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Carillon di Emanuela Mercuri

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La raccolta “Carillon”, nata inizialmente con il titolo di “Lacerazione” e successivamente con il titolo di “ Nel tempio di Ermete”, è frutto di un lungo lavoro sul carattere evocativo della parola.

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EMANUELA MERCURI

C a r i l l o n

Raccolta poetica

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Copyright © 2011 CIESSE Edizioni Foto di copertina © 2011 CIESSE Edizioni

Carillon di Emanuela Mercuri

Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l’utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a: CIESSE Edizioni Servizi editoriali Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) Telefono 049 78979108/8862964 | Fax 049 2108830 E-Mail [email protected] P.E.C. [email protected] ISBN 978897277569 Collana BLUE Versione eBook http://www.ciessedizioni.it

Quest’opera è stata pubblicata dalla CIESSE Edizioni senza richiedere alcun contributo economico all’Autore.

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BIOGRAFIA DELL’AUTORE Emanuela Mercuri nasce a Polistena (R.C.) il 16.05.1983. Dopo aver conseguito il diploma di Liceo Classico all’Istituto Vincenzo Gerace in Cittanova, si trasferisce a Torino, ove consegue la Laurea in Studi Internazionali, Facoltà Scienze Politiche (vecchio ordinamento, D.to Leg. 509,99) con la tesi “Norimberga: coscienza storico internazionale dei crimini di guerra, contro la pace e contro l’umanità”. Attualmente è iscritta al Corso di Laurea Magistrale in Scienze del Governo e dell’Amministrazione. Dopo varie esperienze formative e lavorative, attualmente gestisce le relazioni esterne dell’Associazione Italia – Bosnia Erzegovina www.assitabih.com. L’approccio alla letteratura avviene nell’infanzia grazie all’influenza genitoriale e scolastica che hanno spinto la piccola “Emy” a leggere Giacomo Leopardi e Frederich Nietzsche, molto presto. Il momento cruciale nella sua formazione arriva al Liceo, ove, la forma mentis è stata definita dalla letteratura filosofica, da Stendhal, da James Joyce, del quale lo Stream of consciousness la colpì talmente tanto da spingerla a scrivere di suo pugno i primi racconti. Alcuni degli stessi furono letti dai docenti, che la invogliarono a leggere Charles Baudelaire, Edgar Allan Poe, Arthur Rimbaud, non dimenticando Oscar Wilde. L’esistenzialismo e l’orrore che stava alla base del maledettismo poetico, la spinsero a scrivere una tesina di Diploma sul male di vivere tra 1800 e 1900, analizzato poi nello scoppio delle guerre mondiali. Alla fine dell’adolescenza, si iscrive al Corso di Studi

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Internazionali senza mai abbandonare la letteratura, utilizzando per la tesi di laurea, oltre all’analisi storica degli esperti, il grido silenzioso di Kafka, come testimone dell’orrore del novecento. Contemporaneamente ai viaggi in Francia e in Repubblica Ceca, negli ultimi 5 anni, in un sempre più fitto ventaglio di pensieri e di flusso di coscienza è partito il primo romanzo che si pone come specchio della volontà centralista delle idee e delle speranze in una visione acuta e dolorosa della società, della politica e dell’amore.

BIBLIOGRAFIA 2010 – Anatolij Ljiupanov, Romanzo Noir Gotico (CIESSE Edizioni)

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Al mio Editore e Maestro, del quale spero di aver esaltato la pazienza

e l’ eclettismo,

pensatore sagace che ha seguito questo lavoro con

la lungimiranza e

la sapienza dei maestri del passato, che cari mi

furono durante i miei studi classici.

Alla mia grande Famiglia che

mi ha insegnato che lo studio più arduo

si ottiene con la semplicità di una melodia,

l’attesa e l’occhio vigile del sapiente e l’ispirazione

del poeta.

Al mio Amore,

grazie di camminare con me.

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C A R I L L O N

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LACERAZIONE

I

Il sentiero progrediva verso la tua voce muta.

Mi sussurrava pensieri e parole di una vana vita perduta.

Nelle lacrime accarezzavo la nuda e fredda roccia che circondava la tua dimora,

schiacciata.

E come un petalo rinsecchito, piegavo la mia anima in un fazzoletto di miseria.

Quanto io abbia mai scritto di te?

Quante notti hanno lacerato la mia mente con immagini sfocate?

Non siamo più.

Un falso romanzo senza impeto né passione.

Un mantello nero come lenzuolo di desiderio.

