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DOMENICA 25 GENNAIO 2009 D omenica La di Repubblica l’attualità FEDERICO RAMPINI spettacoli GIAN LUCA FAVETTO, MARIO MARTONE e VERA SCHIAVAZZI cultura l’incontro Sergio Castellitto, voglia di cambiare PAOLO D’AGOSTINI la memoria RENZO GUOLO «M ai il minareto butti l’ombra sul cam- panile», grida la Lega, esorcizzando il proliferare di simboli dell’islam. Per il Carroccio non si tratta certo di una questione estetica: il minareto urta la “coscienza dell’occhio”; istituziona- lizza, anche visibilmente, la presenza dell’islam nel territorio; sfregia l’identità cristiana della Padania. I minareti non turbano solo i nuovi crociati che inneggiano a Poitiers o al Kalhenberg, ma anche la Chiesa, che pure non gra- disce la vocazione leghista a usare la Croce come arma da bran- dire contro la fede altrui. A Torino il cardinale Poletto invita gli amministratori a valutarne con attenzione la costruzione. Po- letto è un pastore attento ai simboli: ha affidato a Mario Botta il progetto del Santo Volto. Una chiesa caratterizzata da sette tor- ri perimetrali, affiancate dalla vecchia ciminiera di un’acciaieria avvolta da una struttura elicoidale, che culmina, trasformando- si in postmoderno campanile, in una grande croce. (segue nelle pagine successive) Campanili Minareti ATTILIO BOLZONI Richard Avedon e il baule di Theo LAURA LAURENZI e MICHELE SMARGIASSI Riapre il Carignano, teatro dei re Gli 007 inglesi e il mistero Gheddafi PAOLO RUMIZ N iente rintocco di campane, niente cupole o bron- zei portali. In una strada acciottolata semideserta, sotto la collina di Fatih — il quartiere più islamico di Istanbul — negli angiporti del Corno d’Oro, nul- la tranne una piccola targa svela l’esistenza del pa- triarcato di Costantinopoli e della sua chiesa di San Giorgio del Fanar, schiacciata dalle moschee dominanti sul pendio. Uno spazio mimetico, quasi catacombale e blindato da mura; gli antipodi della potenza marmorea del Vaticano. È qui che abita Bartolomeo I, il Papa d’Oriente. Fanar è un “Fort Apache” in legno scuro, una robusta villa nel- lo stile del Mar Nero con balconi a veranda. Vi si parla a bassa vo- ce, non per rispetto ma per timore. Nella penombra punteggia- ta di candele la comunità si nasconde, celebra i suoi riti facendo meno rumore possibile. Pope, archimandriti e vescovi nerove- stiti fanno indecifrabili inchini attorno al Santissimo e due cori maschili costruiscono infinite litanie su un’unica nota barito- nale. (segue nelle pagine successive) I vescovi avvertono i sindaci: niente simboli islamici nello skyline delle nostre città Un’intolleranza che nelle antiche metropoli della convivenza tra croce e mezzaluna ha già vinto la sua battaglia FOTO PHOTO STOCK / ALAMY e L’America allo specchio del ’29 Repubblica Nazionale

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DOMENICA 25GENNAIO 2009

DomenicaLa

di Repubblica

l’attualità

FEDERICO RAMPINI

spettacoli

GIAN LUCA FAVETTO, MARIO MARTONE e VERA SCHIAVAZZI

cultura

l’incontro

Sergio Castellitto, voglia di cambiarePAOLO D’AGOSTINI

la memoria

RENZO GUOLO

«Mai il minareto butti l’ombra sul cam-panile», grida la Lega, esorcizzando ilproliferare di simboli dell’islam. Per ilCarroccio non si tratta certo di unaquestione estetica: il minareto urta la“coscienza dell’occhio”; istituziona-

lizza, anche visibilmente, la presenza dell’islam nel territorio;sfregia l’identità cristiana della Padania.

I minareti non turbano solo i nuovi crociati che inneggiano aPoitiers o al Kalhenberg, ma anche la Chiesa, che pure non gra-disce la vocazione leghista a usare la Croce come arma da bran-dire contro la fede altrui. A Torino il cardinale Poletto invita gliamministratori a valutarne con attenzione la costruzione. Po-letto è un pastore attento ai simboli: ha affidato a Mario Botta ilprogetto del Santo Volto. Una chiesa caratterizzata da sette tor-ri perimetrali, affiancate dalla vecchia ciminiera di un’acciaieriaavvolta da una struttura elicoidale, che culmina, trasformando-si in postmoderno campanile, in una grande croce.

(segue nelle pagine successive)

CampaniliMinareti

ATTILIO BOLZONI

Richard Avedon e il baule di TheoLAURA LAURENZI e MICHELE SMARGIASSI

Riapre il Carignano, teatro dei re

Gli 007 inglesi e il mistero Gheddafi

PAOLO RUMIZ

Niente rintocco di campane, niente cupole o bron-zei portali. In una strada acciottolata semideserta,sotto la collina di Fatih — il quartiere più islamicodi Istanbul — negli angiporti del Corno d’Oro, nul-la tranne una piccola targa svela l’esistenza del pa-triarcato di Costantinopoli e della sua chiesa di

San Giorgio del Fanar, schiacciata dalle moschee dominanti sulpendio. Uno spazio mimetico, quasi catacombale e blindato damura; gli antipodi della potenza marmorea del Vaticano. È quiche abita Bartolomeo I, il Papa d’Oriente.

Fanar è un “Fort Apache” in legno scuro, una robusta villa nel-lo stile del Mar Nero con balconi a veranda. Vi si parla a bassa vo-ce, non per rispetto ma per timore. Nella penombra punteggia-ta di candele la comunità si nasconde, celebra i suoi riti facendomeno rumore possibile. Pope, archimandriti e vescovi nerove-stiti fanno indecifrabili inchini attorno al Santissimo e due corimaschili costruiscono infinite litanie su un’unica nota barito-nale.

(segue nelle pagine successive)

I vescovi avvertonoi sindaci: nientesimboli islamicinello skylinedelle nostre cittàUn’intolleranzache nelle antichemetropolidella convivenzatra croce e mezzalunaha già vintola sua battaglia

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(segue dalla copertina)

Poletto non mette certo indiscussione la libertà diculto dei musulmani ma,sottolinea, un conto è unasala da preghiera, un contol’assalto al cielo dell’islam

in una terra dove la maggioranza ècattolica. Prospettiva che lo induce ateorizzare una sorta di “reciprocità ar-chitettonica”, fondata sulla constata-zione che laddove i cristiani sono inminoranza, come nel mondo islami-co, i campanili non sono quanti le mo-schee e nemmeno alla loro altezza.

La diffidenza verso il minareto, cheinsieme alla sacra triade formata dacupola, arco e colonna, costituisce ilcanone architettonico islamico o, perlo meno, verso un minareto che supe-ri in elevazione i simboli della cristia-nità, non è un copyright torinese. Simanifesta sin dalla costruzione dellamoschea di Roma, la più grande d’Eu-ropa, inaugurata nel 1995. Un’edifi-cazione travagliata e costellata di po-lemiche. Culminate nel 1991 nella de-cisione, presa in consiglio comunaleda una maggioranza trasversale for-mata da democristiani, comunisti,verdi, liberali e missini, di rifiutare lerichieste del progettista di alzare ilminareto: Portoghesi lo vuole di qua-rantadue metri ma il piano regolato-re lo fissa a ventiquattro. Ribadendo ilsuo “no” l’alleanza anti-minaretomette in campo motivazioni paesag-gistiche, tirando in ballo uno skylinemolto diverso da quello che, dieci an-ni dopo, sarà decapitato dalla taglien-te «spada dell’islam» impugnata dalcommando di Muhammad Atta.Quella «torre immensa», così nelleparole di qualche arrabbiato consi-gliere, potrebbe spezzare la linea delcielo di Monte Antenne. A poco var-ranno le argomentazioni di Porto-ghesi, che mira a fare dell’edificio, chemescola insieme elementi della tra-dizione architettonica islamica e diquella romana, un simbolo di convi-venza tra culture e religioni.

Un sincretismo che avrebbe soddi-sfatto l’immaginario sguardo postu-mo di Vitruvio, per il quale l’architet-to che innalza templi deve sempreavere nozioni di teologia, ma non delVaticano. Nonostante tra i favorevolialla costruzione della moschea vi siaAndreotti, notoriamente in buonirapporti Oltretevere e Oltremediter-raneo, il minareto non raggiungeràmai le ambite altezze. Vox populi, manon solo, vuole per un intervento del-la stessa Santa Sede, che non si oppo-ne alla moschea ma teme — con buo-na pace di Bramante, Sangallo e Mi-chelangelo, verrebbe da dire — che

dimensioni e aspetto possano smi-nuire la grandiosa monumentalità diSan Pietro. Per diabolico effetto diquota Monte Antenne, il minareto inversione originaria avrebbe superatola Basilica. Situazione imbarazzante.I vincoli, politici e religiosi più che ur-banistici, fissati per l’edificazioneerano chiari: la cupola deve essere piùbassa di quella di San Pietro. Idem ilminareto, che non deve avere nem-meno altoparlanti per richiamare i fe-deli alla preghiera: un caso unico diintroiezione della sovranità limitataarchitettonica islamica in terra cri-stiana. Il risultato è che il manar vie-ne abbassato da quarantadue a venti-quattro metri, risultando “legger-mente” sproporzionato rispetto al-l’intero corpo della costruzione. Ilbello, dunque, non è sempre raggiodella luce divina.

Non ha incontrato simili problemila moschea di Segrate, costruita nel1988. La prima con cupole e minaretodopo la distruzione, nel 1300, di Luce-ra, città pugliese in cui Federico II ave-va deportato i musulmani di Sicilia,distrutta poi dagli eserciti di Carlod’Angiò. Il minareto, con lacupola in lastre di rame,non piace a qualche resi-denzialissimo abitantedi Milano 2 ma le con-dizioni non sono ma-ture perché la vicendadiventi un caso. I se-guaci di Alberto daGiussano sono ben lon-tani dal potere, la Lombar-dia è “dominata” da un parti-to decisamente filoarabo a livellonazionale, l’11 settembre è ancora so-lo una data del calendario. Delle com-plesse differenziazioni dell’islam or-ganizzato pochi sono al corrente. Ilfatto che la moschea al-Rahmàn gra-viti nell’orbita del circuito Ucoii nulladice. La discussione riguarda, sem-mai, il concretissimo problema delladiminuzione del valore delle aree li-mitrofe per effetto di quella sin troppoavvistabile presenza.

Amplificate dagli eventi dell’annushorribilis 2001, le cose andranno di-versamente a Colle Val d’Elsa. Qui lamoschea, cupola alta quattro metri eminareto di otto metri e mezzo, solle-va immediate proteste, non solo loca-li. Impegnata nella sua battaglia con-tro l’islam, la Fallaci afferma di nonvoler vedere «un minareto nel pae-saggio di Giotto». A mobilitarsi sonocristiani identitari, atei devoti, notiopinionisti, avversari del multicultu-ralismo, parlamentari in carica e inpectore, oppositori politici del gover-no locale. La moschea resta incom-piuta: fine dei fondi, inchieste su abu-si edilizi, sommovimenti nella lea-dership islamica locale ne bloccano

la costruzione. L’inventario sarebbe lungo. A Ge-

nova, Bologna, Padova, Trento, lemoschee sono oggetto di aspra di-scussione che, naturalmente, non ri-guarda la stratificazione dei segni ar-chitettonici nelle città. Lo scontro sulminareto rinvia alla questione dellasocietà multietnica e alle complesserelazioni con l’islam. Parte della so-cietà italiana, sobillata da attiviimprenditori politici dellaxenofobia, fatica ad ac-cettarle. La politica ca-valca la rendita dellapaura. La Chiesa è di-visa tra la necessità dilegittimare il ruolodella religione, e dun-que anche dell’islam,nella società post-seco-lare e il timore che un sif-fatto pluralismo religio-so possa indebolire un’i-dentità italiana che facoincidere con il cattoli-

cesimo: per ora si attesta sulla linea«sì alle moschee, ma controllo di chile controlla».

La stessa ambiguità di alcuni attoridell’islam organizzato non facilita unpercorso che altri paesi compionocon meno isteria. In Europa le mo-schee si costruiscono. Non solo nella“cattolicissima Spagna”, dove lo Sta-to riconosce l’islam come parte delleradici storiche del paese, dato incon-futabile nella terra dell’Alhambra,

della Giralda, della Mezquita diCordova. A Colonia, città il cuiDuomo è simbolo del cattolice-simo tedesco, sorgerà la piùgrande moschea della Germa-nia. Non si mettono certo in di-scussione i luoghi di culto isla-

mici negli Stati Uniti: «Siamouna nazione di cristiani e musul-

mani…», ha ricordato Obama ilgiorno del suo insediamento, evo-cando la forza del patchwork reli-gioso americano. Nel monocultu-rale Belpaese solo deboli echi.

