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SCUOLA ALTA FORMAZIONE SPECIALISTICA AVVOCATI IN “DIRITTO DELLE PERSONE, RELAZIONI FAMILIARI E MINORENNI” – IV EDIZIONE di CAMMINO in collaborazione con Scuola Superiore Avvocatura e i Dipartimenti di Giurisprudenza delle Università di Roma Tre, Cassino – Lazio meridionale, Salerno XI MODULO Persone migranti, diritti fondamentali. La tutela delle relazioni familiari e dei minorenni 5 febbraio 2021 Lucia Tria Il diritto all’unità familiare dei migranti tra normativa nazionale e normativa europea SOMMARIO: Introduzione sul ruolo centrale dei giudici e degli avvocati. 1.– Gli immigrati nei Paesi UE e in Italia: alcuni dati statistici. 2.- La migrazione familiare: uno dei pilastri della multietnicità dell’Europa e dell’Italia. 3.- Migranti “forzati” e migranti “economici”. 3.1.- Il destino delle persone determinato da una fragile distinzione. 4.- Migranti e “golden migrants”. 5.– Il ricongiungimento familiare: nella UE e in Italia. 5.1.− Introduzione. 5.2.− Disciplina. 5.3.− Requisiti. 5.4.− Familiari per i quali si può chiedere il ricongiungimento (o rispetto ai quali si può chiedere il permesso di soggiorno per motivi familiari). 5.5.− Procedura. 5.6.− Permesso di soggiorno per motivi familiari. 5.7.− Rigetto dell’istanza, revoca e diniego del rinnovo. 5.8.− Situazioni particolari. 5.8.1.− Ricongiungimento o ingresso dei familiari al seguito di cittadino italiano o comunitario. 5.8.2.− Immigrati minorenni (rinvio). 6.– In particolare: ricongiungimento familiare e protezione internazionale. 7.– Giurisprudenza. 7.1.- Breve premessa metodologica relativa alle modalità di interpretazione delle pronunce delle Corti europee centrali. 7.2.- Il carattere “dinamico” della giurisprudenza della Corte EDU. 8.─ Giurisprudenza della Corte di Strasburgo riferita all’art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare) – uno sguardo d’insieme. 8.1.- La giurisprudenza della Corte EDU in materia di tutela della vita privata e familiare (in senso stretto). 8.2.– Giurisprudenza della Corte di Lussemburgo in materia di relazioni familiari dei cittadini extra-UE. 8.3.─ Giurisprudenza della Corte 1

Cammino...  · Web view2021/02/05  · Stranieri extracomunitari e apolidi– La tutela dei diritti civili e politici, Milano, Giuffré, 2013., riconosciuta anche dall’art. 10,

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di CAMMINO
in collaborazione con Scuola Superiore Avvocatura
e i Dipartimenti di Giurisprudenza delle Università di Roma Tre, Cassino – Lazio meridionale, Salerno
XI MODULO
Persone migranti, diritti fondamentali. La tutela delle relazioni familiari e dei minorenni
5 febbraio 2021
Lucia Tria
Il diritto all’unità familiare dei migranti tra normativa nazionale e normativa europea
Sommario: Introduzione sul ruolo centrale dei giudici e degli avvocati. 1.– Gli immigrati nei Paesi UE e in Italia: alcuni dati statistici. 2.- La migrazione familiare: uno dei pilastri della multietnicità dell’Europa e dell’Italia. 3.- Migranti “forzati” e migranti “economici”. 3.1.- Il destino delle persone determinato da una fragile distinzione. 4.- Migranti e “golden migrants”. 5.– Il ricongiungimento familiare: nella UE e in Italia. 5.1.− Introduzione. 5.2.− Disciplina. 5.3.− Requisiti. 5.4.− Familiari per i quali si può chiedere il ricongiungimento (o rispetto ai quali si può chiedere il permesso di soggiorno per motivi familiari). 5.5.− Procedura. 5.6.− Permesso di soggiorno per motivi familiari. 5.7.− Rigetto dell’istanza, revoca e diniego del rinnovo. 5.8.− Situazioni particolari. 5.8.1.− Ricongiungimento o ingresso dei familiari al seguito di cittadino italiano o comunitario. 5.8.2.− Immigrati minorenni (rinvio). 6.– In particolare: ricongiungimento familiare e protezione internazionale. 7.– Giurisprudenza. 7.1.- Breve premessa metodologica relativa alle modalità di interpretazione delle pronunce delle Corti europee centrali. 7.2.- Il carattere “dinamico” della giurisprudenza della Corte EDU. 8. Giurisprudenza della Corte di Strasburgo riferita all’art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare) – uno sguardo d’insieme. 8.1.- La giurisprudenza della Corte EDU in materia di tutela della vita privata e familiare (in senso stretto). 8.2.– Giurisprudenza della Corte di Lussemburgo in materia di relazioni familiari dei cittadini extra-UE. 8.3. Giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di relazioni familiari degli immigrati extra-UE. 8.4.– Giurisprudenza della Corte di cassazione. 8.5.− Giurisprudenza amministrativa di interesse. 9.− Gli immigrati minorenni. 9.1.− Inquadramento generale. 9.2.− Giurisprudenza della Corte di cassazione. 9.3.− Giurisprudenza amministrativa in materia. 10.- Conclusioni.
Introduzione sul ruolo centrale dei giudici e degli avvocati.
La caratteristica peculiare della condizione giuridica dei migranti è rappresentata dalla soggezione ad una pluralità di ordinamenti giuridici[footnoteRef:1], riconosciuta anche dall’art. 10, secondo comma, della nostra Costituzione in base al quale: «La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali». [1: Per eventuali approfondimenti sulla complessa disciplina che regola la situazione dei migrati nella UE e in Italia mi permetto di rinviare a L. Tria, Stranieri extracomunitari e apolidi– La tutela dei diritti civili e politici, Milano, Giuffré, 2013.]
Questo comporta che, in linea generale, quando si affronta la questione dei diritti fondamentali da riconoscere ai migranti extracomunitari la prospettiva non può non essere molteplice cioè internazionale, sovranazionale e nazionale.
Nei Paesi europei, in particolare, si deve tenere conto del diverso percorso che hanno seguito nella materia rispettivamente il sistema CEDU (che, com’è noto, fa riferimento al Consiglio d’Europa) e il sistema UE.
Va comunque considerato non solo che gli strumenti giuridici che regolano, sia a livello internazionale (e sovranazionale) sia al livello nazionale, la condizione dei migranti sono coordinati e complementari, ma anche che l’efficacia di tali strumenti rappresenta, in un certo senso, il banco di prova delle democrazie contemporanee.
Si tratta, infatti, dell’ambito in cui più di ogni altro emerge la necessità di assicurare un ragionevole bilanciamento tra libertà e sicurezza e tra i diversi diritti che ne conseguono e che comunque risultano essere compresi tra i diritti e le libertà fondamentali.
Ciò significa che, come in effetti è accaduto, un ruolo determinante per consentire tale difficile operazione è quello che hanno svolto e svolgono i Giudici.
Del resto, come è stato autorevolmente sostenuto da Valerio Onida, “il diritto dei diritti fondamentali” oggigiorno non è tanto di competenza del legislatore (le cui scelte sono spesso condizionate dal dare risposta ai transeunti problemi che, via via, sono sentiti come urgenti dalla volontà popolare), quanto piuttosto dei giudici, perché involge problemi di equilibrio di fondo che possono essere assicurati meglio in sede giudiziaria, a condizione che i giudici siano aperti al sopranazionale e all’internazionale e, cioè, ad instaurare un dialogo tra loro, non solo all’interno dei singoli ordinamenti di appartenenza, ma anche con le Corti sopranazionali, come la Corte EDU e la Corte di giustizia UE. In tal modo, si potrà creare un nuovo modello di produzione del diritto in senso oggettivo — una sorta di diritto comune dei diritti fondamentali — che avvicina i Paesi di civil law a quelli di common law.
Tra i giudici comuni la nostra Corte di cassazione ha contribuito in modo significativo a rendere migliore il livello di tutela degli stranieri nel nostro Paese, con decisioni di grande interesse, sintomo dell’apertura dell’istituzione all’internazionale e al sovranazionale.
Comunque, dal punto di vista istituzionale, il primo Giudice chiamato a dare un importante contributo alla suddetta difficile impresa è stata ed è la Corte costituzionale. Non va dimenticato, del resto, che molti anni fa il grande Luigi Mengoni — sul finire del suo mandato di Giudice costituzionale — significativamente sottolineò che il «problema centrale della giurisprudenza costituzionale» è quello di pervenire ad un equo bilanciamento tra principi o diritti fondamentali, avendo l’«abilità di usare il patrimonio di sapienza giuridica ereditato dal passato e in pari tempo di ridurlo là dove occorre dare spazio a nuovi punti di vista». Infatti, «non c’è nessun diritto — nemmeno i preferred rights o “valori supremi” — che, a partire da un determinato contesto, non possa essere limitato sulla base di un test comparativo con altri diritti o principi divergenti ».
In ambito europeo un ruolo di grande rilievo ha avuto la Corte di giustizia UE, infatti come ha sottolineato Giorgio Napolitano, all’epoca Presidente della Repubblica[footnoteRef:2] la Corte ha dimostrato, nel lungo, faticoso e non lineare cammino dell’integrazione europea cominciato più di cinquanta anni fa, di essere « l’istituzione che più di ogni altra ha tenuto fermo il timone della visione originaria della costruzione europea e ne ha garantito il graduale, deciso progredire ». E anche Jacques Delors ha più volte affermato che « l’Europa di Robert Schuman non sarebbe stata possibile senza la giurisprudenza », rilevando, in particolare, come proprio il diritto e la giurisprudenza abbiano « posto su basi nuove — pacifiche, di reciproca comprensione, di rispetto di regole comuni — i rapporti tra gli Stati riconosciutisi nel progetto europeo » e come proprio il diritto debba restare « alle fondamenta della costruzione europea ». [2: In un intervento dinanzi a quella Corte, tenuto a Lussemburgo il 4 febbraio 2009, consultabile sul sito della UE www.europa.eu ]
Ovviamente, anche la Corte di Strasburgo ha avuto un ruolo molto significativo non solo per l’innalzamento del livello di tutela dei diritti umani in generale, ma soprattutto per l’ampliamento dell’ambito di tutela degli stranieri, principalmente grazie al suo “indomabile dinamismo interpretativo”, che — ancorché sia inserito in un sistema che purtroppo non sempre ne garantisce l’effettiva utilità per l’interessato — comunque ha portato la Corte EDU d emettere, soprattutto negli ultimi tempi (come vedremo) significative sentenze in questa materia, molto innovative rispetto alla sua precedente giurisprudenza.
