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Carolina M. Scaglioso VIOLENZA DOMESTICA Una perversione sociale ARMANDO EDITORE

Carolina M. Scaglioso · mettere che l’uomo sia l’essere ideale della creazione e debba servire da unità di paragone. La donna non è né superiore, né inferiore; è quel che

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Carolina M. Scaglioso

VIOLENZA DOMESTICA Una perversione sociale

ARMANDO EDITORE

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Sommario

Premessa 7

Parte primaPer chi suona la campana? Il quotidiano e il vissuto: 15una realtà piena di ombre

1.1 Dati in movimento 151.2 Modelli, pratiche, messaggi: una realtà piena di ombre 321.3 Parole e violenza 53

Parte secondaLa violenza domestica: una icona, un segno, 57una contraddizione

2.1 Violenza domestica. Gli attori: vittima e abusante 572.2 Violenza domestica. La trama 642.3 La colpa della donna abusata 74

2.3.1 Il livello socioculturale come aggravante 752.3.2 Eppure restano 772.3.3 La patologizzazione: condanna per la donna, scappatoia 85 per il colpevole

2.4 Quando la violenza è il Sé 90

Parte terzaUna cultura e un ambiente che nutrono la violenza 100

3. Una perversione sociale 1003.1 Una mutazione antropologica 102

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3.2 Tempo, precarietà, morte 1053.3 L’etica della sopraffazione 1073.4 Analfabetismo affettivo e alessitimia 1143.5 Media e società: responsabilità in relazione 119

Parte quartaIl bisogno dell’Altro 128

4.1 Il valore di Sé, il valore dell’Altro 1284.2 Narrazione e vita, tra formazione e terapia 1444.3 La cura 157

Per concludere. L’utopia della formazione 163

Bibliografia 166

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Premessa

Ci sono momenti nella nostra vita che azzerano ogni percorso di crescita, e ci affogano in uno spaesamento in cui nessun Sé è più rin-tracciabile; le conquiste identitarie si dissaldano e si fanno instabili oltre ogni sostenibilità, e senza rendercene conto non si è più con-sapevoli dei nostri confini allentati e della nostra permeabilità. Tutte le persone e tutto ciò che incontriamo in questi momenti (momenti che possono durare anni) ci trova imberbi ed esposti come stracci che sventolano in balìa di ogni intemperie che abbia deciso di strapparli ancora di più. Quando l’uragano è passato, lo straccio si posa, e aspet-ta una mano capace di scuoterne via i residui di sporco, di rammendar-lo con rispetto e amore. Anche noi esseri umani non siamo capaci di ripararci da soli: abbiamo bisogno di un mondo di relazioni schiette, non contraffatte, agìte senza superficialità e senza secondi fini, che possono rivelarci il dolore immeritato in cui siamo affogati ma anche suggerirci che abbiamo la possibilità e possiamo avere la forza di ri-emergerne. Soltanto in un contesto fatto da relazioni tali, un contesto comunitario, ci è dato ricreare, al posto della narrazione in cui si è vissuti come succubi, un testo inverso, una riscrittura della nostra vita capace di farci rinascere non per quelli che eravamo ma per quelli che siamo. Non vogliamo permettere a un lutto o a un grave abuso di can-cellare il nostro essere al mondo, e al tempo stesso abbiamo bisogno di certificarci che l’esperienza del male che abbiamo attraversato ci ha come vaccinato, perché non permetteremo che succeda più. Narrarla vuol dire esorcizzarla, per continuare a vivere.