Scontro di civiltàSegrate, Roma, Colle Val d’Elsa. Bastano le ditadi una mano per contare i campanili islamici costruiti,costruiti a metà o non ancora completati nel nostro PaeseVeti vaticani, battaglie xenofobe, l’ombra lungadell’11 settembre continuano a tenere l’Italia lontanadal clima di libertà di religione proprio dell’Occidente

26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25GENNAIO 2009

La guerra santa dei minaretiRENZO GUOLO

Secondo l’ultimo dossierCaritas/Migrantes sono1.253.704 gli immigratidi fede musulmana registratiin Italia: il 55 per cento viveal nord, il 25 per cento al centroe il 20 per cento al sud

Sono 735 i luoghi di cultoe di aggregazione islamicacensiti in Italia nel 2007:per lo più appartamenti,garage, ex cascine e fabbrichein disuso dove i fedelimusulmani si riuniscono

Islam in Italia

Luoghi di culto

Tre sono i luoghi di culto in Italiache si presentano dal puntodi vista architettonico comemoschee autentiche: quelladi Segrate costruita nel 1988,quella di Roma del 1995 e quelladi Colle Val d’Elsa, incompiuta

Le “vere” moschee

A Genova, Bologna, Padovae Trento il dibattitosulla costruzione delle moscheeè ancora aperto. «Nienteminareti vicino ai campanili»,ha detto l’arcivescovodi Torino Severino Poletto

Le moschee negate

Il 4 gennaio scorso, a Milano,la manifestazione dei musulmanipro-Gaza è culminatain una preghiera in piazzaDuomo. La stessa scenasi è ripetuta a Roma, davantial Colosseo, il 17 gennaio

Le preghiere pubbliche

la copertina

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 25GENNAIO 2009

(segue dalla copertina)

Un canto ripetitivo, martellante, quasi militare,ma sommesso; una pallida ombra del fulgore diBisanzio, la “seconda Roma”, ma pur sempre

antico e solenne più di qualsiasi canto cattolico.Bartolomeo l’ho incontrato così, una sera nel suo

studio con vista sul Bosforo. M’aspettava seduto sottoun ritratto di Ataturk, con le prime luci di Uskudar cheammiccavano oltremare e i minareti puntati nel cieloviola. Bastò quel ritratto arcigno e quello sfondo a ca-pire la sua solitudine. Il patriarca era il notaio di un’e-stinzione. Nella comunità il libro dei morti si riempivaveloce di nomi, mentre quello dei battesimi era fermoda mesi sulle stesse pagine. Erano stati mezzo milionei greci della “Polis”: ora si erano ridotti a poche migliaia.

Mentre dalla vicina chiesa salmodiante salivano pa-role come “ouranòs”, “martyron”, “angelon”, “pneu-matikos lògos”, il patriarca parlò di speranza e di unanuova epoca di libertà. Narrò commosso di una visitaalle chiese di Efeso e Smirne ormai popolate di sole ron-dini. Raccontò della coabitazione con i turchi, del suobuon rapporto col Gran Muftì e della visita imminen-te del Papa. Splendeva di mitezza, il sole tramontava, igabbiani facevano un turbine bianco sulla collina diPera. Nulla diceva che di lì a pochi mesi un prete italia-no sarebbe stato ucciso da un giovane fanatico a Tre-bisonda.

All’improvviso, il silenzio fu interrotto da un tuono.Era il muezzin che sparava la sua nenia nella sera. Nonera il vecchio richiamo polifonico di voci diverse che sidisperdeva nei quartieri, ma un canto superumanotrasmesso da mille moschee attraverso un unico co-mando elettronico. I decibel crescevano di mese inmese, in modo proporzionale all’influenza islamicanegli affari dello Stato. E così da Beyoglu, Eyup, Besik-tas e Kadikoy l’onda sonora invase Istanbul, fece scap-pare i gabbiani e ammutolì il drappello mormorantedei greci. Mentre la campana taceva, gli altoparlanti diAllah volevano il cielo tutto per loro.

Ai tempi del Sultano laconvivenza tra chiese emoschee era basata su re-gole di ferro. Gli edifici diculto cristiani (come le si-nagoghe) dovevano essere“discreti”, ben nascosti damura e non essere visibilidalla strada; soprattuttonon potevano avere cam-panili e cupole. La cupola— presa dal grande model-lo greco di Santa Sofia, poitrasformata in moschea —era infatti la massimaostentazione di un poteredominante, quello che gliOttomani ritenevano di avere ereditato in linea direttada Giustiniano e, prima di lui, da Costantino, Alessan-dro il Grande e Salomone.

La sottomissione era chiara già allora. Ma Istanbulrimase a suo modo una Gerusalemme e fino a un se-colo fa il popolo cristiano poté mantenere nella capi-tale dell’impero radici forti fatte di affari, arti, profes-sioni, industria e preghiera. Oggi è tutto finito: subitooltre il Bosforo, comincia il grande silenzio delle cam-pane. Le chiese sopravvissute alle distruzioni di iniziosecolo hanno cominciato a chiudere per mancanza difedeli. Appena restano vuote, arriva un tecnico del co-mune con l’incarico di piantarci attorno minareti econvertire il vecchio edificio al nuovo culto.

Sarajevo è un altro punto d’incontro-scontro di fedi,terrasanta di minareti e campanili in competizionesotto un unico cielo. La conobbi una placida notte d’a-prile del 1992. C’era la luna, le montagne erano ancorainnevate e il fiume scrosciava nella gola piena di luci,ma proprio allora il conflitto che lacerava la Jugoslaviaraggiunse il suo baricentro naturale e le prime raffichepartirono mentre la città si svelava ai miei piedi, favo-losa costellazione, cesto di diamanti nell’antro di AlìBabà. Per un attimo mi parve di volarci sopra, comenella storia del Maestro e Margherita di Bulgakov, e fe-ci appena in tempo a capire la stupenda complessitàcontro cui stava per accanirsi quella guerra, scatenatada sedicenti cristiani contro un pericolo islamico an-cora inesistente.

A Sarajevo era meglio di Gerusalemme e l’equilibriotra culture era durato più a lungo che in Turchia. Cittàex ottomana anch’essa, aveva accolto gli ebrei sefardi-ti in fuga dalle persecuzioni della cattolica Isabella diSpagna, ne aveva assorbito lo humor e la cultura, poiaveva costretto cattolici e ortodossi a convivere tra i mi-nareti, sotto il segno imperiale della Grande Porta. Lasuccessiva dominazione austriaca l’aveva spinta ver-so Occidente, ma senza intaccare la sua pluralità e laJugoslavia — prima monarchica poi comunista — ave-va ibernato in qualche modo i suoi conflitti latenti.

L’unità miracolosa del luogo si avvertiva da mille co-se: la speciale rilassatezza nel conversare al caffè, il so-vrapporsi delle campane al canto del muezzin, la mo-dernità disinvolta delle donne dagli antichi nomi ara-bo-turchi, la presenza di un islam gaudente e tutt’altroche astemio, simile a quello della vecchia Beirut. Op-pure la speciale pignatta dove i cristiani evitavano dicucinare maiale per poter offrire la cena a ebrei o mu-sulmani osservanti. Non esisteva città europea dovecampanili e minareti convivessero più naturalmente.E non esisteva luogo dove fosse più plasticamente vi-sibile la menzogna dello scontro di civiltà, così come lointendono certi truffatori, autonominatisi paladinidelle nostre radici cristiane.

Oggi molto è cambiato in peggio. La ricostruzionenon è ancora terminata, mezzo Paese non ha di chemangiare, la corruzione dilaga, ma i soldi abbondanoper disseminare il territorio di chiese e moschee nuo-ve senz’anima. L’Erzegovina, in mano agli ultras di Za-gabria, è una linea Maginot di campanili fiammantipronti a lanciare il segnale di una nuova guerra santa.Intanto, attorno a Mostar e Sarajevo si moltiplicano iminareti “missilistici” di stile medio-orientale, acumi-nati, freddi come tombe ed estranei alla cultura euro-pea. La guerra bastona la gente, ma premia i “chierici”:ed ecco che le montagne pullulano di santi energume-ni, francescani armati, pope da combattimento oimam carichi di odio, pronti a sbranarsi in nome del-l’Altissimo.

Dopo la guerra di Bosnia che ha chiuso il secolo, hoviaggiato a lungo per trovare un luogo di coabitazionesimile a Sarajevo, un posto non inghiottito dalla corsaalle fedi militanti. C’era poco o nulla. In Kosovo la Chie-sa di Roma approfittava della sconfitta del cristianesi-mo d’Oriente (decine di luoghi santi serbo-ortodossidati alle fiamme per rappresaglia dopo i massacri del‘99) per soppiantarlo, convertire musulmani albanesie costruire marmorei campanili estranei alla tradizio-ne del luogo. Sui monti Rodopi in Bulgaria gli sceicchirispondevano finanziando moschee in ogni sperduto

villaggio della minoranzaturca, giocando sul “revi-val” della fede dopo la sta-gione dell’ateismo rosso.

Solo ad Aleppo avevotrovato uno spiraglio. Lacittà era percorsa da unoscampanio festoso; corteidi bambini attraversava-no la strada per la primacomunione; donne velatee ragazze capelli al ventoandavano insieme a brac-cetto all’ora dello struscio.Ma soprattutto navatestrapiene, più affollate diqualsiasi chiesa italiana,

proprio lì tra i minareti, nel cuore della repubblica isla-mica di Siria. Tra i colonnati tremolanti di fiammelle silevava una preghiera potente come un tuono, e nelrimbombo, nelle facce e nelle pietre c’era una manife-stazione tenebrosa del sacro che apriva i chiavistelli diun mistero terribile e portava dritto alla radice abrami-tica comune. I cristiani si genuflettevano fronte a terracome i musulmani, rammentando agli europei che laprostrazione totale era stata cosa cristiana, atto pri-mordiale più antico dell’islam.

Se non hai dentro di te nostalgia della Gerusalem-me celeste, vano è — specialmente oggi — cercarenella Gerusalemme di pietra una via di fuga dalla de-menza dei monoteismi contrapposti. Arrivarci èuna cocente delusione. Miagolio nasale di minareti,rintocchi stizzosi di campane, schiamazzo di ebreialla fine del Sabato, brusio blasfemo di turisti neiluoghi santi, bip di metal-detector all’ingresso delMuro del pianto: la lite condominiale è prima di tut-to acustica e genera una cagnara indecente. Il climaè così avvelenato che gli stessi preti cristiani si acca-pigliano tra loro, persino nel Santo Sepolcro, da-vanti alla tomba vuota del Dio figlio. Armeni controgreci, o greci contro se stessi e il loro patriarca. Ge-rusalemme è una città di pazzi.

Solo la notte ti riconcilia col luogo. La grande nottestellata quando tacciono campane e minareti e la col-lina sembra affacciarsi con le sue luci sul deserto. Al-lora le mille voci ascoltate nel tuo cammino di ricercatornano nella memoria. Le litanie in aramaico dei po-chi siriaci di Mardin, a picco sulla Mesopotamia. Ilcommovente salmodiare stonato dei dieci ebrei ri-masti ad Antiochia. Il canto sublime di un dervisciocieco in una “tekke” di Istanbul. Il vento sul cimiterodi Bistrik, pieno di tombe di guerra, con vista su Sa-rajevo. Il coro delle russe nella cripta di San Nicola diBari, imbarco millenario di ogni viaggio in Terrasan-ta. Solo nel buio, quando dalla valle del Giordano sa-le profumo di fiori di senape, tutto questo sembra ri-comporsi. Nel silenzio del cielo d’Oriente.

CROCEE MEZZALUNAA sinistra,un campanilee un minaretonel cielodi Istanbul;in queste pagine,le immaginidi storicicampaniliitalianisi alternanoa quelledei minareticostruitinel mondoislamico

La maledizionedelle capitali

della tolleranzaPAOLO RUMIZ

Repubblica Nazionale

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l’attualitàAnniversari scomodi

Il peggior risultato della Borsa di Wall Streetnel giorno di un giuramento presidenziale?Con Barack Obama questa settimanaIl secondo peggior risultato? Con HerbertHoover, esattamente otto decenni faÈ solo l’ultima di troppe somiglianze...

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25GENNAIO 2009

L’America della crisie lo specchio buio del ’29

cesso il musical Ziegfield Follies. Sull’al-tra costa la Metro Goldwyn Mayer lanciaThe Hollywood Revue of 1929, un kolos-sal-varietà con Joan Crawford e la primaversione del brano Singin’in the Rain.Nelle librerie trionfano i romanzi popo-lari di Horatio Alger, scomparso un ven-tennio prima: è un Dickens in versioneottimista, il cantore dell’AmericanDream, prolifico autore di dozzine di librila cui trama è sempre la stessa, storie digiovani poveri che attraverso il sacrificioe la forza di volontà conquistano la sicu-rezza della middle class.

Per l’élite colta invece quel sognoamericano ha il suo interprete raffinatoin Francis Scott Fitzgerald. L’autore piùrappresentativo dell’Età del Jazz è se-dotto dal mondo dei milionari, i suoi ro-manzi sono l’apoteosi di una fase diopulenza, il ritratto acuto del nuovoestablishment capitalistico. Fra tuttispicca Il Grande Gatsby, personaggiocircondato da un’aureola di seduzionee di mistero, il cui arricchimento troppoveloce ricorda le parabole effimere deigiovani banchieri d’affari nella NewYork del terzo millennio. Fitzgeraldprova amore-odio per quella società deldenaro, descrive i suoi fasti e ne coglie ildecadimento morale. Nella tragedia fi-nale del Grande Gatsby si congiungonoi due elementi del sogno americano de-gli anni Venti: la fuga in avanti per emu-lare i costumi edonistici della élite do-rata, e il presentimento di un disastroimminente: «Aveva fatto molta stradaper giungere a questo prato azzurro e ilsuo sogno doveva essergli sembrato co-sì vicino da non poter più sfuggire. Nonsapeva che il sogno era già alle sue spal-le, in quella vasta oscurità dietro la cittàdove i campi oscuri della repubblica sistendevano nella notte. Gatsby credevanella luce verde, il futuro orgiastico cheanno per anno indietreggia davanti anoi. C’è sfuggito allora, ma non impor-ta: domani andremo più in fretta, allun-

FEDERICO RAMPINI

«La peggiore perfor-mance dell’indiceDow Jones duranteun InaugurationDay, da quandoquell ’ indice fu

creato 124 anni fa». Con una punta disgomento il Washington Post com-mentava così l’accoglienza riservatadalla Borsa a Barack Obama martedìscorso. Il presagio diventa sinistroquando si scopre a chi spetta la secon-da peggiore performance della storia:fu il calo del Dow Jones che salutò il 4marzo 1929 l’Inauguration Day di Her-bert Hoover. Cioè il presidente che nel-l’autunno dello stesso anno sarebbestato uno spettatore impotente di fron-te al crac di Wall Street e all’inizio dellaGrande Depressione. Per chi crede aisegni del destino e ai ricorsi storici lacoincidenza è funesta. Quanto dell’e-sperienza del 1929 rischia davvero di ri-petersi ottant’anni dopo? Per capirecosa si è guastato nell’economia globa-le nel Ventunesimo secolo, rivisitare lapiù grave crisi del Novecento a caccia dianalogie è un esercizio rivelatore.

