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9 Capitolo 1: Quadro teorico Entro il 2030 oltre il 60% della popolazione mondiale si sarà urbanizzato 1 ”. Come possiamo definire la città e soprattutto come dobbiamo leggere i suoi cambiamenti? Gli studi urbani non sono un fenomeno recente. L’espressione “teoria urbana” indica una gamma di prospettive e interpretazioni che mirano a fornire una comprensione generale della vita cittadina. Simon Parker evidenzia come la teoria urbana si possa definire con uno o più elementi che comprendono le cosiddette “quattro C”: cultura, consumo, conflitto e comunità. Per cultura si intende “tutti i sistemi di credenze, insieme all’ambiente fisico costruito, ai contenuti e ai mezzi di comunicazione, e anche alla produzione culturale tradizionale e alla cultura popolare. Il consumo si riferisce alla natura dello scambio e ai mezzi attraverso cui vengono prodotti i beni e servizi consumati. Il conflitto non si riferisce solo alla violenza fisica ma anche a lotte meno visibili per le risorse, e anche tra classi sociali e gruppi diversi per interessi e status sociale. La comunità coinvolge tutti gli aspetti della vita sociale delle città, dalle dimensioni della popolazione alla sua distribuzione sul territorio, alla composizione sociale, alle sue caratteristiche e al loro cambiamento nel tempo 2 . Il nostro studio vuole cercare di comprendere alcune di queste caratteristiche e in particolare lo studio della comunità. Nel fare questo utilizzeremo vecchie e nuove teorie emerse nel XX° sec. 1) Città come spazio Per l’attore sociale lo spazio “può assumere contemporaneamente un aspetto concreto, fatto di punti, di distanze, di forze necessarie a percorrerlo, lo spazio che materialmente permette e caratterizza lo svolgersi delle sue azioni. Nondimeno può avere un significato astratto, cioè una funzione di forma o schema attraverso cui egli coglie la realtà” 3 . Sia nel primo punto di vista che nel secondo la città può essere 1 S. Parker (2004), “ Teoria ed esperienza urbana”, Il Mulino, Bologna, p. 11 2 Ibid ,p. 12 3 V.Cesareo (1998), “Sociologia, concetti e tematiche, Vita e Pensiero, Milano, p. 211

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Capitolo 1: Quadro teorico “Entro il 2030 oltre il 60%

della popolazione mondiale

si sarà urbanizzato1”.

Come possiamo definire la città e soprattutto come dobbiamo leggere i suoi

cambiamenti? Gli studi urbani non sono un fenomeno recente. L’espressione “teoria

urbana” indica una gamma di prospettive e interpretazioni che mirano a fornire una

comprensione generale della vita cittadina. Simon Parker evidenzia come la teoria

urbana si possa definire con uno o più elementi che comprendono le cosiddette “quattro

C”: cultura, consumo, conflitto e comunità. Per cultura si intende “tutti i sistemi di

credenze, insieme all’ambiente fisico costruito, ai contenuti e ai mezzi di

comunicazione, e anche alla produzione culturale tradizionale e alla cultura popolare. Il

consumo si riferisce alla natura dello scambio e ai mezzi attraverso cui vengono

prodotti i beni e servizi consumati. Il conflitto non si riferisce solo alla violenza fisica

ma anche a lotte meno visibili per le risorse, e anche tra classi sociali e gruppi diversi

per interessi e status sociale. La comunità coinvolge tutti gli aspetti della vita sociale

delle città, dalle dimensioni della popolazione alla sua distribuzione sul territorio, alla

composizione sociale, alle sue caratteristiche e al loro cambiamento nel tempo2. Il

nostro studio vuole cercare di comprendere alcune di queste caratteristiche e in

particolare lo studio della comunità. Nel fare questo utilizzeremo vecchie e nuove teorie

emerse nel XX° sec.

1) Città come spazio Per l’attore sociale lo spazio “può assumere contemporaneamente un aspetto

concreto, fatto di punti, di distanze, di forze necessarie a percorrerlo, lo spazio che

materialmente permette e caratterizza lo svolgersi delle sue azioni. Nondimeno può

avere un significato astratto, cioè una funzione di forma o schema attraverso cui egli

coglie la realtà”3. Sia nel primo punto di vista che nel secondo la città può essere

1 S. Parker (2004), “ Teoria ed esperienza urbana”, Il Mulino, Bologna, p. 11 2 Ibid ,p. 12 3 V.Cesareo (1998), “Sociologia, concetti e tematiche, Vita e Pensiero, Milano, p. 211

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considerata come un complesso di case strettamente confinanti, le quali costituiscono un

centro abitato compatto e così esteso che vi manca la conoscenza reciproca degli

abitanti4.

La vita di una città è influenzata da fattori spaziali come il numero degli

insediamenti, la loro distribuzione, l’esistenza di confini, la massa e la densità delle

persone che vi abita. La dislocazione nello spazio urbano di una sua unità è importante

per determinarne tutti gli aspetti concreti dell’azione e della problematica, della

materialità della vita quotidiana (trasporti ecc..) e dei significati culturali che esso

assume5. Una distinzione importante rispetto a questo concetto è quella tra spazio

pubblico e spazio privato. Gli spazi pubblici sono anzitutto spazi simbolici,

caratterizzati da elevata accessibilità e uniformazione. Tali spazi permettono un tipo di

comunicazione indiretta, impersonale, estesa e non gerarchica. Gli spazi privati

riscontrano un’accessibilità condizionata, un’ elevata personalizzazione nonché il

prevalere di comunicazioni gerarchiche. Da questo punto di vista Habermas distingue

tra mondo vitale e sistema sociale: il primo è l’insieme delle conoscenze e delle

concrete situazioni nelle quali l’attore sociale svolge gran parte della sua vita

quotidiana: “il soggetto non si identifica propriamente con il mondo vitale, ma ne fa

parte, contribuisce a costruirlo, e nel medesimo tempo lo utilizza per controllare

(simbolicamente) la propria integrazione sociale”. Il secondo concetto, il sistema

sociale, viene definito dall’autore tedesco come l’insieme delle attività impersonali e

funzionali, svolte secondo il principio della razionalità strumentale. Il sistema garantisce

la riproduzione materiale della società attraverso meccanismi di regolazione estranei

alla personalità dei soggetti perseguendo, dunque, obiettivi antagonistici rispetto al

mondo vitale. Da questo punto di vista si possono definire lo spazio pubblico e lo spazio

privato rispettivamente come sistema sociale e mondo vitale6.

Il rapporto tra socialità e spazio urbano ad oggi si potrebbe sviluppare in maniera

disgiunta rispetto al passato. In particolare Castrignanò afferma come “il rapporto tra

socialità e spazio si manifesta spesso in modo più sfumato e contraddittorio rispetto

all’idea tradizionale dello spazio come specchio delle relazioni sociali”7. Nella sua

analisi del “sistema Corticella” l’autore individua la compresenza di legami sociali e

4 Ibid. p. 223 5 Ibid. p. 212 6 Ibid. pp. 218-219 7 M. Castringnanò (2004), “La città degli individui”, Franco Angeli, Milano, p. 26.

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socio – territoriali di tipo comunitario con dinamiche di tipo societario. Parlare di

comunità può avere un duplice significato. Da un lato si evidenziano le dinamiche

relazionali tipiche di aree rurali che le persone mantengono e riadattano ad un contesto

urbano anche se caratterizzate da un certo grado di chiusura tipico dell’ambiente

cittadino. Dall’altro si possono verificare autonomamente degli stili di vita caratterizzati

da legami sociali ascrivibili ad una più generale idea di comunità8. Sebbene l’oggetto

del nostro studio non vada nella direzione della ricerca di legami comunitari o societari

all’interno dell’area oggetto del nostro lavoro sul campo, sarà importante verificare le

dinamiche che potranno apparire all’interno dello stesso. Bisogna inoltre aggiungere

come all’interno delle scienze sociali la parola comunità abbia avuto una doppia

accezione: da una parte, l’accezione “comunità” designa un insieme di particolari

relazioni sociali alla base di unità collettive che coinvolgono l’individuo nella sua

totalità; dall’altra invece, “comunità” coincide con comunità locale. Durante il proseguo

dell’elaborato e in particolare nei prossimi capitoli con la parola “comunità” si farà

riferimento principalmente alla seconda accezione e in particolare allo studio dei gruppi

di immigrati intesi come collettivi.

Un altro tema fondamentale è quello dello sviluppo fisico e processuale della

città e quindi dello spazio urbano. Dal punto di vista fisico la città moderna si forma

grazie all’espansione di più città vicine che si sono sviluppate fino a fondersi in

un’unica area urbana continua. La città può essere letta, da questo punto di vista, con

l’analisi del piano, ossia il progetto dell’assetto urbanistico, in relazione all’assetto

morfologico del territorio. La realtà fisica del territorio è il prodotto di modificazioni e

si tratta di comprendere in che modo le stesse sono il frutto di volontà pianificatorie:

quanto cioè l’assetto del territorio è debitore del piano9. Dal nostro punto di vista

l’aspetto più interessante riguarda l’organizzazione dello spazio della città cosmopolita.

Per i sociologi di Chicago, il modello di espansione seguiva le stesse linee in tutte le

città americane dell’epoca. Inoltre, la differenziazione in gruppi naturali, economici e

culturali imprime una forma e un carattere alla città, poiché la separazione assegna al

gruppo, e quindi agli individui che lo compongono, un ruolo nell’intera organizzazione

della vita cittadina. Inoltre, la divisione del lavoro gioca un ruolo fondamentale: 8 Castrignanò M. “Più logiche nell’articolazione del territorio”, (cura di), P. Guidicini (2000), “Luoghi Metropolitani”, Franco Angeli, Milano, p.161. 9 C. Centanni, Interpretazione della città attraverso il PRG. Efficacia del piano e forma urbana nell’Ancona del dopoguerra”, Università degli Studi di Camerino, Dottorato di Ricerca XVII ciclo, p. 9

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l’attinenza di certe popolazioni a certi tipi di lavoro porta di fatto alla specializzazione10.