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In un secondo momento, quando la polvere è ormai posata, emer-ge la necessità di condividere di fronte a una collettività più ampia, come se sentissimo la responsabilità di dover partecipare quello che ci ha straziato e che sappiamo può tormentare e rovinare anche gli altri: il male e il dolore esistono, e per primi a noi più che a degli ipotetici lettori serve mettere in fila le parole per cercare risposte alla nostra esperienza di dolore. Si pone il problema della possibilità o meno di comunicare le esperienze traumatiche forti a chi ha vissuto e vive nella regolarità delle contrarietà quotidiane; forse è oggettiva-mente impossibile fare testimonianza comprensibile e condivisibile del male, in un contesto culturale che da una parte invita costan-temente a rimuoverlo, dall’altra parte invece lo spettacolarizza su orizzonti estremi che indiscutibilmente ci attraggono: dalle serie di Criminal Minds e Fox Crime, che vantano schiere di fedelissimi af-fascinati dal male assoluto che emerge dalle situazioni più normali, alla diffusione del genere horror, che in una sorta di rito tra il sov-vertitore e l’apotropaico finisce per stemperarsi nella moda dell’ab-bigliamento e degli accessori gothic. Questi comportamenti parlano della necessità di strappare il male dalla sua indicibilità e restituirlo al narrato, nonostante il (e forse a causa del) disincanto riguardo a questi temi che caratterizza la nostra società postmoderna; perché ci sono eventi che, non narrati, precipitano persone e situazioni nell’a-bisso. Sarebbe ingenuo pensare di poter scrivere un prontuario del male, eppure continuiamo a sforzarci di trovare le parole, non fosse altro che per intercettarlo se anche non siamo capaci di prevenirlo, o almeno cercare di farsene una ragione. Quello che è stato resta, il raccontare non cancella, ma è pur sempre l’urlo tenuto rappreso per tanto tempo, il lampo che è passato attraverso la feritoia e ora per-mette di abbattere il muro della solitudine, di farci vedere che non si è soli, e di scoprire insieme agli altri il nome del buio che ci ha per un po’ annientato. Condividere la vulnerabilità, la volontà di riscatto, il desiderio della felicità che sappiamo di meritare è il primo passo; impariamo a maneggiare il fuoco rovente dei nostri ricordi trami-te parole capaci di risuonare nei ricordi dei nostri simili, e insieme decidiamo che non è il caso di sorvolare, di accettare, di tacere, se

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vogliamo vivere come persone. Abbiamo varcato il confine, e ne siamo ritornati: è questo passaggio quasi sacrale a una seconda vita che sentiamo la necessità di testimoniare, senza rinnegare la paura che a volte si riaffaccia, il dolore che continuiamo a ricordare ma che non ci soffoca più.

Non basta: il processo di autocoscienza richiede un passaggio suc-cessivo, che va oltre la traversata degli accadimenti particolari che ci riguardano; ci sentiamo interpellati a una presa di posizione più deci-sa, sentiamo il bisogno di interrogarci su quanto è accaduto allargando lo sguardo oltre la nostra esperienza limitata per quanto significativa. “Parlare significa […] nuovamente dire il mondo”, ricomprendersi a partire dal confronto con il mondo che il testo ci rivela attraverso il suo potere rifigurativo che è tanto maggiore quanto più ampia è la distanza dal momento configurativo dell’esperienza (Ricoeur 1995: 53*).1E allora l’ultimo passaggio, quando già siamo capaci di guardare la rabbia, i ripensamenti, l’angoscia di quanto vissuto dall’alto della collina, consiste nell’analizzare i nostri fatti che quasi ormai sentiamo storia comune degli altri, e cercare di trovare risposte nel mondo che abbiamo intorno: riorganizzato il nostro quaderno interiore, vogliamo cercare le risposte ai perché più grandi e provare a tracciare non tanto quadri di sintesi, ma sentieri percorribili perché quello che è accaduto e che accade non accada più, e non soltanto a noi.

Questo saggio tratta aspetti della violenza perpetrata dagli uomini in quanto maschi contro le donne in quanto femmine, e non si occupa della violenza agìta da donne contro uomini. Non si nega l’esistenza e la possibilità di abusi per mano femminile: la violenza contro le donne, tuttavia, le ha rese vittime per secoli, è stata culturalmente e socialmente accettata, e costituisce ad oggi un fenomeno che in tutte le sue forme supera in percentuale statistica e in gravità la violenza delle donne contro gli uomini. Le donne hanno sempre avuto difficoltà, e soprattutto nelle culture mediterranee, a individuare obiettivi comuni, a sentirsi e fare gruppo: si sono unite quando hanno preso consape-

* Le citazioni riportano l’anno di uscita dei testi, in nota bibliografica segnate tra parentesi nella citazione estesa; le pagine sono quelle dell’edizione italiana in nota bibliografica.