Obama e Hoover sono ai due poli op-posti nella storia degli Stati Uniti. Dauna parte il giovane afroamericanoportatore di una potente ventata disperanza nel cambiamento. Dall’altraun repubblicano conservatore e ultra-liberista che con il suo dogmatico lais-sez-faire contribuì ad aggravare la crisi.Profondamente diverso è anche il con-testo economico dell’insediamento.All’Inauguration Day di Obama l’Ame-rica è arrivata avendo già alle spalle unanno di recessione, stremata e ango-sciata, consapevole delle terribili diffi-coltà che il neopresidente deve affron-tare per rilanciare la crescita.

Al contrario, Hoover ottant’anni fa aquest’epoca (quando mancano mesi alcrollo autunnale) assapora gli ultimi fastidi un’epoca beata. All’inizio del ‘29 gliamericani — con rare eccezioni di luci-dità — sono ignari del disastro che in-combe su di loro. È il culmine, il botto fi-nale, nella folle e spensierata Età del Jazz:il periodo eccitante iniziato subito dopola conclusione della Prima guerra mon-diale. Un’epoca di cui oggi si ricordanosoprattutto gli eccessi, ma che incarnaanche un’energia modernista, creativa,trasgressiva. Le innovazioni tecnologi-che come l’automobile e l’aeroplano, laradio e il telefono, si diffondono rapida-mente. Il fiorire dell’Art Déco dà a NewYork e Chicago alcuni dei più bei gratta-cieli della storia. Nelle grandi metropolila cultura tollerante migliora la vita delleminoranze, dai neri agli omosessuali. Ledonne — almeno nei ceti benestanti —assaporano un assaggio della rivoluzio-ne sessuale.

Fino all’autunno del crac, l’atmosferain America è elettrizzante. Lo specchiofedele di quell’euforia è l’industria dellospettacolo. A Broadway regna con suc-

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Gli anni Venti furono un’epoca di eccessie di follie. Nel suo celebre saggio sulle causedella Grande Depressione, l’economistaJohn Kenneth Galbraith stilò un elencoche suona terribilmente attuale. “Per primacosa - scrisse - i ricchi sono troppo ricchi”

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 25GENNAIO 2009

gheremo di più le braccia… e una bellamattina…».

Non è solo una ricchezza di carta,quella che regge il sistema fino alla vi-gilia del crac. Dietro il miracolo econo-mico dell’America emergente c’è unmodello avanzato, un’idea democrati-ca del diritto universale al benessere.Detroit nel 1929 supera d’un balzo lasoglia di produzione di cinque milionidi autovetture: dopo la Grande De-pressione bisognerà aspettare il 1953per tornare a quel livello. Henry Fordha una visione sociale lungimirante,crea la prima industria di massa fonda-ta su alti salari. Un principio del fordi-smo è che l’operaio deve poter com-prare la stessa auto che produce. Manel frattempo la General Motors fondala prima “banca dell’automobile”, laGm Acceptance Corporation, diffondegli acquisti rateali e il germe dell’inde-bitamento dei consumatori. Il dirittodi ogni famiglia americana ad averel’auto e il frigorifero, la radio e il fono-

grafo prefigura quello che ottant’annidopo sarà il meccanismo infernale delmutuo subprime: la promessa della ca-sa per tutti, l’illusione di una Bengodiimmobiliare fondata sui debiti.

Quando Hoover pronuncia il suo di-scorso d’insediamento, i più avvertitihanno già smesso di credere a una pro-sperità senza fine. Il finanziere newyor-chese Bernard Baruch scrive: «Acqui-stare a rate, puntando sulla propria ca-pacità futura di ripagare una vita mi-gliore, può essere saggio ma può ancheessere spinto all’esagerazione. Abbia-mo raggiunto l’esagerazione». JosephKennedy, padre del futuro presidente,prima dell’estate vende tutto il suo por-tafoglio di azioni e tiene la ricchezzaparcheggiata in liquidità. John Ken-neth Galbraith individuerà nel saggio Ilgrande crollo le cause strutturali delcrac. Quell’elenco è terribilmente at-tuale. «Primo: una distribuzione delreddito squilibrata. Nel 1929 i ricchi losono troppo. Il cinque per cento dellapopolazione con i redditi più alti con-trolla un terzo della ricchezza naziona-le». Al secondo posto Galbraith mettel’eccessivo indebitamento delle grandiholding finanziarie, che crea il rischiodi una brusca e distruttiva inversionedell’effetto-leva: è la liquidazione pre-cipitosa di tutti gli attivi, che scattaquando le società sono costrette a rien-trare dai loro debiti. È lo stesso mecca-nismo che dal 2007 a oggi alimenta laspirale delle crisi bancarie. Nel rico-struire le cause del crollo di ottant’annifa Galbraith si sofferma su un prece-dente sconcertante. A metà degli anniVenti l’America aveva già subìto un as-saggio micidiale degli eccessi specula-tivi, con la bolla immobiliare della Flo-rida, una pazza corsa all’acquisto diterreni conclusa in un crollo dei prezzi.Un incidente non abbastanza trauma-tico, però, da “vaccinare” gli investitoriin Borsa. Una sequenza simile accadeottant’anni dopo: la bolla della NewEconomy e il tracollo del Nasdaq (mar-zo 2000) in pochi anni sono cancellatida un’amnesia collettiva, la lezione èinutile. Inutili anche gli scandali En-ron, Worldcom, Parmalat.

Gli anni Venti sono memorabili per lasregolatezza dei mercati in preda all’ag-giotaggio. «Un gruppo d’investitori dota-ti di capitali sufficienti — racconta lo sto-rico Eric Rauchway della University ofCalifornia — poteva creare un “pool” conlo scopo esplicito di manipolare un tito-lo in Borsa. Succedeva di continuo ed eraperfettamente legale. Il Wall Street Jour-nal riportava informazioni quotidianesulle manovre di questi fondi». Ot-tant’anni dopo il bubbone della malafi-nanza avrà le apparenze più sofisticatedei derivati, titoli-spezzatino, credit de-fault swaps e altri titoli tossici. Il quadronon è migliorato: il dilagare dei conflittid’interessi, le complicità fra banche d’in-vestimento e agenzie di rating, la latitan-za dei controlli, la passività degli organi divigilanza. In comune gli anni dorati han-

no il mood, quell’atmosfera che per Gal-braith ebbe un ruolo decisivo negli anniVenti: «Ben più importante dei tassi d’in-teressi o del credito facile, è il clima psi-cologico. La speculazione su una dimen-sione così vasta richiede un diffuso senti-mento di fiducia e di ottimismo, la con-vinzione che anche le persone normalisiano destinate a diventare ricche».

Un’altra causa profonda del 1929 è ne-gli squilibri internazionali. La Primaguerra mondiale ha lasciato l’Europastremata dai debiti. Anche i vincitori co-me Inghilterra e Francia vivono di presti-ti americani. Le condizioni della pacepeggiorano il dissesto. L’economista bri-tannico John Maynard Keynes è l’autoredi un’implacabile requisitoria contro leclausole finanziarie del Trattato di Ver-sailles. Le riparazioni di guerra impongo-no alla Germania oneri spaventosi, chetravolgeranno la fragile democrazia del-la Repubblica di Weimar. In un mondo didebitori, l’America degli anni Venti è ilbanchiere universale, l’unico che finan-zia le altre nazioni. Ma è un’America chesta già scegliendo la via del protezioni-smo, pratica alte barriere tariffarie. I suoidebitori sono stretti in una morsa: nonpossono venderle le merci essenziali perripagare montagne di cambiali. Quandoi flussi di finanziamenti americani s’in-terrompono, il mondo intero sprofondadi colpo nella recessione.

Otto decenni dopo le parti sono cam-biate, i ruoli invertiti, e ci sono protago-nisti nuovi. Gli squilibri sono altrettantomassicci. Stavolta è l’Asia — Cina in testa— a svolgere il ruolo di banchiere plane-tario. I titoli del debito pubblico ameri-cano vengono acquistati dalle banchecentrali di Pechino e Tokyo. La Repub-blica popolare cinese ha accumulato at-tivi commerciali verso il resto del mon-do. Ma i suoi abitanti non consumanoabbastanza, è difficile per l’America re-stituire i debiti esportando ai cinesi. Lacrescita mondiale nel primo scorcio delVentunesimo secolo è stata consentitadalla simbiosi della coppia sino-ameri-cana, Chimerica. Il giacimento di rispar-mio cinese ha consentito alle famiglieamericane di vivere al di sopra dei proprimezzi. Il consumismo americano ha ali-mentato il boom cinese. Anche se l’inci-dente che ha portato alla recessione glo-bale è accaduto in Occidente, con il crol-lo del castello di carte dei mutui subpri-me, sullo sfondo c’è l’immensità deglisquilibri fra le due sponde del Pacifico.La crescita non ripartirà senza un aggiu-stamento dei rispettivi ruoli dentro il bi-nomio Chimerica.

E se per la presidenza Obama vale ilprecedente del New Deal, è anche all’in-terno della società americana che ci saràun cambiamento di ruoli e di prospetti-ve. Eric Rauchway ricorda: «Tra i lascitiprofondi della Grande Depressione edell’epoca rooseveltiana ci fu questo: ilceto medio americano imparò a ricono-scersi nell’insicurezza dei tanti meno for-tunati, anziché identificarsi nella mino-ranza dei privilegiati».

IL CROLLOQui accanto, il crollo di Wall Streetdel 29 ottobre 1929 in un disegnodi James Rosenberg. Nelle due fotoin alto, il giuramento di Herbert Hoovernel 1929 (a sinistra) e quello di BarackObama ottant’anni dopo (a destra)

NEW DEALIn basso a sinistra, due posterdegli anni del New Deal rooseveltianoQuello di sinistra, di Robert Muchley,è dedicato alla sicurezza sul lavoro (1936);quello di destra alla campagnadi distribuzione di terre (1935)

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la memoriaTop secret

Dossier riservati, resi pubblici negli ultimi tempi, rivelanoche per anni le spie di Sua Maestà britannica hanno indagatosulla salute mentale del rais di Tripoli.Tutte le informativeraccolte tra il ’69 e il ’72 riflettono un’ansiacrescente per la “follia” del leader libico,documentano i suoi ricoveri e ne prevedono il crollo

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 25GENNAIO

ATTILIO BOLZONI

Per anni si sono chiesti se fos-se pazzo. Tutti a indagaresulla sua psiche, le sue sfu-riate improvvise, paranoie emalinconie. Alla salutementale del rais di Tripoli, le

spie di Sua Maestà dedicano summit euna valanga di rapporti segreti. Il colpodi Stato del primo settembre 1969 li co-glie di sorpresa; non riescono a capirechi sia veramente lui, il colonnelloMuammar Gheddafi, il nuovo leader li-bico; le informazioni sicure sono scar-se: non ha ancora trent’anni, viene dal-le sabbie della Sirte, il suo idolo è il pre-sidente egiziano Nasser.

Dagli scaffali dei National Archives diKew Gardens — a pochi chilometri daLondra — riaffiorano le schede e le infor-mative del Foreign and CommonwealthOffice su uno dei personaggi più contro-versi del Ventesimo secolo. Sono dossier«secret» e «confidential», molti dei qualiresi pubblici fra il 2002 e il 2007. La figuramisteriosa a capo del Consiglio Rivolu-zionario della Libia è ossessivamentecontrollata dalle legazioni britannichesparse fra Rabat e Bagdad, studiata, ana-lizzata, sviscerata in ogni dettaglio.

Tutte le notizie che gli inglesi raccolgo-no fra l’autunno del ‘69 e la primavera del‘72 riflettono un’ansia crescente per la«follia» di Gheddafi, data per certa da in-numerevoli fonti. Le carte parlano di ri-coveri in clinica. Di frequenti crisi di ner-vi. Anche di un tentativo di suicidio.Qualcuno al Foreign Office azzarda per-sino previsioni sul futuro dell’enigmati-co colonnello e arriva a pronosticarnel’imminente fine politica.

Il primo documento che riporta il suonome è un telegramma (fascicolo Fco39/386), spedito da Bengasi il 10 settem-bre 1969. Lo firma Wakefield, un diplo-matico di carriera: «C’è da augurarsi chel’attuale ondata di adulazione nei suoiconfronti non gli dia alla testa». Ma è solo

il 19 settembre che un funzionario del Fo-reign Office, D. J. Speares, invia all’amba-sciata inglese di Teheran alcuni dati sullasua identità: «È nato nel ‘42 nella Sirte, siè laureato in storia nel ‘63, è uscito dal-l’accademia militare nel ‘65 e ha frequen-tato un corso di addestramento militarein Inghilterra nell’estate ‘66».