Quanto fui stolta! E quanto illusa fossi nel credere nell’eternità di un palpito di una mera pompa!

Un volo di fringuello, un cinguettio di usignolo.

E poi, eccolo maestoso, il corvo!

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Troppo presto? Troppo tardi? O forse il giusto monito per un peccatore che ti amò come fossi un

Dio.

Rinnegata la mia anima nella terra, crescono rose e non più spine.

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II

Mi trovai mio malgrado, in un cassetto di memorie, delle quali i volti non mi appartenevano.

Mi disse la donna: “Credi di aver potere, su questa mente colpita dal sonno?”

Rise.

Uscì.

Vidi l’uomo sedere e cibarsi di rami umidi.

Divenni un paradosso! Lacerata nel compianto, mossi un passo e poi un altro.

Omicidio dell’innocenza, vittoria del tormento.

Ma chi ascolta il sole, dopo l’addio della pioggia?

Chi merita?

Siedo sulle ombre della povertà, ubriaca di vini scadenti, in bettole lugubri.

Ride la solitudine, si compiace la melanconia.

Voltati anima mia!

Osserva gli occhi di chi indiscreto lascia che il corpo soffochi, affogato nell’acqua del parto.

Vivere e morire.

Crescere e invecchiare.

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Ah! Quanto vorrei essere una nube per comprendere i pensieri di Dio!

Chino il capo. Sospiro.

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III

Nel mezzo di un inverno sconcertato nel cappio di un condannato,

un sorriso gemeva su un muro.

Purpuree le labbra, come se Afrodite le avesse dipinte con il sangue di Era,

danzava pio Eros al suon di Pan.

Mistiche note al mio orecchio ignavo, arte mia il silenzio.

Oceano e montagna, al cospetto di Poseidone. La luna si vestiva di sonno e confondeva la mente

agli uomini.

Passati e futuri, perduti negli atomi di un istante, rubato ai messaggeri marziali.

Ai canti sulfurei dell’Averno, là, fuoco fatuo.

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IV

BALLATA PER I FANTASMI

DELLA GUERRA.

(dedicata a chi non ha medaglie, ma solo silenzio)

La nebbia offuscava gli occhi.

Continuava a camminare stremata.

Non comprendeva che la prova più ardua, non era sopportare il gelo,

né la cecità del tempo,

ma portare come un novello Atlante, il mondo.

Il suo,

ma esso sembrava non esistere.

L’inesistenza, il divenire, un nulla senza comprendere neanche la sua primordiale origine,

era agonia di vivere e morire.

Rallentava.

I polsi si bloccavano e le mani si strinsero in una morsa di prigionia.

Teneva strette a se le sue stesse catene,

il carceriere inseguiva la sua mente

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persino dopo la sua stessa morte.

Paura...

Paura forse di non credere

di poter vivere.

Le nebbie si dissolsero e dietro la cortina di nebbia,

si mostrò fiero il sole.

Il tepore sembrò bruciare il suo viso sporco di sangue.

Nella fretta di fuggire inciampò sul cadavere di un uomo.

Si voltò per vedere il suo volto.

Era un bambino.

Confusa e quasi stupita, scostò dal viso del bambino, il crine.

Gli occhi verdi sbarrati mostravano Paura.

La gola sembrò volerla strozzare e gli occhi uscirle dalle orbite.

Suo figlio le fu di inciampo nella fuga.

Toccò il capo del puere con gentilezza.

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La violenza le aveva tolto persino la pietà delle lacrime.

Una voce.

Si alzò, corse ancora.

Giaceva a terra, sotto il tiepido sole che invano cercò di mostrarle la strada, i suoi occhi si chiudevano,

piano piano.

Legata, schiacciata da corpi viscidi e menti bruciate dall’alcol.

Un respiro.

Si chiusero, i suoi occhi si chiusero...

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V

STAGIONE MARCIA

Deh! Guardai a lungo il suo volto, mi venne incontro come una vergine immortale.

Le braccia sollevate nel sussulto di un raggio di luna.

Mi trapassò l’anima.

Lacerata come un cadavere all’inizio del suo marcire.

Che io possa andar lontano, sulle spiagge del tramonto,

bruciato il viso, rotte le mani,

uno stigma in cui nascondere qualcosa di malvagio.

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VI

DISGUSTO E DISPREZZO.

La penna correva sulle pagine innevate.

Di fronte ai lacrimosi occhi,

rimembravo il dolore di mia madre.

La corda mi stringeva il collo, il primo respiro solo per morire.