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volezza del loro squilibrio di potere rispetto agli uomini, quando non hanno più accettato che la loro appartenenza di sesso fosse utilizzata per discriminarle, sminuirle, sottopagarle, per far loro violenza. “Il primo animale domestico dell’uomo è stata la donna. Non posso am-mettere che l’uomo sia l’essere ideale della creazione e debba servire da unità di paragone. La donna non è né superiore, né inferiore; è quel che è. E tale qual è non v’ha ragione ch’essa si trovi in condizioni inferiori” (Kuliscioff 1894). Dietro il perpetrarsi degli abusi contro le donne e la rassegnazione ad essi ci sono motivazioni antropologiche, sociali e culturali, e meccanismi psicologici che rendono difficile e complesso l’intervento che intende combatterli.

Il presupposto della mia riflessione resta che la violenza contro le donne non è una questione femminile, da affrontare e risolvere tra donne, ma una questione di tutti, e prima di tutto un problema del maschio, cui va ricondotta la responsabilità sia dei comportamen-ti violenti sia del suo possibile cambiamento attraverso un percorso serio e strutturato. Trovo che l’idea del cambiamento debba essere sottolineata per gli uomini che vogliono uscire dalla loro condizio-ne di violenti, ma temo anche che possa risultare ambigua per molte delle donne maltrattate dal loro compagno, che anziché denunciare e allontanarsi immediatamente continuano a scegliere di restare, in silenzio, aspettando il cambiamento. Affermare che c’è la possibilità di un cambiamento non vuol dire che il cambiamento ci sia sempre, e il lavoro è arduo quando si interviene su personalità stratificate nel-la violenza. Per le stesse ragioni, i fattori correlati all’insorgere della violenza, pure presenti lungo la trattazione del presente saggio, non costituiscono mai giustificazione, non sollecitano nessuna tolleranza: in ogni situazione vissuta da ognuno di noi, il nostro comportamento è coagente a fattori socioeconomici, culturali, psicologici, o fosse pure psicopatologici che ci definiscono, ma è anche vero che non tutti quel-li che hanno in comune una stessa storia sviluppano una narrazione di violenza perpetrata.

Il saggio non tratta programmaticamente aspetti che riguardano la violenza assistita, e inoltre, all’interno delle molteplici forme di violenza che vedono vittime le donne, tratta esclusivamente aspetti della cosid-

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detta violenza nella relazione d’intimità1 (che da ora in poi per brevità chiamerò sempre violenza domestica o violenza), partendo dall’assun-to che chi offre consigli per far funzionare la coppia quando ci sono episodi di violenza (di ogni tipo) è responsabile delle conseguenze di quella violenza (e di quelle che seguiranno) al pari dell’attore stesso.

La violenza domestica è il tipo di violenza più subdolo e vigliacco, ancora minimizzato o addirittura accettato, a volte dalle stesse vittime, e comunque sempre il più difficile da individuare subito per quello che effettivamente è, fino a che non si giunge all’epilogo fulminan-te. Nell’ambito della violenza domestica è sempre presente insieme alla violenza fisica anche la violenza psicologica, a volte anche quella sessuale, e anche economica2. Può capitare che subiscano violenza donne con compagni che si comportano in maniera violenta anche fuori dalla relazione intima, magari con difficoltà giudiziarie o coin-volti in affari malavitosi. Possono capitare uomini che riversano esclu-sivamente sulle donne che hanno accanto le insoddisfazioni e le mise-rie di una esistenza priva di riconoscimenti e segnata dalle ristrettezze

1 L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1996 ha definito violenza domestica “ogni forma di violenza fisica, psicologica o sessuale e riguarda tanto soggetti che hanno, hanno avuto o si propongono di avere una relazione intima di coppia, quanto soggetti che all’interno di un nucleo familiare più o meno allargato hanno relazioni di carattere parentale o affetti-vo”. Ci si riferisce dunque al tipo di relazione che intercorre tra l’abusante e la vittima, e non al luogo in cui avviene la violenza. Con violenza nella relazione d’intimità si intendono “le violenze che avvengono ad opera di partner o ex partner, quindi all’interno di una relazione amorosa/sessuale, qualunque ne sia il livello di intensità e a prescindere dalla convivenza”. Rispetto alla violenza domestica, la definizione di violenza nella relazione d’intimità dà ulte-riore enfasi al contesto relazionale delle violenze, alla relazione che intercorre fra due persone che dovrebbero avere una progettualità comune. La violenza nelle relazioni di intimità è l’e-sercizio di potere e controllo sul partner o ex partner diretto a fargli del male, nell’immediato o ripetuto nel tempo, l’esercizio sistematico di violenza, insomma, diretto a ferire, intimidire, terrorizzare e brutalizzare (Feder 2008, cfr Creazzo-Bianchi 2009: 18), erosivo nella sua con-tinuità quotidiana.