Nei giorni successivi le informazioni siincrociano freneticamente. Tutti voglio-no saperne di più sul giovane ufficiale chenei decenni a venire diventerà il nemiconumero uno dell’Occidente. Scrive aLondra l’11 settembre (Fco 39/380) P. J.Popplewell dell’ambasciata al Cairo: «Èmolto religioso, un ufficiale brillante,sempre di buon umore, coscienzioso egran lavoratore. È un appassionato di cal-cio e di buone letture».

Una nuova scheda «sulla personalitàdel colonnello Gheddafi» viene trasmes-sa l’8 ottobre ‘70 da Tripoli a Londra. È undocumento (Fco 39/614) redatto da D. A.Gore-Booth e desecretato nel 2001. Co-mincia così: «Si sa poco del suo passato,si dice che suo padre sia un nomade chepossiede alcuni cammelli nel desertodella Sirte. Corre voce che Gheddafi siastato uno studente difficile a Seba, e chel’abbiano anche espulso dalla scuola se-condaria di quella città. Ha grandi qua-lità come leader e durante il corso di ad-destramento militare in Inghilterra è sta-to descritto dal suo comandante come“un elemento prezioso per l’esercito li-bico”». Il diplomatico scava nella suapersonalità: «Sebbene sia di bell’aspettoe abbia un bel sorriso, non ha niente del-l’abilità del politico naturale. Di frontealla folla ha difficoltà a cambiare tono,tende ad essere ripetitivo nei discorsipubblici, la sua eloquenza ricorda la raf-fica di una mitragliatrice. Il suo fisico tra-disce la malnutrizione sofferta in gio-ventù e la sua appassionata sincerità puòsfiorare il fanatismo».

Dall’ambasciata britannica di Tripolicominciano ad avanzare i primi sospettiper le sue intolleranze e collere: «È scar-

samente ricettivo alle critiche...». È unreport da Kuwait City (Fco 39/622) chemette sul chi va là gli inglesi: «I kuwaitia-ni diffidano di Gheddafi. Il capo delle for-ze armate ha affermato che è pazzo: ba-sta guardarlo negli occhi». Da quel mo-mento è un susseguirsi di notizie sullostato psichico del rais. Dispacci comequello del 10 dicembre ‘70, firmato daMichael Hannam dell’ambasciata ingle-se a Tripoli: «Nel presentarsi agli arabicome il nuovo messia, Gheddafi sfiora lafollia. Il suo allontanamento dalla scenaaraba e libica non può essere lontano».Note come quella del 21 gennaio ‘71 fir-mata da J. P. Tripp: «Vi abbiamo già co-municato un anno fa che l’equilibriomentale di Gheddafi era sospetto. Ora haavuto un nuovo collasso, in seguito alquale è rimasto fuori combattimento perquattro giorni. Riteniamo che non si siaripreso del tutto e che rischi un crollo to-tale». Informative come quella del 27gennaio ‘71 (Fco 39/802) di M. I. Goul-ding dell’ambasciata al Cairo: «Ho parla-to con Muhammad Ahmad Muham-mad, ex segretario privato del presiden-te egiziano Nasser. Mi ha detto che l’irri-

tabilità e l’eccitabilità di Gheddafi sonoprobabilmente dovute a un’allergia.Muhammad non ha specificato i sinto-mi, ma ha aggiunto che il colonnellosembra soffrire di allergia verso certi fio-ri. Al Cairo si è sottoposto ad alcuni test».

Il 17 marzo ‘71 un altro diplomaticobritannico di stanza nella capitale egizia-na, Beaumont, invia a Londra una notiziaclamorosa. Scrive: «Secondo un rappor-to ricevuto da un mio collega belga,Gheddafi è attualmente internato in unaclinica privata per malattie mentali neidintorni del Cairo». Ma dopo qualchegiorno il colonnello riappare, scompareancora, passa un mese e ritorna un’altravolta in mezzo alla folla. Gli agenti ingle-si sono disorientati.

Il 27 settembre ‘71, alle 14, MichaelHannam da Tripoli informa Londra cheGheddafi «sarebbe rimasto ferito in unincidente automobilistico il 18 settem-bre». E pochi minuti dopo spedisce un al-tro messaggio: «Non è ancora apparso inpubblico. E le dichiarazioni del ministrodell’Informazione Buasir non sono riu-scite a dissipare le voci secondo le qualiGheddafi avrebbe sofferto un collassonervoso e che addirittura potrebbe esser-si dimesso». Due giorni dopo comunica:«A Tripoli continuano a circolare voci sudi lui. Secondo i tedeschi sarebbe stato vi-sto ieri alla guida della sua automobile, idiplomatici di New Delhi dicono inveceche avrebbe tentato il suicidio. In ogni ca-so nessuno l’ha più visto di recente inpubblico».

Alle 8,50 del 2 ottobre ‘71 Beaumont,dal Cairo, racconta a Londra le notizieche circolano negli ambienti governativiegiziani: «Gheddafi sarebbe rimastomolto scosso dall’incidente automobili-stico accaduto il 18 settembre scorso, du-rante il quale cinque uomini del suo en-tourage sarebbero rimasti uccisi e otto fe-riti. Tutto ciò davanti ai suoi occhi. L’epi-sodio avrebbe scatenato uno dei suoi pe-riodici attacchi di nervi». Ma il 4 ottobreinforma il Foreign Office che «Gheddafi è

appena arrivato al Cairo e sembra in buo-na salute». È già il 7 ottobre quando — an-cora Beaumont — scrive a Londra: «Si èfatto visitare all’ospedale militare delCairo per la sua sinusite».

Nelle veline ritrovate a Kew Gardensc’è il resoconto di un pedinamento quo-tidiano. Il colonnello torna nella sua Tri-poli e tre settimane dopo, il 28 ottobre, ri-ceve all’aeroporto il nuovo presidenteegiziano Sadat. Gli inglesi lo osservano davicino e commentano: «Cammina comeun sonnambulo». Una notizia che rendeil clima ancora più teso arriva da Parigi il19 novembre. È il diplomatico J. N.Spreckley che rivela al Foreign Office:«Ho visto De Warren, mi ha riferito chesembra esserci stato un nuovo tentativoper uccidere Gheddafi: sarebbe stata tro-vata una bomba a bordo del suo aereo diritorno dal Cairo... fortunatamente perlui la bomba ha fatto cilecca». E aggiunge:«Sembra che sia più nervoso del solito. Ifrancesi sono convinti che dopo il proba-bile attentato in cui sono morti diversimembri della sua scorta, Gheddafi abbiaavuto l’ennesimo collasso nervoso e chesia stato sottoposto a trattamento medi-co per tre settimane». Alla fine del 1971 gliinglesi aggiornano la «scheda personale»del rais. Il fascicolo è catalogato Fco39/805: «È spaventosamente magro, condelle cicatrici permanenti sulla fronte eattorno al collo. In pubblico sorride fre-quentemente, ma quando è stanco o sot-to pressione irrigidisce spalle e braccia».

Il dossier sul leader libico sarà arricchi-to di nuovi particolari sulla sua «sanitàmentale» per tutti gli anni Settanta. Il 22giugno ‘72 l’ambasciata di Tripoli comu-nica: «Vi è una sorta di logica folle in tuttociò che dice e fa. Ma, naturalmente, la sualogica non è la nostra». Il 29 gennaio ‘76,alla vigilia della proclamazione della«Grande Jamahiriya araba di Libia popo-lare e socialista», G. H. Boyce scrive (fa-scicolo Fco 93/828) da Tripoli al ForeignOffice: «Spesso Gheddafi assomiglia piùa Mussolini che a Nasser».

Gli 007 e il mistero Gheddafi

I DOCUMENTII documenti sul colonnello

Gheddafi a cui si fa riferimentonell’articolo pubblicato

in questa pagina sono stati trovati

nei National Archivesdi Kew Gardens, presso Londra,

dal ricercatoreMario J. Cereghino e sono conservati

nell’Archivio Casarrubea di Partinico, Palermo(www.casarrubea.wordpress.com)

IERI E OGGIA destra, il leaderlibico Muammar

Gheddafiin due foto:

la prima è del 1971,quando era oggetto

dei dossier,la seconda

è recente. Ai latidei due ritratti,le riproduzionidei documenti

inglesi

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AvedonTheo

e il bauledi

Si incontrarono giovanissimi. Lui, Richard Avedon, non era ancora“il maestro”; lei, Ann Theophane Graham, non era ancoracolei che indosserà i capolavori di Dior. Ma subito nacque qualcosa

tra il ragazzo col talento della fotografia e quella che divenne la sua prima top modelOra una mostra a Roma espone quegli scatti e il figlio della “donna cigno” tira fuoriimmagini mai viste della madre che, dice, sono della stessa mano

CULTURA*36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25GENNAIO 2009

Una mostra di grande fascino sta per aprirsi a Roma. Fotografie ma-gistrali di Avedon saltate fuori da alcuni bauli e scatoloni rimastichiusi per sessant’anni. Avedon agli esordi, ma già perfettamentepadrone della sua tecnica. Le foto ritraggono una delle sue modellepreferite, l’americana Ann Theophane Graham detta Theo, eterea,moderna, sofisticata, fotografata da Avedon migliaia di volte ma poi

misteriosamente cancellata dalla vita e delle opere del maestro. Quando cominciano a lavorare insieme a New York nel 1945 lui ha ventun anni

e lei diciannove. Ma si erano già conosciuti qualche tempo prima quando lei ave-va bussato alla sua porta in cerca di lavoro. Il posto che lui può offrirle, per il mo-mento, è quello di sua assistente alla camera oscura nel retrobottega di un nego-zio di caramelle. Ma dopo un mese Theo comincia la sua folgorante carriera di fo-tomodella, guadagna ben venticinque dollari l’ora, all’epoca moltissimo; Avedonla rincontrerà e la porterà con sé a Parigi nel ‘49 per fotografarla con indosso le crea-zioni più sontuose del New Lookdi Dior, come il celebre e monumentale vestito Ju-non, considerato uno dei tre abiti haute couture più famosi del mondo.

Sarà, con Dorian Leigh e con Dovima, una delle sue modelle predilette, con quelcollo lunghissimo alla Marella Agnelli e lo sguardo trasognato. Diventerà protago-nista di decine e decine di servizi fotografici su Junior Bazaar, patinata rivista pergiovinette fra i tredici e i ventun anni, ma anche su Glamour, Mademoiselle, Vogue.Shooting molto diversi fra loro ma già contraddistinti dall’inconfondibile “Avedontouch”: servizi di moda scattati in Spagna, a Parigi nel sontuoso ristorante Le PréCatelan, al mercato di Nassau alle Bahamas, in studio a New York, per esempio suuna slitta accanto a un mucchio di neve finta, ma anche campagne pubblicitariedi linee aeree, di grandi department stores, di cosmetici, di industrie tessili.

Theo, che in prime nozze aveva sposato un collega e amico di Avedon, il foto-grafo di origine russa Ted Corner, si trasferisce a Roma negli anni cosmopoliti del-la dolce vita dove frequenta il cosiddetto jet set e conosce l’uomo che diventerà ilsuo secondo marito, il produttore Carlo Saraceni. È stato il loro unico figlio EnricoCarlo, architetto, a mettere a disposizione della gallerista Valentina Moncada ilcontenuto di questi bauli, custoditi nella loro casa romana di via Serpieri.

«Più che bauli, vere scatole cinesi. L’archivio privato di mia ma-dre, morta nel ‘97. Migliaia fra foto, immagini, provini, contatti, ek-tachrome, ritagli, copertine, album privati, e anche lettere di gran-de importanza, firmate Dick con il disegnino di una faccia sorri-dente. Segnano sette anni di collaborazione fra mia madre e Ave-don proprio nel momento in cui il grande fotografo elaborava ilsuo stile e formava il suo gusto estetico — osserva Saraceni —. Èun Avedon prima maniera meno cristallizzato, meno ripetitivorispetto a quello che sarebbe venuto dopo. C’è anche molto suolavoro dietro le quinte».

Organizzare la mostra è stato difficilissimo. «La FondazioneAvedon, che ha sede a New York, si è immediatamente opposta,sostenendo che le foto non risultano nell’archivio curato per-sonalmente dal maestro — racconta Valentina Moncada —.Questa assenza è un vero mistero, dovuta, sospetto io, a moti-vi personali. Theo è l’unica dei “cigni” di Avedon non inclusanell’archivio, quando fu invece l’antesignana delle top modeldi oggi. Perché? Oltretutto, le foto in questione sono fonda-mentali: rivitalizzano enormemente la figura di Avedon».

Theo e Dick rimangono amici. Quando nel ‘57 si gira il filmFunny Face (Cenerentola a Parigi) con Audrey Hepburn eFred Astaire nella parte di un fotografo di moda ricalcato per-fettamente sulla figura di Avedon, il maestro, al culmine as-soluto della sua carriera, invita Theo a partecipare al film nelruolo di se stessa, assieme ad altre colleghe modelle, ma leiormai si è stabilita a Roma e rifiuta l’offerta.

Avedon comincia prestissimo — era un ragazzino — afotografare. Ritrae la gente vera, per la strada. Va negli zoo,nei circhi, persino nelle discariche. La modella con cui si

esercita è sua sorella Louise, due anni più giovane di lui, che moriràin manicomio a trent’anni, lasciando una traccia indelebile: «Tutte le mie primemodelle, da Dorian Leigh a Audrey Hepburn, erano brune, avevano un bel naso,collo lungo e viso ovale. Erano tutte ricordi di mia sorella. La mia immagine dellabellezza si è formata, prestissimo, a partire da lei». Anche Theo corrisponde a que-sto identikit.

