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CESARE BENAGLIA un’autobiografia Silvia Editrice

CESARE BENAGLIA - Arsmedia · della prima lettura di questo manoscritto, ... pur violato dall’incipiente degrado ecologico della prima industrializzazio- ... di Biancaneve, di Bambi,

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CESAREBENAGLIA

un’autobiografia

Silvia Editrice

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CESARE BENAGLIAun’autobiografia

a cura di Domenico Montalto

Silvia Editrice

Cesare Benaglia è nato a Valbrembo il 30 ottobre 1932.

www.arsmedia.net/benaglia/italiano.htme-mail: [email protected]

© 2004 - Silvia Editrice srl20093 Cologno Monzese (MI) - Via Mozart n. 45Tel. 022545059 - Fax 022532809e-mail [email protected]

Nessuna parte di questo libropuò essere riprodotta o trasmessain qualsiasi forma o con qualsiasimezzo elettronico, meccanico o altrosenza autorizzazione scrittadei proprietari dei diritti e dell’editore.

ISBN 88-88250-25-5

“...L’arte di scriver storie sta nel saper tirare fuorida quel nulla che si è capito della vita tutto il resto;ma finita la pagina si riprende la vita e ci s’accorge

che quel che si sapeva è proprio un nulla”

Italo Calvino(Il cavaliere inesistente)

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Innanzitutto un amico, quindi un artista e adesso anche uno scrittore.Conosco da sempre Cesare Benaglia e ho avuto la fortuna di seguirlo nella sua passione cheè diventata arte e, al tempo stesso, testimonianza di quei valori della comunità bergamascarurale ai quali dà voce nelle sue opere.Difficile quindi parlare dell’amico Cesare e di questo suo libro cercando toni distaccati e uffi-ciali; prevale l’affetto e il ricordo per il tempo passato insieme quando Cesare, da amico atten-to e paziente, cercava, e cerca tuttora, di guidarmi alla comprensione della sua arte.Osservo le sue opere, i suoi oli su tela, le sue sculture, e non resto indifferente perché Cesareha una grande capacità, sa rendere visibile ciò che vuole comunicare anche a chi, come me, èaffascinato dall’arte contemporanea, ma non sempre sa comprenderla.Trasmettere emozioni non è cosa da poco, solo i grandi artisti ricchi di una personalità inte-riore sono in grado di farlo, e Cesare mi trasmette emozioni e quindi anche per me è un gran-de artista.È dunque con affetto per l’amico e con stima per il concittadino che l’amministrazione delComune di Valbrembo, che da poco ho l’onore e l’onere di guidare, ha dato il patrocinio allibro di Cesare, un’autobiografia che è al tempo stesso uno spaccato della gente di campagna,di quella campagna in cui l’autore è nato e cresciuto.Infine come non ricordare che l’amico Cesare è anche il simbolo della ricchezza creativa del-la nostra Valbrembo che senza clamori accresce l’importanza culturale di tutta la terra berga-masca.Grazie Cesare per quello che sei e per quello che dai alla nostra comunità.

Il Sindaco di ValbremboGianleo Bertrand Beltramelli

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Lo sciamano di Valbrembo

Compito convenzionalmente attribuito al critico è il tracciare scenari e sfondi generali su cuiritagliare l’oggetto all’esame, lo stabilire – a tavolino – griglie (o gabbie) ideologiche di par-tenza e di arrivo, con primi, secondo, terzi classificati e così via. Ardua sorte quella del criti-co, che nello stringere le maglie della logica deduttiva deve anche restare freddo, osservandola distanza di sicurezza e stemperando l’incandescenza della materia poetica, cioè dell’arte,che cade sotto il suo occhio. Compiti teoretici, quelli del critico. E teorici, cioè poco verosimi-li, almeno nella presente circostanza. Allo scrivente infatti, a cui è toccato l’onere e l’onoredella prima lettura di questo manoscritto, risulta onestamente impossibile assolvere al predet-to compito, ed egli deve dichiararsi subito dimissionario, inabile al lavoro, se non altro permanifesto conflitto di interessi sentimentali. Più si inoltrava, il critico, in questa cronaca, inquesto regesto di fatti narrati con la semplicità e la gentilezza di tono che conosciamo all’uo-mo Benaglia, e più si accorgeva di perdere le difese, di patire il trascinamento e la commozio-ne che si provano nell’ascoltare un amico che racconta la propria storia, confessa la propriavita, spiega il proprio mondo. Così, inevitabilmente, al distacco subentrava sempre più la com-plicità, all’estraneità professionale la connivenza, e persino il favoreggiamento. Insomma fini-va con l’essere posseduto dalla narrazione, coinvolto pur’egli in quella segreta relazione per-sonale fra scrittore e lettore, fra cose dette e non dette, che è poi il destino d’ogni buon libro.Dicono che l’arte somigli alla vita. Lo stesso Benaglia tenderebbe ad accreditarlo, nella suadichiarazione d’intenti in apertura, quando definisce la propria arte, è perciò la propria vicen-da biografica, e quindi anche questo libro, “specchio di clima”: specchio “come riflesso delnostro esistere temporale”; clima “come atmosfera, come habitat dove la mia formazione diautodidatta si è sviluppata, come profumo della mia terra con le sue erbe, i suoi fiori, i suoialberi, le sue acque e tutti gli esseri viventi che la popolano”. In realtà le cose non stanno pro-prio così, e Benaglia lo riconosce quando ammette di aver sempre ubbidito, nella sua esisten-za, “a un’irresistibile vocazione”. Sì, perché non è l’arte che somiglia alla vita, bensì la vitache imita l’arte. E con Benaglia, poi, il caso è flagrante, esemplare. Vero è che tutta la sua ope-ra, il suo stesso sentire, gli episodi qui vividamente narrati, testimoniano un’educazione senti-mentale avvenuta nel piccolo mondo antico – ormai al tramonto – di una comunità bergama-sca rurale, “scolpita” nel racconto con vigore ma anche non delicatezza e humour. Anzi, unquarto di secolo dopo L’albero degli zoccoli di Olmi, ci sentiamo di affermare che questa diBenaglia è la più toccante testimonianza artistica, e soprattutto umana, di quel mondo, di quel-la gente. Cronista di sé medesimo, Benaglia ci narra, per brevi diligenti capitoli, una certacommedia umana di provincia, ordinando, con penna secca e al contempo lieve, uno spassosoregesto di tipi e di personaggi, togliendosi pure qualche sassolino dalle scarpe, ma anche resti-tuendoci quel retaggio di valori antropologici solidi, quella “bergamaschicità” popolare, quel-la moralità contadina che hanno segnato il suo animo, il suo percorso. Soprattutto, ripercorrele tappe e riannoda i fili del suo apprendistato dalla natura, di quella religiosità naturale – deipadri e dei boschi – , quella religio (da re-ligo), ovvero quella poetica dei legami con la terra

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che alimentano in lui, fin da bambino, l’innata predisposizione a osservare la natura come“museo all’aperto”, secondo la dimensione della meraviglia.Il torrente Quisa, pur violato dall’incipiente degrado ecologico della prima industrializzazio-ne, assume per il giovane Benaglia l’aura mitica di luogo dell’anima e dell’infanzia, di topo-nimo di una pedagogia della natura accolta con spirito autenticamente francescano, nei gior-ni trascorsi a parlare coi sassi del fiume, con gli alberi, con le rocce. Come fa Ungaretti colTevere, Benaglia può chiamare il Quisa (e il Brembo) “mio fiume”, immergendovisi come inqualcosa di “fatale” e insieme di lustrale, di inizatico. L’immersione nel Quisa è per Benagliail battesimo, il Natale dell’anima. Quest’amore, questa ininterrotta devozione di Benaglia performe del naturale sono l’alveo e la culla della sua eco-logìa ante litteram, vera e di molto pre-cedente la moda ambientalista oggi corrente; sono il laboratorio del suo “discorso sulla natu-ra” e “della natura”, del suo metodo singolare che è fatto nello stesso tempo di progettazionee di casualità governata, di mestiere e di profonda dimestichezza coi materiali unite alla capa-cità di sfruttare ed esibire le geniali performances degli elementi naturali: il lavorìo di scavovorace delle formiche dentro un vecchio tronco trasformato in sublime labirinto, in microco-smo architettonico, così come le misteriose, espressive tumescenze d’una corteccia, scopertedurante le consuete passeggiate silvestri. Questo magistero sciamanico, quest’abitare dall’in-terno – proprio come un insetto – la mater lignea del bosco e della selva per leggervi arcanitracciati di senso, rispondenze e risonanze cosmiche, analogìe fra l’organico e il minerale, fral’infinatamente grande e l’infinitamente piccolo nell’eterna seminagione e rimaneggiamentodel mondo, questo risarcire la materia della sua necessitante brutalità biologica trasforman-dola in immagini inedite, suggestive e sontuose innestando (nel senso letterale, botanico deltermine) natura, scultura e pittura, insomma questa simbiosi di Benaglia con l’anima mundidenotano e connotano la sua personalità e cultura così pervase di pietas e di simbolismo uni-versale, così “naturaliter christiana”, come ebbe a dire Paolo VI dell’anima di un altro gran-de Cesare, anch’egli sognatore: Cesare Zavattini. Sì, perché riguardo l’arte di Benaglia dobbiamo sgomberare il campo da un possibile frainten-dimento o equivoco: che cioè essa abbia primariamente a che fare con l’Arte Povera e Concet-tuale o con la Land Art, pur condividendone certe tangenze, per quanto riguarda lo spirito e l’u-so di materiali naturali primari; perché in realtà, quello di Benaglia è un immaginario forte-mente visionario, onirico, per certi versi surrealista, e non a caso ha intrigato un grande mer-cante del Surrealismo come Luigi Bombadieri.A dispetto di una certa singolare ipocondrìa, documentata dal ricorrere di malanni veri o pre-sunti, spesso clinicamente indecifrabili, Benaglia investe il dato di natura di una sua precipuavisionarietà, vigorosa, vitalistica, appunto sciamanica. Pifferaio magico dei tarli, ne orchestrasapientemente l’opera xilofaga, attendendone pazientemente i risultati, e raccogliendone lepreziose polveri e segature, che diverranno a loro volta preziose campiture, superfici pittori-che. L’opus sciamanica di Benaglia ha i tempi, le pause e i modi di una segreta, privata litur-gia che avviene nel chiuso dell’atelier, o en plein air, con un vero e proprio lavoro di squadra,insieme ad amici e collaboratori. Oltre che boschivo, Benaglia è uomo boscoso, nel senso chetutta la sua fantasia è occupata ed esaltata dal colloquio con la foresta, con l’universo arbo-

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reo, col microcosmo pullulante di vita minuta, di linfa, nel quale egli legge il simmetrico spec-chiarsi del grande nel piccolo, ma anche la fratellanza e la commistione fra ordine amimale (eperciò anche umano) e ordine vegetale, quasi con gli occhi di un Sutherland redivivo, meno lai-co e più druidico. L’albero, struttura archetipa del creato, diviene lo spaccato (anche qui nelsenso letterale di fenditura) della vita che tutto e tutti contiene. Come Walt Disney, Benaglia èun sommo poeta del bosco, la cassaforte delle meraviglie. Come l’indimenticabile disegnatoredi Biancaneve, di Bambi, della Bella Addormentata – tutte non a caso fiabe silvestri – l’artistadi Valbrembo scopre similitudini surreali, reperisce e reperta nel suo “stanzino delle meravi-glie” arcane sorprese e portenti boschivi come la sua leggiadra, danzante “Folletta del bosco”,avente inopinatamente l’aspetto di una radice, e custodita da anni insieme ad altre reliquie.Tuttavia sarebbe riduttivo ritenere che l’habitat ideale di Benaglia sia la sola foresta, intesacome ecosistema specifico, perché egli vede – modernamente, alla Baudelaire – l’intero mon-do come “foresta di simboli”, accerta lo statuto sacrale elettivo di tutte le forme e di tutti gliambienti allo stato di natura, dei capolavori viventi: capitolo poeticamente fra i più ispirati èquello in cui l’artista ricorda le sue vacanze in Sardegna, le escursioni in Gallura fra le immen-se rocce marine, quasi a rifugiarsi in esse, e rammenta – con espressione bellissima, da parsuo – “la preghiera del mare”. Nell’opera di Benaglia – qui documentata scrupolosamente nel-la genesi e nei procedimenti tecnici – il “clima” stabilisce una cogenza, esibisce un’influenzaevidente nel percorso a ritroso dalla pittura alla scultura, lasciando che siano proprio le sug-gestioni naturali a modificare i processi operativi, a orientare le scelte espressive, come avvie-ne, per esempio, con la scoperta dei legni fossili: “… Era tanto forte in me il bisogno di con-tatto con quella natura nera che anche i toni della mia pittura, specialmente i rossi, eranodiventati più marcati, le cavità sempre più buie e profonde”.Con questo libro intenerito e scrupoloso di notazioni, pertinente di date e nomi, redatto conl’umiltà di un diario personale, di un memorandum di imprese grandi e piccole, Cesare Bena-glia ci affida il testimone della sua esperienza artistica, contestualizzandola in quel milieu diaffetti familiari, di relazioni amicali e culturali che gli hanno consentito di intraprendere, insovrana e privilegiata libertà, la sua ricerca espressiva tanto peculiare e affascinante. Nessu-no qui viene dimenticato, nel bene e nel male: genitori, moglie, figli, amici, collaboratori, com-paesani, galleristi, critici e giornalisti, mecenati veri e fasulli, artisti noti e oscuri. Per ognu-no c’è un medaglione, sia pur di poche righe: care sembianze e voci magari rapite dall’inelut-tabilità del tempo ma che hanno parlato – ognuna a suo modo – al grande cuore di “SiserBena”, educandolo ad ascoltare le voci del creato, a scoprirne i tesori di bellezza, una bellez-za oggi seriamente ipoteca dalla civiltà demente del consumo massivo, della discarica, del-l’avvelenamento, della replica in vitro. In beata solitudo, Benaglia séguita il suo colloquio conla natura, riplasmata in colori e forme, così da poter veramente affermare, col poeta CamilloSbarbaro: “Grande e verde/ che muori e rinasci continua/ taciturna che dentro a gran voce diparli/ Natura”. Gli auguriamo di poterlo continuare, questo colloquio, ancora per molto tem-po, e di continuare a sentirsi “come un re nel suo piccolo regno”. Il nostro mondo ha tantobisogno di questi piccoli re: i poeti, come Cesare Benaglia.

Domenico Montalto

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“...Questo è l’effetto che ti fanno i boschi,hanno sempre un aspetto familiare, da lungo perduto;

...ma soprattutto come eternità doratedella trascorsa infanzia o della trascorsa maturità”

Jack Kerouac(I vagabondi del Dharma)

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SPECCHIO DI CLIMA

“Specchio”, come riflesso del nostro esistere temporale. La vita di ognuno è ricca di tanti episodi gran-di e piccoli. Io, provenendo da una famiglia semplice e di modeste condizioni economiche, potei stu-diare sino al raggiungimento dell'attestato di quinta elementare, ciò che allora poteva essere considera-to un privilegio. Grazie all'aiuto del mio nonno materno, titolare di una falegnameria, ebbi la possibi-lità di lavorare sin da piccolo imparando così un mestiere. Praticai quella professione all' inizio comeun qualsiasi altro operaio dipendente e, dopo la scomparsa del nonno, continuai l’attività in qualità d'im-prenditore avendo ereditato la falegnameria. In quei momenti colmi di responsabilità maturarono anchealtri progetti, fra i quali quello di incominciare l' attività pittorica amatoriale nel poco tempo libero adisposizione. Quella passione, agli inizi circoscritta ai giorni di sabato e domenica, mi fece allontanarelentamente ma inesorabilmente da quella falegnameria che tanto amavo. Non ho avuto dei veri e propri “maestri” nell’ imparare l’arte della pittura e della scultura: per cause diforza maggiore non me lo sono mai potuto permettere. Mi ricordo però di quello che mi diceva mio non-no falegname: “Nessuno ti dà senza avere in cambio qualcosa, perciò ricordati che il mestiere lo devirubare”. È proprio quello che ho fatto. Forse anche per questo mi sento come un testardo “fai da te”.Prima di tutto per ragioni economiche, e poi per la curiosità di imparare nel modo più personale possi-bile lasciando spazio alla mia intuizione. Ormai sono una quarantina di anni che seguo questa vocazio-ne e ho tante cose da ricordare, tanti momenti importanti da raccontare.Molti di questi ricordi possono sembrare banali, ma per me hanno grande importanza perché rappre-sentano i momenti chiave della mia vita. Sono come tanti mattoni serviti per costruire la casa del miovissuto: come tutti i mattoni non sono perfetti ma bastano comunque per tenerla in piedi. “Di clima”, come atmosfera, come habitat dove la mia formazione di autodidatta si è sviluppata, comeprofumo della mia terra con le sue erbe, i suoi fiori, i suoi alberi, le sue acque e tutti gli esseri viventi chela popolano. Sono un uomo semplice, che ha la fortuna di alzarsi al mattino potendo fare giorno dopogiorno quello che desidera, senza limiti di tempo e di argomento. Resisto in questo caos culturale in cuiè sempre più difficile vivere d’arte, specie di pura ricerca come è la mia (ma questo è tipico di tutti imomenti storici). Da incallito testardo e forte delle esperienze vissute me la cavo in tanti casi con furbi-zia e anche a costo di piccole “bugie bisognose”, come soleva dire mio suocero Emilio, uomo genuinotimorato di Dio. Anche così sento di poter dare colore alla vita senza ledere l’amicizia con il prossimo. Presento queste mie piccole storie e riflessioni per far conoscere quello che io sono senza alcun ritegnoe nella massima semplicità, ricordando, in questa occasione, lo scomparso gallerista bergamasco LuigiBombardieri. La stima e l’amore, che aveva per l’arte e per gli artisti, che spesso aiutava con i suoi pro-pri mezzi, mi hanno fatto capire il vero valore dell’arte. Un caro ricordo va all’amico e artista giapponese Ono Kazunori, ideatore insieme a me del titolo di que-sto primo capitolo.Dedico questo mio sforzo letterario a mia moglie Tiziana e ai miei due figli Lucio e Clelia i quali, conpazienza e comprensione, mi hanno aiutato nel percorrere il cammino della mia vocazione artistica. Unultimo e affettuoso ricordo va ai miei nipotini Matteo, Marco e Alessandro, piccoli soli apparsi sull’orizzonte degli ultimi anni della mia vita e portatori della luce e del calore ideale per far germo-gliare la realizzazione dei miei restanti sogni, per il momento ancora segreti.

Il risultato di questo studio accanito sui banchi di questa scuola così speciale è ormai visibile e ha pre-so forma nelle mie opere. Devo molto a mia moglie Tiziana e ai miei figli Lucio ed Emi che hanno sop-portato negli anni la mia testardaggine nel continuare a vivere a tutti i costi questa mia vocazione pri-vando così la mia famiglia di un certo benessere. Non sono mancati tanti amici e sostenitori che mi han-

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no aiutato moralmente e fisicamente nella realizzazione di molte mie opere, nell’organizzazione di tan-te imprese espositive e nella loro documentazione. Per fortuna ho sempre cercato di realizzare dei videoche testimoniassero la loro attiva presenza, e la loro solidarietà è testimoniata da una copiosa docu-mentazione video e fotografica che ho premurosamente raccolto e che altrettanto premurosamentecustodisco. Tante di quelle immagini sono presenti in questo mio “raccoglitore d’esperienze vissute”che dedico, in particolare, a tutti coloro che, come me, cercano da sempre e con accanimento quel “per-ché” al senso della vita. Voglio far capire loro il grande dono della natura. È lei che mi ha suggerito, inmolte occasioni, una sicura risposta a tante mie inquiete domande.

1989-1990

Sono ormai passati più di 25 anni da quando lavo-ro a tempo pieno per l'arte della pittura e, da poco,anche della scultura. Penso sia giunto il momen-to, ora che ho sessant'anni, di fermarmi a riflette-re sul mio operato. Può essere l'occasione per unaverifica necessaria prima di passare ad un'altrafase della mia evoluzione in campo artistico.Spesso mi chiedo se sono stato uno specchiofedele della mia gente e del mio ambiente e sesono stato capace di lasciare una testimonianzadi vita coerente con i principi che la mia stessaarte cerca di manifestare. Il bisogno materiale diimparare il mestiere per risolvere i moltepliciproblemi tecnici legati alla creazione artistica miha distolto, a volte, dal comprendere i valori piùprofondi dell’atto creativo. Credo che il compitopiù importante di un artista sia di sensibilizzarel'opinione pubblica sui grandi problemi storici,sociali e ambientali. Spero che l'esperienza delcontinuo contatto con la natura e del sereno dia-logo con il prossimo mi abbia dato la saggezzasufficiente per arrivare a questo obiettivo. L’arte,poi, mi fa scoprire la bellezza del vivere a con-tatto con la natura, ciò che ha dato un senso allamia vita e, spesso, la forza di dimenticare sacrifi-ci apparentemente insuperabili continuando conentusiasmo, nonostante tutto, il mio lavoro.Mi ricordo spesso dei miei primi anni di vita, deimiei anni di studio alla scuola elementare e delleore trascorse in casa di mio nonno Mosé, (foto 1)titolare di una bottega di falegname. Naturalmente, con il bisogno di mano d'operache c'era a quei tempi, tutti aspettavano la miapromozione per avere a disposizione due bracciain più nella conduzione delle economie familiari.Fin da bambino, la segatura e il legno erano statii miei giochi e anch'io aspettavo con impazienzadi finire la scuola per imparare il mestiere delfalegname. Gli anni della mia giovinezza a Val-brembo li trascorsi tra la segheria, (foto 2) lafalegnameria e il bosco dove, specialmente d'in-verno, si andava a scegliere gli alberi da tagliareper poi farne tavole da usare per la costruzione dioggetti i più disparati: casse per imballaggi,

mobili, serramenti, carriole per il lavoro nei cam-pi, tinozze per la pigiatura delle uve, casse damorto. Bisognava saper fare di tutto. Così impa-rai quel mestiere che ancor oggi mi serve tantis-simo per le mie sculture. Non mancavano le gior-nate all'aria aperta quando si andava a caricare itronchi nel bosco della vicina località di Fontanacon speciali carri stretti e lunghi a quattro ruote.I tronchi d’albero di ogni tipo come castagni,querce, pioppi, platani, pini, venivano portati nelcortile della segheria per essere scorticati e suc-cessivamente tagliati. Fu per me un periodo bel-lissimo in cui, come si dice dalle nostre parti, mi

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sono fatto le ossa facendo svariati lavori e cono-scendo diversi materiali.Un giorno capitò nel laboratorio un personaggiostravagante. Era appena tornato dall'America eprecisamente dall'Argentina: era amico del non-no e si trattava del “signor Ghilardi”, così cometutti lo chiamavamo. Il nonno gli chiese di rima-nere a lavorare per un certo periodo nel laborato-rio, e lui accettò. Scoprii in lui la persona cheaveva girato il mondo e che sapeva molte cose.Lo seguii da vicino durante quei mesi di lavoronella nostra bottega. C'era molto da impararee mi insegnò che non dovevo lavorare solo conle braccia ma più con la testa. Quando mio non-no morì, la mia vita cambiò radicalmente per-ché la falegnameria mi rimase in eredità con tut-te le responsabilità annesse. Il lavoro diventòfaticoso e, per ragioni economiche, ripetitivo.Per svagarmi un poco, la domenica incominciaiad avvicinarmi alla pittura con l’aiuto del pittoreAngelo Capelli.Queste occasioni domenicali mi fecero conosce-re altri artisti, soprattutto in occasione dei nume-rosi concorsi di pittura ai quali incominciai a par-tecipare. A poco a poco, mi ammalai d’arte e,quando tale malattia si rivelò inguaribile, decisidi scegliere questa difficile ma meravigliosavocazione a tempo pieno.Agli esordi di questa mia nuova attività, all'epo-ca dei primi concorsi di pittura ai quali parteci-pai, ebbi fortuna e vinsi diversi premi. Anchegrazie a quei concorsi, mi convinsi sempre di piùdi avere delle buone capacità artistiche. Possodire ora, in tutta coscienza e ripensando a queitempi, che il mio duplice impegno sul fronte pro-fessionale e su quello artistico fu inverosimile.Solo più tardi capii che il grado di difficoltà dasuperare era molto più alto di quanto immagina-to, ma ormai era troppo tardi per tornare indietroe decisi di usare tutte le risorse in mio possessoper continuare. Nel 1969 mi colpì un collassofisico causato dagli eccessivi sforzi sostenuti; perriprendermi ci vollero mesi e mesi. Quella pausaobbligata mi servì per riflettere sul passato e perpensare al futuro su basi più solide, almeno dalpunto di vista dei miei progetti. Superata la crisi,

ritornai a essere più testardo di prima: fu unperiodo di trasformazione sostanziale per ilmodo di gestire le mie scelte tecniche ed espres-sive. Il paesaggio, al quale fino allora mi erodedicato, non mi bastava più. La curiosità diconoscere più a fondo l'ambiente naturale, legatoalla vita dell'uomo, mi spinse una ricerca semprepiù personale. L'acqua, la luce, l'aria, le radiciche ci legano alla terra, la natura avevano orasignificati diversi, dopo una più profonda analisidella loro struttura. Erano i tempi in cui tutti sicominciava a prendere coscienza dei complessiproblemi legati all’ambiente. Non riuscivo acapire perché l’uomo continuasse imperterrito amaltrattare la natura. Notai, con occhio semprepiù attento e critico, le nefandezze compiute dal-l’uomo lungo il torrente Quisa che scorre a pochipassi da casa mia: (foto 3) rifiuti di ogni genere e

scarti del benessere lasciati dalla gente senzaalcun riguardo e senza pensare alle possibili con-seguenze di tale comportamento. Ciò malgrado, icolori di quel periodo furono pieni di luce, quasicome filtrati dall'ottimismo o da un’ostinatavisione del torrente pulito così come quando erobambino, con le sponde tenute come fossero ungiardino. Ma il colore del limo di quella correntepiano piano cambiò la fisionomia stessa del lettodel torrente: i sassi immersi cominciarono acoprirsi di muschio color verde smorto e gli ster-

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pi vicini all'acqua cominciarono a morire. E io,intanto, continuavo a insistere, nelle mie operepittoriche d’allora, con trasparenze di luce filtra-te dal cielo. Il periodo che va dal 1970 al 1980 furicco di miei pellegrinaggi al torrente Quisa, alfiume Brembo e ai vicini boschi del Parco deiColli. La primavera mi fece scoprire la delicatez-za del crescere dei fiori e delle tenere erbe, poi ilronzio delle api da miele che a migliaia arrivava-no sui fiori d'acacia e annunciavano con quel lorocomportamento il risveglio della stagione.Mi ricordo che, allora, il cancro del castagno edell'olmo fece morire molti alberi i quali, pur rin-secchiti, rimasero in piedi preda delle larve edegli insetti. Sotto la corteccia secca, i grandibuchi fatti dalle larve trapassavano il tronco coninnumerevoli gallerie, dove le formiche, occu-pando gli spazi vuoti, deponevano le loro uova.Era meraviglioso osservare l’intreccio tra morte,vita e sopravvivenza in quegli esseri vegetali eanimali solidali tra loro. Nacquero così, in quelperiodo, le mie opere intitolate “cavità d'albero”,le “cavità nel paesaggio”, le “anatomie”, gli“alberi nel futuro” incentrate su un gioco di colo-ri vivaci: verdi, gialli, blu e rossi intensi.Improvvisamente immaginai quelle cavità com-pletamente rosse e quel colore di fuoco mi pene-trò tanto nell'intimo che me ne innamorai. Pensoche quel rosso abbia dato una svolta importantealla mia espressività. Quel momento di ricercache prendeva spunto da quelle cavità arboree misuggerì la similarità del destino vegetale allarealtà umana nella lotta per la sopravvivenza.Un giorno, durante una delle mie solite passeg-giate nel bosco, camminando sul sentiero, scorsitra le sterpaglie una grossa pietra friabile cheusciva dal terreno come fosse un grosso ovulo.Mi fermai ad osservare quel soggetto, mi avvici-nai a toccarlo con le mie mani, come per pla-smarlo. Con la roncola, che in quell'occasioneportavo alla cintola, mi azzardai a scalfirlo perqualche centimetro. Non l'avessi mai fatto!Rimasi più di tre ore a togliere uno strato di die-ci centimetri, molto morbido, sotto il quale trovaiuna pietra durissima: (foto 4) mi prese allora lafebbre dello scolpire.

Sono passati ormai più di dieci anni dall'iniziodella mia prima scultura e quasi tutti i sabati,oltre a qualche giorno in più d'estate, li ho dedi-cati a un mio progetto di scolpire diverse pietrelungo un sentiero nel bosco dietro al santuariodella Madonna della Castagna, vicino a casa mia.Ormai il numero delle sculture terminate è salitoa sei, ognuna dedicata a un tema diverso. Chissàche, con l'aiuto di altri artisti, quello spazio pos-sa diventare come un museo all'aperto, a disposi-zione di tutti coloro che lo vogliono visitare.Dalle pietre nel bosco sono passato, nel miolaboratorio, ad altri materiali: legno, cemento,resine. Durante un'escursione nel bosco, in cercadi teneri germogli prelibati per il pranzo, la miaattenzione fu colpita da vecchi mattoni che, stac-catisi da antichi ruderi, giacevano per terra ormaicoperti da rovi. (foto 5). Quel materiale così

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povero divenne un ulteriore elemento che utiliz-zai per le mie sculture.In quei periodi feci parte di diverse commissioniartistiche per l'assegnazione di premi di pittura.Assunsi la presidenza del direttivo del GruppoArtistico Valbrembo 77 che svolse la sua attivitànello studio ubicato al piano terra di casa mia.Spesso organizzavamo incontri di carattere cultu-rale e artistico. Annualmente, nel bosco vicino,d'estate, allestivamo mostre all’aperto di pittura edi grafica di artisti bergamaschi (foto 6). Diverse

furono in quegli anni le mie mostre personali ecollettive a Bergamo e all'estero; un’ulterioreserie di anelli che allungarono la catena delle mieesperienze. Il 1988 fu un anno particolarmenteimportante per il mio lavoro di preparazione e distudio sui materiali scultorei, anche grazie ad unamico scultore, Ono Kazunori, per la secondavolta in visita in Italia dal Giappone. Mi chieseospitalità per un periodo di studio e rimase nellamia famiglia per circa quattro mesi (foto 7).

Lavorammo insieme e avemmo modo di discute-re molto dell’arte. La fortuna di aver conosciutotanti veri artisti e di aver avuto sempre tantavoglia di imparare mi ha fatto nascere dentro unentusiasmo, tuttora presente, che mi ha aiutatospesso, anche fisicamente, a lavorare tanto pursenza patire troppa fatica. Oggi, anche se sessan-tenne, sento di avere ancora tante energie e unprivilegio: quello di avere scoperto questo lavoromeraviglioso.Sento ora il bisogno di orientare meglio i mieisforzi, soprattutto verso una lettura attenta deifatti artistici e culturali contemporanei più signi-ficativi. È una fortuna, in questo senso, averevicina la città di Milano che offre una gammanotevole di proposte artistiche e culturali a livel-lo internazionale. Ora lavoro spesso nel mio stu-dio per il mio lavoro di ricerca dedicato al temadella sopravvivenza. In questo periodo, dopo unameticolosa preparazione, cerco di svolgere que-sto tema attraverso la pittura e la scultura insie-me. Ciò mi è alcune volte difficile per il grandeimpegno concettuale e tecnico che alcune mieopere richiedono. Spesso, lascio tutto e corro nelbosco dove la presenza degli alberi mi rimette inpace con me stesso e dove le loro radici mi por-tano più in profondità nelle mie meditazioni.Vado al fiume, dove lo scrosciare dell'acqua mipuò dare dei suggerimenti e dove resto incantatoa osservare quella distesa di sassi tutti diversi l’u-no dall'altro per la forma e il colore, come fosse-ro tanti esseri viventi, ognuno dei quali pronto araccontarmi la sua storia (foto 8). Allora li faccioparlare, e dai loro racconti traggo spunti per imiei lavori. Oppure mi siedo in mezzo a un pra-

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to e guardo le erbe e la vegetazione che mi cir-conda; immagino attraverso di essa il movimentodelle stagioni, ne godo i profumi, i rumori chediventano musica. Guardo i colori, quei coloriche mutano giorno dopo giorno, dalla primaveraall'inverno. E poi mi vedo sotto un ombrellonebianco a dipingere mentre la neve scende silen-ziosa, tutto solo con il mio cavalletto e i miei

colori; (foto 9) oppure sotto il sole battente del-l'estate, sempre sotto lo stesso ombrellone, macircondato dal verde intenso e dai mille colori deifiori. E mi sembra di volare nel bel mezzo delcielo come nei tanti sogni della mia gioventù,quando correvo apposta a letto prestissimo pergodere più a lungo di questi sogni colorati.