In questa situazione è del tutto comprensibile che nei confronti degli stranieri migranti — che sono per definizione soggetti deboli, anche quando non appartengono a specifiche categorie protette (es. minori, invalidi etc.) — il diritto di difesa, inteso in senso ampio, quindi non solo nel processo ma anche prima e “a fianco” del processo, cioè in sede amministrativa (all’ingresso ovvero durante il soggiorno) nonché nell’accesso al giudice, abbia un ruolo prioritario.
E per tale ragione, diversamente da ciò che normalmente accade, nel presente ambito materiale la disciplina processuale e le relative pronunce interpretative hanno un ruolo prioritario — e anche “condizionante” (in termini definitori della situazione giuridica protetta) — rispetto alla disciplina sostanziale.
Del resto, non va dimenticato che, in ambito nazionale, la prima tappa del cammino verso una migliore tutela dei diritti degli immigrati si suole individuare in una pronuncia in materia processuale e, precisamente, nella storica Cass., S.U. 9 marzo 1979, n. 1463 (in tema di diritto alla salute e centrali nucleari) che, sulla scorta della dottrina tedesca, ha, per la prima volta, configurato una categoria di diritti fondamentali “inaffievolibili” per effetto dell’esercizio del potere autoritativo dell’Amministrazione, con conseguente radicamento in capo al giudice ordinario della giurisdizione sulle controversie riguardanti i provvedimenti amministrativi lesivi di tali diritti.
Infatti, si fa risalire all’accettazione da parte del legislatore di tale indirizzo interpretativo — consolidatosi nel tempo — la previsione, prima nella legge 6 marzo 1998, n. 40 e successivamente nel testo unico di cui al d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, di situazioni nelle quali il diritto soggettivo dello straniero non può subire compressioni a causa dell’intervento del potere amministrativo, effettuata in un momento in cui la distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi era ancora molto netta nel nostro ordinamento[footnoteRef:3]. [3: Come è noto tale distinzione ha cominciato ad “affievolirsi” a partire dalla famosa Cass. SU 22 luglio 1999, n. 500.]
E l’anzidetto ruolo prioritario del diritto di difesa trova ragione anche nel fatto che i migranti fin dalla fase di arrivo – o di impedito ingresso − nel nostro territorio si trovano ad essere destinatari di una serie di norme di segno diverso dettate, rispettivamente, a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica (e contenute principalmente nel TU sull’immigrazione) e dei diritti fondamentali dell’immigrato (contenute principalmente nella nostra Costituzione, nella normativa UE, nella Carta dei diritti fondamentali UE, nella CEDU, oltre che nelle convenzioni ONU ratificate dall’Italia), il cui coordinamento — che è tutt’altro che agevole anche per gli “addetti ai lavori” — risulta spesso incomprensibile (anche per ragioni linguistiche) agli interessati e contribuisce ad indebolirne la già precaria condizione.
Per tutte le indicate ragioni, non credo si possa parlare di giurisdizione in materia di immigrazione – a qualunque livello – senza avere uno sguardo ampio, aperto all’internazionale e al sovranazionale.
Solo in questo modo, infatti, è possibile comprendere quale sia stata l’evoluzione delle garanzie procedurali in favore degli immigrati applicabili nell’ambito sia delle controversie in materia ingresso, di soggiorno e di espulsioni sia di quelle in materia di protezione internazionale e apprezzarne le criticità persistenti, pur dopo le modifiche di tipo processuale introdotte prima dal d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150 e poi dal d.l. n. 13 del 2017 convertito dalle legge n. 46 del 13 aprile 2017, nonché la interpretazione evolutiva della Corte di cassazione in materia di riparto di giurisdizione sulle controversie riguardanti i provvedimenti di trattenimento illegittimi (a partire dalle ordinanze delle Sezioni unite 13 giugno 2012, n. 9596 e 12 dicembre 2012, n. 22788) e sui respingimenti (Cass. SU 17 giugno 2013, n. 15115 e Cass. SU 10 giugno 2013, n. 14502).
Se il diritto di difesa – inteso in senso ampio – ha un ruolo centrale nella materia è evidente che anche il ruolo degli avvocati è particolarmente importante.
Infatti, gli avvocati e i giudici, ciascuno nel loro specifico ruolo, sono chiamati a fare molto per evitare o limitare le violazioni dei diritti fondamentali dei migranti non solo perché hanno gli strumenti tecnici per addentrarsi nella questioni giuridiche molto complesse – processuali e sostanziali – che si pongono nel diritto dell’immigrazione, ma soprattutto perché svolgono delle attività nelle quali si manifesta nel modo più significativo la finalità propria del diritto, quale scienza da includere nel novero delle scienze sociali le quali, nell’ambito della categoria delle c.d. “scienze umane”, sono caratterizzate dal fatto di studiare comportamenti collettivi.
E credo che, per avere conferma di questo, sia sufficiente ricordare le parole di Piero Calamandrei che in un bellissimo libro scritto nel 1935, ma tuttora di grande attualità, ha sottolineato come queste due professioni, diverse ma complementari, non si possano fare impegnando solo il cervello e non anche il cuore.
Infatti, da un lato, è il “mutevole cuore del giudice” che comanda nel margine di scelta che l’esegesi delle leggi lascia all’interprete, e, d’altra parte “l’avvocato deve essere prima di tutto un cuore: un altruista, uno che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sé, assumere i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce. L’avvocatura è una professione di comprensione, di dedizione e di carità” [footnoteRef:4]. [4: P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, 1935]
In entrambi i casi, quindi, non basta avere capacità o efficienza tecnica – che, comunque, sono “precondizioni” ineludibili – ma è necessario che, oltre all’intelligenza cognitiva, vi sia l’impegno dell’intelligenza emotiva, che – come si desume dal bellissimo libro di Daniel Goleman in materia − è quella che veicola la conoscenza.
E se questa è una regola da applicare a tutti gli ambiti materiali in cui si è chiamati a svolgere quelle attività – così come tutte le attività che sono applicazioni delle scienze sociali − è del tutto evidente che tale regola valga, a maggior ragione, quando si tratta di intervenire come giudici o come difensori in controversie nelle quali vengono in considerazione diritti fondamentali, quali sono di solito quelle in materia di immigrazione.
E credo che in simili ambiti svolgendo con impegno il proprio rispettivo ruolo giudice e avvocati potrebbero contribuire a diffondere una maggiore solidarietà fra le persone e quindi a realizzare un modello di società conforme a quello avuto di mira dai nostri Costituenti e anche dagli iniziatori del “progetto europeo”, che oggi è così fragile proprio su questo fronte.
In questo il lavoro svolto dai giornalisti è di grande importanza, ma anche il ruolo dell’Avvocatura può essere rilevantissimo perché, come ha detto l’allora Presidente del CNF Andrea Mascherin del dare inizio al primo G7 dell’avvocatura nel settembre 2017 (iniziativa di cui il CNF è stato promotore) l’avvocato “può essere soggetto garante della pacifica convivenza per la nuova cittadinanza globale”.
Da tempo, del resto, l’Avvocatura italiana dimostra di avere piena consapevolezza della necessità di impegnarsi in prima linea per la salvaguardia dei diritti umani e fondamentali e attraverso una svolta “culturale” ma anche “etica” che riguarda il nostro Paese ma pure tutta l’Europa in attuazione non solo di quanto prescrive l’art. 4, comma secondo, della Costituzione italiana − secondo cui: “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” – ma anche in attuazione del Codice deontologico degli Avvocati europei e del Nuovo Codice deontologico degli Avvocati italiani, che ha fra i suoi obiettivi la valorizzazione della “funzione sociale della difesa”.
Quindi, mi permetto di suggerire all’avvocatura di continuare a percorrere questa strada con la massima convinzione: diffondere la solidarietà e rapporti sociali aperti e basati sulla fiducia reciproca.
Ne hanno bisogno i migranti ma ne abbiamo bisogno tutti.
1.– Gli immigrati nei Paesi UE e in Italia: alcuni dati statistici.
La difficile opera del giurista che vuole avvicinarsi al diritto dell’immigrazione non deriva soltanto dalla oggettiva complessità tecnica della materia, ma anche dalla sua multidisciplinarietà: in altri termini l’ampiezza del suo sguardo non si deve limitare al diritto ma deve rivolgersi anche ad altre discipline come la geo-politica, la storia, l’antropologia, la psicologia e così via.
Tra queste scienze quella che consente di avere un primo orientamento muovendo da una base solida è sicuramente la scienza statistica.
Per questo credo che possa essere utile cominciare dal riportare – in estrema sintesi − alcuni dati che risultano da recenti rapporti statistici, riferiti rispettivamente alla UE-27 e all’Italia.
Dai dati diffusi di recente da EUROSTAT − l'istituto di statistica dell'Unione Europea – risulta, in sintesi, che tra il 2008 e il 2012 si è registrato un graduale aumento del numero di domande di asilo nell'ambito dell'UE-27; successivamente il numero di richiedenti asilo è cresciuto a un ritmo più sostenuto, con 400 500 domande nel 2013, 594 200 nel 2014 e circa 1,3 milioni nel 2015. Nel 2016 il dato si è attestato intorno a 1,2 milioni di domande. Nel 2017 il numero di domande di asilo ha avuto una significativa diminuzione del 44,5 % rispetto al 2016 e ha seguito un andamento discendente anche nel 2018.
Nel 2019 si è registrato il primo incremento nel numero delle domande di asilo dal 2015 su base annuale (676.300 ossia l'11,2 % in più rispetto al 2018).
Il Paese nel quale la percentuale delle prime domande di tutti i richiedenti asilo nell'UE-27 è stata più elevata è stata la Germania (23,3 %). Seguono Francia (119.900, pari al 19,6 %), Spagna (115.200, pari al 18,8 %), Grecia (74.900, pari al 12,2 %) e, al quinto posto, Italia (35.000, pari al 5,7 %).