2 Si usa distinguere tre forme di violenza: quella fisica (per gravità ascendente: essere minacciata di essere colpita fisicamente, essere spinta/ afferrata/ strattonata, essere colpita con un oggetto/ schiaffeggiata/ presa a calci, pugni o morsi, subire un tentativo di strangolamento, di soffocamento, di ustione e la minaccia con armi); quella sessuale (stupro, tentato stupro, molestia fisica sessuale, rapporti sessuali con terzi, rapporti sessuali non desiderati subiti per paura delle conseguenze, attività sessuali degradanti e umilianti); quella psicologica (deni-grazioni, controllo dei comportamenti, strategie di isolamento, intimidazioni). Le limitazioni economiche subite da parte del partner appartengono al terzo tipo di violenza, per quanto a volte vengano considerate violenza a sé stante.

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economiche, sfogandosi su vittime su cui è facile provare la propria superiorità. Ma ci sono anche molti casi di uomini normali, spesso be-nestanti e che godono di una certa rispettabilità sociale, che esprimono la loro fame di controllo e di potere, la loro incapacità di relazionarsi e di vivere, attraverso la violenza sulla loro donna; le vittime della vio-lenza di questi uomini diventano capri espiatori dei rancori antichi e delle sconfitte esistenziali del loro compagno: la violenza psicologica è esercitata con maggiore competenza, la violenza fisica con maggiore attenzione alla visibilità. Non a caso negli ultimissimi anni, nell’otti-ca della prevenzione dei femminicidi, si è cominciato a studiare con interesse più attento sia il cosiddetto sommerso, sia la dinamica delle violenze psicologiche, queste ultime uno dei fattori utili a mantenere la vittima nel silenzio: una fitta rete di soprusi quotidiani che sapiente-mente riducono la vittima in uno stato di soggezione e sottomissione, più difficile da individuare e a volte anche da ammettere nella sua ferocia, profondamente distruttiva.

In ogni modo, i dati statistici di ogni regione testimoniano che il compagno o comunque la persona legata da una relazione sentimenta-le è l’aggressore principale (le percentuali parlano di 1 sola violenza su 100 a opera di sconosciuti, e di un 61 per 100 di violenza consu-mata dentro le mura domestiche), ed è anche quello più spietato: qua-si sempre le violenze avvengono in casa, nella maggior parte in una famiglia normale, a opera di uomini normali e su donne normali. La violenza è frequentemente multiforme e di tipo reiterato (78 per cento dei casi). Il 13 per cento delle donne ha subito violenza domestica per periodi tra i dieci e i venti anni, per più di venti anni l’11 per cento. Il femminicidio, in questo quadro, non è che la fiamma definitiva di un omicidio identitario più o meno tirato per le lunghe.

Coerentemente agli intenti esplicitamente dichiarati in questa pre-messa, il saggio consiste in una riflessione che si è avvalsa di con-tributi di ricerca e di dati, questi ultimi quanto possibile aggiornati e recenti, tutti rintracciabili nella nota bibliografica. A tali studi rimando per analisi approfondite. Nel corso della riflessione e nei riferimenti utilizzati si noterà il co-housing di studi afferenti a campi di indagine

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differenti: dalla sociologia all’antropologia, alla psicologia, e soprat-tutto alla psicoanalisi, alla psichiatria, alle neuroscienze, oltre agli studi più specificatamente detti di genere, dalla pedagogia alla lette-ratura. Credo in una riflessione pedagogica aperta alle teorie unificate della mente, ho fiducia soltanto in una educazione come programma di ricerca esperienziale continua, capace di svilupparsi all’intersezio-ne delle differenti scienze che operano per fare dell’uomo un soggetto che possa dominare e governare la multiformità in continuo cambia-mento, riflettendo sui luoghi, sui tempi, sui modi e su quanto di que-sti universi di conoscenza sia controllabile e possa trovare risposta e relazionarsi con i meccanismi del nostro cervello, permettendoci di fare nostri gli strumenti che ci servono per metterci in condizione di muoverci senza farci seppellire dal magma delle umane esperienze (Scaglioso 2008): una teoria unificata in cui le emozioni condividono con i fenomeni cognitivi comuni metodi di ricerca.