Sono tutte emozioni che mi fanno amare la vita, ecosì posso ricaricarmi per affrontare con più ener-gia il giorno seguente, ogni tanto poi ritorno (foto10) nel mio bosco o al mio fiume a dipingere alcavalletto, come ho sempre fatto per mantenerequesto contatto tanto naturale e semplice e con-servare la giovinezza che serve per sopravvivere.

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UN GIORNO LIBERO

Era un bellissimo mattino di sole.La signora Teresa, chiamata Teresina perché eraancora nubile, era l’accompagnatrice di noi bam-bini quando tutte le mattine ci portava all’asilo,situato nella frazione di Scano. Distava circa unchilometro da casa nostra e si raggiungeva attra-verso una strada polverosa costeggiata da siepifittissime; a tre quarti di quella strada, la siepe siapriva a una specie di cancello fatto da paletti dilegno e attraversato da un grosso palo incerniera-to per poterlo aprire.Anche se la siepe era fitta, ogni tanto presentavaspazi più o meno grandi, procurati forse dapiccoli animali domestici quando dovevano at-traversare la strada per passare da campo acampo. Quella mattina era troppo bella per anda-re a rinchiudersi in un asilo dalle mura umi-de: mentre camminavamo per quella strada pol-verosa mi venne un lampo di genio, al mio ami-chetto che tenevo per mano parlai della possibi-lità di dedicare quella giornata ai campi, all’av-ventura di essere noi due soli a giocare in mezzoa quella natura che ci aspettava. Anche lui fuentusiasta della mia proposta, e al primo bucopresentato dalla siepe c’infilammo come duescoiattoli. Nessuno in quel momento si accorsedella nostra fuga; del resto, essendo in tredici dinumero, chi si poteva accorgere della nostramancanza?Fu proprio così e noi, felici dopo avere lasciato lacoda del gruppetto e attraversato la siepe, rima-nemmo in silenzio finché gli altri furono lontani;al di là della siepe, a circa due metri di distanza,un filare di vite fitto di uva nera matura ci ralle-grò ancora di più e dopo pochi secondi attraver-sammo carponi sotto quei grappoli e c’infilam-mo attraverso le file di granoturco più alte di noi.Fu tutta una corsa finché fuori da quel cupoambiente ci trovammo sulla stradina lungo laquale le profonde impronte delle ruote dei car-ri ci fecero da guida fino al torrente Quisa. Ioavevo con me una sacchetta di stoffa grigia con

la solita merenda, e l’amichetto Clemente, chechiamavamo Mentino, ne aveva una blu. Le te-nevamo strette come reliquie. Camminammoper una decina di minuti con passi molto tran-quilli discutendo il programma della giornata: cisembrava tutto molto semplice e senza alcunproblema.Arrivati al torrente ci mettemmo a sedere su unpiccolo spiazzo d’erba e a discutere ancora sefermarsi vicino all’acqua o andare per campi:decidemmo di rimanere a battere sui sassi cheemergevano dall’acqua per vedere i pesciolinitramortiti galleggiare, imitando cosí i giochi deipiù grandi. Ma forse perché non eravamo capaci,il gioco non ci riuscì. Tutti i nostri sforzi furonoinutili. Lasciammo quella pesca sfortunata e cidirigemmo verso un fondale dove l’acqua eramolto alta per noi: decidemmo lì per lì di entrarea fare il bagno data la calda temperatura, mamentre ci stavamo spogliando, scorsi a pochi pas-si, una peretta di gomma rosso mattone, di quel-le da usare per clistere. Forse era stato il nostroangelo custode a mettercela proprio sotto ilnostro naso perché ancora oggi mi vengono i bri-vidi pensando a cosa sarebbe potuto succedere sefossimo entrati in quel fondale pericolosissimo:non sapevamo nuotare. Quella peretta ci attrassetanto che per più di due ore ci tenne occupati arincorrerci alternativamente riempiendola d’ac-qua per poi spruzzarci addosso il contenuto finoa bagnarci completamente. A un certo momento,dal campanile di Scano le campane rintoccaronoil mezzogiorno e così mettemmo mano allenostre sacchette e uno dopo l’altro consumammoi nostri panini e le pietanze con rapidità. Sarebbestato molto interessante se un registratore avessepotuto seguire i nostri discorsi di bambini che dicolpo si sentivano grandi e liberi di dire quelloche pensavano. Passate un paio d’ore in altri gio-chi, sentivamo che l’ora della merendina pomeri-diana era ormai vicina, ma purtroppo avevamogià consumato il contenuto delle sacchette; pen-sammo così di rimediare con le risorse dellanatura. Perché non approfittare di quella dolce

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uva, di quelle squisite pesche di diverse qualità?Però c’era il pericolo che qualche contadino ciscoprisse rovinandoci così la giornata che sino adallora era filata via liscia. Uno di noi salì in avan-scoperta su un albero di pesche e da quell’osser-vatorio non si vedeva anima viva: riempimmo lenostre borsette del fabbisogno e via, vicino alnostro torrente, a consumare tranquillamente losquisito bottino. Allora l’acqua del torrente sipoteva bere senza pericolo e perciò non ci man-cava proprio niente; la giornata bellissima e quel-la libertà mai vissuta prima fecero di noi i bam-bini più felici del mondo. Il tempo passò in fret-ta e l’orologio del campanile rintoccò quattrovolte: ormai il nostro tempo era scaduto e sape-vamo che alle quattro e mezzo dovevamo esseredi nuovo alla siepe che avevamo attraversato dimattino per la scappatella. In pochi minuti fum-mo sul posto ben nascosti ad aspettare i nostricoetanei che, lasciato l’asilo, dovevano tornare acasa passando vicino a quella siepe. A un datomomento sentimmo dei passi sulla strada e Men-tino mi avvertì: “È la Teresina, è la Teresina chesta andando a prendere i bambini all’asilo!”.“Mentino, parla piano se no ci sente!” gli risposi.Ma la Teresina ci sentì veramente e noi, a quelpunto, sentendoci scoperti, uscimmo dal bucodella siepe come nulla fosse successo. “Comemai voi siete già qui?”, ci chiese. “La suora ci halasciati uscire prima perché oggi siamo stati bra-vi” le rispondemmo prontamente. “Ma che stra-no, allora gli altri bambini sono ancora nell’asi-lo!” disse lei con aria dubbiosa. ”Certo!” laconfortammo subito. La Teresina a quel punto cilasciò e si diresse verso l’asilo chiedendo allesuore come mai avevano lasciato uscire solo noi.“Guardi, Teresa, che noi oggi non abbiamo vistoné il Cesare né il Clemente e pensavamo che fos-sero ammalati” risposero le suore. Intanto noi due ci eravamo seduti sul bordo dellastrada, su un mucchio di ghiaia che all’occorren-za serviva allo stradino per riempire le buche. Diquei sassi ne avevamo consumati molti lancian-doli contro i pali della vite al di la della siepe.

Arrivarono a un certo momento anche gli altribambini accompagnati dalla Teresina che appenaci vide ci apostrofò severamente: “Ah! Eccoli quai più bravi dell’asilo! Appena a casa lo dirò aivostri genitori!”. In quel momento il presenti-mento di ricevere tante botte appena tornati acasa ci gelò il sangue, tanto che per tutto il tem-po rimanemmo muti. Io e il Mentino non scam-biammo nemmeno una parola. Magari con lescuse avessimo evitato gli scapaccioni! Sapeva-mo benissimo che certe regole dovevano essererispettate: tutto sommato quella giornata bellissi-ma e indimenticabile valeva molto più di tutte lebotte del mondo. Puntualmente al nostro ritornosuccesse quanto avevamo previsto e non valeneanche la pena di raccontarne tutti i dettagli. Disicuro le botte furono vere: prima quelle dellamamma, poi quelle del papà e, per quanto miriguarda, arrivarono dulcis in fundo anche quelledel nonno. Quindici giorni dopo tentai di convin-

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cere un altro amichetto, che si chiamava Cesaredetto Rino, a organizzare un’altra identica scap-patella, ma viste le botte prese dal Mentino, cheera guarda caso proprio suo fratello, mi rispose:“Tu sei diventato matto, vuoi che questa volta inostri genitori ci ammazzino di botte!” Ahimè,dovetti rinunciare a malincuore, ma dentro di meera vivo il ricordo di quella bellissima giornatavissuta in libertà assoluta in mezzo alla natura e

guardando lo scorrere della corrente del mioQuisa: (foto 11) c’è stato sì il momento pericolo-so del bagno progettato in quell’alto fondale, maanche lì il nostro angelo custode ci ha dato unamano. Chissà quante volte ancora, nella mia vita,quell’angelo mi ha salvato!

Valbrembo, 1999-2003

“...I bambini non hanno né passato né avvenire e,ciò che a noi non accade mai, godono del presente”

Jean De LaBruyère

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LA MIA INFANZIA

Mio padre si chiamava Alfredo, mia madreLucia, un fratello di undici anni più giovane sichiama Mosè come il nonno, e una sorella di dueanni più giovane di me si chiama Giuliana. Que-sta era la mia famiglia (foto 12). Mia madre

lavorò alla Magrini, un’industria di Bergamo perpochi anni fino a rimanere per sempre casalinga.Mio padre fece il macellaio a Ossanesga, miopaese natio. Questa era l’unica sua attività fissache durò fino a quando, spinto dal suo spiritoavventuriero, scelse di fare il commercianteambulante sui mercati della nostra provincia. Ero ancora bambino quando con la sua biciclettatrascinava una carrozzina piena di merce fino almercato di Lecco distante una trentina di chilo-metri; su quel semplice veicolo portava anche meaffinché, sulle salite, potessi spingere il carico earrivare così tutti e più presto a destinazione. Sipartiva il giorno prima nelle ore pomeridiane e cisi fermava a Calolziocorte la notte, in una locan-da, per arrivare al mattino presto e prendere postosul mercato. Il progresso gli consentì di acquista-re un cavallo e un calesse per i suoi spostamenti

e così risparmiò ulteriori fatiche. Mia madre miraccontava spesso che un giorno, a Cisano Ber-gamasco, rimasero imprigionati tra una sbarra el’altra del passaggio a livello mentre passava iltreno. Fu un’esperienza tremenda e fortunata-mente non ci scappò una disgrazia, per la diffi-coltà a tenere fermo il cavallo anche lui impauri-to. Una notte mio padre sognò che qualcuno glistesse rubando quel cavallo: si alzò dal letto e inmutandoni si precipitò dalle scale in cortile cor-rendo velocemente verso la stalla. Questa avevaper porta una staccionata fatta di liste di legno enel semibuio guardò per quelle larghe fessure percontrollare il cavallo. Ma non lo vide. Corse allo-ra in strada gridando “al ladro!”, e con velocitàinaudita arrivò sino alla piazza detta “Lupi”. Nontrovando nessuna traccia di ladri e cavallo, tornòa casa desolato. Mia madre intanto, scesa in cor-tile, aspettava il suo Alfredo. “Ma cosa è succes-so?”, gridò a mio padre. “Ci hanno rubato ilcavallo e sono spariti!”, replicò con rabbia miopadre. “Ma guarda che il tuo cavallo sta man-giando tranquillamente il fieno nella stalla!” glirispose mia madre. Nella fretta, mio padre avevaguardato sì nella stalla, ma non si era accorto cheil cavallo stava dormendo sdraiato. Dopo quell’e-sperienza equina, il progresso portò mio padre adacquistare un motocarro Benelli dal cassone inlegno rifatto e adattato per il carico da portare aimercati. Quando si doveva affrontare una salita ese si voleva arrivare a destinazione, a causa delmotore talmente debole, mia madre aveva il com-pito di spingere il motocarro. Mio padre inventòun seggiolino collocato in coda al cassone, per-ché la Lucia, superata la salita, potesse salire sulmezzo ancora in corsa. Un giorno però, a miamadre ormai non più giovane, non riuscì il saltoacrobatico e rimase per strada, a piedi. Mio padrearrivò al mercato, che quel giorno si teneva aCalusco d’Adda, tutto orgoglioso come un Nuvo-lari su quel rombante mezzo e si sentì chiederedai suoi colleghi come mai quel giorno era senzaLucia. Capì al volo che alla sua Lucia era suc-cesso qualcosa di insolito. Rifece immediata-mente la strada appena percorsa e, a pochi chilo-metri, incontrò mia madre arrabbiatissima e stan-ca di camminare.

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Queste sono solo due delle tante avventure diAlfredo e Lucia che danno l’idea di una vita difatiche anche se apparentemente spensierata.Ogni tanto mio padre, per consolarsi, si dedicavaal bicchiere di vino e questo vizio lo imparòfacendo il tragitto Mapello-Sotto il Monte, visi-tando le cascine disseminate sulla strada con lasua bicicletta carica di ceste di mele o di saponeda vendere alle massaie. Non poteva rifiutare quelrosolio per l’ospitalità di quelle signore e così,sorso dopo sorso, recuperava una certa allegria, inalcuni casi eccessiva, che mandava in bestia lamamma. In quel periodo, anche mio nonno pater-no Gabriele aveva un negozio di scampoli di tes-suti ad Almenno San Bartolomeo. Era una perso-na abbastanza colta e ogni estate i miei genitori mimandavano un mesetto da lui, in vacanza. L’aria diquel paese ai piedi dell’Albenza faceva bene allamia salute e in quella circostanza, a differenza del-la normalità, potevo giocare quanto volevo. Dalnonno materno Mosè, al contrario, dovevo lavora-re pur non avendo ancora l’età per capire chedovevo imparare un mestiere. Quando nonnoGabriele era solo nel suo negozio, lo vedevo spes-so disegnare a matita, su dei foglietti, dei ritrattiinventati. Fu questo il ricordo più chiaro che mirimase del nonno. Forse anch’io presi da lui quel-la voglia di fare l’artista. Anche per lui, come permio padre, l’ambizione di far soldi è sempre stataquasi nulla. Da giovane aveva fatto il carabiniere efu in quell’occasione che poté istruirsi quel pocoche bastava. Al contrario, il nonno Mosè era unpersonaggio molto rispettato in paese e dintorni efaceva parte, grazie alle sue amicizie, della cer-chia delle persone che allora contavano in un pae-se: il parroco, il dottore, la comare e il sindaco.Era titolare di una falegnameria con una decina dioperai molto considerata nella zona. Fece impor-tanti manufatti per l’Eritrea e la Somalia che spe-diva per nave nel periodo coloniale italiano. For-niva imballaggi per munizioni e traversine diquercia per le rotaie dei treni. Entravano nella suafalegnameria alberi ridotti in tronchi, ne facevatavole, passavano alla stagionatura e con esse rica-vava il prodotto finito: serramenti, attrezzi percontadini, mobili, casse da morto e tutto quelloche, di legno, serviva alla gente. Io sono stato l’u-

nico dei suoi nipoti a rimanere nella sua famigliae a imparare quella professione. Era molto severoe sotto di lui bisognava apprendere a tutti i costi.Solo in tempo di guerra mia madre, avendo biso-gno di aiuto economico, chiese al nonno dilasciarmi libero almeno il lunedì, per la venditadel sapone alle casalinghe. Io ero molto contentoperché quella giornata di libertà mi divertiva: conuna cassetta di legno a tracolla giravo per le casci-ne di Fontana per convincere le donne ad acqui-stare quel sapone, che io naturalmente consiglia-vo. Dicevo che faceva miracoli e così, in pocheore, svuotavo la mia cassetta e portavo alla mam-ma il denaro per la settimana. Non vi dico quantebugie raccontavo a quelle donne pur di vendere infretta, perché se guadagnavo del tempo me logodevo osservando quei cortili pieni di attrezzistrani che i contadini usavano nei loro campi. Ilnonno Mosè aveva un orto dove c’era di tutto:pesche, pere, uva, ribes, uvaspina, ciliegie, noc-ciole e tutte le qualità di uva che si poteva imma-ginare; un vero paradiso terrestre. Ogni tanto ilnonno mi ci mandava a estirpare l’erba, special-mente nell’appezzamento di fragole e natural-mente sempre sotto la sua sorveglianza. Un gior-no decisi di dare l’assalto alle fragole a sua insa-puta; erano tanto belle e buone che ne valeva lapena. Il cortile e l’orto erano divisi da una retemetallica e un pomeriggio, appena dopo pranzo,mentre il nonno faceva il solito sonnellino pome-ridiano, saltai la rete verso quel paradiso. Non feciin tempo ad assaggiare la prima fragola che misentii chiamare dalla mamma: “Sono scoperto!”,pensai. Perciò stetti zitto. Lasciai passare pochisecondi mentre lei si allontanò per cercarmi nellaboratorio: lasciai quelle fragole tanto desiderate,saltai la rete come un gatto e lì per lì studiai unostratagemma. In fondo alla rete c’era un porticatoche fungeva da deposito dei sacchi di trucioli dellegno, che i lavandai durante la settimana veniva-no a ritirare in grandi sacchi di juta. Io mi precipi-tai su quel mucchio di sacchi pieni e feci finta didormire. Mia madre che mi cercava ritornò in quelcortile e mi chiamò ad alta voce. “Mamma, cosavuoi?”, risposi col tono di chi si era appena sve-gliato da un lungo sonno. “Ma se ti ho chiamatoanche prima tanto forte, perché non mi hai rispo-

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sto?” replicò. Io risposi che non l’avevo sentita. Elei: “Forse non ti senti bene oppure sei un po’esaurito!”. Finì che il giorno dopo mi portò daldottore che si chiamava Riva; una persona seve-rissima, dalla quale non si cavava, in nessunaoccasione, un minimo di sorriso. “Guardi, dottore,che brutta cera che ha mio figlio! Forse ha biso-gno di qualche ricostituente!” disse subito miamadre. E gli raccontò l’accaduto del giorno prima.“Prima di tutto” replicò il medico, “tuo figlio nonè mai stato bello, e in ogni modo, se oggi è un po’più pallido del solito, ti darò queste punture dafargli”. Per colpa delle fragole dovetti subire duescatole di quelle micidiali punture.Un’altra volta, con mia sorella, nel periodo dellenocciole, ne mangiammo così tante che lei se lacavò con due o tre giorni di olio di ricino, io inve-ce con una forma di tifo seppur leggero. Per gua-rire mi tennero a cibi macinati e specialmente ariso reso polvere e mangiato come la pappa deineonati. La dieta durò per circa un mese e fortu-natamente superai quella crisi di salute. Da allo-ra il mio intestino rimase per sempre piuttostodelicato. A circa sedici anni un’infezione mi misea letto con dolori alle gambe e il dottore non capìquale fosse la causa. Mia madre era disperata. Miricordo che faceva spesso venti chilometri in bici-cletta fino ad Albano S. Alessandro per pregare alsantuario della Madonna delle Rose. Diceva cheil prete di quella chiesa faceva miracoli e lei,devotissima, ci andò almeno cinque o sei volte. Sirivolse anche a un guaritore chiamato “Bianchì”di San Sebastiano, una frazione del comune diBergamo distante un paio di chilometri dal nostropaese. Venne con del liquido e me lo mise sulleghiandole inguinali, fece dei movimenti forzaticon le mie gambe che mi sentivo staccare dalmale e, miracolosamente, dopo pochi giorniripresi a camminare. Quell’uomo, mandato forsedalla Madonna, come diceva mia madre, mi guarìe anche quella crisi passò. A diciotto anni ormaiavevo imparato il mestiere che mio nonno confatica mi aveva insegnato. Mi mancava solo difare esperienza. Dove abitava mio padre era adisposizione una stanza che decisi di organizzarea mo’ di piccolo laboratorio. Alla sera, dopo cenae fino a mezzanotte, vi costruivo mobiletti per

radio e mobiletti-bar secondo il design del perio-do (foto 13). Con il ricavato di quei lavori potevoaiutare la famiglia e pagarmi le spese personali.Dopo un paio d’anni, forse per le poche ore dor-mite la notte, mi prese un mal di stomaco e dovet-

ti ricorrere prima al medico e poi allo specialista.“Devi assolutamente ridurre la tua attività, per-ché il tuo ventricolo si è abbassato. Devi faremolto sport all’aria aperta!”. Questo fu il consi-glio dello specialista che mi aveva visitato allaclinica Gavazzeni di Bergamo. Io non persi tem-po: acquistai una bici da corsa usata e, tutte lesere, il sabato e la domenica, uscivo per lunghepedalate in compagnia di amici.In pochi mesi, mi rimisi in sesto e non sapendocome impiegare il tempo nelle sere invernali, mimisi a studiare per corrispondenza. Mi piaceva ildisegno, specialmente tecnico, perché mi potevaservire per la progettazione di mobili e di serra-menti. Nel medesimo tempo iniziai a dipingerecopiando cartoline e fu così che sentii per la pri-ma volta l’odore dei colori a olio. Dopo aver let-to per caso, su un manuale di pittura della colla-na Hoepli, che per imparare meglio era più indi-cato uscire a dipingere all’aperto, iniziai la miacarriera di artista.

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LA MIA FAMIGLIA

In questi spaccati della mia storia, in diverse cir-costanze parlo di mia moglie Tiziana e dei nostrifigli Lucio e Emi (foto 14). Mia figlia e suo

marito Maurizio abitano sopra il nostro apparta-mento in una deliziosa mansarda ricavata daquello che una volta era il mio studio di pittura.Mio figlio Lucio abita a Monaco di Baviera, cittànella quale si è trasferito per motivi professiona-li, con la moglie Borbála Balázs, di origineungherese. Hanno due figli, Marco e Matteo.Una o due volte l’anno vado da loro per una bre-ve visita, mentre mia moglie li visita più di fre-quente e rimane per periodi più lunghi, spessoper seguire i nipotini nei momenti di necessità.Quando sono in quella città cosí ricca di musei,di teatri, di musica e di tante attività culturali,capisco quanto piccola sia la nostra Bergamo enon solo dal punto di vista geografico. Miofiglio, impiegato di banca, è da anni appassiona-to di musica e suona il pianoforte. Sta terminan-do i suoi studi musicali nonostante l’impegno del

lavoro e della famiglia. Chissà da dove arrivaquella sua musicalità, poiché nella famigliaBenaglia non c’erano musicisti. Molto probabil-mente deve averla ereditata da parte di miamoglie, la quale, a sua volta, ha una parte di san-gue donizettiano poiché sua madre appartenevaalla famiglia del grande compositore bergama-sco. Mia moglie ha avuto sempre una grande pas-sione per l’opera, per la musica in generale e hauna bella voce intonata. Mia nuora – come hodetto – è ungherese, e la sua famiglia è originariadi Buda. Sta studiando psicologia all’universitàdi Monaco di Baviera. Mia figlia Emi è sposatacon un pilota dell’Alitalia, il comandante Mauri-zio Brunelli d’origine bresciana. Quando, appenaottenuto il brevetto di pilota d’alianti, mi portò afare qualche giro su quegli uccelli di resina, mifece provare, con qualche brivido, emozioni nuo-ve per il mio diario di viaggiatore. Mia figlia Emiha sempre avuto una predisposizione particolareper le arti figurative e decorative. Mi ricordo deibei disegni che sfornava durante tutto il suoperiodo scolastico. Dopo una pausa di meditazio-ne, durante la quale svolse l’attività d’impiegatacomunale, la sua passione per le arti figurative èimprovvisamente sbocciata come d’incanto nel-l’attività di ceramista qual è diventata da pochianni a questa parte, dopo una serie di corsi che hafrequentato a Faenza. In generale la mia famigliaè sempre stata abbastanza tranquilla, salvo queimomenti che ci fanno sobbalzare il cuore in pet-to e che fanno mancare il fiato. Poi torna tuttocome prima (almeno così mi sembra) ed io possocontinuare a lavorare nel mio studio e a dipinge-re di mattina, e a consumare il pomeriggio con imiei scalpelli, i miei legni, le mie segature e contutte le altre mie diavolerie. Da quando mi sonosposato ho avuto la fortuna di non subire disgra-zie che avrebbero potuto segnare il mio lavorod’artista, perciò il mio comportamento è semprestato abbastanza lineare e la mia evoluzione èsalita a gradi, senza grandi escursioni. Il mio otti-mismo, e forse la mia ingenuità, mi ha aiutato asopravvivere e superare tutti quei pericoli chepotevano minare la mia serenità interiore anchese non sono mancati momenti difficili, special-

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mente in ambito economico. Posso affermare chela famiglia mi ha aiutato moltissimo rispettandole mie scelte e sopportando spesso quelli chesembravano i miei capricci d’artista. Mia moglieTiziana è sempre stata la vera colonna che hatenuto in piedi la struttura intera della famiglia,occupandosi più di me dell’educazione dei figli edella gestione del bilancio famigliare. Nellanostra famiglia tutti hanno lavorato per cercare diraggiungere ognuno il traguardo; abbiamo vissu-to nella semplicità e quello che abbiamo, in sen-so materiale e spirituale, lo abbiamo sempre gua-dagnato con le nostre mani. Dopo la morte di mia suocera, Angela Donizetti,che tutti chiamava con affetto “Angelina”, miosuocero venne per diversi anni a trascorrere l’in-verno nella nostra casa. Come fanno gli uccellimigratori, si trasferiva anche lui a sud (nel suocaso per solo un chilometro, ma ciò gli bastava)mentre, d’estate, rimaneva a Paladina presso lealtre le sue figlie. Si chiamava Emilio, EmilioCattaneo: era una persona buona, integerrima, digran cuore e di un’onestà incredibile che oltre atenerci sempre tranquilli, ci dava per quel perio-do anche un piccolo sostegno economico che,non lo nego, in alcuni momenti è stato provvi-denziale. Tutte le sere, immancabilmente, con ilsuo italiano alla bergamasca, ci teneva inchiodatiper ore a tavola, con i racconti triti e ritriti, mastranamente sempre nuovi, dei suoi quattro annitrascorsi al fronte, durante la Prima guerra mon-diale. Una volta, i miei figli, d’accordo con glialtri suoi nipoti, decisero di fargli una sorpresa. Ilnipote Adriano, un imitatore formidabile di per-sonaggi, venne in casa travestito da carabiniere.“Abita qui il signor Cattaneo Emilio, pensiona-to?” chiese dopo aver varcato la porta di casa. Inquel momento il nonno Emilio era proprio lìseduto al tavolo del soggiorno, circondato daglialtri nipoti che, ovviamente, sapevano della farsain atto. “Buona sera, signor carabiniere, cosadesidera?” esclamò esterrefatto e mettendosi qua-si sull’attenti. Il nipote travestito replicò: “Sonoqui perché forse si sono sbagliati nel pagarle lapensione e dovrà restituire tanti ma tanti soldi!” Ilnonno rispose: “Mi sembra strano, io non ho mai

saputo niente del genere, signor carabiniere”. Ilnipote aveva gli occhiali da sole, per non farsiriconoscere, e se li tolse, ma sembrava tanto unvero carabiniere che il nonno non lo riconobbe. Ilnonno allora andò in camera a prendere i docu-menti in merito alla pensione, e li mostrò al fintomilite. Il nipote fu tanto convincente che alla fineil nonno esclamò: “Se è proprio così, vorrà direche restituirò il dovuto a quelli della pensione!”.Lo disse tanto seriamente che il nipote si mise aridere e volle farsi riconoscere: “Nonno, guardache sono io, Adriano, ti abbiamo fatto uno scher-zo!” ma il nonno incredulo rispose: ”Ma no, tunon sei l’Adriano!”; infatti non immaginava chesi potesse presentare con una divisa da carabinie-re. Quella sera tutto si risolse in una risata gene-rale, come si faceva spesso. Si festeggiò l’avveni-mento con qualche dolce e del buon vino. Un’al-tra sera, sempre in casa nostra, i nipoti organizza-rono un teatro in casa, invitando tutti i parenti. Sinarrava la storia del soldato Emilio Cattaneocombattente nella Prima guerra mondiale. Larecita si aprì con le parole “ Mentre il trenofischia, il tuo amore parte”. Era l’inizio di un bre-ve biglietto che il soldato Emilio aveva davveroscritto alla sua amata Angelina quando da Paladi-na partì col treno che lo avrebbe portato al fron-te. Una serata indimenticabile. Nella mia fami-glia, quella dei Benaglia, tra parenti non si è maiarrivati a un legame così profondo come per lafamiglia di mia moglie. Mio padre, povero cristo,ha dovuto sempre lottare con la sfortuna e in cer-ti casi pensava, probabilmente, che il calice divino potesse essere l’unica soluzione a tutti i suoiproblemi. Per questo, è sempre stato un tipo piut-tosto scontroso, testardo e chiuso in se stesso enelle sue difficoltà. Mi ricordo di quando, negliultimi anni della sua vita, nei momenti in cui riu-sciva a staccarsi dall’alcool, si chiudeva in casaper ore e ore a costruire castelli di compensato ogabbie di legno. Una strana passione per dueoggetti che esprimono un senso di chiusura ed’introversione. Sicuramente, noi figli abbiamosubito quella difficile situazione famigliare e, tranoi, ci siamo comportati da sempre in un modopiuttosto selvatico e chiuso.

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Ma torniamo alla mia famiglia. La nostra casa èsempre stata un punto d’incontro d’artisti e diamici d’artisti. Ricordo che, in tante occasioni, sitrovavano a casa nostra, quasi per caso, compa-gnie di dieci o più persone che, intorno al nostro

lungo tavolo del soggiorno, apparecchiato inmodo semplice con qualche pasticcino portato daqualcuno e un paio di bottiglie portate da qualcunaltro, si accendevano spesso interessanti discus-sioni artistiche, politiche, gastronomiche, econo-miche, scolastiche. Il ritmo di tali incontri siaccentuò quando i miei figli divennero grandi eportarono a domicilio anche loro, ogni tanto, gliamici o i compagni di scuola e, accadeva spesso,quasi per caso, che si trovassero insieme personediverse d’età a discutere di tante cose, dalle piùfutili a quelle più profonde. Sono stati, in molteoccasioni, incontri che ci hanno umanamentearricchito e che hanno fatto diventare la nostracasa un luogo d’incontro vivo e aperto. E oggisono grato alla vita per avermi donato quei beimomenti felici, così come penso lo siano anchemia moglie e i miei figli che insieme con me lihanno vissuti.I miei suoceri Emilio e Angelina.I miei suoceri Emilio e Angelina.

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CORSO SERALE ALLA CARRARA

Ormai avevo iniziato a muovere i primi passi conla pittura e le mie carenze nella tecnica del dise-gno mi mettevano in difficoltà quando si trattavadi impostare sulla tela uno schema di paesaggioo una natura morta. Saputo che all’AccademiaCarrara di Bergamo avevano istituito un corso didisegno della figura umana con l’assistenza delpittore Mino Marra, dopo qualche titubanza sulda farsi, decisi alla fine di iscrivermi. A causadella mia attività d’imprenditore, non potevo par-tecipare a tutte le lezioni che si tenevano ognigiorno lavorativo dalle 20.30 alle 22.30. La quo-ta di iscrizione non era troppo onerosa e le speseaccessorie venivano divise tra i partecipanti. Ebbila possibilità, oltre a imparare il disegno, di fareconoscenza con artisti già affermati come MarioDonizetti, Trento Longaretti e tanti altri. Il custo-de mi chiamava “il portantina” perché moltospesso arrivavo alla scuola con i quadri che aquell’epoca dipingevo per farli vedere ai colleghial fine di farmi dare consigli. Andavo al corsocon un motorino Guzzi 75 con sulle spalle unaportantina che usavo appunto per portarmiappresso i quadri: fui di conseguenza ribattezza-to col nome di quell’attrezzo.Quel corso serale era diventato anche un modoper tornare bambino: mentre lo frequentavo miero fatto tanti amici nel campo della pittura edopo quelle lezioni, rincasando, ne combinavo ditutti i colori su e giù dai marciapiedi con quel miomotorino per le strade deserte, con l’amico Pedo-ne sul seggiolino posteriore. Durante il secondoanno del corso acquistai una Fiat Giardinetta equel mezzo fu più comodo e sicuro specialmented’inverno. Quindici giorni dopo l’acquisto, unasera, con la patente fresca in tasca, feci il mio pri-mo incidente. Erano circa le undici, e, mentreproseguivo per Via Broseta, da un cancello sullamia destra uscì improvvisamente una Fiat Seicen-to: proseguì per circa cinquanta metri e, tutto adun tratto, mise la freccia e girò immediatamente asinistra. Io non fui pronto a frenare data la miapoca esperienza di guida e la centrai in pieno.Rimasi contuso andando a sbattere contro il para-

brezza e, degli occupanti della Seicento, uno loportarono all’ospedale. Visto che sanguinavo, unsignore mi portò con la sua moto al pronto soc-corso dell’Ospedale Maggiore di Bergamo. Ilmedico di guardia, data l’ora tarda, mi diede tre oquattro punti per suturare la ferita e cercò di con-vincermi a rimanere in ospedale sotto osservazio-ne per ulteriori controlli. Mentre il dottore chia-mava l’infermiera io fuggii come un ladro dall’o-spedale perché non volevo che a casa pensasseropiù male del solito. Non ricordo come trovaiun’altra persona che mi riportò sul luogo dell’in-cidente. Visto che ormai tutto era tranquillo e chela mia giardinetta era stata portata via dal carroattrezzi, mi feci portare a casa. Mia moglie,vedendomi tornare senza macchina, con la testabendata e accompagnato da uno sconosciuto, sispaventò. Tutto si risolse dopo le relative spiega-zioni. Anche quell’avventura venne prestodimenticata e continuai a partecipare al corsoappena ebbi il tempo di farlo. Ricordo che, allafine delle lezioni, si facevano spesso confronti ediscussioni sui nostri disegni (foto 15) anche se,

per il sottoscritto, quell’attività era essenzialmen-te un esercizio pratico non fine a se stesso maindirizzato ad aiutarmi nella mia pittura, alloradedicata al paesaggio. Ero proprio innamoratodel paesaggio e della natura che lo animava. Inquel periodo era direttore dell’accademia Carrara

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Figura, carboncino su carta, cm 80x86, 1978

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il pittore Trento Longaretti; venne a farci visita inaula quattro o cinque volte durante tutta la duratadel corso. Anche il pittore Calisto Gritti venivaqualche volta a esercitarsi con noi; faceva deidisegni a grandezza naturale con un’abilità sor-

prendente. Questo bastava spesso a infondercientusiasmo e a darci il coraggio di continuare.Tutti si voleva diventare bravi come lui e, ognitanto, lui era ben disposto a dare una mano qua elà, col suo tocco da maestro.