Quanto all’età e al sesso dei richiedenti asilo alla prima domanda, nel 2019 nella UE -27 oltre i tre quarti (77,3 %) dei richiedenti asilo alla prima domanda avevano meno di 35 anni di età, quelli di età compresa tra i 18 e i 34 anni erano poco meno della metà (47,0 %) del numero totale dei richiedenti alla prima domanda, mentre quasi un terzo (30,3 %) del numero totale di richiedenti alla prima domanda era composto da minori sotto i 18 anni.
Tale distribuzione dei richiedenti asilo per fasce di età, con la quota maggiore rappresentata dai richiedenti di età compresa tra i 18 e i 34 anni, si è rinvenuta in quasi tutti gli Stati membri dell’UE-27. Vi sono tuttavia alcune eccezioni a tale modello: Germania, Estonia, Lituania, Ungheria, Austria e Polonia hanno registrato una proporzione maggiore di richiedenti asilo di età inferiore a 18 anni.
La distribuzione per genere dei richiedenti asilo alla prima domanda rivela che gli uomini in cerca d’asilo (61,9 %) sono stati più numerosi delle donne (38,1 %).
Nelle fasce di età più giovani (0-13 anni), la quota maschile ammontava al 51,2 % del numero totale dei richiedenti nel 2019. Maggiori disparità sono state rilevate nelle domande d’asilo tra i richiedenti nelle fasce di età 14-17 anni oppure 18-34 anni, in cui rispettivamente il 67,9 % e il 69,0% dei richiedenti asilo alla prima domanda erano di sesso maschile; per la fascia di età 35-64 anni questa quota era scesa al 58,0 %.
In tutta l’UE-27 la quota femminile di richiedenti asilo ha superato nel 2019 quella maschile per la fascia di età di 65 anni e più, sebbene tale gruppo sia relativamente poco consistente in termini numerici, rappresentando solo lo 0,8 % (0,5 % di sesso femminile e 0,3 % di sesso maschile) del numero totale dei richiedenti asilo alla prima domanda.
Nel 2019 ci sono state 14.100 domande nella UE-27 da parte di minori non accompagnati; il 7,1 % del totale dei minori è costituito da individui non accompagnati.
Nella maggior parte degli Stati membri della UE-27 la proporzione di minori non accompagnati è stata inferiore al 20 %. Solo in cinque Stati membri sono stati registrati tassi più elevati: Romania (34,5 %), Cipro (46,9 %), Slovacchia (69,8 %), Bulgaria (71,8 %) e Slovenia (80,2 %).
Per quel che concerne le decisioni relative alle domande di asilo, sicuramente il numero maggiore di decisioni (di primo grado e definitive) è stato adottato in Germania, che ha emesso il 28,5 % di tutte le decisioni di primo grado e il 44,2 % di tutte le decisioni definitive nell’UE-27 nel 2019.
Complessivamente le decisioni di primo grado sono state favorevoli nel 38 % dei casi.
La Bulgaria è lo Stato UE-27 nel quale si è avuto il numero maggiore di decisioni definitive con esito positivo rispetto al numero totale delle decisioni definitive (67,7 %), seguita da Austria (55,7 %), Irlanda (48,9 %), Paesi Bassi (48,0 %), e Finlandia (44,9 %). Invece, in Estonia, Lituania e Portogallo tutte le decisioni definitive sono state negative.
Per quel che riguarda, in particolare, l’Italia da recenti rapporti ISTAT e ISMU − Iniziative e Studi sulla Multietnicità – si rileva che nel 2019 ha continuato a diminuire la presenza non comunitaria: -3% al 1° gennaio 2020 su anno.
Nell’insieme, considerando soltanto i permessi con scadenza (quindi non di lungo periodo), il 46% dei cittadini non comunitari si trovano in Italia per motivi di famiglia, il 29,4% per lavoro e il 16,2% per motivi di protezione internazionale, ma sono notevoli le differenze territoriali. Al Sud e nelle Isole la quota di permessi di soggiorno per famiglia si attesta al di sotto del 37%; mentre nel Nord-est e Nord-ovest supera il 50%.
Nel 2019 sono stati rilasciati 177.254 permessi di soggiorno (-26,8% sul 2018) e sul totale il calo più sensibile si è registrato per quelli relativi a richieste di asilo (da circa 51.500 a 27.029, -47,4%).
Nei primi 6 mesi del 2020 sono stati concessi a cittadini non comunitari circa 43mila nuovi permessi di soggiorno (meno della metà del primo semestre 2019).
Sono aumentate le acquisizioni di cittadinanza (127.001 nel 2019) che in quasi nove casi su dieci hanno riguardato cittadini precedentemente non comunitari.
La diminuzione dei flussi in ingresso nel nostro Paese, iniziata già prima della pandemia da Covid-19, ha subito un’ulteriore contrazione successivamente e questa ha interessato in maniera generalizzata i permessi richiesti per tutte le diverse motivazioni all’ingresso.
Però pure nel 2019 il calo maggiore ha interessato i permessi rilasciati per richiesta di asilo, come si è detto.
Sono in calo anche i permessi per lavoro (-22,5%), che invece erano cresciuti tra il 2017 e il 2018; i permessi per ricongiungimento familiare (-17,8%); i permessi per studio (-7,4%), caratterizzati da un’elevata quota di ingressi di giovanissimi (oltre il 56,5% ha meno di 25 anni) e di donne (57,9% dei flussi per studio).
Anche dal punto di vista degli Stati di provenienza la diminuzione degli ingressi è stata generalizzata, sebbene con notevoli differenze tra esse. Il decremento dei cittadini nigeriani nel 2019 supera il 66% rispetto all’anno precedente, mentre per gli albanesi il calo è dell’8,7%. La Nigeria passa così dal terzo posto della graduatoria generale dei nuovi rilasci al decimo.
Il calo dei nigeriani è da riconnettere alla diminuzione dei permessi per richiesta di asilo che, tra il 2018 e il 2019, sfiora il 75% e fa sì che il Paese, dopo 4 anni, perda il primato di ingressi per protezione internazionale a favore del Pakistan.
Considerando gli ingressi con permesso per richiesta di asilo distinti per cittadinanza, a fronte di una generalizzata, anche se diversificata, tendenza alla diminuzione spicca il dato relativo al Perù, che compare per la prima volta nel 2019 tra i primi dieci Paesi per questa motivazione di ingresso, collocandosi direttamente al settimo posto con oltre mille permessi (+174,5% rispetto al 2018).
Per la collettività cinese sono diminuiti in modo rilevante gli ingressi per lavoro (-51,4% dal 2018) e hanno subito una contrazione molto più elevata della media i nuovi ingressi per motivi di famiglia (- 36,8%); pressoché stabili invece i permessi per studio, che ormai interessano oltre la metà dei nuovi ingressi della collettività asiatica (nel 2018 poco più del 40% dei primi rilasci). Nel 57,9% dei casi i cittadini cinesi che entrano per studio hanno meno di 25 anni e nel 75% sono donne.
Per il Bangladesh, in controtendenza rispetto al dato generale, sono aumentati sia i permessi per famiglia (14,8%), sia quelli per studio (+21,9%).
Anche per il Marocco, che registra un calo rilevante dei permessi per famiglia (-39,6%), crescono molto i permessi per studio (+45,8%) che tuttavia risultano piuttosto esigui in termini assoluti, appena 450. Il Marocco è comunque il primo Paese africano per numero di permessi per studio.
Tra il 2018 e il 2019 l’intera Penisola è stata interessata dal blocco delle migrazioni. Le regioni dove il calo è notevolmente sopra la media sono Sardegna (-56,8%), Calabria (-53,4%) e Sicilia (-48,1%); quelle con le contrazioni di minore intensità – sebbene sempre rilevanti – sono Veneto (-14,9%) e Lazio (-19,4%).
La diffusione dell’epidemia da Covid-19 ha portato molti Paesi a chiudere le frontiere sia in entrata sia in uscita; questi provvedimenti hanno avuto conseguenze rilevanti sui flussi migratori verso il nostro Paese. Nei primi sei mesi del 2019 erano stati rilasciati oltre 100 mila nuovi permessi di soggiorno mentre nello stesso periodo del 2020 ne sono stati registrati meno di 43 mila, con una diminuzione del 57,7%.
I mesi che hanno fatto registrare la contrazione maggiore sono aprile e maggio (rispettivamente -93,4% e -86,7%), tuttavia già a gennaio e febbraio il calo dei nuovi ingressi ha sfiorato il 20% in entrambi i mesi, un dato in linea con la tendenza alla diminuzione avviatasi dal 2018.
Tutte le diverse motivazioni all’ingresso hanno risentito della chiusura delle frontiere e del rallentamento dell’attività amministrativa nelle prime fasi del lockdown, anche se con intensità diverse.
La motivazione di ingresso più rilevante, quella per ricongiungimento familiare, ha visto una contrazione del 63,6% mentre i permessi per richiesta asilo sono diminuiti del 55,5%.
Guardando le diverse collettività, la diminuzione è stata in alcuni casi superiore alla media, in particolare per quelle provenienti da India, Marocco, Ucraina, Albania e Bangladesh. A livello territoriale il decremento è stato generalizzato anche se ha colpito le diverse regioni in misura differente.
In termini relativi la regione che ha registrato la diminuzione più rilevante è l’Umbria (- 71,6%) seguita da Calabria (-68,2) ed Emilia-Romagna (-68,0%). Più contenuti i cali in altre regioni come Lazio (-40,0%) e Molise (-32,0%).
In termini assoluti è però la Lombardia a far registrare la contrazione più accentuata nei primi sei mesi dell’anno: -14.655 nuovi permessi. I dati riferiti ai primi sei mesi del 2020 sono provvisori e vengono diffusi con l’intento di contribuire tempestivamente al monitoraggio del fenomeno. Per un bilancio complessivo dell’impatto della pandemia di Covid-19 sui nuovi flussi di ingresso e sulla presenza di cittadini non comunitari sarà necessario attendere la fine dell’anno 2020.
Rispetto alla presenza, in particolare, sono ancora da valutare gli effetti della procedura di emersione dei rapporti di lavoro, avviata il 1° giugno ai sensi dell’articolo 103, comma 1, del decreto- legge n. 34 del 19 maggio 2020, che ha portato alla registrazione, in base ai dati diffusi dal Ministero dell’Interno, di oltre 207 mila domande.
Le collocazioni territoriali delle varie collettività rispondono ai diversi modelli migratori e di inserimento lavorativo.