A ventun anni è già sposato: lei è Dorcas Nowell, modella. Carriera rapidissi-ma, fin dagli esordi. Comincia a lavorare, giovanissimo, come fotografo pub-blicitario di un grande magazzino. Viene scoperto da Alexei Brodovitch, art di-rector di Harper’s Bazaar, che rimane folgorato da una sua foto scattata a duereclute gemelle durante il servizio militare in marina: una a fuoco, l’altra sfuo-cata: «Se riesci a mettere la stessa intensità in una foto di moda, torna a farti ve-dere», gli dice.

Influenzato dal lavoro di Martin Munkacsi e dalle sue immagini in movimen-to, Avedon cambia la fotografia di moda per sempre, trasforma le modelle, le tra-muta da manichini su cui sono appesi gli abiti — statue con pepli — in donne ve-re, reali, come Theo ritratta al luna park, al Cirque d’Hiver a bordo di un finto ae-reo di cartapesta, o addirittura in cucina o fra le suore e gli orfanelli di un colle-gio, la Maison d’Enfants Quennessen, vestita Balenciaga e Dior. Un set davveroinsolito, se non rivoluzionario, per un servizio d’alta moda, indubbiamente frale foto più interessanti nella mostra romana.

Quando Carmel Snow, la mitica direttrice di Harper’s Bazaar, porta Avedoncon sé a Parigi a fotografare le collezioni dei grandi, lui si immerge in un sogno,immortala una Francia della ricostruzione che esiste solo per gli americani: «Ioho fotografato una Parigi d’anteguerra, alla Lubitsch, che non esisteva… Avevoventidue anni... attraversavo Parigi su un taxi decappottabile, bevevo champa-gne dalla bottiglia… Era la Liberazione: non solo quella della Francia, anche quel-la della mente, della creatività. Venivo presentato a Colette da Cocteau! Tutto erainebriante, ed è da quel delirio che sono nate le mie prime foto di moda».

LAURA LAURENZI

L’album privato della musa

RITRATTI D’AUTORE/2Nell’altra pagina sono di Richard Avedon le foto 7:ritaglio di Harper’s Bazaar, ottobre ’49. Jewelled Heads-Spangled Ball Gowns, l’abito indossato da Theo è Junon di Dior,la location è il Pré-Catelan di Parigi; la numero 8: ancora Theosu Harper’s Bazaar, settembre 1951

IN CERCA D’AUTOREVengono dall’Archivio Enrico Carlo Saraceni di Roma(courtesy Valentina Moncada) le foto 1, 4, 6: tre ritratti

di Theo Graham e 5: Parigi, Cirque d’Hiver, novembre ’49. CartolinaBalmain’s Ivy Leaves, abito di Pierre Balmain

RITRATTI D’AUTORE/1In questa pagina, sono di Avedon la foto numero 2: Ritagliodella rivista Harper’s Bazaar, ottobre 1949, dal servizio Reportfrom Paris di Carmel Snow. Abito White Satin Column di ChristianDior indossato da Theo Graham; la numero 3: copertinadi Junior Bazaar, luglio ’47

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 25GENNAIO 2009

L’EVENTO

La mostra Theo by Richard Avedonsi inaugura il primo febbraio e resterà apertaper un mese. È ospitata in due sedi:i Musei Capitolini e l’Accademia di Franciaa Villa Medici, a simboleggiare un pontefra le due capitali dell’alta moda, Romae Parigi. La mostra è il fiore all’occhiello di AltaRomAltaModa. «È un’ulterioretestimonianza del nostro impegno a promuovere la cultura della moda»,sottolinea Nicoletta Fiorucci, presidentedi Altaroma. Altra mostra in programmadurante le sfilate romane,che si svolgeranno dal 31 gennaioal 3 febbraio, è quella dedicata alla più notagiornalista di moda del mondo, la prima,nel lontano 1947, a scrivere degli stilistiitaliani: Diana Vreeland. Si intitola ItalianPorfolio – Vreelandesque. Omaggio a DianaVreeland Da segnalare infine Fashionon Paper: per quattro giorni il Tempiodi Adriano diventerà un centrodi sperimentazione per l’editoriaspecializzata. In un salone interattivosarà possibile consultare libri,pubblicazioni e riviste legati alla moda

La lunga ricercacontro la paura

La chiave per aprire lo scrigno del-la sua apparente algida durezza,Richard Avedon la buttò lì senza

enfasi in un’intervista televisiva allaCbs: «Fotografo ciò che mi fa paura».Non si riferiva, è chiaro, al levigatissimosorprendente glamour delle sue fotoper Harper’s Bazaar o per Vogue, che ri-voluzionarono la visione stessa dellamoda. «La moda è quel che faccio per vi-vere, e mi piace», ma il suo «deep work»,il suo lavoro «profondo», era un altro.

Lui si considerava un «ritrattista», mac’era un po’ di studiata modestia in que-sta definizione classica. Avedon è statoin realtà uno dei più grandi esploratoridel volto e del corpo nell’intera storiadella fotografia. Un ricercatore ossessi-vo, mosso dalla paura almeno quantodal desiderio di trovare ciò che cercava,un po’ come Diane Arbus. I primi pianiimpietosi, dettagliatissimi fino alla piùpiccola macchia cutanea, con cui docu-mentò fino al giorno della morte la de-cadenza fisica di suo padre Jacob Israelmalato di tumore sono difficili da sop-portare per chiunque li guardi, perchétraboccano di un affetto straziante einorridito.

Ma in fondo, anche le foto di moda chelo hanno reso forse il più ricercato e cer-to il più pagato professionista della suagenerazione fanno parte di quella ricer-ca. Paura del decadimento del corpo eamore per la sua perfezione non si esclu-dono. Dovima tra gli elefanti, forse la suaimmagine più conosciuta, è un esperi-mento sul contrasto fra ruvido e liscio,fragile e dirompente: com’è la vita. Na-stassija Kinski sdraiata sul cemento e ve-stita solo di un pitone vivo, in un posterche vendette due milioni di copie, è unavariante sullo stesso tema.

Ma Avedon non si accontentò mai deisimboli con cui irrorava d’inquietudinele pagine patinate dei rotocalchi femmi-nili. Lui, che adorava la candida solitu-dine e le soffici luci artificiali del suo stu-dio bianco sull’East Side, portò più voltenelle strade la sua ingombrante fotoca-mera a treppiede per cercare volti cari-

chi di significato. Quelli dei potenti, maanche quelli senza potere. In the Ameri-can West, galleria di ritratti di cowboyemaciati e bellezze da fast-food sbattutisullo sfondo del suo ormai celebre len-zuolo bianco, passa per essere un capo-lavoro di cinismo: è invece un compian-to pieno di umanità sulla fine ingloriosadi un mito americano.

E anche un ribaltamento integraledelle sicurezze e delle presunzioni dellafotografia umanista. Basta con la fiducianell’imparzialità dell’occhio di vetro:«Tutte le fotografie sono precise, nessu-na è la verità». Addio al mito stein-beckiano dell’empatia con gli sposses-sati: Avedon scambiava pochissime pa-role con i suoi soggetti, perché «non ab-biamo le stesse aspettative dalla foto-grafia che verrà fuori». In fondo si com-portava come Henri Cartier-Bresson,che pure sembrerebbe stare all’estremoopposto dell’universo fotografico, mache un destino allusivo ha voluto far mo-rire, nel 2004, poche settimane prima dilui. Per entrambi, la fotografia sapevasvelare una realtà ulteriore: per il fran-cese, la perfezione matematica delle for-me involontarie; per l’americano, l’im-perfezione dolorosa e fatale delle ma-schere umane, anche quelle meraviglio-samente vestite.

MICHELE SMARGIASSI

Sapeva svelarel’imperfezionedolorosa e fataledelle maschere umane

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28 gennaio ore 18.00

CAFFÈ PEDROCCHI

con Mario Isnenghi

e Gian Antonio Stella

M I L A N O

29 gennaio ore 18.00

FONDAZIONE CORRIERE DELLA SERA

SALA BUZZATI • VIA BALZAN 3

con Simona Colarizi e Sergio Romano

coordina Antonio Carioti

T O R I N O

30 gennaio ore 18.00

LIBRERIA LA TORRE DI ABELE

con Ezio Mauro e Luigi La Spina

MA L’ITALIA È UNA NAZIONE?

Incontri con

Christopher Duggan

autore di

LA FORZA

DEL DESTINO

STORIA D’ITALIA

DAL 1796 A OGGI

w w w . l a t e r z a . i t c h i e d i a u n l i b r a i oE d i t o r i L a t e r z a

Repubblica Nazionale

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Era il Teatro del Principe, una sor-ta di grande stanza dei giochi do-ve applaudire saltimbanchi e at-tori, ascoltare cantanti, ballare econcedere al popolo chiassosefeste di Carnevale. Quasi ogni se-

ra Vittorio Amedeo di Carignano e la moglieMaria Vittoria, uscivano dal palazzo di fronteche porta il loro nome e, salendo due scale ri-gorosamente separate, si ritrovavano con i fi-gli e la corte nell’ex Trincotto rosso, lo stanzo-ne rettangolare che fino a pochi anni primaospitava il jeu de paume (trincotto in italiano,o pallamano, amatissimo dai piemontesi).Ora il teatro settecentesco, più volte rimaneg-giato nell’Ottocento e nel Novecento, vienerestituito alla città dopo un cantiere record,durato diciotto mesi e costato quattordici mi-lioni di euro, un altro record in tempi nei qua-li è difficile perfino programmare gli spettaco-li e si risparmia su ogni centesimo.

E per rinforzare il legame tra un contenito-re, il teatro-gioiello tra i più belli d’Italia, e il suocontenuto, per la serata inaugurale il 2 feb-braio si è voluto lo Zio Vanjadi Cechov, con laregia di Gabriele Vacis. È la terza volta che que-sto testo viene allestito in grande stile per il Ca-rignano, prima toccò a Luchino Visconti e aMario Missiroli. La produzione è del TeatroStabile di Torino (che gestisce il Carignano, diproprietà del Comune) e del Teatro Regiona-le Alessandrino. Vacis non nasconde la suaemozione: «È il teatro in cui ci portavano da

piccoli, cercheremo di restituire la magia diCechov».

Ma un po’ tutti sono emozionati, non sologli artisti. Perfino Bruno Ortu, sessantotto an-ni, il ruvido capomastro arrivato da Guspini,in provincia di Cagliari, e avvezzo a ogni diffi-coltà di cantiere, adesso sorride. Ma non si è ti-rato indietro quando c’è stato da prendere conle mani i vecchi mattoni e mostrare ai giovanimuratori arrivati da Romania e Marocco co-me si fa a ricostruire con quelli anziché col ce-mento. «Sono stati bravissimi, tutti. Si iniziavaalle sette il mattino e si andava a casa dieci oredopo, anche il sabato, spesso la domenica»,racconta Ortu mentre mostra ai visitatori il“suo” teatro, la trasparenza del marmo deco-rato a stelle ottagonali, i legni chiari, i mancor-renti d’ottone, non troppo lucido, per carità. Ilcapomastro voleva sparire, evitare la primadel 2 febbraio, invece ci sarà con la moglie Ro-sina: «Hanno insistito, non potevo rifiutare.Ma voglio stare nel loggione, è quello il postomigliore».

Sorride il professor Paolo Marconi, l’archi-tetto romano che ha guidato il gruppo di pro-gettisti e imprese: «C’è una grande differenzatra “restaurare” e “conservare”, e al Carigna-no si è scelta la prima strada, riportando il tea-tro al momento del suo massimo splendore, acavallo della metà dell’Ottocento. Ma abbia-mo lavorato anche sulle origini, quando ilPrincipe utilizzava questo luogo come una

sorta di dépendance per i divertimenti suoi edella famiglia. Era una delle poche occasioniper le donne e gli uomini di incontrarsi, qui na-scevano amori leciti e illeciti, intrighi, allean-ze, dal Principe di Carignano fino a Carlo Al-berto. Abbiamo incontrato sovrintendenti in-telligenti, che ci hanno lasciato fare molte co-se per recuperare tutto questo».

Così la facciata barocca, sulla quale le co-lonne che erano state nascoste e il vecchio bu-sto di Vittorio Alfieri sono stati riportati alla lu-ce, può di nuovo guardare Palazzo Carignano,libera dalle vecchie bussole di legno e spacca-ta da grandi vetrate. A destra e a sinistra c’era-no e ci sono altre due istituzioni torinesi: il ri-storante del Cambio, dove Camillo Bensoconte di Cavour mangiava in attesa che dalParlamento subalpino, di fronte, gli facesserocenno che c’era bisogno di lui, e la gelateria Pe-pino, che diventerà presto la caffetteria delteatro. Dentro, l’ingresso è stato riportato aivolumi originari eliminando un alloggio chene aveva ridotto lo spazio, un piccolo golfo mi-stico è stato ricreato davanti al palcoscenico,una grande sala circolare recuperata sotto laplatea: era l’antica birreria che i principi ave-vano concesso ai borghigiani per ristorarsi traun atto e l’altro, considerato anche che aglispettacoli si usava assistere in piedi, mentre inobili sedevano nei palchi. Raccontano chequando il ministro Sandro Bondi è venuto a vi-sitare il cantiere, in dicembre, un deputato del

suo seguito abbia chiesto:«Come mai non avete ancorarifatto le dorature?». Le dora-ture c’erano già, invece, ri-create a mano con minu-scoli pennelli, ma discrete,alla moda antica, tanto dasfuggire a occhi abituati ascenografie più rutilanti.

