un tic nervoso, affondando le mani

nella scatola di LEGO. Tre mesi di gloria videro il mio esordio

nei bar notturni, tra le labbra e i seni immaturi di una

sconosciuta dai riccioli biondi. Non ero ancora tornato da

Sandy... per la patente mancava un altro po’.

6 Il Bellissimo Mestiere

Era il 2001 quando Marco Masini se ne usciva con Uscita Sicurezza

e il singolo graffiante de Il Bellissimo Mestiere. Lo stesso grido

disperato che Marco sparava sul microfono, a fatica aveva lasciato

la mia gola; quella storia così urlata, forse vissuta, era ancora

fresca tra i miei pensieri.

"Michela è una poco di buono" dicevano di lei in sua assenza, o

almeno così dicevano i ragazzi educati per evitare parolacce. Gli

altri davano sfogo all’intero vocabolario del perfetto scaricatore

di porto. Pensavo si dovessero capire. Diciottenne e già portava

tacchi a spillo, minigonna ascellare e una scollatura che dava un

posto d’onore al suo ampio e sodo seno. Le labbra carnose erano

ripassate con un rossetto scarlatto, e così gli occhi con un filo

di ombretto azzurro brillante e mascara sulle ciglia. I capelli

scuri, lunghi e lisci spargevano profumo per l’intero locale,

seguendo il suo passo così prezioso e controllato come fosse in

passerella. La vedevano spesso con uomini maturi, forse sposati

con figli; durava un mese, poche volte due o tre, finché tutto

finiva e lei tornava al solito locale. Qualche volta andava a

Milano, per fare il colpo grosso, dicevano. In realtà non sapevano

un cazzo di lei. É sempre così, la gente non sa un cazzo e parla,

parla, parla finché non si addormentano tutti.

Ero a Marsiglia quando le ho parlato per la prima volta, chiuso

in casa con la febbre che sospiravo guardando il porto vecchio

oltre la finestra. Giravo su facebook cercando di ammazzare la

noia e chiedevo amicizie a caso sperando di beccare qualcuno di

divertente, o perché no, una bella ragazza cui indirizzare le mie

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fantasie. Così caddi su di lei, trascinato più da un risveglio

ormonale che da un reale interesse.

Era brava con le parole, molto più ricercate e intelligenti di

quanto mi aspettassi. Parlava di fiori, di un’aiuola da costruire

al posto della vecchia baracca, di Aky che aveva il vizio di

mangiarsi ogni nuova piantina, della preoccupazione che qualche

polline lo facesse stare male. Lei con zappino in mano e la terra

sotto le unghie proprio non la vedevo. Stavo davvero parlando con

lei? Ad un certo punto non ci facevo più caso. Era riuscita a

scivolare nella moda, i vestiti e le acconciature, ma lo aveva

fatto accompagnandomi per mano nei salotti dell’Inghilterra

vittoriana. Conosceva le buone maniere, il modo di stare a tavola

e tutte le attenzioni che un buon cavaliere avrebbe dovuto alla

sua dama. Era colta, benché non avesse che la terza media, e con

machiavellica strategia argomentava il suo piacere di stare in

alto tra i benlocati, fuggendo dai poveracci come atto di rispetto

verso sé stessa.

Era riuscita ad offendermi e a istillarmi nello stesso tempo una

curiosità morbosa. Ogni volta che parlavamo trovava un modo per

rinfacciarmi la mia umile condizione. Eppure mi cercava troppo

spesso: solo un piacere sadico o c’era dell’altro? Alla fine mi

invitò a passare da lei. Mi voleva a portata di schiaffo per

passare dalle parole ai fatti?

Sia chiaro, non sarebbe mai uscita con me. Venivano a prenderla

quegli altri, con le loro macchinone, il blazer e gli stivali

marchiati Prada. Capitavano lì nel tardo pomeriggio del sabato; a

volte ero ancora lì; a volte la guardavo truccarsi e l’aiutavo a

scegliere i vestiti. Lasciavo la sua casa quando lei se n’era già

andata, e sopportavo quella piacevole umiliazione perché oramai ne

ero dipendente. Cos’era successo? Com’ero diventato il suo

paggetto?

La prima volta non mi aveva dato il tempo neppure per parlare.

Mi aveva aspettato sulla soglia in camicia da notte e mi aveva

lasciato un bacio veloce sulle labbra prima di impormi il silenzio

e trascinarmi per mano in camera sua. Nel corridoio in penombra

incrociai lo sguardo di un signore di mezza età dal volto scavato,

intrappolato in una camicia di flanella e pantaloni di velluto che

non vedevano da mesi un ferro da stiro. Quello spettro era suo

padre; in quella casa, e in quegli attimi di indifferenza, lui

scontava le sue colpe.

Michela mi insegnò a fare l’amore. Non ero vergine ma al suo

cospetto era come se lo fossi. Era eccitata nel farmi da maestra;

guidava le mie carezze fuori e dentro di lei, invitava la mia

lingua sui suoi sentieri e mi insegnava ad alzarle una gamba

contro la mia spalla così da spingere fino in fondo. Dopo l’amore

sedevamo uno di fronte all’altra, a gambe incrociate per

raccontarci storie di draghi, principesse e cavalieri. Usavamo i

pupazzetti che abitavano la testiera del letto e che mi spiavano

sornioni ogni volta che mi chiudevo con lei in quel mondo di 4m2

che sì, era piccolo, ma almeno tutto nostro. Pensandoci adesso,

vedo in noi due solo la voglia di giocare, abbandonando i ricordi

e le ossessioni al di là di un giro un chiave. Lì dentro non

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entrava la sporcizia del mondo. L’odio, l’invidia, il rancore, ci

spiavano da fuori, attraverso lo specchio, da quella specie di

altare in cui ci guardavamo per ore intere. Ore e ore trascorse

senza bere né mangiare, senza neanche respirare ma solamente a far

l’amore, senza neanche andare in bagno per non risvegliare il

sogno, su quell’isola di un letto allontanata dall’affanno5.

Tempo dopo ho saputo la sua storia, che era nata gemella di un

maschio che adesso stava con la madre, un avvocato di successo che

aveva evitato l’aborto al solo scopo di chetare le malelingue.

Aveva solo otto anni quando i suoi si erano lasciati; trattandosi

di divorzio consenziente, i bambini avevano potuto scegliere con

chi stare. A dodic’anni già lavorava in un negozietto dopo scuola,

mentre il padre si ubriacava al bar dell’angolo. Gli amici del suo

vecchio, che raramente passavano per casa, avevano iniziato ad

apparire al negozio, per comprare sciocchezze, come una stecca di

cioccolato o un pacchetto di sigarette, accompagnando i saluti con

occhiate languide. Poi i soldi erano finiti e si era trovata ad

accettare un biglietto da cinquanta e un passaggio verso le sale

sconosciute di un motel. Aveva imparato il mestiere e si era fatta

ambiziosa, prendendosi il lusso della scelta e del prezzo. I soldi

non mancarono mai più, ma in tutto quel sesso non c’era spazio per

l’amore; poi un giorno, lasciandosi cadere sul mio petto, scoppiò

in pianto interrotto dai singhiozzi. All’improvviso quel corpo da

déa divenne il corpo di una bambina indifesa, e io non potei fare

a meno di sentirmi in colpa. Ero inerme; cominciai a carezzarle i

capelli e a baciarla ripetutamente sulla nuca. Presi a piangere

anch’io senza un vero motivo, per non lasciarla sola. Sentivo il

suo seno pesante, caldo e piacevole come una coperta la mattina di

Natale. Non era più tempo per giocarci; quel pianto segnava il suo

addio. Si stava innamorando e non poteva, non voleva, perché

l’amore le avrebbe preso la linfa di cui si nutriva. "É un mondo

di soldi, non di cuori" ripeteva. Si alzò di scatto e scese dal

letto. Rivestendosi si asciugava le lacrime e mi intimava di

andare per non farmi più vedere.

