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LABORATORIO SOCIOLOGICO LABORATORIO SOCIOLOGICO FrancoAngeli 18,00 (U) CAMBIAMO DISCORSO È possibile collocare le scienze discorsive con piena legittimità nell’alveo del rigore scientifico? Quale rapporto intercorre tra teoria e prassi nell’ambito degli interventi svolti dalle professioni che si inscrivono in quei paradigmi, come quelle sociali? È possibile generare interventi che rispondano a criteri di scien- tificità, ovvero che, a partire da obiettivi descrivibili, individuino strategie e indi- catori di efficacia ed efficienza e siano quindi accountable? Infine è possibile rendere disponibili per il ruolo di assistente sociale modelli applicativi che per- mettano la definizione di obiettivi “terzi” nell’intervento e quindi la collocazione nel ruolo? Questo libro si fonda sulla prospettiva aperta dall’interazionismo simbolico e dalla filosofia analitica, sulle tracce di quanto elaborato da Nigel Parton e Pa- trick O’Byrne in Inghilterra, per proporre il paradigma narrativistico e il model- lo dialogico – formulati da Gian Piero Turchi – come riferimenti di conoscenza ed operatività per l’intervento sociale e per rispondere alle criticità che vedono affermare, impropriamente, una cesura tra teoria e prassi. La svolta paradigmatica proposta apre un orizzonte in cui la modalità cono- scitiva appare adeguata all’oggetto di studio (i discorsi) e il modello teorico ge- nerato si attesta nel realismo concettuale. In virtù di ciò, l’operatore piuttosto che essere pervaso dal senso comune, diventa esperto su come questo si ge- neri, e quindi competente non per i contenuti sostantivi (la “tossicodipenden- za”, la “devianza”, la “malattia mentale”, la “povertà”) e per i supposti bersagli dell’intervento (i “bisogni”, il “disagio”, il “benessere” etc.), ma per il processo di configurazione della realtà nella dimensione personale e collettiva. Secondo quanto asserito da W.I. Thomas per cui «se gli uomini definiscono certe situa- zioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze», gli effetti pragmatici e evenemenziali sono considerati come secondari alle configurazioni discorsi- ve che si generano nell’ambito della matrice collettiva; ciò comporta che l’o- biettivo operativo dell’intervento sociale sia proprio la trasformazione discorsi- va e, per dirla con il titolo del libro, il cambiare discorso. Luigi Colaianni è dottore di ricerca in servizio sociale, assistente sociale spe- cialista, alcologo e formatore. Insegna discipline sociologiche e del servizio so- ciale in varie università italiane. È referente per il nodo italiano del network eu- ropeo DANASWAC (Discourse And Narrative Approach to Social Work And Counselling). Patrizia Ciardiello è assistente sociale specialista, educatore e formatore. È funzionario del Ministero della Giustizia e dirige l’Ufficio del Garante dei diritti delle persone limitate nella libertà presso la Provincia di Milano. CAMBIAMO DISCORSO Diagnosi e counselling nell’intervento sociale secondo il paradigma narrativistico a cura di Luigi Colaianni e Patrizia Ciardiello 1044.64 Colaianni, Ciardiello CAMBIAMO DISCORSO Manualistica, didattica, divulgazione ISBN 978-88-568-0065-4 9 788856 800654 1044.64 1-07-2008 16:15 Pagina 1

Cambiamo discorso

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Diagnosi e counselling nell'intervento sociale secondo il paradigma narrativistico

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LABORATORIO SOCIOLOGICO LABORATORIO SOCIOLOGICO

FrancoAngeli€ 18,00 (U)

CAMBIAMO DISCORSO

È possibile collocare le scienze discorsive con piena legittimità nell’alveo delrigore scientifico? Quale rapporto intercorre tra teoria e prassi nell’ambito degliinterventi svolti dalle professioni che si inscrivono in quei paradigmi, comequelle sociali? È possibile generare interventi che rispondano a criteri di scien-tificità, ovvero che, a partire da obiettivi descrivibili, individuino strategie e indi-catori di efficacia ed efficienza e siano quindi accountable? Infine è possibilerendere disponibili per il ruolo di assistente sociale modelli applicativi che per-mettano la definizione di obiettivi “terzi” nell’intervento e quindi la collocazionenel ruolo?

Questo libro si fonda sulla prospettiva aperta dall’interazionismo simbolico edalla filosofia analitica, sulle tracce di quanto elaborato da Nigel Parton e Pa-trick O’Byrne in Inghilterra, per proporre il paradigma narrativistico e il model-lo dialogico – formulati da Gian Piero Turchi – come riferimenti di conoscenzaed operatività per l’intervento sociale e per rispondere alle criticità che vedonoaffermare, impropriamente, una cesura tra teoria e prassi.

La svolta paradigmatica proposta apre un orizzonte in cui la modalità cono-scitiva appare adeguata all’oggetto di studio (i discorsi) e il modello teorico ge-nerato si attesta nel realismo concettuale. In virtù di ciò, l’operatore piuttostoche essere pervaso dal senso comune, diventa esperto su come questo si ge-neri, e quindi competente non per i contenuti sostantivi (la “tossicodipenden-za”, la “devianza”, la “malattia mentale”, la “povertà”) e per i supposti bersaglidell’intervento (i “bisogni”, il “disagio”, il “benessere” etc.), ma per il processodi configurazione della realtà nella dimensione personale e collettiva. Secondoquanto asserito da W.I. Thomas per cui «se gli uomini definiscono certe situa-zioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze», gli effetti pragmaticie evenemenziali sono considerati come secondari alle configurazioni discorsi-ve che si generano nell’ambito della matrice collettiva; ciò comporta che l’o-biettivo operativo dell’intervento sociale sia proprio la trasformazione discorsi-va e, per dirla con il titolo del libro, il cambiare discorso.

Luigi Colaianni è dottore di ricerca in servizio sociale, assistente sociale spe-cialista, alcologo e formatore. Insegna discipline sociologiche e del servizio so-ciale in varie università italiane. È referente per il nodo italiano del network eu-ropeo DANASWAC (Discourse And Narrative Approach to Social Work AndCounselling).

Patrizia Ciardiello è assistente sociale specialista, educatore e formatore. Èfunzionario del Ministero della Giustizia e dirige l’Ufficio del Garante dei dirittidelle persone limitate nella libertà presso la Provincia di Milano.

CAMBIAMO DISCORSODiagnosi e counsellingnell’intervento socialesecondo il paradigma narrativisticoa cura di Luigi Colaiannie Patrizia Ciardiello

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Manualistica,didattica,divulgazioneI S B N 978-88-568-0065-4

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È possibile collocare le scienze discorsive con piena legittimità nell’alveo del rigore scientifico? Quale rapporto intercorre tra teoria e prassi nell’ambito degli interventi svolti dalle professioni che si inscrivono i quei paradigmi, come quelle sociali? È possibile generare interventi che rispondano a criteri di scientificità, ovvero che, a partire da obiettivi descrivibili, individuino strategie e indicatori di efficacia ed efficienza e siano quindi accountable? Infine è possibile rendere disponibili per il ruolo di assistente sociale modelli applicativi che permettano la definizione di obiettivi “terzi” nell’intervento e quindi la collocazione nel ruolo?

Questo libro si fonda sulla prospettiva aperta dell’interazionismo simbolico e dalla filosofia analitica, sulle tracce di quanto elaborato da Nigel Parton e Patrick O’Byrne in Inghilterra, per proporre il paradigma narrativistico e il modello dialogico - formulati da Gian Piero Turchi - come riferimenti di conoscenza ed operatività per l’intervento sociale e per rispondere alle criticità che vedono affermare – impropriamente -una cesura tra teoria e prassi.

La svolta paradigmatica proposta apre un orizzonte in cui la modalità conoscitiva appare adeguata all’oggetto di studio (i discorsi) e il modello teorico generato si attesta nel realismo concettuale. In virtù di ciò, l’operatore piuttosto che essere pervaso dal senso comune, diventa esperto su come questo si generi, e quindi competente non per i contenuti sostantivi (la “tossicodipendenza”, la “devianza”, la “malattia mentale”, la “povertà”) e per i supposti bersagli dell’intervento (i “bisogni”, il “disagio”, il “benessere” etc.), ma per il processo di configurazione della realtà nella dimensione personale e collettiva. Secondo quanto asserito da W.I. Thomas per cui «Se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze», gli effetti pragmatici e evenemenziali sono considerati come secondari alle configurazioni discorsive che si generano nell’ambito della matrice collettiva; ciò comporta che l’obiettivo operativo dell’intervento sociale sia proprio la trasformazione discorsiva e, per dirla con il titolo del libro, il cambiare discorso.

Luigi Colaianni è dottore di ricerca in servizio sociale e assistente sociale

specialista, alcologo e formatore. Insegna discipline sociologiche e del servizio sociale in varie università italiane. È referente per il nodo italiano del network europeo DANASWAC (Discourse And Narrative Approach to Social Work And Counselling).

Patrizia Ciardiello è assistente sociale specialista, educatore e formatore. È

funzionario del Ministero della Giustizia. Attualmente dirige l’Ufficio del Garante dei diritti delle persone limitate nella libertà presso la Provincia di Milano.

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Prefazione di Guido Giarelli

Ci sono molte buone ragioni per salutare con grande piacere la pubblicazione di

questo lavoro di Luigi Colaianni e Patrizia Ciardiello dedicato all’intervento sociale secondo il paradigma narrativistico. La prima, e fondamentale, è che esso risulta basato su di una robusta fondazione teorica che, si sia concordi o meno, permette comunque di interloquire su solide basi argomentative raramente rintracciabili nell’ambito del lavoro sociale.

La seconda è che il volume risulta attraversato da un ethos costante che porta gli autori ad affrontare con passione professionale eticamente orientata problematiche e pratiche professionali come l’assessment ed il counselling con grande onestà intellettuale e rigore mentale, prima ancora che con dovizia di argomentazioni teoriche ed epistemologiche.

La terza ragione, last but not least, è lo sforzo di cui sono testimoni il quarto e il quinto capitolo del volume di esemplificazione applicativa dell’approccio proposto con studi di caso e contestualizzazioni che ne evidenziano le possibilità euristiche e la spendibilità pratica nell’ambito di campi quali l’esecuzione penale, la mediazione e il consumo di sostanze tossiche psicoattive.