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L’ESAURIMENTO DOPO IL PREMIO OPRANDI

Nel 1967 partecipai per la prima volta al famosopremio Giorgio Oprandi, organizzato dal comunedi Bergamo per gli artisti della provincia. Vi par-tecipai con una sola opera ma non fui ammesso.L’anno successivo ricevetti il bando del concorso,ma visto il risultato precedente, pensando di nonessere ancora maturo per quel confronto, presi ilbando, lo misi in una busta, e lo rispedii allasegreteria del premio con una nota di mio pugno:“Quando meriterò di essere invitato dalla Vostracommissione, allora sarò felice di partecipare”.In quel periodo, la segreteria del premio era diret-ta dal pittore Italo Ghezzi, segretario anche delCircolo Artistico Bergamasco. Lo stesso Ghezziconosceva bene il mio lavoro di pittore, e credoche sia stato lui a farmi invitare l’anno dopo, nel1969, quando con mia meraviglia ricevetti quelprestigioso invito che mi fece molto piacere. In quella fortunata occasione, mi misi immedia-tamente al lavoro per realizzare opere impegnati-ve fra cui poter scegliere poi la migliore che avreimandato al concorso. Venne il momento dellaconsegna dell’opera; avevo tanto timore di farebrutta figura. Per fortuna, precedentemente, ave-vo partecipato a diversi concorsi fuori provinciadove avevo ottenuto diversi premi, e quelle espe-rienze furono provvidenziali.Dopo la consegna delle opere si aspettava tutticon ansia il responso della commissione esami-natrice. Si sapeva che nelle propria città era dif-ficile imporsi, molto di più per gli autodidatticome me perché al concorso partecipavano pro-fessionisti d’alto rango, insegnanti di scuole d’ar-te, professori delle scuole superiori e molti altriche ambivano al prestigioso traguardo.Due giorni prima della premiazione, alle ore ven-ti e trenta, mentre con tutta la famiglia stavamoguardando in televisione l’immancabile “Caro-sello”, ricevetti una telefonata dallo stesso Ghez-zi. “Sai cosa è successo?” mi disse. “Mi dirà chenon sono stato ammesso anche questa volta?” glirisposi con un nodo alla gola!”. “Se lo vuoi cre-dere”, replicò, “la commissione ti ha proposto

per il primo premio!”. “Ma no! Ma sì! Ma è pro-prio vero!” E non risposi altro per l’emozione.Ghezzi capì il mio imbarazzo e mi raccomandòdi essere presente alla cerimonia di premiazione.Fu un momento di giubilo in tutta la famiglia perla fortunata affermazione, sia per il prestigio del-la manifestazione che per il sostanzioso premioin denaro. La notizia fece il giro della città e del-la provincia e arrivò agli artisti che avevano par-tecipato alla rassegna. Questi, venuti a conoscen-za del risultato, contestarono il premio rifiutandole medaglie d’oro a loro assegnate considerate,un semplice palliativo. Si domandarono com’erapossibile che quella importante rassegna potesseessere stata vinta da un falegname, nonché pitto-re dilettante, e sottoscrissero un lettera di prote-sta pubblicata dal Giornale di Bergamo del gior-no 20 settembre 1969 per denunciare l’incompe-tenza della giuria. La commissione era compostada critici venuti da altre città lombarde, che ionon conoscevo. Ecco il testo della lettera: “I sot-toscritti, Franco Normanni, Giacomo Marra,Ignazio Nicoli, Luigi Lizioli, considerando l’as-segnazione del premio offensiva del nome, delvalore, della serietà e dignità professionale di tut-ti gli artisti bergamaschi, nonché della memoriadel pittore concittadino Giorgio Oprandi a cui èdedicata la manifestazione, in segno di protesta,rifiutano il palliativo del diploma e della meda-glia d’oro assegnati loro dal Comune di Berga-mo. Distintamente ossequiano”. Erano, del resto,gli anni della contestazione. La mattina della pre-miazione, che si svolse a Bergamo in Piazza Vec-chia, diversi giovani distribuivano volantini con-tro gli organizzatori del premio; avevano forse leloro buone ragioni, ma di quello che accadde nonavevo certo colpa. All’ingresso ancora chiuso delsalone delle Capriate, dove si svolse la cerimoniae si tenne la mostra delle opere ammesse, un gio-vane che mi conosceva mi porse un volantino diprotesta e mi disse: “Sai, Benaglia, noi non cel’abbiamo con te, ma con gli organizzatori. Vor-remmo che sentissero anche le nostre propostecontrarie all’attuale regolamento che per noi puòe deve essere perfezionato”. A quel punto mitranquillizzai; fui presente all’apertura della ceri-

monia, alla lettura dei verbali che la giuria avevacompilato, e ai discorsi di circostanza tipici diquelle occasioni. Ricevetti infine la busta conte-nente il premio, visitai con altri amici e colleghila mostra allestita egregiamente commentando leopere presenti (foto 17) e, infine, mi incamminai

verso l’uscita. Il salone grandissimo che si trovaal primo e unico piano del palazzo (foto 18) eragremito di gente. Io lo lasciai per scendere lo sca-

lone che portava sulla piazza sottostante. Arriva-to quasi in fondo incontrai un professore firma-tario della famosa lettera. Come ci incontrammo,ci fissammo negli occhi, lui si fermò e tranquil-lamente mi disse: “Scusa Benaglia se c’è stataquella protesta, ma devi sapere che l’ho firmatacon tutti gli altri per certe questioni contro gliorganizzatori e non per far male a te”. “Nonpreoccuparti”, gli risposi: “Pochi minuti fa horicevuto l’assegno di mezzo milione, che mi daràla possibilità di continuare a dipingere, cosa cheho sempre sognato. Tutto il resto, per me, è comese non fosse accaduto”. Quella protesta scatenòin me la forza e la volontà di lavorare intensa-

mente, per dimostrare che la tenacia e la fede nelproprio ideale fa fare miracoli. Certo, io venivoda una bottega di falegnameria e non dall’Acca-demia: potevo pretendere di competere con i pro-fessori senza pagare a caro prezzo le mie soddi-sfazioni in ambito artistico? Ma se il destino miaveva messo nei guai, in qualche modo dovevopur uscirne. E il modo migliore, pensai di trovar-lo attraverso lo studio e il lavoro e capire da cheparte stava la verità; farmi una mia cultura attra-verso la conoscenza di artisti validi che operava-no in quel periodo, visitando le loro mostre e imusei per rendere il mio occhio critico e attentoa quanto stava succedendo intorno a me. nelmondo della pittura. Non mancai per nessunaragione all’appuntamento con la Biennale diVenezia per conoscere l’evoluzione artistico-cul-turale che stavamo vivendo in quegli anni moltoricchi di stimoli e di novità (foto 19). Diversi

colleghi, quando parlavano della Biennale diVenezia, asserivano che era l’esposizione dellestupidaggini. Ma io non l’ho mai creduto; anzi lacuriosità di capire se avevano torto o ragione, mispingeva ancora di più a frequentarla con meti-colosa attenzione. Credo che la mia crescita arti-stica sia stata influenzata anche da quegli eventi.In quel periodo burrascoso, la mia attività artisti-ca e artigianale fu molto attiva. Quella artigiana-le la condividevo con il fratello Mosè, e i nostrirapporti, a causa del mio impegno artistico, siandarono sempre più deteriorando.Ormai il morbo dell’arte mi stava infettando pro-gressivamente e mio fratello mi diede l’ultimatum

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con queste parole: “O decidi di fare solo l’artigia-no, altrimenti ognuno se ne va per la propria stra-da”. Scelsi la strada dell’arte anche se la miafamiglia non fu tanto d’accordo per ragioni disicurezza economica. Iniziò da quel momento unlavoro duro, durissimo: il passaggio fu traumaticoe mi ritrovai, in breve, nel bel mezzo di un esauri-mento psicofisico terribile. Avevo conosciuto, inoccasione della mia partecipazione a quei concor-si di pittura, un gruppo di amici pittori della Ligu-ria, dediti alla pittura del paesaggio all’aperto(Foto 20). Mi invitarono per un soggiorno a Li-

vigno e, trovandomi in quelle precarie condizionifisiche, pensai che quelle vacanze sarebbero sta-te utili per il mio stato di salute. Il soggiorno sisarebbe trascorso in un albergo – “il Cervo” incentro al paese – in cambio di una piccola operada lasciare. Chiesi loro se potevo portare un ami-co ed essi accettarono. Portai con me il pittoreGhezzi. Partimmo con tele, pennelli, colori e conla mia auto. Percorsa la Valtellina arrivammo sulposto; una vallata coronata da superbe montagneancora innevate pur essendo giugno. Al mattino, di buon’ora, si partiva per dipingereall’aperto. Andavamo a caccia di vecchie baiteisolate nei prati in fiore per ritrarle sulle nostretele (foto 21). Un giorno decidemmo di andare adipingere in alta montagna e, forse per la con-centrazione del lavoro o per l’eccessiva altitudi-ne, sentii in tutto il corpo strane sensazioni diinsolito affaticamento. Tornati verso sera inalbergo, a cena non ancora finita, incominciai adimpallidire e a sudare: “è un collasso”, dicevano.

Mi adagiarono su un divano e piano piano ripre-si il mio solito colore. Fui accompagnato a lettoma passai la notte nella terribile paura di sentir-mi morire ogni dieci minuti.Decisi di fare testamento e chiesi carta e pennaall’amico Ghezzi, che era mio compagno di ca-mera. Fu il primo testamento della mia vita.Di prima mattina, venne un giovane dottore a far-mi visita. Mi prescrisse una cura di antibiotici equelle medicine mi spossarono ancora di più.Decidemmo allora di tornare a casa in anticipo:salutammo gli amici e con la mia auto guidata dalsottoscritto, anche se a fatica, raggiungemmo laporta di casa. Avevo preso le sembianze di uncadavere, tanto ero debilitato. Mia moglie veden-domi si spaventò terribilmente. Ormai ero nellacrisi fisica più profonda e passai diversi mesi incasa con le mie paure, prima di liberarmi da quel-la disgraziata malattia.Quel forte esaurimento fisico mi tolse per parec-chio tempo la possibilità di continuare con la pit-tura: anche la volontà era venuta meno. La gioiae l’entusiasmo, che mi avevano sempre accompa-gnato sin dai miei primi contatti con la pittura,sembravano svaniti per sempre. Furono momentiterribili e grande era la paura di non poter maipiù superare quella maledetta condizione. Il miocontatto fisico con le matite o coi pennelli esplo-deva nella vista di una morte sicura.Toccato il punto più profondo di quella malattia,grazie a cure di ricostituenti, incominciai a mi-

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gliorare e ad acquistare più fiducia nella possibi-lità di togliermi da quella tremenda situazione.Quella crisi migliorò piano piano fino a rendermipiù sicuro nel mio avvenire di pittore, ma la fra-gilità mi portava a ricadute più o meno frequenti:non avevo il coraggio di uscire da solo per unapasseggiata né tanto meno per un viaggio, anchebreve, in automobile. Ero stanco ormai di quella prigionia forzata;capivo che dovevo reagire per uscirne e torna-re una persona normale. Per ingannare il miocorpo, ricorsi ad uno stratagemma; decisi diandare a Milano tutto solo. “Succeda quel chesucceda”, pensavo, “ma devo farcela e il più pre-sto possibile!”.Il giorno dopo partii con la mia auto, imboccail’autostrada, ma a metà tragitto sentii i soliti sinto-mi di malessere. Mi fermai in un autogrill, mi fecidare una limonata calda e ripartii verso la metastabilita. Giunsi a Milano e feci visita alla Galleria“Il Naviglio” e alla galleria “Cortina”. A mezzo-giorno pranzai in una tavernetta vicino a PiazzaCavour e il pomeriggio feci una bella passeggiatain centro, senza meta. E la sera ritornai a casa.

Quella giornata fu per me come una battagliavinta, e dal giorno dopo la mia vita ricominciòcome nuova: la mia tenacia cancellò, anche senon del tutto, la paura di sentirsi morire e la spe-ranza di guarire si fece più chiara e vidi il futuropiù sicuro. Rifeci altre esperienze, altre prove diforza, sicuro delle mie convinzioni, e nello stes-so tempo ricominciai a disegnare e a dipingeresenza che altre evidenti crisi mi potessero ferma-re. La mia filosofia nell’interpretare le cose cam-biò radicalmente, lo stato psico-fisico generalemigliorò gradatamente finché la vita ritornò qua-si normale. La paura di ricadere in quelle tragi-che condizioni di salute mi rese più attento avalutare gli sforzi e a camminare tranquillamen-te anziché correre con affanno. Mi avvicinai quasi completamente alla naturanelle mie frequenti passeggiate nei boschi, allaricerca della mia serenità interiore. A poco apoco ripresi a partecipare a concorsi di pittura ead organizzare mostre personali. Ormai, abban-donata la pittura estemporanea per quella diricerca, stava maturando il tempo che dovevaportarmi alla scultura.

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Premio Oprandi - Crepuscolo in un campo di grano, olio su tela, cm 100x120,1969

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IO E LA POLITICA

La politica, si dice, è l’arte di governare uno Sta-to. E le mie esperienze in campo politico si sonosempre risolte in modo disastroso, specialmente acausa del mio carattere ingenuo e nello stesso tem-po poco disposto a compromessi e a diplomazie. Ricordo che, quando i miei figli frequentavano lescuole elementari, fui eletto presidente del Patro-nato Scolastico del nostro comune. Quell’ente, diemanazione pubblica, aveva il compito di assiste-re e aiutare anche economicamente gli scolari piùbisognosi. Uno dei miei compiti più importanti,vista l’esiguità dei mezzi economici a disposizio-ne, era anche quello di raccogliere fondi da vari“sponsor”, per lo più imprese artigiane del paese,per finanziare programmi didattici che la stessascuola non poteva altrimenti portare avanti. Più tardi, quando i miei figli passarono alle scuo-le medie, ebbi l’onore e l’onere di presiedere uncomitato che aveva lo scopo, in accordo con ilpreside e gli insegnanti, di elaborare programmidi sostegno alla didattica tradizionale, organiz-zando gite scolastiche, corsi di formazione pergenitori e cercando di organizzare, inoltre, l’inse-rimento dei ragazzi che non avevano più interes-se o mezzi per proseguire gli studi, nel mondodel lavoro grazie alla collaborazione delle azien-de artigiane e delle industrie della zona. I com-promessi, anche con le autorità comunali che, inparte, finanziavano il comitato, erano all’ordinedel giorno. A me, sembravano inutili giri di cartee di parole che servivano solo a complicare ulte-riormente le cose. Avevo ingenuamente in testa

solo il sistema più veloce ed efficace per risolve-re i piccoli e grandi problemi che via via si dove-vano affrontare. Ma sappiamo quanto siano spes-so complicate le regole del decidere insieme. In quello stesso periodo, la Scuola Apostolica deiPadri Giuseppini, che da anni aveva sede, in unbel palazzo aristocratico nella frazione di Ossa-nesga, si trasferì in una nuova sede costruita inun’altra località del nostro comune. La vecchiasede del seminario, ormai vuota, fu messa in ven-dita: si trattava del cosiddetto Palazzo Lupi, dalnome di una famosa famiglia aristocratica che loaveva costruito, con annesso un grande parco.Per più di un anno lavorai strenuamente perché siraggiungesse un accordo tra l’allora rettore eamico Don Lorenzo, e il sindaco del mio comu-ne, affinché il palazzo fosse acquistato dall’Am-ministrazione comunale per adibirlo a sedemunicipale, con annesso centro culturale ebiblioteca. Purtroppo, per futili motivi, perlopiùdi carattere campanilistico, e a causa della mio-pia politica dell’amministrazione comunale allo-ra al potere, la mia idea non si realizzò. Adesso, quando dalla finestra del mio studio lan-cio uno sguardo su quel parco con quella grandevilla, ora di proprietà privata, immagino l’andiri-vieni della gente del mio paese lungo quel vialealberato. Da quel giorno non mi sono più occu-pato di politica. Si tratta di un ambiente che, percarattere o per interesse, non mi è congeniale.Però prego sempre Iddio perché ci mandi deipolitici e degli amministratori della cosa pubbli-ca più saggi di quelli che finora, salvo rare ecce-zioni, abbiamo avuto.

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30° DI MATRIMONIO CON PIETRE

Nel 1989, in occasione del nostro 30° di matri-monio, i miei figli fecero a me e a mia moglie unagradita sorpresa. Ci fecero avere, senza preavviso,un biglietto aereo per le vacanze al mare in Sar-degna.Essendo obbligati a partire, pena la perdita deldenaro pagato in anticipo, viaggiammo in aereo edopo poche ore dalla partenza da Bergamo arri-vammo al nostro hotel a Santa Teresa di Gallura,nell’estremo nord della Sardegna. All’aeroportodi Olbia vennero a prenderci con l’auto dell’ho-tel e attraversammo l’isola in mezzo a una vege-tazione dai mille colori e ad alberi di sughero.Era una bellissima giornata. Arrivammo all’ hotelnel tardo pomeriggio e di sera, dopo cena, scen-demmo sulla spiaggia che distava pochi metri;era quasi buio e il paesaggio lungo la costa sipoteva a malapena scrutare.Passammo una notte tranquilla in un piccolo bun-galow e di mattino non troppo presto dopo cola-zione ci sdraiammo al sole vicino alla piscinadell’hotel; resistetti non più di cinque minuti inquella seppur comodissima posizione perché lamia solita irrequietezza mi spinse a lasciare lasdraio e a prendere un sentiero che portava allaspiaggia sottostante. Fatti pochi passi dietro ilmuretto della piscina, rimasi come immobile difronte a una visione straordinaria. Più il miosguardo si allontanava, più la mia meraviglias’ingigantiva di fronte a tanta bellezza. Quellenon erano pietre: erano sculture ciclopiche mes-se lì chissà quando da quale gigante. L’acqua eil vento le avevano modellate e la superficie cheemergeva dall’acqua era sì molto grezza, mamodellata con sapiente dolcezza. Un museoall’aperto che non aveva pari. Sentivo quasi pau-ra a toccare quelle pietre che stavano lì comemonumenti sacri. Alcune erano tanto alte chesembravano messe a difesa del cielo che in quelmomento era di un blu molto forte. In quell’am-biente silenzioso si sentiva solo la preghiera delmare. Mi avvicinai a una serie di tre pietrealte due o tre volte più di me, una accostata all’al-tra: mi fermai di fronte alla più svuotata dal

tempo e quella mi accolse in una delle sue cavitàcome fossi invitato a penetrarla. In quell’angolodi paradiso mi sentii attratto da quelle opere del-la natura, e in quel momento avvertii come unleggero tremore: delle sensibili vibrazioni in tut-to il corpo. Forse lo spirito di quella pietra almomento della palpazione stava entrando dentrodi me. Lo spazio era molto aperto e grande dascrutare, ma tutta la mattinata non feci altro cheguardare e toccare quelle tre pietre come attrattoda una specie di divinità. Arrivò mezzogiornosenza che me ne accorgessi e se non fosse statoper il richiamo di mia moglie avrei sicuramentesaltato il pranzo. Nel pomeriggio ritornai sulposto e visitai tutto quello spazio con miamoglie: erano decine di pietre una più bella del-l’altra di grandi e piccole dimensioni (foto 22).

Ormai il mio posto era lì, in quel lembo di ter-ra dove quelle pietre erano piantate o incasto-nate: dopo poco tempo scoprii che certe soluzio-ni, certe forme di cavità nei miei quadri eranodedicate a certi particolari di quelle forme cosìnaturali: eppure era la prima volta che le avevoviste. Forse anche loro hanno fatto parte dei mieisogni segreti, quelli che appena svegli non siricordano ma che rimangono nel nostro incon-scio (foto 23).Dopo tre giorni venni a conoscenza che a circaun chilometro si trovava un promontorio chiama-

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to Capotesta dove si diceva che vi si trovasseroaltre pietre dello stesso tipo ma in quantità supe-riore. L’indomani di buon’ora ci andai a piedimunito della mia macchina fotografica. La vege-tazione lungo il percorso era normale direi finoa metà di quel promontorio. A un tratto, oltrei cespugli si offerse alla mia vista un paesag-gio emozionante: ecco apparire delle collinettedi pietra, alcune delle quali gigantesche, chepresentavano cavità arrotondate più o menoprofonde; altre con delle gonfiature aerodinami-che appoggiate su altre pietre e che erano comein bilico pronte a precipitare da un momentoall’altro.Fu impressionante vedere tre pietre distese unaaccanto dall’altra come tre sarcofaghi di civiltàscomparse e poi tante forme che potevano rap-presentare i personaggi più bizzarri: corridoi,canali, viscere, organi femminili che solo la fan-tasia della natura aveva potuto generare (foto 24).Pietra dopo pietra, una accanto all’altra, e conti-nuando a camminare sopra quelle superfici arro-tondate, giunsi sulla riva del mare. L’acqua,ondeggiando, intonava tra le fessure di quellepietre delle note che si ripetevano a ritmo costan-te, in sintonia con l’armonia che in quel momen-to sentivo nel mio intimo. All’improvviso mi tro-vai come su una piattaforma ad un paio di metrisopra il livello dell’acqua e grande come unapiazza: sullo sfondo campeggiava una scultura

gigante. Caricai la mia macchina fotografica,inserii l’autoscatto e, di corsa, andai a posare sot-to quella magnificenza, per testimoniare non solo

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la bellezza di quella forma ma anche il rapportodi misura tra me e lei (foto 25). Fu un privile-gio poter ammirare e rivivere tali emozioni epoter conoscere proprio nel nostro paese, l’Italia,tali bellezze della natura. Quella settimana visi-tammo altri luoghi come CastelSardo, le Bocchedi Bonifacio, la Costa Smeralda e tanti altri,

ma un angolo come Capotesta e dintorni nonlo potrò mai dimenticare. Molto tempo ho tra-scorso tra quei massi granitici. Li ho fotogra-fati anche nei particolari e ogni tanto, quandone sento la nostalgia, li rivedo nelle diapositiveche ho scattato. Vi assicuro che là ho lasciato ilmio cuore.

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SCAMBI «CULTURALI»

Alcune volte mi è capitato di dover scambiare del-le mie opere con oggetti necessari per continuare ilmio lavoro o, addirittura, con materie più stretta-mente necessarie alla vita familiare quali cibi ovestiti. Questi scambi, che in alcuni casi hannoavuto aspetti divertenti, sono ormai conosciuti,nella ristretta cerchia d’amici o diretti interessati,col nome di “scambi culturali alla Benaglia”.Penso di essere sempre stato abbastanza genero-so nel dare più del valore avuto in cambio, ancheperché consideravo l’operazione più un valoremorale che economico. Era ed è un modo diacquisire nuovi amici e di entrare in sintonia conle persone mediante uno strumento ormai – loscambio – andato in disuso e regolarmente utiliz-zato nelle civiltà più semplici segnate dal durolavoro e da sacrifici interminabili.Anni fa, con un macellaio scambiai carne per unmio quadro. Feci scambi con quadri di diversiautori miei colleghi e che non conoscevo di per-sona. Scambiai mie opere con abiti e con vino.Barattai mie opere in cambio della vecchia auto-mobile e persino in cambio della mia dentiera. Incambio di miei quadri potemmo trascorrere, io ela mia famiglia, indimenticabili vacanze in Ligu-ria e in Sicilia. Ai miei amici pensionati regalavoun quadretto in cambio del loro aiuto prezioso inoccasioni particolari. Ebbi, in cambio di un miopiccolo quadro, una serie di scalpelli e sgorbiedall’amico Graziano Crotti. “Le avevo acquistateper scolpire”, mi disse, “ma non avrò mai il tem-po di usarle; perciò, se vuoi, te le posso cedereperché almeno tu le possa usare”.Un giorno, vidi un’affilatrice in bella vista sulloscaffale di un ferramenta di Villa d’Almè. Erocapitato lì per caso per acquistare del materialeda poco. La guardai appassionatamente e la acca-rezzai pensando tra me: “Ah, se l’avessi nel miolaboratorio per affilare quegli attrezzi ricevutil’altro giorno dal Crotti! Che bello sarebbe! Unamola così mi andrebbe a meraviglia”. Il proprie-tario del negozio, al di là del banco, seguiva incu-riosito i miei movimenti e, intuito il mio interes-se per quella macchinetta, mi si avvicinò dicen-

domi: “È un modello nuovo a 220 volt, pietrafine per affilare scalpelli e coltelli per pialle amano”. “Ah si?”, risposi, “è proprio bella. Pecca-to che oggi sono al verde e posso solo guardarla.A meno che…”. ”Guardi che la può pagare anchea rate!”, mi disse. “A rate no!”, risposi. “Però conuno scambio culturale…”. Quel signore nonsapeva cosa intendessi con quella strana propostae perciò gli detti subito spiegazioni. “Guardi”, glidissi, “i nostri nonni, per la loro povertà, chiede-vano farina in cambio di galline e granoturco perla polenta in cambio di latte, perché facevano icontadini. Io non faccio il contadino ma il pitto-re, e perciò per la sua mola dovrei ricambiare conun quadretto che vale il suo credito”. “Ah si?”, mirispose sorridendo il commerciante. E continuò:“Guardi però che le fatture della merce al miofornitore le devo pagare attraverso banca a suondi contante!”. “Allora” risposi, ”come non detto.Vorrà dire che per ora la posso solo sognare que-sta meraviglia!”. Dato che in quel momento nonc’era alcun cliente in negozio, continuammo laconversazione e lui, incuriosito del mio lavoro,mi chiese di fargli vedere qualche foto delle mieopere. Dopo qualche ora gli portai il dépliant diuna mostra appena fatta. Lo prese in mano e loguardò attentamente e mi disse di ripassare per-ché ci avrebbe pensato. Pochi giorni dopo ebbi lamia mola e lui il suo quadretto da appendere incasa. Fui proprio fortunato.“Io faccio la macchina per il tuo lavoro, tu mi faila trave del mio camino intagliata alla tua manie-ra”. Parole semplici ma sbrigative. Fu quellol’accordo con l’amico Fumagalli, titolare di unatorneria di Almè, una mattina nel soggiorno dicasa sua.Da tempo aspettavo quel momento. Si realizzòcosì, quasi per miracolo, la possibilità di avereuna macchina per scolpire tutta per me. Fu unavera vincita alla lotteria. In pochi giorni preparaiil progetto per la costruzione e immediatamentesi dette il via all’operazione. Il lavoro di tornitu-ra durò diverso tempo perché l’amico, coadiuva-to dal figlio Remo, lo poteva fare solo di sabatodurante il tempo libero. Il figlio, appassionato dipesca, ogni tanto partecipava a competizioni e

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ciò contribuì ad allungare ulteriormente i tempiper la consegna. Dopo sette o otto mesi il proget-to fu finalmente realizzato e dopo poche modifi-che la macchina poteva funzionare regolarmente.Per fissare l’incastellatura della macchina su unsolido basamento ebbi bisogno di tubolari e digiunti per l’assemblaggio. Ricorsi ad un altro

amico, il signor Nicola Di Leo, che in cambio diun quadretto mi consegnò tutto l’occorrente.Quel marchingegno funzionò perfettamente e,come primo lavoro, scolpii per prova proprio latrave del camino del Fumagalli, il quale rimaseentusiasta del risultato (foto 26). Lui stesso mifornì il materiale: una sana trave di rovere. Dopoaver preparato il modello copiai le forme sullastessa. Al centro incastonai una pietra di fiume.Ancora oggi uso quella macchina, da me proget-tata, per realizzare diverse mie elaborazioni. Nonvi dico quanto godo nel vederla funzionare. Chemeraviglia!Ormai, tutti i rapporti commerciali, anche i piùpiccoli, sono regolati in denaro. Il baratto è ormaiqualcosa di superato. È un segno di quanto, infondo, tutto sia misurato sul solo denaro e diquanto si voglia sfuggire sempre più al rapportointerpersonale. Un vero peccato e, per me, unagrande disgrazia.26

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LAVORO DI FORMICHE

Molto tempo fa, essendo andato in segheria perfare acquisto di legname per il mio lavoro, notai,abbandonato in un angolo del capannone, un pez-zo di tronco del diametro di circa ottantacinquecentimetri e lungo novantacinque. Il proprietario,sapendo che facevo sculture, me l’offrì in regalo;lo accettai pensando che mi potesse servire per ilmio lavoro e me lo portai a casa. Lo scaricai ingiardino con la base provvisoriamente appoggia-ta sulla terra nuda.Dopo quattro o cinque mesi pensai di iniziare alavorarlo. Con la motosega alla mano rivoltai iltronco e, con mio stupore, vidi che la parte a con-tatto della terra era stata forata e scavata dagliinsetti. Lasciai il tronco ancora nella stessa posi-zione. Pensai che, lasciandolo lì per altro tempo,quei cunicoli e quelle incisioni sarebbero diventa-ti ancora più marcati. Aspettai ancora circa unanno per assicurarmi un esito più efficace e, ungiorno, mi decisi di esaminarlo: il lavoro mi sem-brava perfetto. Lasciai quella parte esposta alleintemperie ancora per un anno affinché la lucedeponesse la sua patina. Fu un aspettare pazientema necessario. Quando anche la luce del sole ebbeterminato di dare il suo tocco magico al legno,tagliai dal tronco una fetta di circa sei centimetridi spessore, come fosse una ruota (foto 27). Ne

ricavai un’opera a due facciate: una dipinta el’altra con quei bassorilievi naturali scolpitida gli insetti. Visto l’ottimo risultato, presi iltronco rimasto e lo divisi a metà con dei cuneidi ferro, partendo dal centro e fendendolo ver-ticalmente. Ottenni le due facciate molto scheg-giate; con l’ascia lo scalfii ancora di più per-ché riaccostandole vi potessero rimanere deivuoti necessari affinché le formiche potesseroviverci e fare i loro nidi. Finito il mio lavoro diadattamento, vi misi del mangime fatto di bri-ciole di pane, farina gialla e zucchero, perchéle formiche fossero attirate da tutto quel bendi Dio, dopodiché riaccostai le due facciate e lefissai con dei ganci fatti di tondino di ferro aforma di U e infilati nelle testate. Dopo un an-no decisi di staccare le due parti. Ma proprioin quel periodo le formiche avevano depostole loro uova; intuii allora che avrebbero avutobisogno di altro tempo perché il loro numeroera molto alto e per ingrandire quei vuoti avreb-bero dovuto rosicchiare altro legno (foto 28). Fuun’esperienza bellissima e, nonostante la miacuriosità fosse tanto forte, dovetti aspettare an-cora un altro anno perché l’operazione potesseaver termine.A tempo debito, dopo avere staccato le due parti,sussultai di gioia nel vedere quel magnifico risul-tato: dei vuoti finemente lavorati e levigati come

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da una delicata sabbiatrice con grana finissima.Lasciai le due parti ancora un altro anno alleintemperie perché maturassero e, finalmente, ini-ziai il mio lavoro. Tagliai una fetta di dieci centi-metri, intervenni con le sgorbie sui bordi di quelmirabile bassorilievo naturale (foto 29) e, sullaparte tagliata, dopo avervi incollato una tela,

dipinsi un mio soggetto ispirato da quell’occasio-ne (foto 30).Fu una magnifica esperienza: partendo da questisemplici spunti, si potrebbero realizzare, in col-laborazione con gli insetti, opere altrettanto ori-ginali. Ah! Se si potessero ammaestrare larve einsetti per certi lavori! Sarebbe meraviglioso.