Tralasciando l’analisi delle varie forme architettoniche che possono incidere nelle

conformazioni della città nei prossimi capitoli analizzeremo l’espansione di Ancona.

Dal punto di vista processuale Park affermava che negli anni ‘20 non fossero

stati compiuti studi importanti sullo sviluppo della città. Secondo questo autore, “i tipici

processi di espansione della città possono essere illustrati mediante una serie di cerchi

concentrici, che si possono numerare per designare sia le zone successive di estensione

urbana sia i tipi di aree differenziate nel processo di espansione”11. Lo sviluppo della

città nel diagramma esemplificativo pone il centro circondato da un secondo anello

caratterizzato dalla zona industriale. Al terzo anello abbiamo la zona residenziale

operaia, al quarto la zona residenziale e al quinto la zona dei lavoratori pendolari. Il

diagramma, dice Burgess, “rivela la caratteristica principale dell’espansione, cioè la

tendenza di ogni zona interna a estendere la propria superficie invadendo la zona esterna

immediatamente successiva”. Burgess aggiunge che questo fenomeno può essere

definito come di successione e che ha analogie negli studi dell’ecologia vegetale. Il

processo di espansione, e soprattutto il tasso di espansione può essere studiato non

soltanto nello sviluppo fisico e commerciale ma anche nei mutamenti che ne derivano

nell’organizzazione sociale e nei tipi di personalità. L’espansione crea anche dei

processi di disorganizzazione e dei mutamenti dove talvolta avviene un disequilibrio

delle forze. Questo avviene sia a livello globale che a livello personale: il nuovo venuto

in città deve affrontare un conflitto interno in quanto abbandona e rinuncia alle abitudini

e spesso anche al suo modello morale di riferimento.

Dal punto di vista dello sviluppo processuale della città un concetto

fondamentale è quello di gentrification. Questo termine è stato usato per la prima volta

dalla sociologa Ruth Glass per descrivere l’arrivo di persone con redditi da classe media

in quartieri centrali di Londra precedentemente occupati da gruppi a basso reddito. I

nuovi arrivi sono costituiti anche dai classici manager o professionisti con istruzione

universitaria, le cui esigenze di consumo possono alterare le caratteristiche sociali e i

servizi di una zona, cosicché le reti sociali dei residenti si disperdono, mentre

aumentano costo della vita e offerta di servizi destinata a soddisfare i gruppi ad alto

reddito.

10 S. Parker (2004), “ Teoria ed esperienza urbana”, Il Mulino, Bologna, 51-54. 11 R. Park, E. Burgess, R. Mckenzie (1997), “La Città”, Edizioni di Comunità, Torino, p.48.

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Nelle aree ad alta deprivazione sociale, queste enclaves diventano punti di

riferimento per altri proprietari di case della classe media che non possono, o non

desiderano, educare privatamente i loro figli, ma neanche vogliono diventare pendolari

suburbani. Una volta che il consumo collettivo di un bene pubblico si è imborghesito in

questo modo, le reti del capitale sociale che si sono mobilitate per migliorare questo

aspetto dell’offerta coopereranno per esigere che siano migliorati anche altri aspetti di

interesse pubblico, come i parchi, gli spazi verdi, la congestione del traffico e la

criminalità.

Il fenomeno della gentrification rientra anche nei dibattiti sulla globalizzazione e

ristrutturazione del paesaggio urbano connessi alla mobilità di capitali e al conseguente

sviluppo disequilibrato. Secondo Neil Smith, tale fenomeno è un effetto caratteristico di

quello che Harey e Lefebvre chiamano secondo circuito del capitale, il capitale investito

in terreni e proprietà e si collega alla tendenza a sfruttare le variazioni del valore dei

terreni (rendita fondiaria) durante i periodi di fluttuazione dei prezzi. Smith dice come la

valorizzazione del capitale nel centro della città crea l’opportunità affinché questa

porzione di spazio urbano sottosviluppato si rivalorizzi.

2) Aree naturali ed ecologia umana. Nel libro “La città”, scritto nell’ambito della scuola di Chicago, uno degli aspetti

più interessanti è la delimitazione della città in aree naturali. Una delle parole ricorrenti

tra questi studiosi è l’“ecologia umana”. Questo concetto viene definito da Park come lo

studio delle relazioni spaziali e temporali degli esseri umani in quanto influenzati dalle

forze selettive, distributive e adattive che agiscono nell’ambiente12. Concetto chiave a

questo proposito è quello della posizione, sia nel tempo che nello spazio dove con

questo termine si intende la relazione spaziale di una data comunità con altre comunità,

e, inoltre, la collocazione dell’individuo o dell’istituzione nella comunità stessa.

I sociologi di Chicago pongono il rapporto ecologico all’interno dell’ambiente

urbano come luogo naturale di espressione, insediamento della comunità e articolazione

definitiva del conflitto per la sopravvivenza. L’origine di questi studi ha come corollario

quello degli sviluppi delle scienze naturali del primo novecento. Le teorie si basano

sull’assetto dell’universo delle piante, la cui organizzazione e sopravvivenza, fondate

12 Ibid. p. 59

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sul processo evoluzionistico, differiscono per il carattere non sociale delle individualità

che lo compongono13.

Da questo punto di vista la città altro non è che un processo del cambiamento

storico che si viene realizzando, come prodotto “naturale” dell’interazione di fattori

economici e culturali, dei quali erano complessivamente protagonisti gli uomini, i quali

si insediavano in un ambiente fisico (in una dimensione spaziale) e in un tempo sociali,

modificandoli e restandone a loro volta modificati14.

Per Mc Kenzie, anche se la differenza essenziale tra uomo e natura sta nella

scelta del proprio habitat e di rimodellarlo a suo piacimento grazie anche alla mobilità

umana, “un esame e un indagine più accurati mettono in evidenza che le comunità

umane non sono prodotti artificiali o consapevoli”15. Il dato fondamentale da cui partire

è comunque la natura dell’uomo come essere sociale. L’uomo, afferma Mc Kenzie, non

può vivere solo; è relativamente debole e ha bisogno non soltanto della compagnia di

altri consociati umani, ma di rifugio e di protezione dagli elementi.

I processi migratori, come ogni altra forma di mutamento sociale della comunità

pongono la città in un processo di disorganizzazione e quindi della ricerca di un nuovo

equilibrio. Tuttavia il momento in cui avviene il cambiamento può trasformarsi in una

situazione di crisi, un’improvvisa ricaduta o addirittura al panico. Dall’altra parte lo

spostamento di popolazione crea dei disequilibri nella comunità di partenza: la

concorrenza diventa più forte all’interno della comunità e gli elementi più deboli o sono

costretti a retrocedere a un livello economico inferiore, oppure debbono abbandonare

completamente la comunità16.

Per Park, che prese a riferimento la metropoli di Chicago, è il conglomerato

urbano il luogo dove si determina il processo di aggregazione, confronto e risoluzione

del rapporto tra i soggetti, e nella quale si realizza, all’interno della popolazione, uno

sviluppo segnato da selezione e segregazione che la porta a vivere in specifiche aree

naturali, omogenee al proprio interno: “la città è il microcosmo nel quale si riflettono,

spesso in anticipo sulle manifestazioni contemporanee, i mutamenti che si stanno

determinando nel macrocosmo”.

13 R. Rauty in R. Park, E. Burgess, R. Mckenzie (1997), “Introduzione a La Città”, Edizioni di Comunità, Torino p. XV 14 R. Ibid, p. XII. 15 R. Park, E. Burgess, R. Mckenzie (1997), “La Città”, Edizioni di Comunità, Torino. p. 60 16 Ibid. pp. 67-68

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La città per questi sociologi viene considerata come unità ecologica, unità

geografica, unità economica e un’area culturale. Per unità ecologica si intende il

coinvolgimento nei processi vitali della gente che la compone: come prodotto della

natura e in particolare della natura umana. In particolare si sottolinea come esistano

forze “che agiscono nei limiti della comunità urbana tendenti a produrre un

raggruppamento ordinato e tipico della sua popolazione e delle sue istituzioni”17.

L’ecologia urbana è dunque considerata la scienza che cerca di isolare questi fattori, e di

descrivere quelle tipiche costellazioni di persone e di istituzioni che sono prodotte dalla

cooperazione delle forze.

La città viene anche considerata come unità geografica ossia l’aggregarsi

contiguo, nello spazio urbano, di realtà profondamente contrastanti ma anche la stessa

organizzazione fisica che nella città americana si sviluppa prevalentemente in isolati: “I

mezzi di trasporto e di comunicazione, le linee tranviarie e i telefoni, i giornali ecc..

sono tutti elementi che tendono a produrre nello stesso tempo una maggiore mobilità e

una maggiore concentrazione delle popolazioni”18. La città è anche un’unità economica:

ossia uno spazio organizzato fondato sulla divisione del lavoro. Infine viene considerata

come area culturale caratterizzata da un particolare tipo culturale: adducendo ciò i

sociologi di Chicago pongono enfasi sul come le grandi culture abbiano un carattere

urbano.