Entrando poi nel merito dell’approccio proposto, esso ha il suo punto focale in quello che viene definito il “paradigma narrativistico”, basato sul ben noto assunto di W.I. Thomas che considera la realtà come generata dai processi discorsivi che la definiscano in quanto tale ad opera dei differenti attori che operano in un determinato contesto sociale: coerentemente con tale assunto teorico-epistemologico di matrice costruzionista, il testo sviluppa poi le diverse strategie professionali che, sulla base di un modello definito “dialogico-interattivo”, consentono di individuare e di modificare le differenti configurazioni di realtà generate a partire dalle pratiche discorsive prodotte dagli attori sociali entro un certo contesto e secondo determinati repertori discorsivi. In ciò seguendo e sviluppando il modello dialogico proposto da Gian Piero Turchi, in alternativa sia al modello biomedico classico, sia al modello bio-psicosociale.

Poiché il lavoro degli autori si rifà espressamente al “constructive social work” elaborato in Gran Bretagna da Nigel Parton e Patrick O’Byrne, ci pare qui opportuno richiamarne brevemente le basi fondative e le opportunità applicative. La loro proposta nasce sostanzialmente dal bisogno di sfuggire alla crescente proceduralizzazione e standardizzazione subita dal lavoro sociale nel corso degli ultimi anni in sintonia con altre professioni sociali e sanitarie sull’onda dei processi di onnipervadente managerializzazione dei servizi alla persona. Il buco nero rappresentato dall’assenza di concetti e teorie adeguate per la pratica sociale è stato così spesso colmato da linguaggi e pratiche oscillanti fra il tecnicismo e il senso comune.

Il bisogno di tornare a capire ciò che accade tra l’operatore sociale e l’utente dei servizi porta gli autori a sviluppare un’analisi critica dettagliata del linguaggio e dei discorsi impiegati nella relazione di aiuto per indurre il cambiamento

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comportamentale. La necessità di una teoria per la pratica sociale che consenta di andare al di là del semplice trattamento burocratico dei bisogni stereotipizzati entro categorie standardizzate di senso comune porta a rivalutare la creatività e la competenza dell’operatore sociale nell’affrontare le relazioni umane ben al di là del classico lavoro di caso, basato su di un approccio psicodinamico. Da qui l’importanza di un approccio interazionista-simbolico alle modalità con cui le persone attribuiscono significato alle proprie esperienze quotidiane e, conseguentemente, orientano le proprie azioni, atteggiamenti e sentimenti al fine di poterne agire i significati e le percezioni della propria esperienza in un’ottica di mutamento.

La proposta del constructive social work si muove quindi sulla scia della definizione di Blumer che è l’asserzione di un problema sociale che lo manifesta come tale: se si distingue infatti tra una data situazione sociale come condizione oggettiva empiricamente rilevabile e misurabile dalla medesima come definizione soggettiva da parte degli attori sociali che la considerano una forma di devianza dalle norme sociali, è quindi quest’ultima a trasformare la situazione in un problema sociale. Decostruire il processo attraverso cui determinate aree della vita sociale divengono socialmente problematiche, attraverso pratiche discorsive retoriche costituisce dunque la premessa indispensabile a consentire la possibilità per il soggetto di sviluppare discorsi alternativi: e ciò non può che avvenire sotto forma di un processo di interazione dialogica e negoziata che porti a nuove definizioni condivise in grado di produrre nuove relazioni sociali e nuove forme di autopercezione del Sé.

Al di là dei suoi fondamenti teorici, ci pare che l’approccio proposto presenti più di una opportunità applicativa per quanto riguarda il lavoro sociale. Anzitutto, in tempi di “pensiero unico” sempre più dominante anche in questo ambito professionale per stanchezza o insipienza creativa, la sua insistenza su di un atteggiamento critico nei confronti di ogni modalità data per scontata di comprensione del mondo fondata sul senso comune non può che costituire un valido antidoto. Problematizzare l’ovvio, il “reale” e il sapere professionale convenzionale su di esso costruito costituisce un esercizio di igiene mentale preliminare alla decostruzione dell’empirismo positivista che appare ancora informare questa, come altre pratiche professionali.

In secondo luogo, la storicizzazione e relativizzazione delle categorie cognitive professionali impiegate nel lavoro sociale non può che costituire la necessaria premessa alla possibilità di un autentico incontro dialogico con l’utente inteso come altro da sé, percepito nella sua alterità e nelle sue possibilità di costruzione discorsiva differente: ma con la quale sia allo stesso tempo possibile stabilire una qualche forma di interazione dialogica in nome della comune umanità, della condizione condivisa di persone.

Infine, sulla base di tale processo di interazione negoziata si apre lo spazio del possibile come rottura dell’apparente corazza impenetrabile del “reale” verso orizzonti trasformativi scientificamente fondati che consentano – come ricordano gli autori nelle loro Conclusioni – di “far galleggiare il ferro sull’acqua e nell’aria”. Campus di Germaneto (CZ), 15 giugno 2008.

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Indice Prefazione, di Guido Giarelli pag. 9 1. Introduzione » 13

1.1. Perché un libro sulla diagnosi e il counselling nell’intervento sociale

»

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1.2. Diagnosi sociale, valutazione e assessment » 16 1.3. Il counselling sociale » 23 1.4. Un processo narrativo con risultati reali » 25

2. Lo scarto di paradigma » 28 3. Agency e paradigma narrativistico » 34

3.1. Paradigma narrativistico e modello dialogico » 37 3.2. I cardini della metodologia » 46

4. La prassi » 55

4.1. Relazioni di assessment a confronto » 55 4.2. Tre studi di caso » 71

4.2.1. Gina » 72 4.2.2. Romualdo » 83 4.2.3. Maria » 91

4.3. La generazione e l’impiego degli artifici retorici » 109 4.3.1. Il modello semiotico-costruzionista della comunica-

zione

»

110 4.3.2. «E la signora Pina?» » 112

5. Paradigma narrativistico e ambiti di intervento » 119

5.1. Paradigma narrativistico e intervento sociale nell’ambito dell’esecuzione penale degli adulti

»

119

5.1.1. Paradigma narrativistico, osservazione scientifica della personalità e trattamento degli autori di reato

»

122

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8

5.1.2. Paradigma narrativistico e mediazione nell’esecuzione penale

»

132

5.1.2.1. La mediazione nel settore dell’esecuzione penale degli adulti

»

138

5.1.2.2. Breve storia di una svolta nel pensiero su diritto, conflitti e amministrazione della giustizia

»

142

5.1.2.3. Quale mediazione » 147 5.2. Paradigma narrativistico e intervento sociale nell’ambito

del consumo di sostanze psicotrope stupefacenti

»

158 5.2.1. Definizione del destinatario dell’intervento, dell’obiettivo e delle strategie

»

158

5.2.2. La riorganizzazione dei servizi nella prospettiva del modello dialogico

»

162

5.2.3. La valutazione dell’efficacia dell’intervento » 168

Conclusioni » 173 Appendice. Glossario dei repertori discorsivi » 181 Riferimenti bibliografici » 193 Gli autori » 205

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1. Introduzione

Studia prima la scientia e poi seguita la praticha nata da essa scientia. Quelli che s'innamorano di pratica senza scientia sono

come li nocchieri che entran in naviglio senza timone o bussola. Leonardo da Vinci, C. Urb, fol. 32r.

1.1. Perché un libro sulla diagnosi e il counselling nell’intervento sociale

La definizione della mission del servizio sociale, su cui sia la comunità

professionale, sia quella scientifica ormai concordano, trova enunciazione in quanto scrive la International Federation of Social Work, nel documento con-cordato nel meeting di Montreal nel 2000, con le seguenti parole:

The social work profession promotes social change, problem solving in human re-lationships and the empowerment and liberation of people to enhance well-being. […] Social work in its various forms addresses the multiple, complex transactions between people and their environments. Its mission is to enable all people to de-velop their full potential, enrich their lives, and prevent dysfunction. Professional social work is focused on problem solving and change. As such, social workers are change agents in society and in the lives of the individuals, families and com-munities they serve. Social work is an interrelated system of values, theory and practice.

Tale definizione raccoglie quanto da sempre ed ancora oggi viene rappre-

sentato nei discorsi orali e scritti che la professione genera1, ovvero i repertori

1 Vedi la ricerca promossa da SOCIALIA nel 2005 e descritta in AA.VV., Dentro la pro-

fessione verso possibili consensi. Una ricerca con e tra assistenti sociali, Roma: Socialia; e inoltre Colaianni L., 2004, La Competenza ad Agire. Agency, capabilities e servizio sociale. Come le persone fronteggiano eventi inediti ed inaspettati ed il servizio sociale può supportar-le, collana Laboratorio sociologico – Ricerca empirica e intervento sociale, Milano: Franco Angeli.

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discorsivi2 correlati al cambiamento, alla soluzione dei problemi, alla ricapa-citazione e liberazione delle persone, alla dimensione interattiva, alla promo-zione del pieno potenziale delle persone e dell’arricchimento delle loro vite. In virtù di quanto dichiarato, il professionista “assistente sociale” viene defi-nito agente di cambiamento. In cosa tale cambiamento consista e quindi quale sia la sua definizione operativa che permetta di anticipare come possa essere generato, descritto e infine valutato tale cambiamento non trova altrettanta condivisione né nella comunità scientifica3, né in quella professionale. Av-viene spesso che nei resoconti professionali, in assenza di una teoria e di un modello esplicitato a cui riferirsi, prevalga il riferimento alla pratica come fonte di validazione di quanto si fa, termine spesso unito all’aggettivo rifles-siva, e quindi vengano chiamate a supporto le capacità e l’esperienza accu-mulata nel passato4, piuttosto che le competenze relative alle gestione del ruo-lo di professionista. Tale prospettiva, oltre che epistemologicamente scorretta, in quanto generata dalla sostituzione di teorie implicite (Polany 1966) fondate sul mero senso comune5 in assenza di teorie scientificamente fondate e espli-citate, non permette di comunicare e trasferire quanto esperito. Infatti la prati-

2 Con “repertorio discorsivo” si intende, secondo il modello dialogico che sarà illustrato più avanti, una «modalità finita di costruzione della realtà, linguisticamente intesa, con valenza pragmatica, che raggruppa anche più enunciati, articolati in frasi concatenate (arcipelaghi di significato) e diffusa con valenza di asserzione di verità, volta a generare (costruire)/mantenere una coerenza narrativa» (Turchi, Della Torre 2007).