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Lavoro di formiche, legno esotico, cm 86x80x8, 1991

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SCULTURE VIVENTI

Voglio parlare di un’altra esperienza che ancoratutt’oggi sto conducendo: è la realizzazione diuna scultura “vivente”. Si tratta dell’albero diciliegio del mio orto che ha un tronco misurante,attualmente, quasi quaranta centimetri di diame-tro. Circa quattro anni fa, vi inserii un elementobronzeo al suo interno partendo dal terreno conuna radice fino a novanta centimetri d’altezza e,poi, con un altro elemento a forma d’uovo condelle cavità del diametro di circa diciotto centi-metri. L’elemento bronzeo continua, salendo, conuno stelo fino all’altezza di oltre due metri conalla sommità un germoglio.L’operazione iniziò con motosega e scalpelli alcentro, sul dorso dell’albero (foto 31). Sul dorso

opposto, sempre con la motosega, feci un’inci-sione profonda tre centimetri e larga un centime-tro e mezzo. A distanza di circa venti centimetricucii la fessura con legacci d’acciaio come se sitrattasse della sutura di un taglio chirurgico. Itagli si sono ormai cicatrizzati chiudendo la fes-sura con dei bordi ingrossati coperti da una leg-gera corteccia. Così anche per la parte dove èinserito il bronzo, le parti anatomiche dell’alberosi sono notevolmente modificate e lo stelo èscomparso sotto quei bordi gonfi. Con la video-camera ho ripreso quelle fasi in diversi periodi e

l’albero nelle diverse stagioni (foto 32). Seguiicosì la fioritura, la maturazione delle ciliegie, lacaduta delle foglie autunnali e la caduta dellaneve sui rami spogli. D’estate vi fu un avveni-mento particolare: alcuni uccelli avevano costrui-to il loro nido fra i rami e le foglie del ciliegio;seguendo le loro abitudini riuscii a riprendere lacovata dei loro piccoli e mentre venivano imbec-cati l’uno dopo l’altro. Conservo gelosamentequelle riprese e un giorno monterò un video dedi-cato a quel ricordo.Qualcuno mi giudicherà un sadico essendomipermesso di trattare un albero a quel modo: tor-turarlo con quelle asportazioni per impiantare unbronzo. Posso affermare che quell’operazione fuun bene per la pianta: erano già due o tre anni chenon mangiavamo ciliegie perché poco prima delraccolto si ammalavano le foglie. La loro malat-tia intaccava poi i frutti.Da quando feci quell’intervento, tutti gli anniabbiamo mangiato le sue ciliegie. Penso che perl’albero quei tagli siano stati un salasso purifica-tore. Si racconta che, nei tempi antichi, certi malisi guarivano facendo un’incisione in una deter-minata parte del corpo per fare defluire del san-gue. Ormai quel ciliegio è diventato vecchio e irami, forse anche per colpa delle piogge acide,stanno morendo. Mi sto domandando se non siagiunto il tempo di tagliarlo e far posto ad un altrociliegio più giovane. Potrò così realizzare una

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scultura come avevo previsto. A suo tempotaglierò dieci centimetri di corteccia su tutta lasua circonferenza alla base del tronco. Lasceròche la corteccia venga intaccata dagli insetti edalle larve, taglierò definitivamente la pianta allabase delle radici e la farò fendere in due parti.Dopo averla svuotata per alleggerirla di peso,

sulle due facciate dipingerò un mio soggetto e leesporrò avvicinate l’una all’altra e aperte comefossero un libro. Sull’esterno, a lavoro terminato,si vedranno sia l’intervento con il bronzo sia lasutura chirurgica con i punti d’acciaio e, all’in-terno, le due facciate dipinte. Sarà un’operamagnifica.

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LA FOLLETTA DEL BOSCO

Nel mio laboratorio avevo un certo numero dimezze sfere in plexiglas di cinquanta centimetridi diametro recuperate dal magazzino di mio fra-tello Mosè, che le lasciò tra altri materiali diver-si quando interruppe l’attività. Le custodivo dadiverso tempo e un giorno decisi di usarle comecontenitori per frammenti naturali quali radici,legni tarlati e altro. Una mattina decisi di andarealla ricerca di elementi idonei all’abbinamento.Mi recai nel bosco dietro il santuario dellaMadonna della Castagna dove, quasi a metà col-lina, pochi anni prima furono tagliati degli alberidi castagno e di acacia. Le loro radici, ormai, sistaccavano dal terreno facilmente, e in poco tem-po ne raccolsi una buona parte. Le radici delcastagno si presentano molto appuntite per laloro natura e scelsi quelle, perché le uniche che sipotevano adattare a quelle cupole trasparenti.Mentre raccoglievo quel materiale scorsi sul ter-reno una radice molto particolare. Sembravamessa lì da qualche spiritello per richiamare l’at-tenzione di chi ha il vizio di curiosare in tutte lecose. Subito capii che non era una radice comu-ne; forse lo stesso spiritello, da bravo artista, l’a-veva scolpita e patinata, perché la suggestionenel vedere quella creatura fu molto forte, anchese le sue dimensioni erano ridotte. Me la imma-ginai a grandezza umana mentre danzava o sispostava furtiva da un albero all’altro, come unavenere dall’aspetto boschivo, le gambe appuntitenel gesto del movimento a passo di danza, conuna testa d’animale con tanto di proboscide apunta e un piccolo seno sporgente dal petto (foto33). Mi balenò immediatamente l’idea del suopersonaggio: la chiamai subito “la mia folletta”.

Il bosco è una fortunata occasione per conosce-re certi personaggi dai mille volti e dalle milleforme attraverso la metamorfosi della naturache giorno dopo giorno, stagione dopo stagione,trasforma la realtà. E così, quella piccola radice,che è diventata la mascotte del mio laboratorio eche mi osserva mentre faccio il mio lavoro dal-l’alto di una parete bianca, quanti cambiamentiavrà subito per rivelarsi così come è ancora oggi,personaggio a me caro. Come potrei dire di sen-tirmi solo nell’atto creativo nel mio laboratorioquando tante cose come questa mi circondano:loro mi danno coraggio, speranza, sicurezza, e miindicano la strada da seguire sacrificandosi per imiei ideali.

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PATATE D’ALBERO

Per caso, durante una passeggiata col mio generolungo il sentiero che porta dai prati Parini al Can-to Alto, un monte che si vede dal mio studio, mifermai a riposare vicino a un albero di castagno.Era abbastanza vecchio a giudicare dalla suadimensione e dalla corteccia molto frastagliata.Sulla sua base rigonfia notai delle protuberanzequasi sferiche di diverse dimensioni. Pensai cheper poterle togliere avrei avuto bisogno di unseghetto o di un coltello, ma appena appoggiatala mano su una di loro si staccò come una patata.Ne tolsi una decina di forme e dimensioni diver-se e, dopo aver riempito lo zaino che avevo conme, le portai al mio laboratorio.Il giorno dopo levai loro la corteccia e, sotto lasuperficie liscia, scorsi con stupore che presenta-vano delle deformazioni ideali per il mio lavoro.Cercai successivamente degli altri alberi cheavessero le stesse caratteristiche, ma non mi èstato più possibile ripetere quel fortunato ritrova-mento. Passarono un paio di stagioni e con il miogenero, l’amico Mangili e il cane Tobruk, stava-mo percorrendo il sentiero che dal paese di Ubia-le in Valle Brembana porta sul monte Ubione.L’amico mi assicurò che all’inizio del sentiero sitrovavano due alberi di castagno dalle dimensio-ni gigantesche. In quel momento la mia immagi-nazione intuì che si poteva trattare di qualcosa diinteressante, ma, arrivati sul posto, la sorpresa fupiù grande del previsto. Ci volevano almenoquattro persone per abbracciare la circonferenzadel primo di quegli alberi. Il secondo era un cen-tinaio di metri più a valle ed era composto da duetronchi che si univano in uno. La sua base avevaun diametro di circa quattro metri (foto 34).Qualcosa di veramente monumentale e, natural-mente, da salvaguardare. Nella mia vita non mi èmai capitato di vedere, sul nostro territorio, albe-ri di quelle dimensioni. Andai altre volte a rive-dere quei due castagni, solo per avvicinarmi aloro e per poterli toccare e parlare con loro. L’e-nergia che emanavano dalla loro massa la sentivocome un brivido: era una strana sensazione diemozione e di amore di fronte a quelle opere

viventi della natura. Durante una di quelle visite,parlai con una persona anziana del posto che miraccontò un po’ la storia della gente del luogo: sinarra che i frutti di quei castagni dava loro la pos-sibilità di sopravvivere alla fame, e che quelposto, una volta, era tutta una selva. Mi racconta-va che i contadini sperimentavano su quelle pian-te degli innesti per ottenere frutti più resistenti esostanziosi, che poi portavano in vendita allefeste dei paesi vicini e specialmente alla tradizio-nale festa dei Biligòcc, che tutti gli anni si tenevaal santuario della Madonna Candelora di Almen-no San Salvatore. Mi disse anche che in una val-le poco distante è rimasta ancora una zona intat-ta con altri castagni di quel genere. Ci andai lasettimana dopo e, con mia meraviglia, proprio inquella selva scoprii un altro albero con molte diquelle sfere legnose sulla base (foto 35). Nonpotete immaginare la mia felicità. Naturalmentenon potevo asportarle in quel momento, perché

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sapevo che era un’operazione da fare nella sta-gione ideale. Come per la potatura di un albero,il periodo ideale per farla sarebbe stato l’autunnoo l’inverno in fase di luna calante. Sono cose chemi ha insegnato mio nonno Mosè: se non si adot-tano quelle regole, l’albero tagliato in tavole perfarne mobili o serramenti si può tarlare facil-mente e perciò può diventare inservibile. Cosipotrebbe capitare anche per quelle specie di sfe-re legnose. Ormai la stagione autunnale è giàentrata nel vivo e così potrò, a luna calante, anda-re a prendermi quelle gioie da collocare nelle mieopere. Aspetto solo una bella giornata per poter-lo fare e per avere, così, altro materiale utile peril mio lavoro (foto sotto).

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Patata d’albero di castagno

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CORTECCIA DI BETULLA

Durante una passeggiata nel bosco, nei pressi delsentiero che dalla Madonna della Castagna portaal santuario di Sombreno, trovai un giorno unalbero di betulla dal diametro di circa venti centi-metri, steso tra le foglie. Lo stato di decomposi-zione molto avanzato lo si intuiva battendo sullacorteccia argentea che suonava vuota. Doveva tro-varsi in quella posizione da almeno quattro o cin-que anni perché si sfasciava subito alla più debo-le pressione: avrei voluto strappare quella cortec-cia, ma non avendo gli attrezzi idonei a disposi-zione in quel momento decisi di soprassedererimandando l’operazione a un altro momento.Dopo due o tre giorni tornai sul posto per paurache qualcuno avesse potuto privarmi di quel pre-zioso malloppo. Con un taglierino affilatissimoincisi profondamente quella sottile cute su tutta la

verticale del tronco e alla distanza di circa mezzometro la divisi sulla sua circonferenza, ottenendocosí delle pezze di cinquanta per sessanta centi-metri. Fu un’operazione delicatissima ma benriuscita perché potei ottenere una corteccia conpoche rotture e pulita da qualsiasi impurità inter-na. Non avrei mai immaginato che quel materia-le fosse così resistente e avesse avuto caratteristi-che non solo estetiche ma anche meccaniche.Le particolarità del disegno e delle varie tonalitàdi grigi madreperlacei possibili che la natura potéimprimere su quella pelle sottilissima mi stupìtanto da ritenerle preziose; ancora oggi le tengosotto pressione tra una tavola e l’altra affinché laloro forma si appiattisca lentamente col tempo,come una pergamena. Presto le potrò utilizzareper produrre nuove opere che andranno ad arric-chire il mio harem e dove ogni tanto potrò goder-mele in pace.

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LA PIETRA E L’OSSO

Di solito, dopo le undici del mattino, esco dallostudio dove dipingo per darmi una tregua: pren-do la mia auto e vado a trovare gli amici. Micapitò così un giorno di passare dal mobilificio“Dimensioni” dove trovai il titolare, il mio amicoLino Crotti. “Ciao Cesare”, esclamò appena mivide. “Sai che ho un regalo per te? Aspettami chevado a prenderlo nello sgabuzzino!”. Arrivò conun osso di animale bruciato dal sole e un pococonsumato e scheggiato. “Vedi”, disse, “sono sta-to al fiume per una passeggiata e vedendolo hopensato a te, sicuro che sarebbe stato utile per iltuo lavoro”. Aveva ragione; così lo accettai contutto il cuore e lo portai al laboratorio nello stan-zino che io chiamo “delle meraviglie”. Questostanzino contiene tutte le cose che recupero e chemi propongo di usare nelle mie creazioni. La set-timana dopo, con Maurizio e il suo cane Tobruk,andammo per un’escursione sul monte Albenzaper tutta una mattinata. Mentre percorrevamo unsentiero in un fitto bosco di faggi, il mio sguardosi posò su una strana pietra distante un paio dimetri, in una valletta. Mi avvicinai, la feci rotola-re con un piede e, dalle sue forme e caratteristi-

che, intuii che sarebbe stata utile e forse adattaall’accostamento a quell’osso avuto in regalodall’amico Lino. Appena arrivai a casa, misi lapietra a confronto con l’osso e vidi che, assem-blati, potevano dare un buon risultato. Ormai eramezzogiorno. Mangiai in fretta e, ancora con ilboccone in bocca, scesi nel laboratorio per ini-ziare il lavoro di assemblaggio di quei due ele-menti. Aggiunsi una tavoletta di legno di noce, unframmento di corteccia di ciliegio, un altro dibetulla, colla, viti, segatura, e una forte brama nelvederla finita. Mi sembrò un lavoro buono e ori-ginale, ma mi mancava ancora una base perappoggiarla. Così tagliai un travetto di roveremolto vecchio a fette di circa cinque millimetri ele incollai, come fossero tasselli di un mosaico,su un piano dello spessore di tre centimetri. Ter-minata l’opera, la portai all’amico che si compli-mentò per quel mio piccolo ma riuscito lavorodel quale anche lui in parte aveva contribuito allarealizzazione regalandomi quell’osso.Gliela lasciai qualche giorno per ammirarla nelsuo negozio di arredamento. Quando sarà prontolo scatolato di plexiglas dove sarà custodita comein una bacheca, la andrò a riprendere per esporlanel mio atelier con le altre opere (foto a destra).

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La pietra e l’osso, osso, pietra, corteccia di ciliegio, segatura, corteccia di betulla e mosaico di rovere vecchio,cm 30x60x22, 2000

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IN FONDERIA

Sul territorio del mio comune è da pochi anni infunzione una fonderia artistica, la Fondart. L’an-no scorso ebbi bisogno di far fondere un elemen-to di bronzo per la realizzazione di una cappelladel cimitero di Fiorano al Serio in Valle Seriana.Da allora ogni tanto vado a far visita ai titolariper scambiare qualche parola. A volte vi trovo deicolleghi artisti intenti a rifinire i propri lavori.Ultimamente trovai lo scultore Gianni Grimaldiche stava ultimando una porta in bronzo per lachiesa del paese di Santa Brigida in Valle Brem-bana; lo scultore Cividini alle prese con una sta-tua bronzea di Papa Giovanni XXIII; lo scultoreGiancarlo Defendi che stava cesellando una pic-cola scultura bronzea. Mi piace osservare i lavo-ri che vi si stanno facendo, ma il mio interessepiù forte è quello di rovistare negli scarti dellefusioni alla ricerca di elementi che possono fargaloppare la mia fantasia con quelle strane formeanomale e patinate nel modo più naturale dopo lafusione. Sono colate di poco conto che, cadendosul pavimento, si solidificano creando immaginisurreali e che, utilizzate con intelligenza, potreb-bero dar vita a opere originali (foto 38). Queste

sono ricerche che quotidianamente porto avantianche con altri materiali, ed è talmente grande ilgodimento nel vedere quella casualità che crea,che mi dimentico spesso di continuare e finire leopere in corso. Arriva così in un baleno la serasenza aver concluso ciò che avevo in mente difare: osservo, fantastico, sperimento, distruggo,faccio, rifaccio. A volte mi chiedo se è utile ope-rare così o se invece è una perdita di tempo! Mase il mio cuore è contento così, che ci posso fare?Anche in fonderia rovisto negli scarti prima chesiano usati per farne lingotti per altre fusioni: lianalizzo da tutti i punti di vista. Sono decine, unopiù bello dell’altro. Li scelgo, li faccio pesare, lipago e li porto nel mio deposito delle meraviglie.Staranno lì dei mesi prima di essere usati; forseanche anni. L’importante è che siano lì sullo scaf-fale per il mio solito giro di ronda quando gliposso parlare. Spero di vivere abbastanza finchéquello stanzino sarà spogliato di quelle meravi-glie e ogni frammento possa essere ricollocato alposto che merita (foto 39).

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Crocifisso, residui di bronzo, legno vecchio d’abete, segatura, cm 40x68, 2000

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LEGNI FOSSILI

In fianco alla nostra casa erano in corso i lavori discavo per costruire un garage sotterraneo per lefamiglie Bonalumi, nostre vicine. Un giorno, ilcamionista Mazzoleni, mentre aspettava che glicaricassero il camion di terra, venne da me invi-tato a dare un’occhiata ai miei ultimi lavori nelmio laboratorio. Fu meravigliato delle sculturealle quali stavo lavorando e, vedendo che eroincline a usare tanti materiali di recupero, spe-cialmente il legno, mi disse che, in occasionedegli scavi che frequentava a causa della sua pro-fessione, capitava ogni tanto di trovare dei mate-riali interessanti, che avrebbero potuto fare alcaso mio. Io gli feci capire che certe cose poteva-no essere preziose per il mio lavoro e gli chiesi ilsuo interessamento pregandolo di avvisarmi nelcaso di ritrovamenti che, secondo il suo parere,avrebbero potuto interessarmi. “Se mi capiterà ditrovare cose strane”, mi assicurò, “verrò di perso-na ad avvisarla”. Non avrei mai immaginato cheavesse preso così sul serio la mia proposta e chequell’incontro avrebbe dato frutti così preziosi.Dopo una quindicina di giorni, mentre mi stavopreparando per recarmi ai funerali di uno zio dimia moglie, qualcuno suonò il campanello dicasa: andai al citofono per sentire chi mi cercava.”Buongiorno, signor Cesare, sono Mazzoleni evorrei parlarle”, rispose la voce. Andai subito allafinestra e rividi di nuovo la persona del camionche avevo visto nei giorni precedenti. “Se le inte-ressa, abbiamo trovato dei legni sotto terra a Vil-la d’Almè, sulla strada all’inizio della salita perBruntino, dietro la chiesa; è un materiale nerocome fosse carbone! Li abbiamo trovati scavandoa circa sette metri sotto terra”. Il racconto miincuriosì moltissimo e gli risposi che mi sareirecato immediatamente sul posto. Portai miamoglie alla chiesa dove si sarebbero svolti i fune-rali continuai la mia strada verso il luogo indica-tomi. Gli scavi seguivano il pendio di una collinae la parete scavata nella parte più alta era profon-da almeno una decina di metri: sotto la superficiedel terreno, a circa tre metri di profondità, era inevidenza una falda di creta dello spessore di

circa due metri, e da essa uscivano spezzoni dialberi avvolti in quella melma grigia come mum-mificati (foto 40). Chiesi subito se potevano por-tarmeli a casa mia. “ Se non li porta via lei, io lidevo portare nella discarica assieme alla terra ealla creta”, mi disse. “Se mi fa il favore diammucchiarli in un unico spazio, domani matti-na verrò a prelevarli” gli risposi.Lasciai lo scavo, tornai da mia moglie ancora inchiesa per la cerimonia funebre, e vi rimasi finoalla sepoltura dello zio. Poi riaccompagnai miamoglie a casa e ritornai agli scavi.Il proprietario dello scavatore, vista la mia mera-viglia nel vedere quei legni, pensò bene di porta-re a casa sua i più grossi per collocarli nel suogiardino. Io, dal canto mio, mi accertai che aves-sero messo da parte il mio bottino e diedi ancoraun’occhiata a quel materiale particolare inizian-do già a far progetti sul suo utilizzo.Il mattino seguente, di buon’ora, mi recai con ilcamioncino di un amico a ritirare quel materialeprezioso, lo portai in laboratorio e, visto che lacreta che lo avvolgeva era ancora bagnata, iniziaia pulirlo con un getto d’acqua. Quei legni intrisidal grigio della creta fin nelle fessure e nellecavità più remote, dopo essere stati ben puliti, sipresentarono in tutto il loro fascino. Fu un’ope-razione lunga e faticosa e alla fine, guardandoquei frammenti neri come inchiostro, ebbi unmoto indescrivibile di gioia, come quello di unbambino quando riceve un regalo inaspettato.

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Dopo essere stati chissà quanti anni in quella cre-ta, erano talmente umidi che ci vollero settimaneper asciugare (foto 41). Poi le loro fibre avrebbe-ro continuato a ritirarsi e le fessure ad allargarsisempre di più.Anche il camionista, il signor Mazzoleni, si portòa casa un ceppo di legno nero, ma dopo pochigiorni, forse non sapendo cosa farne, mi avvertìche se lo avessi voluto me lo avrebbe dato volen-tieri. Io lo accettai immediatamente e lo portai daun amico di Sombrero, fattore dei Conti Agliardi,un certo Carlo Leali che aveva una vecchia segaverticale: (foto 42) lo feci tagliare in tante fette diun centimetro di spessore e, con quelle sezioni,utilizzando creta e segatura dello stesso legno,iniziai le mie opere intitolate “Visione di buio

assoluto”. Visto che quel materiale prezioso sta-va per esaurirsi, un giorno pensai bene di andarea fare visita al proprietario dell’escavatore che siera portato via i pezzi più grossi da mettere nelgiardino. Sempre grazie al signor Mazzoleni riu-scii a mettermi in contatto con lui, che in quellaoccasione mi portò sul posto dove li aveva fissa-ti. “Signor Benaglia”, mi disse, “ormai li abbia-mo fissati in questo terreno, perciò non abbiamointenzione di rimuoverli. E poi deve sapere chenon sono solo di mia proprietà, ma appartengonoanche ai miei due fratelli”. Io non mi arresi difronte a quell’ostacolo e gli chiesi se potevoconoscere anche quei suoi fratelli. “Non c’è nes-sun problema, anzi, se vuole la porto subito daloro” mi rispose. Pochi minuti dopo feci la loroconoscenza. Ma malgrado la mia insistenza nonriuscii a convincerli di far cambiare proprietà aquei pezzi di legno. Pensai allora di invitarli nelmio laboratorio per far vedere loro l’uso che ave-vo fatto di quei legni.Due giorni dopo arrivarono tutti e tre in auto nelmio studio e, dopo avere visto le opere che avevorealizzato con lo stesso materiale, si resero pro-babilmente conto che nel loro giardino sarebberostate sprecate. A quel punto, vista la loro disponi-bilità, intavolai le trattative per uno “scambio cul-turale”: “Se voi mi date quei legni, io darò incambio, a ciascuno di voi, una mia tempera aricordo di questo incontro”. Accettarono di buongrado l’offerta e, senza perdere altro tempo,andai immediatamente a prendermi il resto diquei legni tanto desiderati.Quasi come per un padre è bello avere a casa tut-ti i propri figli, così è stato per me una gioia ave-re riunito tutti insieme, nel mio laboratorio, tuttiquei frammenti, grandi e piccoli. Mi rimisi allavoro con piacere, con acqua e spazzole (foto43) e vedevo la scorta di legni neri aumentareogni giorno. Ogni giorno il mio morale andavaalle stelle ed io sognavo anche di notte i mieifuturi progetti.Seguivo giorno dopo giorno il grado di umiditàdi quei legni ed ero impaziente di incominciare apoterli usare. Banalizzare, dissacrare, distruggerel’anima di quella nera entità sarebbe stato facile.

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Cresceva in me, dunque, anche la paura di viola-re quella materia. Studiavo e analizzavo attenta-mente i particolari, le forme di quei legni perchémi aiutassero nelle mie decisioni. Guidato comeda una fissazione e dall’amore per quella materiaa me tanto cara, oserei dire quasi sacra, mi con-vinsi di non sprecare nulla di essa: ogni avanzo,ogni scheggia, persino la polvere e la segaturaprodotta dalla sega circolare, conservai tuttoriempiendo vecchie scatole di scarpe.Era tanto forte in me il bisogno di contatto conquella natura nera che anche i toni della miapittura, specialmente i rossi, erano diventati piùmarcati, le cavità sempre più buie e profon-de. Portai via da quegli scavi, da quello stanzonetanto grande e profondo dalle pareti di terra eargilla, più di trecento chili di creta pura tagliatain pezzi di una decina di chili ciascuno (foto 44).Una parte la feci seccare e ridurre in polvere

finissima da impastare e usare per le mie opere.Dovetti fare degli studi per poterla far aderiresu superfici rigide in strati di circa tre millime-tri, senza che si scrostasse e cambiasse il suocolore naturale.Fu un periodo molto produttivo data la miavoglia di esprimermi con quei materiali e ancheoggi, ormai a distanza di anni, non si è spento ildesiderio di continuare con i materiali che misono rimasti. Ho seguito l’esempio delle mie for-miche accumulando e mettendo da parte tuttoquello che era possibile di quel materiale perpoterlo poi usare pian piano.Spero che Dio voglia lasciarmelo consumare finoall’ultima scheggia e, da parte mia, cercherò difarlo lavorando il più possibile e con la massimaresa, per dare a questo materiale, fino all’ultimoframmento, un suo posto nella mia produzioneartistica.

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Visione di buio assoluto, legno di rovere fossile, segatura dello stesso legno, alberello, pietra e creta cruda,cm 160x180, 1998

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COSMOGONIA BLU E ROSSA

Dopo aver esaurito la mia ricerca pittorica dipin-gendo paesaggi e successivamente la natura, glialberi e gli specchi d’acqua con una coloristicatendente ai colori chiari, in principio quasi eva-nescenti, poi più rinforzati, ebbi l’idea di dipin-gere un soggetto dal titolo, “Specchio d’acquarosso”; (foto 45) ancora oggi mi domando perché

feci quella scelta così radicale. Da allora sullabase di quel rosso fuoco pensai che dopo averlavorato tanto sul tema dell’acqua, era giunto iltempo di trovare un altro soggetto da contrappor-re ad essa. Perché quel rosso fuoco non potevaessere la scintilla ideale per dare l’avvio a nuovescoperte coloristiche? Con quelle tonalità di fuo-co nacquero opere dal titolo: viscere d’albero,viscere spaziali e viscere umane.Il blu diventò più cupo, dalle tonalità più forti chenel passato: (foto 46) ormai, l’atmosfera dei pae-saggi si mutò in ampie campiture accese e di sin-tesi. Sono convinto che quel mutamento avvenneconseguentemente alla forte esplosione del rossoche mi penetrò fino alle profondità dell’essere.Forse il bisogno di scoprire la bellezza delcosmo, dalle sue distanze infinite, e delle profon-dità oceaniche, mai viste dal mio occhio, mi con-vinse a cercare emozioni coloristiche nuove.

La mia fantasia mi portò a immaginare l’univer-so come uno spazio gelido dove Dio fece nasce-re una grande luce di fuoco; da esse partironotante scintille per dare vita alle stelle. Tutto daquel momento, a causa di quell’immenso caloresi sciolse, dando vita alla materia attraverso rea-zioni chimiche a catena. Tale materia costituì tut-ta la natura che ora ci circonda. Dalla fase pri-mordiale e grezza, in quell’immensa quantità dimolecole, col passare del tempo le strutture simodificarono, si adattarono per leggi universalimisteriose, fino a raggiungere forme più definitee perfette. Dalla nascita dei pianeti sino a oggisono passati miliardi di anni; oggi un essere insi-gnificante ma vivente come me vuole riscoprirela natura attraverso la propria creatività.In questa mia personale visione, la luce e il fuo-co, il gelo e l’acqua sono al principio e all’origi-ne della natura attuale. Sono dell’idea di poterdare all’uno o all’altro elemento proprietà dicarica positiva o negativa. Il fuoco, per esempio,rappresenta per me qualcosa di carica positiva el’acqua, al contrario, negativa. L’uno è in con-trapposizione con l’altra e, però, sono tutti e dueindispensabili per la creazione e la continuitàdella vita. Dovendo assegnare una determinatavalenza ad altri elementi contrastanti tra loro,come al caldo e freddo, al bianco e nero, al buo-no e al cattivo, al grande e piccolo, al forte e al

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debole, si potrebbe teorizzare piacevolmentecome se si trattasse di un gioco. So che tanti altrihanno già avuto modo di sviluppare quest’ideadal punto di vista scientifico e filosofico. Io hofatto, sull’argomento, considerazioni teorichesuperficiali perché sono un artista e non un filo-sofo, ma so che questo gioco di entità e di iden-tità mi attrae profondamente, perché mi dà spes-so spunti per il mio lavoro e per la conoscenza dime stesso.Il fuoco, l’acqua e gli alberi come simbolo dellanostra terra mi potranno suggerire un giorno pocolontano anche l’idea di ispirarmi alla spazio ocosmo per realizzare il ciclo completo di tutta l’e-sistenza.

So di occupare un posto privilegiato e di vivereun periodo della storia in cui la libertà di espri-mersi è ancora un bene di cui poter godere, alme-no nell’ambiente in cui vivo. La gioia di scoprirecome è un albero, di poterlo analizzare nelle sueviscere, nel profondo, mi dà tanta emozione. Secontinuo la mia ricerca sui tanti esseri che vivo-no della sua linfa, delle sue radici, delle suefoglie, della sua corteccia, allora mi accorgo chenon è sufficiente la mia stessa vita per descriveree raccontare compiutamente attraverso la miaopera artistica questa meraviglia. E trovo altret-tanto meraviglioso che un uomo come me possafare questo attraverso l’arte e dedicare la propriavita a questa irresistibile vocazione.

Specchio d’acqua in viscera, olio su tela, cm 240x150, 1995

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Nel mio studio, 1999

SEGNO INTERIORE

Un segno, un semplice segno: una linea tratteg-giata continua che sale verso l’alto per unire laterra al cielo e continuare nell’universo. Leggeracome un respiro, ma reale e suggestiva perchéchiara e tangibile come una piccola luce in cam-po scuro (foto 47). Dopo tanti anni è diventata un

simbolo, una firma che caratterizza i miei quadri:una forte presenza della mia volontà di fare, ilsigillo per legittimare il mio operato.Se prima usavo questi segni lineari o circolari pervisualizzare il soggetto seguendo diverse direzio-ni, tentando di frammentare luce e colori e dareuna parvenza di movimento alla natura che cer-cavo di far vivere nel quadro, (foto 48) oggi essi

rappresentano l’interiorità dell’opera stessa. L’i-dea e la scelta di usare quei segni verticalmente odiagonalmente in modo definitivo seguendo uncerto ordine, di solito al centro dell’opera, èmaturata con la necessità di semplificare sempredi più. Inoltre, dividendo verticalmente l’opera ametà con queste tratteggiate, (foto 49) le due par-ti assumono per me pesi e valenze più marcate:secondo la mia interpretazione, una carica nega-tiva a sinistra e positiva a destra. Le due sezioni,

però, sono simili così come accade per la nostrapersona: l’una metà è lo specchio dell’altra e,insieme, formano un tutt’uno. Attraverso questamia ricerca formale e pittorica, cerco di capirequale è anche la mia personalità interiore, sicura-mente diversa da quella esteriore. Sin dal paesag-gio figurativo, da cui è partito il mio cammino diricerca artistica, quei segni erano sempre ossessi-vamente presenti. Da autodidatta mi era moltodifficile trovare una soluzione pittorica più per-sonalizzata e, dopo molti tentativi, la soluzione latrovai attraverso quei segni. Avrei voluto volarecon la pittura come facevo nei miei sogni ma laforza di gravità non mi permetteva di staccarmida terra e, ancora oggi, non ho imparato a volarecon il mio corpo: queste linee tratteggiate ascen-denti, idealmente, mi aiutano a levitare da terra,con la mia passione per l’arte. Credo nella forzadell’interiorità e prego spesso che mi possa darele energie sufficienti per concludere in bellezzala mia attività artistica. Non ho avuto tempo inpassato per approfondire lo studio di quei feno-meni che accadono in noi inconsciamente e checi possono guidare a scelte tanto misteriose, lega-te al nostro essere come entità spirituale.Sono sempre stato un lavoratore accanito perchévolevo imparare tante cose, studiare le tecnichepiù disparate, accumulare tante esperienze dausare in futuro per superare le difficoltà che avrei

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incontrato. Naturalmente la mia cultura storica eartistica l’ho vissuta incontrandomi con artisti evisitando mostre e musei (foto 50). Qualche libro

e qualche catalogo sfogliato ogni tanto, sì, masoprattutto molto lavoro, molti tentativi e moltomateriale, alcune volte sprecato. Rischiare eraquasi una necessità, era un’avventura da vivere e,intanto, il tempo se n’è andato. Quando mai riu-scirò, con calma, a vedere il frutto di tanti sacri-fici ed esperienze?

Forse a 67 anni non è giunta ancora l’età dellasaggezza che fa meditare di più, lavorare di me-no e realizzare opere tali da far incantare e go-dere il visitatore. Allora sì che questi segnipotranno suggerirmi visioni nuove, indicarmiil percorso più sicuro verso grandi risultati econvincermi che anche loro sono un modo sco-nosciuto e misterioso per aprirmi le porte delfuturo e il metro per misurare la dimensioneesatta della mia arte. Non ho mai pensato profon-damente al valore di questi segni: sono nati così,nel modo più naturale e istintivo: e ora, questo,mi fa molto pensare. Non avrei mai immagina-to che si radicassero in me tanto incisivamen-te, invadendo le viscere più profonde del mio iointeriore: sono convinto che loro sopravvivran-no alla mia materia e rimarranno per ricordare,a chi ama l’arte, che c’è stato qualcuno che cre-deva nella loro esistenza. Sono nati in me pervivere per sempre, anche se diventeranno invisi-bili; si sentiranno nell’aria, nella musica, nellanatura, nei rumori dell’acqua, nell’armonia delbosco, e nello sguardo della gente che sapràancora ascoltare.

