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Capitolo 2. Nella città
Un corpo che riesce a emettere o a riflettere vibrazioni luminose in un ordine distinto e riconoscibile – io pensavo –
cosa se ne fa di queste vibrazioni? Se le mette in tasca? No, le scarica addosso al primo che passa lì vicino. E come si
comporterà costui davanti a vibrazioni che non può utilizzare e che prese così magari dànno un po’ fastidio? Nasconderà la testa in un buco? No, la sporgerà in quella direzione finché il
punto più esposto alle vibrazioni ottiche non si sensibilizzerà e svilupperà il dispositivo per fruirne sotto forma di immagini
(Italo Calvino)1
We need to take images off the screen […] We can do it. One day you will see it everywhere
(Alejandro Jodorowski)2
2.1. Urban Screens a Milano: una vetrina per lo spazio-immagine urbano
Figura 4. Panoramica de l la p iazza. Foto © Lorenzo Muss i .
1 I. Calvino, Le Cosmicomiche, Einaudi, Torino 1965. 2 A. Jodorowski, dall’intervista rilasciata a Doug Aitken, cfr. D. Aitken, N. Daniel (eds.), Broken Screen. 26 Conversations with Doug Aitken: expanding the image, breaking the narrative, d.a.p., New York 2006.
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Il 19 dicembre 2007, alle 17, veniva acceso in piazza del Duomo a Milano lo
schermo interattivo più grande d’Europa3. Destinata a diventare parte integrante del tessuto
urbano, la mediafaçade allestita nell’ambito del progetto MIA – Milano In Alto di Urban
Screen SpA4, sarebbe rapidamente diventata complemento d’arredo della piazza, restando
sul lato nord del Palazzo dell’Arengario per tutto il tempo dei lavori di restauro che hanno
interessato l’edificio, da pochissimo sede del neonato Museo del Novecento.
I 487 metri quadri di superficie led funzionano come nucleo e supporto a quello che qui
proponiamo di chiamare spazio-immagine urbano.
Guardato dapprima con scetticismo, quasi con sospetto, il grande schermo di piazza
Duomo è diventato, nel corso dei tre anni circa della sua permanenza, una presenza che si è
progressivamente fatta ‘tipica’ dello spazio che lo ha ospitato. Entrato nella quotidianità dei
milanesi e dei numerosi turisti che ogni giorno solcano quello che è il simbolo del centro
città, esso ha costituito il ‘sottofondo d’immagine’ che ha accompagnato il passaggio
distratto, il diversivo che ha colorato la sosta, è ciò che ha funzionato come ‘monitor
informativo’ per il cittadino e come medium in senso classico per gli spettatori –
improvvisati o meno – delle iniziative artistico-culturali che se ne sono servite come
supporto di diffusione.
In effetti, in termini di contenuti, la media-facciata ha proposto un palinsesto molto
variegato, composto da format ad hoc trasmessi praticamente a ciclo continuo5. Tra questi,
ad esempio, una panoramica sulle tendenze del costume e della società attraverso gli scatti
di ‘cool hunter’ dislocati in tutto il mondo, ‘Trend news’, realizzata in collaborazione con
l’istituto milanese Future Concept Lab; ‘Mi (My)Future’, un focus sulla città di Milano e le
sue eccellenze; uno sguardo più allargato, nazionale ed internazionale, offerto dai
3 Nasce a Milano la prima mediafacciata in Italia. Uno spazio digitale di comunicazione e interazione nel cuore della città, in «La Stampa», 21 giungo 2007. 4 Nata da pochi anni, Urban Screens SpA è una società tedesca con sede a Brema che ha fatto delle proiezioni site –specific su larga scala nel contesto urbano il proprio core business. La produzione si concentra da un lato sulle proposte creative che vanno a costituire il contenuto, e dunque il livello della rappresentazione, dell’allestimento, mentre dall’altro lato vi è una competenza di tipo maggiormente architetturale, nei termini in cui ogni proiezione è l’esito di uno studio degli spazi, della superficie architettonica che si fa schermo. Per maggiori dettagli, si faccia in ogni caso riferimento alla pagina web http://www.urbanscreen.com/. 5 Parte delle informazioni relative al palinsesto della mediafaçade che qui seguono sono tratte da una prima analisi dello schermo, condotta congiuntamente con Glenda Franchin; mi permetto qui di seguito di indicarne il riferimento: M. De Rosa, G. Franchin, “Forme dell’abitare. Pratiche di tracciabilità tra mondo e reale”, in «Comunicazioni Sociali on line», n. 1, 2009 (saggio disponibile per il download all’url: http://www.comunicazionisocialionline.it/2009/1/4/loadPDF/ ultimo accesso 16 gennaio 2011).
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fotoreporter dell’agenzia Magnum/Contrasto, che con le loro immagini hanno aperto delle
vere e proprie ‘Finestre sul Mondo’. In generale, la programmazione è stata ripartita
sostanzialmente in quattro blocchi: un quarto è stato dedicato a questo tipo di prodotti
appena citati, una parte è stata affidata al Comune di Milano per una comunicazione di tipo
istituzionale riguardante la città (appuntamenti, campagne civiche dell’amministrazione (un
esempio su tutti, l’Expo 2015), accessi urbani, viabilità, mezzi pubblici, ecc.), un quarto è
stato spartito tra informazione e produzioni legate al mondo dell’arte e della cultura,
mentre il restante quarto è stato riservato a messaggi di carattere pubblicitario. Osservando
questa composizione, le trasmissioni lasciano emergere un’alternanza tra un’estetica che
adotta un formato fotografico o a presentazione (soprattutto per i contenuti informativi, di
promozione e parte dei format di durata maggiormente ridotta) e un linguaggio più
ricercato, il quale diventa invece la marca di prodotti audiovisivi di taglio più propriamente
culturale ed artistico, inseriti nell’ambito di progetti articolati ad opera di alcuni soggetti
culturali attivi sul territorio. Quest’ultima parte della programmazione, che spesso risponde
evidentemente ad una logica di comunicazione integrata, si è posta come una sorta di
‘propaggine’ e talvolta come elemento di completamento ad iniziative che si sono servite
della media-facciata per amplificare la propria eco e acquisire una più elevata visibilità.
Nello specifico, si tratta di appuntamenti inseriti in manifestazioni ampie, che affondano le
proprie radici in modalità fruitive e di comunicazione dell’arte e della cultura di tipo
tradizionale (la galleria, la manifestazione presso il museo, la proiezione in luoghi
appositamente allestiti, ecc.). I promotori di questi incontri trovano nello schermo un
mezzo nuovo per passare contenuti che vengono diversamente comunicati al pubblico
nelle forme dell’esibizione, dell’installazione, del reading o della presentazione, dell’evento
festivaliero.
Un buon esempio in tal senso è l’utilizzo che la Fondazione Nicola Trussardi ha fatto della
mediafaçade in occasione della retrospettiva Altri fiori e altre domande, dedicata agli artisti
svizzeri Peter Fischli e David Weiss: in due giornate del periodo della mostra (Palazzo Litta,
30 gennaio – 16 marzo 2008) la Fondazione ha proiettato il film The Way Things Go (1987),
a firma appunto dei due artisti, riscuotendo un ottimo successo da parte della piazza; ma la
stessa Fondazione si è avvalsa dello schermo anche per un’iniziativa appositamente pensata
per il contesto del cuore cittadino, Tarantula, prima rassegna di film d’artista che ha voluto
fuori dalla galleria lavori di Vito Acconci, Trisha Donnelly, Mark Leckey, Klara Liden,
Pipilotti Rist e altri ancora, mostrando per un mese (30 giugno – 27 luglio 2008) una
selezione di opere video-artistiche. Ci sarà poi modo di riflettere più distintamente sulla
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diffusione dell’istanza filmica in connessione con il mondo dell’arte permessa dalla
presenza di schermi dislocati nello spazio6; in questa sede è sufficiente ricordare come nel
nostro caso, il led-wall si sia trasformato in un vero e proprio luogo dell’immagine in
movimento, dando spazio alle danze popolari e alle espressioni estatiche evocate dal titolo
della manifestazione. La media-facciata ha convocato infatti sulla piazza quella dimensione
cioè in cui le pratiche quotidiane e l’esperienza comune vengono sovvertite nel proprio
ordine da qualcosa di inaspettato e incontrollabile – quasi come lo spezzarsi della routine,
quando la frequentazione rapida o stanziale di uno spazio viene sconvolta dall’introduzione
di qualcosa che cattura, re-in-forma il contesto e il modo di viverlo. In effetti, la presenza
dello schermo durante le proiezioni organizzate dalla Fondazione Trussardi ha realmente
dato la possibilità a chiunque si fosse trovato in piazza, di modificare lo spazio del centro
città, non tanto privandolo di caratterizzazioni pre-esistenti particolari, ma convertendolo
in un vero e proprio teatro della visione.