L’entità della popolazione, la sua concentrazione e la sua distribuzione entro

l’area cittadina portano allo studio, per i sociologi di Chicago, di alcune caratteristiche

proprie del tessuto urbano:

“Quali sono le origini della popolazione della città? Quale porzione dell’aumento della

sua popolazione è normale, cioè dovuto a un’eccedenza delle nascite sulle morti? Quale

porzione è invece dovuta all’emigrazione di ceppi nativi? Di ceppi stranieri? In quale

modo la distribuzione della popolazione entro l’area urbana è influenzata da interessi

economici, cioè dal valore del terreno? Da interessi sentimentali? Dalla razza?

Dall’occupazione?19”

All’interno della Chicago ma anche di altre città americane degli anni ’20 si

sviluppavano a parte delle colonie isolate di immigrati e delle colonie razziali, ossia i

17, Ibid p. 5. 18 Ibid. p.6. 19 Ibid. p.9

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cosiddetti ghetti. Laddove il pregiudizio verso l’immigrato e verso l’altero erano forti si

sviluppavano, all’interno di questi ghetti, legami di intimità e di solidarietà dei gruppi

locali e di vicinato. I ghetti venivano considerati come vere e proprie città nelle città con

la caratteristica di essere composte da persone della stessa razza o classe sociale.

Da questo punto di vista Thomas, precursore di questa scuola, nel suo libro “Gli

immigrati e l’America”, sviluppa una serie di delimitazioni culturali nello spazio fisico

della città di New York.

Il lavoro di Thomas si rivela interessante non solo per l’accentuazione delle

caratteristiche significative di ogni comunità ma anche per i loro tratti comuni20. Nel

prossimo paragrafo approfondiremo l’analisi di questo studioso ponendolo in relazioni

con le problematicità dell’integrazione.

Riferendoci ai processi ecologici di insediamento risulta importante il concetto

di invasione.

Mc Kenzie lo raggruppa in due classi principali: quelle che conducono a un mutamento

nell’uso del terreno e quelle che introducono soltanto un mutamento nel tipo di

occupante. “Le invasioni producono stadi successivi di importanza qualitativamente

diversa; cioè il livello economico del distretto può innalzarsi o abbassarsi in seguito a

certi tipi di inversione. Questo aspetto qualitativo si riflette nelle fluttuazioni dei valori

del terreno o degli affitti”.21 Nel secondo aspetto, si verifica un cambiamento nella

configurazione delle persone che vi abitano e i mutamenti dei tipi di servizi all’interno

di un’area. L’invasione può inoltre cambiare il livello economico del distretto sia in

termini peggiorativi che migliorativi.

Un’altra classificazione delle invasioni è quella relativa allo stadio di sviluppo in

a) stadio iniziale; b) stadio secondario o di sviluppo; c) apogeo. Al primo stadio di

invasione la resistenza dipende dal tipo di invasore nonché dal grado di solidarietà degli

attuali occupanti. L’invasore indesiderato, penetra di solito nel punto di maggiore

mobilità e di minima resistenza. L’inizio di un’invasione tende a riflettersi nei

mutamenti del valore dei terreni. Se l’invasione è costituita da un mutamento di uso, il

valore dei terreni generalmente aumenta, mentre diminuisce quello dei fabbricati.

Questa situazione pone le basi della disorganizzazione. In genere le normali riparazioni

e i miglioramenti vengono trascurati, e il proprietario si trova nell’urgente necessità

20 W.I. Thomas (1997), “Gli immigrati e l’America, Donzelli Editore, Roma. 21 Ibid. p. 69

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economica di affittare la sua proprietà a servizi parassitari e transitori che possono

essere economicamente redditizi ma socialmente condannabili e che quindi possono e

debbono pagare affitti più elevati di quelli che i servizi legittimi si possono permettere. I

primi stadi dell’invasione possono essere caratterizzati da fasi di aperto conflitto. “A

misura che il processo continua la concorrenza suscita raggruppamenti di associazione. I

servizi che avanzano richieste di territorio analoghe o complementari tendono a

raggrupparsi fortemente gli uni vicino agli altri, producendo sotto-formazioni con

determinate funzioni”.22 Lo stadio di apogeo si caratterizza per lo stato dominante

dell’organizzazione ecologica capace di resistere alle intrusioni di altre forme di

invasione: in quello stadio tutti i quartieri residenziali ormai ultimati si trova in genere

un notevole grado di omogeneità economica. In generale l’effetto delle invasioni

suddivide il territorio urbano in aree naturali definibili ciascuna per una propria capacità

selettiva e una propria cultura. Queste aree naturali possono poi includere delle sotto

aree o associazioni che vengono a far parte della struttura organica del quartiere o della

comunità.

Il primo autore che parlò di aree naturali fu Zorbaugh della scuola di Chicago.

Nel suo libro, The Gold Cost and the slums, parla della divisione in 6 aree naturali della

parte della città conosciuta come Near North Side. In particolare Zourbagh definisce

l’esistenza di un quartiere considerato ricco. In questa parte della città gli abitanti si

contraddistinguevano per un atteggiamento teso ad escludere dai propri privilegi le altre

persone. Spesso, soprattutto tra le classi più ricche, le persone si vantavano di non

conoscere i propri vicini. Il bene posizionale, nei termini di Hirsh, in questo caso era il

soggiornare in luoghi di villeggiatura per più di otto mesi all’anno. Nel giro di poco

tempo però, questa quartiere vide un processo di successione: le persone che vi

abitavano, nel giro di una generazione, furono soppiantate da classi più povere. Un’altra

area era quella delle case in affitto: in questo quartiere si notava la presenza di single.

La carratteristica principale era la quasi totale assenza di bambini di bambini rispetto ad

altre aree della città. Questa zona, nei termini di Durkheim, si verificava un’alta

percentuale di suicidi dovuti all’anomia. Vi erano poi gli slums che Zorbaugh

classificava in due tipi: il quartiere degli immigrati, considerato come un luogo

cosmopolitita dove vi abitavano 28 tipi di nazionalità e dove la convivenza e la

22 Ibid. p. 70-71

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tolleranza era reciproca. Le distanze sociali, data la caratteristica della composizione

sociale, si attenuavano, sviluppando un tipo di quartiere solidale. Tra gli slum però vi

era quello di Little Sicily. Questo quartiere, abitato ovviamente da siciliani, possedeva la

caratteristica di essere ancora chiuso rispetto all’esterno. Gli abitanti riuscivano a

mantenere ancora intatte le proprie tradizioni e cercavano di soppiantare il resto degli

immigrati e in particolare gli svedesi. In quest’area si verificava quella lotta per lo

spazio di cui abbiamo appena parlato. Tuttavia ai tempi in cui Zorbaugh scriveva il suo

saggio, i siciliani vivevano un processo di successione a favore dei neri provenienti dal

Sud degli Usa. Vi era un altro slum ossia la zona delle camere d’affitto a buon mercato.

Questa era la giungla dei relitti umani, un mondo di falliti e di derelitti senza speranza.

Tutti portavano il marchio della sventura e del fallimento; l’inabilità fisica, la droga e il

gioco d’azzardo erano elementi quasi sempre presenti nella loro storia, accompagnati da

una totale mancanza di volontà, di speranza e dal conseguente senso di sconfitta, che

faceva loro accettare la vita dello slum e il definitivo isolamento dal mondo. L’ultimo

quartiere preso in considerazione è quello degli artisti o come lo chiamava Zorbaugh dei

Bohemiens. In questa area si incontravano gli intellettuali dell’epoca e, come afferma

Hannerz, veniva assicurata la libertà non per l’anonimato ma per un’affermazione di

principio: le coppie non coniugate che vivevano insieme vi trovavano un porto di

salvezza, così come le minoranze sessuali. Inoltre le donne disponevano di una libertà

d’iniziativa in materia di vita culturale che non avevano nel resto della società

americana23.

Zorbaugh delimiterà le sue aree naturali in modo geografico per mezzo di strade

o ferrovie. Il suo contributo più interessante riguarda l’affermazione in base alla quale

non vi fosse area della città dove non si generasse una difficoltà nel mantenere o

ricostruire un senso di comunità. Questo riguardava tutti i gruppi fatta eccezione per i

siciliani che tuttavia si stavano spostando dal quartiere. Questo fatto stava creando un

senso di precarietà all’interno del gruppo, timoroso di perdere i contatti con la comunità.

L’autore parte dal presupposto che non è sufficiente pensare in termini di una comunità

idealizzata, ma che si deve accettare la natura umana, le tradizioni culturali di una

determinata area, e la configurazione fisica della comunità. In questo contesto la

comunità è concepibile come un gruppo che abbia condiviso una serie di esperienze e

23 J. Madge (1962), “Lo sviluppo dei metodi di ricerca empirica in sociologia”, Il Mulino, Bologna, pp. 137-145; U. Hannerz (1992), “Esplorare la città”, Il Mulino, Bologna, p. 132.

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che possegga una comune definizione della situazione: se però questo è possibile in un

villaggio, dove per le decisioni si utilizza il consenso, non è possibile nella metropoli

dove si tende ad utilizzare il metodo democratico.

Per Madge, questo concetto è un modo un po’ pretenzioso di descrivere il fatto

che le caratteristiche del terreno e le opere dell’uomo tendono a dividere la città in zone

relativamente isolate. La definizione è quindi geografica o economica, non culturale.

Questo fatto è stato trascurato da alcuni urbanisti i quali hanno diviso la loro città in

aree naturali o unità di quartiere divise le une dalle altre da ferrovie, canali, zone di

verde o altre barriere.

Un fatto importante è quello della separazione delle funzioni: già nel 1930 solo

una piccola parte della popolazione lavorava nella zona in cui abitava. Anche i

divertimenti tendono a commercializzarsi e a concentrarsi in zone particolari24.