Con riferimento al motivo del soggiorno, i lavoratori stagionali vivono in quasi il 44% dei casi in comuni rurali, mentre chi entra per studio vive in città o in aree densamente popolate (84% dei casi circa).
Si comprende quindi l’incidenza, anche da questo punto di vista, del calo che si è registrato per gli ingressi per lavoro stagionale, su cui ha pesato molto la chiusura delle frontiere; la diminuzione in questo caso è stata del 65,1%: da 2.158 nuovi permessi per tale motivazione nei primi sei mesi del 2019 a 753 nel primo semestre del 2020.
Se si considera il livello regionale, in Emilia-Romagna, che è la regione in cui era stato registrato il maggior numero di permessi per lavoro stagionale nei primi sei mesi del 2019, la diminuzione è del 90%.
Il nostro Paese continua a diversificarsi dagli altri Stati UE per essere caratterizzato da un tipo di immigrazione che – a differenza di quanto accade, ad esempio, in Germania, ove l’immigrazione è prevalentemente turca e siriana – proveniente da moltissimi Paesi ciascuno con le sue peculiarità.
Questa multietnicità può considerarsi un arricchimento, ma rende più difficile l’integrazione.
Anche per il 2019 si confermano i dati di denatalità emersi già nel Censimento del 2011, quando l’ISTAT evidenziò, fra l’altro, che il nostro è un Paese sempre più multietnico, nel quale alla scarsa natalità degli cittadini che già allora era una tra le più basse in Europa e continua ad esserlo fa riscontro un sensibile aumento degli stranieri, anche nati nel territorio nazionale, sicché la componente immigrata della popolazione offre un notevole contributo allo sviluppo del nostro Paese anche perché contribuisce a ridurne il deficit demografico con tutto ciò che ne consegue.
Tuttavia, al livello informativo e soprattutto politico, il suddetto contributo spesso risulta ignorato, come da tempo sottolinea la Caritas Migrantes, nei suoi dossier statistici annuali.
In questa ottica non va neppure dimenticato che l’Italia continua a spopolarsi, anno dopo anno.
Al 31 dicembre 2019 la popolazione residente in Italia è inferiore di quasi 189 mila unità (188.721) rispetto all’inizio dell’anno. Il persistente declino avviatosi nel 2015 ha portato a una diminuzione di quasi 551 mila residenti in cinque anni. Lo certifica l’ISTAT nel Bilancio demografico nazionale 2019. Il numero di cittadini stranieri che arrivano nel nostro Paese è in calo (-8,6%), mentre prosegue l’aumento dell’emigrazione di italiani (+8,1%).
Il record negativo di nascite dall’Unità d’Italia registrato nel 2018 è stato di nuovo superato nel 2019 e a fronte di questa situazione la progressiva diminuzione del numero di stranieri nati in Italia, porta ad una riduzione, anno dopo anno, del contributo all’incremento delle nascite verificatosi a partire dagli anni duemila della componente non comunitaria della popolazione.
Sicché tra il persistente aumento degli italiani che si trasferiscono all’estero, il calo delle immigrazioni degli stranieri e la denatalità degli italiani il Paese rischia un irreversibile declino demografico che si collega a quello economico.
Questa sorte specialmente può interessare le regioni del Mezzogiorno che sono quelle che continuano a perdere risorse qualificate – per effetto dell’emigrazione dei connazionali prevalentemente provenienti da tali regioni – e sono anche quelle meno scelte come residenza definitiva dagli immigrati che, almeno nel 2019, hanno prescelto la Lombardia (22% del totale flussi), cui seguono, a grande distanza, Lazio, Emilia-Romagna, Veneto, Toscana e Piemonte[footnoteRef:5]. [5: F. Licari, Iscrizioni e cancellazioni anagrafiche della popolazione residente | anno 2019, Report 20 gennaio 2021, www.istat.it ]
Va anche sottolineato che dati EUROSTAT risulta anche i Paesi dell’Europa occidentale e del Nord Europa soffrono una crisi delle nascite simile a quella Italiana, a differenza della Germania e dei Paesi dell’Europa dell’Est.
Molti sottolineano come la mancanza di politiche attive di contrasto all’incertezza produce conseguenze di lungo periodo sulle scelte familiari tali da poter incidere sul futuro demografico di tutta Europa e quindi sul suo peso politico nel mondo.
Va anche rilevato che nel nostro Paese purtroppo la denatalità non si è arrestata con il lockdown – come da alcuni sperato – perché in realtà, rileva l’ISTAT, il nostro Paese è sentito come ingiusto e tale per cui immaginare di esservi genitori è più difficile che altrove, prevalendo la percezione di incertezza sociale, economica e politica.
Come si è detto, nel 2019 si è registrato un lieve aumento delle acquisizioni della cittadinanza italiana da parte di non comunitari ed è interessante rilevare che, rispetto all’anno precedente, sono tornate a crescere le acquisizioni per residenza e quelle per elezione, ovvero dei diciottenni nati e residenti in Italia che decidono di diventare italiani (+28,3% e +15,1% rispettivamente) e i casi di nuovi italiani che acquisiscono la cittadinanza per ius sanguinis, ovvero per discendenza da un avo italiano (+27,1%). Mentre hanno subito un forte decremento le acquisizioni per matrimonio.
Al riguardo va sottolineato che il Ministero dell’Interno a partire dalla importante direttiva 7 marzo 2012, ha semplificato il procedimento per l’acquisto della cittadinanza ampliando la competenza dei Prefetti al riguardo nella previsione di un sensibile incremento dei procedimenti di conferimento della cittadinanza, sia per matrimonio che per residenza» fenomeno da considerare in continua crescita negli anni.
Inoltre, a decorrere dal 18 maggio 2015, è operativo il servizio messo a punto dal Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno per l’invio telematico della domanda di conferimento della cittadinanza italiana.
2.- La migrazione familiare: uno dei pilastri della multietnicità dell’Europa e dell’Italia.
Anche dalle rilevazioni statistiche dianzi sintetizzate risulta che una delle motivazioni più forti per il radicamento degli stranieri extracomunitari o apolidi in Europa − e quindi anche in Italia −è rappresentata dal desiderio di unirsi con i propri congiunti, oltre che dalla ricerca di un lavoro.
Naturalmente, si deve tenere presente che, soprattutto negli ultimi anni, ai migranti l’Europa non ha saputo dare la solidarietà sperata, a causa sia delle criticità del CEAS (Sistema comune di asilo europeo) mai diventato realmente “comune” (e attualmente all’attenzione delle Istituzioni UE per l’ennesima modifica, che non si sa quale contenuto avrà) sia del ripiegamento sui propri problemi interni, accentuatosi con la crisi economico-finanziaria, i cui effetti non sono stati ancora “assorbiti”.
Ne consegue che oggi per chi può scegliere non è più l’Europa la meta maggiormente “attraente”, perché è noto che spesso qui le speranze di chi è riuscito ad arrivare mettendo a rischio la propria vita si infrangono contro i muri della detenzione, dei respingimenti, della povertà estrema e della marginalizzazione.
E questo trova riscontro nell’andamento delle richieste di asilo registrato dagli Istituti di statistica, mentre nel mondo – e anche in Paesi a noi molto vicini come la Bosnia − le situazioni di criticità, per guerre e carestie, non sono certo diminuite
È, del resto, comprensibile che chi non ha altra scelta che lasciare il proprio Paese e costruire una nuova vita altrove cerchi di farlo in un luogo dove non gli sia garantita soltanto la sopravvivenza fisica, ma dove gli siano riconosciuti anche la possibilità di esercitare i diritti fondamentali e civili nonché una adeguata assistenza.
In altri termini, ben si può capire che i migranti − forzati o non forzati − vadano alla ricerca non solo di una sistemazione qualsiasi ma anche di un più elevato “Indice di sviluppo umano” (HDI-Human Development Index), che, come è noto, nel 1990 è stato ideato dall’economista pakistano Mahbub ul Haq seguito dall’economista indiano Amartya Sen, come indicatore di sviluppo macroeconomico da utilizzare accanto al PIL (Prodotto Interno Lordo), sicché dal 1993 l’ONU fa riferimento anche a tale indice per valutare la qualità della vita nei Paesi membri.
In questa cornice si inserisce il “Libro verde sul diritto al ricongiungimento familiare per i cittadini dei Paesi terzi che vivono nell’Unione europea”, presentato dalla Commissione UE il 15 novembre 2011, muovendo dalla constatazione che negli Stati membri UE dotati di dati affidabili, risultava che nei primi anni 2000 la migrazione familiare corrispondeva a oltre il 50% dell’immigrazione regolare totale, tanto che la Commissione auspicava il potenziamento delle previste misure di integrazione e una riduzione del margine di discrezionalità all’epoca riconosciuto ai singoli Stati membri.
Partendo da questa premessa la Commissione, col suddetto Libro verde, aveva lanciato un dibattito pubblico al fine di individuare le soluzioni migliori per modificare la direttiva 2003/86/CE (relativa al ricongiungimento familiare) in parti fondamentali, come: i requisiti soggettivi del richiedente, la qualifica di familiare le misure di integrazione stabilite dalle discipline nazionali (periodo di attesa autorizzato, livello di reddito richiesto, eventuali altre condizioni), l’estensione dell’applicazione del ricongiungimento familiare anche ai beneficiari di protezione sussidiaria e l’alleggerimento delle condizioni stabilite per i rifugiati, ulteriori modifiche per uniformare la normativa contro gli abusi e le frodi, nonché alcuni adempimenti procedurali.
I risultati di questa consultazione pubblicati l’11 maggio 2012 dalla Commissione stessa, si sono rivelati significativi soltanto per quel che riguarda il consenso sulla necessità di ampliare la tutela in favore dei beneficiari di protezione internazionale, come vedremo più avanti.
3.- Migranti “forzati” e migranti “economici”.
Già da quest’ultima notazione si comprende come anche la disciplina del diritto all’unione familiare sia influenzata dalla “riesumata” distinzione tra migranti “forzati”, detti anche “profughi a lungo termine” e migranti “economici.
Tale distinzione deriva dall’individuazione della provenienza dei migranti e delle motivazioni dell’arrivo, che non sempre è agevole sia per difficoltà di tipo linguistico sia per problemi riguardanti la conoscenza della reale situazione del Paese o meglio della zona del Paese da cui il migrante proviene e gli usi e i costumi ivi praticati.