Quando la chiamai era passato un anno e lei se n’era andata. Ora

stava a Grosseto, sul mare, per sfuggire a una malattia autoimmune

comandata da un ironico destino. Proprio lei ch’era sempre più

bella e viveva di creme e di lacca suoi capelli, adesso non aveva

più un capello, nemmeno uno. Aveva perso ogni altro pelo, dal pube

alle ascelle, perfino ciglia e sopracciglia. Non voleva uscire di

casa, non davanti a occhi conosciuti. Rifiutava le visite, anche

le mie.

Un amico di famiglia le trovò una tana e un impiego in un

negozio di estetica. Così poté cambiare parrucca e ciglia finte

con la frequenza che voleva. Poi lentamente comprese. Ci arrivò

percorrendo una strada tortuosa e dissestata, ma alla fine fu

chiaro anche a lei come i più poveri tra tutti fossero proprio

loro, quelli che avevano soltanto i soldi.

Oggi è rinata, è una donna che ha imparato ad amare; ora ha un

uomo che la merita, e una bimba che la chiama mamma con tutta la

5 Periodo ispirato al testo de Il Bellissimo Mestiere, di Marco Masini.

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forza che a lei è mancata. L’ho vista una volta di sfuggita,

mentre viaggiavo verso Roma; ero uscito dall’autostrada e avevo

preferito sgranchire le gambe di fronte al tramonto sul mare

mosso, piuttosto che al solito autogrill. Era lei, ne ero sicuro

benché quello sfondo infuocato trasformasse la scena in un

miraggio da cartolina. Era seduta sul molo con le gambe a

penzoloni e rideva di gusto insieme a loro. Non potevo chiedere di

meglio per lei. Non l’ho chiamata ma l’ho molto pensata; ho

continuato la strada, piangendo come un deficiente mentre

ascoltavo le canzoni della radio. Ero incazzato da morire, ma non

con lei, con l’amore, perché lei io la odiavo, sì, ma così

teneramente che anche un cieco se ne sarebbe accorto. Quel

bastardo non me l’aveva detto che avrei sofferto come un cane una

volta passato l’effetto. L’amore fa sempre quello che gli pare, e

noi paghiamo il conto, amore mio6.

Oggi ho ripreso la mia vita, più maturo e più coerente. Ho

capito che il tuo foglio si è disteso sotto un’altra matita, e che

io posso scrivere il mio nome su un’altra vita7; in fondo ci siamo

consolati a vicenda per un po’, per il tempo che è servito.

Guardarsi indietro rende chiaro il cammino percorso, nel mio

caso un sentiero ben scavato dal karma. Mi aiuta a sfuggire da

quei pensieri ossessivi che trasformerebbero il mio corpo in

concime per le piante. In un mondo ideale non starei qua, a

sfogare battiti di tristezza davanti a una tastiera, sperando

nella comprensione di qualche sconosciuto. In un mondo ideale

sarei seduto con gli altri attorno ad un falò, ad addormentarmi

dopo una cena fatta del mio bottino di caccia. Avrei sacrificato

una lepre alla mia fame con la coscienza della vita che si è

spenta per alimentare la mia, nel suo rispetto finanche nella

morte. Nel mio mondo ideale non ci sono polli in batteria e non ci

sono uomini in batteria, in catena di montaggio, al servizio di

qualche coglione figlio di papà che si fa pignolo nel misurare i

loro tempi di lavoro. Bestie da soma, marchiate, senza diritti,

senza via di fuga perchè ingabbiati dal pensiero pubblico, di chi

ti vuole in casa, pulito, accessoriato col cellulare e la TV a 300

canali, di chi ti vuole al tuo banco alle 8 se non prima, fino

alle 8-9 ore che ti mandano a casa stanco con la sola forza di

assorbire qualche stronzata dal TG. Siamo schiavi e ce ne

vantiamo, ascoltiamo i tecnici mentirci spudoratamente

sull’assenza di soldi, inventando un debito che non esiste mentre

si innalzano i loro palazzi di specchi a Babilonia. Siamo tutti

divisi, un socialnetwork serve solo ad allontanare la tentazione

di incontrarci per la strada, di dirci in faccia l’un l’altro

quanto siamo stronzi, di consumarci a scazzottate o nel letto di

una sconosciuta. Siamo soli, dimentichi del sole nascente e del

mare che s’infrange sulla battigia. Sappiamo descrivere nei

dettagli le applicazioni di un I-Pad ma se parliamo di tramonti ci

viene solo "è rosso". Di quanti uccelli conoscete il nome? Di

quante piante? Sapete quali semi o erbe raccogliere e lavorare

6 Ibidem.

7 Ibidem.

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per farne unguenti e medicinali? No... Non sappiamo nulla di

quelllo che conta... siamo soli, intrappolati. Vedo le foto delle

ragazzine a cui importa solo uno scatto, un album, i capelli

colorati, le finte adulazioni di chi vuole scoparsele fingendo di

amarle. Vedo il vuoto, volti vacui di gente ubriaca o narcotizzata

dalla moda, persi in ridicole pose da bestie nei bar o in foto

deformate con la scritta di un locale del cazzo. Sono tutti

uguali. Dov’è l’individuo? Dov’è l’artista? Dov’è la nuova

generazione che può cambiare il mondo? Mentre degustate il vostro

decimo cocktail della serata consumando la busta paga di vostro

padre, persi sugli schermi dei vostri I-PAD, senza guardarvi in

faccia l’un l’altro, ubriachi e senza dignità, pensate a quanti

bimbi sono morti per spalare le miniere da dove esce il bel

rivestimento anti-graffio, o chiedetevi quanti morti ha sulla

coscienza chi produce la vostra tecnologia, le vostre bibite, il

tizio che scrive il nome sulle vostre mutande. Basta continuare a

dire "tanto non si può far niente"... non è vero, non è così...

siete colpevoli... io sono colpevole per primo... è così evidente

la verità... il sangue scorre sulle nostre teste. Non siamo noi il

boia, ma siamo noi il re nell’ombra che detta la condanna... Dov’è

l’amore?

Ogni sera, durante la settimana, guardo mio padre che crolla

stanco sul divano o sulla sedia, con il gomito appoggiato sul

tavolo e il palmo della mano sulla guancia. Potrebbe

risparmiarselo se la vera scienza fosse accessibile a tutti.

Potremmo risparmiarcelo tutti, lavorare non più di cinque ore al

giorno e andare in pensione a cinquant’anni. Mio padre dovrebbe

essere in pensione e pensare soltanto a come godersi la vecchiaia,

in mezzo agli animali e alla campagna che ama tanto. Purtroppo,

gli stessi "uomini" che hanno riempito i campi di catrame, hanno

deciso che i poveracci come noi devono lavorare fino a crepare

d’infarto, sotto una pressa deformante o nel fumo di un altoforno.