«Dopo i principi, ancheper i torinesi questo tea-tro è diventato un pezzodi casa propria, dove siva a passare il tempo,vedere, ascoltare, in-contrare gli amici —racconta Evelina Ch-ristillin, che da signo-ra delle Olimpiadi si ètrasformata in pocotempo in “lady diferro” del teatropubblico torinese eche da presidentedello Stabile è riu-scita nell’impresadi far quadrareconti e tempi del can-tiere —. Il restauro era necessarioanche per adeguarsi alle nuove norme di sicu-rezza, ma non ci saremo mai riusciti senza gliundici milioni di euro che il Comune ha stan-

Il pittore lascia tele, il compositore spartiti, il ci-neasta film, ma per chi fa teatro non c’è ripre-sa video che tenga, il suo lavoro resta scritto sui

palcoscenici dei teatri. Lo spettatore ricordasempre il teatro dove ha assistito alla «me-

morabile interpretazione di Re Lear» o al-la «grande messa in scena dell’Opera datre soldi», perché l’attore ogni sera rea-lizza un’opera unica e il teatro raccoglieil patto di carne che lo lega agli spettato-

ri che di quell’opera saranno per sempregli unici depositari. In questo senso i teatri

sono “sacri”, e le loro chiusure procuranosconforto quanto le loro riaperture gioia. Non so-no dunque solo ragioni civili, storiche e monu-mentali a renderci felici per la riapertura del Ca-rignano, ma il sapere che altri lavori vi nasceran-no, che di nuovo si compirà il rito, che altri attoried altri spettatori daranno vita a nuove opere.

Era una ribalta dove si esibivanosaltimbanchi e ballerine, ma anchelo sfondo sul quale la nobiltà sabauda

tesseva amori ed alleanze. Il 2 febbraio lo spaziorestaurato, gestito dallo Stabile di Torino direttoda Mario Martone, viene restituito alla città

VERA SCHIAVAZZI

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25GENNAIO 2009

Teatro dei Re

Quel patto di carnetra attore e spettatore

SPETTACOLI

MARIO MARTONE

Carignano

Repubblica Nazionale

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Ela sera andavano al Carignano. Per figurare e divertirsi.Per assistere a drammi, commedie, opere liriche, gio-chi in musica, atti comici, conferenze, funambolerie. Di

giorno, i solerti torinesi lavoravano e la sera si rifugiavano nel-la sala spettacoli che porta ancora il nome del ramo cadettodi casa Savoia, quello di Carlo Alberto e Vittorio Emanuele. Unvero teatro di popolo e di principi. E per quasi due secoli an-che l’esemplare specchio della borghesia cittadina, produt-tiva e intellettuale. Una bomboniera elegante e discreta. Pre-ziosa, senza esagerazioni. Ricca, senza spatusseria. Colori te-nui. Atmosfera da bisbiglio. Come la città vuole, per naturalepredisposizione e luogo comune. Dove, se non fra i suoi stuc-chi e velluti, potevano trovarsi a proprio agio le gozzaniane si-gnore «che mangiano le paste nelle confetterie»?

Nel 1880, Edmondo De Amicis riassume così il fervore del-la città: tutti camminano guardando diritto davanti a sé; si di-scorre senza rallentare il passo; poche conversazioni ad altavoce; nelle strade si vede una specie di gara ad arrivare primi,a lasciarsi indietro chi cammina accanto, come se ogni vici-no fosse un concorrente in affari; ma una certa apparenza digentilezza corregge il carattere un po’ aspro di questa fretto-losa vita industriale; la città fa i suoi affari alla lesta ma con di-gnità, da signora educata, non da rozza merciaia.

È questa Torino che si ritrova al Carignano, questa Tori-no che in teatro si fa pubblico curioso ed esigente, pubbli-co difficile, magari non particolarmente colto, ma molto at-tento. Fra gli attori da sempre circola una leggenda: se sor-ridono a Torino, in Italia sarà un successo. Lo sapeva giàCarlo Goldoni, che a metà del Settecento è in città con unsuo lavoro e lamenta «la preferenza della folla per le com-medie triviali» e «l’incessante girovagare in visita da un pal-co ad un altro del mondo elegante, quella continua conver-sazione mentre si recita».

Ma sono appena quarant’anni di vita per il Carignano, e ilSettecento proprio non è un secolo che gli si addice: s’incen-dia anche. Il suo secolo d’oro è l’Ottocento. Comincia neglianni Quaranta, quando viene messo in scena per la primavolta in Italia il Macbeth di Shakespeare, e si allunga fino allospegnersi della Belle Èpoque. E questo non tanto per la pro-grammazione degli spettacoli, i titoli, gli interpreti, le gesta diSarah Bernhardt, gli exploit di Toscanini e di Eleonora Duse,gli allestimenti di Pirandello, ma perché nella geografia ur-bana e nell’immaginario collettivo il teatro acquista un’evi-dente forza simbolica. È al centro della città. Si viene a trova-re nel cuore intellettuale e politico di Torino. Esattamente nelluogo dove il potere si manifesta, e non solo per ciò che ri-guarda la vita cittadina ma — a un certo punto e per un certoperiodo — anche per ciò che riguarda tutta l’Italia. Insiemeal potere, è qui che si concentra quell’intreccio di vizi e virtù,ritrosie e azioni, consuetudini e sorprese che si può definire“torinesità”.

Il teatro Carignano si affaccia su una sorpresa (lo è sempre,anche per chi la frequenta spesso), una piccola piazza straor-dinaria. Anche lei Carignano, si chiama. Al di là della piazza,un palazzo sontuoso: Carignano anche lui, naturalmente. Viè nato il primo re d’Italia, Vittorio Emanuele. Ha ospitato ilparlamento subalpino. Ha tenuto a battesimo il parlamentoitaliano. In pratica, ci viveva Cavour. E governava. Quandousciva da lì, faceva trentasette passi — era piccolo, aveva legambe corte — e si trasferiva al ristorante del Cambio, dove,oltre a mangiare, progettava, consultava politici, ricevevaambasciatori, decideva e brindava. Il Cambio confezionavaanche i piatti per la Prefettura, quando gli ospiti di riguardopreferivano non lasciare il palazzo del governo. Si trova, co-me un tempo, accanto al Teatro Carignano: stesso edificio, aun portoncino di distanza. All’altro angolo, sempre stessoedificio, nemmeno un portoncino che separi i muri, per nonfarsi mancare nessuna delizia, dal 1884 c’è il caffè Pepino,fondato da Domenico Pepino, arrivato da Napoli con le ri-cette del suo gelato. A far da quinta, appena al di là della via, èl’austero palazzo dell’Accademia delle Scienze che ospita ilMuseo Egizio.

Dal teatro, sempre si vedevano due spettacoli, uno sul pal-co e uno sulla piazza. Due recite: politica e cultura, affari e di-vertimento. Non sempre si poteva dire dove finisse la realtàe cominciasse l’illusione.

Il palcoscenicodel potere che fu

GIAN LUCA FAVETTO

ziato per la parte più “pe-sante” del restauro quan-do ancora i bilanci pub-blici non erano così in cri-si. E senza gli altri tre mi-lioni e oltre messi in mo-to da una grande raccol-ta tra semplici cittadiniche hanno versato uneuro e stimolato cosìtantissimi sponsorpubblici e privati: la Re-gione ha investito, laFondazione Crt haraddoppiato la sotto-scrizione popolare, laCompagnia di SanPaolo ha regalato il

palcoscenico che ora è supertecnologico,tantissimi artigiani ci hanno donato tessuti, le-gni, passamanerie».

E ora? «Ora Torino, e l’Italia, hanno di nuo-vo uno dei teatri più belli, con gli splendori chenegli anni si erano appannati, come il soffittodi Gonin, riportati alla luce. Ma anche unospazio nuovo, dove sarà possibile per esem-pio allestire l’opera barocca grazie alla bucaper l’orchestra recuperata dal restauro. Checosa possiamo dire se non grazie a chi ha la-vorato e a chi ha pagato, dimostrando che sipuò continuare a investire sulla cultura pub-blica anche in tempi di crisi?».

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 25GENNAIO 2009

LE IMMAGINILe foto di Gabriele Basilico

(le tre di sinistra, intervallate

da una stampa d’epoca,

e quella a destra) sono

raccolte nel libro TeatroCarignano -Dalle originial restauro (Contrasto/

Agarttha Arte, 216 pagine,

49 euro). Gli scatti saranno

in mostra da febbraio a Torino

al Teatro Carignano e, dal 23

giugno al 23 agosto, a Parigi,

alla Maison Européenne

de la Photographie

IMMAGINI DI IERISopra, il palco

del Carignano

in un disegno

di Gabriel P.M. Dumont

(1757-’74); a sinistra,

l’esterno del teatro

in una stampa; al centro

del paginone, Entr’acte,

dipinto di Carlo

Pollonera (1886); in alto,

la facciata del Carignano

in un disegno del 1824

Repubblica Nazionale

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25GENNAIO 2009

i saporiRotondità

«Questo è un piatto chetutti lo sanno fare…».Malgrado fosse colto eindagatore, anche ilpiù celebre degli scrit-tori-gastronomi, Pel-

legrino Artusi, al momento di ultimare La

Scienza in cucina e l’Arte di Mangiar bene,

si arrese davanti alla regina del comfort-food. Ben oltre un secolo dopo, il pudore diappassionati e chef è rimasto immutato.Codificare la preparazione delle polpette ècome decidere qual è il pane più buono delmondo o eleggere il vino dei vini: impossi-bile. Perché le ricette sono mille, diverse e— se fatte a regola d’arte — tutte irresisti-bili, tanto da attraversare il pianeta intero,con un’interminabile scia di ingredienti ecombinazioni, dai fornelli più poveri allecucine più alte.

Una bella rivincita per uno dei cibi piùsvalutati e strapazzati della nostra storia.Infatti, malgrado il nome abbia in sé i pro-pri quarti di nobiltà alimentare — se è veroche l’etimo “polpa” designa la parte tene-ra e pregiata della carne —, nel parlare co-mune si fan polpette di qualcuno o gli si re-gala una polpetta avvelenata, giù giù finoalla noia mortale (indigeribilità intellet-tuale) di leggere, ascoltare o vedere un“polpettone”.

Tutto congiura contro i piccoli bocconi,come se fossero null’altro che cibo di risul-ta. E invece, le polpette possono tramutar-si in piccoli trionfi di gastronomia: il con-trasto di consistenze fra croccantezza e se-tosità, il sapore fine o rustico, lo status difinger food modello “una tira l’altra”, o dipietanza d’antàn avvolta in una salsa dipomodoro che chiede solo di essere rac-colta con un pezzetto di buon pane, la pre-sentazione raffinata in versione mignonnel brodo, e quella finta leggera sul lettod’insalata.

Da un paese all’altro, la definizione pri-

vilegia di volta in volta forma e contenuto.È il caso delle meatballs (palle di carne)americane, confezionate in versione mag-giorata e servite con gli spaghetti o cometoppings sulla pizza, nella bizzarra con-vinzione di mutuare dei piatti tradizionaliitaliani. In spagnolo, invece, la parola èalbóndigas, termine che in lingua araba in-dica la nocciola (al-bunduq), e in senso la-to un bocconcino rotondo. E poi le boulet-

ten belghe — servite a coté di una monta-gna di patatine fritte —; le cinesi lion’s

heads, teste di leone extra-large, fatte concarne di maiale, cotte in brodo di pollo esalsa di soia; le greche keftedes, aromatiz-zate con cipolle e foglie di menta; le finlan-desi lihapullat, a base di polpa di renna.

Per tutti vale la doppia vocazione origi-naria: dal Sudamerica alla Lapponia, lepolpette si preparano a partire da carnecruda, scelta, o da carne cotta, avanzata dapasti precedenti. Ispirazione analoga perle verdure. Non è detto che la prima solu-zione sia necessariamente migliore dellaseconda: certi fondi d’arrosto, certi ritaglidi biancostato lessato, se ben miscelaticon uova e formaggio di qualità (più rifini-ture a piacere), danno origine a polpette diclamorosa bontà.

Resta il problema della cottura, con lasua scala di salubrità inversamente pro-porzionale al gusto, dalle leggiadre polpet-te al vapore, passando per il forno, fino al-la padella tentatrice. Nel caso abbiatesmaltito gli eccessi natalizi e possiate per-mettervi la frittura, non lesinate su quan-tità e qualità di extravergine, per evitareche — appoggiate sul fondo della padella— le polpette arrostiscano sui due lati sen-za cuocere all’interno, assorbendo, comese non bastasse, molto più grasso del ne-cessario. Lasciatele galleggiare nell’olio a180 gradi, rigirandole appena con la palet-ta, prima di appoggiarle sulla carta. Quelloè il momento più delicato: se le lasciate in-custodite, rischiate di portare in tavola unvassoio dimezzato.