Basta pensare che se un migrante arriva in Italia provenendo dall’Afghanistan o dal Pakistan e dice di avere abbandonato il proprio Paese per aver contratto un debito divenuto molto oneroso ed impossibile da soddisfare è facile inquadrarlo come “migrante economico”, se non si considera che in questi due Paesi – come purtroppo in molti altri – secondo il Global Slavery Index, è molto frequente che in una simile situazione si possa diventare vittime del sistema della “schiavitù per debiti”, in cui il debito personale viene usato dagli sfruttatori per ottenere forzatamente manodopera. E si tratta di situazioni che possono protrarsi per moltissimi anni ed interessare intere famiglie di schiavi. Di recente è stata riportata dai nostri media la storia di una famiglia cristiana composta da ventisei persone, fra cui donne e bambini, che nel Punjab (Pakistan) è stata tenuta per trent’anni in condizione di sostanziale schiavitù prigioniera di un ricco latifondista musulmano – nella cui azienda ha dovuto forzosamente lavorare senza alcun compenso − per un debito contratto dal capo-famiglia per il matrimonio della figlia, debito che a causa degli interessi usurari (fino al 500 per cento) non poteva essere onorato. Tutto ciò con la tacita connivenza della polizia che spesso è collusa con i potenti del luogo che sono lasciati liberi di esercitare ogni tipo di violenza. Infatti, la vicenda, riferita dall’agenzia missionaria AsiaNews, si è risolta solo grazie all’intervento dei vertici cattolici della diocesi di Bahawalpur che hanno presentato una denuncia all’Alta Corte.
Ma per tutti questi lunghi anni l’intero nucleo familiare ha vissuto segregato con la forza in una galera privata.
Può anche succedere che, per le medesime ragioni, le famiglie prigioniere diventino anche una vera e propria “merce di scambio” tra facoltosi possidenti musulmani e vengano cedute dal “padrone” iniziale a un altro, che può sfruttarle in modo ancora peggiore, al punto da rendere precarie le loro condizioni di salute, minacciando ritorsioni in caso di assenza dal lavoro[footnoteRef:6]. [6: Vedi per tutti: M. Pianta, Pakistan, una famiglia cristiana schiava per 30 anni di un imprenditore musulmano - 11 luglio 2019, www.lastampa.it e S. Vecchia, Pakistan. Famiglie schiave a vita per debiti di pochi euro. E una donna sfida le gang, Bangkok domenica 30 luglio 2017, www.avvenire.it ]
È del tutto evidente che se la ragione dell’arrivo in Italia di un migrante è la paura di trovarsi in una simile situazione è del tutto improprio definire la sua migrazione come “economica”, come purtroppo prevalentemente avviene, fermandosi al contratto di mutuo senza andare oltre.
Analogamente – e questa volta per carenze normative − appare del tutto improprio qualificare allo stesso modo i c.d. “profughi ambientali”, che sono vittime principalmente dei mutamenti climatici che, di fatto, spesso risultano ancora meno tutelati degli altri profughi a lungo termine perché si possono vedere negare la protezione internazionale per il fatto che non sono espressamente contemplati dalla Convenzione di Ginevra.
Da tanto tempo si discute, della necessità di stipulare una convenzione specifica che si occupi di tutelare questa categoria di migranti.
Il Comitato Onu per i diritti umani con una decisione del 7 gennaio 2020 – ovviamente non giurisdizionale – ha aperto alla possibilità legale di riconoscere uno status speciale a chi migra a causa del cambiamento climatico, esaminando il caso di una famiglia di Kiribati − arcipelago indonesiano nel quale l’innalzamento del livello del mare, dovuto al surriscaldamento globale, potrebbe mettere in pericolo il diritto alla vita del ricorrente e della propria famiglia − i cui membri volevano ottenere lo status di profughi climatici in Nuova Zelanda.
Il pronunciamento delle Nazioni Unite, tecnicamente, non è vincolante per i governi, ma è molto importante che rappresenta in qualche modo una svolta in materia per il fatto che il Comitato ha riconosciuto, per il futuro, il diritto dei profughi climatici a non essere respinti e rinviati nei loro Paesi.
3.1.- Il destino delle persone determinato da una fragile distinzione.
Comunque, quel che è certo è che la suddetta individuazione che normalmente avviene nella fase dell’arrivo può essere determinante per il destino del migrante.
Sappiamo che i migranti “forzati”, detti anche “profughi a lungo termine “sono persone che non possono più fare ritorno nelle loro terre in quanto provengono da Paesi dove sono in corso guerre o conflitti, ma spesso anche da società in cui rappresentano una minoranza etnica o appartengono ad una religione differente da quella di alcuni estremisti ovvero appartengono ad un determinato gruppo sociale che viene perseguitato (come, ad esempio, può accadere agli omosessuali). Sicché si tratta di persone che possono chiedere la protezione internazionale (status di rifugiato o protezione sussidiaria) ovvero la nostra “protezione umanitaria”.
A questa ampia categoria di migranti viene contrapposta[footnoteRef:7] quella dei “migranti economici”, composta da soggetti che non sono “costretti” ad espatriare per ragioni politiche o per disastri naturali, ma che lo fanno volontariamente alla ricerca di migliori condizioni di vita. [7: La distinzione tra rifugiati e migranti economici è stata introdotta da E.F. Kunz (1973), The Refugee in Flight: Kinetic Models and Forms of Displacement, in “International Migration Review”, il quale aveva elaborato la cosiddetta push/pull theory, intendendo differenziare chi parte per necessità (i pushed, destinati a diventare rifugiati) da chi lo fa per scelta (i pulled, attratti da migliori prospettive economiche). Vedi, al riguardo: F. Colombo, Rifugiati e migranti economici: facciamo chiarezza, in www.lenius.it, 26 giugno 2015.]
Benché da più parti sia considerato improprio adottare una netta distinzione tra le suddette categorie di migranti e le Organizzazioni umanitarie — a partire dall’ UNHCR — da tempo facciano presente che i flussi migratori spesso sono “misti”, essa continua a rappresentare un caposaldo del Sistema europeo della immigrazione che, anche per tale impostazione, mostra di essere maggiormente finalizzato al controllo dell’immigrazione irregolare piuttosto che alla tutela del diritto di asilo.
Da tale dicotomia discende, infatti, che:
1) i migranti “forzati” possono entrare nel nostro Paese e ricevervi accoglienza secondo le norme che disciplinano la protezione internazionale (di origine ONU o UE) o umanitaria (di cui agli artt. 5, 18 e 19 del TUI) e possono eventualmente, se ne ricorrono i presupposti, restare nel territorio nazionale in base ad un permesso di soggiorno diverso (es. lavoro, studio, motivi familiari etc.) da quello inizialmente ottenuto;
2) gli altri migranti invece devono rispettare il regime “ordinario” in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato[footnoteRef:8], che, per il lavoro, in Italia, si basa sul c.d. decreto flussi annuale, che però, dal 2010 è entrato in crisi perché non prevede più grandi numeri di ingresso per lavoro subordinato non stagionale, con quote destinate anche ai Paesi con cui l’Italia ha accordi bilaterali in materia di immigrazione, come si dirà più avanti. [8: Per eventuali ulteriori approfondimenti vedi: L. Tria, Stranieri extracomunitari e apolidi: la tutela dei diritti civili e politici,cit.]
Va peraltro sottolineato che – a prescindere dal fatto che, nella pratica, la distinzione tra i migranti economici e i migranti che hanno diritto alla protezione è da sempre molto labile, specialmente in caso di arrivi di gruppi numerosi di persone provenienti da Paesi e Regioni diversi – comunque, se per l’Italia è un depauperamento l’emigrazione dei giovani verso Paesi esteri, non si comprende il motivo per cui non dovrebbe esserlo, per i rispettivi Paesi, anche l’emigrazione di coloro che bussano alle nostre porte pur non fuggendo da una guerra, ma semplicemente perché non riescono nel loro Paese a vivere in modo dignitoso in patria[footnoteRef:9]. [9: Vedi: L. Tria, La fame non basta per trovare aiuto?, maggio 2016 in www.europeanrights.eu]
Quindi, in definitiva, la suddetta distinzione non solo non è sempre così chiara, ma ha, in realtà, una indubbia valenza discriminatoria, anche perché si applica soltanto ai poveri – che sono quelli per i quali l’Europa ha continuato e continua a mostrarsi come una “fortezza” difficilmente penetrabile che sono anche le persone che vengono comunemente definite “migranti”, termine che, a sua volta, nel corso degli anni, è venuto ad assumere una valenza discriminatoria, in quanto è venuto ad identificare soltanto coloro che lasciano il proprio Paese spinti dal bisogno.
Inoltre, non possiamo ignorare che come ci dicono gli economisti più accreditati anche in sede ONU la forbice tra ricchi e poveri nel mondo è sempre più larga e sono in aumento le persone malnutrite e/o denutrite, molte delle quali – se racimolano i soldi cercano di trovare fortuna altrove. Sicché appare in contrasto con i valori fondanti della UE e della nostra Costituzione rimandarli indiscriminatamente indietro al loro arrivo in Europa, con l’etichetta di “migranti economici”, ancorché in molti casi la causa della crisi della economia dei loro Paesi sia occidentale ed europea, come si vede per le conseguenze della “disgregazione” della Libia” o anche per il famoso caso dei pomodori del Ghana[footnoteRef:10]. [10: Sul tale ultimo caso vedi: F. Grimaldi, Gli effetti della globalizzazione fuori controllo sulla produzione e sul lavoro in agricoltura. Il caso: i pomodori del Ghana in I diritti dell’uomo – cronache e battaglie, 2016.]
Né va omesso di considerare che alcuni migranti che sono partiti come “economici” dal Sud Sahara con l’idea di andare a lavorare in Libia, una volta arrivati in Libia sono stati sottoposti a violenze di vario tipo ed hanno anche rischiato la vita chiusi in prigioni tremende sicché si potrebbe ritenere che si siano “trasformati” in migranti forzati, ma per il sistema della Convenzione di Ginevra tale mutamento non conta perché, per individuare la situazione del migrante, si fa riferimento alla sua condizione iniziale nel Paese di origine.