Pertanto, sono sì consapevole che, soprattutto su un tema quale quello affrontato (storicamente impostato secondo parametri collettivi che privilegiano il genere di appartenenza prima delle storie persona-li), porre le questioni anche in termini individualistici e psicologici piuttosto che politici, economici o sociali rischia accuse di psicologiz-zazione, di depoliticizzazione a sostegno dello status quo e dei rappor-ti di potere dominanti. Di fronte all’epidemia che ci strazia, tuttavia, non vedo altra strategia possibile al di fuori di un tentativo multipro-spettico e interdisciplinare (lontano esso per primo da suggestioni bi-narie) in cui una riflessione sociale sulla violenza contro le donne non escluda la riflessione in termini psicologici e psicoanalitici.

Ho constatato anche il pericolo insito nel rivolgere una attenzione analitico-terapeutica propria della psicoanalisi non tanto alla dimen-sione individuale ma al contesto sociale in cui e su cui ci strutturiamo come persone, e ho rilevato la difficoltà, in una sintesi di questo tipo, di contaminare concetti, categorie interpretative e metodi propri di un campo di ricerca quando li utilizziamo su terreni che non sono loro propri. Resto convinta che ne valga la pena.

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Il saggio si apre con un breve excursus (parte prima) che riguar-da l’insieme dei provvedimenti legislativi e degli interventi messi in atto sul territorio; si circoscrive poi l’insieme delle contraddizioni pre-senti nel contesto socio-culturale che ci appartiene, il quale insieme, riguardo soprattutto alla tipologia di violenza che ci interessa (parte seconda), si muove su un piano di estrema ambiguità sollecitando un tessuto di reazioni sostanzialmente giustificatorie per il maltrattante, colpevolizzanti per la vittima.

Nel proseguire la riflessione, mi sono mossa su due direttive. Nella terza parte intendo suggerire che la violenza del maschio nelle attuali contingenze possa essere strettamente legata alla progressiva narcisiz-zazione dell’uomo, come suggerisce l’approccio psicologico classico che tende a rinvenire nella scarsa stima di sé le radici dei comportamenti violenti; credo tuttavia che la profonda crisi vissuta da maschi ango-sciati dalla propria impotenza che cercano di controllare e sottomette-re la compagna come rimedio alla scarsa stima di sé e all’aggressività strutturale che li accompagna non sia risolvibile all’interno di conte-sti sociali e culturali intrisi di contrapposizioni binarie; c’è bisogno di rivoluzionare dall’interno la nostra realtà formativa che, anziché tendere al superamento degli aspetti dicotomici, sostiene e supporta svariati analfabetismi (tra cui l’analfabetismo affettivo), ed è, narcisa e perversa essa stessa o no, comunque profondamente ammalata.

Nella quarta parte, di conseguenza, cerco di giustificare due assi di intervento utili non soltanto per il trattamento dei soggetti maltrattanti e delle vittime, ma anche per definire percorsi educativi che formino all’alleanza e non al conflitto: la necessità non rimandabile di educare l’intelligenza emotiva sia dei maschi sia delle femmine, e a questo scopo l’utilizzo dell’approccio narrativo, risorsa preziosa in ogni fase della formazione fin dalla più tenera età, sia a scopo preventivo nei percorsi curricolari delle scuole di ogni ordine e grado, sia nel recupe-ro delle vittime della violenza.