Figura 5. Lo schermo dal la Gal ler ia durante la proiezione d i The Way Th ings Go (F isch l i & Weiss). Foto © Fondazione Trussard i .
6 Su questo tema, un contributo centrale è senz’altro J. Schuijren, S. McQuire, Putting Art into Urban Space. An Interview with Jan Schuijren, in S. McQuire, M. Martin, S. Niederer (eds.) Urbanscreens: Reader, Institute of Network Culture, Amsterdam 2009. Si rimanda invece al Capitolo 4 per l’approfondimento di un vero e proprio ‘S-I dell’arte’.
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Figura 6. Tarantu la. Foto © Fondazione Trussard i .
Altri casi di diversa natura, ma parimenti significativi sono state le proiezioni di alcuni
eventi sportivi di particolare risonanza, che hanno garantito un numerosissimo pubblico,
come il Campionato Europeo di Calcio del 2008, quello Mondiale del 2010; per
quest’ultima occasione, addirittura, la media-facciata che nel frattempo era da poco stata
smontata, viene riallestita, suscitando per altro un acceso dibattito sui quotidiani locali e
nazionali7 e riesce a riunire una quantità di spettatori che ricorda da vicino quella dei media
events8. Vi è poi da ricordare, la preview del Milano Film Festival 2008, iniziativa che dal 1996
anima la città durante i primi giorni di settembre. Tenutasi in estate (fine del mese di
giugno), l’anticipazione in previsione dell’apertura della manifestazione vera e propria, ha
scelto proprio lo schermo allestito su Palazzo dell’Arengario per invitare la piazza
all’appuntamento con il festival; gli organizzatori hanno così predisposto un’area allestita a
mo’di sala all’aperto, con panche e delimitazioni che consentissero una più comoda sosta ai
passanti, i quali in modo agevole si sono potuti dunque improvvisare spettatori
propriamente cinematografici.
7 Cfr. Piazza Duomo, per i mondiali torna il maxischermo della discordia, in «Il Giorno», 10 giugno 2010; La partita degli azzurri sul maxi schermo in Piazza Duomo ci sarà, ma silenziosa, in «La Repubblica», 10 giugno 2010. 8 Cfr. D. Dayan, E. Katz, Media Events: The Live Broadcasting of History, Harvard University Press, Cambridge MA 1992; tr. it. Le grandi cerimonie dei media: la soria in diretta, Baskerville, Bologna (1993) 2002.
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Figura 7. Occhi puntant i verso la mediafaçade durante i Campionat i Europei di calc io (estate 2008). Foto © Lorenzo Muss i . .
Figura 8. Anteprima MFF 2008.
Già da queste poche considerazioni è facile intuire che lo schermo non rappresenti
semplicemente un’infrastruttura a banale vocazione promozionale: fuor di dubbio esso
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contribuisce a ridefinire l’“adscape”9 cittadino, ma non ha implicato meramente un ulteriore
aumento dell’ipersaturazione visuale dell’ambiente, al contrario, si tratta qui di cogliere le
potenzialità di una modalità comunicativa ed espressiva innovativa, nonché la possibilità di
fare un’esperienza di visione nuova. Ci troviamo allora davanti ad un caso emblematico
non soltanto di rilocazione del dispositivo filmico, ma ad un esempio di come l’immagine
in movimento, fluidificata ed ibridata con altre forme mediali, si introduca e affiori nello
spazio urbano avviando una vera e propria ristrutturazione delle dinamiche di disposizione,
articolazione, funzionalizzazione dell’ambiente. La collocazione della mediafaçade
direttamente nella piazza non fa che sottolineare queste opportunità operative, sostenendo
e favorendo la creazione di esperienze partecipate sulla scena di un teatro dalla grande
valenza identitaria e simbolica.
Particolarità importante dello schermo, sottolineata dai responsabili di MIA, infatti, è
l’interattività che caratterizza lo screen-wall: grazie ad un sistema di connessione con le
piattaforme di tecnologia mobile più diffuse, tra i programmi in scaletta compare uno
spazio riservato all’aggiornamento e, appunto, alla partecipazione collettiva. Responsabile
di questa funzione è una redazione giornalistica, con il compito di gestire i flussi
d’informazione in tempo reale e dunque di garantire l’effettiva messa in onda dei contenuti
spediti da milanesi e turisti. Ma non si tratta unicamente di questo. Sia nella messa in atto di
pratiche di produzione audiovisiva grassroots che più semplicemente nel caso della visione di
ciò che lo schermo propone, si tratta di considerare le forme di esperienza che prendono
corpo davanti allo schermo. Qui, ciò che conta sembra essere l’ingaggio, dato tanto dal
trasporto emotivo connesso alla visione, quanto dalla reale opportunità di essere parte di
una produzione collettiva ad alta visibilità. Ecco allora che la partecipazione si fa strada
anche attraverso le modalità più semplici e basilari, come l’invio di SMS che vengono
visualizzati in trasmissioni contenitore programmate interstizialmente tra i format, le
informazioni o le proiezioni artistico-culturali. Ma muovendosi, come si diceva, nel
territorio di un’esperienza visuale che si esplica anzitutto tramite un’azione performata da
un soggetto situato (connotato da determinate caratteristiche percettive e corporee), il
coinvolgimento si esprime anche attraverso la sospensione delle pratiche più consuete,
generalmente attivate allo scopo di mediare l’incontro tra l’individuo e il contesto urbano,
per privilegiare invece una sorta di ‘sperimentazione sensibile’. Viene avviata così
un’esplorazione delle possibilità di vivere diversamente la piazza tramite un’attività motoria
e cinestetica che favorisce la mobilità e la trasformazione di aree dello spazio in luoghi
9 D. Bernstein, Advertising Outdoors: Watch this Space!, Phaidon, London 2007.
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deputati a fini non tradizionali. Ad esempio, la ricerca di una collocazione particolarmente
idonea perché il cono di visione intercetti il campo di proiezione sullo schermo, l’utilizzo di
strutture stabili cui si attribuisce una funzione alternativa (pensiamo ai gradini del sagrato
della cattedrale milanese, rapidamente improvvisatisi superficie di seduta su cui sostare
durante la proiezione), o ancora l’aggiunta e la realizzazione ‘tattica’ di artefatti che
facilitino le condizioni di quella che potremmo indicare come un’impura fruizione filmica,
rappresentano un tentativo di riscoprire e rileggere lo spazio, intervenendo su di esso. Non
c’è allora modo diverso per definire queste operazioni, se non come veri e propri interventi
sull’ambiente urbano:
le persone scoprono che sono in grado di intervenire – quandanche in maniera
effimera – nell’aspetto e nella sensazione prodotta dallo spazio pubblico del
centro cittadino. [Pertanto gli schermi] funzionano come piattaforme che
incoraggiano l’attitudine pubblica e creativa, facendo così della città uno spazio
pubblico della sperimentazione10.