3 Crisp B.R., Anderson M.R., Orme J., Green Lister P., 2005, Learning and Teaching in Social Work Education:Textbooks and Frameworks on Assessment, Glasgow: Social Care In-stitute for Excellence-University of Glasgow: in tale testo recente si presenta una review delle definizioni e delle descrizioni di assessment da parte di vari autori e dei modelli teorici in virtù dei quali esso viene declinato.

4 Il rimando alla tradizione o alla pratica esperita come giustificazione di quanto viene fatto e pertanto giudicato valido richiama la fallacia argomentativa definita “argumentum ad anti-quitatem”; il ricorso alla tradizione è un errore che avviene quando si assume che qualcosa sia migliore o corretto semplicemente perché tradizionale, o “è sempre stato fatto”:

1. X è vecchio o tradizionale. 2. Quindi X è corretto o migliore. 5 Per senso comune si intende un’affermazione di qualsiasi natura e tipologia che: definisce

e sancisce quale è la realtà; risulta organizzatrice di stereotipi e pregiudizi; risulta trasversale a tutti i ruoli e a tutti i contesti; manifesta autoreferenzialità nella propria legittimazione (Ciar-diello e Turchi 2004). Sul rapporto tra senso comune e senso scientifico vedi Wittgenstein L., 1967, Ricerche filosofiche, Torino: Einaudi e Wittgenstein L. 1978, Della Certezza, Torino: Einaudi Paperbacks. Di diverso (e opposto) avviso è Alessandro Sicora che, interpretando un orientamento ormai “tradizionale” nella professione, scrive che «un operatore competente di-venta tale in quanto: sviluppa un sapere pratico (finalizzato alla decisione e all’azione) e tipo-logico (non procede per essenze concettuali ben distinte, ma per figure ricomprensive, per «narrazioni»); sviluppa competenze professionali come prodotto dell’applicazione di cono-scenze personali implicite (sono i «modi di vedere» il mondo che guidano le azioni), difficili da esplicitare e che si manifestano attraverso l’azione professionale» (Sicora 2008).

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ca e le capacità, in quanto fondate su di una dimensione personale e individu-ale, non risultano trasferibili né replicabili, anche quando si tratti delle così dette best practices; di contro le competenze, ovvero quanto permette di anti-cipare scenari (professionali) che non sono ancora dati, ma che possono veri-ficarsi in quanto possibili rispetto all’alveo entro il quale il ruolo di “assisten-te sociale” si muove, sono trasferibili e quindi “insegnabili”. Si mantiene così con la prassi un rapporto corretto che viene definito da Schön (1983) «cono-scenza-in-azione» (knowledge-in-action), come effetto pragmatico de «l’insieme dei possibili costrutti mentali che un attore attiva per dare coerenza a un fenomeno o a una situazione». Se tali “costrutti mentali” si fondano sul senso comune e quindi sulle teorie personali, sarà generata una “pratica” in-dividualizzata, localizzata, casuale, non confrontabile, né valutabile basata sull’esperienza e sull’identità personale e non sull’identità di ruolo. Se l’azione professionale si fonderà invece su una teoria da cui derivi una prassi, come cultura del metodo, consensuale e definita, allora l’intervento sarà ac-countable, descrivibile e valutabile, piuttosto che da interpretare o giustificare alla luce delle teorie personali.

Questo libro intende costituire una occasione per svolgere alcune conside-razioni circa il rapporto tra servizio sociale e paradigmi conoscitivi, tra prassi operativa e teoria, affinché la seconda non sia consegnata dal senso comune al ruolo di mera formulazione astratta (o di pertinenza e confinamento accade-mico), ma possa generare modelli e metodologie applicabili, secondo quanto affermato da Kurt Lewin, per cui «non c’è niente di più pratico di una buona teoria». Nello stesso tempo mira a fornire una trattazione e descrizione del pa-radigma narrativistico e delle sue ricadute operative, tali che possano essere di ausilio sia per gli assistenti sociali che operano sul campo, sia per coloro che studiano per potersi collocare in quel ruolo. La trattazione si svolgerà at-traverso la considerazione, nel primo capitolo, dello stato dell’arte e delle de-finizioni e descrizioni di diagnosi sociale e di counselling nella letteratura scientifica internazionale e nazionale, per arrivare a una prima approssima-zione al modello proposto. Nel secondo capitolo discuteremo dello scarto pa-radigmatico che sarà necessario compiere per dare una risposta efficace alle criticità6 evidenziate. Nel terzo verranno trattate le correlazioni tra agency e generazione dei discorsi, e verranno esposti e argomentati i fondamenti del paradigma narrativistico e i cardini del modello dialogico. Nel quarto capitolo illustreremo aspetti applicativi del modello tramite il confronto di reports di

6 Impieghiamo il termine “criticità”, derivandolo dalla fisica, per indicare l’aspetto proces-suale in coincidenza del quale si può verificare un cambiamento di stato della materia. Pertanto assume una valenza valoriale neutra e indica uno snodo in cui si rilevano condizioni tali che possono far anticipare un cambiamento.

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pareri professionali e studi di caso, per terminare, nel quinto capitolo, con la trattazione delle caratteristiche dell’applicazione del paradigma narrativistico nell’ambito dell’esecuzione penale - in particolare nella osservazione scienti-fica della personalità, nel trattamento degli autori di reato e nella mediazione, secondo la prospettiva della giustizia riparativa - e dell’intervento con i con-sumatori di sostanze tossiche psicoattive.

1.2. Diagnosi sociale, valutazione e assessment

Prima di addentrarci negli aspetti teorici e metodologici pertinenti al tema,

riteniamo utile per il lettore discutere brevemente quanto riguarda l’assessment professionale, per come è presentato dalla letteratura disponibile e per la rilevanza che una sua definizione chiara e consensuale riveste ai fini di un intervento sociale efficace. L’uso del termine è relativamente nuovo non solo nel nostro paese - dove appaiono ad esso affiancati e sinonimicamente utilizzati i termini di “diagnosi” e di “valutazione”, come vedremo più avanti - ma anche in Europa, tanto che troviamo un vivace dibattito rappresentato in testi anglofoni, che mostra posizioni e letture, definizioni e orientamenti sin-teticamente riferibili a due approcci paradigmatici diversi: l’oggettivismo e il costruzionismo. Per una più esauriente review dei testi considerati, rimandia-mo a Crisp, Anderson, Orme e Green Lister (2005) già citati in nota 3, cap. 1. Ai fini di questa trattazione verranno riportate alcune definizioni e descrizioni riferite da vari autori, utili a dare conto dei variegati punti di vista e a intro-durre il tema.

Milner e O’Byrne (2002, 6) danno una descrizione dell’assessment per fasi logiche e temporali per cui il primo passo è la preparazione, in cui si decide cosa osservare, quali dati saranno rilevanti, quale l’obiettivo e i limiti del compito; segue la raccolta dei dati: si incontrano le persone e queste vengono ingaggiate nel rapporto professionale, ci si indirizza agli svantaggi dovuti alle differenze, e si salvaguarda l’empowerment e la possibilità di scelta nello svolgere il compito, nel rispetto della incertezza e con apertura verso la ricer-ca; si soppesano i dati: si risponde alla domanda «C’è un problema?» e «Quanto è serio?»; si analizzano i dati: vengono utilizzate una o più mappe mentali per interpretare i dati e comprenderli al fine di sviluppare un'idea di intervento; si utilizza l’analisi per formulare il parere professionale.

La natura processuale dell’assessment è asserita da Coulshed e Orme (1998, 21) che scrivono:

L’assessment è un processo continuo, a cui l’utente partecipa, il cui obiettivo è comprendere le persone in relazione al loro ambiente; è la base per pianificare co-

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sa è necessario fare per mantenere, aumentare o far venir fuori il cambiamento nella persona, l’ambiente o ambedue. Secondo Compton e Gallaway (1999, 253) si tratta di una raccolta di dati e conseguente analisi per fornire informazioni utili nella genera-zione di decisioni circa la natura del problema e su cosa si deve fare - è un pro-cesso cognitivo che implica pensare a quali dati è necessario disporre. L’esito è un progetto o un atto professionale che definisce la criticità, gli obiettivi da raggiun-gere e un piano di intervento per conseguirli.

Quanto riportato attraverso la lettura dei vari autori evidenzia alcuni aspet-

ti comuni che si intende rilevare: tutti gli autori descrivono l’assessment come un processo cognitivo - proceduralmente scandito -, che serve ad acquisire dati utili a definire la “situazione problematica” e a rappresentare obiettivi di cambiamento. Viene posta come necessaria premessa la definizione di mappe cognitive, di “underpinnings”, ovvero di modelli teorici7 che siano in grado produrre dati che, generati piuttosto che osservati, siano utili sia nel definire gli obiettivi, sia le strategie di intervento per il loro raggiungimento. Come si vede, siamo ancora in un ambito procedurale, per quanto ricco di avvertenze epistemologiche. La domanda che ci poniamo, dal momento che i così detti “fatti” sono in realtà “arte-fatti” in virtù delle teorie adottate, è cosa osservare che possa essere descritto e quali siano i dati pertinenti e utili al fine della ge-nerazione del cambiamento. Kemshall e Knight (2000, 23) ci approssimano alla formulazione di una risposta, scrivendo che l’assessment

può essere descritto come un processo di formulazione del parere professionale o di stima della situazione, delle circostanze e dell’azione delle persone coinvolte. In tale asserzione compare il costrutto di agency8, ovvero dell’azione che

le persone sviluppano per fronteggiare le criticità definite tali in seguito

7 Luigi Gui sottolinea, pur nel rilevato eclettismo di riferimento circa i modelli teorici im-piegati dal servizio sociale, «già elaborati e da tempo conosciuti (e forse utilizzati)», la perva-denza del “buon senso e dell’esperienza” come riferimento per la prassi, e mette in guardia cir-ca i «rischi che si possono correre» per la mancata integrazione tra «conoscenze, teorie e moda-lità operative [...] se manca un’approfondita base teorica e una continua capacità di verifica e di riflessività sul proprio operare e si è guidati in modo quasi esclusivo dal buon senso, dalla sag-gezza esperienziale» (Gui 2004, 142).