3) La segregazione sociale come fenomeno fisico o politico Quando parliamo di segregazione dobbiamo tenere in considerazione come

questo fenomeno possa essere puramente fisico oppure derivante da scelte politiche e

quindi autoprovocato. Come spiega Wirth l’eterogeneità è un attributo essenziale delle

città, insieme alla densità e alla grandezza. Queste tre variabili costituiscono gli

elementi che configurano la forma della vita urbana. L’eterogeneità urbana ha molte

espressioni: la città si sviluppa, infatti, come un conglomerato di “razze” e di culture

distinte, ma è anche una accumulazione di gruppi differenti in termini di ricchezza, di

classi sociali e di integrazione e di esclusione sociale. Quando la disuguaglianza sociale

si combina con l’eterogeneità dello spazio urbano, si genera la segregazione. Il

fenomeno della segregazione è quasi consustanziale con il modo di vita urbano. Il

concetto di segregazione è dunque ricco di ambiguità. Mc Kenzie della scuola di

Chicago la qualifica come un processo ecologico, il che significa che è qualcosa di

spontaneo, e si tratta della tendenza che esiste sotto determinate circostanze alla

localizzazione concentrata di individui con attributi simili e la loro separazione.

L’integrazione non è l’opposto della segregazione in quanto ci sono gruppi segregati

24 J. Madge (1962), “Lo sviluppo dei metodi di ricerca empirica in sociologia”, Il Mulino, Bologna, pp. 155-159.

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ma anche ben integrati nella società urbana. Se la segregazione è soprattutto un concetto

spaziale, l’integrazione è un concetto sociale25.

La segregazione residenziale indica dunque il livello di disuguaglianza della

distribuzione della popolazione tra le differenti zone. Nel disegno e nella pianificazione

delle politiche urbane è interessante ottenere una visione quantitativa della segregazione

per prevedere e attuare contro questo fenomeno. Da questo punto di vista due sono le

visioni prevalenti nelle scienze sociali: la prima è relazionata ad un modello

monocentrico per cui le famiglie competono per ottenere una casa vicino al centro

urbano. La differenza di reddito di queste famiglie provoca una distribuzione diseguale

delle stesse. La seconda fa riferimento alla concentrazione di famiglie di reddito basso

in certi quartieri per l’esistenza di esternalità. Come conseguenza le famiglie

preferiscono fissare la propria residenza in zone che presentano una certa omogeneità

socioeconomica26. Ma perché questo fenomeno può essere negativo?

La segregazione può derivare da una scelta politica: in questo caso possiamo

affermare che sia un prodotto esogeno. Alcuni autori la definiscono, infatti, come una

forma istituzionalizzata di distanza sociale che si cristallizza con la separazione

territoriale dei gruppi sociali. Il fenomeno segregativo, come afferma Capel, è una

costante storica della città. Nell’antichità i gruppi marginali si situavano normalmente in

luoghi appartati: ghetti ebraici, quartieri di mussulmani o indigeni delle città coloniali.

Durante il proseguo della storia il ghetto si distinse come un processo derivante da

costrizioni economiche piuttosto che da una decisione amministrativa27. In USA questo

fenomeno, diverso e ben marcato rispetto ai quartieri etnici descritti da R.E. Park e dai

sociologi di Chicago, delinearono un modello residenziale dove, in maniera coatta, la

metropoli emergeva come luogo di segregazione in forme marcatamente omogenee28. Il

ghetto è stato descritto da Denton e Massey come “una serie di quartieri che sono abitati

esclusivamente da membri di un gruppo e dove virtualmente i membri di questo gruppo

vivono”29. Tuttavia, afferma Parker riferendosi a Ward, una definizione del genere può

essere insoddisfacente in quanto non in include una netta distinzione tra l’enclave etnica 25 J. Leal, “Segregaciòn Social y mercado de vivienda en las grandes ciudades”, http://fes-web.org/revista/archivos/res02/04.pdf 26 J. C. Martori, K. Hoberg, J. Suriach (2006), “Poblaciòn inmigrante y espacio urbano. Indicadores de segregaciòn y pautas de localizaciòn”, Revista EURE (Santiago) v.32 n. 97 Santiago dic. 2006, www.scielo.cl/scielo.php?pid=s0250-71612006000300004&script=sci_arttext 27 S. Parker (2006), “Teoria ed esperienza urbana”, Il Mulino, Bologna, p. 125 28Ibid, p. 123. 29 D.S. Massey, N.A. Denton, “American Apartheid”, Harvard University Press, Massachussets, p. 18

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e il ghetto. Per questo autore i veri ghetti “contengono tutti o quasi tutti i membri del

gruppo etnico presenti nel territorio nazionale (che siano definiti “cittadini” o meno),

mentre le enclave etniche e le altre comunità elettive lasciano agli abitanti la possibilità

di emigrare verso altri quartieri e permettono anche ad altre popolazioni etniche e “non

etniche” di insediarvisi. È, comunque, importante sottolineare come difficilmente la

sottoclasse urbana che vive nel ghetto possa effettuare altre scelte residenziali. Se la

povertà è un presupposto per abitare nei ghetti, “è stato sostenuto che le comunità

segregate costruite sull’esclusione razziale ed economica siano esse stesse una causa di

povertà, criminalità, bassi livelli di istruzione e cattive condizioni di salute”30. Oltre al

termine ghetto nelle scienze sociali è stato coniato il termine “iperghetto”. Questo

definisce un’area dove almeno il 40% delle persone vive sotto la soglia di povertà.

Negli USA l’isolamento spaziale degli afroamericani fu permesso da una congiunzione

di attitudini razziste, comportamenti privati e pratiche istituzionali che disaffrancarono i

neri dal mercato della casa urbano e portarono alla creazione del ghetto. La

discriminazione nell’impiego esacerbò la povertà dei neri e limitò il potenziale

dell’integrazione. La mobilità residenziale fu sistematicamente bloccata da una

pervasiva discriminazione da parte dei bianchi che non permettevano la presenza dei

neri all’interno dei quartieri. Anche se ci furono varie leggi per limitare la

discriminazione contro gli afroamericani, la segregazione persistette nel tempo31.

Questo fenomeno ha e ha avuto una correlazione con la nozione di “razza” ed

“etnia”. Molti autori parlano di questi due concetti come di costruzioni sociali. Il primo

termine fa riferimento a tratti fisici differenziali e, soprattutto, alla percezione che la

società da degli stessi. Questi tratti, considerati come ereditari, si relazionano ad

attributi morali e intellettuali che non possono essere classificati solo dal punto di vista

fisico. Il concetto di etnia si basa principalmente sulle differenze culturali. Nel gruppo

etnico le persone si percepiscono e vengono percepite dall’esterno come individui che

condividono tratti culturali comuni come la lingua, la religione, la famiglia, i costumi

familiari e le preferenze alimentari. Tuttavia queste percezioni sfumano nel tempo. Oggi

è abbastanza facile pensare ai Tedeschi come simili a noi perché considerati

30 Ibid. p. 125 31 D.S. Massey, N.A. Denton, “American Apartheid”, Harvard University Press, Massachussets, p. 83

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generalmente Europei piuttosto che persone appartenenti a un universo culturale

differente32.

In situazioni economicamente espansive la popolazione migrante può entrare

nelle città senza gravi tensioni, anche se in peggiori condizioni rispetto al resto della

popolazione mentre nelle situazioni di crisi i conflitti si acutizzano. Questo non succede

solo ed esclusivamente nel mercato della casa ossia dal punto di vista prettamente fisico

della concorrenza nello spazio. Succede anche nel mercato del lavoro e in tutti gli

aspetti della vita sociale. Negli stati come quello italiano dove fino a poco tempo fa era

significativo il ruolo del Welfare State la profonda crisi portata dalla globalizzazione fa

acutizzare le tensioni. Castells nella sua opera “La città globale” ci dice come “la

concentrazione spaziale delle minoranze etniche svantaggiate porta alla creazione di

veri e propri buchi neri nella struttura sociale urbana, in cui la povertà, il degrado degli

alloggi e dei servizi urbani, i bassi livelli di impiego, la mancanza di opportunità

professionali e la criminalità si rafforzano reciprocamente”. Questo autore afferma

anche come la segregazione spaziale sia il fattore più significativo tra tutte le variabili

che possono dare conto del tasso di omicidi33. Nella dinamica globale si affermano dei

processi di esclusione sociale che si esplicitano in una dualità della forma dello spazio:

in spazi differenti all’interno dello stesso sistema metropolitano si trovano le funzioni

più elevate e quelle più degradate, i gruppi sociali che producono informazione e

ricchezza e quelli esclusi ed emarginati. Nelle grandi città nascono quartieri o zone con

un’alta concentrazione di capitale finanziario come nuova forma di concentrazione del

potere dei grandi gruppi multinazionali. Queste zone sono caratterizzate da un alto

livello infrastrutturale per poter governare i processi della nuova economia

transazionale. Ne sono esempio in Europa il quartiere della castellana di Madrid

(Sassen – 1997). Questi quartieri nascono con l’intento di cambiare un’economia che va

trasformandosi. Se una volta le grandi concentrazioni urbane si stabilivano in prossimità

di zone industriali oggi, con la crisi del modello di sviluppo economico fordista, si

trasformano in attrattori di capitale finanziario. In questo processo, cominciato

dall’inizio degli anni ’80, un elemento significativo in termini di polarizzazione sociale

fu l’esclusine dalla forza lavoro di una percentuale crescente di giovani provenienti dai

32 H. Capel, “Los inmigrantes en la ciudad. Crecimiento economico, innovaciòn y conflicto social, www.ub.es/geocrit/sn-3.htm 33 M. Castells (2002), “La città globale”, De Agostini, Novara, p. 89.