2.2. Valenze dello schermo tra logica della scala e mmanagement dell’attenzione
Per garantire una buona partecipazione, però, la mediafaçade deve anzitutto ricevere
l’attenzione del soggetto che gli sta di fronte e dunque agire, in un certo senso, come
‘attrattore’. Non basta infatti che vi sia un’intercettazione tra sguardo e immagine: occorre
che quest’ultima attragga l’occhio e lo incolli allo schermo11. In altri termini, deve
presentarsi la condizione in cui si realizza quel processo di collisione, incontro, apertura che
– si è detto altrove – fa emergere un evento visivo capace di stabilire un contatto tra
immagine e individuo nello spazio. Nel caso degli urban screens, questo delicato compito
sembra essere affidato in particolare a due caratteristiche della media-facciata: la scala e la
sua capacità amplificatoria.
Per quanto riguarda il primo punto, l’attenzione ricade qui sull’aspetto formale più
evidente ed immediato: la grande dimensione dello schermo contribuisce a creare un
impatto legato allo stato di presenza, una presenza la quale – più che in ogni altro modo –
10 S. McQuire, Mobility, Cosmopolitanism and Public Space in the Media City, in S. McQuire, M. Martin, S. Niederer (eds.) Urbanscreens: Reader, cit., p. 59 (mia traduzione). 11 Evidente qui l’eco all’idea di un cinema come attrazione, concetto che viene indagato da una ricca bibliografia. Nel’impossibilità di ripercorrere qui questo motivo, si rimanda al classico T. Gunning, Cinema of Attraction: Early Film, its Spectator and the Avant Garde, in T. Elsaesser, A. Barker (eds.) Early Film, British Film Institute, London 1989 e a N. Burch, Il lucernario dell'infinito: nascita del linguaggio cinematografico, Pratiche, Parma 1994; A. Gaudreault, Cinema delle origini o della «cinematografia-attrazione», Il Castoro, Milano 2004.
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si esprime per immagini (non solo sullo schermo, ma anche dello schermo) e dunque può
essere colta primariamente attraverso la percezione visiva. Si tratta perciò di sfruttare le
grandi dimensioni per andare a stimolare il regime d’attenzione, generalmente molto
basso12. A questo scopo, l’istanza visuale e filmica viene pertanto rielaborata e rimediata, in
modo che il tradizionale ‘spettacolo filmico’ diventi anche ‘rappresentazione spaziale e
architettonica’, che si faccia cioè edificio, casa, che si presti ad essere visto ma soprattutto
che dia l’impressione di poter contenere chi guarda. Una simile strategia è sostenuta da un
motivo ben preciso: nel proprio rapporto con l’immagine, l’uomo definisce e ridefinisce il
suo spazio sulla base di quello occupato dall’istanza cinematografica o comunque visuale.
Come in una lotta per la conquista dell’ambiente, l’abitazione del proprio intorno e la
costruzione del proprio luogo, dunque, avviene contemporaneamente sul fronte
dell’umano e per estensione su quello del dato visuale. Come si ricorderà, si verifica qui un
farsi spazio reciproco che rappresenta il meccanismo essenziale attraverso il quale si
stabilisce e si determina la relazione del soggetto sia con l’ambiente reale, sia con lo spazio
che prende forma proprio sullo schermo e a partire da esso; a tal proposito, rammenta
Jacques Aumont, “la misura dell’immagine è dunque tra gli elementi fondamentali che
determinano e precisano il rapporto che lo spettatore deve poter stabilire tra il suo proprio
spazio e lo spazio plastico dell’immagine”13. Ecco allora che lo schermo interviene
direttamente nella definizione del ‘senso del luogo’, determinando il dove e il come
(volendo, anche il quando) siamo presenti al mondo. Ed ecco perché, quindi, “in tutte le
epoche gli artisti sono stati coscienti, ad esempio, della forza che potesse assumere
un’immagine di grandi dimensioni mostrata a poca distanza, obbligando lo spettatore non
solo a vederne la superficie, ma a esserne quasi dominato, anzi, sopraffatto”14. A ben
vedere, è esattamente l’idea su cui fanno leva le media-facciate. L’esempio milanese, benché
già di estensione considerevole, è un caso significativo, ma non il più rappresentativo; il
pensiero corre quasi automaticamente alla newyorkese Time Square, o alle proiezioni
realizzate direttamente su superfici architettoniche (coperture, ma anche semplici edifici o
monumenti), come ad esempio accade nelle proiezioni d’artista o nei recenti lavori
realizzati dalla stessa Urban Screens SpA.
12 Il tema dell’attenzione in rapporto al suo contrario rappresenta un oggetto classico di riflessione. È appena il caso di ricordare il lavoro di Simmel a proposito del soggetto blasé come figura centrale della metropoli di inizio Novecento. Su questo cfr. G. Simmel, Die Größstädte und das Geistesleben (1903), in Id., Brücke und Tür: Essays des Philosophen zur Geschichte, Religion, Kunst und Gesellschaft, Koehler Verlag, Stuttgart 1957; tr. it. Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma (1998) 2010. 13 J. Aumont, L’image, Armand Colin, Paris 2005; tr. it. L’immagine, Lindau, Torino 2007, p. 142. 14 Ibidem, pp. 142-143.
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Figura 9. EEnschede (Olanda) – Proiezione di What is up? , v ideoperformance real izzata ne l l’ambi to de ll ’ In ternat ional Festival of Arts “Grenswerk” (25 set tembre 2010). Foto © Urbanscreen. Figura 10. Krzysztof Wodiczko – Hirosh ima Project ion (1999).
Piazza Duomo, i lavori di Krzysztof Wodiczko come
anche gli altri spazi urbani caratterizzati dalla presenza di
schermi, propriamente detti o meno, sono indice di
un’esigenza e di un tentativo di raccogliere l’attenzione. In
una recente ed interessante ricerca condotta da un’équipe
del Goldsmith College di Londra, e dedicata proprio allo
studio degli schermi allestiti in contesto pubblico, il tema
dell’attenzione emerge in tutta la sua centralità. Attraverso
un’indagine etnografica, lo studio prende in
considerazione una serie di diverse situazioni di visione,
accomunate tutte dalla presenza di un led-wall che ricrea,
almeno ad un livello basilare, le medesime dinamiche
individuate nel caso della mediafaçade milanese.
Dall’osservazione di Chris Berry e colleghi, “gli schermi, più o meno discretamente,
orchestrano forme di attenzione all’interno del denso spazio urbano”15, tanto che queste
vanno a costituire uno degli assi su cui si muove l’intero disegno di ricerca. Esse, insieme ad
15 C. Berry, K. Dickinson, J. Harbord, R. Moore, Archive, Surveillance, Attention: Tracking the Screen in Public Spaces, in F. Casetti, J. Gaines, V. Re (eds.), Dall’inizio, alla fine – In the very beginning, at the very end, Forum, Udine, 2010, p. 375 (mia traduzione).
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altre pratiche legate all’oggetto d’analisi, sono in grado di rendere conto della
riconfigurazione del campo di pertinenza del filmico e dunque “tracciano […] la
rimediazione dell’istanza cinematografica in relazione alle esigenze imposte dal contesto
urbano”16. Inoltre, sulla scorta delle riflessioni di Jonathan Crary17, le mediafaçade sembrano
essere in grado di svolgere un ruolo centrale nella formazione e gestione dell’attenzione,
ricorrendo a meccanismi che coinvolgono la visione e la modulano strategicamente.
La ricerca britannica rileva poi una tendenza alla ‘naturalizzazione’ della presenza degli
schermi in ambito urbano e dunque dell’esperienza mediale e filmica che questa accorda.