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LE MIE SANTELLE NEL BOSCO

Ormai sono passati circa vent’anni dall’iniziodella mia prima scultura nel bosco della Madon-na della Castagna: una pietra ovale attirò la miaattenzione durante una passeggiata sul sentieroprincipale. Avevo con me una roncola per taglia-re paletti che dovevano tenere in piedi le piantinedi pomodoro del mio orto. La pietra era copertada uno strato di sette o otto centimetri di materiafriabile disposta come un guscio che mi invitavaa scoprirlo. Si sgretolò facilmente fino a che tro-vai la pietra dura. Ormai la mia curiosità fu sti-molata così fortemente che il giorno successivoritornai con scalpelli e mazzuola per attaccarequel nucleo durissimo: man mano che prendevaforma vidi in esso la possibilità di creare un sog-getto su un tema dedicato alla natura: un semeschiuso (foto 51). Dopo di quella, trovai altre pietre scendendo per

il sentiero verso il santuario. E così continuai ascolpire.La seconda la scoprii tra i rovi ed era compostada tre elementi, di cui uno più piccolo al centro;era coperta anch’essa da uno strato più friabileche si poteva tagliare con un’accetta. Ne usciro-no delle forme strane che fotografai nel loroinsieme (foto 52). Passò l’inverno, e in quello strato molle messo anudo si fecero delle crepe dovute al gelo. Così, in

primavera decisi di togliere quella parte friabilefino alla pietra. Fu proprio in quel periodo cheaccadde il fatto di Vermicino, che ebbe una gran-de risonanza di cronaca. Un bambino, Alfredino,era scivolato in un pozzo profondissimo. Per gior-ni trasmisero in diretta, in televisione, le operazio-ni messe in atto per cercare disperatamente di sal-varlo da una morte atroce. Un mattino, mentre sta-vo togliendo quel materiale fragile, decisi di dedi-care quell’opera a quel fatto di cronaca (foto 53).

Non tanto distante trovai un altro sperone di pie-tra adatto a dare l’idea di una sorgente d’acquache uscisse dal sottobosco. Era una roccia nontroppo sana, tanto che la dovetti rinforzare contondini d’acciaio. Doveva essere poi ricoperta suldorso con una lastra di piombo stagnata a fuocoper dare l’illusione dell’acqua. Andai dall’amicoEugenio Lego, titolare di un laboratorio idrauli-co. Saputo che quanto facevo in quel bosco nonera a scopo di lucro ma a disposizione di tutti

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coloro che passeggiavano sul sentiero, egli sioffrì di realizzare la copertura di quella sculturapersonalmente a titolo gratuito. Un sabato e unadomenica mattina eseguì quel lavoro a regolad’arte (foto 54).

Dopo circa un mese la copertura fu divelta eportata via da qualche vandalo. Nel frattempodetti inizio a un altro lavoro, il quarto, dedicatoallo scorrere del tempo. La pietra doveva esse-re asportata per parecchi centimetri. Il materialeera molto duro e difficile da lavorare e dove-va essere asportato a strati di un centimetro allavolta. Da solo, avrei dovuto perdere molte gior-nate per portare a termine quel lavoro. Un gior-no passò sul sentiero un pensionato che abita-va poco lontano, un certo Togni. Nella sua vitaaveva fatto il muratore e così per scherzo glichiesi se poteva darmi una mano a togliere que-gli strati di pietra. Accettò seduta stante e il gior-no dopo si presentò come promesso. Per me ilsuo aiuto fu provvidenziale perché, nel frattem-po, potei mettere mano a una quinta sculturadedicata ai simboli. Un giorno, mentre il signorTogni stava scalpellando, lo fotografai senza chese ne accorgesse; portai la foto all’amico Aman-zio Possenti, giornalista de L’Eco di Bergamo,che la fece pubblicare sul giornale (foto 55). Peril Togni fu una sorpresa così grande che ne gioìcome un bambino davanti ad un regalo inaspetta-

to. Anche quella scultura fu terminata felicemen-te (foto 56). Durante questi lavori non mancarono i volontero-si che mi aiutarono nei momenti più faticosi.Voglio ricordare amici come Maurizio Mazzo-leni, il pittore Alex Benaglia, mio allievo, il foto-grafo Francesco Mangili, che mi seguiva semprecon la sua macchina fotografica, e diversi soci

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del Gruppo Artistico Valbrembo 77, di cui eroallora il presidente. La quinta scultura fu la più laboriosa, perchédiverse parti dovevano essere asportate e ricollo-cate rinforzando il fondo con dei piccoli plinti dicemento armato. Fu un lavoro più faticoso delprevisto ma, alla fine, tutto si risolse senza trop-pi problemi (foto 57).

Ogni tanto trascorrevo giornate intere per farequei lavori, anche se le interruzioni erano moltofrequenti per il passaggio di curiosi che, passeg-giando nel bosco, erano attratti dal rumore dellemie scalpellate. Si avvicinavano a chiedere comemai lo facevo e se ero pagato per farlo; ogni tan-to, per scherzo, rispondevo che ero ben pagato eche se qualcuno fosse stato intenzionato ad aiu-tarmi sarei stato disposto a dargli la metà di quel-lo stipendio. Qualcuno ci cascava rispondendoche avrebbe accettato, anche perché gli sembravaun lavoro divertente. Chiarito l’inganno, tutto sirisolveva con una solenne risata. Dopo quella quinta scultura, il mio lavoro nelbosco subì un’interruzione forzata dovuta a diver-si altri impegni, per circa sei o sette anni. Fu inoccasione della mia mostra personale alla Galle-ria d’Arte Bergamo che ripresi a scolpire in quelbosco con l’intenzione di arrivare a un numerofinale di sette sculture, tante quante il numero del-le santelle poste sulla scalinata che, dalla vicina

villa Agliardi, conduce al santuario sul monte diSombreno, ubicato nel Comune di Paladina. Già anni prima, mentre era attivo il Gruppo Arti-stico Valbrembo 77, d’accordo con il parroco diSombreno, pensammo al restauro di quelle san-telle, vecchi dipinti eseguiti su lastre di ferro eormai irriconoscibili. Ogni restauro era impossi-bile e dovevano essere completamente rifatte. L’i-dea mia era di commissionare i nuovi dipinti adartisti contemporanei bergamaschi che interpre-tassero il tema dedicato ai sette dolori dellaMadonna in un contesto rivolto alla nuova figu-razione e in modo più concettuale che figurativo.Con queste premesse, anch’io avrei partecipatovolentieri con una mia opera. Nel frattempo,dopo il restauro del santuario, arrivò anche ilmomento del rifacimento della scalinata che con-duceva allo stesso; così si rendeva necessarioanche il risanamento delle santelle anche comeopera muraria. Dato che nella direzione lavori eracoinvolto l’ente del Parco dei Colli di Bergamo,con l’amico Francesco Mangili avemmo un col-loquio col presidente dell’ente. La mia idea discegliere una soluzione più contemporanea nelmodo di realizzare i dipinti delle santelle non fubene accetta e perciò mi ritirai dall’incarico permotivi di coerenza con le mie idee sull’argomen-to. Lasciai a chi di dovere la responsabilità dellescelte artistiche. Fu allora che decisi di eseguire,nella massima autonomia, sui sentieri del boscovicino, dietro a un altro santuario, quello dellaMadonna della Castagna, sette sculture chesarebbero diventate le “mie” santelle.Dopo quegli anni d’interruzione, ricominciai illavoro su una sesta pietra alta più di due metri.Dovevo effettuare tagli su di essa e perciò mi feciprestare un generatore di corrente per usare ilmio flessibile. L’operazione fu abbastanza velocegrazie a questo apparecchio meccanico e così, inpochi giorni, realizzai quella nuova sculturadedicata al tema del germoglio (foto 58). L’aiutodell’amico Omacini, pensionato, fu provviden-ziale perché senza di lui non avrei potuto portaresu e giù da quei sentieri le attrezzature per lalavorazione delle pietre. Fu insieme che deci-demmo di modificare la struttura di una sorgen-

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te naturale ubicata nei pressi. L’acqua, allora,usciva da un tubo di plastica del diametro di die-ci centimetri. Poteva entrare da quell’aperturaogni sorta d’insetto o animale a inquinare peri-colosamente quel liquido prezioso. Perciò pen-sammo di modificare l’impianto togliendo queltubo e ripulendo tutto fino all’uscita dell’acqua.Fu un lavoro delicato ma alla fine riuscimmo atenere pulito, quel filo d’acqua prezioso. Vicinoalla sorgente si trovava una grossa pietra. Pen-sammo perciò, mediante un foro, di fare uscireun tubo di rame del diametro di quindici milli-metri dalla stessa dopo aver drenato il piccolobacino alla fonte incanalando l’acqua medianteun tubo di plastica del diametro di due centime-tri fino alla pietra per collegarsi con il tubo inrame. La pietra poi la lavorai con il flessibile erealizzai un manufatto scultoreo che fu l’ultimadelle mie sette fatiche (foto 59). Intanto, la scultura “La sorgente”, dalla quale erastata divelta la copertura in piombo, era ancora lìcome sette anni prima. Decisi allora di coprirequella parte con vetri di mosaico verdi e blu conal centro le mie personali tratteggiate rosse. Quelrifacimento è ancora oggi intatto (foto 60). Sono felice che sia così. Forse i vandali hannotenuto conto delle mie fatiche. Forse tutta la zonadisseminata di sculture sembra diventata incon-sciamente una zona da rispettare.

Durante tutti quegli anni di lavoro sono accadutetante cose, sono avvenuti tanti incontri. Mi limi-to a citarne alcuni, i più divertenti o i più signifi-cativi. Un giorno, mentre stavo scolpendo, arrivòil solito Francesco Mangili per scattare qualchefotografia. A un certo punto lo vidi inginocchia-to vicino a un mucchietto di foglie che stava rovi-stando nervosamente. “Cosa stai facendo”, glichiesi. “Sto cercando la lente a contatto del mioocchio sinistro purché l’ho improvvisamente per-sa e non la trovo più”. Era come cercare un agoin un pagliaio, ma istintivamente mi avvicinai.“Ecco la tua lente a contatto!”, gridai miracolo-

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samente. Era appoggiata su una foglia al centrodi quel mucchio appena messo sottosopra dallaricerca dell’amico. Un caso inspiegabile.Un giorno d’estate passò sul sentiero un gruppodi ragazzi del Centro Ricreativo Estivo di Brem-bate Sopra. Alcuni dei ragazzi sollevarono conuna leva la lastra di piombo appena inchiodata ilgiorno prima. Riuscii a sapere chi era stato eandai direttamente dagli accompagnatori respon-

sabili e dopo aver fatto loro capire del malfatto,ricevetti una bellissima lettera di scuse firmata daquei ragazzi. Anche se ho dovuto lavorare due otre giorni per rimettere in sesto l’opera, li ho per-donati caldamente.Ogni tanto qualcuno trova gusto a scrivere dellefrasi su quelle pietre, ma l’acqua e il tempo lecancellano automaticamente, e ritornano vere e aparlare della loro bellezza.

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Scultura nel bosco del Parco dei colli di Bergamo, 1980, località Sombreno, Madonna della Castagna, Bg

IL GRUPPO ARTISTICO VALBREMBO 77

Nel 1970 fui invitato ad Almè a partecipare a unamostra collettiva di pittori dal preside della scuo-la professionale, prof. Gaetano Bonaschi. Dopoquella rassegna Bonaschi mi comunicò che adAlmenno San Salvatore un gruppetto di pittoridilettanti erano intenzionati a mettersi insiemeper dipingere all’aperto la domenica mattina.Stavano cercando un professionista che stesseloro vicino nell’intraprendere quell’attività arti-stica nel tempo libero.Chiese a me se fossi stato intenzionato ad accet-tare quell’incarico. In caso positivo, egli stessoavrebbe condiviso quell’impegno. Per un annotutte le domeniche ci si trovava in un’aula dellescuole messa a disposizione dal Comune e, da lì,si partiva verso le campagne della zona per dipin-gere la natura dal vero. Eravamo un gruppetto diquindici persone di diversa età. C’erano ragazzi,giovani, padri di famiglia e anziani (foto 61). Fu

un’esperienza utile per tutti, che durò circa unanno. Per la mancanza di una sede idonea attrez-zata per dipingere nei giorni di pioggia, cercam-mo altrove un altro ambiente. Bonaschi riuscì aottenere un’aula nelle scuole di Almè la quale,però, risultò inadatta alle nostre esigenze. Saputoche nel mio Comune, a Valbrembo, nelle vecchiescuole della frazione di Ossanesga avremmopotuto avere un’aula tutta per noi, dopo aver fat-to richiesta all’Amministrazione comunale conesito positivo, traslocammo. Era il periodo in cuistavo cessando la mia attività di mobiliere insocietà con mio fratello Mosè e lo spazio desti-

nato all’esposizione dei mobili ubicato sotto casamia doveva essere presto liberato: una superficiedi circa 200 metri quadrati dove volevo realizza-re uno studio tutto mio. Perché non usarlo anchecome sede del gruppo e trasferirvi la scuola dipittura? Questo era anche il parere dell’amicoGennaro Ceresoli di Filago che, a quell’epoca,frequentava il gruppo per la sua passione verso lapittura. Sottoposi l’idea all’ormai amico Bona-schi e con lui in qualità di segretario e io comepresidente iniziammo l’attività in forma ufficia-le: il 22 aprile 1977, davanti al notaio BattistaAnselmo di Bergamo, sottoscrivemmo l’attonotarile. L’atto di costituzione fu firmato da me,da Giorgio Frausin, da Luana Rafuzzi, da RinoFeroci e da Luigi Centurelli. Il Gruppo ArtisticoValbrembo 77, come specificato nello statuto,aveva lo scopo di promuovere, incentivare ediffondere iniziative di carattere artistico e cultu-rale. Il gruppo era costituito da soci effettivi esoci sostenitori che ogni settimana s’incontrava-no per discutere d’arte, dipingere all’aperto, dise-

gnare la figura umana e fare incisione (foto 62).Una volta al mese invitavamo un artista berga-masco per parlare della propria attività e capirecosí, nel modo più pratico, i valori autentici cheogni professionista può tramandare. Pittori comeRino Carrara, Calisto Gritti, Gianni Bergamelli,Italo Ghilardi, Giovanni Pelliccioli, Luigi Scar-panti, Francesco Coter, Primo Formenti, AngeloCapelli e scultori quali Alberto Meli, Gianni Gri-maldi (foto 63), Ugo Riva, Alessandro Verdi fu-rono invitati in tali occasioni. Ad ascoltarli c’era-no sempre tanti soci e amici simpatizzanti delgruppo che contribuivano, con la loro presenza, a

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rendere tutte quelle serate particolarmente vivacie interessanti. Proiezioni di film come ad esem-pio quello sul restauro della “Pietà di Michelan-gelo” o quello sulla “Via Crucis” realizzata per lachiesa del cimitero di Bergamo dallo scultoreBrolis, assieme a numerosi documentari a sfondoartistico, contribuirono a rendere quel luogo unvero e proprio centro culturale di una certaimportanza nel panorama bergamasco. Ognianno nel bosco dietro il santuario della Madonnadella Castagna veniva allestita una mostra all’a-perto di pittura, grafica e scultura nell’ambitodelle manifestazioni organizzate dal Comune diBergamo e intitolate “Vivi la tua città” (foto 64).

Per non contare poi altre numerose mostre collet-tive nelle biblioteche dei paesi limitrofi, nellepiazze, o in gallerie come quella presso la GalleriaHatria di Bergamo e nella Libera Accademia diBelle Arti di Zogno (foto 65). Nel 1982 organiz-zammo una rassegna di pittura e un concorso dipittura estemporanea nelle sale del Comune diValbrembo, con la partecipazione di affermatiartisti provenienti dalla provincia e anche da fuori.

Peccato che non pubblicammo un catalogo dellamostra per mancanza di fondi. Così, di tutti que-gli sforzi (foto 66), non è rimasta una tracciabibliografica.Nel 1983 venne modificato lo statuto del gruppocon cui prendeva vita una Sezione fotograficagrazie al prezioso contributo dell’amico foto-grafo Francesco Mangili. Si costituì un nuovodirettivo di cui facevano parte gli scultori Ales-sandro Verdi e Ugo Riva, i pittori Giovanni Pel-liccioli e Gerry Gervasoni e lo stesso Mangili.Con il nuovo direttivo le attività s’intensificaronoe aumentò il numero dei soci. Fu un periodo mol-to vivace nel corso del quale dovetti abituarmi aprogrammare, preparare e gestire serate culturalianche impegnative. Mi fa piacere ricordare inomi di soci quali Alfio Domenghini, MaurizioMazzoleni e Maurizio Pirola i quali, dopo averfrequentato i corsi di disegno e pittura presso ilnostro gruppo, furono tanto ben preparati che,sostenuto l’esame di ammissione all’AccademiaCarrara, furono subito ammessi al terzo annoscolastico. Approdarono poi a Brera e, dopoessersi diplomati brillantemente, ancora oggi

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sono impegnati in campo artistico in modo pro-fessionale. In quel periodo, anche loro mi diede-ro una mano nel lavoro alle sculture del bosco,assieme ad altri soci. Organizzammo con l’Asso-ciazione Nazionale Alpini, sezione di Almè, lapulizia e il rifacimento del sentiero che dallaCastagna porta al santuario di Sombreno, nonchéuna «festa degli alberi» con le scuole di Val-brembo e Paladina nel corso della quale, con glialunni, piantammo alberelli di quercia.Non posso dimenticare il fedele amico artistaNatalino Marcandalli che ancora oggi, dopo tan-ti anni, arriva da Busnago in provincia di Milanocon la sua auto fino a casa mia: solitamentequando i suoi impegni lo permettono il giorno disabato mi preleva e mi porta a far visita allemostre nelle gallerie della città; immancabilmen-te ogni due anni non manchiamo di far visita allaBiennale Veneziana, altra occasione per stareinsieme a godere l’arte internazionale. Nel 1983lo scultore Meli ci donò un’opera da collocare sulmuro esterno del mio laboratorio. Il montaggiofu eseguito regolarmente, ma dopo pochi mesi,essendo di terracotta un vandalo la ridusse infrantumi, perciò venne rimossa (foto 67). Semprenell’anno 1985, fu organizzato un concerto musi-cale al centro culturale S. Bartolomeo. Propo-nemmo a cinque compositori di musica contem-poranea di dedicare un loro brano ad altrettanteopere di artisti bergamaschi da noi scelti, tra iquali anch’io. Gli abbinamenti furono scelti nelseguente ordine: il maestro Fausto Facoettidedicò il suo brano all’opera dello scultore PieroCattaneo: il maestro Sergio Gianzini all’operadel pittore Angelo Capelli: il maestro LuigiAbbate al’opera del pittore Francesco Cotter: ilmaestro Luigi Trovasi all’opera del pittore Gian-ni Bergamelli: il maestro Pieralberto Cattaneoall’opera dello scultore Ugo Riva: il maestroNatale Arnoldi all’opera del sottoscritto. La sera-ta fu diretta dal figlio Lucio, e presentata dal cri-tico d’arte Marco Lorandi che con magistralecompetenza offrì al pubblico un momento cultu-rale indimenticabile.Nel 1986 affidammo al pittore Angelo Capellil’incarico di eseguire una Santella sul portone

d’ingresso di Casa Biava, che ancora oggi fabella mostra di sé nel nostro paese (foto 68). L’ul-timo progetto importante fu la realizzazione disette grandi sculture collocate nel giardino dellasezione di Mozzo degli Ospedali Riuniti di Ber-gamo. Parteciparono a quel progetto, oltre alsottoscritto, gli scultori Pierantonio Cavagna,Giancarlo Defendi, Gianni Grimaldi, AlbertoMeli, Franco Normanni, Ugo Riva e AlessandroVerdi. Le opere furono tutte donate dagli auto-ri (foto 69). Il corso di disegno della figura ele sessioni di pittura en plein air sono semprestati i momenti portanti della vita del grupposin dalla sua nascita. Si svolgevano di sabatoe domenica mattina, praticamente in tutte le sta-gioni, anche sotto la neve e con il freddo pun-gente dell’inverno (foto 70). Ma quelle scam-pagnate allegre a suon di pennellate furono ilcollante forte che ci tenne uniti uno per tutti,

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tutti per uno. Che bei momenti furono quelli!Furono esperienze di vita che non potrò maidimenticare. Dopo una decina di anni di vita, ilgruppo perse un poco del suo smalto e io capiiche sarebbe stato più opportuno lasciare l’impe-gno. Non potevo continuare quella mia esperien-za, seppur gratificante. Capivo che con la mia etàormai matura non potevo più permettermi didare tanto tempo per garantire la continuità diun valido programma. Decisi perciò di ritirarmida quell’iniziativa per potermi dedicare comple-tamente alle mie ricerche artistiche. Fu unmomento difficile e una scelta sofferta. Avevopaura di tradire, con quella decisione, le aspetta-tive di tanti soci affezionati e di tante amicizieche erano sorte proprio in seno a quel GruppoArtistico Valbrembo 77 che era nato anche gra-zie al mio impegno. Oggi, a distanza di anni, posso affermare che sitrattò di una saggia decisione. Sono felice dipoter affermare che con i vecchi soci è rimastal’amicizia di sempre. Penso che questa sia la cosapiù preziosa di tutti quei momenti passati insie-me. E il merito di ciò va anche a tutta la miafamiglia, per il suo aiuto materiale e morale pre-stato durante tutti quei dieci anni di attività. A

mia moglie, ai miei figli e a tutti coloro che han-no condiviso con me quegli anni così importantianche per il mio lavoro di artista, va ora il miopensiero riconoscente.

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L’U.C.A.I.

Per diversi anni fui iscritto all’Unione CattolicaArtisti Italiani. Agli inizi, aderii con entusiasmoa questa associazione. Non posso negare che ciòmi diede la possibilità di conoscere altri artisti epartecipare con essi a mostre collettive di pittura,a dibattiti e a convegni che si rivelarono utili perla mia formazione umana. Feci parte anche delconsiglio direttivo che ebbe il compito e laresponsabilità dei programmi culturali e artistici.Ricordo che in occasione di un’importantemostra dedicata a Papa Giovanni XXIII, che ebbeluogo nel 1981 nel Palazzo Vecchio di Città Alta,feci parte del comitato organizzatore e, insiemeall’amico pittore Carlo Ciocca andammo a Firen-ze per contattare due grandi artisti che avevamoinvitato alla rassegna: Annigoni e Conti.Da Annigoni fummo ricevuti dapprima dal suosegretario che, subito, ci accompagnò nello stu-dio del maestro. Dopo un colloquio cordiale, ciassicurò la partecipazione alla mostra con unasua opera dedicata al grande papa. Annigonipoteva essere considerato uno dei più grandiritrattisti del suo tempo e famosi erano i suoiritratti dell’amato pontefice. Ricordo che, al ter-mine dell’incontro, ci diede una cartolina illu-strata con una sua opera e la firmò con tanto didedica. Lasciammo il suo studio fieri di aver con-quistato un nome così prestigioso per la nostramostra e velocemente ci dirigemmo a Fiesoledove dovevamo incontrare il pittore Primo Conti.Viveva in una villa con studio a piano terra e fuimeravigliato della sua caldissima accoglienza.Aveva la veneranda età di novant’anni, ma il suoportamento tanto giovanile ci stupì. Conoscevamolto bene l’amico Ciocca. Lo prese sottobrac-cio e ci portò nel suo studio riservato agli ospiti.Ci mostrò tutti i suoi cimeli e le sue opere piùrecenti; ci trattenne per più di due ore e volle, allafine, farsi fotografare in nostra compagnia (foto71). Alla sua età, così vivace e lucido di memo-ria, emanava un fascino e una personale energiada far ringiovanire pure noi. Fu un’esperienzamagnifica che ricorderò per tutta la vita. Il gior-no dopo lasciammo Firenze e tornammo alla

nostra Bergamo arricchiti da quei due magiciincontri. Quella mostra dedicata alla figura diPapa Giovanni, allestita nel palazzo della Ragio-ne, fu una delle più importanti iniziative che mail’UCAI di Bergamo avesse sino ad allora intra-preso (foto 72). A quella mostra ne seguirono

altre di impegno minore come ad esempio quellesociali cosiddette del “piccolo quadro” general-mente allestite al Centro Culturale S.Bartolomeo.Ricordo inoltre, con piacere, le mostre collettiveallestite nel Teatro Sociale in occasione del car-nevale. Una volta realizzai un grande quadroincorniciando le macchie di un muro del teatroche aveva una fessura nell’intonaco dalla qualefeci uscire una colata di color rosso sangue (foto73). Su un’altra parete misi dei soggetti del tor-rente Quisa: una gigantografia di una foto cheavevo fatto lungo il torrente Quisa appena dopouna piena. Era la visione di un paesaggio quasiextraterrestre, con pezzi di polietilene e plasticaappesi ai rami e disseminati sulle rive. Volevo

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dare un messaggio amaramente ironico all’inter-no di quella mostra dedicata al carnevale. Unaltro anno, sempre in quel teatro, portai deglialberi interi di acacia messi a rami in giù eappoggiati su grandi specchi che li riflettevano(foto 74).Organizzammo anche un viaggio a Roma con lavisita allo studio dello scultore Giacomo Manzù,nostro concittadino di nascita. Fu un’esperienzaimportante e dopo aver visitato studio e museo adArdea tornammo a casa soddisfatti.Dopo tanti anni di adesione all’associazione, che

avevano significato per me anche un notevoleimpegno in termini di tempo e disponibilità dadedicare alle attività sociali, decisi di dare ledimissioni dal comitato esecutivo.

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Nella tua luce, olio su tela - cm 120x120, 1989 (opera esposta alla mostra dedicata a Papa Giovanni).

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UNA SCULTURA NEL PARCO DI OSSANESGA

Nacque nel 1988 in seno all’Amministrazionecomunale di Valbrembo, con a capo l’allora sin-daco Gianleo Bertrand Beltramelli e con l’aiutomorale dell’amico Francesco Mangili, l’idea dicollocare due sculture, una per ogni frazione, neidue parchi pubblici di Scano e di Ossanesga. Ilprimo incarico fu dato allo scultore AlessandroVerdi che nel 1990 realizzò nel parco di Scanouna scultura di bronzo ispirata a una figura inpiedi, nello stile a lui consono. Un’opera moder-na dalle linee stilizzate e tecnicamente perfetta(foto 75). Nativo di San Pellegrino, l’artista ven-

ne ad abitare in una vecchia cascina con la suafamiglia e lì vi collocò anche il suo studio nelquale lavorò diversi anni.La spesa di quell’opera venne quantificata in unatrentina di milioni di lire. Quella cifra fu presacosì come riferimento anche per i costi della miascultura.Io volevo fare un lavoro più complesso e quindipiù costoso, e così dovetti accontentarmi di unsolo elemento a mio favore: la completa libertànell’esecuzione, secondo il tema a cui desideravoispirarmi e con l’eventuale scelta di tecniche ame congeniali. L’Amministrazione pubblica del nostro Comuneintanto cambiava trovando un nuovo sindaco nel-la persona del sig. Virgilio Bonalumi, il quale

optò per farmi portare a termine il progetto a suotempo deciso. Nella primavera del 1991 iniziai ilavori che vennero documentati per tutta la lorodurata grazie alle videoriprese di mio nipoteGino Cavalleri, da me aiutato nelle scelte dei sog-getti e delle inquadrature. Fu un’esperienza inte-ressante e una paziente operazione che sembravanon finisse mai: le riprese durarono più di unanno e furono a volte ripetute per assicurarne laqualità. Affermerò che il documentario che ne èrisultato mi convince tutt’oggi anche se ottenutocon poveri mezzi e credo nella sua utilità special-mente come strumento didattico: per mezzo diesso si possono capire le difficoltà e le fatichenon solo tecniche ma anche fisiche nell’eseguireun lavoro del genere.Anche nel mio caso fu scelto il parco giochi diOssanesga, situato in mezzo a un coro di case evivacizzato dalle grida di bambini dell’adiacenteasilo e delle vicine scuole elementari. Fu conl’attenzione all’ambiente in cui la scultura dove-va essere collocata che presentai il progetto inComune per avere l’autorizzazione a iniziarequanto prima il lavoro. Il titolo dell’opera “Spec-chio di clima” venne accompagnato da un perso-nale pensiero espresso in queste parole: “L’ideadi poter eseguire una scultura nel nostro paese èstata uno stimolo per il mio lavoro di artista espero di avere creato in questo spazio un’occa-sione per riflettere sulla necessità di contribuirealla realizzazione di un più grande progetto:quello della salvaguardia della natura. Tutti noi,specialmente i giovani e i bambini, abbiamobisogno di spunti per sognare un futuro migliore:spero con questo mio lavoro di aiutare a renderepiù realmente possibile questo sogno”.La superficie di circa duemila metri quadratitenuta ad erba con marciapiedi in cemento pre-fabbricato che portano alle altalene e agli scivoli,vera gioia dei bambini, disponeva di un’aiuolacentrale circolare del diametro di circa diecimetri. Sulla sua circonferenza era tracciato unmarciapiede della larghezza di circa un metro,costeggiato da un basso muretto dove le persone

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potevano sedersi a riposare. In quel cerchioimmaginai un elaborato che s’immergesse nellanatura e nell’ambiente della nostra terra.Sulla circonferenza di quel cerchio, per una lun-ghezza di circa otto metri e una larghezza di duemetri e cinquanta centimetri nella parte più larga,pensai di collocare una vasca con il fondo amosaici coloratissimi nella parte centrale e insenso longitudinale affiancato ai bordi da fram-menti di sassi colorati e di forme diverse, tuttiraccolti dal fiume Brembo e dal torrente Quisache attraversa il nostro paese. Tale vasca, a livel-lo del torrente, doveva essere coperta da uno stra-to di acqua di circa cinque centimetri nella partepiù profonda e finire a livello zero per tracimarepulendosi per il continuo flusso di uno zampillo.Il mosaico coperto di acqua doveva essere attra-versato da sassi di forma piatta e del diametro dicirca trenta centimetri, distanti tra di loro un pas-so e appena fuori dal pelo dell’acqua per fare dapassaggio a chi volesse bere dallo zampillo postoin mezzo a quel torrente ideale. Proprio al centrodel cerchio potevo collocare un parallelepipedodi pietra serena grigia della larghezza di 160 cm.e alto tre metri, come la misura dei blocchi natu-rali prodotti dalla cava. Su una facciata a sud,doveva essere scolpito un albero totalmente fora-to dalle larve, con al centro sulla sua verticaleun’asta di bronzo lucido a coltello, che partendoa punta da una cavità a novanta centimetri da ter-ra saliva fino al culmine della pietra.La sua punta, come una piccola meridiana, dove-va segnare il mezzogiorno con la sua ombraposta all’interno di una cavità di una quindicinadi centimetri di larghezza. Dall’altra facciataposta a nord, il mio progetto prevedeva l’inseri-mento di una radice che partendo da terra arri-vasse fin quasi alla sommità della pietra finendocon un germoglio schiuso tutto in bronzo, fissatain una viscera scolpita nella pietra.La pietra doveva essere posta su una base arro-tondata della forma di un biscotto savoiardo edella larghezza di circa 220 cm. e alta una qua-rantina di centimetri ricoperta da sabbia di grana

grossa del fiume Brembo. Tale base, nella suaparte centrale, doveva scendere a scivolo fino alpelo dell’acqua contenuta nella vasca in mosaico.Intorno al basamento era prevista una corolla disassi di fiume con diverse tonalità che uscivanodal terreno. Tutto intorno doveva essere tenuto aderba, stile prato inglese. Mi sembrava un’ideaabbastanza convincente e consona al mio mododi pensare e specialmente perché trattava il temapreferito che da anni curavo: quello dedicato allanatura della mia terra e del mio ambiente.Preparai quei bozzetti e quei disegni in scala sufogli da cm. 50x70 (foto 76) e un piccolo plasti-

co del diametro di circa cinquanta centimetri chesottoposi alla visione degli assessori, (foto 77)con l’accordo di lasciarmi libertà di esecuzionenonché anche di eventuali modifiche nel casoavessero potuto migliorare, secondo il mio puntodi vista, l’opera stessa.Nel progetto, il lavoro più delicato fu la realizza-zione del mosaico che dovetti comporre nel miolaboratorio e posare poi sul posto. Far eseguire illavoro a un mosaicista, anche se gli avessi prepa-rato il cartone o il bozzetto, sarebbe costato trop-

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po per le casse del Comune; perciò dovetti stu-diare personalmente un sistema per realizzarlo.Andai direttamente dalla ditta Peresson, speciali-sta in mosaici, e mi procurai il materiale occor-rente: presentai anche a loro il mio progetto pereventuali consigli tecnici. Dalle pizze di smaltivetrosi, del diametro di una ventina di centimetri,mi fecero vedere il modo di tagliare i pezzi volu-ti. Mi feci dare, inoltre, le attrezzature necessariee dovetti far pratica sul taglio dei vetri. Iniziaicosì il lavoro. Il signor Peresson mi consigliò unsistema di posa che consisteva nel fare una boz-za su carta del disegno reale del soggetto e da lìcopiare le forme dei relativi colori e posarli diret-tamente sul collante già preparato sul piano dellavasca, pezzo per pezzo.Sembrava un’operazione che mi sarebbe costatatanto tempo, perciò studiai un mio sistema che sidimostrò molto più veloce. Dopo avere cementa-to gli strati di sassi di fiume e le schegge di pie-tra nella parte dei bordi della vasca, ne feci delleforme di compensato (foto 78) e su queste impo-

stai i colori, così come poteva essere il mosaico.Preparai dunque, nel mio laboratorio, un tavolonedella grandezza del mosaico, vi appoggiai ilmodello e sopra vi costruii pezzo per pezzo ilrelativo mosaico. In quel modo potevo provare lesoluzioni migliori cambiando addirittura le formee i colori iniziali. Inoltre potevo verificare in ognimomento l’opera musiva nel suo insieme e, quan-do fui convinto e sicuro del risultato, iniziai laseconda fase dell’operazione. Presi dei fogli dibiadesivo, tolsi la prima pellicola protettiva e la

pressai direttamente sulla superficie del mosaico;staccai la seconda pellicola e vi feci aderire, sro-tolandolo su tutta la superficie, il polietilene tra-sparente: ero ancora in tempo a fare qualchemodifica perché, in quel caso, bastava solo toglie-re la parte dove era incollato il polietilene e fare ilcambiamento desiderato. Impiegai molto tempoper comporre quel mosaico; un lavoro lungo edelicato. In un primo momento ebbi tanto scartodi materiale perché la taglierina a mano non col-piva precisa, data la mia scarsa esperienza; ma coltempo imparai in modo sempre più professionale.A lavoro terminato, divisi tutto il mosaico in pez-zi di centimetri 60x70 circa, li numerai sui latiperché potessero combaciare al momento dellaposa. Tirai delle linee di adattamento generale einiziai l’incollaggio. Pezzo per pezzo, girai ilmosaico dalla parte opposta, riempii le fessuredistanziate da circa tre millimetri di sabbia fine e,dopo avere spalmato uno strato di collante adatto,appoggiai e pressai leggermente sulla superficieuna rete di plastica speciale che doveva legare iltutto dopo l’essiccazione. Fu il mio primo lavorodel genere. Mi divertii, anche se l’ansia per l’in-cognita del risultato mi teneva in una certa tensio-ne fisica. Alla fine credo però di aver concluso unottimo lavoro. Ricordo le giornate trascorse alfiume a cercare sassi dai colori da adattare alletonalità del mosaico e tagliarli poi uno a uno nel-lo spessore voluto. Per fortuna l’amico GiuseppeZucchinali mi seguì in quel periodo aiutandomi intutti quegli spostamenti alla ricerca dei materiali enella loro collocazione. Anche l’aiuto del bravomuratore Franco Omacini, un pensionato che abi-ta nel mio stesso paese, mi fu prezioso nella pre-parazione dei supporti e delle basi dove dovevanoessere collocati mosaico e scultura.Grazie a un amico camionista, un certo Barcelladi Nembro, paese della Valle Seriana, ebbi l’oc-casione di venire in possesso di una pietra di gra-nito proveniente dalla Sardegna. Me la diede incambio di una mia piccola opera. Proprio quellapietra fu per me molto preziosa poiché presenta-va una cavità provvidenziale adatta per collocare

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una pietra più piccola da dove uscisse uno zam-pillo d’acqua. Questa doveva avere la dimensio-ne perfetta per entrare nel vuoto della cavità eperciò per tutta una giornata percorsi buona par-te del fiume Brembo sino a Mezzoldo, alla suaricerca. Risalendo ancora oltre quel paesino latrovai in mezzo a tante altre pietre, proprio cosìcome la volevo.Una settimana dopo andai a recuperarla colcamioncino di mio nipote Eugenio, coadiuvatodai due altri nipoti, Gianclaver e Nicola, e assie-me al fotografo Francesco Mangili che dovevadocumentare tutti gli avvenimenti dell’operazio-ne. Arrivato sul posto quasi all’imbrunire, il Man-gili chiese quale fosse la pietra da portare via e,un po’ stupito, gli dissi: “Vedi quei due ragazziabbracciati, sono proprio seduti sulla pietra daportare via”. Ma no, ma sì, ma fu proprio così.Andammo tutti insieme da loro e dicemmo chenoi avevamo bisogno di quella pietra che io stes-so avevo scelto giorni prima e, nella loro incredu-lità, ci permisero di portarcela via (foto 79).