Oh cielo! Getta sul mio capo il disprezzo degli dei, se amar vuol dire morire, io sono

un cadavere!

Il carnevale, le maschere mi sorridevano mentre rigurgitavano.

Vomitavano il veleno dei miseri.

L’inferno ha voce del disgusto, le acque di un fiume cullano la tribolazione di vergini suicide, nel letto

dello stupro.

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VII

IN PACE

I giusti vestiranno il pallore celeste.

Nella notte, l’agnello aprirà, oltre le infinità, i sigilli rinnegati all’umana natura.

Nell’abbraccio di un lenzuolo, accoglie l’angoscia di un urlo la madre Astarte.

Sacrifici per idoli, nell’era della polvere.

Risorgono, ora, dalle ceneri, i volti della carne.

La bilancia brilla di germe di grano, spezzati i diamanti di sangue saranno.

Desolato il cuore mio, nell’osservar la stanchezza della fatica.

Sonno, in pace.

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VIII

TEMPESTA.

Degna di compianto, trapassai il Lete.

Sul vascello di Caronte, una voce nel silenzio della tomba.

Ermete mi richiamava a una razza oppressa.

Delirio mio, tempesta, tra i flutti dell’Averno.

Un bambino suonava la cetra, cinto il capo di alloro, quiete per l’anima.

Mi disse cordiale: “Ove, tremula anima, prosegui?”

Io risposi: “Nell’Averno, per cercar ristoro.”

Ed egli staccò una corda. Riprese: “Ristoro dalla consolazione?

Perché l’ausilio delle anime rinnegate, è la stessa madre della misericordia.

Mescolare la misericordia con la convenienza, risuona come un musicista che tenta di dar colore

alle note del suo strumento!”

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“Perché, le parole non hanno forse, gusto e colore?”

“Acuto cervello, atomi vorticano più veloce delle leggi del mondo, nel tuo spirito

non vi è ragione, né pentimento in te. Va e lascia la consolazione a chi non pone misura nella pietà.”

Egoista cuore.

Tremendo impeto, superbo poeta io sono, nel lasciare la pietà nell’abbandono,

come una gatta con i suoi piccini!

Libera me…

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IX

LIBERA ME

Libera me, oh universo, dalla follia.

Libera me, dal coraggio dell’impavido.

Io non son nulla, un albero sempre verde abbattuto prima della fioritura.

Acido il cervello, il fegato inasprito,

se fossi davvero un albero, sarei un limone.

Libera me, dalle spine della conoscenza.

Libera me, dalle carcasse delle inezie.

Libera me, dal caldo soffocante della luce.

Cantami di dei immortali, di fratelli caduti,

di orme di giganti, del Tartaro e dei suoi Niphilim.

Mi lascerai, qui.

Io ho paura.

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X

Rimembro le stelle.

La notte brillava nel suo vuoto igneo.

La fine della strada, una spina nel fianco.

Ero con te.

La luce del giorno mi diceva quanto grande era il sogno che tu eri.

Cadevo nell’oblio.

Chi può dire dove io vado?

L’umana natura nulla può dire, corrodendo il cuore nel petto.

La pioggia cadeva mentre io ero con te.

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XI

Sull’orlo del gemere tuo, attendevo una risposta al dilemma mio.

Gli occhi miei, neri, oscuravano la tua luce morente.

I desideri cadranno dalle mani,

come vasi già al loro nascere, infranti.

Addio!

Addio alla maschera!

I desideri cadranno sotto i miei piedi blu.

Li schiaccerò.

Oh, falsa luce di un fiore che muore sotto la neve!

Addio!

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XII

Il sole cala al di sotto della testa di Atlante.

Osservo la tenebra risalire l’aurora.

La terra, desolato posto,

gettato, immonda anima.

Nel suffragare una preghiera a santi protettori,

bevo eresie di fango.

Le spine di Cristo mi circondano le cellule.

In ginocchio di fronte a un muro, attendo il vascello della memoria.

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XIII

Lo Stige, l’insano poeta.

Un tempo metter inchiostro su carta era struggente bellezza.

Vino e ambrosia, l’assenzio e le rose.

La voce che richiama da antiche favole,

divorate le viscere dai lupi

e Tacito ammirava i barbari.

Oh, da melma e paludi, l’ancestrale mio spirito trova origine e sangue.

L’oro delle spighe mi dilettano.

I fumi dell’alcol, l’essere e l’apparire.

Chi potrei essere io giammai?

Muscolosa e secca la mia lingua,

aspira la voce della passata Messalina.