Anzitutto, questa considerazione si pone in linea con l’opinione di Ruggero Eugeni,
secondo il quale una delle discriminanti in grado di distinguere l’esperienza diretta da quella
mediale (e perciò mediata) è proprio il tentativo di trasformare l’artificialità che la connota
in naturalità18; si tratta, dunque, di un’opposizione che, potremmo osservare, si gioca tra
naturalezza e naturalizzazione. Ciò detto, l’analisi della media-facciata milanese sembra
aderire a questo assunto, ma solo in parte: benché divenuta velocemente componente
strutturale della piazza per il suo tempo di permanenza, la scelta delle grandi dimensioni e
la conseguente capacità attrattiva, valorizzata anche dalla possibilità di interazione, non
rivela un’accentuata volontà strategica di naturalizzare lo schermo. Certamente la coesione
della struttura con il paesaggio urbano è indice – ad un livello architettonico – di un
progetto di organicità rispetto al suo intorno, impressione che per i cittadini a lungo andare
si è senz’altro consolidata; nonostante ciò, l’impatto e l’evidenza che il led-wall ha cercato di
conservare lungo i tre anni in situ, da un punto di vista contenutistico e di palinsesto,
portano a concludere che l’aspetto mediato e innaturale del medium si sia mantenuto
costante e che anzi si sia cercato – con spirito quasi moderno più che contemporaneo – di
mantenere alto il grado di ‘sovversione’ di un ambiente strutturato e fortemente controllato
come quello di piazza Duomo. Al di à della questione di merito, il nesso evidenziato pare
essere significativo nei termini in cui mostra lo schermo come dispositivo capace di
convocare e produrre un’esperienza mediale, e che dunque ci riporta sul terreno d’indagine
sul quale si muove la presente ricerca, legittimandone per altro la scelta come caso di
studio.
16 Ibidem, p. 378 (mia traduzione; gli autori si riferiscono qui esplicitamente al campo di pertinenza della teoria, e dunque ai Film Studies. La scelta della resa ‘filmico’ e ‘istanza cinematografica’ è un’opzione lessicale che non varia il senso del concetto espresso da Berry e colleghi, ma maggiormente funzionale al testo). 17 Cfr. J. Crary, Suspensions of perception: attention, spectacle, and modern culture, MIT Press, Cambridge MA 2001; Id., Techniques of the Observer: On Vision and Modernity in the 19th Century: On Vision and Modernity in the Nineteenth Century, MIT Press, Cambridge MA 1992. 18 R. Eugeni, Semiotica dei media. Le forme dell’esperienza, Carocci, Roma 2010.
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La logica della scala e questo “management dell’attenzione”19 mostrano bene e in
concreto l’estensione dimensionale dell’immagine, delle pratiche dello sguardo e i
meccanismi di costruzione dello spazio ad essa connesse. In altri termini, questi sono gli
elementi su cui riposa la possibilità dell’istanza visuale di ampliarsi ed allargarsi all’interno
dell’ambiente, inserendosi nel tessuto urbano e nei flussi mediali che lo attraversano,
contribuendo per un verso ad alimentarne i contenuti in uscita, per l’altro verso ad
accordare spazio e visibilità ai contenuti in entrata, attraverso la superficie dello schermo.
Questo ci conduce al secondo punto di riflessione: le mediafaçade funzionano, oltre che
come degli attrattori, anche come ‘amplificatori visuali’. I messaggi, le informazioni di vario
genere, le immagini si muovono infatti nell’ambito cittadino tracciando come delle
traiettorie, le quali intercettano il led-wall e lo impiegano come hub di una rete stabilita in
loco, ma che per l’appunto si amplifica correndo di nodo in nodo in direzione di altre
piattaforme mediali e venendo costantemente alimentata da esse. Questa facoltà di
amplificare ed estendere i contenuti tramite la scala e la connettività rende lo schermo
urbano mezzo e – come suggerisce Scott McQuire20 – luogo deputato per lo svolgersi e il
perpetrarsi di rituali sociali. Il dispositivo funziona in tal senso come un vero e proprio
‘portale’ che media la sfera individuale e quella collettiva, ma che agisce anche nei confronti
del contesto fisico che lo ospita, come di quelle dimensioni che dischiude.
Portale, dunque, ma anche – per rimanere in ambito architettonico – finestra. Si tratta di
una metafora lungamente frequentata, che ha trovato soprattutto nelle riflessioni di Anne
Friedberg una riattualizzazione. Grazie al lavoro di quest’ultima21, il ponte tra l’idea di
schermo e finestra viene direttamente esplicitato lungo un’evoluzione storica che traccia il
percorso di quella che potremmo definire una ‘dematerializzazione’, da una concezione
classica, in cui lo schermo è considerato nella sua materialità, fino a quella che è stata
definita ‘virtual window’. La ricerca di Friedberg risulta particolarmente significativa in questa
sede poiché la media-facciata di piazza Duomo rappresenta esattamente l’esito di questo
percorso: qui vengono meno gli elementi che hanno caratterizzato a lungo la situazione di
visione o comunque la copresenza di soggetto e schermo. Quest’ultimo non rappresenta
19 C. Berry, K, Dickinson, J, Harbord, R. Moore, Archive, Surveillance, Attention: Tracking the Screen in Public Spaces, cit., p. 378. 20 Cfr. S. McQuire, Media, Architecture and Urban Space, Sage, Los Angeles, London, New Delhi, Singapore, Washington DC 2008. In particolare, secondo l’autore questa capacità delle media-facciate pubbliche di funzionare come ‘aggregatori’ sociali farebbe sì che attorno ad essi si esprima e in talune occasioni si consumi l’esigenza di condividere l’esperienza, sia essa di tipo civile, culturale, ludico, ecc.. 21 Cfr. A. Friedberg, Window Shopping: Cinema and the Postmodern, University of California Press, Berkeley – Los Angeles 1993; Id., The Virtual Window: From Alberti to Microsoft, MIT Press, Cambridge MA 2006.
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più un catalizzatore che chiude l’azione entro il suo frame, i pattern di visione possono
dunque variare, poiché lo sguardo non è più forzato in un’unica direzione dalla
delimitazione dell’immagine – non più limitata esclusivamente entro lo spazio dello
schermo e fissata in una struttura testuale fissa – e dalle componenti ambientali del classico
contesto cinematografico. Nella piazza, e in generale nel funzionamento degli urban screens,
sparisce il contrasto tra buio della sala e luminosità dello schermo, e con esso la capacità del
dispositivo di stabilire “condizioni privilegiate di efficacia [in un contesto in cui non c’è]
nessuno scambio, nessuna circolazione, nessuna comunicazione con l’esterno”22. Al
contrario, lo spazio urbano favorisce l’inserimento dell’immagine e lo svolgersi delle
pratiche di visione nell’ambito di un orizzonte di mobilità. L’immagine, e pertanto
l’esperienza che se ne può avere, è costantemente en train de se faire. Va da sé, allora, che
un’idea di fluidità e circolazione assurgono ad elementi in grado di sostenere e comunicare
questo senso di apertura, di liquidità spaziale, di svolgimento, in cui gli ambienti si
sovrappongono, si assemblano connettendo finestre un tempo isolate e scivolano l’uno
nell’altro per mezzo dell’immagine. La materialità del territorio urbano si sfrangia e lo
spazio cittadino aderisce allo spazio dell’immagine, in una sorta di ‘estetica della
sparizione’23 che investe la sostanza dell’ambiente.
2.3. DDisplay e connettività: la media-facciata come interfaccia digitale tra locale e globale
Lo schermo funziona quindi come finestra e, in senso più ampio, come interfaccia.
Si tratta di due lati della stessa medaglia, dal momento che inteso come finestra, esso
consente di ‘guadagnare’ uno spazio che non relega l’immagine, anzi ne accorda il
dispiegamento secondo una strategia di amplificazione ed estensione. Rispondendo infatti
ad una logica di display, esso la mostra e così facendo la connette, poiché il suo essere
interfaccia accorda uno scambio tra due entità originariamente separate. Questa capacità di
farsi membrana modifica l’idea di schermo come superficie architettonica stagna, spazio
per natura statico e chiuso. Viceversa, esso si fa punto d’incontro, spazio d’azione
22J.-L. Baudry, A. Williams, “Ideological Effects of the Basic Cinematographic Apparatus”, in «Film Quarterly», n. 2, vol. 28, (Winter, 1974-1975), pp. 39-47, citato in Friedberg, The Virtual Window, cit., p. 165 (mia traduzione; con ‘efficacia’ si intende qui un’effettiva condizione si sussusitenza di ciò che viene mostrato: quello che emerge dal buio della sala nella luminosità dello schermo mi si impone. È la realtà). 23 Cfr. P. Virilio, Aesthetics of Disappearance, Semiotext(e), New York (1991) 2009; tr. it. Estetica della sparizione, Liguori, Napoli 1992.