LICIA GRANELLO

l’appuntamentoAppuntamento a fine febbraiocon la manifestazione Sei Bollito o Fritto?

ad Asti. In programma, tour guidatidelle colline astigiane con visitaai produttori di gourmandise della zonaE poi menù degustazioni a 25 euro a testain cinquanta tra ristoranti, osteriee trattorie Protagonisti: il fritto mistopiemontese con le polpettein passerella; e il bollito misto,fonte primaria delle polpettenella versione “regine degli avanzi”

Un nomee millemaschere

Polpette

Èuno dei piatti più svalutati della storia della gastronomia,perché di origine contadina e spesso fatto di avanziMa può trasformarsi in un trionfo di sapori e soprattuttoè duttile quanto a cotture, condimenti, presentazioni

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 25GENNAIO 2009

Di carneLa madre di tutte le polpetteha come ingrediente-basela polpa – ovvero la parte teneradi manzo, pollo, maiale – cruda,tritata, mescolata con uovae formaggio grattugiatoIn alternativa, si utilizzano avanzisgrassati di bolliti, arrosti e stufati

Di pesceApprezzate dai fautoridella cucina alleggerita,si preparano con tutte le qualitàdi pesce: dalle delicate neonate(tramutate in frittelle) ai saporitisardoni. Di gusto ancorapiù robusto le polpettedi baccalà

VegetarianeDalle verdure ai legumi, bastaaprire il frigo per inventareuna ricetta golosa: cardi,melanzane, erbette, patate,carciofi, sbollentati e insaporiti,vengono mischiati con formaggio,uova, besciamella. Squisitii libanesi falafel, a base di ceci

PolpettoneNella versione maggiorata,l’impasto, che spesso racchiudeun “cuore” goloso (uovo, frittata,nido d’erbette, castagne),si cuoce in forno o lessatoin un canovaccio. Si serve tagliatofreddo, con maionese a parteAppetitosa la versione con il tonno

FritteLa cottura più golosa prevedepassaggi diversi, a secondadelle ricette: nella sola farina,oppure nell’uovo sbattuto(o nel solo bianco poco montato)e poi nel pan grattato. Primadi mandarle in tavola, sostaobbligatoria sulla carta assorbente

Col sugoDopo la frittura, il passaggionel pomodoro esalta il sapore:passata o pelati in un soffrittoleggero, immersione delle polpetteper pochi minuti. È la rifinituraclassica della versione “comfortfood”, che prevede abbondantescarpetta finale con il pane

Al fornoA metà fra opposte cotture(olio o acqua), il forno regalacroccantezza senza grassi,ma occorre tener d’occhiotermometro e tempisticaper evitare che i bocconcinisi asciughino troppo. Abbinarecon insalata o erbette spadellate

Al vaporeLa preparazione chinese-stylepiace molto a salutisti e dietologi:niente grassi aggiunti, nientepesantezza da temperatureelevate, rispetto assolutodei sapori originari. Oltreal vapore, leggera e gradevoleanche la cottura nel brodo

itinerari

La tradizionedelle polpette,preparate dopo i bollitinatalizi e l’uccisionedel maiale, attraversala storia della cucinaromagnola. Le diversericette sono riportate

nel centro di cultura gastronomica domestica“Casa Artusi”, nella vicina Forlimpopoli

DOVE DORMIRELE MAGNOLIEVia Don Pollini 40Tel. 0543-781470Camera doppia da 70 euro,colazione inclusa

DOVE MANGIARECASA ARTUSIVia Costa 27, ForlimpopoliTel. 0543-743138Chiuso martedì, menù da 25 euro

DOVE COMPRARESALSAMENTERIA TOMBACorso Diaz 74Tel. 0543-20054

ForlìNella città dei Sassi,si possono gustarei rummulèddi,bocconcini frittie ripassati nel sugo,ricetta lucanadelle polpetteL’impasto

di ingredienti tradizionali – uova, pecorino,patate, salame – viene arricchito con uva passa

DOVE DORMIRELE ANTICHE CASE DI MARTINAQuartiere CivitaTel. 348-7929213Camera doppia da 60 euro,senza colazione

DOVE MANGIAREIL CANTUCCIOVia delle Beccherie 33Tel. 0835-332090Chiuso lunedì, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREIL BUONGUSTAIOVia Lucania 116Tel. 0835-331982

MateraTrattorie d’antàne piccoli ristorantisfiziosi esibisconoin menù polpettoni“light” e mondeghili,versione locale dellepolpette. Nell’impasto,oltre al macinato

di manzo: salsiccia, mortadella di fegato, aglio,cannella e chiodi di garofano. Cottura nel burro

DOVE DORMIRELA VILLETTA Via privata ChiassoTel. 02-3270288Camera doppia da 90 euro,colazione inclusa

DOVE MANGIAREGATTÒVia Castelmorrone 10Tel. 02-70006870Chiuso domenica, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREMACELLERIA ANNUNCIATAVia Annunciata 10Tel. 02-6572299

Milano

Mauro Brun e Bruno Rebuffi preparano polpette squisitenel cuore di Milano. La coppia si sdoppierà tra vecchioe nuovo negozio a marzo, quando lo storico artigianoErcole Villa lascerà ai due la più celebre macelleria cittadina

le calorieper cento grammidi polpette fritte

360

prima apparizionedelle polpettein un ricettario

1464

Pellegrino Artusicertifica la ricettadelle polpette di lesso

1880

il numero minimodi ingredienti: carne,uovo, parmigiano

3

IPromessi sposi, capitolo VII. Renzo porta a cena Tonio e Ger-vaso per sorprendere Don Abbondio con questi inopinatitestimoni di nozze. E l’oste a promettere: «Ora vi porterò un

piatto di polpette, che le simili non le avete mai mangiate».È fama che, letta questa pagina, Giulia Beccaria — madre

del Manzoni — apostrofasse il figlio chiedendogli perché mai,fra tante buone cose, la scelta fosse caduta proprio sulle pol-pette. E che Alessandro rispondesse: «Perché, signora madre,di polpette me ne avete fatte mangiare tante da piccolo che misembrava giusto servirle anche a quei miei personaggi».

Dagli esicia del romano Apicio agli odiernissimi hambur-ger, lunga è la strada delle polpette. E non priva di contraddi-zioni. Nel 1570 esce l’Opera di Bartolomeo Scappi, cuoco se-greto di Papa Pio V. La polpetta vi è definita come una fetta dicarne intera arrotolata attorno a un po’ di macinata: quasi al-lo stesso modo di aglio, origano e quant’altro, oggi inseriti tragli interstizi di un rollè di vitello. L’idea piccolo-borghese cheuna certa quantità di pane grattugiato mescolato alla carnepoteva farne le veci, confondendosi con essa, stenta a farsistrada.

Nel 1662 un altro Bartolomeo cuoco, lo Stefani di casa Gon-zaga, pubblica L’arte di ben cucinare et istruire i non periti inquesta lodevole professione. È un testo frutto di frequentazio-ni aristocratiche, e l’autore sente di dover farsi perdonare unapolpetta non di tutta carne ma con un po’ di mollica dentro.Eccolo allora vincolare l’elaborato ad una materia prima no-bilissima, il fagiano, e a intriderlo in un mare di spezie, di for-maggio lodigiano e altre galanterie. Quasi un anticipo dellecontraddizioni cui sarebbe andato incontro Olindo Guerrininel 1916 quando, presentando L’arte di utilizzare gli avanzidella mensa, polpette in primis, formulò ricette così ricche e

complicate da meritare il postumo commento di Aldo Santi-ni: «Alla faccia del risparmio».

L’azione dei Promessi sposi si colloca storicamente a metàstrada tra il testo dello Scappi e quello dello Stefani. E certo sa-rebbe stato imprudente pretendere dall’oste di Renzo unpiatto degno della corte pontificia o gonzaghesca. Pure, si sacome vanno le cose. Tra cucina popolare e signorile è tutto unsaliscendi, le usanze dei signori si diramano al piano di sottoattraverso i loro domestici come quelle del piano di sotto ap-prodano al nobile. Sbagliava quindi probabilmente Manzo-ni credendo di far mangiare a Renzo, Tonio e Gervaso le mi-sere polpette di mamma Giulia. Tra il matrimonio dei Pro-messi e l’infanzia di Alessandro ci sono due secoli di deca-denza alimentare. Ossia il pangrattato ed altre umiltà chehanno svolto, nella polpetta, funzioni di supplenza rispettoalla carne.

In fondo le attuali polemiche sugli hamburgere sui loro no-civi grassi nascosti tra le pieghe del tritato non fanno che ri-prendere le antiche prevenzioni sul contenuto di quelle pal-lottole che talvolta — quando fritte — prendono anche il no-me di crocchette. Cosa ci sarà mai dentro, quali scarti di piat-to, magari già biascicati da altri avventori trovano rifugio inquelle confezioni? Non a caso Pellegrino Artusi tiene sull’ar-gomento una posizione decisamente ambigua, ma finendoper scrivere: «Non crediate che io abbia la pretensione di in-segnarvi a far le polpette. Questo è un piatto che tutti lo san-no fare, cominciando dal ciuco, il quale forse fu il primo a dar-ne il modello al genere umano». La lingua italiana avrebbe ri-servato lo stesso termine agli elaborati di cucina e agli escre-menti dell’asino, se le polpette fossero state ancora quelle diBartolomeo Scappi? Ahi, Giulia Beccaria...

Da secoli in altalena tra miseria e nobiltàCORRADO BARBERIS

‘‘All’osteriaLui

non vende mai,ma proprio mai,delle polpette

freddee vecchie

Da LA PAZIENZADELLA PIETRA

di Sara Shilo

Repubblica Nazionale

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le tendenzeEterni ritorni

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 25GENNAIO 2009

«La giacca è il capo che avreivoluto inventare io». Gior-gio Armani non ha dubbi:«La giacca ha un fascino ir-resistibile, è la regina delguardaroba femminile».

Nel mondo della moda, Armani è tra i più fe-deli sostenitori della giacca, insieme al mar-chio Chanel, che alle recenti sfilate le ha resoomaggio con una scultura alta venti metri.«Nella moda ci sono cose che non passanomai di moda — spiega Karl Lagerfeld, il gran-de interprete dello stile Chanel —: i jeans, unacamicia bianca e la giacca sono per sempre».

In tempi di crisi, la giacca da donna torna adavere una nuova autorevolezza e tutti gli stili-sti, nessuno escluso, l’hanno rilanciata. I nuo-vi modelli non sono più rigide “corazze” chemortificano la femminilità. Tutt’altro. Arma-ni le ha fatte rivivere con uno spirito nuovo.«Le ho accorciate e alleggerite, realizzate in la-na e seta, in versione elegante o spiritosa, cono senza bottoni, a chimono, a sahariana, a bo-lero». Le nuove giacche sono per tutte le don-ne, nessuna esclusa: dalle super manager alledonne eccentriche, dalle conservatrici alleamanti dell’innovazione spinta, dalle giovanialle più mature. Per ognuna, c’è un modellospeciale. E scovarlo è semplice. Basta passarein rassegna le vetrine che in questo momento

celebrano la riscossa della giacca, dopo anniin cui i giubbini casual le avevano rubato lascena, confinandola nei guardaroba più tra-dizionalisti e borghesi. Oggi non è più così.Complice la crisi, la moda si è reinventata lagiacca, regalandole un nuovo appeal.

«La giacca ha facoltà camaleontiche —spiega la stilista Alberta Ferretti —. In tempidifficili come questi, per le donne è un “benerifugio” e le aiuta ad avere un’immagine piùcarismatica». Da Gucci trionfano quelle stret-te, tagliate alla garçon, mentre da ChristianDior siamo al revival dei modelli anni Sessan-ta, nei delicati colori pastello. Donatella Ver-sace arriva a proporle in morbidissima pelle dicoccodrillo, quasi scolpite sul corpo. «Io mi di-verto a trasformare un look molto femminilee sexy con un blazer maschile — spiega Vero-nica Etro —. Con la giacca tutto diventa più ac-cettabile: dalla scollatura più pronunciata aun paio di short cortissimi usati in alternativaalla gonna».

Tra le creazioni più fashion e già oggetto diculto, ci sono le giacche di Dolce e Gabbana,con le maniche tonde come le orecchie di To-polino. Una soluzione divertente e ironicache si sposa con una sartorialità di alto livello.«La giacca è bella solamente se ben costruitae realizzata con materiali di qualità — ricordaLaura Lusuardi, la mente creativa del gruppoMax Mara —. Per le donne è un capo assolutoma per essere estremamente femminile deve

essere declinato in chiave sartoriale». Rober-to Cavalli concorda con queste regole e sug-gerisce di indossare la giacca su abiti svolaz-zanti o su jeans super sexy. «Il bello di una giac-ca è che sembra sempre uguale — spiega lo sti-lista fiorentino — ma in realtà è sempre diver-sa. Con un accessorio giusto diventa subitomoderna e di tendenza». Una considerazioneche dà il via libera anche al riutilizzo delle giac-che conservate nell’armadio. A patto che ab-biano un dettaglio nuovo. Qualche esempio?Una spilla ma anche un bottone gioiello.

Nuova o vintage, la giacca funziona sem-pre e, come ricordano i Frankie Morello, «seben costruita aiuta a rendere belle tutte ledonne». Massimo Piombo, famoso per lesue giacche colorate e i suoi smoking iper-femminili, teorizza che «se una donna sa in-dossare bene una giacca è più intrigante diquando mostra un reggicalze». Moschinogioca sulle soluzioni surreali e giocose; Bot-tega Veneta esalta lo chic delle donne upperclass; mentre, al l ’opposto,Marithé&François Girbaud sforna modelliche piacciono alle ragazze. Come la giacca“kombat” che si chiude con nastrini intrec-ciati. «Le giacche sono lo specchio della no-stra società — conclude Wolfgang Joop, de-signer di Wunderkind, ex docente di costu-me all’università di Berlino — le guardi e ca-pisci se viviamo momenti di crisi o di massi-mo edonismo».