8 Per una bibliografia nell’ambito delle scienze sociali su tale costrutto vedi Giddens (1981 e 1984), Butler (1997), Lanzara (1993), Hoggett (2001), Ferguson (2001), Bruun e Langlais (2003), Colaianni (2004), Morin, Aubry, Vaillancourt (2007), Donzelli e Fasulo (2007), Alkire e Foster (2007).

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all’intervento di un evento inedito, come punto focale dell’osservazione, in-sieme alla stima della situazione. Sono qui formulati due concetti di grande interesse: il primo ci riporta alla definizione che W.I. Thomas (Thomas, in Merton 1968, 765-766) dà di «situazione» nelle sue ricadute pragmatiche, formalizzata in quello che è considerato il suo teorema: «Se gli uomini defini-scono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». In virtù di tale teoria, gli effetti pragmatici della ”azione” sono correlati ai reper-tori discorsivi (la definizione della situazione) che le persone generano nell’interlocuzione con se stessi (resoconti) e con gli altri (narrazioni). La nar-razione non è un accompagnamento, un mero scambio informativo, una sorta di sottofondo che serve a rendere la rappresentazione del fatto trasmissibile, ma ha effetti fortemente performativi. Potremmo dire che narrare è costituire la possibilità che quei “fatti” possano essere fatti. Nella misura in cui possia-mo modificare il resoconto9, possiamo modificare anche i “fatti” (Harré e Se-cord 1977). Ne consegue che per la comprensione dell’agire sociale - più che la conoscenza dei «dati reali» di una situazione – sia di importanza cruciale la conoscenza delle teorie personali in base alle quali un certo aspetto viene ri-tenuto reale dagli individui e così generata la “situazione” medesima. Il se-condo concetto è quello di stima, come atto rivolto all'apprezzamento10 delle competenze, delle capacità e delle capabilities11, al fine della formulazione di un parere discrezionale, cioè svolto in virtù di una competenza professionale. Si tratta di «asserere: allineare, tirare a sé, seminare vicino» gli elementi che

9 Secondo il metodo etogenico (Harré e Secord 1977), il resoconto è considerato come un

fenomeno realistico; «le sue formulazioni verbali non “sono il segno di una condizione menta-le, bensì costituiscono esse stesse quella condizione mentale” (Harré e Secord 1977, 41). In altre parole c’è una identità tra l’affermazione verbale di uno stato d’animo e quello stato d’animo. Il criterio logico che ne deriva sfocia nella considerazione che il resoconto di una cre-denza, ove sia genuino, può essere proprio la manifestazione di quella credenza. L’evidenza di ciò può essere colta attraverso quel processo conosciuto come “ristrutturazione del significato”, ovvero quando una persona si persuade o viene persuasa a dare un nuovo significato a una cer-ta situazione (per esempio un giudizio su di sé) determinato dall’autoattribuzione di un predica-to mentale. Il cambiamento del significato […] porta a mutare il predicato mentale attraverso cui si vedeva e si giudicava e quindi a cambiare opinione ed emozione, in conformità dell’autoattribuzione di un nuovo predicato mentale» (Salvini e Pirritano 1984, 184).

10 Assessment: the evaluation or estimation of the nature, quality, or ability of someone or something. New Oxford American Dictionary.

11 Amartya Sen (1992) definisce “capacitazioni” (capabilities) l’insieme delle risorse rela-zionali di cui una persona dispone, congiunto con le sue capacità di fruirne e quindi di impie-garlo operativamente; Martha Nussbaum (2002) precisa che sono le capacità, intese come ciò che le persone possono essere messe in grado di fare in virtù delle occasioni offerte dal conte-sto, e non come meri funzionamenti personali.

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ci permetteranno di fare una stima, e quindi di poter asserire12 qualcosa in vir-tù di una esplicitata teoria e di un dichiarato modello. O’Sullivan (2001, 272) sembra spingere avanti la riflessione su questo aspetto, e scrive che «il risulta-to di ogni assessment è una particolare rappresentazione della realtà». La con-sapevolezza che ogni atto conoscitivo in ambito discorsivo genera l'oggetto che conosce, e che non si tratti di un atto “neutro” di raccolta di dati “che non aspettano altro che di essere colti”, è sottolineata da Jan Fook (2002, 118):

Un nuovo approccio per comprendere e praticare l’assessment comprende un largo riconoscimento che l’atto di stimare comporta la creazione di un set di signi-ficati che funzionano discorsivamente […] Nella riformulazione dell’idea e della pratica dell’assessment, pertanto, è necessario permettere multiple e mutevoli comprensioni che sono contestuali e possono anche essere contraddittorie. Inoltre dobbiamo riconoscere che l’assessment rappresenta innanzitutto la prospettiva del professionista che lo produce. Fare un assessment è né più, né meno che la costruzione della narrazione che il professionista fa della situazione problematica.

Siamo in un passaggio cruciale circa la necessità di fondare l'assessment e

la generazione dei dati su base scientifica, cosa che non viene frequentemente tenuta in considerazione nelle pratiche professionali13, né nella letteratura, come rilevato da Crisp, Anderson, Orme e Green Lister (2005) che scrivono che «la nozione della necessità di fondare gli assessments sulla ricerca e non su assunti infondati è attivamente incoraggiata in pochi libri (Kemshall e Pri-tchard 1996 - 1997 - Smale 2000), mentre la maggior parte dei testi presenta una minore discussione sulle evidenze della ricerca, che spesso è del tutto as-sente. Per alcuni autori alla base dell'azione del servizio sociale vengono posti la legislazione o precedenti legali, piuttosto che evidenze prodotte dalla ricer-ca» (Middleton 1997).

Nella letteratura italiana, come sopra accennato, il termine assessment ap-pare utilizzato raramente e quelle volte come sinonimo di valutazione o di di-agnosi. Merlini, Bertotti e Filippini (2007, 117), per esempio, sottolineano – citando un testo di medicina generale – che «”il processo diagnostico [corsivo nostro] non si limita a […] classificare i pazienti attribuendo i disturbi che es-

12 Il senso scientifico asserisce, in quanto giustifica con evidenze empirico-fattuali o argo-

menta con costruzioni retoriche rigorose. Il senso comune afferma in quanto sancisce qual è la realtà, senza necessità di giustificazioni di sorta.

13 In una ricerca che è in corso sui testi relativi alla documentazione professionale prodotta da assistenti sociali operanti in vari ambiti e servizi del nostro paese, emerge - allo stato attuale - che nessun documento tra quelli analizzati presenta la dichiarazione del modello seguito in virtù del quale viene "affermato" quanto viene scritto.

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si presentano a un’entità nosologica nota. È, piuttosto, un evento sociale e ne-goziale […] Ha lo scopo di ricongiungere, nella ricostruzione di una storia biologica, la visione delle componenti oggettive (patologia) e soggettive (in-fermità) per definire un piano di lavoro in grado di guidare efficacemente le decisioni terapeutiche” (Bernabé, Benincasa, Danti 2003). In tal senso rite-niamo che il termine “diagnosi” possa avvicinarsi all’uso in un ambito socia-le». Appare evidente come, in assenza di una specifica teoria adeguata all’ambito conoscitivo in cui si opera e all’oggetto di studio, il riferimento corra – implicitamente – alla diagnosi medica, con il suo sguardo rivolto al passato, al fine di individuare gli «indicatori» utili alla diagnosi; tuttavia tale “individuazione” dalle autrici viene reputata critica e viene rilevato come la riflessione sia

faticosa e “segni il passo”. Ipotizziamo che ciò possa essere legato alla difficoltà intrinseca e all’ipotesi avanzata da alcuni secondo cui non sia più di tanto possibi-le individuare con precisione degli indicatori proprio a causa delle caratteristiche dell’oggetto di valutazione (ibidem 133-34). Riteniamo che tale “difficoltà intrinseca” sia correlata non all’”oggetto di

valutazione” di per sé, quanto alla mancanza di una teoria che generi tale og-getto e che sia in grado di descriverlo e di trasformarlo. Più avanti nel testo citato viene posto e discusso il termine “valutazione” e viene analizzato nel suo uso, rilevato dalla letteratura. Infine è proposta una «formulazione della diagnosi sociale» disegnata su linee-guida meramente procedurali.

Ne La valutazione nel servizio sociale (2006, 125) il contributo di Carmen Prizzon discute «l’assessment sociale come strumento di valutazione profes-sionale» e sottolinea come «l’utilizzo di uno strumento valutativo che permet-ta all’assistente sociale l’analisi approfondita delle aree significative della persona e del suo contesto di vita, attraverso l’individuazione di indicatori e pesi diversi, è in grado di rendere visibili e maggiormente ancorabili le com-plessità esistenti». Infatti «sempre più nel lavoro con altri professionisti, l’assistente sociale è chiamato a utilizzare strumenti e scale finalizzati a misu-rare l’entità dei problemi e le ricadute dell’intervento sociale» (ivi). L’autrice non esplicita in virtù di quale teoria e quale modello tali «contributi originali per rappresentare e misurare in campo sociale i problemi complessi» sarebbe-ro costruiti, rimandando invece o a strumenti di origine e impiego medico-psicologico (WHO DAS II, SVAMA, ICF), oppure indirizzati alla rilevazione di elementi oggettivati. La perplessità, di chi scrive, su tale affermazione è in-dotta dal fatto che si ritiene che tali indicatori, e tali scale, “misurino” enti on-tologicamente dati esistenti di per sé, che attendono solo di essere rilevati (e ri-velati - velati nuovamente - dalla non esplicitazione delle teorie personali):

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le aree che dovrebbero “sondare” sono quelle de «le relazioni familiari […] la relazioni sociali […] la salute […] la situazione economica […] il lavoro […] l’istruzione […] l’autonomia […] le dipendenze […]» (ibidem, 127-8), tutti costrutti che, senza una teoria che li definisca, ricadono nel mero senso co-mune (vedi cap. 2). Nel medesimo testo Monica Dotti discute la valutazione correlata al modello della Evidence Based Practice. Anche tale approccio è derivato dalla medicina ed in particolare dai trials clinici per la sperimenta-zione dell’efficacia dei farmaci e dall’epidemiologia «intesa come scienza che studia i fattori determinanti e gli effetti delle decisioni cliniche e la progressi-va affermazione delle sperimentazioni cliniche controllate (Randomized Con-trolled Trials – RCT)» (Dotti 2006, 148):