Io credo nel perdono e nella comprensione dei peccati ma, se mi

trovassi faccia a faccia con gli idioti della politica, non so se

mi tratterrei dal picchiarli a sangue secondo la legge della

jungla.

7 Due passi a Parigi

Tra gli specchi di Versailles mi trovavo a casa, in mezzo all’oro

colante e ai candelabri di ghiaccio illuminati da tremila

fiammelle. Osservavo quei volti familiari che mi fissavano dal

’700 con l’aspetto di incontri fugaci intercettati sui gradini

d’ingresso. Era come se ci avessi parlato lì fuori, sotto la

statua equestre di Luigi XIV tra le fontane dei giardini. Mi

fermai davanti al trono e guardai diritto sul fondo, indifferente

ai turisti ma avvolto nel ricordo di balli perduti, di abiti ampi

e crinoline sottogonna. Le vedevo ondeggiare al suono degli archi,

disegnando labirinti di passi da un capo all’altro dell’immensa

sala. Il trono era mio, c’ero già stato seduto. Eppure io odiavo

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quella gente, persa nei loro fronzoli mentre i topi e la peste si

nutrivano del volgo.

Coi topi ci dormivo anch’io nelle notti insonni di Parigi, in un

ostello fatiscente a pochi passi dalla Torre Eiffel. Era aprile e

dal vetro rotto della camera seguivo le luci intermittenti che si

inseguivano sulle travi fino al cielo, per poi tornare a terra

come stelle cadenti sui Giardini del Trocadero. Se parli di

Parigi, la gente pensa al Louvre e immagina di superare l’ala

Denon per arrivare alla Gioconda. Ignora la statua di Nike e si

infila tra la folla per liberare i flash di fronte alla tela di

Leonardo, chiocciando sul come Napoleone la rubò all’Italia. Non

sanno che al tempo di Napoleone il dipinto si trovava in Francia

da quasi 300 anni, regalato dallo stesso Leonardo al sovrano

Francesco I Valois. Ma la Gioconda è vanitosa ed emana profumo di

loto, così che i turisti notano appena la grande tela alle loro

spalle, le Nozze di Cana del Veronese che ricoprono un’intera

parete di dieci metri per sette. Semmai è di questo quadro che

Napoleone fece bottino di guerra.

Ho visto Parigi in due giorni e ho camminato fino a sfiancarmi,

dispensando occhiate dalla bastiglia ai gradini di Montmartre, con

il vento che sfogliava immagini di vita borghese mentre mille

pensieri mi scalfivano nell’intimo. Allora ero capace d’amare, ero

pieno di Lei benché cuore e mente fossero agitati dal timore di

perderla. Ero dipendende da Lei come fosse una droga. Solo oggi mi

rendo conto che il bisogno di qualcuno, o di qualcosa, ti rende

incapace di offrire sia pace che passione. E una donna ha bisogno

di entrambi. Se non ti basti da solo, allora sei destinato a

perdere tutto. Non sei diverso da uno stalker o da un tossico.

Parlerò di Lei a tempo debito, perché Lei mi ha salvato nel 2007,

dopo 4 anni di caduta nel Maelstrom.

Molti anni fa l’edificio del Louvre era il palazzo dei re di

Francia, destinazione che mantenne finché il Re Sole non costruì

Versailles. Così si spiegano gli intarsi dorati, il tesoro

sottovetro e il trono regale. Il museo è orientato in direzione

est-ovest, con un viale d’accesso che scorre tra la Senna a sud e

Rue de Rivoli a nord. Ci camminavo nel mezzo con la testa tra le

nuvole, distratto dall’immensa piramide di vetro nella Cour

Napoleon. Gli schiamazzi di anatre e cigni si confondevano

felicemente col rumore di clacson e motori scarburati. Poco più

oltre, verso ovest, a sbarrarmi la strada si parava l’Arc du

Carrousel, sormontato da una quadriga dorata che era stata

sottratta a Venezia nel 1798. Del resto la stessa Venezia l’aveva

rubata ai Bizantini nel 1204, durante il sacco di Costantinopoli.

I magnifici cavalli, scolpiti da quel Fidia che fece grande Atene,

celebravano adesso la vittoria di Napoleone ad Austerlitz contro

gli imperi di Russia e Germania. Forse Napoleone era solo un

nanetto megalomane, o forse no... Attraverso il velo del tempo che

confonde la memoria, mi pareva di scorgere in lui quel barlume di

grandezza che era già stato di Alessandro il Macedone.

Superato l’arco mi sono accorto della strana scelta di Le Notre,

il famoso architetto del ’600: l’asse del Louvre deviava verso

nord poco prima di infilarsi nei giardini di Tuileries, per la

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precisione 26° a nord dell’ovest. Oltre i giardini, oltre le corse

dei cani e le carezze di giovani innamorati, mi aspettava Place de

la Concorde, dove svetta un obelisco alla testa dei Champs-

Élysées. (Un obelisco? Un ago?) Il viale dei Campi Elisi è famoso

più che altro per le sue boutique, ma chi lo costruì era mosso da

ideali più alti della moda vestiaria, e a causa di questi ideali

mantenne i 26° fino a sbattere sull’Arco di Trionfo. Il motivo

della scelta è di casa in Egitto, precisamente a Karnak. Pochi

sanno dei legami tra Parigi e l’Egitto, a partire dal nome Par-

Iseos (lett. 'vicino al tempio di Iside'). Se ci trovassimo a

Karnak, potremmo uscire verso ovest dal santuario del dio-sole

Amon-Ra, superare una serie di piloni e incontrare il gemello

dell’obelisco di Parigi che oggi si erge solitario dove prima si

alzavano in coppia. Da qui ci si inoltra nella grande sala

ipostila, un labirinto di 134 colonne dal tronco massiccio e

ricoperte da cima a fondo di geroglifici. A venticinque metri

dalle nostre teste resistono ancora le travi maestre che un tempo

sostenevano il tetto. É proprio qui che il faraone Seqnenre fu

ammazzato da Jubelo, quando Karnak e Luxor erano unite nell’antica

città di Tebe, in egiziano "Waseb". L’Egitto era diviso in due:

l’Alto Egitto, a sud, governato dai sovrani Hyksos, venuti da

Oriente; e il Basso Egitto, a nord, governato dai sovrani

autoctoni. Jubelo era un sicario del faraone del Nord, Apope II,

mentre Seqnenre era faraone al Sud. Quell’assassinio avrebbe

volute chiudere una volta per tutte gli scontri di potere, un

potere che non riguardava soltanto l’Egitto, ma che in modo

complesso coinvolgeva i mandanti di due gentiluomini in abito nero

che avevo incontrato a Losanna8.

Ma continuamo a camminare. Ci stiamo muovendo in linea retta, di

nuovo 26° a nord dell’ovest. Un viale di colonne conduce al

portale, massicce mura rastremate che incorniciano l’uscita,

protette dalla statua gigante di Ramses II. É difficile sfuggire

alla sequenza tempio/palazzo - obelisco - arco/portale. Il viale

punta al sole che 4.000 anni fa tramontava 26° a nord dell’ovest

nel solstizio d’estate e sorgeva 26° a sud dell’est nel solstizio

d’inverno. Davanti al Sole si scorgeva Sirio (la stella di Iside),

tornata visibile per pochi istanti dopo ben 70 giorni d’assenza.