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settori più poveri. Negli Usa questi gruppi erano composti prevalentemente da ispanici e

afroamericani che, insieme alla grande massa di clandestini, andarono a ingrossare i

ranghi dell’economia informale e dell’economia criminale. Siamo dunque in presenza a

una trasformazione della città: il nuovo modello di consumo dell’ampio strato

professionale al vertice della struttura sociale viene ora affiancato ad una forza lavoro

informale dove la casa elettromeccanica del sobborgo viene soppiantata da un consumo

urbano intensivo di lavoro da parte delle elite (servizi domestici, babysitter, ristoranti e

bar, sicurezza, servizi personali). “In questo modo alcuni elementi esclusi dalla società

vengono occasionalmente reintegrati, pur restando in ogni caso in circuiti di lavoro

temporaneo con scarse prospettive di mobilità sociale34”

Ciò detto, sussistono differenze sostanziali tra le varie parti del mondo. Ad

esempio dobbiamo sottolineare come le città europee stanno perlopiù seguendo la strada

della segregazione urbana delle minoranze etniche che caratterizza le metropoli del

Nord America, benché la forma spaziale della segregazione urbana nel vecchio

continente appaia quantomeno differenziata. Rispetto agli USA l’Inghilterra ha svolto

nel secondo dopoguerra una politica che mirava all’offerta di edilizia pubblica rivolta

alle classi meno agiate. “Laddove il Welfare e le politiche di edilizia pubblica hanno

puntato a ridurre la polarizzazione sociale, specialmente in Svezia e Olanda, si riscontra

una mescolanza tra le classi e tra i gruppi etnici che dimostra il ruolo determinante della

politica nazionale e locale nel combattere lo sviluppo di quartieri abitati esclusivamente

da una sola etnia”35. In Inghilterra, il fenomeno della consistente presenza di minoranze

etniche è recente: le aree di primo insediamento erano quelle dove il mercato dell’affitto

era più basso rispetto ad altre zone. Inevitabilmente, vista la dipendenza dal mercato e la

crescente discriminazione, si verificava una fluttuazione dei prezzi per cui i nuovi

arrivati pagavano un affitto superiore rispetto alle persone autoctone. In ogni caso in

Inghilterra non esistono e non esistevano i ghetti e gli iperghetti. Questo perché i nuovi

arrivati tendevano a sistemarsi in maniera disomogenea nelle grandi case di città un

tempo occupate dalla bassa classe media. Ovviamente le situazioni di vivibilità degli

alloggi e, dunque, le condizioni igieniche raggiungevano difficilmente un livello

accettabile. Non è infrequente trovare a Londra tre o quattro famiglie di immigrati che

vivono nella stessa casa con addirittura un solo bagno in comune. Queste aree vengono

34 Ibid. p. 46 35 S. Parker (2006), “Teoria ed esperienza urbana”, Il Mulino, Bologna, p. 130

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definite come “zone di transizione” che si caratterizzano per situarsi in aree in via di

degrado e che, conseguentemente, abbassano ulteriormente i prezzi delle restanti

proprietà.

Mentre le banlieue francesi formano dei ghetti metropolitani periferici, nel resto

dell’Europa, come del resto nel Regno Unito, le minoranze vengono concentrate nei

centri cittadini o in luoghi ad essi contigui, attuando un modello spaziale simile a quello

nord-americano. In questo caso se le condizioni di vita di queste minoranze non

migliorassero si potrebbe potenziare il contributo al declino dei centri urbani.

L’importanza delle bande e l’espansione delle attività criminali è meno marcata in

Europa rispetto al Nord America tuttavia, pur tenendo conto delle differenze culturali e

istituzionali, se le tendenze verso l’esclusione sociale continueranno ad accentuarsi,

sembra ragionevole prevedere l’emergere di situazioni simili36.

La differenza vera tra USA e Europa (in generale) è nella politica dello stato

americano, che risponde alle priorità di spesa della maggioranza “bianca”, per lo più

benestante e non metropolitana37.  

Nel caso del nostro studio non possiamo parlare di circostanze che possano

affiancare il concetto segregazione con quello di episodi di macrocriminalià.

Anzitutto dobbiamo analizzare se esista un fenomeno segregativo o semplicemente

esistano delle aree di concentrazione. In ogni caso, se l’una o l’altra ipotesi venisse

confermata, dobbiamo chiederci se in quelle zone sussistano episodi di

microcriminalità. Ancona, essendo una città di appena 100.000 abitanti, non può

contenere tutte quelle dinamiche che sono oggetto di studio delle grandi metropoli

del mondo. Ciò detto quello che possiamo analizzare sono delle tendenze. In ogni

caso affronteremo i differenti comportamenti residenziali tra gruppi piuttosto che

tra classi anche se queste due categorie potrebbero coincidere. Nell’analizzare i

comportamenti delle maggiori comunità saranno esaminati i fenomeni di classe in

maniera semplicemente descrittiva rispetto alla tipologia del lavoro e non al

reddito.

Nelle scienze sociali il procedimento per misurare la distribuzione diseguale è

stata studiata da geografi, urbanisti, sociologi e economisti. L’interesse per le

conseguenze del processo migratorio nelle città non è nuovo come dimostrano gli studi

36 M. Castells (2002), “La città globale”, De Agostini, Novara. pp. 90-91. 37 S. Parker (2006), “Teoria ed esperienza urbana”, Il Mulino, Bologna, p.132

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della scuola di Chicago negli anni ’20 del secolo scorso. A partire dagli anni ’40

vennero costruiti alcuni indici che permisero di quantificare questo fenomeno. Gli

“indici di uguaglianza” misurano l’uguaglianza della distribuzione di uno o più gruppi

nelle zone o unità spaziali nelle quali possiamo dividere uno spazio urbano (per esempio

una circoscrizione o una unità di censo catastale in Italia). Un gruppo di popolazione

presenta segregazione se è ripartito in forma disuguale tra le zone o unità spaziali di una

città. Per esempio se un gruppo rappresenta il 20% del totale della popolazione del

municipio, in ogni sezione catastale o in ogni circoscrizione, nel caso della non-

segregazione, l’indice dovrà misurare il 20%. Quanto più lontano si troverà il gruppo in

questione, maggiore sarà la segregazione dello stesso.

Fonte: Revista EURE (Santiago) v.32 n. 97 Santiago dic. 2006

Nel calcolo della segregazione un altro indice importante può essere quello di

centralità. Questo misura la prossimità di un gruppo di popolazione al centro urbano. La

localizzazione centrale dei gruppi minoritari è stata associata tradizionalmente a alti

livelli di segregazione, dovuto in parte alla situazione della minoranza afro – americana

nelle città degli USA38.

Per calcolare la segregazione possono essere utilizzati anche altri indici come ad

esempio quello di concentrazione. Tuttavia, per le caratteristiche della città oggetto del

nostro studio, Ancona, non li riteniamo idonei alla comprensione del fenomeno spaziale

degli immigrati nello spazio urbano. La concentrazione fa riferimento all’occupazione,

da parte di un gruppo di popolazione, di uno spazio fisico in termine di superficie. La

città di Ancona, dal terremoto che l’ha colpita nel 1972, non può avere edifici più alti di

quattro piani. Questo significa che nella città risulta impossibile trovare alti palazzi con

38 J. C. Martori, K. Hoberg, J. Suriach (2006), “Poblaciòn inmigrante y espacio urbano. Indicadores de segregaciòn y pautas de localizaciòn”, Revista EURE (Santiago) v.32 n. 97 Santiago dic. 2006, www.scielo.cl/scielo.php?pid=s0250-71612006000300004&script=sci_arttext

Indice di segregazione (IS): Questo indice misura la distribuzione di un determinato gruppo di popolazione nello spazio urbano. Con questo indice si calcola la differenza tra la proporzione di individui del gruppo minoritario (X) e la proporzione del resto della popolazione in ogni unità spaziale. Varia tra zero e uno, valori che corrispondono rispettivamente a una distribuzione esattamente uguale e una distribuzione di massima segregazione. Questo indice non incorpora le informazioni sulla configurazione delle unità nello spazio.

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una grande concentrazione di persone. Nel caso di alcune comunità è facile incontrare

situazioni per cui le case vengano abitate da un numero enorme di persone. Nella

percezione comune si può pensare a case dove vivano più di 10 persone. Tuttavia,

questo fenomeno è difficilmente riscontrabile se non con un’analisi approfondita delle

case che il nostro studio non prevede.

4) Mobilità e mobilitazione sociale Legato profondamente al concetto di aree naturali bisogna tenere in

considerazione il fenomeno della mobilità dell’individuo. I ghetti o quartieri non sono

qualcosa di immutabile: i trasporti e le comunicazioni “hanno moltiplicato per

l’individuo le possibilità di contatto e di associazione con i suoi simili, ma hanno reso

questi contatti e queste associazioni più transitori e meno stabili”39. Per Burgess esiste

una correlazione significativa tra il concetto di mobilità e di individualizzazione. Per gli

immigrati di seconda generazione, ad esempio, l’esporsi ad altri tipi culturali in luoghi

esterni al proprio ambiente sociale come la scuola può portare ad una ridefinizione

contraddittoria della situazione. Questo, secondo Burgess può portare alla dissoluzione

della solidarietà sociale40.