L’approccio dell’EBP nell’ambito del lavoro sociale ha queste caratteristiche fon-damentali: la pratica è basata su di un’evidenza empirica che, identificando nessi causali, possa dare maggiore garanzia di successo; si riconosce una gerarchia del-le evidenze; si definisce un’ipotesi causale da verificare circa il caso da affrontare; si presta attenzione agli effetti (più che ai processi) dell’intervento (ivi). L’estensione all’ambito sociale di tale “pratica di ricerca clinica” – ancor-

ché molto discussa anche in ambito medico14 - pone criticità circa cosa si debba intendere per “evidenza empirica”: il modello si fonda su un realismo ipotetico che formula congetture circa l'esistenza di legami empirico-fattuali tra gli enti in un rapporto di causazione. La falsificazione delle ipotesi do-vrebbe avvalersi della precisione della misurazione, rimandando a linguaggi logico formali e a osservazioni che siano indipendenti dalle teorie conoscitive dell'osservatore. Anche in questi casi, affermare l’esistenza di “fatti” non ri-sponde alla criticità che riguarda il loro fondamento, né introduce elementi di correzione dell’errore epistemologico; come scrivono Hughes e Sharrock,

i “fatti” non possono risolvere la questione, poiché ciò che costituisce i “fatti” di-pende dal particolare paradigma a cui appartengono, come anche gli standard in

14 Cfr. Antiseri D., «Fatti scientifici costruiti sulle palafitte»,

http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/000326d.htm; Timio M., Antiseri D. 2000, «La medicina basata sulle evidenze: realtà ed illusioni. Estensione delle riflessioni epistemologiche», Ital Heart J Suppl Vol 1 Marzo 2000; Federspil G., Scandellari C., «La Medicina basata sulle Evi-denze. Un'Analisi Epistemologica», http://www.pensiero.it/continuing/ebm/med/ebm_analisi1.htm; Federspil G, Vettor R., 2001, «La “evidence-based medicine”: una riflessione critica sul concetto di evidenza in medicina», Ital Heart J Suppl Vol 2 Giugno 2001; Grypdonck M.H.F., 2006, «Qualitative Health Research in the Era of Evidence-Based Practice», http://qhr.sagepub.com/cgi/content/abstract/16/10/1371.

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base a cui si giudica quale teoria sia la migliore. I fatti, i metodi e i criteri sono in-terni al paradigma e non esiste una posizione indipendente da cui giudicarli – tan-tomeno appellandosi a un mondo indipendente da qualsiasi posizione teorica. Quest’ultimo suggerimento è in sé una chimera (Hughes e Sharrock 2005, 107). Come si evidenzierà più avanti, nel lavoro sociale siamo invece in presen-

za di legami meramente retorico-discorsivi, in quanto ciò di cui disponiamo sono mere narrazioni: per dirla con Gianrico Carofiglio, «Le storie, a ben ve-dere, sono tutto quello che abbiamo» (Carofiglio 2007, 284). In virtù delle particolari caratteristiche dell'oggetto cognitivo sarà necessario allora compie-re uno scarto di paradigma perché a quello corrisponda un piano di realismo adeguato. Sintetizzando quanto esposto possiamo rappresentare tre modalità di assessment, concordemente con quanto la letteratura internazionale esplici-ta (Gurney 1995, Parton, Thorpe e Wattam 1997, Hawks 2000, Caddick e Watson 2001, Macdonald e Macdonald 2001, Milner e O’Byrne 2002, Woo-dcock 2003):

- un questioning model (modello dell’indagine), per cui si formulano ipo-tesi da supportare con la ricerca di informazioni, similmente a quanto avviene nel lavoro investigativo. L’operatore pone molte domande, spesso sulla trac-cia di un questionario predefinito, poi ordina i dati estratti dalle risposte, in virtù di qualche teoria (spesso implicita) o in accordo con le procedure defini-te dall’ente in cui lavora. L’assistente sociale si pone come esperto per i con-tenuti e ricerca attraverso l’indagine e le deduzioni la verità, in virtù di ipotiz-zati nessi di causazione (che, nel caso, sarebbero asseribili solo come mere correlazioni) fra enti;

- un procedural model (modello definito dalle procedure): ci si attiene ai protocolli e alle procedure definite dal servizio in cui si opera per valutare l’esistenza di requisiti specifici da parte delle persone che richiedono deter-minate prestazioni; non vi è giudizio discrezionale professionale, ma solo l’applicazione genericamente amministrativa di quanto prevede la normativa o, più in generale, la politica dell’ente;

- infine un exchange model (modello di reciprocità), per cui si produce un giudizio sulla base di competenze professionali, in virtù dell’interazione tra sistema esperto e sistema esperienziale. L’operatore è esperto per il processo e non per i contenuti. L’assessment mira a mettere in campo le competenze dell’attore per raggiungere gli obiettivi posti da esso stesso oppure posti in forza di una segnalazione o una prescrizione. È finalizzato a ricapacitare l’utente ed è centrato sulla promozione delle competenze.

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1.3. Il counselling sociale

Il termine counselling è molto frequente nella letteratura psico-sociale, sia nazionale, sia internazionale, intendendo per tale quella che è ge-nerata da psicologi, derivando la dizione dall’opera di Carl Rogers (1971), psicologo americano che ne definì gli aspetti metodologici. Nella letteratura di servizio sociale, nel nostro paese la trattazione del counselling sociale è pressoché inesistente, a fronte di una ricca bibliografia che tratta di metodo-logia professionale - se non per una traduzione del testo del 2002 di Milner e O'Byrne, Brief counselling: narratives and solutions, edito per i tipi delle E-dizioni Erickson (2004). A livello internazionale il termine è frequente, e la sua definizione e descrizione rimandano a modelli psicodinamici e della psi-cologia dell'Io. Tale apparente primazia dei modelli della psicologia di con-sultazione è dovuta anche alla carenza di formalizzazione, in virtù di specifici modelli, delle proprie metodologie di intervento da parte del servizio sociale italiano; per esempio, è possibile leggere trattazioni meramente procedurali del “colloquio” per cui si definiscono fasi, contesti e modalità, spesso con ri-ferimenti a più teorie che pongono assunti tra loro antinomici15, senza deline-are la prospettiva teorica su cui la procedura e la metodologia si possano fon-dare. La centralità del cliente nel counselling, secondo la definizione che Carl Rogers ne dà, è certamente sintonica con la posizione “laterale” del profes-sionista nell’intervento di servizio sociale e non è un caso che proprio quell’autore riconoscesse – ancora nel 1942 - agli assistenti sociali il merito di «aver contribuito notevolmente a farci meglio comprendere il processo del counseling» (Rogers 1971, 13). Orientare l’intervento sociale nel senso della consulenza presuppone riconoscere che ci sono attori che sono chiamati ad agire e a decidere e il counselling sociale, secondo il modello rogersiano, si focalizza sugli aspetti cognitivi ed emotivi per permettere alle persone di ma-turare una scelta e una decisione e di poterla quindi assumere responsabil-mente. Scriviamo “attori” perché la consulenza si rivolge non meno alle per-

15 Vedi la bibliografia sulle “fasi del processo di aiuto”; tra i tanti, Ferrario F. 1996,

Le dimensioni dell’intervento sociale, Roma: NIS, che pone a fondamento del suo “modello unitario centrato sul compito” la psicologia dell'Io, il cognitivismo e l'approccio sistemico; Cellentani O. e Guidicini P. 1997, Manuale di metodologia per il servizio sociale, Milano; Franco Angeli; Cesaroni M, Lussu A., Rovai B 2000, Professione assistente sociale, Tirrenia: Ed. Del Cerro; Bartolomei A., Passera A.L. 2005, L’assistente sociale. Manuale di servizio sociale profession-ale, Roma CieRre, o i più recenti Allegri E., Palmieri P., Zucca F. 2006, Il collo-quio nel servizio sociale, Roma: Carocci Faber, e Zilianti A., Rovai B. 2007, As-sistenti sociali professionisti. Metodologia del lavoro sociale, Roma: Carocci Fa-ber.

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sone del reticolo sociale, di quanto riguardi la persona rappresentata come “portatrice del problema”; in un approccio dialogico-interattivo, tutti sono competenti, e esso prospetta un intervento che sempre riguarda la rete sociale complessiva, con i suoi nodi primari informali, e secondari informali e forma-li, in quanto ciascun attore contribuisce alla generazione dei discorsi. L’obiettivo è quello della ricapacitazione complessiva del contesto secondo l’efficace espressione di Alary (1988) di «pris en charge par milieu», ovvero di presa in carico attraverso il contesto. Il termine counselling indica un'attivi-tà professionale che mira a orientare e sviluppare le potenzialità del cliente, promuovendo atteggiamenti attivi, propositivi e stimolando le capacità di scelta, ed è centrata sulle persone in quanto competenti per l'azione. Si occupa di problemi non specifici (prendere decisioni, miglioramento delle relazioni interpersonali) e contestualmente circoscritti (famiglia, lavoro, scuola), quan-tunque sia esercitata in contesti tipizzati (psichiatria, esecuzione penale, tutela di soggetti definiti vulnerabili, orientamento al lavoro) ed è focalizzata sulla soluzione, piuttosto che sul “problema”.