E, last but not least, si deve considerare che il “rispedire al mittente” chi bussa alle nostre porte perché ha fame si pone in evidente contraddizione anche con la Carta di Milano, firmata dai Grandi della Terra e dai visitatori dell’EXPO 2015 e presentata come documento di impegno collettivo sul diritto al cibo, costituente l’eredità immateriale dell’EXPO, nella quale, alla presenza anche del Segretario generale dell’ONU, ci siamo impegnati tutti ad attivarci per sconfiggere la fame nel mondo.
Infine, si deve tenere presente che coloro che vengono reclutati dai terroristi in Paesi asiatici o africani spesso aderiscono al reclutamento perché hanno fame, tanto che in Libia, al momento, pare non ci siano reclute perché il Governo dà un sussidio mensile anche ai bisognosi. E questo significa che, per esempio, se la Libia non potesse più permettersi questo sussidio, l’affiliazione al terrorismo potrebbe attecchire anche lì.
D’altra parte, rimandare indietro migranti c.d. economici che vengono, ad esempio, da Paesi africani molto popolosi come la Nigeria può favorire, nel tempo, il nascere di guerre civili e quindi, a quel punto, l’aumento del numero dei migranti forzati.
In questa composita situazione – solo sommariamente delineata è evidente che un solo Paese e/o anche un solo Continente non possono accogliere tutti i diseredati e garantire loro una corretta integrazione, ma è necessario rafforzare la politica estera della UE (nel suo complesso) e rafforzare la solidarietà fra gli Stati membri.
È indispensabile, infatti, rafforzare i canali di collegamento fra i vari Stati UE perché nella strategia di contrasto alla c.d. “guerra ibrida” del terrorismo, un elemento da molti considerato fondamentale anche per prevenire ulteriori affiliazioni da parte di europei autoctoni o meno è rappresentato dalla fiducia che le Istituzioni UE e statali ispirano nei cittadini e negli immigrati.
E si tratta di un obiettivo la cui validità permane anche ora che gran parte dei territori del c.d. Stato islamico – che secondo il leader dell’ISIS Al Baghdadi e i suoi adepti doveva rappresentare il nuovo califfato islamico in cui vivere sotto i precetti più rigidi del salafismo e dell’ideologia portata avanti dagli integralisti – sono stati progressivamente recuperati, a partire dal 2017.
Infatti, l’ISIS c’è ancora ed è tuttora molto pericoloso e una traccia molto significativa della sua tetra presenza è rappresentata dalle migliaia di miliziani del califfato catturati dai vari eserciti che hanno combattuto contro le bandiere nere – molti dei quali foreign fighters cioè provenienti da Paesi europei o occidentali – che sono ammassati in campi e carceri sperduti nel deserto specialmente in Iraq e in Siria, ma dei quali sia Baghdad sia Damasco non sanno cosa fare[footnoteRef:11]. [11: M. Indelicato, L’eredità dello Stato islamico, 27 agosto 2020, https://it.insideover.com ]
E nella descritta situazione va anche considerato che se le persone che vivono nella disperazione – situazione che con il Covid è sempre più diffusa, purtroppo, in tutto il mondo – neppure diminuiscono, coloro che possono essere strumenti degli attacchi terroristici, più o meno organizzati, nei Paesi occidentali così come coloro che possono essere affiliati dalle mafie[footnoteRef:12] o anche diventare vittime delle nuove schiavitù, fenomeno che si riscontra anche nel nostro Paese. [12: Vedi, al riguardo, per tutti: A. M. Mira, Il procuratore. De Raho: «Regolarizzare i lavoratori immigrati per colpire le mafie», martedì 21 aprile 2020, www.avvenire.it nonché La denuncia di Lamorgese, “Ora le imprese chiedono aiuto alla mafia” 8 settembre 2020, www.agi.it ]
La suddetta fiducia in sé stessi, negli altri e nel proprio Paese – che oggi viene invocata da molti per sanare le cicatrici psicologiche e fisiche della pandemia che ci assale −nasce dalla buona reputazione dei singoli Stati e della UE, buona reputazione che, del resto, ha un peso notevole anche negli scambi commerciali.
Ebbene, è sicuro che le decisioni delle Corti di Strasburgo e di Lussemburgo, così come quelle delle Corti e dai Tribunali supremi nazionali – grazie anche all’importante apporto degli avvocati possono contribuire in modo significativo a migliorare la suddetta “reputazione”.
Ma questo non basta.
È necessario che la politica migratoria UE sia impostata in modo nuovo, sempreché, ovviamente, tutto si faccia tenendo fede al motto della UE cioè “Uniti nella diversità” e non assumendo iniziative isolate, quali sono quelle che, di tanto in tanto, assumono i Governi di alcuni Stati membri.
Perché simili iniziative, oltre a poter danneggiare l’intera UE (come è accaduto in passato), comunque accreditano, all’esterno, una immagine di Europa disunita e, come tale, di scarsa reputazione.
E, va anche detto che in questa disunità la componente discriminatoria tra le diverse categorie di migranti e tra i diversi regimi di accoglienza e integrazione è purtroppo molto evidente.
È, quindi, molto apprezzabile che la strategia europea sui vaccini diretta ad accelerare lo sviluppo, la produzione e la distribuzione di vaccini anti COVID-19, sia stata gestita dalla UE in modo centralizzato onde mettere tutti gli Stati membri in una condizione di uguaglianza.
4.- Migranti e “golden migrants”.
Tuttavia, in altri campi e, in particolare in materia di immigrazione (ma non solo), permangono disparità di trattamento fra gli Stati.
Basta pensare che, da tempo, alcuni Stati membri UE (in particolare: Malta, Portogallo, Spagna, Cipro, Bulgaria), seguendo l’esempio del Regno Unito – che, prima di Brexit, per primo ha adottato misure di facilitazione per naturalizzare stranieri facoltosi – offrono un trattamento preferenziale a cittadini extracomunitari benestanti, onde indurli a parcheggiare nel proprio territorio le loro ricchezze, creando così un sistema di inclusione “golden visa”, la cui espansione sta procedendo speditamente.
Sicché mentre i normali “migranti”, specialmente se considerati “economici”, vengono respinti, per i “golden migrants” si costruiscono “ponti d’oro”, pur essendo anche la loro immigrazione evidentemente di tipo economico.
Questo fenomeno può considerarsi la cartina di tornasole della pericolosa diffusione del sentimento razzistico e discriminatorio che, negli anni, si è andato diffondendo, nella generale tolleranza delle istituzioni UE, anche nella nostra Europa, nella quale fino a poco tempo fa prevaleva decisamente uno spirito di “accoglienza” per tutti, anche alla luce di ciò che si era verificato nei campi di sterminio nazi-fascisti, di cui si aveva memoria.
Nel corso degli ultimi anni – sulla scia della crisi economico-finanziaria esplosa nel 2008 – questa memoria pare essersi perduta e con essa anche lo sgomento per le orrende atrocità commesse nella devastante seconda guerra mondiale.
Così si sta rischiando di distruggere l’ordinamento molto evoluto – creato in Europa non senza difficoltà – basato sul riconoscimento del diritto di tutti gli individui alla pari dignità, nell’idea che a tutti gli individui debba essere garantita la «possibilità di godere di quelle semplici gioie e di quelle speranze che fanno sì che la vita valga la pena di essere vissuta», secondo le parole pronunciate da Winston Churchill nel famoso “Discorso alla gioventù accademica”, tenuto all’Università di Zurigo il 19 settembre 1946, che ha dato l’avvio al processo con il quale si è giunti all’attuale UE .
Eppure, il suddetto diritto, oltre ad essere considerato il principio fondante della Costituzione italiana, riceve analogo riconoscimento nella maggior parte delle Costituzioni europee, viene solennemente contemplato dalla CEDU, dal Trattato di Lisbona e dalla Carta dei diritti fondamentali UE (per restare in ambito europeo).
Tanto che anche la autorevole Corte costituzionale tedesca (sentenza del 9 febbraio 2010) ha qualificato come «intangibile» il «superprincipio» della tutela della dignità umana.
Né va omesso di sottolineare che l’effettività della tutela dei diritti fondamentali, da sempre, è considerata il presupposto della legittimità democratica del «progetto europeo» e il suo tratto caratteristico in ogni settore.
Ma è del tutto evidente la non corrispondenza al suddetto principio, ad esempio, della descritta situazione – notoriamente in espansione negli Stati UE − in cui, a parità di nazionalità e di appartenenza extra UE, due individui si trovano ad essere trattati in modo diametralmente opposto solo sulla base del reddito, comunque prodotto.
Una simile situazione, che, solo su basi censuarie, privilegia alcuni mentre riserva a tutte le persone povere e vulnerabili che vivono in Europa − a prescindere dalla cittadinanza – un trattamento deteriore e umiliante che ne impedisce, di fatto, l’inclusione sociale, mina alla base le nostre democrazie, da tempo.
Essa, infatti, è in patente contraddizione con il diritto di ciascuno alla pari dignità e con il principio – che, nella Costituzione italiana è consacrato nel primo comma dell’art. 1 − secondo cui il lavoro equamente retribuito – e non una qualunque occupazione precaria e sottopagata – è lo strumento principale per vedere riconosciuta la propria dignità, non solo perché con il lavoro si mettono a frutto i propri talenti e si ottiene un reddito, ma anche perché è attraverso il lavoro che si può dare contenuto concreto alla propria partecipazione alla comunità dove si vive e quindi assumere una identità sociale.
Eppure, nessuno se ne è preoccupato o se ne preoccupa oggi, pur essendo da tempo il tema dell’immigrazione in Europa divenuto emergente non solo per gli sbarchi nel mare Mediterraneo − nei quali dal 2013 al 30 di settembre 2019 si sono avuti oltre 19mila migranti morti e dispersi[footnoteRef:13] nel tentativo di raggiungere l’Europa, nel 2019 i decessi nel mare europeo sono stati 1.283[footnoteRef:14] mentre nel 2020 e nei primi mesi del 2021 la strage è continuata − ma anche per la pratica delle “riammissioni” verso la Grecia o verso i Paesi UE dell’Europa dell’Est che è una pratica che è stata anche sanzionata dalla Corte di Strasburgo e i cui terribili effetti oggi non possono essere davvero ignorati visto che possiamo facilmente vedere le immagini delle persone provenienti dalla Bosnia che vengono “rispedite al mittente” con una riammissione “a catena” dall’Italia alla Slovenia, da qui in Croazia e quindi di nuovo. in Bosnia. E, infatti, in una importante e recente decisione del 18 gennaio 2021 Tribunale di Roma si è mostrato sensibile per tutelare questa situazione. [13: Dati indicati dalla Fondazione ISMU in occasione della Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione, che si celebra ogni anno il 3 ottobre in memoria della strage del 3 ottobre 2013 di Lampedusa nella quale persero la vita 366 persone.] [14: Dati OIM.]