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congiunta, comunicazione, interferenza e dunque reciproca influenza24. La media-facciata si
pone al contrario come luogo della connettività, in cui le potenzialità di relazione si
instaurano nei confronti ora dei soggetti con si stabilisce uno scambio per mezzo della
visione, ora di altre piattaforme mediali simili o di differenti dispositivi collegati in rete, ma
anche e soprattutto con lo spazio circostante. In generale, perciò, un concetto di schermo
come velo che filtra il contatto tra due (o più) entità mettendole in collegamento sul piano
intersoggettivo, mediale, spaziale fa della mediafaçade una sostanziale ‘agenzia di
socializzazione’25. Perciò, sul piano concreto, anche quando i contenuti trasmessi sono di
tipo commerciale (ma anche informativo e talvolta anche durante la proiezione di immagini
artistiche), la presenza di una finestra per l’interazione, magari ritagliando una porzione
della superficie per riservarla a messaggi istantanei o a commenti del pubblico, rendono il
led-wall uno strumento di integrazione tra mondo dell’immagine e universo pubblico, ma
aprono anche un contatto tra uno spazio allargato e uno cittadino, locale e globale.
Lo si era solo accennato, ma qui ritorna allora in primo piano un approccio in cui lo
schermo si fa centro di un intenso scambio, nodo di una rete che si sviluppa nel territorio
urbano, rafforzando l’idea della piazza come cuore pulsante dell’area milanese, ma
suggerendo anche come la media-facciata sia parimenti il nucleo di uno dei tanti network
cittadini, tutti connessi tra loro in una più ampia struttura reticolare.
Da un punto di vista locale, va anzitutto rilevata la collocazione fissa della mediafaçade in un
centro nevralgico della città non solo in termini geografico-topologici, ma proprio in
quanto a identità e valore simbolico. Per rendersi immediatamente conto della posizione
che la media-facciata viene a ricoprire, basta osservare lo scenario in cui è stato allestito lo
schermo e con quali entità, oltre che ovviamente ai soggetti strictu sensu, esso è chiamato a
dialogare. Uno sguardo alla mappa della piazza può facilmente chiarire la situazione:
24 Questo concetto si avvicina all’idea di cinema come interfaccia culturale che è al centro di una serie di riflessioni proposte da Lev Manovich (cfr. Id., The Language of New Media, MIT Press, Cambridge MA 2001; tr. it. Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, Milano 2002 e Cinema as a Cultural Interface, saggio disponibile per il download al sito http://www.manovich.net/TEXT/cinema-cultural.html consultato il 15 gennaio 2011). 25 Su questo punto, riflettono A. Fatah gen. Schieck, C. Briones, C. Mottram, The Urban Screen as a Socialising Platform: Exploring the Role of Place within the Urban Space, in F. Eckardt, J. Geelhaar, L. Colini, K. S. Willis, K. Chorianopoulos, R. Henning (eds.), Mediacity – Situations, Practices and Encounters, Frank&Timme, Berlin 2008.
100
Figura 11. Mappa de l la p iazza e del la zona centrale in pross imità de l lo schermo.
Proprio in quanto luogo milanese simbolo della città, la piazza raccoglie una serie di
‘presenze importanti’. Innanzitutto, alla destra dello schermo e sulla stessa linea, Palazzo
Reale, sede di una parte delle istituzioni comunali e, con le sue mostre e installazioni d’arte,
di grandi iniziative culturali; sempre nella stessa direzione, ma su un piano orientato a 90°, il
Duomo; di fronte la Galleria Vittorio Emanuele, che ospita una parte delle boutiques dell’alta
moda per cui è celebre la città e che conduce in piazza della Scala, sede del famoso teatro;
lungo la linea della Galleria e percorrendo allo stesso modo quella di fronte ad essa, si
susseguono le vetrine di negozi ed esercizi commerciali. Se volessimo poi proseguire in
linea retta partendo dal Duomo, passando attraverso Palazzo della Ragione e spingendoci
fino al Cordusio, incontreremmo il Castello Sforzesco, evidente quartier generale
dell’istituzione civica di un tempo, oggi luogo che rimanda alla storia della città e ad un
glorioso passato rinascimentale, ma soprattutto – anche attraverso le sale espositive, le
biblioteche e gli archivi ospitati – alla sua tradizione. Un potere politico-temporale e
culturale, uno spirituale, uno identitario, uno commerciale e uno simbolico: niente di
diverso, a ben vedere, è in gioco sulla piazza. Ecco allora che, evidentemente, questi nuclei
così importanti esercitano la propria influenza, regolando la vita dell’ambiente su cui si
affacciano. Ai fini di una sistematizzazione, diviene allora possibile individuare una serie di
101
linee, delle traiettorie – cioè – che animano la piazza, ne descrivono i movimenti e i progetti
di percorribilità.
Figura 12. Mappa de l la p iazza con ind icazione del le presenze su l la piazza e de lle t raie t tor ie che an imano lo spazio.
Emergono così una linea politico-culturale, alla quale si ascrive la mobilità da/verso
Palazzo Reale; una linea spirituale-religiosa, che indica l’accesso in direzione della cattedrale
milanese; quella che potremmo definire una ‘linea delle eccellenze’, che segnala la presenza
delle grandi firme in Galleria e la via verso i nomi della lirica (è questo un percorso spesso
battuto dai turisti in cerca di ‘una sintesi delle maestranze nazionali’, per cercare di
immergersi nell’identità del luogo). Vi è poi una linea più prettamente commerciale, la quale
porta verso i numerosi negozi distribuiti ai lati della piazza; e da ultimo è possibile tracciare
una linea di tipo storico-simbolico, che conduce dritta al Castello e ricorda ai cittadini il
passato di Milano e le radici della tradizione meneghina. Questo insieme di vettori, proprio
in quanto tali, segnano l’orientamento all’interno del contesto urbano della piazza, i flussi26
che questa accoglie e smista.
26 Abbastanza esplicito risulta qui il nesso con il frame proposto da Arjun Appadurai, il quale affronta la questione della dicotomia locale vs. globale collocandola entro una visione della contemporaneità caratterizzata
102
Gli ‘affacci ingombranti’ che abbiamo identificato rappresentano, come si
accennava, i soggetti nei confronti dei quali la media-facciata è chiamata a relazionarsi su un
piano di dinamica collettiva. Essa si trova pertanto a dover ‘competere’ con questi, e lo fa
ora affidandosi alla grande scala, che ne caratterizza le dimensioni, ora alla predisposizione
per l’esibizione e dunque alla capacità di display e vetrinizzazione27 che possiede. Ma a ben
vedere, queste strategie non differiscono di molto da quelle adottate da Duomo, Galleria,
negozi, Castello. Lo schermo si imbarca evidentemente in una partita impari in quanto a
monumentalità, se affiancato, ad esempio, alla cattedrale che lo fa quasi ‘sparire’ sotto lo
slancio delle sue guglie bianche; stessa sorte nei confronti degli esercizi commerciali che
hanno visibilmente sviluppato un grado di sofisticatezza particolare nell’arte
dell’esposizione dei prodotti e perciò nel campo di quella logica che abbiamo definito di
display. È allora facendo leva sulla propria specificità che il led-wall può pensare di legittimare
la propria presenza nel teatro cittadino: ciò che connota lo schermo come tale è la sua
natura di ‘medium d’immagine’, ovvero la capacità di ricorrere all’immagine in movimento
come né il Duomo, né la Galleria o Palazzo Reale, né nessuno degli altri spazi-simbolo che
sono stati citati è in grado di fare. Di conseguenza, quel che maggiormente rappresenta la
potenzialità della mediafaçade sembra essere l’opportunità di instaurare un’esperienza filmica.