Il termine counselling deriva dal verbo to counsel che a sua volta deriva dal latino consulo-ĕre - consolare, confortare, venire in aiuto; si compone di cum e solĕre - alzarsi insieme, sia propriamente come atto, sia nell'accezione di “aiuto a sollevarsi”. È omologo di un altro verbo latino: consulto-āre, itera-tivo di consultum, participio passato di consulo - consigliarsi, deliberare, ri-flettere. Ciò pone il termine come correlativo di “consultare” - ricorrere a competenze superiori. L'attività di counselling è svolta da una persona profes-sionalmente in grado di aiutare un interlocutore nel fronteggiamento di critici-tà derivate dall’impatto di eventi inediti o di condizioni fortemente sovra de-terminate rispetto alle quali richiede una consulenza. Le competenze proprie all'attività di counselling possono essere presenti nell'attività di diverse figure professionali quali psicologi, medici, assistenti sociali, educatori professiona-li, infermieri. La BACP - British Association for Counselling and Psychothe-rapy fornisce la seguente definizione dell'attività di counselling:

Il counselor può indicare le opzioni di cui il cliente dispone e aiutarlo e seguire quella che sceglierà. Il counselor può aiutare il cliente a esaminare dettagliata-mente le situazioni o i comportamenti che si sono rivelati problematici e trovare un punto piccolo ma cruciale da cui sia possibile originare qualche cambiamento. Qualunque approccio usi il counselor [...] lo scopo fondamentale è l'autonomia del cliente: che possa fare le sue scelte, prendere le sue decisioni e porle in essere (BACP 1990). Analogamente la Società Italiana di Counseling definisce l'attività di

counselling come: «[...] la possibilità di offrire un orientamento o un sostegno

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a singoli individui o a gruppi, favorendo lo sviluppo e l'utilizzazione delle po-tenzialità del cliente» (SICo). Notizie circa attività di counselling negli Stati Uniti si trovano dai primi del novecento, quando alcuni operatori sociali adot-tarono il termine per definire l'attività di orientamento professionale rivolta, a guerra finita, ai soldati che tornavano in patria e che necessitavano di un rein-serimento professionale (Rham 1999). Negli anni cinquanta venne fondata la Division of Counselling Psychology dell'APA - American Psychological As-sociation e l’American Personnel and Guidance Association. Gli sviluppi del-la metodologia si configurano nei vari ambiti di intervento: l’orientamento scolastico alla fine del ciclo superiore; l'orientamento professionale rivolto a lavoratori per il ri-collocamento professionale; il servizio sociale e il nursing; le psicoterapie a vario orientamento: da quello comportamentista, a quello psicoanalitico, all’umanistico-esistenziale. In Italia si possono rintracciare at-tività affini al counselling nella storia dell'assistenza sociale (Margarone 1994) intorno agli anni venti. Tali iniziative assistenziali si inscrivevano nel filantropismo volontario e davano vita nello stesso periodo alle prime scuole per assistenti sociali. Un rapporto del CISS (Comitato Italiano di Servizio So-ciale) - riportato da Margarone (1994) - faceva risalire al periodo del primo dopoguerra le prime iniziative in Italia di tipo assistenziale. Intorno al 1929 nacquero le prime iniziative, veramente efficaci nel campo dell'assistenza, che ebbero come ulteriore conseguenza la creazione della prima Scuola, al fine di assicurare una preparazione professionale a carattere continuativo di assistenti sociali per i lavoratori dell'industria e delle fabbriche.

1.4. Un processo narrativo con risultati reali Per quanto riguarda il servizio sociale, il counselling si configura come

una specifica attività legata all’intervento; è bene precisare che non si tratta di una psicoterapia, che non vengono consigliati rimedi di alcun genere, che non si tratta di consulenza psicologica, che non utilizza il modello medico di a-namnesi-diagnosi-prognosi-terapia, che non ha effetti definibili come terapeu-tici, che non si occupa di patologie. L’utente nel rapporto di counselling si avvale delle competenze del professionista come utili per la capacitazione delle proprie competenze, possedute o da generare, in modo da potersi rap-presentare obiettivi da raggiungere e poterli conseguire secondo le proprie scelte e decisioni. Secondo Milner e O’Byrne, «il modello del counselling breve punta ad aiutare le persone a rifiutare qualsiasi “punto di arrivo ideale” a cui esse, stando alle aspettative della società o cultura di appartenenza, do-vrebbero necessariamente tendere. In questa prospettiva, infatti, non esiste al-cun punto di vista privilegiato rispetto agli altri» (2004, 35). In questa pro-

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spettiva «sono i processi conoscitivi delle persone a costruire quelle realtà di cui esse fanno diretta esperienza: sono queste le uniche “realtà” a cui possia-mo sperare di arrivare» (Winslade e Monk 2000, 124). Qualsiasi tentativo di definire a priori da parte del professionista i bisogni, l’identità, la personalità, l’autostima dell’utente è destinato a limitare i suoi margini di scelta, oltre che essere fondato sulla prospettiva etica dell’esperto e quindi sull’identità perso-nale16 e non su quella di ruolo, ovvero sul mero senso comune. Se si assume questo punto di vista, con lo sguardo rivolto al passato, non si potrà che “ve-dere” i deficit, la vulnerabilità e, nel caso migliore, la resilienza17 dell’utente, ovvero le ipotetiche “cause” che producono le inadeguatezze rispetto al com-pito o i supposti fattori “interni” di protezione; come scrive Dolan (1998), «se lo scopo è sradicare le presunte cause del problema, si finirà nel vedere nel cliente solo una vittima, o al più una persona che tenta faticosamente di so-pravvivere». Se invece orientiamo lo sguardo dal passato al futuro che non è ancora dato – e dai racconti del passato costellati dei “fatti tristi del proble-ma” e, in quanto fatti, immodificabili, ai resoconti rivolti al futuro – sarà pos-sibile generare i discorsi che anticiperanno il mondo che si originerà quando lo spazio discorsivo non sarà più occupato dai repertori del “problema e della soluzione”, producendo nuovi repertori discorsivi efficaci, con le loro ricadu-te pragmatiche; il lavoro sociale può essere così concettualizzato, come «un processo narrativo con risultati reali» (Parton 2005, 193).

Pertanto fine di questo scritto è proporre una teoria, un modello e una prassi per l’assessment e il counselling sociale che siano in grado di generare ricadute applicabili tali da rispondere alle criticità sopra rilevate e da produrre il cambiamento posto come obiettivo focale dell’intervento di servizio socia-le.

In virtù di ciò possiamo anticipare una definizione di assessment profes-sionale, che sarà ripresa analiticamente e metodologicamente nel capitolo ter-zo, adeguata per gli aspetti metodologici al proprio oggetto cognitivo e al pa-

16 Gli aspetti etici relativi all’identità di ruolo vengono infatti definiti dalla deontologia pro-

fessionale. 17 La resilienza è definita come «la capacità che consente a una persona, o a un sistema so-

ciale (famiglia, comunità), di riuscire a vivere e a svilupparsi positivamente, in maniera so-cialmente accettabile, e ciò nonostante il darsi di gravi forme di stress o di condizioni di vita particolarmente avverse, che comportano di per sé un elevato rischio di fallimento» (Vanisten-dael 1994, 70). “Resilienza” indica il fenomeno per cui si “resiste” nell’esposizione a insulti derivanti dalla deprivazione, dall’abbandono, da eventi straordinari o estremi. Vedi anche E. Werner (1982). Si tratta di un costrutto certamente più evolutivo della vulnerabilità, che ri-manda comunque a modelli di inferenze causali tra effetti osservati e cause determinanti, a cui il soggetto “resiste” in virtù di particolari condizioni interne/esterne e pertanto a un paradigma meccanicistico impropriamente impiegato.

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radigma narrativistico in cui il modello si “adagia”, come un processo discor-sivo, attivato dal professionista, a partire da una segnalazione o da una ri-chiesta, finalizzato a raccogliere le configurazioni di realtà dei soggetti coin-volti (resoconti e narrazioni) attraverso la generazione di testo tramite l’impiego di artifici retorici18. Per testo si intende «l’insieme delle pratiche discorsive che generano» una specifica «configurazione discorsiva intesa co-me “reale” in termini di senso comune» (Turchi Della Torre 2007, 85): quindi tutto ciò che è detto e fatto (e fatto in quanto detto, Austin 1987) compren-dendo quindi tutti gli aspetti pragmatici che il senso comune considera come evenemenziali19. L’assessment è finalizzato a identificare i repertori discorsi-vi in uso in uno specifico contesto che permettono di anticipare sia la configu-razione di realtà che si andrà a generare20 a partire dai processi discorsivi in atto e le loro ricadute pragmatiche, sia le strategie finalizzate a modificare le configurazioni discorsive che generano e mantengono la carriera biografica degli utenti che rivolgono una richiesta a uno specifico servizio o che a questo sono inviati.

Nella prospettiva del counselling sociale orientato al paradigma narrativi-stico, l’intervento mira alla trasformazione discorsiva della descrizione che la persona dà di sé e delle narrazioni che la riguardano. In particolare, l’obiettivo operativo è quello del cambiamento della coerenza narrativa che i discorsi prodotti presentano. La strategia elettiva è identificata nella genera-zione di discrasie tramite la produzione di efficaci artifici retorici. Sia l’assessment, sia il counselling si inscrivono nell’obiettivo generale dell’intervento di servizio sociale che, in virtù di quanto esposto, si configura come la promozione delle competenze dell’individuo21, in ambito personale e collettivo, che consentano di gestire la richiesta (o l’invio) in modo appropria-to e quindi il suo venir meno (estinzione della richiesta o dell’invio) e di offri-re supporto nella definizione delle politiche sociali orientate nel senso descrit-to dall’obiettivo generale.

18 Con artificio retorico si intende una costruzione discorsiva tale da permettere di racco-

gliere e quindi descrivere e trasformare una determinata configurazione di realtà, ovvero di ge-nerarne una diversa.

19 «Evenemenziale»: di un tipo di storiografia, che accentua l’importanza dei singoli eventi piuttosto che le strutture durevoli e i processi storico sociali in cui si determinano (De Mauro).

20 «L'idea di futuro è essenziale per l'agire umano. Senza il concetto di futuro è possibile la mera "reazione" ma non "l'azione", in quanto l'agire richiede la capacità di anticipare il futuro. Le immagini del futuro rientrano tra le cause dell'azione presente» (Bell Wendell, voce Futuro, Enciclopedia delle scienze sociali, v. III, 227-237, Roma: Treccani, p. 231).

21 «Social workers frequently define themselves as those who mobilize, connect and inte-grate reosurces [...] as mobilizers of resources and as mediators between single individuals and those resources» (Fargion 2008, 206-19).