Va anzi aggiunto che dal 2017 anche il nostro Paese sta seguendo la strada dei c.d. “golden visa”, con la previsione del permesso di soggiorno per lavoro autonomo in favore dei beneficiari del programma Italia Startup Visa e del permesso dio soggiorno per investitori – entrambi fuori quote e con l’inserimento, a partire dal decreto flussi 2017, di migliaia (nel 2017: 2400) di quote riservate a diversi tipi lavoratori autonomi tra cui imprenditori che intendono attuare un piano di investimento di interesse per l’economia italiana, che preveda l’impiego di risorse proprie non inferiori ad euro 500.000, provenienti da fonti lecite, nonché la creazione almeno di tre nuovi posti di lavoro.
5.– Il ricongiungimento familiare: nella UE e in Italia.
5.1.− Introduzione.
In questa complessa cornice sommariamente descritta si inserisce la tutela dell’unità familiare dei migranti che ha il suo fulcro nel ricongiungimento familiare.
Questo è l’istituto che consente allo straniero extracomunitario o apolide che vive nel territorio nazionale in base ad un regolare titolo di soggiorno oppure ad un cittadino italiano o di uno Stato UE oppure di uno Stato extra-UE aderente all’Accordo sullo Spazio Economico Europeo (SEE) o dell’Area Economica Europea (EEA) cioè: Islanda, Liechtenstein e Norvegia − [footnoteRef:15]di chiedere l’ingresso dei familiari stranieri extracomunitari o apolidi residenti all’estero, al fine di mantenere o riacquistare in modo continuativo l’unità della propria famiglia. [15: Gli Stati attualmente legati da tali Accordi sono 30. Cioè tre dei quattro Paesi aderenti all’AELS (EFTA) - Associazione Europea di Libero Scambio − Islanda, Liechtenstein e Norvegia, senza la Svizzera − e i 27 Stati membri dell’Unione europea. Lo Spazio economico europeo (SEE) è stato istituito nel 1994 allo scopo di estendere le disposizioni applicate dall’Unione europea al proprio mercato interno ai Paesi dell’Associazione europea di libero scambio (EFTA). La Norvegia, l’Islanda e il Liechtenstein sono membri del SEE, mentre la Svizzera fa parte dell’EFTA ma non del SEE. La UE è inoltre legata ai suoi partner SEE/EFTA (la Norvegia e l’Islanda) da varie «politiche settentrionali» e forum incentrati sulle aree più settentrionali dell’Europa, in rapida evoluzione, e sulla regione artica nel suo insieme. In qualità di membro dell’EFTA, la Svizzera ha partecipato ai negoziati per l’accordo SEE e ha firmato l’accordo il 2 maggio 1992. Subito dopo, il governo svizzero ha presentato una domanda di adesione all’Unione europea il 22 maggio 1992. Tuttavia, dopo il referendum del 6 dicembre 1992 che ha portato a un voto contrario alla partecipazione al SEE, il Consiglio federale svizzero non ha più perseguito l’adesione del Paese all’UE e al SEE. Da allora, la Svizzera ha sviluppato le proprie relazioni con l’UE attraverso accordi bilaterali, al fine di salvaguardare la sua integrazione economica con l’UE. Le relazioni bilaterali sono state messe a dura prova a seguito dell’iniziativa anti-immigrazione lanciata nel febbraio 2014 e il cui esito ha messo in discussione i principi della libera circolazione e del mercato unico su cui si fondano tali relazioni. Il 16 dicembre 2016 il Parlamento svizzero ha adottato la legge sugli stranieri attuando il risultato del referendum del 2014 in modo da limitarne gli effetti e spianando in tal modo la strada per l’inizio della normalizzazione delle relazioni tra l’UE e la Svizzera. L‘Unione europea e la Svizzera hanno firmato oltre 120 accordi bilaterali, compreso un accordo di libero scambio nel 1972 e due grandi serie di accordi bilaterali settoriali. Gli accordi hanno intensificato i rapporti economici, ma hanno anche creato una rete complessa e talvolta incoerente di obblighi. Gli accordi bilaterali devono essere aggiornati regolarmente e non presentano la natura dinamica dell’accordo SEE. Inoltre, non includono disposizioni di sorveglianza o efficaci meccanismi di risoluzione delle controversie. Per risolvere tali problemi, il 22 maggio 2014 sono stati avviati negoziati UE-Svizzera per un accordo quadro istituzionale. Nel corso dei lunghi e complessi lavori preparatori sono state sollevate preoccupazioni in merito alla libera circolazione delle persone tra la Svizzera e l’UE. Il 27 settembre 2020 in Svizzera si è svolta una votazione popolare, patrocinata dall’Unione democratica di centro (UDC), sulla risoluzione dell’accordo sulla libera circolazione delle persone con l’UE. Quasi il 62% degli elettori ha respinto l’iniziativa dell’UDC. L’UE auspica che il risultato di tale votazione prepari la strada a una rapida transizione verso la firma e la ratifica dell’accordo quadro istituzionale. ]
Nel diritto nazionale, al suddetto istituto, si affiancano il permesso di soggiorno per motivi familiari (o per coesione familiare) e il visto (o la carta) per familiare al seguito. In particolare:
a) il ricongiungimento familiare riguarda i familiari che si trovano all’estero e che vengono “chiamati” in Italia dello straniero o dall’italiano o dal cittadino UE (ed equiparato) che vi si trova;
b) il permesso di soggiorno per “motivi familiari” (o per “coesione familiare”) viene, invece, rilasciato allo straniero già presente nel territorio italiano e convivente con determinati familiari;
c) il visto di ingresso per familiari al seguito, consente – senza necessità di chiedere il nulla osta al ricongiungimento familiare – l’ingresso, ai fini di un soggiorno di lunga durata a tempo determinato o indeterminato, allo straniero che intenda fare ingresso in Italia al seguito di un familiare cittadino italiano, o di un Paese UE, ovvero di Paese aderente all’Accodo SEE, o al seguito di un familiare straniero di cittadinanza diversa da quelle predette che sia titolare di un permesso UE per soggiornanti di lungo periodo (ex carta di soggiorno) o di un visto d’ingresso di durata non inferiore a un anno (per lavoro subordinato, per lavoro autonomo, per studio, per motivi religiosi).
Il visto per familiare al seguito di cittadino italiano o UE (aderente SEE), benché alcuni di nostri servizi consolari nel mondo continuino a confonderlo col visto per ricongiungimento familiare, é del tutto diverso da tale ultimo visto. Infatti:
il visto per ricongiungimento si può chiedere quando il richiedente si trova in Italia o in un Paese UE oppure aderente SEE e la persona richiesta si trova in un Paese extracomunitario ed è cittadino extracomunitario;
il visto di familiare al seguito invece, si richiede quando il cittadino italiano o UE o aderente SEE si trova in territorio extracomunitario (può essere residente in Italia oppure AIRE, cioè iscritto all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero, non fa differenza), nel quale il suo familiare (richiesto) si trova e/o risiede.
I due tipi di visto sono solo accomunati dal fatto che hanno precedenza e priorità assoluta su tutte le altre tipologie di visto, ma il secondo deve essere concesso in tempo utile alla partenza di rientro del cittadino italiano (o equiparato) perché entrambe possano viaggiare insieme. Inoltre, per entrambi i visti − se il familiare “seguito” è uno straniero extracomunitario o apolide − sono presi in considerazione gli stessi tipi di rapporti di parentela e sono richiesti gli stessi requisiti reddituali e alloggiativi richiesti di regola per l’analogo ricongiungimento familiare.
La richiesta di visto deve essere fatta alla Rappresentanza diplomatica o consolare del Paese di origine.
Con la domanda devono essere presentati i seguenti documenti:
• passaporto o documento equivalente
• documentazione relativa alle finalità del viaggio, ai mezzi di trasporto utilizzati, la disponibilità di mezzi di sussistenza adeguati o la prestazione di garanzia dove prevista
• documentazione relativa alle condizioni di alloggio in Italia
• documentazione che comprovi, a seconda dei casi, il rapporto di parentela, coniugio, minore età o inabilità al lavoro, autenticata dall’autorità consolare italiana, che deve rilasciare anche la dichiarazione di conformità delle traduzioni
• nulla osta dello Sportello unico, che può essere chiesto tramite procuratore legale, ad eccezione del caso di ingresso al seguito di cittadino italiano o UE per i quali non è necessario alcun nulla osta.
Dopo l’ottenimento del visto e l’ingresso in Italia, entro 8 giorni lavorativi deve essere richiesto alla Questura competente:
• il rilascio del permesso di soggiorno, per i familiari dello straniero extracomunitario o apolide
oppure
• la carta di soggiorno, per i familiari di cittadino europeo.
5.2.− Disciplina.
La disciplina nazionale del ricongiungimento familiare e degli istituti connessi è piuttosto complessa e risulta dalla combinazione di alcune direttive UE (recepite nel nostro Paese) con altre norme interne.