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Parte primaPer chi suona la campana? Il quotidiano e il vissuto: una realtà piena di ombre

1.1 Dati in movimento

Il codice penale italiano presenta strumenti normativi adatti a pre-venire e sanzionare i comportamenti illeciti che si riscontrano nelle situazioni di abuso domestico3: gli strumenti sono numerosi, discipli-nati nei vari testi, dal codice penale al civile fino alle leggi speciali,

3 Si fanno notare tra gli altri i seguenti reati del codice penale: articoli: 570 Violazione degli obblighi di assistenza familiare; 571 Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina; 572 Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli; 575 Omicidio; 580 Istigazione o aiuto al suicidio; 581 Percosse; 582 Lesione personale; 583-bis Pratiche di mutilazione degli organi genita-li femminili; 594 Ingiuria; 595 Diffamazione; 605 Sequestro di persona; 609-bis Violenza sessuale; 609-octies Violenza sessuale di gruppo; 610 Violenza privata; 612 Minaccia; 612-bis Atti persecutori; 616 Violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza; 617 Co-gnizione, interruzione o impedimento illeciti di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche; 617-bis Installazione di apparecchiature atte ad intercettare od impedire comuni-cazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche; 660 Molestia o disturbo alle persone. Una volta riconosciuta la responsabilità penale, il codice di procedura penale riconosce inoltre pene accessorie. Meritano un cenno, tra le altre, le misure cautelari coercitive [quali il divieto di espatrio (articolo 281), l’obbligo di presentazione periodica alla polizia giudiziaria (articolo 282), l’allontanamento dalla casa familiare (articolo 282-bis), il divieto di dimora (articolo 283), l’obbligo di dimora in un dato comune (articolo 283), gli arresti domiciliari (articolo 284), la custodia cautelare in carcere (articolo 285), la custodia in luogo di cura (articolo 286] e le misure interdittive che impediscono o limitano l’esercizio di diritti e facoltà del soggetto in causa. L’articolo 288, ad esempio, prevede la decadenza e la sospensione dall’esercizio del-la potestà genitoriale e la privazione di ogni diritto di rappresentanza e amministrazione degli interessi e dei beni dei figli; l’articolo 609-nonies tratta l’interdizione perpetua dagli uffici attinenti alla tutela ed alla curatela. Al reato di atti persecutori (stalking) il recente articolo 282-ter ha aggiunto il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.

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e si trovano nella formulazione iniziale dei codici che sono stati suc-cessivamente ampliati e modificati in conseguenza dei mutamenti verificatisi nel tessuto sociale. Molti degli interventi normativi sono stati elaborati in risposta agli aspetti contingenti del fenomeno, per quanto in un primo momento non fossero ancora sostenuti da analisi strutturali di livello sistemico. I primi dati sugli omicidi di genere, in-fatti, si hanno in Italia nel 2006. Risale soltanto al 1992, d’altra parte, anche il conio di una nuova categoria criminologica, il femminicidio, che definisce l’atto di violenza definitiva da parte di un uomo con-tro una donna perché donna4. Il femminicidio, dal 1992 in poi, non è sinonimo di assassinio, ma racconta di una morte che è l’esito di atteggiamenti o pratiche sociali misogine: denuncia le responsabilità diffuse, sottese o meno, in un tessuto sociale che rende le donne sog-getti facilmente subordinabili, su cui sfogare le istanze di controllo e potere, magari tenute altrove a freno, nei differenti modi sempre violenti, ma più o meno espliciti, più o meno elaborati e perversi a seconda delle capacità dell’uomo che esercita questa violenza. Il femminicidio, dunque, non è che l’ultimo atto di una penosa tragedia che ha solide radici ramificate.

Seguire il filo di queste storie di violenza sul terreno giuridico, che si concludano o no con la morte della donna vittima, è estremamente complesso, dal momento che vengono perpetrati spesso più atti di vio-lenza e di diverso tipo contemporaneamente: l’assetto delle norme è ancora in evoluzione, nel tentativo di dare risposte a una realtà frasta-gliata e stratificata. Bisogna aspettare il 2013 per un decreto legge che come tutti i decreti legge sottolinea l’urgenza di interventi specifici non più procrastinabili e introduce esplicitamente nell’ordinamento legislativo italiano una serie di norme nel tentativo di arginare la vio-lenza, di ogni forma, perpetrata sulle donne in quando donne5. Tra

4 Russell 1992; cfr. anche Spinelli 2008. 5 Decreto-legge del 14 agosto 2013, n. 93, convertito in legge il 15 ottobre 2013, n. 119:

“Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto alla violenza di genere, non-ché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province”. Le modifiche hanno portato lo sguardo anche sui due ambiti della violenza assistita (cioè la violenza su figure di riferimento o significative esperita dal bambino che assiste ai maltrattamenti, direttamente o indirettamente: è sufficiente che ne sia a conoscenza) e sul trattamento del maltrattante. Per

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le altre norme, nell’articolo 5 bis del decreto si garantisce prima di tutto l’attività dei centri antiviolenza e delle case rifugio, attraverso finanziamenti in forma continuata. In questo decreto, poi, per la prima volta viene introdotto un concetto di relazione affettiva, più rispettoso dei cambiamenti intervenuti nelle dinamiche familiari e interpersonali dei nostri giorni: il codice penale dopo il 2013 considera la relazione tra due persone senza considerare come dirimenti ai fini di indagine e processuali le convivenze o i vincoli matrimoniali, attuali o pregressi: una relazione affettiva è una relazione affettiva. Sempre in questa ot-tica di aggiornamento e di maggiore sensibilità ai differenti contesti e modi di perpetrare violenza, nel 2017 ci si è preoccupati di approvare la legge n° 71 per la prevenzione e il contrasto al cyber bullismo, ed è stata istituita una Commissione parlamentare, che ha lavorato su Le Parole dell’odio6 e ha elaborato un vademecum per arginare le espres-sioni che possono risultare lesive o addirittura incitare a forme di raz-zismo e sessismo, con una attenzione particolare al web. La violenza infatti si fa più sfacciata e strafottente attraverso i canali informatici e sui social, dove è possibile condividere in gruppi chiusi (su Facebook o Instagram o WhatsApp che siano) foto e video intime di malcapitate su cui il branco, sicuro dell’impunità, infierisce in maniera offensiva; o dove le stesse foto e video private, a volte elaborate, spesso rubate

quanto riguarda il maltrattante, si prevede l’ammonimento in modalità preventiva da parte del questore, ammonimento che successivamente in caso di processo penale può essere con-dizionante: il questore, verbalmente, informa e suggerisce i servizi disponibili nel territorio, quali, a seconda della situazione, i Consultori Familiari, i Servizi di Salute Mentale, i Servizi per le tossicodipendenze idonei all’intervento sulle dinamiche della violenza domestica. Per i servizi sociali si introduce l’obbligo di comunicare (art. 482-quarter) se l’autore del reato di maltrattamenti abbia seguito un programma di prevenzione, e con quale esito. Per le vittime di stalking, maltrattamenti in famiglia e mutilazioni genitali femminili è prevista la possibi-lità di accedere al gratuito patrocinio indipendentemente dal reddito. Priorità nell’accesso e trattamento dei processi ai reati di maltrattamenti in famiglia, stalking, violenza sessuale, atti sessuali con minori, corruzione di minori e violenza sessuale di gruppo. Sempre per i reati di stalking e maltrattamenti in famiglia, le indagini preliminari non potranno superare la durata di un anno. Una relazione tra due soggetti, inoltre, è finalmente considerata relazione a pre-scindere dalla convivenza o dal vincolo matrimoniale (in atto o pregressi che siano).

6 Hate speech, o parole dell’odio: definizione coniata in ambito legislativo negli Stati Uniti per parole, metafore, discorsi in genere che sottendono o esplicitano odio e intolleranza. La Commissione (Commissione Jo Cox dal nome della deputata presso la Camera dei Comuni del Regno Unito, uccisa il 16 giugno 2016) è stata istituita il 10 maggio 2016 (DDL 363 del Senato della Repubblica) e ha prodotto la sua relazione finale il 6 luglio 2017.

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con modalità delinquenziali, vengono pubblicate per vendetta o utiliz-zate per ricatti (revenge porn).

La serie di misure prese a livello istituzionale sembra dimostrare sempre più sentita l’urgenza di rispondere alla violenza perpetrata sul-le donne in ogni settore della vita sociale, e su un piano che non sia soltanto legislativo, per quanto questo sia irrinunciabile, ma molto pri-ma, e molto più profondamente, attraverso l’attivazione di reti precoci di acculturazione, per formare persone capaci di relazionarsi con se stessi, e con gli altri, liberi essi stessi da una mentalità di sopraffazio-ne, svalutazione, e reificazione dell’universo femminile.