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Conclusioni

La differenza tra l’ameba e Einstein è una sola: all’ameba dispiace sbagliare. Ein-stein, invece, è stuzzicato dal piacere di trovare un errore nella propria teoria. Men-

tre l’ameba muore con la teoria errata, Einstein fa morire la teoria al posto suo. Il moscone sbatte contro il vetro e torna indietro, sbatte ancora e torna di nuovo indie-

tro, e sbatte ancora… finché muore, muore con la sua teoria errata. Karl Popper

Abbiamo aperto questo libro con una citazione di Leonardo Da Vinci e lo chiudiamo con una di Popper. Ambedue trattano del medesimo tema, a di-stanza di più di cinquecento anni l’uno dall’altro: il rapporto tra teoria e prassi e la possibilità di mantenere o cambiare la coerenza dei discorsi scientifici, in virtù dell’epistemologia dell’errore. Se non è possibile che si dia prassi senza una teoria che la generi - a pena che si tratti di mera pratica, ovvero pervasa dal senso comune -, non è possibile neanche che si dia teoria senza errore, e quindi senza una costante ricerca, che miri a confutarla e comunque a testarne la tenuta. Ciò non è dato per le teorie personali che vengono affermate in virtù non del senso scientifico, ma di fallacie argomentative che solo la coerenza del senso comune può sostenere. Come abbiamo visto, in assenza di formaliz-zazioni scientificamente fondate, il dominio delle scienze sociali, e in partico-lare le professioni che a queste si richiamano, restano ostaggio del linguaggio che lo genera (linguaggio comune) e quindi di quelle «conoscenze personali implicite» che sono «modi di vedere il mondo» che guidano le azioni, «diffi-cili da esplicitare e che si manifestano attraverso l’azione professionale»:

Non ha senso l’idea di un mondo indipendente da una qualche teoria: uno scien-ziato può venire a contatto con il mondo solo secondo i termini della teoria che ri-conosce, cosa che Khun chiarisce descrivendo i protagonisti delle teorie come abi-tanti di “mondi differenti”. [Ogni] nuova teoria ci pone in un mondo differente ri-spetto a quello della teoria precedente (Hughes e Sharrock 2005, 204). Senza il rigore dell’aderenza a una teoria, nelle scienze discorsive si è in

balia del senso comune e comunque in carenza di requisiti di scientificità. Ciò comporta che l’azione professionale venga svolta in virtù di elementi di mera

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soggettività del professionista. Il rapporto tra senso comune e senso scientifi-co è significativamente descritto da Wittgenstein che svolge una analisi grammaticale del termine “conoscenza” e "sapere". Secondo la sua argomen-tazione, non ha senso dire di “sapere” le proposizioni del senso comune; infat-ti diciamo di sapere qualcosa quando siamo nelle condizioni e nella necessità di poterla e doverla giustificare e quindi quando ciò che conosciamo può esse-re fonte di discussione ed è quindi esposto al dubbio. Ma quelle proposizioni sono esenti da dubbio, e quindi anche da conoscenza. Esse sono esempi di qualcosa che forma il retroterra delle nostre conoscenze, contribuiscono a co-stituire la cornice data entro cui ha senso porre domande sulle quali definire ciò che si conosce o no: «Ma la mia immagine del mondo non ce l’ho perché ho convinto me stesso della sua correttezza, e neanche perché sono convinto della sua correttezza. È lo sfondo che mi è stato tramandato, sul quale distin-guo tra vero e falso» (Wittgenstein 1978, §94). Egli definisce le proposizioni di senso comune come una specie di mitologia; la loro funzione è quella dei giochi linguistici, che statuiscono cosa sia la realtà, piuttosto che “conoscer-la”. Come scrive Aldo Gargani, «l’analisi wittgensteiniana ha preso in carico il senso comune per quello che è, ossia per un repertorio di abiti e di gramma-tiche della percezione, di tecniche discorsive disciplinate da regole […] ha ri-portato alla luce il fondamento grammaticale in uso nel senso comune e ha so-stituito codici grammaticali, addestramenti, convenzioni e stipulazioni lingui-stiche in luogo di quelle che erano sempre apparse come espressioni cognitive naturali, spontanee e immediate del senso comune» (Gargani 1978, XXIII). I “giochi linguistici” e la grammatica, come regole dell’uso del linguaggio, de-clinano la vera natura del senso comune quale era ed è tradizionalmente rap-presentato, ovvero come l’evidenza immediata, naturale, empirica e ateorica, su cosa sia la realtà, su quali cose siano pertinenti e su quali siano le loro pro-prietà: «Il repertorio delle certezze del pensiero popolare […] è un sistema di decisioni e di regole spesso anche implicite; esso costituisce nemmeno tanto il punto di partenza delle nostre argomentazioni quanto l’elemento di vita (Le-bens-element) in cui le nostre argomentazioni si formano e si diffondono, nel quale si tracciano giudizi e si traggono le inferenze tra essi» (ibidem, XXIX). In virtù del senso comune gli oggetti del mondo – cose e fatti - «sono coinvol-ti nei processi di strutturazione grammaticale che specificano le procedure co-gnitive messe in atto». Il processo conoscitivo genera linguisticamente il pro-prio oggetto di conoscenza: «le presunte certezze ed evidenze del senso co-mune manifestano concetti statici, che rappresentano in modo ingannevole gli oggetti dell’esperienza come un sistema di entità e di cose già dato e avente un significato autonomo e indipendente dalle tecniche costruttive impiegate nelle procedure dell’apprendimento […] e aventi un’esistenza assoluta» (ivi).

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D’altra parte il senso scientifico muove dal senso comune per rispondere ai problemi che questo pone; il senso comune è terra di nessuno e di tutti e, co-me non esiste un linguaggio privato, così esso si colloca nella matrice colletti-va che genera i discorsi possibili in un determinato contesto linguistico. Il senso comune serve per l’azione – è «il fondamento dell’agire e dunque, natu-ralmente, anche del pensare» (Della Certezza § 411), il senso scientifico per conoscere: «Proprio perché non è scienza, il senso comune viene a acquisire una delle sue più rilevanti proprietà, quella di offrire titoli di concretezza, di aderenza (sebbene non in termini cognitivi) al reale, all’esperienza vissuta, al quotidiano» (Gargani 1978, XVIII).

Le affermazioni del senso comune costituiscono l’alveo entro cui scorre l’acqua del fiume della conoscenza e tra fiume e alveo c’è una continuità per cui il senso scientifico “rompe”, di volta in volta, il senso comune, che si ap-propria delle costruzioni discorsive della scienza e vice versa; si pensi che tutt’oggi sia il meteorologo, sia il “laico” utilizzano le medesime forme retori-che per indicare l’alternarsi del giorno e della notte: indistintamente tutti di-cono che il “sole sorge e tramonta”, mantenendo tale convenzione retorica, anche se a tutti sono note le conseguenze della teoria copernicana. E avviene che ambiti disciplinari, in assenza di “scientia”, impieghino le costruzioni re-toriche del senso comune1 costituendole come asserzioni, nonostante l’assenza di giustificazioni falsificabili. Queste prendono il posto delle verità “a priori”, che sono date prima di ogni conoscenza, e - come l’alveo del fiume - non sono fissate una volta per tutte, ma subiscono lentissimi e graduali mu-tamenti: «La mitologia può di nuovo tramutarsi in corrente, l’alveo del fiume dei pensieri può spostarsi. Ma io faccio una distinzione tra il movimento dell’acqua nell’alveo del fiume, e lo spostamento di quest’ultimo; anche se, tra le due cose, una distinzione netta non c’è (Wittgenstein 1978, §97).

In tale prospettiva, l’errore assume rilievo epistemologico e strategico (er-rore fertile)2; può darsi errore solo nel senso scientifico e nella prassi da que-sto generata, ovvero nella conoscenza che argomenta secondo rigore e giusti-fica e non nel senso comune: quest’ultimo presenta solo sbagli che vengono per lo più imputati secondo una prospettiva morale o alla capacità/incapacità di chi si ritiene li commetta. L’errore invece è correlato a criticità che riguar-dano non l’applicazione di un esercizio3– ovvero al come viene applicata una

1 Vedi Turchi G.P. e Perno A. 2002, Modello medico e psicopatologia come interrogativo,

Padova: Domeneghini Editore, già citato. 2 Popper scrive: «Una falsa teoria può costituire una grande conquista, quanto una vera. E

molte false teorie sono state più utili per la ricerca della verità di altre, meno interessanti, ma ancora accettate» (Popper K. 1998, Il mondo di Parmenide, Milano: Piemme ED.).

3 Vedi Baldini M. 1986, Epistemologia e pedagogia dell’errore, Brescia: La Scuola.

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metodologia – ma alla relazione tra problemi e teoria – ovvero alla colloca-zione nel ruolo del soggetto nell’aderenza agli obiettivi perseguiti e alle com-petenze professionali (o scientifiche), e permette di generare processi di ap-prendimento e di cambiamento:

ciò in virtù dell’assunto epistemologico per cui la casualità consente di intervenire in qualsiasi situazione, in qualsiasi momento, anche immediatamente dopo che si è commesso un errore: l’errore può diventare un elemento da utilizzare per far gene-rare una realtà che non si sarebbe generata se non fosse stata detta la “cosa” che si è detta (Turchi e Ciardiello 2004, 75). Si può asserire che l’errore è conseguente al ripresentarsi della coerenza

generata dal senso comune in virtù della quale l’operatore, piuttosto che col-locarsi nell’identità di ruolo e nelle relative competenze e a esse restare anco-rato, si posiziona nell’identità personale e quindi nell’esperienza/capacità e nelle teorie personali. L’anticipazione di tale criticità dà la possibilità di ge-stirla e quindi di generare azioni organizzative volte al superamento della spe-cifica criticità e al miglioramento continuo.