Strettamente connesso con la mobilità all’interno delle scienze sociali si è

elaborato il concetto di mobilitazione sociale. Questo concetto non riguarda la distanza

fisica ma quella morale: la separazione tra mondi contigui crea distanze morali che

trasformano la città in un mosaico di piccoli mondi che si toccano, ma non si

compenetrano. Gli individui, dunque, possono passare facilmente da un mondo morale

ad un altro. Per mobilità sociale si intende il passaggio di un insieme di individui e di

gruppi sociali dai gradini più bassi della stratificazione sociale a quelli più alti e

viceversa. Questa definizione, prodotta da Sorokin, fa da corollario al pensiero di altri

padri della sociologia moderna come ad esempio Marx. Questo autore tratta le fasi di

sviluppo dei sistemi sociali e dei modi di produzione (feudale, capitalista, socialista)

utilizzando la classe come unità di analisi: in questa prospettiva i movimenti ascendenti

o discendenti passano in secondo piano a favore di una prevalente attenzione per gli

aspetti relazionali tra categorie economico-sociali appartenenti a diversi settori e dotate

39 R. Park, E. Burgess, R. Mckenzie (1997), “La Città”, Edizioni di Comunità, Torino, p.38 40 J. Madge (1962), “Lo sviluppo dei metodi di ricerca empirica in sociologia”, Il Mulino, Bologna, p.159

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di un differente peso specifico entro la struttura produttiva di un paese. Nella prospettiva

neomarxiana si sceglie di dare maggiore enfasi alla mobilità delle classi e tra le classi

rispetto alla mobilità degli individui tra strati contigui. Nelle società industriali –

moderne l’ascesa o la discesa sociale è strettamente legata alla posizione professionale:

il possesso di elevate conoscenze tecnico-scientifiche, la produzione di beni o servizi

sono solo alcuni aspetti che possono determinare la mobilità degli individui.

L’appartenenza ad organizzazioni, come partiti, sindacati, apparati burocratici ecc…,

influisce nell’ascesa sociale . Infatti, molto spesso, le carriere sono determinate

maggiormente dall’anzianità (circolazione verticale). Nello studio della mobilità è

importante prendere a riferimento il concetto di posizione sociale che si definisce in

base al reddito, all’occupazione, al prestigio e al potere. Sulla base di quanto abbiamo

appena detto la posizione sociale può assumere un punto di vista unidimensionale o

multidimensionale. Una delle cause maggiori di mobilità nelle società industriali

moderne, anche se non la principale, è l’istruzione. Connesso non solo al titolo di studio

conseguito durante la vita, l’istruzione può essere considerata anche un concetto

esprimibile nel modello culturale interno alla famiglia. Questo fenomeno è iscrivibile in

particolar modo alle classi medie dove difficilmente i figli otterranno nel corso della

loro vita un livello d’istruzione inferiore a quello dei genitori e quindi raramente

scenderanno nella scala sociale. Tuttavia con l’incremento del grado generale

d’istruzione non si è verificato corrispondentemente una maggiore crescita delle

opportunità. Si verificano dunque dei casi significativi di disoccupazione intellettuale41.

Considerando le tipologie di lavoro degli immigrati sappiamo che riguardo

all’introduzione dei lavoratori stranieri questa avviene, inizialmente, in occupazioni

ritenute scarsamente interessanti e mal retribuite. Solo dopo aver acquisito le

competenze necessarie e solo dopo un lungo periodo di soggiorno gli immigrati possono

progredire verso mansioni considerate più interessanti e con una migliore retribuzione42.

Tenendo in considerazione che l’immigrazione e la sua collocazione nello spazio

urbano, ossia l’oggetto del nostro saggio, è un fenomeno del tutto nuovo nel nostro

paese, lo studio della mobilità sociale e fisica potrà essere studiato in maniera efficiente

41 V. Cesareo (1998), “Sociologia: concetti e tematiche”, Vita e Pensiero, Milano, pp. 175-189. 42 G. Sospiro (2003), “Prossima fermata: Monte Conero. L’integrazione socioeconomica segmentata degli immigrati nelle Marche”, L’Harmattan Italia, Torino, p.19

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tra qualche anno quando cioè il fenomeno si sarà stabilizzato e se ne potranno notare le

evoluzioni e caratteristiche.

5) Integrazione e assimilazione A corollario del tema si può aggiungere come nel contesto delle scienze sociali

emersero due concetti fondamentali per comprendere il ruolo e il modus vivendi

dell’immigrato arrivato in un’altra società: quello di assimilazione e quello di

integrazione. “L’assimilazione è generalmente intesa come il processo attraverso il

quale lo straniero interiorizza i modelli di comportamento e gli orientamenti valoriali

della società ospite, laddove l’integrazione concerne precipuamente la sfera socio-

economica e implica l’adozione di modelli di comportamento e il raggiungimento di

condizioni di vita che riducono i rischi di segregazione e di conflitto senza però

addivenire a una completa conformità culturale”43.

L’assimilazionismo fa riferimento al modello francese di gestione della diversità

etnica e culturale. In questo schema si eliminano le differenze culturali e religiose in

quanto si presume che tutti gli individui abbiano gli stessi diritti e gli stessi doveri,

indipendentemente dall’origine etnica e dalla confessione: in questo senso i

particolarismi e le identità specifiche riguardano esclusivamente la vita privata dei

cittadini. Da corollario a questo schema c’è la nazione, unica e indivisibile, cui ciascun

cittadino è tenuto a difendere sulla base di un contratto sociale che sta alla base della

vita dello Stato44. In questi tipi di società gli immigrati e le potenziali minoranze si

integrano nella società in virtù di un processo unilaterale di adattamento culturale: la

scuola e l’esercito rappresentano da questo punto di vista le istituzioni fondamentali ai

fini dell’assimilazione. Il modello postula infine un facile accesso alla cittadinanza: le

società assimilazioniste attuano la politica dello ius soli che attribuisce automaticamente

la nazionalità a chiunque sia nato all’interno dei confini nazionali. In questo caso le

procedure per ottenere la cittadinanza sono molto semplici45.

Il modello anglosassone, denominato pluralista, pone uno schema dove si

sviluppa una competizione se non un conflitto tra le varie comunità etniche per il

controllo dello Stato. La diversità culturale invade lo spazio pubblico e i diritti

43 V. Cesareo (1998), “Sociologia: concetti e tematiche”, Vita e Pensiero, Milano, p. 150. 44 M.Martiniello (1997), “Le società multietniche”, Il Mulino, Bologna, p. 49 45 Ibid, p.51-52

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dell’individuo sono conferiti in funzione alla sua appartenenza ad una comunità46. Le

diversità culturali sono, dunque, pubblicamente riconosciute o, in certi casi,

semplicemente tollerate. Nel processo di integrazione vengono definiti a priori i gruppi

di appartenenza: nei censimenti che si svolgono ogni dieci anni si chiede di scrivere a

quale etnia o razza si fa parte. Questo serve poi per attuare politiche antidiscriminatorie

soprattutto nel caso britannico. Negli USA si cerca di tenere viva la cultura del paese

d’origine tramite corsi di lingua, di cucina, di danza ecc.. Tuttavia non vengono erogati

contributi finanziari47.

Le problematicità e le insidie di questo modello vengono descritte già dall’inizio

del secolo scorso dalla brillante interpretazione di Thomas. Per questo autore il concetto

fondamentale è quello di “americanizzazione”. Secondo Thomas differenti razze e

nazionalità attribuiscono lo stesso valore a cose diverse e diversi valori alla stessa cosa.

Questo è l’elemento principale del problema dell’americanizzazione, cioè del tentativo

di armonizzare la vita degli immigrati con quella degli autoctoni. Ogni gruppo umano

accumula nel corso della sua esperienza una certa riserva di valori peculiari e un

insieme di atteggiamenti rispetto a tali valori. Il patrimonio culturale viene, dunque,

definito come l’insieme di atteggiamenti e di valori che un gruppo immigrato porta con

sé in tutti i suoi modi di sentire e le sue consuetudini. Il ruolo che un dato atteggiamento

può esercitare in America all’interno di un gruppo di immigrati non è mai uguale a

quello che eserciterebbe in patria. I primi cambiamenti che si verificano nell’immigrato

sono per lo più superficiali e riguardano il modo di vestire, le consuetudini e gli altri

indizi che ne tradiscono l’appartenenza al gruppo dei “novellini”. Ma ben presto, più in

fretta di quanto possiamo percepire, sopraggiungono cambiamenti più profondi. Di

solito i genitori si lagnano dei rapidi mutamenti verificatisi nei figli. Questi

cambiamenti possono essere parziali e lenti perché l’immigrato continua a vivere in

mezzo alla propria gente e ha pochissimi contatti con gli autoctoni.

Per quanto riguarda il nostro atteggiamento verso l’alterità, qualunque usanza

inconsueta non inscritta nel nostro codice culturale è sconvolgente. Thomas a questo

proposito pone in questione la barba degli ebrei. Uno dei problemi è che qualsiasi cosa

sia altèra rispetto alle nostre abitudini, rischia di approdare nella nostra disapprovazione

morale. I primi contatti tra americani e immigrati producono dunque un certo grado di

46 Ibid, p. 49 47 Ibid, p. 53

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antagonismo, dovuto all’elemento della stranezza e al differente coefficiente di

ricchezza morale attribuito a dei valori dati, rispettivamente dagli americani e dagli

immigrati. L’antagonismo prodotto dalla pura e semplice stranezza si colloca

ovviamente nella sfera del pregiudizio e non ha importanza morale maggiore del

disappunto provocato da una certa foggia di abito o da un codice di galateo diverso

dall’unico a cui gli autoctoni sono abituati48.