Le disposizioni di base per gli aspetti sostanziali si rinvengono nei seguenti testi:
d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (TU dell’immigrazione), come più volte modificato anche per effetto dell’indicata normativa di origine UE, il quale negli articoli da 28 a 33 contiene la disciplina fondamentale in materia di diritto all’unità familiare degli stranieri immigrati;
d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento di attuazione del TU sull’immigrazione), spec. artt. 6 e 6-bis sui visti d’ingresso;
regolamento (UE) 2017/2226, 30 novembre 2017, che istituisce un sistema centralizzato di ingressi/uscite per la registrazione dei dati di ingresso e di uscita (EES) e dei dati relativi al respingimento dei cittadini di paesi terzi che attraversano le frontiere esterne degli Stati membri e che determina le condizioni di accesso al sistema di ingressi/uscite a fini di contrasto e che modifica la Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen e i regolamenti (CE) n. 767/2008 e (UE) n. 1077/2011;
direttiva 2004/38/CE, del 29 aprile 2004 relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE la cui applicazione non è espressamente pregiudicata dal Reg. n. 2017/2225/UE, del 30 novembre 2017, che modifica il regolamento (UE) 2016/399 per quanto riguarda l’uso del sistema di ingressi/uscite, onde agevolare l’operatività del citato regolamento (UE) 2017/2226;
d.lgs. 8 gennaio 2007, n. 5 (Attuazione della direttiva 2003/86/CE relativa al diritto di ricongiungimento familiare), poi modificato e integrato dal d.lgs. 3 ottobre 2008, n. 160, sulle condizioni di esercizio del diritto al ricongiungimento familiare dei cittadini di Paesi terzi;
d.lgs. 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE, relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo);
d.lgs. 13 febbraio 2014, n. 12 (Attuazione della direttiva 2011/51/UE, che modifica la direttiva 2003/109/CE, per estenderne l’ambito di applicazione ai beneficiari di protezione internazionale anche in ambito SEE);
d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri), a sua volta integrato e modificato dal d.lgs. 28 febbraio 2008, n. 32, sul ricongiungimento familiare tra cittadini della UE e i loro familiari (che viene in considerazione solo nell’ipotesi di cittadino della UE che si reca, soggiorna o ha soggiornato in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza e ai familiari che lo accompagnano o lo raggiungono);
d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251 (Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta). Si tratta della c.d. “direttiva qualifiche”, che è stata modificata dalla direttiva 2011/95/UE, alla quale è stata data attuazione con il d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 18 (Attuazione della direttiva 2011/95/UE recante norme sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta);
d.lgs. 28 giugno 2012 n. 108 (Attuazione della direttiva 2009/50/CE sulle condizioni di ingresso e soggiorno di cittadini di Paesi terzi che intendano svolgere lavori altamente qualificati), contenente un regime derogatorio in materia di ricongiungimento familiare, in favore dei destinatari della normativa;
art. 5 del d.lgs. 16 luglio 2012, n. 109 (Attuazione della direttiva 2009/52/CE che introduce norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare), la cui normativa in materia di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari presenti in Italia privi di permesso di soggiorno che svolgono attività lavorativa ha effetti sull’esercizio del diritto all’unità familiare;
art. 5 della legge 4 aprile 2012, n. 35 (con relativa circolare del Ministero dell’Interno n. 9 del 2012, contenente le istruzioni operative) che ha introdotto una nuova disciplina in materia anagrafica (c.d. residenza in tempo reale), prevedente nuove modalità attraverso le quali è possibile effettuare le dichiarazioni anagrafiche di residenza o di trasferimento all’estero – non solo attraverso l’apposito sportello comunale – ma anche per raccomandata, via fax o per via telematica, con il duplice obiettivo di: consentire l’effettuazione del cambio di residenza con modalità telematica e di produrre immediatamente, al momento della dichiarazione, gli effetti giuridici del cambio di residenza;
regolamento (UE) n. 604/2013 (c.d. Dublino III) che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, che modifica il Regolamento (CE) 343/2003, detto Dublino II, in alcune delle disposizioni previste per la determinazione dello Stato membro UE competente all’esame della domanda di protezione internazionale e le modalità e tempistiche per la relativa determinazione;
d.lgs. del 18 agosto 2015, n. 142 (Attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale).
Per gli aspetti processuali vengono in considerazione i seguenti testi:
d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), spec. artt. 19-bis e 20;
d.l. 17 febbraio 2017, n. 13 (Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale), convertito dalla legge 13 aprile 2017, n. 46, che ha istituito presso i Tribunali ordinari del luogo nel quale hanno sede le Corti d’appello, le Sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea.
Dall’insieme delle pertinenti disposizioni contenute nei suindicati testi normativi l’istituto, nelle sue linee essenziali, risulta essere disciplinato come segue.
5.3.− Requisiti.
Titolo di soggiorno
- il diritto a mantenere o a riacquistare l’unità familiare nei confronti dei familiari stranieri è riconosciuto, alle condizioni previste dal TU sull’immigrazione, (art. 28, comma 1) agli stranieri titolari di permesso di soggiorno:
per lavoro subordinato o autonomo, di durata non inferiore a un anno
per asilo politico
per protezione sussidiaria
permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo;
- deve essere sottolineato che la Corte di cassazione ha ritenuto la suddetta elencazione di titoli di soggiorno non tassativa e, pertanto, in via giurisprudenziale è stato riconosciuto il diritto di chiedere il ricongiungimento familiare sia allo straniero in possesso di permesso di soggiorno per motivi familiari (che ha la stessa durata del permesso di soggiorno del familiare, è rinnovabile con esso e consente lo svolgimento delle stesse attività di modo che le due situazioni giuridiche vengono a coincidere, vedi Cass. 7 febbraio 2001, n. 1714) sia al titolare di permesso di soggiorno per acquisito della cittadinanza italiana (che viene rilasciato a chi già sia in possesso di un permesso per altri motivi per tutta la durata dell’indicata procedura e che quindi comporta una condizione tendenzialmente più stabile di quella del titolare di un permesso sottoposto a rinnovo ad ogni scadenza, Cass. 3 aprile 2008, n. 8582 e Cass. 29 maggio 2009, n. 12680), in tutte le suindicate decisioni la Corte ha sottolineato che un trattamento differenziato delle situazioni esaminate rispetto a quelle prese in considerazione dalla norma citata si porrebbe in contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 2 e 3 Cost.;
- lo status di soggiornante di lungo periodo UE per i titolari di Carta blu UE (di cui all’art. 9-ter del TUI, introdotto dal d.lgs. n. 108 del 2012) dà diritto a richiedere il nulla osta al ricongiungimento familiare indipendentemente dalla durata del permesso di soggiorno, ai sensi e alle condizioni previste dall’art. 29 del TUI cit., mentre ai familiari viene rilasciato un permesso di soggiorno per motivi di famiglia ai sensi dell’art. 30, commi 2, 3 e 6 del TUI cit.
- condizioni più agevolate sono previste nel caso di ricongiungimento richiesto da cittadino italiano o UE o di Paese aderente all’Accordo SEE;
- infine, il possesso della ricevuta di richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno abilita all’inoltro della domanda di nulla osta al ricongiungimento familiare
Altri requisiti
Lo straniero che chiede il ricongiungimento familiare deve dimostrare la disponibilità di (art. 29, comma 3 del TUI) di:
un alloggio conforme ai requisiti igienico-sanitari e di idoneità abitativa accertati dai competenti uffici comunali. Nel caso di un figlio di età inferiore agli anni quattordici al seguito di uno dei genitori, l’idoneità abitativa può essere sostituita dal consenso del titolare dell’alloggio nel quale il minore effettivamente dimorerà.
Qualora il richiedente indichi un alloggio diverso da quello in cui risiede, il requisito si intende soddisfatto sia nel caso in cui si accerti l’intenzione dell’interessato di trasferirsi in quell’alloggio al momento dell’arrivo del familiare, sia nel caso in cui egli intenda assicurare al familiare un alloggio diverso dal proprio.
La sussistenza di questo requisito non deve essere dimostrata dai titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria e nemmeno dai ricercatori stranieri presenti in Italia.
Molte prefetture richiedono certificati ottenuti da non oltre 6 mesi, nonostante la validità degli stessi sia a tempo indeterminato fino a quando non intervengano delle modifiche nella composizione dell’alloggio. In alternativa, secondo le diverse prassi locali, potrà essere sufficiente il certificato di stato famiglia dal quale emerga il numero degli occupanti dell’alloggio.
Circolari ministeriali stabiliscono i criteri attualmente applicabili per l’idoneità abitativa, con riferimento a: 1) superficie per abitante (es. 1 abitante – 14 mq etc.); 2) composizione degli alloggi; 3) altezze minime (gli alloggi dovranno avere una altezza minima di 2,70 m derogabili a 2,55 m per i comuni montani e a 2,40 m per i corridoi, i bagni, i disimpegni ed i ripostigli); 4) aerazione; 5) soggiorno e cucina devono essere muniti di finestra apribile mentre i bagni dovranno essere dotati (se non finestrati) di impianto di aspirazione meccanica; 6) impianto di riscaldamento (gli alloggi dovranno essere muniti di impianto di riscaldamento ove le condizioni climatiche lo rendano necessario);
un reddito minimo annuo derivante da fonti lecite non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale aumentato della metà dell’importo dell’assegno sociale per ogni familiare da ricongiungere (attualmente pari a 5.825 euro annui). Per il ricongiungimento di due o più figli di età inferiore agli anni quattordici ovvero per il ricongiungimento di due o più familiari dei titolari dello status di protezione sussidiaria è richiesto, in ogni caso, un reddito non inferiore al doppio dell’importo annuo dell’assegno sociale. Ai fini della determinazione e della disponibilità del reddito si tiene conto anche del reddito annuo complessivo dei familiari conviventi con il richiedente (opportunamente documentato).
I titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria non dovranno dimostrare la sussistenza di questo requisito.
In applicazione della sentenza 4 marzo 2010, C-578/08 della CGUE, si ritiene che la valutazione sulle risorse economiche sufficienti non possa portare ad una applicazione automatica del limite minimo stabilito in base all’importo annuo dell’assegno sociale, dovendosi tenere conto della natura e solidità dei vincoli familiari, della durata dell’unione matrimoniale, della durata del soggiorno nello Stato membro, dei legami familiari, culturali o sociali con il Paese d’origine.
Si tratta, una interpretazione offerta dalla giurisprudenza UE e non certo di una prassi seguita dall’Amministrazione, ma può avere il suo peso in sede di giudizio contro un eventuale diniego basato sulla non perfetta corrispondenza del reddito prodotto all’importo dell’assegno sociale, anche se va considerato che nella stessa sentenza la CGUE ha precisato (punto 46) che l’art. 7, paragrafo 1, lettera c) della direttiva 2003/8, permette all’autorità competente di assicurarsi che, una volta effettuato il ricongiungimento familiare, tanto il soggiornante quanto i suoi familiari non rischino di diventare, durante il soggiorno, un onere per il sistema di assistenza sociale dello Stato membro interessato (nella specie: Paesi Bassi).
Comunque, nella sentenza, sono stati affermati alcuni principi di grande rilievo e di applicazione ampia:
a) l’espressione «ricorrere al sistema di assistenza sociale» di cui all’art. 7, n. 1, parte iniziale e lett. c), della dire