Per magia del destino le stesse osservazioni valevano a Parigi nel

regno del Re Sole. L’astro tramontava 26° a nord dell’ovest l’ 8

maggio (festa di San Michele du Printemps, popolare nel medioevo)

e sorgeva 26° a sud dell’est il 6 agosto (festa della

trasfigurazione di Cristo). Ad accompagnarlo c’era di nuovo la

stella di Iside. Quando Le Notré copiò il progetto, i 26° di

Karnak passarono a Parigi. Il figlio del Sole, Ramses II,

rinasceva in Francia nel Re Sole, Luigi XIV.

La stessa inclinazione dei Champs-Élysées venne mascherata in un

famoso edificio a est del Louvre, qualche centinaio di metri più a

valle. É la maestosa cattedrale di Notre Dame sull’Ile de la Cité,

una singolare isoletta a forma di barca in mezzo alla Senna. Qui

l’allineamento di 26° è incorporato nell’asse della cattedrale

8 Si veda il breve racconto di fantasia inserito nel noto articolo sull'Esperimento Philadelphia.

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stessa, sorta sulle macerie della cattedrale di Santo Stefano,

poggiata a sua volta su un antico Iseion9. In un impeto di

conquista avevo promesso di sposarLa laggiù, nel gioco di vetrate,

ombre di santi ed echi di preghiere, immaginando il Suo abito

bianco che sfilava tra colonne e archi rampanti. Mi chiedo cosa

valga adesso quella promessa, ora che lei non c’è più ed io non

credo più nello stesso dio.

André Le Notre non lavorò secondo i propri dettami, ma seguì uno

schema comune con Christofer Wren e Gianlorenzo Bernini. Nel 1665

i tre architetti erano stati riuniti nella capitale francese per

un concordare un progetto che avrebbe portato Karnak a Parigi,

Eliopoli a Roma e che avrebbe ricostruito Londra sul modello

dell’albero sefirotico, dopo che l’incendio del 1666 ne aveva

cancellato i lineamenti. Sullo stesso modello si basava la

cappella del King’s College (costruita tra il 1446 e il 1544),

come emerge dalle carte di John Byron (1723 - 1786), un massone

della "Taverna del Cigno Nero" e parente acquisito del famoso

astrologo John Dee. Erano gli anni in cui i grandi architetti

venivano assorbiti dalla neonata massoneria, la vera erede di

Apope e Seqnenre. É strano che la gente non si accorga delle

"coincidenze", altrimenti avrebbe messo insieme questa strana

sequenza di eventi:

• 4 marzo 1665, scoppio di una guerra tra inglesi e olandesi;

• Luglio 1665, diffusione a Londra delle peste bubbonica e

conseguente morte di quasi 100.000 persone (1/5 dell’intera

popolazione londinese). Migrazione dalla capitale di ben 2/3

dei sopravvissuti;

• 2 settembre 1666, Grande Incendio;

• 1688, ascesa al trono di Guglielmo d’Orange e costruzione di

un nuovo centro finanziario per accogliere il nucleo operativo

dell’Occhio che Tutto Vede, in trasferimento da Amsterdam a

Londra.

L’Occhio che Tutto Vede è la testa del 'ragno'; la massoneria è

una delle zampe, che non sono otto, ma otto decine almeno. Il

progetto di Wren fu forse concepito per onorare i nuovi arrivati,

e l’incendio del ’66 fu la scusa ottimale per metterlo in pratica.

Il piano comprendeva la Cattedrale di St. Paul, con la sua

imponente cupola, copiata poco dopo nel Pantheon di Parigi e nel

Palazzo del Congresso a Washington DC. La cattedrale si innalza in

corrispondenza della Sephirah Tipheret (bellezza) dell’Albero

della Vita cabalistico (a cui si ispira la mappa della città post-

incendio). Dal punto di vista astrologico questa Sephirah

rappresenta il Sole, il centro dell’universo che emana la luce e

la vita. St. Paul doveva essere il centro spirituale della città

rigenerata, risorta dalle proprie ceneri come una fenice per

guidare sul cammino spirituale la rinata monarchia Stuart (appena

restaurata dopo la rivoluzione di Cromwell).

9 Come ha osservato lo storico parigino Jean Phaure, l’asse della cattedrale parte da un angolo di 23,5° a nord dell’ovest, ma

incorpora una deviazione volontaria finendo con 26° a nord dell’ovest.

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A Londra si trovava la sede inglese dei Templari, inizialmente

nella zona che oggi corrisponde ad High Holborn. Nel 1611 si

spostarono in una zona vicina che ancora oggi si chiama Temple

Bar. Qui si trova una chiesa a pianta circolare, secondo lo stile

tipico dell’Ordine, oltre ad alcune tombe di cavalieri. Tra le

proprietà dei Templari figurava anche la zona di Londra nota come

Strand e gran parte di Fleet Street la quale, fino a poco tempo

fa, fu sede dei giornali britannici nazionali. Il simbolo del

tabloid nazionale The Daily Express, che un tempo aveva il suo

quartier generale proprio in Fleet Street, è un cavaliere munito

di scudo recante il simbolo templare della croce rossa su sfondo

bianco. Le proprietà dei Templari si estendevano lungo le sponde

del fiume Tamigi, dove essi avevano i loro magazzini e uffici.

Durante il regno della regina Vittoria (r.1837-1901), l’Occhio che

Tutto Vede eresse un obelisco proprio in quella zona, e vi

affiancò una sfinge su entrambi i lati. L’Obelisco proveniva da

Eliopoli (come quello di Piazza San Pietro a Roma), e oggi è noto

come "Ago di Cleopatra"!

Dovrebbe essere chiaro che i tre aghi - di cui parlavano i

faccendieri di Losanna - sono proprio i tre obelischi di Parigi,

Londra e Roma. Dare un’occhiata oggi è impensabile, oltre che

inutile. L’anno scorso qualcuno ci è arrivato da sotto, scavando

gallerie. Hanno usato pompe pneumatiche e strisce di esplosivo,

sulla falsa riga del film Entrapment di Jon Amiel. Sotto

l’obelisco di Parigi e quello di Londra sono state recuperate due

scatole ermetiche di piombo. Una volta aperte col flessibile, al

loro interno hanno mostrato due pietruzze grezze di Uranio 236 e

Nettunio 237. In tutto questo c’è un problema: le scatole di

piombo sono state interrate nel 1800, ma c’è soltanto un posto

dove i minerali contenuti esistono allo stato naturale, e questo

posto è la Luna.

Sotto l’obelisco di Roma c’era invece una tela, il famoso quadro

di Nicholas Poussin, Les bergers d’Arcadie. Il nome di Poussin

viene a galla ogni qualvolta si parla di esoterismo o di "pensiero

sotterraneo". Poussin era nato nel 1594 a Les Andelys, un paesetto

vicino a Gisors, in Normandia. Proprio Gisors fu la città-

roccaforte dei Sinclair, una tra le famiglie più potenti

all’interno dell’Occhio che Tutto Vede. Di sangue vikingo, nel

1398 i Sinclair erano approdati in Nuova Scozia (Canada) in netto

anticipo su Colombo, grazie alla spedizione del barone Henry di

Rosslyn e del marinaio veneziano Antonio Zeno.