Riposa dunque su quest’ultima la peculiarità dello urban screen milanese e la sua facoltà di
inserirsi nei flussi per attrarre a sé l’attenzione e, a sua volta, solcare la piazza con vettori
propri. Se le varie direttrici che attraversano lo spazio, infatti, tendono a svilupparsi in
maniera centrifuga rispetto al dispositivo, quest’ultimo ovvierà cercando di istituire – come
si è detto – un fulcro d’attenzione che ne decreti l’interruzione o almeno la deviazione,
nonché cercherà di produrne di nuove. In quest’ottica, lo schermo funzionerà come
‘processatore’ di corpi e di immagini in transito. Ad una piazza che è sempre stata luogo di
incrocio, succede pertanto una piazza che si espande sullo spazio dello schermo e così su
tutti quegli spazi che ad esso sono potenzialmente connessi. Si tratta, in altre parole, di una
piazza che si fa luogo mediale – meglio, che si rende luogo denso del visuale. Accentrando
su di sé gli sguardi, la media-facciata (e per tramite di questa la piazza) si rende piattaforma
da una struttura interattiva. Qui, l’interazione si esprime in particolare attraverso una serie di flussi. In particolare, l’antropologo propone una tipologia di flussi, che distingue in etnorami, mediorami, tecnorami, ideorami, finanziorami. Per un approfondimento di questa proposta, si veda A. Appadurai, Modernity at Large: cultural Dimensions of Globalization, University of Minnesota Press, Minneapolis (1996) 2003; tr. it, Modernità in polvere, Meltemi, Roma 2001. 27 V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
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in grado di ospitare immagini che anch’esse si articolano fluidamente andando a costituire
perciò un nuovo flusso, una ‘linea d’immagine’ che solca lo spazio.
Figura 13. Mappa de l la p iazza: i f lussi d i mobi l i tà e le l inee d i immagin i emanate e che convergono verso lo schermo.
Prodotte in loco o provenienti da lontano, le immagini che costituiscono la sostanza di
questi flussi da/verso lo schermo sono raccolte e proiettate grazie al complesso sistema
mediale in cui la media-facciata si inserisce. Nello specifico, è attraverso le reti wireless,
grazie alla connessione diretta o filtrata con dispositivi mobili e locative media, ecc. che esso
fa il suo ingresso nella proteiforme mediatecture contemporanea. In tal modo, allora, come
detto, esso funge da “piattaforma multidirezionale”28, interfaccia tra dimensioni pressoché
opposte: se da un lato si fa hub di una rete ampia che unifica in una sola le reti discrete
locali, favorendo possibilità di scambio globali, dall’altro lato va anche a radicarsi nella sua
posizione, come fonte di interazione, alla stregua di una ‘piazza nella piazza’, che dà voce a
flussi radicati nella località del territorio.
28 S. Arcagni, Urban Screens in Turin and Milan. Design, Public Art and Urban regeneration, in in S. McQuire, M. Martin, S. Niederer (eds.) Urbanscreens: Reader, cit., p. 154.
104
In conclusione, allora, l’esperienza di Milano evidenzia come lo schermo non possa
essere preso in esame senza considerare la struttura e le componenti del dato spaziale: la
sua posizione, conferma la necessità di progettare una collocazione (e dunque di prevedere
il dispiegarsi del relativo design spaziale e d’immagine) che tenga conto della natura e degli
equilibri dell’ambiente concreto che lo accoglie. In generale, diviene possibile osservare
perciò che le mediafaçade riescono a sfruttare al meglio le proprie potenzialità di scala,
attrazione ed amplificazione se si inseriscono organicamente nel contesto che le ospita. Ne
viene un embedment rispetto allo spazio urbano che, per riprendere un passaggio importante
del frame che si vuole qui tratteggiare, rende queste strutture risorse spaziali e comunicative
non solo rilocate nell’ambiente cittadino, ma a tutti gli effetti facenti parte dell’ambiente
cittadino. Lo schermo si configura allora come una di quelle architetture che Rem
Koolhaas ama definire ‘pop signage’:
C’è un certo tipo di architettura che, a causa della sua visibilità, della sua scala,
della sua forma, funziona come un signage di massa. È in grado di emettere
informazioni e provocare una risposta. Questa nuova architettura sembra meno
definita da motivi architettonici formali e più dal messaggio che [attraverso di
essa] riecheggia nello spazio pubblico.29
Ebbene, è a partire dal dato visuale, dalle immagini che mostra e che riflette sullo spazio ad
esso circostante, che lo schermo si definisce e a sua volta definisce la piazza milanese con i
suoi flussi. In quanto display digitale dinamico, una volta collocata nel tessuto urbano,
quindi, la media-facciata è in grado di modulare, alterare, piegare i vettori che come si è
rilevato sono presenti nello spazio.
L’insieme di direttrici che attraversano la piazza rappresenta, si è detto, la struttura
dell’organizzazione del territorio urbano, poiché ricostruisce in prima istanza il tipo di
presenza dei soggetti attivi in ambito locale e ne è dunque loro espressione. Ma si è anche
anticipato che questa stessa articolazione, proprio facendo leva sulla qualità di finestra e di
interfaccia dello schermo, allo stesso modo si espande anche a livello globale. Da questo
punto di vista, infatti, grazie all’elevata connettività che caratterizza la mediafaçade, i flussi si
replicano su una scala moltiplicata potenzialmente all’infinito, ricollocando su una scena
che non è più quella strettamente milanese, il portato concreto delle stesse relazioni di
network che si stabiliscono e si sviluppano in loco. Come sostiene Saskia Sassen, si tratta di
29 Dall’intevista di Doug Aitken a Rem Koolhass, in D. Aitken, N. Daniel (eds.), Broken Screen. 26 Conversations with Doug Aitken: expanding the image, breaking the narrative, cit., p. 194 (mia traduzione).
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percorsi lungo i quali l’elemento non digitale si intreccia con quello digitale30 e dunque
viene da pensare che se da un lato questo possa produrre dei disorientamenti, dovuti alla
riarticolazione del design dello spazio, dall’altro lato questo ‘assemblaggio’ – come lo
chiamerebbe la sociologa – può anche essere foriero di attrazioni e reincantamenti
affascinanti in una prospettiva d’indagine consacrata a ritracciare le dinamiche ambientali.
La questione della digitalizzazione, la connettività da questa garantita e i flussi che ne
derivano sono in effetti temi centrali nella riflessione di Sassen31. Il suo approccio, in
particolare, evidenzia l’importanza delle tecnologie digitali nell’ambito della riflessione
sull’evoluzione della città, e pertanto una parte del suo lavoro può rappresentare una risorsa
importante nell’ambito dello studio di quelle componenti dell’ambiente urbano come le
media-facciate. Il punto di maggior interesse in tal senso è la convinzione, assolutamente
condivisa, che la digitalizzazione non inneschi soltanto effetti ascrivibili ad un movimento
di globalizzazione: gli stessi flussi comunicativo-informativi (ma non solo) che favoriscono
una sorta di deterritorializzazione32 hanno radicali effetti anche in termini locali, vale a dire
sullo spazio concreto in cui i nodi di queste (ormai non più) ‘nuove’ reti sono stabiliti e
trovano collocazione. Lo schermo di piazza Duomo funziona in effetti proprio alla stregua
di un hub, inserito in un ampio network, ma che a ben vedere agisce – attraverso
l’immagine in movimento – primariamente sul suo intorno. Si tratta di un primo livello al
quale diventa possibile riconoscere la presenza di uno S-I urbano.
Ma il tema della digitalizzazione sollecita anche un altro genere di considerazione. La natura
digitale delle tecnologie a supporto dei dispositivi filmici in ambito urbano aprono una serie
di possibilità di coinvolgimento rivolte a chi fruisce dello schermo che spinge questi ultimi
al feed back, segnando il definitivo distacco rispetto a quelle forme di display tipiche dell’età
moderna, le quali prevedevano al contrario un pubblico fondamentalmente passivo33. La
media-facciata non soltanto si pone come finestra in grado di mostrare un altrove e come
interfaccia che tramite una compagine di flussi può portare il soggetto in un altrove: esso è
dispositivo mediale d’epoca convergente (alcuni direbbero ‘dispositivo post-mediale’) che
trasforma un pubblico di spettatori in comunità di users.