Non più rigide corazze che mortificano la femminilità, i nuovi modellisono adatti a tutte le donne. Dalle super manager alle eccentriche,dalle giovanissime alle “ragazze d’antan”. Ecco come le grandi firmedella moda rivestono di nuovo appeal un classicodell’abbigliamento

LAURA ASNAGHI

Il capo che visse due volte

1. JIL SANDER. Giacca impeccabile, realizzata con tessuti preziosi, da indossare con short. 2. FRANKIE MORELLO. Piccola e affusolata, è unmodello che si ispira a Jackie Kennedy, da portare con i classici occhialoni scuri e pantaloni a sigaretta. 3. ALBERTA FERRETTI. Comfort,femminilità e carisma. Ecco i concetti che ispirano questa giacca pensata per una donna che vuole essere elegante in ogni momento. 4. DOLCE & GABBANA. La massima sartorialità applicata a un modello di giacca che ha le forme tondeggianti degli anni Cinquanta. Questomodello è stato ribattezzato Topolino perché le maniche ricordano le orecchie del personaggio Disney. 5. WUNDERKIND. Tutt’altro chetradizionali e con stampe dalle fantasie sorprendenti. Wolfgang Joop ama le giacche dalle forme sofisticate ma con tocchi di avanguardia.6. CHANEL. La giacca più amata dalle donne. è quella in tweed creata da Coco Chanel negli anni Cinquanta in alternativa allo stile di allora,troppo rigido e impettito 7. ARMANI. Lo stilista ha creato alla fine degli anni Settanta la giacca destrutturata, priva di imbottiture, adottatadalla donne manager per scalare il potere. 8. LOUIS VUITTON.Avvitate, con tagli sartoriali che sottolineano il punto vita e mettono in evidenzale spalle importanti, d’ispirazione anni Ottanta. 9. GUCCI. Strette giacche da “garçon”, tagliate all’altezza dei fianchi, molto femminili ma conuna sartorialità scrupolosa presa in prestito dalla moda maschile. 10. ETRO. Pratico e chic. Ecco un modello firmato da Veronica Etro cheama abbinare giacche di gusto maschile a short con calze pesanti e scarpe dai tacchi altissimi. 11. VERSACE. Sono scolpite sul corpo legiacche di Donatella Versace. Oltre al cachemire e alle sete preziose usa pelle di coccodrillo e lucertola

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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25GENNAIO 2009

l’incontroVersatili

ROMA

Mi propongo di faremeno, molto meno,annuncia Sergio Ca-stellitto: ma, in attesa

di applicare il proposito, di cose ha con-tinuato a farne un sacco. Inventarian-do, tra lavori già consumati dal pubbli-co e altri al pubblico non ancora arriva-ti, eccolo saltare dal secondo capitolodella saga di Narnia dov’era il cattivoneinsieme con Pier Francesco Favino —buffo assortimento tra i due che, ri-spettivamente, erano stati Coppi e Bar-tali in tv — alla parabola di Pietro “O’Professore” di Scampia nel film tv diMaurizio Zaccaro dal libro di Paola Ta-vella Gli ultimi della classe. Nel 2008 hagirato il film di Vincenzo TerraccianoTris di donne & abiti nuziali e, passan-do per il set del grande vecchio JacquesRivette, a fine anno ha interpretato l’o-pera seconda di Alessandro Angelini.Ora sta nei cinema con la metà dellacommedia Italians, dove sviscera queltanto di anima sordiana che è in lui, esul palcoscenico del teatro Valle di Ro-ma dirige Stefano Accorsi in Il dubbio,testo del Pulitzer John Patrick Shanleysu un prete accusato da una monaca diaver abusato di un ragazzo nero, lo stes-so che va contemporaneamente nei ci-nema con Meryl Streep nel ruolo dellatenace accusatrice. In mezzo c’è stato ilgiurato che a Cannes ha fatto la sua par-te per Gomorra e Il divo.

«Quella premiazione ha segnato unatappa, anzi tre; una è Gomorra, l’altra è Ildivo, ma la terza è quello che hanno fat-to succedere insieme. Per il cinema, dinuovo volano di cultura e non sempliceepisodio. Sono felice di aver contribuito,felice perché volevo che succedesseesattamente questo. In quella cornice

internazionale, venendo dall’anno pri-ma quando ero lì per tenere la “Lezionedi cinema” e ci sputavano in faccia, e il ci-nema italiano sembrava homeless. Èstata la dimostrazione che sappiamo an-dare oltre l’episodicità di qualche casofortunato. C’è una generazione: attori,scrittura, libri. Due film diversissimi, tral’altro. Gomorraè la classicità, Il divol’in-novazione. Molto esperti anche se di au-tori giovani, con la coscienza di aver co-struito qualcosa per il cinema italiano,non più gli isolati Moretti o Benigni. È laprima volta in tanto tempo». Con o sen-za la ciliegina dell’Oscar.

«Sono successe tante cose, è vero, di-verse fra loro. È il privilegio del mio la-voro. Non regalato, ma guadagnato evoluto. Andare sia al mare che in mon-tagna: dice il mio modo di fare il me-stiere. Passare dalla commedia di Vero-nesi a Rivette. È molto interessante es-sere ospiti dentro due mondi così paz-zescamente diversi e stare bene in tut-te e due le acque. Per poi passare ad An-gelini, il regista de L’aria salata. Un verotalento, e un progetto molto speciale.Questa varietà è la cosa che mi piace dipiù». Una conquista? «Ma non è solomerito mio. È anche una possibilità chemi è stata offerta. Da Bellocchio a PadrePio». Altro curioso destino, che ha con-frontato i due attori italiani più popola-ri, lui e Michele Placido, con lo stessopersonaggio del santo monaco.

Ma non è semplice ed è un segno dimaturità riuscire a passare con disin-voltura da una cosa all’altra. E magarinon è sempre stato così. «Ma non mi so-no mai fatto ingannare, a modo mio eper contrasto sono sempre stato moltosnob; sono andato sempre a tutte le fe-ste. Una personale forma di sciccheria.Trovo provinciale frequentare solo unmondo, riduttivo e ingeneroso. L’atto-re dev’essere uno che si offre: offre lapropria arte, esperienza, e anche scrit-tura. Sì, scrittura, perché più vadoavanti più penso di essere una penna.Devo trovare motivi e interessi, certo,che di nuovo è un privilegio, non mi hamai ordinato il dottore di andare sul set.Sono contento che con il trascorreredegli anni non ho cambiato opinione.Per il futuro, questo sì, c’è l’intenzionedi recitare il meno possibile».

Non è nuova la sensazione che si siastufato, che non gli basti più fare l’atto-re. «Francamente è così. Penso che a uncerto punto bisogna smettere il mestie-re. Oh, intendiamoci: parliamo sempredi chi ‘sti discorsi se li può permettere.Quando avverti di ri-recitare, di ri-fare.Semplicemente di annoiarti. Nessunasofferenza speciale. Mi sono guardatoallo specchio e mi sono chiesto: perché,malgrado il privilegio che ho? Perchénon mi basta più sentirmi dire chequella cosa l’ho fatta bene? È ora di cer-care altrove, di ridiventare studente. Diricominciare da qualche altra parte.Certo: scrivo, faccio il regista. Ma non sitratta di smettere di recitare per fare ilregista. Si tratta di smettere. Almeno di

però anche tentato dall’idea di tra-smettere la propria esperienza. «Unadelle cose che voglio fare, liberandospazio e tempo, è di creare un laborato-rio di scrittura. Starci dietro senza dele-gare. In maniera artigianale, senza far-la troppo Holden. In questo apparta-mento. Dare compiti a casa e poi rive-derli, alla fine accorgersi se uno emer-ge e concentrarsi su quello. Iniziativaprivata, senza sovvenzioni. Pochi ra-gazzi e patti chiari: non c’è una lira pernessuno fino a che un progetto montae allora si va avanti. I giovani hanno untale bisogno di essere ascoltati, e io mioffro. Seminare e vedere se succedequalcosa». Mica poco avere la possibi-lità di confrontarsi con Castellitto.«Con me e con Margaret». Mazzantini,moglie di Sergio e madre dei suoi quat-tro figli, al più grande dei quali ha dedi-cato il nuovo romanzo Venuto al mon-do. È sempre un po’ commovente sen-tire come Castellitto si riferisce a lei,con quale orgoglio. «Ci starebbe anchelei. Sarebbe interessante ascoltare eistruttivo ascoltarsi: te ne accorgi se di-ci stronzate. Lo farò».

Un giro di flash. «In Italians di Gio-vanni Veronesi io e Riccardo Scamarcioportiamo le Ferrari rubate agli sceicchi.Mi piaceva “sporcarmi” con un perso-naggio popolare, basso. In realtà è ve-nuto pieno di malinconia e struggimen-to. Mi piaceva anche stare dentro a unblockbuster. E il più bello è stato di usci-re da lì per presentarmi sul set di questogigante: Rivette. Ritmi distesi. Il massi-mo di pressione che esercita sull’attoreè un discreto “forse è meglio così”. Lui sìche è uno “studente” come intendo io, aottant’anni suonati. Io sono un italianotutto griffato che arriva in Porsche, nonsi capisce che faccio, dico di essere unmanager. È stato come andare alla sor-gente del fiume. Fai il cinema, con tuttele sue consuete melmosità, ma stradafacendo ti accorgi che stai scalando lamontagna fino alla sorgente dove esce ilprimo zampillo e bevi l’acqua pulita.L’essenzialità, tutto il frastuono del setnon c’è più. Nutrimento puro. Vedere lavita che entra nel set è veramente raro.Vero privilegio. Non stai facendo soloqualcosa da mettere nel curriculum. Maanche tutto molto luminoso, senza cu-pezza, malinconia o nevrosi. Ce n’è mol-ta di più nei film cosiddetti normali. An-che molta più infelicità».

Spesso nei luoghi dove si fa il cinemaregna lo squallore. «Parola appropria-tissima. A maggior ragione in quei gior-ni con Rivette ho avvertito la sensazionequasi infantile di partecipare alla co-struzione di qualcosa di bello. Non “cor-to o lungo”, “funziona o non funziona”.Bello e basta. Poi il film con Terracciano.Mi è piaciuto raccontare una Napoli ce-coviana. Morbida, senza scippi, pocotraffico. Un uomo che si rovina col gio-co. Con una moglie tedesca, trapiantataa Napoli ma più conservatrice e più na-poletana del marito. Infine con Angelinisono un uomo che perde un figlio. Con-

essere sempre più selettivi, di andaresolo verso esperienze belle».

E come vanno d’accordo la selettivitàcon il darsi senza risparmio di sé? «Que-sto è il passaggio che mi aspetta. Vengoda quella generosità, disponibilità, cu-riosità, che credo sia un patrimonio. Evengo anche da quella nevrosi: l’attoreha bisogno di lavorare, veder program-mata carriera e futuro, la cosa che piùama è dire “devo fare questo, devo farequest’altro”. Ma non mi interessa più,ringraziando Dio». All’attore viene l’an-goscia di non esistere se non sta su unpalcoscenico, se non sta su uno scher-mo. «Io non ce l’ho più. Grazie a unaquantità di reticoli affettivi che ho intor-no, ad altre curiosità umane, di vita. Nonè questione di attore o regista, ripeto, madi lavorare sempre meno. Per poter farepiù precisamente cose che abbiano si-gnificato per me. Dal prossimo futuroquesto è il programma. Anche per via diquesta intenzione nell’ultimo anno holavorato molto. E non voglio dire che èun giocoso testamento, però...».

Riprendiamo dal ridiventare stu-dente. «La cosa più difficile, interrom-pere la noia dell’esperienza». Studente,

sente l’espianto degli organi. E poi se lova a cercare, questo cuore trapiantato.Molto neorealistico e poetico. Non so sec’è dentro ancora qualche ingenuità dainesperienza ma te ne freghi e salti lapozzanghera. Meglio del compitinoperfetto e clinico. E poi c’è dentro quel-lo che mi interessa di più, il rapporto pa-dre-figlio. Quando dico del limitarsi alleoccasioni di riflettere su qualcosa che tista a cuore: ecco, questa è una. Di que-sto film mi è piaciuto subito il clima».

Antidoti alla routine. «Già. Quandoho cominciato a fare l’attore l’immagi-ne che avevo in testa era quella di en-trare in una caverna e trovare l’oro, unantro che prima ti fa paura ma poi infondo trovi l’oro. Invece ti accorgi chetrovi anche discariche, mediocrità, as-senza di fiducia e di fede, offese al privi-legio di fare quel lavoro. Sono diventa-to saggio, vecchio nel senso buono, cre-do proprio di invecchiare bene. Mi go-do l’osso del pollo molto di più, primalo buttavo via che c’era ancora un sac-co di polpa».

Sa bene di essere una star ma gli pia-ce il tema del traguardo sudato: non èpartito a razzo, ha costruito lentamen-te. «È la mia fortuna non aver vinto laschedina troppo presto. Casomai l’hovinta verso i quaranta. Carmelo Benediceva: non puoi recitare Amleto pri-ma, anche se di anni ne ha ventidue. Latua vita ti deve aver passato qualcosaper poter dire quelle parole, non puòessere un coglione qualsiasi a dirle. Undolore, un entusiasmo devono avertiplasmato. La schedina puoi pure vin-cerla, ma poi te la devi guadagnare. Iosono grato alla mia carriera di emersio-ne lenta. Mi ha consentito di non spu-tare mai sulle scarpe di nessuno, dicomportarmi con educazione». Non sideve mai dire: Castellitto si è montatola testa? «Proprio no, ho troppa stima dime stesso per montarmela».

Sono diventatosaggio e credodi invecchiare beneMi godo l’ossodel pollo molto di piùPrima lo buttavo viache c’era ancoraun sacco di polpa

Film con registi-culto e filmcon esordienti, film di nicchiae blockbuster. E poi il teatroe il ruolo di giurato a CannesIl 2008 è stato un anno pienissimo

per il protagonistadi “Italians”, che orasi è stancato e progettadi “cercare altrove,di ridiventare studente”E non è questionedi scegliere tra il lavorodi attore, regista

o scrittore ma di “lavorare sempremeno per fare solo cose che abbianodavvero significato per me”

PAOLO D’AGOSTINI

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Sergio Castellitto

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