L’avvenimento fu per me un caso molto signifi-cativo, così come tanti altri accaduti nel mio vis-suto.Giorno dopo giorno, perciò, l’opera scultoreacresceva; l’aiuto da parte degli amici e dei sim-patizzanti non mancava mai. Un contributo prov-videnziale che mi permetteva di realizzare illavoro rimanendo nel budget di spesa previsto.Fatiche accettate con tanta generosità e in tanti

casi con tanto amore, consapevoli che tale contri-buto rimaneva impastato nei materiali e nei ricor-di di quella scultura.L’Antonio Togni, il Battista Gandolfi, il FrancoOmacini, l’Eugenio Lego, il Francesco Mangili ealtri ancora furono sempre pronti in caso di biso-gno. Quando si andava al fiume in cerca di pietreera un grido unico: “Cesare, questa è più verde!”.“L’altra è più rossa!”. “Guarda, questa è piùliscia!”. “Questa è più bianca!”. “Quella è piùnera!”. Era come un giocare a chi trovasse la cosapiù preziosa. Ormai il Battista e l’Antonio sonomorti, ma il ricordo dei loro volti radiosi per queiritrovamenti è ancora oggi, per me e per altri,sempre presente e vivo.Queste sono per me le cose che più contano nellastoria di quella scultura e sono il valore che nobi-lita quel manufatto composto da tante mani e conmolto entusiasmo. Questo desidero che gli altrisappiano! Quella gente molto semplice e con uncuore molto grande, che non dava solo in cambiodi denaro, dovrebbe essere ricordata di più. Mapurtroppo non è così. Non una lira ho dato loro,perché non la accettarono. Al massimo, un picco-lo mio lavoro come ricordo, da appendere in casa.Intanto l’opera cresceva. Il mio progetto prevede-va radici di bronzo che uscivano dalla pietra cen-trale. Così cercai sulle rive del mio fiume, ilBrembo, e scelsi quelle dalle forme che si adat-tassero al soggetto (foto 80). Le feci fondere astaffa in bronzo per risparmiare denaro. Il blocco

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principale di pietra serena, del peso di circa set-tanta quintali, la trovai nella segheria dei fratelliCaldara di Ponte Oglio. Quando andai a lavorar-la in quella segheria, ne trovai un’altra della stes-sa dimensione con la superficie più grande emodellata nei millenni dall’acqua.Così anziché una pietra ne portai a casa due, pen-sando che anche questa sarebbe stata utile per unaltro lavoro. Saputo dal proprietario che quelleforme dovevano essere tagliate per rendere lasuperficie perfettamente piatta, decisi di serbarleintatte tagliando il blocco con uno spessore di cir-ca quaranta centimetri compreso quel magnificoaltorilievo. Si ottenne, così, un’altra pietra di cir-ca trentacinque quintali la quale, dopo essere sta-ta per circa tre anni appoggiata al muro dellacascina Frera vicino casa mia, mi fu richiesta dalComune di Paladina per arredare il giardino pub-blico situato tra la chiesa e il nuovo asilo di quelpaese (foto 81). L’idea di collocarla in quel luogo

mi era stata data dall’amico architetto QuirinoArcaini che la vide appoggiata a quel muro. Ilblocco per la scultura di Valbrembo fu portatodirettamente nel parco e con una potente gru fucollocato sul basamento predisposto. Un lavorodelicato e pericoloso perché lo spostamento dove-

va essere effettuato a una ventina di metri dallaposizione della macchina che sosteneva la gru.Iniziai a predisporre l’armatura di ferro su tutta lasuperficie del basamento previsto per la posa delcemento armato. Fu dato l’incarico all’impresaPanza di Valbrembo. Un pomeriggio portarono ilmateriale; diversi metri cubi di cemento armato,ma con soli due operai. Visto che sarebbe statoimpossibile in quelle condizioni eseguire il lavo-ro, chiamai gli amici ed altri volonterosi che siunirono generosamente al gruppo. In un attimospuntarono uomini e badili da ogni dove e si feceil faticoso lavoro insieme. Furono sudate memo-rabili. Non si poteva aspettare, perché il cementoscaricato in un mucchio informe avrebbe fattosubito presa e sarebbe stato così inservibile. Quel-la collaborazione spontanea mi salvò. E ancorauna volta nessuno volle essere remunerato.Ormai anche il mosaico eseguito in laboratorioera pronto per essere impiantato sul posto nellasua sede definitiva. Non vi dico le giornate tra-scorse sotto il sole cocente a rifinire, pezzetto perpezzetto, gli spazi rimasti vuoti dopo avere incol-lato sulla base la totalità del mosaico (foto 82).

Per fortuna mi ero munito di un bianco ombrel-lone per ripararmi dal sole, ma i vetri che face-vano da riflesso emanavano un calore sufficientea farmi grondare. L’amico Zucchinali, semprevicino a passarmi attrezzi e materiali, fu vera-mente l’uomo della provvidenza e salvò la mia

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schiena da un sicuro blocco totale. A distanza disette anni alcuni tasselli di smalto vetroso sonostati sostituiti perché le dilatazioni subite a causadegli sbalzi di temperatura li hanno quasi disin-tegrati; li ho rimpiazzati con altri di qualità iden-tica a quelli che non hanno subito tale difetto.Avrei dovuto sigillarli con un materiale moltoelastico che allora non avevo trovato in commer-cio. Ma tutto sommato posso essere soddisfat-to perché durante l’operazione di riparazioneho costatato che l’impianto di base è ancora mol-to solido e le colle hanno tenuto egregiamente.Posso confermare che i materiali Mapei da meutilizzati per l’incollaggio delle tessere delmosaico sono veramente affidabili. Questi mierano stati consigliati dall’amico Luigi Salvettidi Paladina, titolare dell’omonima ditta che com-mercializza ceramiche.Durante i lavori non è mancato chi voleva faredispetti. Ogni tanto trovavo rotture e spostamentidi materiali posati il giorno prima. Specialmenteun ragazzino me ne combinava di tutti i colori. Iocercavo di capire la sua vivacità ma un giorno,per un caso abbastanza serio, mi arrabbiai vera-mente. Presi con me una mia piccola tempera daicolori sgargianti e mi presentai ai genitori delragazzino. Con evidente naturalezza egli negò lesue responsabilità, ma essendo io sicuro della suacolpevolezza, feci loro questa proposta: “Io rega-lerò un mio piccolo lavoro a vostro figlio, ma voivi assumerete l’onere di incorniciarlo e appen-derlo in un posto ben visibile nella sua cameret-ta. Tutte le volte che gli capiterà sott’occhio potràricordarsi di non farmi più altri dispetti”. Il siste-ma funzionò e da allora non ebbi più noie.Il lavoro d’adattamento della pietra più piccola,dalla quale sarebbe dovuto uscire lo zampillod’acqua e che era da incastrare nella cavità diquella più grossa, fu eseguito in un campicello aqualche metro dalle finestre del mio laboratorio.Dopo aver costruito un cavalletto alto un paio dimetri con profilati di ferro e portante una rotaiasu cui poteva scorrere un piccolo argano a catenaper spostare la pietra da quella cavità senza trop-

pi sforzi, con mazzuola e scalpello in mano ini-ziai il lavoro (foto 83). In certe ore della giorna-ta quel campetto incolto emanava una lucestraordinaria e mistica (foto 84). Era tutto fioritocome un giardino selvatico fitto d’erbe altissime.Migliaia di fiorellini di camomilla creavano untappeto bianco punteggiato qua e là da un giallointenso. Operare in quell’ambiente aveva unsapore di fiaba. Mi mancava solo la musa deimiei sogni che uscisse dall’armonia di quel para-diso colorato per venire verso me a soffiare suquei miei strani pensieri. Quell’incantesimo erarotto a tratti dal rumore del passaggio delle autosulla vicina strada che divideva il campiello dalmio laboratorio le cui finestre, la sera, erano illu-minate a giorno. Qualche curioso si fermava aguardare. Una sera scorsi persino un’auto dei

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Carabinieri fermi nel buio che mi osservavanomentre stavo limando i bronzi delle radici.Quel lavoro fu ricco di bei ricordi, di marocchiniche si fermavano incuriositi, bambini e pensiona-ti che volevano sapere cosa stessi facendo. Unprete dei Padri Giuseppini, che passava per recar-si a celebrare la Messa nella chiesa della mia par-rocchia, la mattina si fermava ogni tanto a parla-re. “Lei sta qui a faticare per fare cose belle, emagari qualche maleducato verrà un giorno arovinarle. Lei sa oggi quanti vandalismi fanno igiovani! Non si danno più i castighi e così li fan-no senza neanche pensarci un momento”. Era unprete molto anziano e non potevo dargli torto,perché è proprio così. Certo che nel periodo del-la mia gioventù c’era più rispetto per le cosealtrui e per il prossimo. La disciplina era indub-biamente più rigorosa.Arrivò anche il momento di dare l’assalto allagrande pietra serena che era già stata fissata sulproprio basamento per poi scolpirla e incastonar-vi le radici di bronzo col germoglio (foto 85). Miero munito dell’attrezzatura necessaria per scolpi-re meccanicamente il soggetto perché fare tutto amano sarebbe stato troppo lungo e faticoso allamia età. Il compressore d’aria, che avrebbe rap-presentato una spesa notevole, l’avevo già a dispo-

sizione. Era quello ereditato da mio nonno Mosè.Ora mi bastava solo sopportare i rumori assordan-ti del compressore e degli scalpelli che battevanosulla pietra tagliandola, il vibrare fastidioso deipolsi, il baccano infernale. Ero abituato ormai davent’anni a fare pittura nello studio in cui non sisentiva volare una mosca e dove solo ogni tantomettevo un po’ di musica a basso volume per crea-re un po’ d’atmosfera. Ora, persino nel sonno misembrava di avere nelle orecchie quel frastuono ecosì, al risveglio, mi alzavo più stanco del solito.Un giorno andai a Palazzolo sull’Oglio dal mioamico gallerista Mario Pedrali per la solita visitaalla sua galleria, e nel ritorno passai a casa dell’a-mico scultore Luigi Ghidotti. Questi aveva unlaboratorio per la lavorazione dei marmi dove unoperaio, un tale signor Cadei, si occupava deilavori commissionati. Anche quell’operaio, a tem-po perso, faceva lo scultore in proprio e, saputoche dovevo iniziare il lavoro della mia pietra, sioffrì di venire a casa mia con un altro amico scul-tore, Previtali, per darmi una mano nella sgrossa-tura. Giunsero insieme una domenica mattina e,dopo avere segnato le parti da togliere sulla fac-ciata dove doveva essere scolpito l’albero, inizia-rono i lavori. Si trattava di asportare materiale inprofondità e il lavoro di quella giornata fu molto

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utile perché quegli amici mi risparmiarono l’ope-razione fisicamente più faticosa. Un buon pranzoa mezzogiorno, sapientemente preparato da miamoglie, assieme a una piccola tempera, furonoconsiderati come salario per il lavoro fatto insie-me. Per giorni continuai quel lavoro fino alla fini-tura ultima che risultò conforme al progetto previ-sto; mancavano ora solo alcune piccole modificheper ingentilire certe forme con la levigatura neces-saria e, infine, la stesura degli impregnanti per laprotezione della pietra stessa e di tutte quelli par-ti più soggette alle intemperie (foto 86). Passaro-no le stagioni: la primavera, l’estate, l’autunno el’inverno e così, dopo gli ultimi ritocchi, venne ilgiorno dell’inaugurazione e dei festeggiamenti.La scultura fu inaugurata un sabato di fine novem-bre del 1992 verso le quattro pomeridiane alla pre-senza delle autorità, degli amici, dei colleghi e ditanta gente che era accorsa avendo saputo dell’av-venimento. Dopo il saluto delle autorità e i relati-vi discorsi, i partecipanti si intrattennero per qual-che istante ad ammirare da vicino la sculturafacendo commenti sul risultato dell’opera stessa.Tanti si complimentarono con me per il lavorosvolto e rimasi molto soddisfatto. La cerimoniadurò un’ora e mezzo circa, (foto 87) dopo di che

tutti i presenti con le autorità si diressero verso lasala mostre del Comune per l’inaugurazione diuna mia mostra personale di pittura e scultura pre-sentata dal giornalista e critico d’arte AmanzioPossenti, in occasione della quale avevo esposto ilprogetto e gli studi preparatori riguardanti la scul-tura (foto 88). Inoltre si poteva prendere visione

di un breve documentario che presentava i lavoridella scultura del parco in tutte le fasi della suarealizzazione. Al primo piano dell’edificiocomunale, nella bella sala consiliare, s’inauguròanche una bellissima mostra fotografica che l’a-mico Francesco Mangili presentò in quell’occa-sione: erano tutte immagini riprese dall’occhiomagico della sua macchina fotografica che furo-no da lui realizzate durante i lavori della sculturae che il pubblico apprezzò con calore (foto 89).Fu un successo di visitatori, molti dei quali parti-colarmente incuriositi nel vedersi apparire ritrat-ti in diverse immagini esposte. La mostra duròuna decina di giorni e fu visitata da tanta gente,comprese le scolaresche accompagnate dai pro-fessori che, su appuntamento, potevano benefi-ciare della mia personale presenza per spiegaremeglio ai ragazzi i motivi, i valori, i contenutiartistici che mi avevano convinto a proporrequell’elaborato. Credo che il mio contributo siastato utile e spero che la mia gente abbia capito

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gli sforzi per ottenere quel risultato. Per un annola scultura rimase intatta. Una mattina la trovam-mo imbrattata di scritte volgari e ignobili pro-prio sulle superfici della pietra; il giorno stessola coprii con una pezza di cotone bianco e conun telo di polietilene per ripararla dall’acqua,intanto che si attendeva il restauro. Una not-te qualche vandalo incendiò il tutto e la stoffaintrisa dal polietilene reso liquido dal caloremacchiò irrimediabilmente pietra e basamento.Per togliere quelle macchie si è dovuto ricorrerealla sabbiatura ad acqua e, per fortuna, quellatecnica risultò valida; il restauro riportò l’ope-ra al suo aspetto originario. Ormai sono passatianni dalla consegna alla comunità di quella miaopera e, se voglio vederla pulita e in ordine, devoimpegnarmi ancora io, a mie spese e dedicando-vi il tempo necessario. Mi rammarica questamancanza di sensibilità delle autorità verso unlavoro collettivo fatto con tanto amore e fatica eche ha bisogno di essere sempre curato perché lasua freschezza si mantenga nel tempo. E se nes-

sun altro penserà, fin che potrò ci penserò io.Perché, in fondo, quella scultura è una mia crea-tura (foto 90).

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Specchio di clima nel parco di Valbrembo, opera scultorea, 1992

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IDEA PERL’OPERAZIONE “CAPRA”

“Capra” è il nome di un appezzamento di terrenosito nel comune di Valbrembo, il più grande cheesista in loco, e posto tra le frazioni di Scano e diOssanesga. È una superficie divisa in forme ret-tangolari coltivate a prato e cereali, tagliata alcentro da una stradina sterrata. Sembra che soloqui si possa respirare liberamente a pieni polmo-ni. Durante le ultime feste di Natale venni aconoscenza che da quelle parti erano stati taglia-ti dei gelsi e così corsi a vedere se potevo trovaredei pezzi utili per i miei lavori di scultura. Fin dalgiorno prima nevicava abbondantemente e, arri-vato sul posto, in mezzo a quella distesa colorbianco candido vidi a distanza, ai margini delboschetto di querce, i gelsi tagliati. Trovai gli ele-menti che facevano al caso mio. Fui molto con-tento di quella fortunata occasione e così, dopoaver contrassegnato i pezzi prescelti, me ne tor-nai al centro di quel grande prato bianco. La gior-nata era grigia e silenziosa: invitava alla medita-zione. Mi lasciai andare alle mie solite fantasie.Pensavo: “Se avessi messo qui i miei alberi scol-piti prima della nevicata chissà che suggestionevederli spuntare dalla neve” (foto 91). Nello stes-

so momento ricordavo la grande scacchiera chestavo preparando da tempo. “E se la impiantassiqui, in questo paradiso terrestre? Sarebbe vera-mente meraviglioso! Ora è certo impossibile far-lo. E neppure in primavera; danneggerei il pratoed il lavoro dei contadini. Ma in autunno, quando

le stoppie o il grano saranno raccolti, si potràfare. Bene! È deciso: chiederò il permesso alcontadino per l’installazione in autunno e …viacol progetto!”. Ricordo che da qui, guardando lemontagne verso nord, la torre Vacis costruita nel‘400 sembrava fare da baluardo al cemento chespingeva verso sud. Ora, nel giro di pochissimianni, quella torre antica è stata ormai risucchiatadalle nuove case che hanno annullato la suaimponenza. So che il piano regolatore attualmen-te vigente prevede questa zona come fulcro cen-trale del sistema urbano di Valbrembo: ben prestosarà riempita di strade e case. Credo che unaperformance in mezzo a questo verde totale pos-sa segnare un pezzo di storia del nostro territorio,ma solo se sarò capace di documentarla rigorosa-mente, in ogni dettaglio. Da qui, sempre versonord, vedo il profilo ravvicinato della mia Ossa-nesga con la sua chiesa; (foto 92) alla mia si-

nistra il boschetto di querce e castagni: unichepiante ad alto fusto che fanno da corona al gran-de prato. A destra il torrente Quisa, affossato eridotto ormai a una fogna a cielo aperto dove, nelperiodo della mia infanzia, ho trascorso con imiei coetanei intere giornate di giochi indimenti-cabili. Alle mie spalle la frazione di Scano.Ricordo che di là arrivavano i “nemici” armati disassi alla conquista del nostro territorio chedifendevamo a denti stretti (foto 93).Eravamo ragazzini inquieti e lo spirito di gruppo,come succede per branchi di animali selvatici, cilegava in una solidarietà che non ci faceva teme-re niente al mondo. Ora, proprio su questo confi-

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ne, voglio combattere la mia battaglia in compa-gnia della sola natura che mi ha dato idee, entu-siasmo e coraggio per continuare questo lavoro.Traccerò un quadrato di venti metri di lato: quat-trocento metri quadrati di superficie a terra bat-tuta. Poi, al centro del quadrato, un cerchio di cir-ca quattro metri di diametro. Sulla sua circonfe-renza segnerò i quattro punti cardinali. Sopraognuno di essi collocherò una tavola di legno dame scolpita alta un paio di metri. Quattro sono ipunti cardinali, quattro sono le stagioni, quattrosono i colori fondamentali per le stampe, quattroè il numero degli elementi: quanti altri significa-ti simbolici contiene il numero quattro! Al centro del cerchio porrò un disco di cristal-lo di circa due metri di diametro posto a filodel terreno dal quale, come attraverso un oblò,sarà possibile ammirare la natura nei suoi par-ticolari: radici, foglie, sezioni di alberi. Ai latidi esso sistemerò i miei alberi, le mie sculturee, forse, qualche quadro allineato lungo il pe-rimetro. Proprio in questo periodo sto realizzan-do, nel mio studio, un plastico in scala 1:15 peravere un’idea più concreta sulla realizzazionedell’opera.Le sculture finite sono state fotografate, le fotoritagliate e incollate su parallelepipedi da inseri-re nel plastico. La base di esso è bianca e divisain tanti quadrati come una grande scacchiera sul-la quale inserisco, tolgo e poso i diversi elemen-ti. In questo modo posso studiare e analizzareogni diversa combinazione: è come giocare ascacchi con la mia creatività (foto 94). Questa

sarà una partita difficile e faticosa: sono certoche sorgeranno diverse difficoltà quando mi tro-verò di fronte alle dimensioni reali e alle proble-matiche della preparazione.Da quando ho scelto di fare dell’arte la mia vitae il mio unico sostentamento, mi sento spessocome un incosciente. Ma forse è proprio questaebbrezza del rischio che mi dà continua vitalità.Perciò devo avere fiducia di riuscire anche inquesto progetto.Le opere dovranno essere pronte per il mese diagosto in modo da potermi dedicare poi agli altriparticolari dell’installazione. L’allestimentodovrà essere effettuato in un’unica mattinata eripreso con videocamera e macchina fotograficadurante le varie fasi di montaggio. Dal pomerig-gio fino a sera il cameraman e il fotografo docu-menteranno attraverso il loro lavoro la presenzadi questa composizione al centro di questoambiente meraviglioso dove ho trascorso buonaparte della mia vita.Questi spazi, che da piccolo mi sembravanoimmensi e dove ho scoperto l’evolversi dei colo-ri, dei profumi e delle forme, accoglieranno ilrisultato del mio lavoro e della mia fantasia. Edanche se tutto ciò sarà ignorato, criticato o frain-teso, io sono comunque contento di poter viverequesto gioco che mi dà infinite emozioni. Ancheperché in questo quadrato di terra, circondatodalla mia chiesa, dal mio Quisa, dalla mia casa,dai miei alberi, dalla mia gente e dalle mie ope-re, mi sentirò come un re nel suo piccolo regno.Certo mi mancheranno i filari di vite, gli alberi di

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pesco e i ciliegi che noi ragazzi saccheggiavamocon il rischio di essere pestati prima dal contadi-no, poi dai genitori; ma il mio amore per questopezzo di terra, anche così com’è ora, rimanesempre profondo.È anche con un certo timore che mi preparo a

questa impresa; a volte mi assale la paura di averprofanato questo tempio verde, nonostante i mieibuoni propositi.Se così fosse, chi mi potrà mai perdonare?

Valbrembo, 15. 1. 1996

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ALITO DI TEMPONEI CAMPI DELLA CAPRA

Sabato 7 settembre si sono svolte le prove gene-rali per valutare tempi di impiego e costatareeventuali difficoltà al fine di realizzare al megliol’attesa performance prevista il mese prossimonei campi della località detta “Capra”. Qualchegiorno prima, con l’aiuto dell’amico GiuseppeZucchinali, ho caricato sul portapacchi della miaFiat Giardinetta cinque sculture e le abbiamo por-tate e installate prima sul sentiero vicino al cam-po di granoturco mentre mio nipote Gino Caval-leri documentava l’azione con la telecamera. Poile abbiamo spostate nel campicello del vicinocapanno Mangili e qui riprese per la seconda vol-ta. Quella operazione video sarebbe servita comedocumentazione del filmato “Alito di tempo neicampi della Capra”. Quel 7 settembre, giorno fis-sato per la fatidica “prova generale”, ci accolsesin dal mattino una bellissima giornata piena disole e sul presto, caricammo tutto il materialeoccorrente per l’allestimento su un furgone con-dotto dall’amico Piero Locatelli sempre disponi-bile, e partimmo in direzione di quei campi.Allestii l’installazione coadiuvato dal solito Zuc-chinali, dall’amico pittore Alessandro Crippa, edall’onnipresente Mangili. Avevo preparato unacinquantina di pannelli quadrati della dimensionedi 534 millimetri di lato e li avevo dipinti colorverde prato. Metà di essi erano di tonalità chiarae metà di tonalità più scura: servivano, oltre chea nascondere le piastre di ferro che tenevano inpiedi le sculture - albero, anche a costruire dellecomposizioni a scacchiera sul piano dell’erba.Arrivati sul posto, notammo con stupore che l’er-ba del prato era stata da pochi giorni tagliata. Mivenne allora l’idea di spostare quell’erba quasisecca, di montare le opere e coprire con la stessale piastre e tutta la superficie intorno alle scultu-re. Mentre procedevamo all’istallazione, a lavoroquasi ultimato, arrivò il contadino con il suo trat-tore e attrezzato per rivoltare l’erba. Dopo esser-ci scambiati due parole iniziò ad andare avanti eindietro su quel campo e così svolgere il suolavoro. Venne poi da me, avvertendomi che alle

due del pomeriggio sarebbe ritornato a ritirare ilfieno. Arrivarono nel frattempo un paio di caval-li al galoppo montati da due fantini che si ferma-rono a curiosare e ad osservare da vicino cosastavamo facendo. Al termine del nostro lavoro,quando tutto fu montato secondo il mio progetto,contadino e cavalli se ne andarono lasciandocisoli in quel prato profumato e decorato dallesculture. Il sole, quel giorno, era molto forte el’atmosfera così ventilata che dovemmo coprirele sculture con teli di stoffa bianca per evitare cheil legno si deformasse sotto il sole cocente. Alledue del pomeriggio, come promesso, il contadi-no tornò a ritirare il suo fieno ormai pronto. Cor-si allora in laboratorio a riprendere quei pannellicolorati che ora potevano essere adagiati sul pra-to pulito e ben spianato. “Quante cose strane misuccedono!” pensai in quel momento tra me,riflettendo sulla casualità di quanto stava avve-nendo in quel campo anche a causa di quel con-tadino che doveva finire il suo lavoro. Fu unafaticaccia rimuovere ancora tutte le opere einstallare quei pannelli verdi colorati a mo’ discacchiera frammentata (foto 95). Ma al

termine della faticosa operazione fummo premia-ti per l’ottima riuscita a livello compositivo; unsoggetto in più da aggiungere al video che si sta-va sviluppando in quel contesto espositivo. Versole cinque del pomeriggio, quando la luce stavadiventando ideale per un’azione fotografica, arri-varono gli amici fotografi Francesco Mangili eMarco Colombi (foto 96) con le loro attrezzatureper documentare l’evento in tutti i suoi particola-ri in quel meraviglioso ambiente quasi sospeso

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tra la pianura e le vicine colline. Affinché lamostra definitiva che si doveva svolgere in otto-bre potesse creare sorpresa e stupore, mi feci pro-

mettere da tutti gli aiutanti di quel giorno cheavrebbero mantenuto un riserbo assoluto riguar-do a quanto avevano visto o fatto. Tutto si svolsea perfezione e anche, bisogna dirlo, con tanta for-tuna. E questo, sia per il bel tempo sia per l’aiu-to di tanti amici volonterosi ed entusiasti che ave-vano capito l’importanza dell’avvenimento eavevano voluto aiutarmi in quel frangente. Lasera, all’imbrunire, caricammo tutto il materialesul furgone e partimmo alla volta del mio labora-torio per riportarvi le opere. Durante il rientro,pensando alla breve durata di quell’esposizione,mi balenò in mente il titolo che avrei dato a quel-la mia performance: “Alito di tempo”.

Valbrembo, settembre 1996

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ECLISSI DI SOLE NEI CAMPI DELLA CAPRA

Il 12 ottobre, visto che le previsioni davano tem-po buono per alcuni giorni, con l’aiuto dei solitiche già mi avevano aiutato in quel della Capra,decisi di caricare il materiale occorrente per lamostra sull’autocarro messo a disposizione dal-l’amico falegname Maurizio Bonetti.Con la giornata piena di sole e la voglia di darvita alla manifestazione artistica in quei campidella Capra, iniziammo il lavoro che avevo datempo programmato nei minimi dettagli. Ormai,sull’area prescelta, il granoturco era stato tuttotagliato. Potevamo scegliere, plastico alla mano,lo spazio ideale per installare le opere.Segnammo un quadrato di 444 metri quadrati di

superficie, ripulimmo e arammo quel fazzolet-to di terreno e lo pressammo con un rullo me-tallico trainato da noi stessi, come un tempofacevano i buoi (foto 97). Lì doveva essere

impiantata la mostra. Vi trasferimmo il materialeda esporre, lo scaricammo e, grazie al plasticoche avevo meticolosamente preparato, indivi-duammo facilmente il punto esatto di collocazio-ne di ogni opera.Intanto l’amico Enrico Leoni riprendeva i parti-

colari con una telecamera professionale. Mi pia-ce ricordare che il carissimo Enrico mi ha segui-to, sin dai tempi a cui risale il mio interesse ver-so la cinepresa come strumento di documenta-zione del mio lavoro, durante le faticose riprese enelle fasi di montaggio dei numerosi documenta-ri che ho realizzato da trent’anni a questa parte.Abbiamo lavorato tutta la mattina e, nel pome-riggio, dopo una breve pausa per il pranzo, abbia-mo ripreso a lavorare intensamente. Mentre sta-vamo appoggiando le sculture sulle loro basi, l’a-mico Leoni mi avvisò che nel giro di poco temposi sarebbe verificata un’eclissi solare.Rimasi sorpreso dell’inaspettato evento. Masubito mi venne l’idea di riprendere quel feno-meno con la telecamera per utilizzarlo comeintroduzione al video sulla mostra. Il titolo pote-va essere: “Eclissi di sole nei campi delle Capra”.Detto e fatto! L’eclissi la si aspettava da circaquarant’anni e proprio in quel momento dovevapresentarsi! (foto 98)

Mentre procedeva il lavoro di installazione delleopere, sulla stradina sterrata che attraversa ilcampo passavano visitatori casuali. Arrivaronoanche mia moglie Tiziana, mio figlio Lucio consua moglie Bori e il nipotino Matteo e mia figliaEmi con il marito Maurizio. Verso le sei di sera illavoro era terminato. Ricoprii le sculture concappucci di polietilene preparati per ripararledall’umidità della notte (foto 99).