30 In Territory, Authority, Rights: from Medioeval to Global Assemblage (S. Sassen, Princeton University Press, Princeton 2006), l’autrice parla di “imbricazione” tra questi due elementi. 31 Cfr. Idem. 32 Cfr. D. Meyhöfer, An Interview with Prof. Dr. Saskia Sassen, in O. G. Hamm, Metropole 1: Reflexion / Metropolis 1: Reflections, IBA, Hamburg 2007, pp. 150-161; S. Sassen, Reading the City in a Global Digital Age, in L. Krause, P. Petro (eds.), Global Cities, Cinema, Architecture and Urbanism in a Digital Age, Rutgers University Press, New Brunswick 2003. 33 Su questo si vedano almeno M. Fanchi, Spettatore, Il Castoro, Milano 2005 e A. Somaini (a cura di), Il luogo dello spettatore. Forme dello sguardo nella cultura delle immagini, Vita e Pensiero, Milano 2005.
106
In un contesto nel quale la proliferazione degli schermi si manifesta ormai secondo ogni
ordine e grado (pensiamo ai monitor dislocati in punti strategici della città, come crocevia,
stazioni, o anche semplicemente in luoghi d’interesse culturale, come anche in zone dal
grande afflusso in termini commerciali; agli schermi mobili di laptop e smartphone, ecc.), la
peculiarità della mediafacciata sta nel valorizzare l’atteggiamento attivo dei soggetti che con
essa si relazionano, ad esempio fungendo da connettore tra questi dispositivi, ognuno
connotato da uno stile di fruizione e di ‘presenza’ diverso. L’architettura mediale che ne
deriva e l’intricata struttura di collegamenti e scambi che quest’ultima consente in termini
informativi e sociali, arricchiscono evidentemente il tessuto cittadino, entro il quale
l’immagine e la dimensione spaziale da questa aperta vanno ad inserirsi organicamente. In
sostanza, ciò che si realizza è dunque una compenetrazione tra istanze di diversa natura:
elemento tecnologico, informativo-mediale, rappresentativo-simbolico, architettonico si
tessono insieme dando luogo ad una forma ibrida ma integrata, che prende corpo tramite la
visualizzazione sullo schermo e il riflesso che questo riverbera sull’ambiente34. Il design del
luogo che viene così fondato ristruttura l’architettura alla radice. Questa, in effetti, come
anche si è sostenuto accadere per la settima arte,
soprattutto nei periodi di transizione, si rinnova ciclicamente guardando fuori della propria disciplina piuttosto che dentro. Mettendo in tensione categorie tra
loro ossimore. Contrapponendo il duro al malleabile. Il pesante al leggero. Il radicamento alla transitorietà. In queste azioni di contrasto la durata e la
34 Questa idea tradisce una concezione del dispositivo come istanza in grado di ‘disporre’, per l’appunto, di organizzare lo spazio e ciò che in esso si fa presente. Riecheggia dunque una qualità attiva del dispositivo così inteso, manifestando cioè quella che da Latour in poi potremmo definire ‘agentività’. Occorre allora specificare che qui non si vuole mutuare la teoria dell’agency, ma che per ragioni di aderenza all’impianto categoriale che si è utilizzato (cfr. capitolo 1), una certa ‘facoltà dispositiva’ pare essere la cifra distintiva del determinato che entrando nello spazio è in grado di innescare quelle forme di esperienza che trasformano l’ambiente. Questa facoltà dispositiva si esplicita attraverso i meccanismi che si sono individuati (trasformazione dello spazio in luogo a partire dai processi di abitazione, design, arredo), dando luogo a esiti come quelli che i casi d’analisi qui proposti esemplificano. In tal senso, emerge allora una concezione di dispositivo come concrezioni fenomenologicamente e storicamente situate di dinamiche processuali e pratiche, loro configurazioni discorsive e plastiche. Per un confronto con l’impostazione proposta da Latour, si rimanda a B. Latour, Nous n’avons jamais été modernes, La Découverte, Paris 1991 (2009); tr. it, Non siamo mai stati moderni, Elèuthera, Milano (1995) 2009 e Id., Reassembling the Social: an Introduction to Actor-Network Theory, Oxford University Press, Oxford – New York 2005. Cfr. inoltre L. A. Lievrouw, S. Livingstone (eds.), The Handbook of New Media, Sage, Los Angeles – London – New Delhi – Singapore – Washington DC 2006; tr. it. Capire i new media. Culture, comunicazione, innovazione tecnologica e istituzioni sociali, Hoepli, Milano 2007, (cfr. in paricolare il contributo di J. D. Slack e J. Macgregor Wise alle pp. 135-166).
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pesantezza tettonica dell’architettura incontrano materiali e azioni effimere, tra
cui quelle della comunicazione35
e in particolare – per quel che ci riguarda – incontrano le immagini in movimento tipiche
del cinema. Anche qui, allora, ciò che affiora sembra essere uno S-I urbano.
2.4. Per una fondazione dello S-I urbano
Se la presenza di schermi nel contesto urbano costituisce un tema degno di essere
valutato e considerato scientificamente, è perché esso rappresenta un fenomeno che ha
segnato un nuovo modo di percepire, fare esperienza, pensare la città36. Le immagini in
movimento che animano dispositivi come la mediafaçade milanese si pongono infatti come
nuovo materiale architettonico, il quale fa leva sulla propria componente di profonda
dinamicità per collocarsi nel solco della nostra esperienza. Il dato visivo e la costruzione
dell’elemento visuale da esso deriva, sono perciò le sostanze di un vissuto urbano con le
quali il nostro sguardo, e in generale la nostra percezione tout court, si trovano oggi
35 L. Altarelli, Counicazioni immateriali, in L. Altarelli, R. Ottaviani (a cura di), Il sublime urbano. Architettura e new media, Mancosu, Roma 2007, p. 17. 36 Occorre precisare in questa sede che l’interesse per gli schermi urbani è senza dubbio crescente in ambito accademico. In un momento storico e socioculturale in cui la legittimità dei confini tra le aree di studio vengono messe in discussione, di recente fondazione sarebbe anche una disciplina ad hoc, definita per l’appunto ‘screenology’ (cfr. E. Huhtamo, “Elements of Screenology: Toward an archeology of the Screen”, in «ICONICS: International Studies of the Modern Image», n. 7, 2004, pp. 31-82). Si tratterebbe di un filone che si pone l’obiettivo di indagare sistematicamente le radici, lo ‘stato dell’arte’ e le tendenze della dislocazione di schermi nello spazio, benchè sembra appena il caso di osservare che questi stessi temi finiscono inevitabilmente per incrociari percorsi di ricerca che a tutti gli effetti si possono ascrivere a tradizioni di studio ben consolidate come i New Media o i Television Studies, ma anche e soprattutto i Film Studies. Secondo Errki Huhtamo, i filoni di studio citati avrebbero addirittura ‘ignorato’ la tematica degli urban screens nonostante la crescente importanza da essi acquisita (così in id., Messages on the Wall. An Archeology of Public Media Displays, in S. McQuire, M. Martin, S. Niederer (eds.) Urbanscreens: Reader, cit.). Diversi contributi hanno in realtà preso in considerazione la questione, quantomeno nell’ambito dei Film Studies; a tal proposito basti ricordare, ad esempio, P. Bard, “Screenspace”, in «Afterimage - The Journal of Media Art and Cultural Criticism», n. 3, vol. 33, December 2005; L. M. Brill, “Clad with Dreams - LED videoscreens add new outdoor-advertising punch”, in «Signs of the Times», May 2006, pp.98-102; K. Lury, D. Massey, “Making Connections”, in «Screen», n. 1, vol. 40, Autumn 1999, pp. 229-238; W. Straw, “Proliferating screens”, in «Screen», n. 1, vol. 41, Spring 2001, pp. 115-119. È poi significativa la pubblicazione di un numero monografico di First Monday dedicato interamente al fenomeno degli schermi in ambiente urbano (cfr. Urban Screens: Discovering the potential of outdoor screens for urban society, «First Monday», n. 4, 2006. La rivista è consultabile al sito web http://firstmonday.org/issue/view/217 ultimo accesso 11 gennaio 2011). La produzione saggistica menzionata non copre naturalmente i numerosi aspetti valevoli di un’attenzione specifica che una problematica nuova e in rapida evoluzione come quella degli schermi lascia affiorare, ma rappresentano comunque un primo segnale d’interesse da parte delle discipline e delle tradizioni di studio che possiedono gli strumenti e – verrebbe da dire – ‘l’esperienza’ per affrontare finalmente questo tema, sulla scorta di quell’ibridazione e quell’allargamento che si è rilevato in apertura a questo lavoro.