Dai due modelli principali ne derivano altri come il modello Belga dove sono

riconosciute alcune comunità e regioni corrispondenti agli originari gruppi nazionali: i

fiamminghi, i valloni e la minoranza di lingua tedesca. In questo caso le minoranze

formatesi con l’immigrazione non sono riconosciute. In Germania, invece, il livello di

inclusione delle minoranze è strettamente controllato dallo stato. Lo stato in questo caso

riconosceva le minoranze interne pensando non ad una società multiculturale ma

applicando politiche volte a facilitare il ritorno degli immigrati nei paesi d’origine in

quanto si pensava ad una temporanea permanenza nel paese. In questo caso la

cittadinanza era strettamente connessa al principio dello ius sanguinis per cui la

nazionalizzazione è strettamente connessa ad un potere discrezionale dello Stato.

Il medesimo principio è in vigore nel nostro Stato nel quale sussiste un modello

di recupero della cittadinanza che si applica ai nipoti e pronipoti degli antichi emigranti,

quando questi riescono a dimostrare un legame di parentela con un ascendente italiano.

Il passato governo rafforzò questo principio costituendo addirittura un ministero per gli

italiani all’estero, mentre inasprì le condizioni per l’insediamento stabile degli

immigrati. Secondo Ambrosini “il fattore chiave per determinare la riuscita

dell’integrazione di gruppi di immigrati non consisterebbe quindi nelle differenze di

cultura che intercorrono fra il paese di origine e quello di destinazione, bensì nelle

politiche di accoglienza poste in atto da quest’ultimo. L’integrazione o l’esclusione

degli immigrati dipende, anziché da differenze culturali o livelli di istruzione, dalle

politiche pubbliche in fatto di insediamento e cittadinanza”49.

In realtà il modello realmente applicato non è mai così marcato e questo riguarda

ogni singolo Stato. Si possono incontrare schemi di inclusione che tendono talvolta a

modelli assimilazionisti, pluralisti o misti. Martiniello parla a questo proposito di

sfasamenti tra il modello teorico, affermato dai paesi, e la realtà che muta nel tempo. La

48 W.I. Thomas (1997), “Gli immigrati e l’America”, Donzelli Editore, Roma, pp. 8-18. 49 M. Ambrosini, E. Abbatecola (2005), “Immigrati e Metropoli”, Franco Angeli Editore, Milano, p. 63

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Francia ad esempio riconosce l’identità religiosa di una regione specifica come

l’Alsazia ma anche il concistoro degli Ebrei. In questo caso lo Stato transalpino attua un

modello assimilazionista che però rimane uno schema astratto se analizzato

integralmente. “Indipendentemente dal modello di integrazione che difendono e dalle

politiche alle quali approdano, le diverse società europee devono affrontare, a livelli

diversi, problemi simili che rappresentano altrettante sfide da raccogliere. Dovunque si

creano disuguaglianze sociali e politiche a danno dei ceti popolari, tra i quali sono

ampiamente rappresentati gli immigrati e i loro figli. Dovunque sopravvivono forme di

razzismo e di discriminazione di fatto. Dovunque s’istituisce una certa segregazione

residenziale. Nella maggior parte delle città europee si registra anche la tendenza a

costituire sacche di comunitarismo etnico e religioso e a praticare la ghettizzazione

culturale, compensata dalla vocazione al cosmopolitismo di una fascia, soprattutto

giovanile, che rivendica un’identità aperta e molteplice”50.

Nel nostro paese i processi di accoglienza e integrazione dei migranti è frutto del

lavoro di numerosi attori tra cui principalmente i sindacati ma anche la Chiesa cattolica

e gruppi / associazioni di volontariato. Per quanto concerne la prima accoglienza e

l’emergenza queste associazioni si rivolgono in maniera indifferenziata agli immigrati

siano essi regolari o irregolari. Per certi versi, continua Ambrosini, si può pensare che le

istituzioni pubbliche si affidino a queste associazioni per gestire le componenti più

imbarazzanti dei processi migratori, come appunto quella dell’immigrazione

irregolare51.

Dal punto di vista dei migranti, ossia della migrazione come immigrazione

hanno avuto un sempre maggiore peso i cosiddetti Network sia come fattore di arrivo

che di integrazione. La Network analysis viene definita come quella serie di ricerche

che evidenziano “uno specifico complesso di legami tra un insieme ben definito di

persone […] con la proprietà che le caratteristiche di questi legami come un tutto

possono essere usate per interpretare il comportamento sociale delle persone

coinvolte”52. Le cosiddette “reti parziali” sono sempre reti ego-centrate raccolte attorno

a particolari tipi di relazioni sociali. Molte di tali reti sono di tipo multistrato o multiple:

esse includono un certo numero di relazioni significativamente distinte, nelle quali le

50 M.Martiniello (1997), “Le società multietniche”, Il Mulino, Bologna, pp. 56-60 51 Ambrosini, E. Abbatecola (2005), “Immigrati e Metropoli”, Franco Angeli Editore, Milano, p. 66 52 G. Pollini, G. Scidà (2002), “Sociologia delle migrazioni e della società multietnica”, Franco Angeli, Milano, p.126

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parentele, le amicizie, e le relazioni coi i vicini di casa sono combinate dentro un’unica

relazione a più strati che non appare proficuo spezzettare nei suoi elementi costitutivi53.

Si vanno così a creare gruppi che assomigliano appunto a reti dove le relazioni formali e

informali sono importanti. Ambrosini ci dice come i gruppi più forti tendono ad

allargare le proprie capacità di insediamento. Questo può dare dei vantaggi ai nuovi

entrati sia per quanto riguarda il mondo del lavoro che per ogni altro tipo di ambito sia

questa l’assistenza o la ricerca di una abitazione. I fattori che determinano la capacità

d’incidenza possono essere così riassunti:

1. “Il primo fattore concerne la numerosità: gruppi troppo piccoli o, viceversa, troppo

numerosi sembrano incontrare maggiori difficoltà nel formare reti etniche

funzionanti. I primi rischiano di trovarsi dispersi e di dover affrontare in modo

sostanzialmente individuale le sfide della ricerca del lavoro e dell’’integrazione; i

secondi di non riuscire a conoscere e a filtrare i connazionali immigrati e di dover

far fronte ad una moltiplicazione di domande di aiuto; in tal caso, le minoranze

meglio inserite, all’interno dei diversi gruppi etnico - nazionali, possono prendere le

distanze e attuare forme di secessione dalla turba dei più poveri.

2. I gruppi arrivati prima tendono ad occupare gli spazi disponibili nel mercato del

lavoro e ad attivare catene di richiamo a vantaggio dei connazionali, attuando

strategie di chiusura nei confronti di altri gruppi di immigrati.

3. Un terzo fattore discriminante può essere riferito alla distanza geografica.

Generalmente chi arriva da più lontano è più selezionato alla partenza, dispone di

maggiori risorse in termini di capitale umano e sociale, sa di dover investire in

progetti migratori più a lungo termine, acquista consapevolezza dell’importanza

della coesione di gruppo per trovare appoggio e reggere i costi psicologici dello

sradicamento e del trapianto in un nuovo contesto sociale. Chi parte da più vicino

affronta costi minori, può arrivare più facilmente anche senza l’appoggio di solide

teste di ponte, può coltivare progetti migratori meno definiti attuando forme di

pendolarismo con la madrepatria. È inoltre più elevata la probabilità che arrivino

anche immigrati irregolari, giacché anche sul “mercato nero” degli ingressi, i costi

del viaggio tendono ad essere inferiori e i canali di passaggio più conosciuti e

53 Ibid. p. 127

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relativamente strutturati. Questo non vale sempre: in realtà a livello locale le

situazioni sono alquanto eterogenee”54.

Lo studio dei Network ci servirà per comprendere se e come questi possono influire

nella città di Ancona a definire un modello di comportamento insediativo.

6) Metodologia e Fonti Sul piano analitico la ricerca si può distinguere mediante due tipi di

orientamenti: teorico ed empirico. “La ricerca teorica produce i propri assetti muovendo

ora da un’analisi della ricerca empirica, ora da uno sviluppo autonomo di ipotesi e di

modelli […] La ricerca empirica produce i propri asseti e, soprattutto, ne fonda la

plausibilità facendo esperienza del proprio oggetto” 55. Nell’ambito dell’elaborato si è

deciso di utilizzare modelli teorici già esistenti e in particolare quelli definiti nell’ambito

della Scuola Sociologica di Chicago. Il disegno della nostra ricerca parte da una

domanda: “Viste le tendenze nel nostro continente e nel mondo intero alla creazione di

zone di concentrazione di immigrati, quali sono le tendenze nella città di Ancona?”

L’ipotesi fondamentale sul comportamento insediativo degli immigrati riguarda

le zone il cui costo delle abitazioni è più economico.

La ricerca è, dunque, stata realizzata mediante l’utilizzo di due tipi di tecniche:

qualitativa e quantitativa. Se il primo capitolo, come abbiamo appena visto, raccoglie

alcune delle esperienze teoriche sviluppate nell’ambito della Teoria Urbana durante il

XX° secolo, i due capitoli successivi descrivono la realtà mediante l’utilizzo e

l’elaborazione di dati secondari.