In questa direzione, il passato governo ha messo a punto un Piano strategico antiviolenza per il triennio 2017-2020 che insisteva sulla necessità di un approccio strutturale: non limitarsi a rispondere alle emergenze, perché non si tratta di emergenze; e invece attivarsi per lavorare contro una mentalità radicata che produce, alimenta, giu-stifica, minimizza la violenza sulle donne. Per contrastare le origini culturali della violenza ci si è proposti di lavorare sulla prevenzione prima di tutto, poi sulla protezione/sostegno delle vittime, infine sulla persecuzione e punizione degli autori di violenza; indispensabili le politiche integrate di intervento, monitorate attraverso un sistema di raccolta dati omogeneo in grado di valutarne le capacità esecutive. Riguardo alla prevenzione, l’obiettivo primario è lavorare in maniera concorde all’interno del sistema formativo: sia nel settore scuola, sia nell’educazione degli operatori, facendo allo stesso tempo opera di sensibilizzazione dei mass media sul ruolo che stereotipi e sessismo hanno nel costituirsi della violenza contro le donne. Viene sottolineata la necessità di offrire percorsi di rieducazione per gli uomini che mal-trattano, come stabilito nel Consiglio di Istanbul7.

Riguardo alla protezione e al sostegno delle vittime nel loro per-corso di risalita dalla violenza, il Piano ha esteso le previsioni di pro-tezione oltre che alle donne anche ai minori e agli eventuali testimoni; sono stati annunciati percorsi di sostegno alle donne per la crescita

7 Il Consiglio d’Europa dell’11 maggio del 2011, cosiddetto Consiglio di Istanbul dal luogo in cui venne firmata la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

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della consapevolezza di sé e per il recupero dell’autonomia personale, compresa quella economico-lavorativa.

Riguardo alle punizioni per gli autori di violenza, l’obiettivo resta la massima tutela dei diritti delle donne e dei minori durante le fasi dei procedimenti giudiziari, affidando al Consiglio superiore della magi-stratura il compito di incentivare la creazione di sezioni specializzate per i reati di violenza contro le donne, nel pieno coordinamento tra i differenti uffici giudiziari.

Trasversale, infine, il lavoro di un comitato tecnico che supporti regio-ni, province, comuni, nel coordinamento sul territorio delle reti antivio-lenza, in modo che siano garantiti raccordo e continuità tra tutti i servizi.

Un Piano ambizioso, giustificato dai vantaggi economici che stu-di recenti8 dimostrano essere la diretta conseguenza di una politica di prevenzione e contrasto mirata e diffusa sulla violenza contro le donne.

Se confrontiamo la situazione odierna a quella di soltanto pochi anni fa, dunque, è netta la differenza: ha avuto grande risonanza nel 2013 l’autobiografia di Malala Yousafzai, diciassettenne Premio No-bel per la pace che ha dato voce a quante nascono in società nelle quali nascere donna è una condanna, e una colpa da scontare subendo vio-lenza; il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti nel dicembre 2016 ha richiamato in un documento ad hoc i giornalisti all’uso di un linguaggio rispettoso e affrancato da pregiudizi e stereotipi; l’esem-pio è stato seguito nel 2017 dalle Commissioni pari opportunità della Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi) e dell’Unione Sindacale Giornalisti Rai (USIGRAI) insieme all’Associazione Giulia e al Sin-dacato Giornalisti Veneto, che hanno redatto e firmato il Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione, contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini9.

8 Cfr. WeWorld Onlus 1 marzo 2017 Violenza sulle donne. Non c’è più tempo. L’Italia, tra danni immediati dei maltrattamenti e effetti (pesanti) a lungo termine degli stessi, “paga” circa 17 miliardi (stima WeWorld 2013). Investendo 84 milioni (lo 0, 0052% del Pil) nella prevenzione o nel contrasto, il guadagno sarebbe di 1 miliardo.

9 Documenti tanto più apprezzabili quanto più, nel passaggio dall’assenza totale al mol-tiplicarsi delle informazioni in questo campo, le informazioni, spesso ridondanti, superflue, aggressive e non pertinenti, sono venute a caratterizzarsi come violente esse stesse.

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