108
inevitabilmente a che fare. Ecco allora che, proprio in quanto materiale percettivo,
l’immagine si integra pienamente all’interno della struttura architettonica predisposta per
darle supporto e corpo, in una tessitura che sta alla base dell’idea di S-I urbano. In altre
parole, “innesti di immagini reali e di immagini di sintesi producono una profondità
visiva”37, la quale si struttura tridimensionalmente e costituisce la materia che dà luogo a
vere e proprie architetture visuali, costruzioni letteralmente fatte d’immagine. In questa
prospettiva, le media-facciate non assumono quindi soltanto un ruolo comunicativo ed
espressivo, bensì si fanno reali piattaforme d’esperienza, poiché finiscono per rappresentare
lo spazio in cui l’emblema della staticità (l’edificio con le sue fondamenta) viene
trasformato in luogo dinamico, addirittura interattivo. Si tratta, in particolare, di un luogo
consacrato all’immagine in movimento e da essa creato conferendo all’architettura una
dimensione transitoria ed effimera che apre l’elemento fisso al cambiamento, rende gli
elementi architettonici materiale d’esperienza, sostanza di luce38 e immagine. Ma come
avviene l’articolazione di questo materiale? Trattandosi di materiale esperienziale, i
meccanismi di strutturazione sono quelli che regolano il funzionamento e lo svolgimento
del processo esperienziale. In particolar modo, come è evidente, ritornano quelle dinamiche
di predisposizione, costruzione, allestimento dello spazio, che divengono qui fondamentali
passaggi per la progettazione dell’architettura urbana, un’architettura che come si è avuto
più volte l’occasione di osservare – essendo costituita di spazi reali e mediali – si può a
buon diritto definire mediatecture.
Le basi di questa particolare struttura architettonica sono da rintracciare in quel
determinato, in grado di innescare quella serie di operazioni che consentono di abitare lo
spazio. Il soggetto che si trova nella piazza di fronte allo schermo, ma lo schermo stesso
rispetto allo spazio che lo ospita, sono nella condizione di poter imporre la propria
presenza, di farsi presenti imprimendo una forma all’ambiente, il quale senza perdere le sue
caratterizzazioni formali diviene così nicchia deputata ad accoglierli. La curvatura dello
spazio, che viene tramutato in luogo assume qui un valore particolare poiché decreta la
trasformazione di un habitat cittadino, appunto, in un luogo del visuale. L’ingresso
dell’immagine in movimento nella piazza e il suo fondersi in essa stabiliscono un’etichetta
per la quale diviene immediatamente chiaro quale sia la pratica per cui lo spazio è (re)in-
37 L. Altarelli, Counicazioni immateriali, cit., p. 26. 38 La stessa Urban Screen SpA si presenta come azienda in grado di produrre proiezioni site-specific in contesti urbani o comunque pubblici, descrivendo la propria attività come “Lumen-tektur”. Per una panoramica sulle forme e l’estetica adottate dagli schermi urbani, si veda poi M. H. Häuler, Media Facades: History, Technology, Content, AV Edition, Ludwigsburg 2009.
109
formato. Si tratta dunque di una disposizione dello spazio attorno al proprio centro
funzionale, che imprime un orientamento e un andamento all’estensione. In seconda
battuta è dunque questo andamento, che prelude una tendenza alla funzionalizzazione, a
trovare una più netta esplicazione: dopo aver predisposto lo spazio, si manifesta infatti
l’esigenza di dargli una vera e propria forma. Emerge in tal modo la necessità di strutturare
il luogo secondo criteri precisi, di regolare cioè la sua costruzione secondo un progetto, un
design. È così che l’esperienza dello spazio urbano si incrocia con l’in-formazione che di
questo impone l’immagine per mezzo dello schermo. Certo, il contesto non forza più ad
aderire ad una rigida etichetta, ma la suggestione nata dall’idea che uno schermo – benché
posizionato nel più emblematico degli spazi outdoor e accostato ad un coacervo di flussi
profondamente variegati – sia ‘il dispositivo della visione’ continua a permanere. Fuori dalla
sala, dunque, non ci troviamo alle prese con un cinema che “costringe l’occhio a indossare
un’uniforme”39, ma con un immagine in movimento fluida che si fa presente come parte
dell’architettura, imbricata organicamente entro il contesto che la contiene e che essa
riadatta sulla sua forma, suggerendo con la sua presenza proprio che quello spazio non è
altro che un luogo di visione. Si opera così un arredo dell’ambiente che risponde a criteri di
funzionalizzazione. In ragione di un design e di un allestimento dello spazio urbano di
questo tipo ciò che si produce sono sostanzialmente le condizioni per fare dell’esperienza
cittadina un’esperienza filmica. Ecco allora che la mediatecture si fa immersiva: lo S-I che si
crea, viene a rappresentare una particolare architettura, la quale dà corpo e sostanza
all’immagine, è configurazione e dunque dà ‘figura’ all’esperienza, estendendo l’istanza
visuale sulla città, per mezzo della tecnologia che supporta lo schermo come dispositivo
mediale.
Proprio entro il luogo dell’immagine che così nasce, la media-facciata amplifica quella
dinamica esperienziale già rilevata (cfr. cap. 1), la quale corrisponde all’apertura che sostiene
il farsi presente nello spazio tanto dell’uomo, quanto dell’immagine. L’allestimento dello S-I
urbano, quindi, riposa sull’organizzazione architettonica delle aree cittadine e dell’immagine
che su di esse va a proiettarsi; le sue operazioni di costruzione piegano dunque lo spazio
progettandolo e servendosi di un ‘design dello sguardo’ alla stregua di un linguaggio
estetico-percettivo in grado in-formare il tessuto urbano, ristrutturando l’equilibrio dei
luoghi, ridefinendone l’aspetto e con esso le funzioni. Lo S-I urbano, allora, imprimendo
una nuova articolazione all’ambiente cittadino, rinnova la città stessa nei suoi rapporti tra
locale e globale, presenza attiva e passiva del soggetto. Il progetto che lo tratteggia
39 Cfr. G. Janouch, Conversazioni con Kafka, Guanda, Parma 1991.
110
conferma per un verso la centralità della piazza come cuore della città e per un altro verso
decreta lo sfrangiamento del centro tradizionale, a favore di una molteplicità di nodi,
allontanati o viceversa resi prossimi, dai flussi che si articolano in senso centrifugo o
centripeto rispetto allo spazio.
Configurazione evanescente e al contempo sostanza dell’esperienza filmico-visuale in
ambito cittadino, lo S-I urbano affiora da piazza Duomo, mostrandosi come zona
sperimentale di visualizzazione40 ed esperienza. Il design che gli conferisce forma, infatti,
innesca nuove relazioni ed esprime un progetto di senso che si sostanzia nello spazio per
mezzo dell’immagine.
40 Cfr. M. Struppek, "Urban Screens - The Urban Potential of Public Screens for Interaction", in Interactive City, «Intelligent Agent», n. 2, vol. 6, 2006.