Il secondo capitolo, sottolinea i tratti socio – demografici della popolazione

anconetana e degli immigrati. Nel primo caso la fonte principale risulta dai dati censuari

del 2001 e nel secondo caso dai dati dell’Ufficio Anagrafe Comunale. Relativamente

alla prima fonte il limite preminente è riferibile alla fase temporale in cui sono stati

raccolti i dati. Infatti, plausibilmente, alcune caratteristiche avranno subito delle

trasformazioni. Tuttavia, il censimento rimane uno strumento chiave per comprendere le

tendenze. La seconda fonte, i dati dell’Ufficio Anagrafe Comunale, hanno il pregio di

fornire una “fotografia” attuale. Tuttavia, specie nel caso degli immigrati, i dati soffrono

un limite sostanziale: il fatto che in molti casi non sia denunciato il cambio di residenza 54 Ambrosini, E. Abbatecola (2005), “Immigrati e Metropoli”, Franco Angeli Editore, Milano, pp. 56-57 55 M. Cardano (2003), “Tecniche di ricerca qualitativa”, Carocci Editore, Roma, p. 17

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Categoria "Altro"CasalinghePensionati

Ritirati dal lavoroStudenti

Categoria ImprenditoriAmministratore delegatoColtivatore Proprietario

Dirigente d'aziendaImprenditore costruttore edile

Imprenditore costruttore meccanicoImprenditore costruttore navale

Imprenditore nei servizi per le impreseImprenidotre nei trasporti e comunicazioni

Imprenditore nel commercioImprenditore nell'industria

Manager

Categoria Lav. DipendentiAddetti all'agricoltura

AutistaCollaboratori DomesticiCommercio al Minuto

Commercio all'IngrossoImpiegati

Imprese di puliziaInsegnantiMarittimi

Operai / Tecnici IndustriaOperai / Tecnici Servizi

Operai/ Tecnici EdiliPesca

RistorazioneSanità

da parte di coloro che decidono di trasferirsi in un’altra città. Il secondo limite, che

tuttavia risulta di difficile risoluzione, si riferisce all’esclusione dalle statistiche dei

clandestini e dei soggiornanti coloro che cioè, arrivati da poco, non risultano iscritti

all’anagrafe comunale56. La fonte in questione è stata utile anche per delineare le

tendenze occupazionali e i titoli scolastici delle varie comunità. Per quanto concerne il

primo aspetto i dati dell’anagrafe sono stati aggregati in 5 categorie: Lavoro

Dipendente, Autonomo, Imprenditori, Professionisti e Altro. All’interno delle suddette

categorie sono state create delle aggregazioni per facilitarne la lettura. Le seguenti

tabelle mostrano la ripartizione utilizzata: Tabella 2 – Classificazioni Tabella 3 – Classificazioni delle occupazioni: delle occupazioni: Lavoro dipendente Imprenditori

                    

Tabella 4 – Classificazioni delle occupazioni: Tabella 5 – Classificazioni delle occupazioni: Lavoratori Autonomi Lavoratori Professionisti Categoria Lavoratori Autonomi

Agente di CommercioCommerciante

Commerciante AmbulanteFornaio

PanettierePizzicagnolo

Rappresentante di commercioVenditore ambulante

Mediatore              

Classificazione ProfessionistiAgricoltura

SportArte e Spettacolo

Commercialisti e consulenti aziendali ed economisti

Professioni SanitarieScienze IngegneristicheInterpreti e Traduttori

Altro

Da qualche anno non risulta più obbligatoria la dichiarazione della professione

all’ufficio anagrafe. Infatti, in alcuni casi, i dati a disposizione non superavano la metà

degli appartenenti alle varie comunità. Si è, comunque, deciso l’utilizzo dei sopracitati 56 Caritas Migrantes (2007), “Immigrazione. Dossier Statistico 2007”.

Tabella 1 – Classificazione

delle occupazioni - Categoria Altro

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dati in maniera campionaria così da individuare le tendenze per ogni collettivo. Lo

stesso problema è emerso nella descrizione dei titoli di studio. Le altre fonti impiegate

nel secondo capitolo sono il sito dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), alcuni

report pubblicati dall’Ufficio Urbanistica del Comune di Ancona e il dossier statistico di

Caritas Migrantes. Per quanto concerne i dati dell’ISTAT è importante denunciarne

l’incompletezza e la scarsa accessibilità. L’incompletezza riguarda l’aggregazione e la

quantità di dati disponibili. Nel sistema spagnolo (www.ine.es), si possono creare delle

disaggregazioni che analizzano la singola unità censuaria e le macrozone di provenienza

degli immigrati. L’aspetto più interessante, in questo caso, è relativo alla quantità di dati

che si possono “incrociare”: condizione delle abitazioni, livello occupazionale, titolo di

studio ecc. In Italia, inoltre, l’accesso alla maggior parte delle informazioni è

subordinato al pagamento del servizio. Ricordo, a questo proposito, come il professor

Filippucci, nell’ambito dell’esame di Statistica Economica, ci rammentasse come il

livello di democrazia di un paese stia, appunto, nella possibilità di avere delle statistiche

disponibili perché correlate alla trasparenza del sistema. L’augurio, quindi, è che nel

nostro paese si possa giungere presto ad un sistema più trasparente sia per i ricercatori e

gli “addetti del mestiere” che per l’ “uomo della strada”.

   Il terzo capitolo ha come obiettivo quello di analizzare lo spazio urbano in una

triplice classificazione. Il paragrafo, dedicato alla storia urbanistica della città, ha come

filo conduttore i concetti di Piano Regolatore e di outcome. In questo caso, date le

esigue fonti disponibili, si è utilizzato il libro di Pavia “Le città nella storia d’Italia:

Ancona” e il puntuale studio di C. Centanni sui Piani Regolatori dal dopoguerra in poi.

Il suddetto lavoro è stato realizzato nell’ambito della tesi dottorale dell’autore.

L’importanza di questo paragrafo non riguarda la sola descrizione delle tendenze attuali

ma anche l’analisi morfologica del territorio che esprime caratteristiche specifiche.

Nella costruzione del secondo paragrafo, riguardante la relazione tra mercato

della casa e popolazione si è utilizzato il sito internet dell’agenzia del territorio. Nel

suddetto sito, si possono incontrare i valori assoluti dei prezzi minimi, massimi e medi

delle abitazioni in compravendita e in locazione. Confrontando i dati con i valori forniti

dalle riviste specializzate si scopre come in realtà i prezzi reali siano abbondantemente

più elevati. Tuttavia, lo scopo dello stesso paragrafo è quello di comprendere quali siano

le tendenze dei prezzi all’interno della città. Ancona, divisa dalla stessa Agenzia per il

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Territorio mediante una mappa, viene divisa in 18 microzone catastali a loro volte

aggregate in 4 fasce: centrale, semicentrale, periferica e suburbana.

Nel terzo paragrafo, riguardante la relazione tra spazio urbano e immigrazione,

abbiamo utilizzato la stessa mappa fornita dalla Agenzia del Territorio. Acquisendo i

dati degli immigrati per nazionalità e per via57 avevamo, infatti, bisogno di una

classificazione che ci potesse permettere un’aggregazione territoriale. Se avessimo

“colorato” la nostra mappa utilizzando come parametro la concentrazione per Via,

sarebbero sussistite alcune inesattezze. Ad esempio, le piccole strade che ospitano due o

tre famiglie avrebbero provvisto la stessa mappa di alcuni errori interpretativi. Data

l’indisponibilità di una lista che elencasse le vie per ogni microzona ci siamo avvalsi

della mappa disponibile sul sito www.geopoi.it (interno al sito dell’Agenzia del

Territorio). Nella costruzione di un nostro elenco di vie si sono descritti i possibili errori

derivanti da arterie stradali comprese in più zone consultabili nell’allegato A. Il terzo

paragrafo è stato completato con una descrizione delle microzone catastali sia attraverso

l’osservazione diretta dei servizi e delle infrastrutture esistenti che avvalendoci di report

elaborati dal Comune di Ancona. Alla fine del capitolo è stato utilizzato l’indice di

segregazione per comprendere quali tipi di modelli di scelta residenziali sono adoperati

dai migranti.

Questo indicatore valuta la segregazione di un gruppo sociale, o, come nel

nostro caso, di una comunità in un’area. Può assumere valori che partono da 0 (minima

segregazione) a 100 (massima segregazione). L’indice di segregazione è stato calcolato

nel seguente modo n

IS = ½ Σi=1 |xi - yi| · 100 dove: xi rappresenta il rapporto tra un gruppo localizzato nella zona i-esima e la popolazione complessiva di

quel gruppo nell’intera città;

yi rappresenta il rapporto tra i gruppi restanti (y) localizzati in una certa zona e il totale dei

gruppi restanti nell’intera città;

n è il numero delle zone urbane considerate.

Il quarto capitolo utilizza prevalentemente due tipologie di fonti. La prima

deriva dall’osservazione cognitiva del territorio da parte del ricercatore. A questo

proposito lo scopo è di descrivere l’ambiente dell’area di concentrazione attraverso le 57 Fonte: Ufficio Anagrafe Comunale. Dati del 5/10/2007.

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tecniche di osservazione diretta e la costruzione di documenti naturali di tipo segnico

come le fotografie dello spazio. La seconda è l’intervista semi-strutturata. Questo tipo di

strumento viene definito come lo “strumento osservativo mediante il quale

l’intervistatore governa la formulazione delle domande ma non le modalità nelle quali

l’intervistato formula le proprie risposte. L’intervistatore è tenuto a porgere ai casi in

studio tutte le domande della traccia ma ha facoltà di adattare alle esigenze degli

intervistati sia le domande, sia l’ordine in cui le pone”58.

Benché si utilizzi una tecnica di osservazione rilevata su individui lo scopo è di

definire le tendenze comportamentali dei collettivi. Infatti, la maggior parte degli

intervistati è composta da testimoni privilegiati. L’idea che sottende l’intero capitolo è

la “costruzione di una rappresentazione plausibile dell’ oggetto”59 (l’area di

concentrazione).

58 M. Cardano (2003), “Tecniche di ricerca qualitativa”, Carocci Editore, Roma, p. 55 59Ibid. p.51