Nel 1623 Poussin eseguì sei tavole sulla vita di Ignazio di

Loyola per i gesuiti; arrivò in Italia nel 1624, sotto la

protezione del cardinale Barberini, ricco collezionista e mecenate

e, successivamente, incontrò Giambattista Marino, poeta alla corte

dei Medici che gli aprì le porte delle ricche famiglie romane. Per

la Basilica di San Pietro a Roma realizzò il "Martirio di

Sant’Erasmo" (1628 - 1629). Ripetutamente invitato a rientrare in

Francia, accettò soltanto nel 1640, quando venne a cercarlo il suo

amico più devoto, Paul Fréart de Chantelou. In patria fu ricevuto

con grandi onori: Luigi XIII (il padre del Re Sole) e il cardinale

Richelieu (consigliere del Re) gli chiesero di assumere la

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supervisione dei lavori del Louvre; fu perciò nominato primo

pittore del re e direttore generale degli abbellimenti dei palazzi

reali.

Le opere di Poussin sono un costante richiamo all’Alfeo, il

fiume che costeggia Olimpia e spinge le proprie acque nelle grotte

profonde dell’Arcadia, da qui per poi riemergere nella fonte

Aretusa in Sicilia. (Questa almeno è la credenza popolare.)

L’Alfeo è il simbolo naturale del pensiero occulto, associato alla

saggezza dei Pastori d’Arcadia e al motto ET IN ARCADIA EGO

(anagramma di Tego arcana Dei, "Io celo i misteri di Dio"). Il già

citato re Sole era ossessionato da Poussin, al punto che fece

imprigionare a vita il solo cortigiano che avesse avuto contatti

con il pittore: il sovrintendente alle finanze Nicolas Fouquet.

Luigi impedì ai funzionari di toccare le carte e la corrispondenza

di Fouquet, pretendendo di esaminarle personalmente e in privato.

I soldati che parlavano con lui erano mandati nelle galere o

impiccati. Fouquet mantenne la vita grazie all’intercessione della

Compagnia del Santo Sacramento, una potente confraternita

insediata nel seminario di San Sulpicio (un nome da tenere a

mente). Nel 1685 Luigi riuscì a procurarsi il quadro di Poussin I

Pastori d’Arcadia e finalmente poté rinchiuderlo nei suoi

appartamenti privati.

La tela trovata a Roma aveva però una differenza sostanziale: la

scena si svolgeva di notte anziché di giorno, e nel cielo si

stagliava nitida la luna piena.

8 Scintille dal Gruppo Estivo

Nell’estate 2003 avevo appena finito il primo anno di università

con risultati più che apprezzabili. Ero tornato a fare l’animatore

per il grest parrocchiale e per un mese avevo scordato i miei

problemi. Non ho mai capito come funzionasse, ma quand’ero in

mezzo ai bambini tutte le mie ansie scivolavano via. Con loro mi

sentivo migliore, orgoglioso di ciò che insegnavo e orgoglioso per

le cose semplici: le battute, gli scherzi e i quattro tiri a

pallone. Mi volevano bene, tutti quanti. Le ragazzine mi correvano

dietro e facevano a gara per mettersi in mostra, facendomi sentire

bello per quanto possibile. Ricordo i loro nomi e i loro volti;

riesco persino a confrontarli con quelli di adesso, a compiangerne

il candore perduto e a soffrire per le finte ribelli, o forse

dovrei dire "conformiste travestite da ribelli"10. Sono convinto

che molte di loro abbiano cambiato opinione e mi considerino il re

degli sfigati. Che mi importa? Non dimenticherò mai la gioia in

piazza a Bassano quando vincemmo i mondiali e portai Jessica sulle

spalle... non era amore né perversione, era il piacere di sentirsi

accettati.

Sia quel che sia, fatto sta che l’ex bambino timido era

diventato una bestia da palcoscenico, capace di afferrare un

microfono e trascinare la platea. L’anno precedente avevo legato

fortemente con Linda e Nicole, le ragazzine che per prime mi

10

L’espressione “conformisti travestiti da ribelli” è stata coniata da Marco Masini per il singolo Vaffanculo, 1993

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avevano messo sul piedistallo, e che per prime mi avevano visto

rotolare nella polvere. Avevo trovato mille scuse per mantere i

contatti, fregandomene delle chiacchiere di paese che mi

accusavano dei peggiori peccati. Nel 2003 le trovavo al mio

fianco, fiere colleghe e compagne di pizze sul cartone, mangiate

sul palco del teatro con le mani zeppe di pomodoro. Le avrei

abbandonate solo tre anni più tardi, accorgendomi a mie spese di

quanto fossero importanti. Erano finiti gli on-the-road, i lanci

col frisbee sul campetto del nostro wyoming, gli autogrill e le

luci dell’autostrada. Gli inverni erano di nuovo freddi. Soffrii

molto quando incontrai Linda e sentii accusare la mia scomparsa.

Senza saperlo ero stato il suo migliore amico, e me n’ero andato

senza permettere repliche. É tipico di me, fuggire da qualcuno

quando mi fa star bene. Allo stesso modo me ne fuggii dalla

ragazza ricciolina, dicendole che in fondo era soltanto sesso e

che lei meritava di meglio. Quando mi disse che io avevo bisogno

di fare il buono, che volevo fare il buono ma non lo ero, per un

po’ le credetti. Fu sempre Niki a farmi rinsavire, mandandomi a

fanculo, affermando che non aveva mai visto nessuno felice quanto

me in mezzo ai bambini. Forse allora ero buono per davvero.

Tra i ricordi più dolci si fa spazio una bimba che si diceva

innamorata pazza; non mi lasciava un solo istante e non perdeva

occasione per infilarmi in situazioni imbarazzanti, come se quasi

ci provasse gusto. Un giorno mi lasciò una lettera sopra lo zaino

alle piscine comunali, mentre mi allontanavo per una nuotata. Era

scritta con molte matite colorate e sul fondo era stato incollato

un piccolo orsacchiotto. Non ricordo il contenuto a memoria, ma

diceva qualcosa del tipo "l’amore non ha età", e poi la frase più

simpatica "le altre ragazze si innamorano per l’aspetto fisico ma

io mi sono innamorata perchè sei buono e gentile". Forse ero

proprio bruttino... Ho conservato quella lettera nel portafoglio

per anni finché l’ho persa insieme ai soldi e ai documenti, in

mezzo ai boschi della Sila.

Un altro ricordo, dolce, riguarda un’altra ragazza, anche lei

che portava quel nome: Sandy. Non so se fosse amore, perché lei

era troppo piccola rispetto a me, forse soltanto un affetto più

forte di altri. Sembrava di un altro paese: occhi azzurro cielo e

capelli lunghi, lisci e biondi. Non quel castano sbiadito che qui

chiamiamo biondo per accontentarci, ma una cascata di oro liquido

che brillava splendida sotto i raggi del sole.

Erano i giorni della mia buona stella, quando Nicole suonava la

chitarra nei corridoi dell’oratorio, ed io le ripetevo allo

sfinimento di quanto le stelle avessero a cuore la mia sorte.

La sorella di Sandy aveva più o meno la mia età e le stavo

decisamente sulle palle. Come darle torto? Le avevo dato della

prostituta... A mia difesa devo dire che non ero pienamente in me.