Nella fase di trasformazione epocale, definita da Giddens “modernità radi-cale” (1994) e da Bauman “modernità liquida” (1993), anche il ruolo delle professioni viene a mutare in modo incisivo. L’utente si colloca in un contesto in cui viene richiesto un incremento di riflessività; le possibilità dell’azione individuale e quindi di opzione e di costruzione delle proprie “identità” ri-chiedono al tempo stesso un incremento di soggettività e di razionalità (o me-glio di ragionevolezza). Il contesto si presenta come ambiguo, complesso e foriero di opportunità e di rischi, che vengono socialmente imputati e affidati alla mera responsabilità personale. Alle politiche dell’emancipazione, «fina-lizzate a perseguire il controllo del potere di distribuzione delle risorse, o delle opportunità di vita [per cui] scopo di fondo è la creazione di condizioni strut-turali che facilitino l’autonomia di ciascun individuo (Giddens 1997)» si af-fianca una nuova dimensione: quella delle politiche della vita, ovvero di «co-me si debba vivere in un mondo nel quale tutto ciò che era naturale, o tradi-zionale, diventa l’oggetto di una scelta o di una decisione attiva da parte di ciascuno di noi» (Ferguson 2001, 48). Ciò comporta, per le professioni, di fa-re i conti con un utente sempre più protagonista delle proprie scelte e quindi delle proprie competenze. Come sottolinea Tousijn, «ai professionisti viene richiesta una nuova responsabilità (accountability), che comporta l’introduzione nella pratica professionale di criteri di efficienza e di meccani-smi di controllo e valutazione delle prestazioni e dei risultati. Non è più suffi-ciente che le competenze tecniche dei professionisti siano certificate una volta per tutte al momento dell’accesso alla professione, sulla base delle credenziali

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educative verificate da un ordine professionale: esse vanno dimostrate con i fatti» (Tousijn 2004, 239). In tale prospettiva, una professione che non sia in grado di dimostrare con i fatti le proprie competenze è destinata all’irrilevanza e quindi all’obsolescenza. Possiamo allora delineare i vantaggi che il posizionamento del servizio sociale nel paradigma narrativistico offre - in virtù dell’essere questo adeguato alla natura del proprio ”oggetto” conosci-tivo - in ordine alla rendicontabilità (accountability) e alla spendibilità delle competenze (delivery):

- è possibile definire obiettivi operativi, in quanto tali esplicitabili, descri-vibili, condivisibili, valutabili e che individuano processi organizzativi per il loro raggiungimento; - è possibile definire gli strumenti concettuali e gli indicatori per un asses-sment accurato e per il counselling; - è possibile rendere confrontabili i metodi di intervento, dal punto di vista della valutazione di processo e dell’efficacia e dell’efficienza; - è possibile favorire il percorso di riflessività e il va’-e-vieni tra teorie e prassi e l’implementazione del «contratto riflessivo» (Schön 1993, 293-354), in quanto il modello impiega il linguaggio comune e quindi è “tra-sparente” anche agli utenti; - è possibile produrre un incremento nella definizione del ruolo professio-nale; - è possibile ridefinire gli approcci delle policies verso l’obiettivo della ca-pacitazione e della promozione delle competenze delle persone e dei con-testi vitali: a partire dalla ricalibrazione della dimensione micro e meso an-che la prospettiva macro dei sistemi organizzativi istituzionali delle risorse vengono ridefiniti nel passaggio dalla focalizzazione sugli oggetti materiali e quindi sulla mera dimensione prestazionale (bisogni e risposta ai bisogni) alla prospettiva del paradigma narrativistico che si fonda sulle configura-zioni di realtà che rendono o non rendono disponibili capacitazioni sociali, competenze e responsabilità personali; - i professionisti del servizio sociale possono confrontarsi in modo più a-gevole con altre professioni, a partire da un proprio fondamento specifico, da propri elementi descrivibili e da competenze esclusive e ciò fa sì che diventi possibile realizzare un processo di integrazione organizzativa, in virtù della possibilità di condividere la definizione degli obiettivi e dei modelli applicativi; - le competenze generate sono trasferibili da un ambito di intervento a un altro, cosa impossibile se invece il ruolo si fonda sulle mere capacità e sull’esperienza (che non sono esportabili);

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- il processo di cambiamento è descrivibile e quindi è comunicabile chia-ramente e la teoria e il modello applicativo sono trasmissibili in ambito formativo. Ciò contribuisce a dare maggiore fondamento al servizio sociale come di-

sciplina e professione (ovvero come prassi operativa disciplinata) che può col-locarsi in modo adeguato nel processo di cambiamento contemporaneo, con proprie competenze esclusive, con un ruolo definito e non ancillare verso nes-suna altra professione e con piena «autonomia tecnico-professionale e di giu-dizio in tutte le fasi dell’intervento» sociale (Legge 84/93). Il contributo della ricerca nel supportare la professione risulta pertanto cruciale, proprio nella misura in cui questa voglia collocarsi in contesti in cui il confronto tra obietti-vi e risultati, processi ed esiti debba e possa essere rendicontabile, al di là dell’approccio metodologico che si utilizzi. La svolta paradigmatica costituita dal modello dialogico permette proprio di confrontare metodologie e buone prassi, per quanto possono concorrere al raggiungimento dell’obiettivo: «L’idea del lavoro sociale come testo, come narrazione – che si oppone all’idea che esso sia una scienza esatta – occupa il centro della scena. Laddo-ve la scienza cerca regolarità, spiegazioni e concatenazioni causali, qui si cer-cano (e si vogliono generare - nota degli autori) eccezioni e racconti che crei-no significati e portino a un cambiamento positivo» (Parton e O’Byrne 2005, 196).

Cosa possiamo dire al lettore che intenda sperimentare quanto presentato? Spesso avviene che nel confronto con quanto la produzione e la riflessione scientifica ci porgono – magari perché diverso da quanto abbiamo appreso nel nostro percorso formativo – si generino i discorsi dell’incommensurabilità di quanto, nuovo, ci invita a modificare la coerenza attuale. Frasi quali «Ma allo-ra? E tutto quello che ho imparato finora?» oppure «Ho speso tempo e denaro per formarmi e oggi vedo che tutto ciò non mi serve a molto...» demarcano una legittima preoccupazione che tuttavia si inscrive nel senso comune. Par-tiamo dall’idea che la scienza trasformi il senso comune e che la validità del rapporto tra teoria e prassi – alla fine – sia asseribile in virtù di quest’ultima, ovvero grazie ai riscontri che l’operatività teoricamente orientata e giustificata fornisce: «La maggior parte delle nostre credenze basate sul senso comune deve essere esatta da un punto di vista pratico, ché, altrimenti, la scienza non sarebbe mai iniziata; ma alcune si rivelano errate. La scienza diminuisce il lo-ro numero; in questo senso, essa corregge il senso comune, quantunque ne de-rivi. Il procedimento è esattamente simile a quello della rettifica di una testi-monianza con altre testimonianze, dove si assume con sicurezza che la testi-monianza è di solito degna di fede» (Russell 1961). Ma la teoria, nell’ambito delle prassi operative, non è un oggetto di fede che richieda adesioni etiche o esistenziali in virtù di entusiastici invaghimenti o di patti di fedeltà a scuole di

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pensiero. Essa richiede metodo e critica, e viene mantenuta e, nel caso, corro-borata se, con tutte le cautele e gli avvertimenti che abbiamo esposto in questo libro, produce ricadute applicative vantaggiose e in grado di raggiungere risul-tati attesi, ovvero permette la spendibilità delle competenze. Sappiamo, d’altro canto, che la razionalità e la progressività di una teoria non bastano a far sì che questa venga accreditata e quindi accolta nei domini disciplinari pertinen-ti. Come esplicita Feyerabend (1979), la teoria di Copernico non ebbe succes-so in virtù della sua razionalità “evidente”; essa non si adattava a molti dei “fatti” ritenuti indiscutibili in quell’epoca ovvero dal senso comune, come le concezioni aristoteliche sull’armonia dell’universo. Ancor di più, Khun (1969) rileva che le argomentazioni a favore della teoria copernicana non fos-sero migliori – anzi erano peggiori – rispetto alla teoria geocentrica. Solo do-po la diffusione del telescopio e della teoria di Galileo iniziò lentamente la «conversione», come la chiamano Hughes e Sharrock:

il punto che Feyerabend vuole sottolineare è che “conversioni” simili non sono il risultato della ragione, dell’evidenza o del metodo, ma hanno molto a che fare con l’interesse, l’ideologia, e convinzioni culturali più generali [...] il progresso scien-tifico riguarda qualcosa di molto più che la razionalità [...] Il concetto chiave qui è il linguaggio (Hughes e Sharrock 2005, 112 e 203).

«Un problema è sempre un’aspettativa delusa», scrive Antiseri, e la ricerca

parte proprio dai problemi; per rispondere al compito «dobbiamo imparare a sognare, perché non c’è nessun modo logico per avere nuove idee per risolve-re i problemi». Le teorie non sono determinate dai fatti (Quine 1986) e per tentare e costruire teorie è necessario immaginare “sociologicamente” e poi misurarsi con quanto il “discorso” scientifico ha generato; come avvenne a Filippo Ignazio Semmelweis che “inventò” l’asepsi, di cui efficacemente nar-ra Céline:

[Egli] pensa di far praticare il lavaggio delle mani a tutti gli studenti prima che af-frontino le donne incinte. Ci si domanda il “perché” di questa misura, a cui nulla rispondeva nello spirito scientifico dell’epoca. Era una pura creazione. […] La ra-gione più elementare non vorrebbe forse che l’umanità si fosse per sempre sbaraz-zata di tutte le infezioni che la tormentano, o perlomeno della febbre puerperale, sin da quel mese di giugno del 1848? Certo. Ma la Ragione, decisamente, non è altro che una minuscola forza universale, poiché non ci vorranno meno di qua-rant’anni prima che i migliori ingegni accettino e infine applichino la scoperta di Semmelweis (Céline 1979, 56). In questo percorso, molta teoria sarà “consumata” e molto senso comune

sarà trasformato, nella misura in cui ne sarà pervaso e non persuaso. Ogni

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volta che prendiamo una nave o un aereo non ci viene certo alla mente che il senso comune dice che, per quante volte possiamo provarci, e quindi in virtù dell’esperienza, il metallo sull’acqua non galleggia, né che tanto meno “gal-leggia” nell’aria. La teoria di Archimede ha “fatto” galleggiare il ferro e con ciò ha permeato e trasformato il senso comune. L’ingegnere navale non ha certo bisogno di attendere il varo della nave per verificare che galleggi: egli lo “sa” già prima, in virtù della correttezza dei suoi calcoli rispetto alla teoria di riferimento. Noi, come professionisti e scienziati della nostra prassi, abbiamo il compito di impiegare quanto il senso scientifico mette a disposizione per generare cambiamento.

Sta a noi far sì che il ferro galleggi.