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La visione di quelle sculture coperte era fantasti-ca e surreale e soprattutto, se illuminate dai faridelle poche automobili presenti sul perimetrodell’esposizione, esse si manifestavano in tutto illoro mistero. Persino il campanile della chiesa,adorno di lampadine per la festa della Madonna,sembrava essere stato messo lì apposta per que-sto evento straordinario.Scesa la sera, tornammo a casa dopo avere stabi-lito con mio genero e mio figlio dei turni di sor-veglianza per la notte. Temevo la bravata di qual-che vandalo.Fu una notte quasi insonne. Il mattino presto era-vamo lì a togliere le coperture che si erano rivela-te molto utili vista l’umidità che trovammo sui telidi plastica la mattina successiva. Alle otto arrivòanche Leoni per completare la ripresa della perfor-mance dal tetto di un furgone. Alle 10, ora stabili-ta per l’apertura ufficiale, tutto era pronto. Arriva-rono molti amici, l’amico gallerista Luigi Bom-bardieri, il gallerista Alberto Fumagalli, il collegae amico Augusto Sciacca pittore e critico d’arte, loscultore Gianni Grimaldi, lo scultore Luzzana etanti altri, sollecitati da un invito che avevo fattoavere per posta o per telefono (foto 100). La voce si era sparsa velocemente nei dintorni egiunsero molti estimatori e curiosi. Fu pratica-mente come una continua processione che ebbeluogo malgrado la mostra non fosse stata pubbli-cizzata più di tanto. Nella mattinata mio generoMaurizio, comandante pilota in servizio pressol’Alitalia, noleggiò un piccolo aereo presso ilvicino aeroporto di Valbrembo per far eseguirealcune riprese dall’alto all’amico Leoni.

Nel pomeriggio accadde un fatto particolare:passavano sul sentiero nei pressi del campo cin-que persone a cavallo che si fermarono a guarda-re la mostra. Al momento di ripartire, alcune per-sone accorsero verso di loro e io, impegnato coni visitatori, non mi resi conto dell’accaduto: uncavallo si era accasciato per terra. Dissero che sitrattava di un infarto: morì sul colpo e dopo pocotempo venne portato via con un camioncino.Commentammo il fatto con rincrescimento.Intanto i presenti interessati all’eccezionale espo-sizione all’aperto mi sommersero di domandesulle opere esposte. Erano presenti anche tantibambini con i genitori che, incuriositi, facevanole più strane domande. L’amico ClementeViganò, un vicino di casa che ci aiutò nell’alle-stimento, a mia insaputa fece delle interviste conun registratore a qualche visitatore. Mi feceascoltare la registrazione pochi giorni dopo e,con mio grande piacere, me la regalò. Quellamostra ci tenne impegnati per due giorni. La tem-peratura fu assai mite e il cielo sereno, senza ven-to; un’atmosfera ideale per le mie sculture (foto101). Dopo due giorni cominciarono le pioggeche continuarono per un lungo periodo. Tutto finìdunque felicemente e, di sera, verso le ore 20, conl’aiuto dei soliti volonterosi, iniziammo a smonta-re i pezzi, li caricammo sul camion già pronto peril ritiro, li scaricammo nel laboratorio, e tutti feli-ci e soddisfatti tornammo ognuno alle nostre case.L’evento ebbe risonanza in tutta la provincia, pub-blicizzato da tutte quelle persone che ebbero l’op-portunità di visitare la mostra. Grazie al video chedocumenta la performance in tutto il suo svolgi-

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mento, continuerà il ricordo di quei momenti cosìintensi vissuti nei campi della Capra.Nel pomeriggio di quella domenica, gli amicifotografi Francesco Mangili e Marco Colombiprodussero una utile documentazione che custo-disco gelosamente in archivio per una eventualepubblicazione. Quelle fotografie, insieme alvideo, saranno un documento storico per le gene-razioni future e servirà a far conoscere l’evolu-zione del nostro territorio. Per me, invece, sonouna specie di addio all’ambiente in cui ho vissutoparte della mia infanzia in mezzo ai filari di vite,agli alberi di pesco e alle siepi di more saporite.

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Nei campi della Capra, 1996, installazione

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IL MUSEO DEL FALEGNAME

All’inaugurazione della nuova sede del Museodel Falegname “Tino Sana” di Almenno S. Bar-tolomeo avvenuta il 20 giugno 1987, lo stessoTino Sana mi aveva suggerito l’idea di allestireuna mia mostra personale di scultura in quel-l’ambiente meraviglioso, dove sono custoditeantiche e preziose attrezzature e utensili di fale-gnameria raccolti con pazienza e amorosa curadal fondatore dell’istituzione museale.Accettai di buon grado quella proposta ed anzi nefui veramente entusiasta; rimandammo per unpaio di volte la messa in opera fino a quando,finalmente, fissammo la data d’inaugurazionedell’attesa esposizione dell’istituzione museale.Fu affidata all’architetto Cesare Rota Nodari,amico di vecchia data, l’impaginazione di unmodesto ma ben riuscito catalogo delle operenonché l’impostazione grafica degli inviti. Mionipote Eugenio Benaglia, titolare della dittaBenny Design, si offrì come sponsor e realizzòl’allestimento delle opere assorbendo così unadelle voci più significative del budget di spesa.Un altro provvidenziale aiuto lo ricevemmo dal-la Banca Popolare di Bergamo-Credito Varesinoche, grazie a un decisivo contributo finanziario,rese possibile la copertura delle spese di stampadel catalogo. Notevole fu poi la generosità dellostesso Tino Sana il quale, grazie alla sua indu-stria, diede il massimo appoggio finanziario elogistico all’iniziativa.L’inaugurazione dell’esposizione, intitolata“Legni&Legni” fu fissata definitivamente per il19 marzo 2002; sempre nell’ambito della mostra,il 19 aprile successivo mio figlio organizzò unconcerto di musica classica per quartetto d’archiche intitolammo “Corde&Legni”. Davanti a unfolto pubblico, Ettore Begnis, Agata Borgato,Marco Lorenzi e Fulvio Bombardieri eseguironomusiche composte da mio figlio, da PieralbertoCattaneo, da Quirino Gasparini e Franz Schubert.Per quell’occasione preparammo una scenografiabasata su un’illuminazione centrale degli alberimessi lì provvisoriamente per quella serata inmezzo ai musicisti, creando un’atmosfera sugge-

stiva e di grande concentrazione, mentre il pub-blico nella penombra ascoltava nel silenzio piùassoluto; fu una serata indimenticabile (foto 102).

All’inaugurazione della mostra, alla quale parte-cipò un numerosissimo pubblico, dopo il saluto daparte delle autorità locali, fu l’amico poeta Ema-nuele Pasquale a introdurci all’esposizione, conun breve quanto prezioso intervento. Dopo di luifu lo stesso Tino Sana a pronunciare due gentiliparole di augurio. Infine, toccò a me pronunciareil via ufficiale all’apertura con un breve discorsodi ringraziamento seguito da una piccola sorpresamusicale: il violista Marco Lorenzi eseguì sullasua viola una bella composizione di Edgàr Varèse. Furono esposte 29 sculture, 14 alberi e quattroquadri di grandi dimensioni contenenti tutti ele-menti di legno, vero leitmotiv della mostra. Ogniscultura era appoggiata o infissa su una base cir-colare di colore giallo intenso, identico ai cerchidi dieci centimetri di diametro poco distanti l’u-no dall’altro, che come un misterioso sentierosegnavano il percorso del museo. All’ingresso principale, appena entrati, ci si tro-vava di fronte al “grande” buco di una scultura:la sezione di un tronco di platano con al centrouna voragine di quarantacinque centimetri di dia-metro. Guardando attraverso di essa s’intravede-va sullo sfondo un grande quadro (foto 103), conal centro un legno circolare lavorato dalle formi-che per ben venti anni. La sua collocazione, postanella parte centrale del museo illuminata da ungrande lucernario, faceva parte di un gruppo ditavole girevoli in legno di pero, (foto 104) da

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una parte scolpite e dall’altra usate come suppor-to per materiali diversi: ciottoli e sabbia del fiu-me Brembo, pezzi di mosaico, lastre d'incisioneassemblate e, alla fine, pittura ad olio. Dall’altodel lucernario, a circa sette metri d’altezza, pen-devano quattro corde di iuta portanti due cupolein plexiglas (foto 105) contenenti radici assem-blate su un lato e due sculture “volanti” in legnochiaro dall’altro. Al centro, sul pavimento, unlegno circolare tutto lavorato dalle formiche, su

una base grigia scura custodito sotto un cappuc-cio trasparente come fosse una bussola “del tem-po” con al centro un centesimo di euro per indi-care la data della sua realizzazione. Altre scultu-re si potevano vedere lungo il percorso del museoche s’inoltrava negli spazi delle vecchie macchi-ne di legno e delle antiche botteghe artigiane(foto 106). Una scala centrale a forma circolaresaliva poi al piano superiore dove è collocato ilreparto dei burattini, delle biciclette d'ogni epocae le bici da corsa usate per i Giri di Francia e d’I-talia dai grandi campioni tra cui quelle del nostroGimondi con le relative maglie; si accedeva poialla biblioteca, un ambiente molto luminososvuotato da tutti gli arredi per fare posto alle solemie opere. Quattro sculture allineate al centrodella sala e altre tre di piccole dimensioni, avvi-cinate ad altrettante finestre a corridoio, dove laluce che entrava dava loro un effetto singolare(foto 107). Alle pareti avevamo posto due bache-che di circa tredici metri di lunghezza appoggia-te su dei cavalletti, contenenti una sintetica docu-mentazione fotografica dell’evoluzione della miaproduzione artistica dagli inizi ai giorni presenti.

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Nel reparto dei burattini installammo un televi-sore sul quale andavano in onda sette storie, dedi-cate a mie installazioni e filmate dall’amicoEnrico Leoni, che da anni mi segue con la suatelecamera.Si tornava al piano terra e poi giù per una scalacircolare fino al seminterrato, dove erano espostidue quadri: uno nero dal titolo “Visione di buioassoluto” (foto 108) e l’altro rosso dal titolo

“buco nero”, una scultura creata con una cortec-cia di larice alta 180 centimetri, con una cordasonora sul fondo, un albero di gelso interamentesvuotato e aperto a libro e con l’interno ricoper-to da uno strato finissimo di segatura dello stes-so legno, avente al centro una corda sonora piùsottile della prima e dal suono più acuto (foto109). Vi era poi una scultura consistente in unpezzo d’albero di frassino lavorato da insetti tes-sitori e da un mio sostanziale intervento, posto suuna base in cemento.

In quell’ambiente interrato illuminato da ampiefinestre, sono custoditi vecchi attrezzi, interebotteghe artigiane, carri e carrozze d’epoca ebiciclette attrezzate di vecchi ambulanti daidiversi mestieri: dal lattaio allo zolfataro, dal bar-biere al fotografo, dallo stagnino all’arrotino.Uscendo da quel salone, il percorso portava all’e-sterno a una segheria funzionante ad acqua, comenei vecchi mulini, con tanto di trasmissioni a cin-ghia per azionare altre macchine collegate. Fuoridella porta il cammino guidava a destra verso unospazio al coperto, dove era installato il bosco nel-la stanza. Le dimensioni del bosco, rispetto almio progetto iniziale, dovettero essere ridotte permotivi di sicurezza e di spazio, ma l’effetto otte-nuto fu sufficiente per meravigliare i visitatori.Dodici alberi d’abete, dai nodi molto sporgenti,scheletrici, dall’anatomia evidenziata dal lavorodi sabbiatura e moltiplicati all’infinito per l’ef-fetto di specchi contrapposti, creavano la visionedi un bosco surreale, immaginabile dopo un'e-splosione atomica (foto 110). Uno dei brani com-posti da mio figlio, in occasione del concerto diaprile, era intitolato “Il bosco nella stanza” ed eraappunto ispirato a questa mia installazione.Questi alberi li avevo avuti in dono proprio dal-l’amico architetto Rota Nodari anni fa; erano col-mi di tetto, terziere e travature, materiale didemolizione scartato durante la ristrutturazione

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di Cà Barile, una cascina molto vicina alla suaabitazione. Avevo portato a casa quel materiale elo avevo depositato in giardino dopo averlocoperto con un telo di polietilene; sotto quell’in-volucro trasparente, l’erba aveva continuato acrescere creando con l’umidità costante condi-zioni tali che nel giro di tre o quattro anni il legnoera marcito per alcuni centimetri sulla sua cir-conferenza. A quel punto avevo tolto il telo ini-ziando il lavoro di pulitura eliminando la partemarcia. I nodi che sporgevano erano rimastiintatti. Dopo averli lasciati asciugare il temponecessario li avevo fatti sabbiare e lasciati allostato naturale come sono ancor adesso. Nacque-ro così i miei alberi, che uso per mostre e perdiverse composizioni grafiche virtuali.

All’esterno del museo installammo quattro albe-ri: (foto 111) tre di questi fanno parte della fami-glia del bosco in una stanza mentre un quar-to, alto più di cinque metri, è stato tagliato apochi passi dalla finestra del mio studio; quel-l’albero l’ho visto crescere anno per anno, sem-pre più rigoglioso, dal mantello di un verde inten-so, e poi morire lentamente per un male scono-sciuto. Ho visto i suoi aghi rinsecchire, la suacorteccia staccarsi fino a scoprire il legno nudocolor cera. Chiesi al proprietario del terreno seme lo poteva prestare per la mostra; con il miointervento eseguii lo svuotamento dei suoi nodicome feci con altre opere e ora fa parte dellafamiglia del mio bosco.Ora, a mostra terminata, considero questo eventotra quelli più significativi di tutta la mia carrieraartistica e della mia ormai non breve biografia. Equesto non tanto per il notevole successo di pub-blico e di critica ottenuti - che naturalmente mihanno fatto immenso piacere - quanto la sua sim-bologia. Mi riferisco ai diversi significati rac-chiusi in questa esperienza e legati, per la piùparte, ai miei ricordi d’infanzia: un vecchio set-tantenne che ridiventa ragazzo di bottega, un sal-to nel tempo che gli permette di guardare indie-tro, in modo un poco compiaciuto, ai tanti tra-guardi raggiunti.Io, Tino Sana e Cesare Rota Nodari, praticamentei tre artefici dell’esposizione, eravamo amici d’in-fanzia da quando andavo in vacanza, ad Almeno,dal nonno paterno. Abitavamo nello stesso paeseed eravamo vicini di casa. È stato meravigliosoritrovarci insieme, dopo tanti anni, dopo averintrapreso ciascuno strade tanto diverse, per pre-sentare al pubblico questa proposta culturale.

Luglio 2002

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A confronto, mostra nel Museo del falegname, 2002, Almenno S. Bartolomeo, Bg

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GLI ALBERI DELLA PASQUA

Don Sergio Colombo, parroco di Redona in Ber-gamo, che da anni seguiva la mia attività artisti-ca, appena saputo della mostra nei campi dellaCapra, invitò anche alcuni dei suoi parrocchia-ni a visitarla: vennero numerosi e ciò mi grati-ficò. Nacque da quell’incontro l’idea di usarequelle stesse sculture per esporle nella chiesavecchia di Redona in occasione delle festivitàpasquali dell’anno successivo. Io, dal canto mio,accettai immediatamente quella generosa offertae andai sul posto per studiare il tipo d’allesti-mento adatto per l’occasione: scelsi di impianta-re quegli alberi al buio e di illuminarli singolar-mente o in gruppo con dei fari che emettesseroun fascio di luce dall’alto. Pensai di tendere deicavi d’acciaio e, dall’alto, di fissare i faretti cheavevo già a disposizione poiché usati per altriallestimenti. Quel mio allestimento fu partico-larmente indovinato e la sera dell’inaugurazio-ne ci furono molti visitatori. Don Sergio preparòun pieghevole con un testo che introduceva ilvisitatore alla mostra. Il testo era posto su un leg-gio al centro dell’ingresso, di fronte a una scul-tura ricavata da un ceppo d’albero che presenta-va un grande foro di circa cinquanta centimetriattraverso il quale si poteva vedere la sculturaposta sull’altare della chiesa che simboleggiavala croce (foto 112). Ecco il testo dell’introduzione:Il giardino dell’EdenAbbiamo costruito due giardini. Uno è quello delParadiso: quando sulla superficie della terra nonc’era ancora nulla “il Signore Dio piantò un giar-dino in Eden ad oriente, e vi collocò l’uomo cheaveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliaredal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista ebuoni da mangiare, tra cui l’albero della vita inmezzo al giardino e l’albero della conoscenza delbene e del male” (Gen 2,8-9).In questa selva fantastica delle nostre origini nonci sono alcuni simboli fondatori della nostra esi-stenza?L’orto del Getzemani“C’è tra noi un altro giardino misterioso: sta a

Gerusalemme. Se lo visiti, esso tace: sembra ungiardino come tanti altri. Ma esso custodisce unsegreto singolare: Dio vi passò da uomo l’ultimanotte della sua vita. Notte d’angoscia e di fede,nella quale provò tutto quello che c’era da prova-re vicino all’uomo. E nella quale l’uomo trovòper sempre la compagnia di Dio. Nel giardinodell’agonia dovremo passare tutti l’ultima notte einvocare l’angelo della consolazione.”La gente entrò incuriosita e meravigliata di quel-le strane forme verticali dai toni surreali solcateda larve e insetti, e sottovoce si chiedeva e michiedevano cosa potevano essere precisamente.Quell’aura di mistero durò per una trentina diminuti. Poi qualcuno richiamò l’attenzione di tut-ti e, nella penombra, le persone presero posto, chisedute sul pavimento, chi su sedie e pancheaddossate ai muri. Don Sergio iniziò a parlare diquei due giardini mentre tutti ascoltavano silen-ziosi. Parlò di quel campo della Capra e dell’a-mico Cesare il quale prestò quegli alberi perquella circostanza. Parlò dell’Eden. Durante un intermezzo musica-le due flauti crearono un’atmosfera di contem-plazione. Don Sergio riprese poi la parola par-

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lando dell’orto del Getzemani. Quattro persone aturno lessero brevi passi del Vangelo e, nel silen-zio, i flauti ritornarono ad accompagnare la finedi quella mistica cerimonia. Don Sergio ringraziòtutti e il sottoscritto come per dare termine aquella sentita meditazione e i presenti seduti sialzarono dando vita con le loro voci a un nuovoconcerto di parole. Si chiedevano con curiosità

da dove venivano quelle strane forme d’albero(foto 113). In quel momento fui assalito da molte domandecui dovevo rispondere: perché quel legno fossecosì nero, perché l’idea di quelle due tavole mes-se a forma di croce, quali erano gli attrezzi usatiper rendere certe superfici del legno così marto-riate, quali insetti avrebbero potuto rendere glialberi così ricchi di fascino, e tante altre doman-de. Era presente, con la sua inseparabile cinepre-sa, Enrico Leoni che documentò con un bel videotutti i particolari di quella serata entusiasmantedando la possibilità, a chi non ha potuto esserepresente, di rivivere quei bei momenti. Ora, men-tre scrivo, sono ancor più convinto dell’utilitàdelle mie fatiche per la realizzazione di unamostra del genere e, nello stesso tempo, com-prendo il privilegio che la vita mi ha regalato nelpoter vivere queste mie grandi emozioni grazieall’attività artistica.

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Gli alberi della Pasqua, installazione, 1997, nella vecchia chiesa di Redona in Bergamo

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«PRESEPI» IN PARROCCHIA

Era la settimana precedente il Natale del 1985quando don Giacomo Panfilo, da poco parrocodella nostra parrocchia, ebbe l’idea di realizzareun semplice presepe da collocare sopra i gradinidel presbiterio, davanti alla mensa. Pensò di sce-gliere come tema quello del germoglio di Iesse,tratto da una delle letture previste dalla liturgianatalizia. Su invito dei figli facemmo una pas-seggiata nel bosco dietro il Santuario dellaMadonna della Castagna, in cerca di materialeadatto per quel lavoro. Salimmo il sentiero dietroil santuario e su su, fino al traliccio dell’alta ten-sione posto in cima a una collinetta. Da lì scen-demmo in una valletta dove scorgemmo deglialberi di robinia stesi a terra, in stato di decom-posizione. Tagliammo dal fusto la parte vicinaalle radici, la portammo a casa a spalla e, conessa, facemmo un assemblaggio adatto al sogget-to. Collocammo il tutto sul pavimento davantialla mensa e, da quell’intreccio di radici, facem-mo uscire una piantina appena germogliata, por-tata fresca fresca dal bosco (foto 114). E così fu

fatto. Un lavoro semplice, significativo ed effica-ce poiché piacque a tutta la comunità del paese erichiese poco tempo e impegno per l’installazio-ne. Dopo quella esperienza il parroco mi chiesese avessi potuto ripetere l’operazione negli annisuccessivi. Io non dissi di no, ma pensai che tut-

ti gli anni, dovendo cambiare tema per proporrequalcosa di sempre nuovo, sarebbe stato troppoimpegnativo. Perciò proposi l’idea di impegnar-mi per tale iniziativa ogni due anni.Nel 1987 pensai di esprimere il tema della nati-vità attraverso fasci di luce che illuminavano lestatue della Madonna, di San Giuseppe e la cullacon Gesù Bambino, proiettando le loro ombre suun telo bianco e ponendo al centro, sopra la cul-la, un punto luminoso ottenuto mediante un faret-to posto dietro il telo stesso. Anche quello fu unrisultato semplice ma di grande effetto che i par-rocchiani accolsero entusiasti (foto 115).

Ormai, sapendo che ogni due anni sarebbe arri-vato quell’appuntamento, pensai subito al prossi-mo lavoro. “Fra due anni”, pensai “lo costruiròcon le radici, soggetto che proprio in questoperiodo sto trattando nella pittura”. E fu propriocosì. Arrivò il 1989 e, prima di Natale, iniziai aschizzare il progetto di massima: dovevo mante-nere la promessa fatta a don Giacomo e cosìandai alla ricerca del materiale per la realizza-zione. Dietro la collina di Sombreno scorre iltorrente Quisa: non mancavano, nell’alveo inca-vato nella terra, le radici necessarie e ideali nel-le forme per fare qualcosa di originale. Il torren-te, durante le piene, strappava la terra da quelleradici lasciandole nude nella loro anatomia. Leloro forme, come serpenti che fuoriuscivano dal-la sponda dell’alveo - alcune volte alto più di duemetri - mi comunicavano un senso di forte attac-camento alla terra, come l’amore per il mio pae-se, anche se semplice e piccolo. “Se prendessiquelle radici e le adattassi all’architettura dei

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gradini del presbiterio” dissi tra me, “credo chepotrebbero dare un buon effetto oltre che a esse-re cariche di significato!”. Fu così che realizzaiquel soggetto. Di fronte alla mensa misi un pan-nello illuminato dai toni rossi con una luce alcentro come un sole che espandeva raggi forma-ti da schegge di corteccia di larice. La culla conGesù Bambino era appoggiata a terra e le radici,partendo dalla culla, scendevano dai gradini delpresbiterio (foto 116). Una scenografia naturali-

stica che sorprese ancora una volta i parrocchia-ni che non mancarono di complimentarsi con ilsottoscritto.Nel 1991 pensai di proporre un soggetto moder-no ed essenziale, impostato su una geometria atriangoli ripiegati come in un tunnel nel propriointerno. Sospesa sopra Gesù Bambino collocaiuna sfera bianca tagliata a mo’ di spaccatura, dacui usciva un fresco germoglio per indicare unanascita. Una ambientazione più astratta rispetto aquelle degli altri anni, ma molto efficace nellacomposizione e sobria nelle linee. Lo spaziodove si doveva allestire quel presepe era sempreil solito, due metri di larghezza, uno di altezza euno di profondità. Perciò giocai con la prospetti-va per dare un senso di grandiosità alla composi-zione (foto 117).

Nel 1993 arrivò il nuovo parroco don LuigiMoro. Ma la tradizione di quel presepe poté con-tinuare e, proprio quell’anno, volli fare le cose unpo’ più in grande. Avevo appena pulito deglialberi tutti tarlati e, così, pensai di usarli per quelpresepe. Nel periodo d’Avvento ogni domenicane innalzavo uno durante la Messa e, al terminedelle quattro settimane, innalzammo sopra di essiun baldacchino fatto di tela juta ad una altezza dicirca tre metri. Sotto di esso era posta la mensache aveva di fronte la culla costruita con legnivecchi e tarlati e con Gesù Bambino adagiato su116

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uno strato di paglia (foto 118). La cerimonia del-la Natività fu officiata al lume di candela e ven-ne letta una poesia di Manzoni da un giovane euna ragazza della parrocchia. Dopo aver postoGesù Bambino nella culla, si accesero le luci,mentre il coro si esibì in un trionfo di vociaccompagnate dal suono a tutto volume dell’or-gano. La cerimonia fu un successo e tutti furonocontenti. Ma io lo fui più di tutti perché dopo tan-to lavoro ero ormai convinto dell’importanza diquel mio impegno, nato quasi per caso. Non ave-vo fallito. Mio nipote Gino Cavalleri realizzò unvideo che ancora oggi è la testimonianza vividadi quell’avvenimento.Nel 1995 arrivò un altro parroco, don Vanni Foia-delli. Ormai lo spazio, che in altezza superava lamensa, era stato violato dalla messa in opera diquegli alberi due anni prima e così pensai di ripe-tere l’impresa, ma in un modo più semplice. Inquel periodo avevo acquistato della tela bianca dicotone per il mio lavoro: perché non usare quelmateriale anche per realizzare il presepe? Collo-cai dei tiranti nei muri della chiesa all’altezza dicirca tre metri dal pavimento e fissai un cavod’acciaio che attraversava lo spazio sopra la men-sa. Feci adattare delle piastre di ferro con dei ton-dini ad un fabbro della parrocchia per zavorrarela stoffa al pavimento e l’impianto fu fatto.Anche in questa occasione fu realizzata una do-cumentazione fotografica e video (foto 119).

Nel 1997 proposi il presepe nel solito spazio al-la vecchia maniera, nella misura di due metriper uno. Usai delle tavole vecchie e tarlate edella corteccia di larice e costruii una piccolacapanna rettangolare con all’interno il Bambi-no Gesù. La Madonna e San Giuseppe li rimisidopo quattro anni di assenza, ma all’interno del-la capanna e nascosti in modo da poterli vederesoltanto riflessi in uno specchio. L’effetto fu otti-mo anche se la “monumentalità” dei presepi pre-cedenti aveva suscitato più stupore e interesse.Gli ultimi due presepi avevano meravigliato dipiù (foto 120).

L’ultimo presepe, quello del 1999, costruito concorde di cotone, l’avevo progettato mentalmentetanto tempo prima. Un’installazione più concet-tuale rispetto alle altre, ma ben riuscita e chelasciò impressionati diversi visitatori. Partii daipiedi del Cristo in croce posto sull’altare mag-giore con sette corde più altre sette unite che,allargandosi a mo’ di punto di fuga, raggiungeva-no la mensa all’altezza di circa tre metri dal suo-lo, sorrette da liste di legno con fori distanziati efissate al solito cavo d’acciaio. Attraverso queisette fori distanziati scesi al pavimento, aggan-ciando le stesse corde a una piastra di ferro per119

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tenerle in tensione, e poi risalii al centro dall’in-terno, formando come una capanna a pirami-de. Sotto, adagiammo Gesù Bambino su unostrato di paglia. Senza saperlo, in occasione diquel lavoro, avevo usato sette corde più sette; unnumero molto significativo nel messaggio evan-gelico. Mi fu chiesto perché avessi usato pro-prio sette corde più sette, nella convinzione chesi fosse trattato di una scelta consapevole di quelsimbolismo. Ma quel numero di corde lo usaisolo per ragioni tecniche ed estetiche. L’origi-nalità e l’incoscienza di quella scelta in relazio-ne al numero sette la compresi solo a lavorofinito e per caso, grazie all’osservazione dei visi-tatori (foto 121).La maggior parte delle installazioni eseguite inpassato sono state depositate in un angolo del-la Casa parrocchiale. Chissà se verranno ancorautilizzate quando io non potrò più mantenerefede a quella promessa fatta quindici anni fa adon Giacomo?Ormai la mia vita volge al termine, ma spero dicontinuare ancora per qualche anno a ricordare,con le mie idee, la Natività di quel Dio che mi hadato la vita.121

DUE MOSTRE PERSONALI

Sono trascorsi due mesi dalla conclusione delledue mostre personali aperte da settembre fino afine novembre 1998. La prima, di scultura, dal 26settembre al 7 novembre, alla Galleria d’ArteBergamo presentata dal critico d’arte DomenicoMontalto; la seconda, di pittura, dal 7 al 22novembre alla galleria “La Roggia” di Palazzolosull’Oglio in provincia di Brescia.La mostra di Bergamo è stata visitata da più dimille persone e con la presenza di tanti colleghiartisti, dell’assessore alla Cultura di Bergamo dott.Vertova, di giornalisti, di critici e di tanti amici. Lastampa è stata molto generosa nei miei confronti;penso che tutto si sia concluso con un bilanciopositivo, anche se le vendite sono state nulle.Durante la mostra è stato presentato il video gira-to nei campi della Capra, che è stato molto segui-to. Con queste due mostre si è concluso il ciclo diprogrammi che avevo iniziato più di dieci anni fa.Anche le lettere in ordine alfabetico che ho usa-to per catalogare i miei quadri hanno raggiunto,dopo 23 anni, la lettera Z. Da quest’anno segnerònell’apposita timbratura il numero dell’anno incorso. Anche la firma sulle mie opere subirà uncambiamento e questo documento è un atto perstoricizzare questa mia volontà. La scelta non ècasuale, né presa senza motivo.Infatti, d’ora in poi inizierà un altro periodo. Cer-cherò di indirizzare la mia attenzione verso lerelazioni pubbliche e manterrò rapporti più stret-ti con i galleristi Luigi Bombardieri e suo nipoteCorrado Rota, che hanno voluto la mia recentemostra e che hanno molta fiducia in me. La miascelta di dare un carattere soprattutto culturalealla mia attività artistica rende molto difficile il

rapporto con i galleristi, perché il loro intento èpuntato sulla vendita delle opere, che è il contra-rio delle mie aspirazioni. Per fare buone mostreci vogliono buone opere e le migliori vorreitenerle per questo scopo, ma purtroppo chi desi-dera acquistarle sceglie sempre quelle ..... che ionon voglio vendere!Il diventare ricco per un artista può essere dan-noso, specialmente per chi non è stato abituato adavere tanto denaro. Credo che il guadagno facilevada a discapito della creatività. Del successo hoavuto sempre una gran paura, quella di essereprivato della mia serenità interiore che è alla basedei risultati: ho sempre pensato che le opere sia-no impastate con il nostro ego perciò sono desti-nate ad essere giudicate non solo per la loro este-riorità estetica, ma anche per il fascino espressi-vo misterioso, che naturalmente è recepito dallasensibilità di persone capaci e dall’intellettodotato per capire. Chissà se con quelle duemostre sono riuscito a far capire ai visitatori lemie ansie, il mio bisogno di scoprire, di parlare,di proporre con poco tanti messaggi: non soloquelli della natura in genere, ma anche quelli del-la mia più complicata realtà esistenziale.Quei legni scolpiti dagli insetti, quelle cordesonore che vogliono scandire il suono dei tempi,quei colori blu, rossi e verdi, vorrei che creasse-ro nei sentimenti di chi guarda, le diversità diemozioni che io sento nel concepirli.D’ora in avanti tenterò di analizzare più a fondoil mio percorso artistico, di prestare più attenzio-ne alle scelte che dovrò adottare e al fatto che ilmio operato debba rispecchiare il momento stori-co e sociale in cui vivo, usando onestamente tut-ti quegli strumenti che servono per costruire ilfuturo, ormai limitato dalla mia età.