La mia patologia era ai massimi livelli e possedevo l’intelletto

di una locusta. Mi uscivano parole a caso, e quel "prostituta"

aveva preso il posto di "pagliaccia" usato tra l’altro in senso

ironico, per dire che la trovavo divertente. Ma vaglielo a

spiegare che si trattava di una strana dislessia e non di

un’offesa volentaria. Ci ho provato ma ho peggiorato le cose.

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Poi però accadde uno spiacevole imprevisto: la 'sorella' cadde

dall’albero della cuccagna durante la sagra del paese. Doppia

frattura a tibia e perone, scomposta e frammentaria. Per un po’

sembrò che quell’incidente segnasse la fine di una tradizione

secolare. Ma è stata lei stessa, forte come una montagna, a

battersi affinché la tradizione continuasse. La andai a trovare

all’ospedale, una, due, tre, quattro volte. Ero lì spesso. Molte

volte ci trovavo Steven, un ragazzino che riusciva a farmi ridere

e farmi scordare il mio dolore. Purtroppo la sua vita ha preso uno

strano percorso: è diventato il bello della zona, aveva donne in

ogni paese e si sentiva un dio. Quel dio che si credeva immortale

ha scelto la droga per celebrare la sua estesi, e infine è caduto

nello spaccio per aumentare ancor più ricchezza e prestigio.

Purtroppo la vita non può essere imbrogliata a lungo, e anche per

lui arrivarono le manette, le sbarre e la fine della gloria. Alla

fine sono rimaste soltanto le malelingue.

Comunque chi amavo di più in quella stanza era certo lei, Sandy,

che ogni volta mi imbottiva di biscottini al cioccolato. Recuperai

il rapporto con la sorella e anche Sandy lasciò cadere le ultime

barriere. Lei mi aveva sempre apprezzato, ma il giudizio della

sorella la condizionava pesantemente.

Vivevano in mezzo ai campi; non c’era una strada asfaltata nel

raggio di due chilometri. Per arrivare da lei costringevo le

sospensioni dell’auto a una tortura di buche e dislivelli. Ma ne

valeva la pena. In mezzo alla vigna potevamo sederci con un fiore

tra le labbra e fantasticare di stelle e castelli.

Era stata lei a farsi dare il mio numero. Ricordo chiaramente

quanta felicità mi venne addosso quel giorno. Suonò il cellulare:

un messaggio da un numero sconosciuto. Lessi: "Ciao, sono Sandy.

Spero non ti dispiaccia se ho chiesto il tuo numero a mia

sorella". Come poteva dispiacermi? Lei, la mia preferita, mi stava

cercando.

Quando compì quattordic’anni le scrissi una lettera...

Ciao Sandy, Buon Compleanno.

Per me in questi tempi è quasi divenuta una tradizione

scrivere una lettera per il compleanno di coloro che son

felice di trovare dentro la mia vita; mi piace scrivere,

per me è come se le parole riuscissero ad ancorarmi al

momento in cui le poso sul foglio, al pensiero delle

persone a cui sono rivolte. Ultimamente ti ho sentita

vicina, cosa insperata se ricordo com’era la situazione di

un anno fa, quel litigio con tua sorella che lei credo

abbia capito essere stato frutto di un periodo in cui non

stavo tanto bene con me stesso.

Non so se merito o sono in grado di darti dei consigli; ho

sentito tante persone dire "fai questo, non fare quello"

dettando principi e valori privati, principi in nome dei

quali tante vecchie si ritrovano sedute in sala d’aspetto

dal dottore o sui sedili di un autobus, permettendosi di

criticare ed etichettare.

Nei miei vent’anni o forse solo negli ultimi, ho capito che

l’unico valore che conta davvero è il rispetto, il

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chiedersi se quello che sto per fare porterà più del bene o

più del male a chi mi sta attorno, l’imparare a tapparsi le

orecchie alle chiacchiere, ragionare da soli strappandoci

dal cuore i germogli d’invidia.

So che crescerai bene e so che anche tu, come chiunque,

farai degli errori, grandi e piccoli, so che t’innamorerai,

piangerai e riderai, vedrai spiagge e montagne, mari e

laghi, che forte il vento soffierà tra i tuoi capelli, e

caldo e freddo sentiranno le tue mani e le tue labbra.

Non scordarti mai di guardare il cielo, forse non lo sai ma

ha bisogno del tuo pensiero, non scordarti mai di ascoltare

il mare, forse non lo sai ma ha bisogno di parlarti11, non

smettere mai di emozionarti di fronte ad un’alba od al

primo fiore che sboccia in primavera, perché è in questa

semplicità che l’anima trova la serenità della sua casa.

Ti auguro di andare lontano, di superare i tuoi sogni più

profondi e di non dimenticare mai di crearne nuovi, ti

auguro di tenere un giorno tra le braccia un bimbo che ti

chiami mamma.

Spero ci rincontreremo lungo la strada od almeno, se così

non sarà, se il tempo o gli uomini ci allontaneranno, spero

ci ritroveremo una sera con lo sguardo alzato al cielo a

guardare la stessa stella tra le stelle. Trovo affascinante

pensare a quegli uomini che migliaia di anni fa, seduti

attorno a un fuoco, innanzi una capanna ci vedevano storie

di eroi e chimere e i volti di padri che solo il ricordo e

la tradizione tenevano in vita. Mi piacerebbe accendere lo

stesso fuoco un giorno e guardando il firmamento, leggere

le nostre storie per riscoprirci tutti i particolari che

avremo scordato, tutti gli amici e gli amori persi e

ritrovati, i viaggi, i sorrisi e le grida, così... ,per

poter portarli con me nella gita finale, quando il fiore,

stanco e appassito si chiuderà per l’ultima volta...

Ancora Buon 14esimo Compleanno!

Divenni "di casa" e anche sua mamma cominciò a volermi bene.

Qualche domenica più tardi Sandy avrebbe voluto andare in

discoteca di pomeriggio, al Theatro. Sua madre giustamente era

preoccupata, perché nessuna tra le amiche di infanzia, quelle che

lei conosceva bene, sarebbe stata con sua figlia. Ci andavo

anch’io ogni tanto in quella disco, e probabilmente Sandy ne era

cosciente quando mi scrisse quel messaggio: "Cosa fai oggi? Io

volevo andare al Theatro ma non sono riuscita a convincere mia

mamma". Bastò davvero poco, "Dille che ti accompagno volentieri

io", le risposi. Sua madre acconsentì. Mi vedeva come un figlio

acquisito, il fratello maggiore di Sandy. Ebbe da ridire più

tardi, quando scoprì che provavo per lei dei sentimenti. Per

qualche mese mi guardò col broncio, ma poi ci parlammo e comprese

che mai e poi mai avrei alzato un dito su sua figlia.

Quella domenica ricevetti un altro messaggio: "Ti mette a

disagio se mi metto la minigonna?". Non ho ancora capito perché

11

Ispirato a Non Scordarti Mai, una canzone di Leano Morelli

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mai avrebbe dovuto dispiacermi. Godere della sua bellezza, sia

pure da critico distaccato, sarebbe stato comunque un privilegio.

Era una gonna corta, bianca e pieghettata, da cui scivolavano due

gambe lunghe e rosa porcellana.

Quando il mio amore venne a galla, anche lei si allontanò,

insieme alla madre. Servì un’altra lettera per farle sapere ciò

che non potevo più dirle di persona:

Un giorno di tanti giorni fa ho trovato un messaggio sul

telefono... un numero nuovo... ciao... spero non ti

dispiaccia se mi son presa il tuo numero... non era

inaspettato... era bello... Oggi a quel numero avrei voluto

chiamarti, non so infine perchè non l’ho fatto, forse

perchè di preciso non avrei saputo che dirti, volevo sapere

come stai, come vivi; sono passati molti giorni dalle

nostre ultime parole e mi dispiaccio poichè avrebbero

potuto essere migliori. Non sono stato ottimo con te quella

sera, non ero al meglio, troppe cose non andavano allora,

qualcuna è stata sistemata, altre ancora no, troppo forte

era il bisogno di una donna che mi stesse accanto e troppo

facile era cercarla in te, avrei voluto importi quel ruolo,

almeno nella mia testa, per rendere perfetta almeno una

parte della mia vita. Forse troverai note tristi nelle mie

parole, non voglio te ne preoccupi, io sono uno che cade e

si rialza, purtroppo a volte perdo la testa quando sono a

terra e quella luce perduta, mia ispiratrice in tanti

scritti, a volte è madre di atti che non vorrei. Mi

piacerebbe tornare a quella sera in collina, non so se la

ricordi banale, a volte me ne hai dato la sensazione, ma

quella è stata l’ultima volta in cui siamo stati fratello e

sorella, poi tutto se n’è andato e si è spento, siamo

diventati due conoscenti per cui un "ciao" può bastare...

vorrei riabbracciarti, un abbraccio meno forzato di quella

sera a casa tua, vorrei guardarti negli occhi in silenzio

aspettando le tue parole, vorrei passare una notte in giro

assieme a guardare le luci degli uomini e quelle più alte

di Dio, ma chissà, potrei tornare ad innamorarmi di te e

ancora ne soffriremmo, ne soffrirei... Non ti chiedo che

una cosa, fa che non sia tutto qui, fa che il mio ricordo,

quando ne tocchi per caso la corda, non suoni come la voce

di uno qualunque, dagli almeno un posto caldo accanto al

tuo cuore ove possa salvarsi al tempo e agli sbagli.

Oggi sono tornato lassù, mi sono seduto sul palco e ho

guardato verso il mare, il mare che mi immagino nasconda e

confonda l’orizzonte, e ti ho rivista seduta con le

ginocchia sollevate di fronte a me, ma non m’è rimasto che

il profumo dell’edera selvatica cresciuta a ridosso del

muro... Io ti voglio bene... ancora...

Per un po’ in discoteca dovetti andarci con Steven e un altro

amico dei suoi. Per loro fortuna non ero cosciente dei carichi di

droga che portavo in macchina. Altrimenti li avrei smontati in una

cava e li avrei presi a calci in culo fino a farli rinsavire.

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9 Una lettera dall’inferno

Avete mai scritto un testamento? Io sì, e senza il minimo accenno

ai patetici beni di mia proprietà. É stato soltanto il mio ultimo

saluto al mondo, e un grazie, per le brevi gioie del cuore. Anche

stavolta è stato inutile, un po’ come quei saluti che rivolgi ai

compagni di viaggio pensando di non vederli mai più, ma che poi ti

ritrovi ancora di fianco e guardi con imbarazzo nel tragitto tra

la stazione e il centro.

Una sera di agosto ero appena uscito dalla stanza numero 6 del

reparto di ortopedia, dove la sorella di Sandy era bloccata da

quasi 15 giorni. Al di là delle finestre il sole si mostrava basso

sull’orizzonte e si univa all’odore acre di disinfettante per

spargere malinconia nei corridoi. Ed eccolo lì, appena oltre le

porte scorrevoli, che spingeva a fatica nell’atrio la carrozzina

di una donna anziana. Era il cardinale Quirini, un uomo di chiesa

che aveva superato da poco gli ottant’anni, mentre la donna

paraplegica era la sorella, ancora più anziana di lui. Gli passai

di fianco e mi fermò, uno fra tanti, chiedendo una mano per

avvicinare la carrozzina agli ascensori. Lo aiutai, non tanto per

la toga quanto per l’età, e mi offrii spontaneamente di allungare

il mio favore fino in camera. La donna era in visita al marito che

si trovava in terapia intensiva e, quando fummo davanti la stanza,

chiese cortesemente di entrare da sola. Così me ne stetti a

chiacchierare al di là del vetro con il signore dalla coppola

rossa, un uomo stranamente di ampie vedute per il ruolo che

ricopriva.

Ad un certo punto mi sentii abbastanza in sintonia per potermi

confidare, sperando che dall’alto dei suoi anni potesse trovare

una spiegazione ai miei problemi. Credevo ancora che la Chiesa

avesse una risposta per ogni quesito, però che la tenesse nascosta

per impedire vendette private. Purtroppo dovetti ricredermi,

perché il cardinale iniziò a raccontare una storia senza senso,

quasi una favola per bambini che non c’entrava nulla con la nostra

discussione: "Un gruppo di uomini uscì dall’Egitto ai tempi

dell’Esodo" attaccò "e strinse un patto con alcune società segrete

disperse tra la Siria e Babilonia."

"Partiamo da lontano..." commentai irrisorio, ma mi ignorò e andò

avanti.

"Di comune accordo inquinarono i vertici della comunità ebraica e

più tardi di quella cristiana; gli stessi uomioni avrebbero

comprato i giornali, creato banche, fondato multinazionali e

infangato i governi. Oggi sono loro che succhiano il sangue

dell’Africa e ne fanno carburante per il consumismo da essi stessi

attivato in Europa e America. Tutto era iniziato in un periodo di

violenti cataclismi: inondazioni, terremoti ed eruzioni

vulcaniche. Questi eventi avevano spinto i popoli ad eleggere un

comitato di eletti, uomini fidati che avrebbero avuto la gestione

delle risorse economiche e il compito di proteggerle. Al principio

si trattava di sementi, specie animali, utensili, indumenti,

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ceramiche, ma col tempo si aggiunsero le armi, le memorie scritte,

l’oro, e infine il peggiore di tutti, il denaro. Al comitato

spettava l’elezione di un nuovo re qualora si interrompesse la

successione dinastica, e la loro scelta era al contempo

irrevocabile e indiscutibile. Ancora oggi viene fatto dalle banche

centrali, seppure in modo subdolo, manovrando i mass media e

tramite essi l’opinione pubblica. Se all’inizio gli intenti erano

buoni, col tempo il ricordo degli eventi si affievolì e il

comitato dimenticò il motivo della sua nascita: preservare il

progresso umano da ogni possibile catastrofe. Il potere li rese

avidi e bramosi di ulteriore controllo. In quel momento era già

troppo tardi per tornare indietro; ormai erano abbastanza forti da

sopravvivere per millenni, fino al giorno d’oggi."

"E questo cosa c’entra?" gli chiesi stizzito.

"C’entra, perché questi uomini controllano tutto. Hanno la

tecnologia e ne dispongono l’utilizzo. La usano per fare avverare

profezie e rafforzare la suggestione dei popoli. Non mi

sorprenderei se usassero la stessa tecnologia per disturbare le

menti".

A quel punto pensai che fosse uscito di senno. Lo ringraziai per

la chiacchierata e lo salutai avvicinandomi all’uscita. "Stammi

bene ragazzo... e alza gli occhi al cielo ogni tanto." "Intendi a

dio?" "Un po’ più vicino". Era serio (pensava alla luna). Me ne

fregai, schioccai la lingua sul palato e mi diressi verso casa.

Quando arrivò la notte maledetta mi mancava l’odore del fieno, i

pomeriggi passati a bordo della roggia ad inseguire raganelle.

Molte volte mi sono seduto sull’erba bagnata con un quaderno in

mano per raccogliere poesie dall’armonia dell’acqua. Anche di

notte ci andavo a piedi per smaltire una sbornia o soltanto per

chetare la malinconia, sperando magari che mi raggiungesse

Sabrina, la figlia dei vicini dai capelli biondi. Oggi mi manca di

più, come mi manca mio nonno; per quanto gretto e limitato ho

sempre provato ammirazione per la sua instancabile dedizione alla

vita contadina e in generale per la sua forza. Mi sembra strano

non vederlo più sul trattore o in mezzo alla polvere col rastrello

in mano. Mi avrebbe battuto a braccio di ferro fin prima di

salutarci. Ma adesso i campi non ci sono più... venduti dalle zie

al migliore offerente. Non ci sono più le mucche, ne il latte che

ogni sera andavo a prendere a casa sua, seguito a ruota da Daisy

per cui la frase "andiamo a prendere il latte" significava

"andiamo dalla nonna che magari ti dà un pezzo di carne". Anche

Sabrina se n’è andata. Ha preso un aereo e se ne sta ad un bancone

dei Caraibi, aspettando che un marinaio la porti via con lui.

É da alcune righe che tergiverso, aspettando il momento

opportuno per parlare di qualcosa che mi fa soffrire al solo

pensarci. Evidentemente quel momento non esiste, ne per parlarne

al mondo, ne per parlarne a pochi intimi. Arriva il momento

dell’inevitabile rivelazione, e non è mai opportuno. Ero sdraiato

sulle gradinate della piscina comunale quando la voce

dell’altoparlante mi convocò in portineria, dove mio padre mi

chiese di cambiarmi e di correre a casa perchè mia sorella stava

male. Ci cascai come un idiota, ancora convinto che esistessero

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due mondi, quello reale e le mie "fantasie" popolate di demoni,

due mondi che mai avrei creduto venissero in contatto. Mia sorella

era in testa al divano, accartocciata contro i cuscini con il

volto con l’espressione catatonica. Poi alzai lo sguardo sul

tavolo della cucina e notai un foglio di carta a righe con

impressa la mia scrittura. Mi ero scordato di toglierlo dal

cassetto del comodino - tanto nessuno apriva mai quel cassetto - e

mia sorella aveva aperto il cassetto, alla ricerca di qualcosa che

non seppe mai spiegare. Ebbi un mezzo mancamento e iniziai a

piangere, gridando tra le lacrime che nessuno avrebbe dovuto

saperlo, che quello era il mio mondo nascosto e che non aveva

nulla a che fare con il mondo esterno. Dissi che quel mondo "non

esisteva". Invece era fin troppo reale, perché per ben due notti

aveva cercato di uccidermi. La pazzia possiede sfumature che non

si trovano nei film. Così in quelle notti ero convinto di non

respirare. Ero io che bloccavo i polmoni ma non me ne rendevo

conto. Se volevo respirare dovevo gonfiare e sgonfiare

coscientemente lo sterno e, non appena provavo a staccare la

mente, la respirazione si fermava, soffocavo... Ero sempre io a

fermarla, ma non me ne rendevo conto. Ora so che basta la fiducia

nel mio corpo e tutto si muove secondo i ritmi naturali. Basta

questo pensiero e il mio respiro va da sé mentre la mia mente

viaggia in mille più felici orizzonti. Per due notti però me

stetti a soffocare, invaso dall’ansia e dal sangue che inondava il

mio petto raffreddandolo. Di giorno riuscivo a distrarre la mente

con un tuffo in piscina: l’abbraccio dell’acqua era come la

carezza rincuorante di una mamma, la stessa che poco dopo avrei

cercato nella preghiera alla Madonna. Ma la seconda notte capii -

credetti di capire - che la sola soluzione fosse darmi la morte,

ma prima avrei dovuto salutare. I bambini del grest mi avevano

fatto capire il senso della vita, l’amore gratuito che poi

gratuito non è, perché il sorriso di ritorno è energia allo stato

puro. Grazie a loro mi ero sentito utile, un pezzo di un grande

puzzle che valeva quanto gli altri ma che era indispensabile

all’armonia dell’intero disegno. Salutai Amy, la ragazzina del

ballo che mi avrebbe salvato, e con lei tutti gli altri bambini

che mi avevano regalato un momento speciale, uno alla volta.

Aggiunsi che il diavolo mi stava perseguitando da cinque anni e

che ormai non c’era nulla da fare.

Dopo quella lettura i miei genitori credettero che odiassi la

mia vita e la volessi terminare. In verità era tutto il contrario:

io amavo la mia vita, in quei tempi più che mai, ma non ero più in

grado di viverla e non ero più in grado di reggere il dolore,

fisico e mentale. Fecero quello che era in loro potere

conformemente alla loro cultura: fui mandato dall’esorcista. Mia

sorella si riprese lentamente dallo shock grazie alla presenza

continua dei miei genitori che prontamente la portarono a

Gardaland e a Caneva World. Finalmente li aveva tutti per sé,

senza spartirli con quello strano fratello che in molti ritenevano

geniale ma che evidentemente si mostrava inetto nei rapporti

umani.

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Quel fratello le avrebbe rovinato la vacanza. L’ultimo giorno

erano a Caneva quando arrivò la chiamata di mia zia. Non dormivo e

non mangiavo da tre giorni. Ero sopravvissuto alla mia festa di

compleanno ubriacandomi di birra e superalcolici per non sentirmi

soffocare. Avevo vomitato a destra e a manca come un cane malato.

I miei genitori non ebbero altra scelta: dovettero anticipare il

ritorno, sottraendo mia sorella agli scivoli d’acqua per

ricordarle - loro malgrado - lo stesso episodio che cercava di

dimenticare.

Ció che ebbe inizio quel giorno fu una bella lavata di cervello

il cui unico risultato fu aumentare le mie paure e chiudermi in

gabbie dorate sorvegliate dalla religione. Preoccupato dei miei

peccati, concentrato nella messa e nel rosario, anche l’azione più

ridicola e naturale finiva per ferirmi, convinto com’ero che un

pensiero avverso o una sega solitaria aprissero le porte a Satana.

Fu solo all’inizio che l’effetto placebo servì a chetare la mia

ansia e tenermi in vita, unito ad uno strano episodio accaduto

alla sagra di quell’anno e che riguardava un’altra delle mie

bambine. Ad ogni modo, chi più di tutti mi aiutò con fatti chiari

e parole impegnate fu soltanto Niki. Dopo il mio compleanno venne

lei, con Linda, a pulire lo stabile dove avevo fatto festa. Di lei

mi innamorai... fu la seconda, la prima dopo Sandy. Di lei avevo

già scritto anni orsono; pertanto, per non violare l’integrità di

quei pensieri, mi limiterò a copiare una lettera di addio.