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SUL TRENO PER MONACO

Sono in viaggio, in treno, per Monaco di Bavieradove sono invitato per presenziare al battesimo dimio nipote Marco, nato lo scorso marzo. Ho tut-to il tempo per pensare o scrivere. Mi sto chie-dendo se quest’anno 1999 sia stato fortunato.Posso dire che fino ieri, economicamente parlan-do, sia stato un disastro. Da gennaio ho vendutosoltanto un piccolo quadro; peggio di così nonpoteva andare.Ho dipinto anche una grande opera per una dittache, credevo, avrebbe sponsorizzato il catalogodella mia mostra personale dello scorso settem-bre alla Galleria d’Arte Bergamo ma, per unmalinteso, la spesa dei cataloghi è stata conside-rata come compenso per il quadro fatto.La città di Sondrio nel prossimo ottobre mi dedi-cherà una mostra personale in occasione del Festi-val internazionale dei Parchi nazionali del mondo.Qualche giorno fa, mi sono recato in quella cittàcon il mio gallerista Bombardieri per accordarcisul programma e il progetto della mostra, cheavrebbe dovuto essere allestita nelle sale dellaBiblioteca della città. Per interessamento delsignor Fernando Gianesini, responsabile del Cen-tro Culturale di Palazzo Sertoli, di proprietà del-la Fondazione Credito Valtellinese, che ha voluto

questa mostra, sono stati messi a disposizione gliambienti espositivi della Fondazione stessa. Inquel periodo, infatti, la Biblioteca non aveva spa-zi liberi.Credo che questa sede, dove ora è allestita unapersonale dello scultore Cascella, nome noto alivello internazionale, sia molto prestigiosa. Saràper me un’occasione per farmi conoscere: certodovrò usare tutte le mie energie per fare un alle-stimento singolare esponendo le opere più validee significative.Se la fortuna vorrà, avrò la possibilità di inserir-mi in un contesto significativo per quanto riguar-da il mercato artistico, e la mia attività potràessere più considerata e valorizzata anche negliambienti della mia provincia.Questa Fondazione ha un centro culturale di uncerto prestigio anche a Milano, chiamato “LeStelline”; chissà che quest’occasione possa faci-litarmi l’ingresso in quella città con un’altra miamostra! È un’avventura che sto vivendo conansia perché sono curioso di vedere dove mi por-terà, e se potrò avere più mezzi per realizzare ilavori già progettati ma per ora irrealizzabili sot-to l’aspetto economico.A fine anno potrò capire se sarà o non sarà pos-sibile che questo si realizzi; intanto lavorerò,lavorerò, lavorerò…

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INIZIO DEL PERIODO “TERRA”

Tutto nacque per caso, dopo aver trovato dei pez-zi di tronchi utilizzati come sedili in un angolodel giardino del geometra Ottorino Morlotti, checirca cinquant’anni fa era il mio maestro di dise-gno. Alla mostra personale che feci alla Galleriad’Arte Bergamo, egli venne a visitare l’esposi-zione; aveva portato con sé la fotografia di unalbero di albicocco dalle forme originali. Dopoessersi complimentato per le mie opere, mi sotto-pose la suddetta fotografia. “Vorrei che tu venis-si ad ammirare quest’opera della natura. Se ti puòservire, te la regalo”, mi disse.Pochi giorni dopo andai a fargli visita e subito miportò nel suo orto, dove era ancora in piedi lafamosa pianta. Dopo averla esaminata gli dissi, amalincuore, che non la trovavo ideale per il miotipo di lavoro. Lasciammo l’orto per dirigerci incasa sua: una bella villa al centro di un giardinoalberato. Lungo il percorso, appena fuori dall’or-to, notai in un angolo dello stesso giardino quat-tro pezzi di tronco debitamente sistemati e da uti-lizzare come sedili. Di botto esclamai:”Eccoquello che fa per me”!. L’amico mi guardò stupi-to e mi chiese quale fosse stata la mia scelta tra imateriali presenti in quel fazzoletto di prato.Sapeva bene che qualsiasi radice che vedevo ingiro io la esaminavo attentamente, ma non avreb-be mai immaginato che quei pezzi di alberoavrebbero attratto la mia attenzione. Io lo invitaia seguirmi e, arrivato accanto a uno di quei cilin-dri messi in verticale, con il piede lo feci cadere.Quei legni erano stati posti in tale posizione daalmeno una ventina d’anni, e naturalmente laparte a contatto del terreno la immaginavo giàtutta bucherellata dagli insetti e dalle formiche,complice l’umidità sempre costante dalla terra.La sorpresa fu più grande di quanto pensassi, mal’amico ancora non capiva quella bellezza nasco-sta, perché la terra umida copriva le innumerevo-li gallerie che gli insetti avevano operato nellegno (foto 124).Dopo aver pulito delicatamente quella superficiecircolare, mettendo a nudo la parte legnosa, ven-nero alla luce tutti gli anelli annuali del tronco,

svuotati delle parti più tenere e dolci. Creavanoinfiniti cunicoli in senso circolare come in unlabirinto che partendo dal centro si diramava ver-so l’esterno (foto 125).L’amico intuì al volo le mie intenzioni e senzache io parlassi, esclamò: “Cesare, capisco cheper te sono un materiale prezioso e desiderato,perciò sono contento di rimanere senza sedili peril mio giardino; credo che il tuo laboratorio liaspetti”. Nel primo pomeriggio, per paura checambiasse idea, andai in fretta a ritirarli con tan-ta emozione e con i dovuti ringraziamenti.Li adagiai delicatamente sui sedili della miaautovettura, formiche comprese, ormai padronedi quei preziosi legni che altri avrebbero magari

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bruciato. Li portai nel mio laboratorio e non dicoquante formiche dovetti traslocare dai tronchi almio orto con l’aiuto di un vecchio secchio damuratore.Durante il trasporto avevo già deciso come usarequei legni: tagliare una fetta di circa dieci centime-tri di spessore e collocarla al centro di un quadratodipinto con le stesse tonalità cromatiche. Dovevosolo scegliere le misure del lato di quel quadrato:centocinquanta centimetri in rapporto al diametrodel legno mi sembrava riduttivo, e duecento centi-metri forse troppo impegnativo come dimensione,anche perché, lavorando da solo, il tutto sarebbestato pesante da spostare. Per tagliare la testa altoro, consultai la mia carta d’identità e decisi diusare come misura la mia altezza. Sul documentoera indicata in 174 centimetri (foto 126).

Avevo così deciso di dipingere la superficie del-la tela al di fuori del legno con tonalità mai usa-te in passato. Tornai così al mio solito colorificioper acquistare colori a base di terre, ocre, gialli, einiziai una nuova esperienza coloristica. La mat-tina seguente misi sul cavalletto una tela delledimensioni di un metro di lato e, a mezzogiorno,il lavoro era abbozzato, anzi quasi finito. Ormaiconvinto di quella scelta, osservai attentamente illavoro fatto e, lì per lì, mi venne un’idea. “Oggi”,dissi tra me, “ho usato solo terre, ocre, neri egialli; proprio i colori della terra del mio orto, delmio bosco, del mio giardino, della terra su cuipoggiano la mia casa e il mio laboratorio. Potreb-be essere nato perciò un altro ciclo di ricercheche potrei dire dedicate alla terra, alla mia terradove vivo. Questo non sarebbe un caso ma unastoria che doveva prima o poi accadere, unarealtà da sviscerare, da raccontare attraverso illavoro. Non solo la luce, il sole, le tenebre, l’uni-verso, il fuoco e l’acqua, ma ora anche la terra, ilmondo su cui viviamo. Un altro periodo sul qua-le poter fantasticare, creare e dare vita a nuoveopere. L’entusiasmo si rinnova, si fa strada; pro-durrà, spero, altra gioia di fare, di raccontarealtre storie che parleranno di terre strane e dicreature che le vivono. Come è meraviglioso tut-to questo! Lo so che richiederà ancora molta fati-ca, ma per me vale la pena di tentare!”.126

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Lavoro di formiche, olio su tela e legno formicaio, cm 175x175, 1999

L’IMPORTANTE MOSTRA DI SONDRIO

Si è conclusa con successo la personale allestitanelle sale di Palazzo Sertoli a Sondrio. Meritoanche dei titolari della Galleria d’Arte BergamoCorrado Rota e Luigi Bombardieri, grazie all’in-teressamento dei quali è stato possibile realizza-re la mostra così come progettato.Il signor Fernando Gianesini, curatore e organiz-zatore delle attività artistiche del Credito Valtel-linese, in visita alla mia mostra personale di Ber-gamo, mi aveva promesso di proporre questastessa mostra agli organizzatori del FestivalInternazionale sui parchi naturali che il Comunedi Sondrio organizza tutti gli anni. Facilitato dal-la tematica, che ancora oggi sto portando avanticon impegno, basata quasi esclusivamente sullanatura boschiva, e anche grazie al video dedicatoalla mia performance nei campi della Capra,quell’idea è diventata realtà.È stata per me una dura fatica, anche perché ulti-mamente ho iniziato un nuovo ciclo di operededicato al nostro pianeta Terra che volevo pre-sentare in quella occasione. Alcune difficoltà tec-niche sono state superate solo all’ultimo momen-to e perciò l’ansia e la fatica mi hanno un po’debilitato; per fortuna tutto si è risolto nel miglio-re dei modi. La galleria era composta di tre sale alpiano terra e da uno scalone che porta a un salo-ne detto “dei balli” tutto affrescato in stile baroc-co. In quel magnifico ambiente, caratterizzato daaudaci prospettive di colonne e di rosoni dai colo-ri contrastanti che accentuano i volumi pittorici,erano installate quattro mie tavole di pero, fram-menti neri, l’albero volante, la scultura dal titolo“buco rosso” e gli alberi di abete ravvicinati asignificare un frammento di bosco (foto 127). Alpiano terra, tre sale considerate vera e propriagalleria, erano esposte opere dedicate al sole, albuio, all’acqua e alla terra. Nella prima sala face-vano bella vista i quadri rossi e neri,e le sculturenere verticali:una visione coinvolgente molto for-te per quel contrasto di colori (foto 128).Nella seconda sala quella centrale, erano espostele opere di ultima produzione, concepite per

quella grande occasione, riguardanti il temadedicato alla terra: oli, tavole di legno con al cen-tro corde sonore in posizione verticale dove inuna, un meccanismo ogni venti minuti facevavibrare la stessa corda. Erano esposte anchecupole di plexiglas contenenti mezze sfere spac-cate e ricoperte di segature di diverse qualità dilegni (foto 129).Nella terza sala erano esposti lavori in legno conparticolari marini, quadri a olio, il tutto riguar-dante il tema dell’acqua. La dominante del bluera la nota che più spiccava e lasciava trasparirequel senso di freschezza che il visitatore faceva

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notare (foto 130). Era suggestivo stare al centrodella sala detta della Terra, notare attraverso le dueporte comunicanti, da destra, le tonalità nere erosse, e da sinistra le blu in una sola armonia cro-matica. È stata per me una esperienza importantee di soddisfazione, avendo saputo che prima dellamia presenza in quella galleria fu proposta unagrande mostra dello scultore Andrea Cascella.Sullo scalone che portava alla sala dei balli eranoesposte sui pianerottoli le sculture intitolate“frammenti neri”, “midollo d’albero” e “lavorodi formiche”. La mostra era stata aperta il 13ottobre alla presenza delle autorità locali e deiprofessori delle scuole medie superiori con alcu-ne scolaresche; fu un’esperienza molto interes-sante e resa particolarmente vivace da queiragazzi che facevano ogni tipo di domande. Lasera del 18 ottobre ebbe luogo l’inaugurazioneufficiale, non solo della mia mostra, ma anchedel Festival internazionale sui Parchi. Il grandesalone barocco in cui erano collocate le mie scul-ture fece da sfondo alla cerimonia conclusiva chevide la presenza dei rappresentanti delle nazioni

che erano state invitate a partecipare con i lorofilmati sui Parchi nazionali. Su una sessantina difilmati ne furono scelti dodici (foto 131).Personalità venute da ogni parte del mondo erano

presenti in quella sala. Finita la cerimonia, tuttiscesero a visitare la mostra a piano terra. Nel cor-so della giornata ricevetti la visita di due giorna-liste locali alle quali rilasciai un’intervista. Nonso perché fui tanto sereno sia con loro che conchi mi faceva domande sul mio lavoro; forse per-ché mi trovavo proprio a mio agio. Anzi, avreivoluto che la giornata non finisse mai perché midivertiva la curiosità dei visitatori che volevanosapere quali tecniche usavo per certe sculture eperfino i nomi degli insetti che hanno partecipa-to a farle belle, i tipi di legno usati. Volevanoinformazioni sulle cortecce e su come venivanoapplicate le segature. Altri volevano sapere il per-ché delle protezioni in plexiglas, il perché di queilegni neri, delle corde sonore e a che scopo il loroutilizzo nelle sculture. Mi divertii veramente.Alla fine della serata, chiusi i battenti, con ilsignor Gianesini, i galleristi Rota e Bombardieri,l’amico Ceresoli e sua moglie, gli amici Mangili,Iannucci e Serafini che erano venuti da Bergamoall’inaugurazione, siamo tutti andati a cena, perfinire in bellezza. Durante quell’esposizione tor-nai a Sondrio tre volte. La prima per documenta-re la mostra con un video grazie all’aiuto dell’in-sostituibile Enrico Leoni; la seconda su invito didiverse scuole che, dopo aver visto il mio filma-to girato nei campi della Capra, volevano cono-scermi e intervistarmi. Sia al mattino che dipomeriggio, ragazzi e ragazze mi tennero prati-

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camente in ostaggio. Molti mi chiesero addirittu-ra l’autografo. Mi sono fatto dare, da chi mi chie-se tale performance, un foglio di carta e, per laprima volta nella mia vita, vista l’insistenza,disegnai le mie solite tratteggiate verticali al cen-tro del foglio apponendo anche la mia firma“Benaia” a ricordo di quell’avvenimento. Quellagiornata, credo, sia stata la più significativa eviva della mostra (foto 132).La terza volta sono ritornato con l’amico giorna-lista Amanzio Possenti che mi aveva espresso il

desiderio di vedere l’esposizione. Entusiasta, tregiorni dopo mi dedicò quasi una pagina sul gior-nale trevigliese di cui è direttore. Mi telefonò emi disse: “Caro Cesare, vieni al giornale chedevo farti una sorpresa!”. E fu proprio così.Posso dire che anche il Giornale di Bergamopubblicò un bell’articolo a firma di Stefania Bur-nelli che era venuta nel mio studio ad intervistar-mi; era uno scritto molto sentito. Per L’Eco diBergamo avrebbe dovuto venire nel mio studio lagiornalista Barbara Mazzoleni che aveva recensi-to la mia mostra alla Galleria d’Arte Bergamo nel1998. Ma l’incontro non ci fu. Faticai molto perpoter avere la soddisfazione di un piccolo servi-zio sul quotidiano. In genere sono stato moltosoddisfatto. Anzi, penso che sia stata la mostrapiù importante dall’inizio della mia attività arti-stica. Due giorni fa, con un camion e alcuni ope-rai messimi a disposizione dall’Artigiana delMobile” di Paladina, abbiamo smontato lamostra e caricato tutte le opere per riportarle acasa. Missione compiuta. 132

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Palazzo Sertoli di Sondrio, mostra personale, 1999

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PIETRA, PIETÀ, «PIETRÀ»

In questi giorni si è conclusa l’avventura del recu-pero di una pietra molto desiderata, che dal giu-gno dell’anno scorso avevo scoperto nel letto delBrembo. Sto parlando di una pietra molto soffertache avevo scelto tra altre centinaia per collocarlain una cappella del cimitero di Fiorano al Serioche ebbi l’opportunità di progettare e di eseguire.Fu il gallerista Luigi Bombardieri a convincere lasignora Maria Anesa, residente in quel paese, adarmi l’incarico per la realizzazione di quell’o-pera, secondo me felicemente riuscita. Si tratta diun grande mosaico facente da sfondo e, sopra diesso, due tavole di quercia poste a mo’ di croce.Nel pavimento dai toni scuri si rispecchiano deisassi tagliati a metà e semplicemente appoggiati,che danno l’impressione di uscire dal pelo del-l’acqua. Al centro, tra i due bordi delle tavole,una radice in bronzo esce da un frammento dipietra a una ventina di centimetri dal pavimentoe sale fino a tre quarti delle tavole e termina sot-tile con un germoglio che si schiude, costituito dadue petali che racchiudono una sfera lucidissima.Il mosaico, giocato su toni blu, verdi, rossi e tan-ti altri colori composti da tessere di diversedimensioni: partendo dall’esterno con le piùgrandi e marcate coloristicamente, gradatamenteriducono il loro contrasto fino a formare al cen-tro un’atmosfera luminosa quasi bianca,dettaluce del coma profondo. Le due tavole quasi nerefanno da contrasto a quel fondo senza contornima vibrante di colori vivi. Mancava però un ele-mento che raccogliesse del verde e che si inseris-se nell’insieme in modo discreto e naturale. Pen-sai perciò di appoggiare una pietra di fiume sca-vata, anch’essa lavorata dal tempo e dall’acquacome i sassi che avevo appoggiato sul pavimen-to. Dal marzo 1997 avevo cercato, in occasionedelle mie escursioni con amici in montagna, ilsasso ideale, ma purtroppo senza esiti positivi.Del resto, quand’anche avessi trovato un sogget-to ideale, avrei avuto certamente grandissimiproblemi di trasporto da risolvere. Lo studio e la realizzazione del progetto erano sta-ti un’impresa ardua e non erano mancate diffi-

coltà nell’esecuzione dei lavori. Per la realizzazio-ne del mosaico, eseguito su mio progetto dalla dit-ta Peresson di Milano, per diverse settimane, ognicirca tre giorni, dovetti recarmi in quella città perseguire i lavori. Per mia fortuna, dopo avere scel-to i colori e i materiali per l’esecuzione del mosai-co, il signor Peresson si assentò per una settimanaper motivi professionali. Riuscii a convincere unodei suoi collaboratori a usare del materiale vitreocolorato generalmente utilizzato per vetrate invetrocemento. Quel materiale, che era probabil-mente negli scaffali da chissà quanto tempo, miaveva subito colpito per le sue caratteristiche. Naturalmente, al suo ritorno e a lavoro già avan-zato, il signor Peresson mi fece osservare chel’accordo iniziale non prevedeva l’uso di quelmateriale. Ma visto che il lavoro stava prendendoforma, si soprassedette e si continuò fino allafine (foto 133). Del resto, il mosaico, eseguitocon quei materiali, aveva convinto anche lui. Fucosì che il prezzo pattuito inizialmente vennerispettato (foto 134). Anche per le tavole di quer-cia ebbi alcune difficoltà: era necessario un legnoben stagionato. Mi rivolsi alla falegnameria Maz-

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zoleni di Almenno S. Salvatore e dalle diversecataste di legno di quercia scelsi due tavole dispessore molto grosso. Sembravano sane, senzafenditure. Malgrado ciò, una volta tagliate risul-tarono difettose. Continuai a cercare pressodiverse segherie. Il problema consisteva nellasproporzione esistente fra il tempo di stagionatu-ra e lo spessore delle assi. Abbastanza sfiduciato,mi stavo decidendo ormai ad abbandonare l’ideaoriginaria e a mettere in opera due tavole incolla-te per raggiungere la larghezza desiderata. Ungiorno ritornai per caso nella segheria Mazzolenie, tra le cataste, scorsi qualcosa che poteva fare alcaso mio senza dover ricorrere ad incollature.Feci non poca fatica a convincere il Mazzoleni atogliere quelle due tavole dalla catasta, ancheperché non era sicuro che fossero sane in quantocoperte da quelle sopra. Alla fine riuscii ad averein visione le preziose tavole e, con meraviglia, sirivelarono una migliore dell’altra (foto 135). Pro-babilmente, proprio perché rimaste sotto la cata-sta per molto tempo, avevano potuto stagionarsi adovere. La mia ostinazione fu dunque ancora una

volta premiata. Bisogna dire però che, per man-tenerle sempre intatte senza crepe o storture,dopo averle regolarmente lavorate a motosegaper dare al legno un carattere molto grezzo, lecollocai su supporti scorrevoli che potesseroassorbire le eventuali dilatazioni stagionali. Leho riesaminate poco tempo fa e, dopo più di unastagione, le ho trovate ancora integre. Spero cherimarranno così per diversi anni.Anche per la radice in bronzo ebbi alcuni proble-mi di fusione, alla fine risoltisi felicemente.Mancava solo la famosa pietra.

Nel giugno 1998, durante una passeggiata conmia figlia Emi e il suo cane Tobruk lungo il gre-to del fiume Brembo, sul confine tra i comuni diValbrembo e Brembate Sopra, scoprii una pietradella lunghezza di circa un metro e alta una qua-rantina di centimetri. Era composta di strati disu-guali ma levigata dal tempo e dall’acqua: “Eccola pietra che fa per me!”, esclamai. “Credo chequesta forma faccia al caso mio” ripetei tra me.La rivisitai ancora un paio di volte. Lei era lamigliore in mezzo a quelle centinaia di pietremodellate dalle piene del fiume e chissà quale etàdoveva avere. I raggi del sole, il vento, l’acqua eil tempo le avevano donato forme e colori del tut-to particolari: ormai era diventata per me unadiva, una modella che posava alla mia presenza. Il suo fascino mi aveva toccato e la sua bellezzami fece decidere di portarla via da quel fiume.Non immaginavo però quale peso potesse avereal momento di spostarla. Sapevo solo che per far-lo sarebbe servita una fune d’acciaio di almenoquaranta metri e un meccanismo per trascinarla ariva. Sapevo che non si può estrarre materiale dalfiume senza autorizzazione del Demanio statale.D’altro canto, ormai, quella pietra faceva parte dime e allora pensai di rubarla. Decisi di procurar-mi una fune per l’operazione. Trovai in un’offici-na, dove di solito porto la mia auto quando neces-sita di riparazioni, dei pezzi di fune d’acciaio dicirca sei metri. Ne presi sette pezzi e, giunta dopogiunta, ottenni una fune della misura desiderata.Ma quanto lavoro! Il giorno seguente, con l’aiu-to del mio genero Maurizio e di Francesco Man-gili, riuscimmo, dopo un paziente intervento, alegare la nostra pietra e a portare il cavo sullasponda per iniziare la fase di estrazione dellastessa (foto 136). Andai dal proprietario di unacava di ghiaia ubicata nei pressi e lo convinsi atirare la fune con una ruspa per trascinare a rivaquel prezioso oggetto. Mi promise che avrebbeproceduto all’ operazione, ma non quella sera.Passarono un paio di mesi prima che si decides-se a farlo: non trovava il tempo dati gli innume-revoli impegni di lavoro.Un venerdì sera, finalmente, arrivò al fiume,agganciò il cappio della fune a un dente della

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ruspa e tirò: la pietra si mosse e, piano piano,venne trascinata a riva. Era appena fuori dall’ac-qua quando la fune si sganciò e la pietra rimaselì. Bisognava riagganciarla ma, proprio in quelmomento, qualcuno chiamò l’addetto alla ruspaper caricare urgentemente un camion e io aspet-tai inutilmente il suo rientro. Ormai l’orario dilavoro di quegli operai era terminato e la nostrapietra rimase al suo posto. Intanto il mio generoera rimasto dalla parte opposta del fiume. Avevail compito di tenere d’occhio il laccio attorno allapietra perché non si slegasse proprio nelle fasipiù delicate di traino. Mi fece sapere, ad altavoce, che sarebbe tornato a casa. Anch’io vistoche non c’era più nulla da fare, lasciai il fiume ela mia pietra e mi diressi con la mia auto all’in-gresso del cantiere dove mi stava aspettandoMaurizio: “Ma come!”, esclamai, “non sei torna-to a casa?”. “No, Cesare”, mi rispose, “ho pensa-to di tornare qui per avvisarti che il ponte dellastrada per Briolo è bloccato da una coda intermi-nabile di auto. È meglio che anche tu, al ritorno,prenda la strada di Almenno S. Salvatore”. Io glirisposi che preferivo passare da Briolo. “Allora,ciao Cesare! Io ritorno a casa”, mi rispose. Lovidi allontanarsi con la sua moto. Dopo pochiminuti, salutato il proprietario, anch’io presi lastrada di casa con la mia auto ma, fatte pochecentinaia di metri, ad una curva in salita una per-sona mi fece segno di rallentare. “Cosa è succes-so?”, chiesi. “Un signore in moto ha fatto un inci-dente proprio appena dopo la curva, ed è disteso

in terra perché non riesce ad alzarsi” mi rispose.Sceso dall’auto e avvicinatomi al malcapitatoscoprii che si trattava del mio genero. “Ma Mau-rizio, cosa ti è successo?”, esclamai. “Ho dovutofare una frenata in curva ma sono scivolato, for-se per la ghiaietta sull’asfalto. Ho battuto la testae per fortuna il casco mi ha protetto, ma la motomi è caduta su questa gamba con tutto il suopeso; non riesco a muoverla, e così pure la spalladestra”. In quel momento mi sentii gelare il san-gue nelle vene pensando che fosse successo qual-cosa di molto grave. Un uomo, in quel momento,vista la situazione, telefonò premurosamente allaCroce Rossa per richiedere un intervento urgen-te. Io, da parte mia, tolsi delle pezze di stoffa cheavevo in auto e improvvisai un cuscino per reg-gere la testa di Maurizio che appoggiava sull’a-sfalto. Lo coprii perché non prendesse freddo.Dopo una quindicina di interminabili minutiarrivò l’autolettiga e, dopo essere stato adagiatodelicatamente sulla barella, egli fu condotto allavicina clinica di Ponte S. Pietro.Io, velocemente, tornai a casa ad avvisare miafiglia Emi e immediatamente andammo in clini-ca per sentire il responso dei medici. Mediante leradiografie constatarono la rottura della clavico-la e del perone destro e la prognosi fu di circaquaranta giorni. Nonostante tutto, il mattinoseguente, tornai dal proprietario della cava perterminare l’operazione lasciata incompiuta. Maessendo sabato, in cava stavano riparando deimacchinari. Lo stesso proprietario mi assicuròche il lunedì mattino mi avrebbe accontentato.Proprio la sera di quel sabato, iniziò a piovere adirotto e la pioggia continuò tutta la notte e pertutta la domenica seguente. Io, a casa, ero in dop-pia apprensione: per lo stato di salute del miogenero e per la paura di perdere quella pietra acausa di una piena. Il lunedì mattina tornai dicorsa al fiume per verificare dove era arrivato illivello della piena. Al posto della pietra c’eranosolo ghiaia e sabbia: l’alveo era stato ripulito dal-la violenza della corrente. Ormai avevo perso tut-te le speranze di ritrovare la mia pietra, perciòaspettai che il livello dell’acqua scendesse abba-stanza da poter sondare il fondale. Trascorsero un

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paio di mesi e di nuovo il fiume raggiunse illivello di magra. Per una settimana percorsi ledue sponde in cerca di quella pietra, ma senzaincontrare alcun indizio finché, un giorno, anco-ra in compagnia di Maurizio e a pochi metri dalluogo dove l’avevamo lasciata, scorsi sotto allivello dell’acqua una sagoma coperta dimuschio, una forma che mi sembrava familiare.Tornai a casa, presi gli attrezzi idonei per l’iden-tificazione, mi acquistai un paio di stivaloni dapescatore e mi misi al lavoro. Con uno spazzolo-ne ripulii dal muschio quella sagoma e il coloredella pietra, assieme alla sua forma, mi confer-marono che non avevo sbagliato. Rimossi ilmateriale che si era depositato ai fianchi del mas-so per una decina di centimetri sotto il pelo del-l’acqua e, calcolando la profondità in rapportoallo spessore che ricordavo della pietra, ebbi ladefinitiva certezza che si trattava proprio di quel-la. Sul fondo intravidi poi un pezzo di corda

metallica semisommersa nella sabbia. “Vittoria!Ormai non mi scapperà più!” urlai.Un paio di giorni dopo, con il camion attrezzatodi braccio meccanico dell’amico Luigi Salvetti,trascinammo la pietra sulla riva del fiume connon poca fatica; un paio di volte tentò di insab-biarsi e, per la troppa tensione della corda d’ac-ciaio, si aprirono i ganci di traino facendoci ripe-tere più volte l’operazione. Una volta trascinatavicina al camion, la adagiammo sul pianale del-l’automezzo e la portammo finalmente al magaz-zino. Fu una grande soddisfazione rivedere lamia pietra ormai al sicuro e pronta per esseremodellata secondo le mie intenzioni. Farà dacontenitore di verde naturale ai piedi di quelvitreo e colorato mosaico e sormontata dalletavole di quercia. Ora che la fatica è terminata, sono contento diquel lieto fine e spero anche che la signora MariaAnesa sarà soddisfatta del monumento.

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Il legno della Croce e fiume, Cappella Nesa, 1996, cimitero di Fiorano al Serio in provincia di Bergamo

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UN MONUMENTO FUNEBREPER IL CAMPOSANTODI ALMENNO

La località di Almenno, divisa nei due centri urba-ni distinti di almeno S.Salvatore e Almeno S.Bar-tolomeo, si trova ai piedi del monte Linzone chesovrasta il verde intenso delle colline sottostanti.A pochi metri dalla sua cima, vicino a una stalladi montagna, (foto 137) trovai l’albero d’acero

che ha fatto più volte da attore nelle mie compo-sizioni grafiche virtuali. Ai piedi del monte, i viti-gni che tracciano svariate e bizzarre geometrieproducono il vinello che tutto l’anno arriva sullatavola di famiglia dando quel tocco magico allepietanze e alla digestione. A sud si estende la pia-nura bergamasca. Il cimitero di Almeno S. Barto-lomeo sembra sperduto nel verde come un’isolafelice, silenziosa, lontana dai rumori del paese.È circondato da mura di tufo, un tipo di pietracalcarea dell’alveo del Brembo. L’ingresso èdominato da un frontone modesto ma di tagliomonumentale (foto 138).

Al suo interno sono sepolte le spoglie dei pa-renti da parte di mio padre, nonna Maria e non-no Gabriele. Il nonno venne sepolto nel 1962,precisamente nel periodo in cui avevo inizia-to a dipingere i primi quadretti copiando car-toline. La sua tomba è un fazzoletto di terra didue metri per uno, con una croce in cemento al-ta un metro. Alla base è posta una lastra dimarmo grigio con il suo ritratto e quella dellanonna (foto 139).

La foto della nonna è completamente sbiadita:quella del nonno è ancora intatta, come se qual-cuno, misteriosamente, l’avesse preservata dal-l’invecchiamento. Oggi mi trovo qui a meditare sul destino che miha portato in questo cimitero, per collocare un’o-pera pubblica dedicata ai donatori Avis e Aido diquesto comune. L’architetto Cesare Rota Nodari,mio amico d’infanzia all’epoca in cui il nonnoera vivente, ideatore del progetto, ha voluto chefossi io a realizzare la parte scultorea da inseriretra la base di marmo di Carrara e due colonnetriangolari distanti un paio di metri e accostateper formare una fessura larga una decina di cen-timetri. Si è pensato a un soggetto ispirato alleradici, tema preferito dalle mie ricerche. Fui feli-

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ce di avere avuto quella proposta con la possibi-lità di esprimermi liberamente senza nessunacondizione da parte dei committenti. Per quel-l’occasione la mia scelta era di creare un’operacon l’ausilio di materiali naturali da riprodurre inbronzo.Dietro il vicino monte Albenza, lungo il percorsoche porta verso il Resegone, e precisamente inlocalità Pertus, si trovano due roccoli circondatida alberi di faggio dai rami (foto 140) d’aspetto

singolare; i cacciatori, per esigenze di caccia, nemodellarono a dismisura il profilo strozzandonela struttura, e creando, senza volerlo, sagome tan-to originali da servire proprio al caso mio: deirami dalle forme di radici (foto 141). Avevo asso-lutamente bisogno di quel materiale prezioso edovevo appropriarmene, possibilmente evitandoqualche fucilata da parte del proprietario del roc-colo. Andai così sul posto diverse volte con l’aiu-to di qualcuno (l’amico Gennaro Ceresoli) chefacesse da palo. Portammo a casa quel malloppoprezioso rubato a pezzetti per non farci scoprire.

Non sono ancora pentito di aver organizzato queipiccoli e ripetuti furti; mi conforta il pensieroche, magari, il padre o il nonno del proprietariodel roccolo potrebbero essere sepolti proprio inquesto cimitero e che, indirettamente, quei ramisono serviti ad abbellire anche la loro dimora. Misento dunque perdonato.Dopo il lavoro di recupero e d’assemblaggio deipezzi e ad opera finita, ebbi l’amara sorpresa diuna telefonata dall’amico Rota Nodali. “Cesare,ti avverto di sospendere i lavori per la sculturaperché i committenti, non avendo la disponibilitàfinanziaria prevista, preferirebbero qualcosa dipiù semplice e di meno costoso”. Ormai il lavoroera quasi ultimato e, visto il risultato ottenuto,decisi di metterlo da parte per qualche mia crea-zione successiva.Per fortuna non lo distrussi perché, dopo alcunimesi, l’architetto mi ritelefonò per avvisarmi cheun privato generoso si era messo a disposizioneper coprire la spesa iniziale, a patto che il monu-mento fosse terminato entro il mese successivo.Risposi che era praticamente impossibile rispet-tare quel termine per i tempi necessari alla fusio-ne in bronzo. Studiai però uno stratagemma: ese-guire l’opera in parte in resina (da utilizzare poicome modello per il bronzo), lasciare rami e radi-ci nella loro forma naturale e colorare tutto conun falso bronzo e installare il finto monumentoin loco per il solo giorno dell’inaugurazione. Poi,con calma, avremmo eseguito la fusione e instal-lato la versione definitiva in bronzo. Mi misisubito al lavoro e, nonostante gli inconvenientitecnici e le numerose modifiche intercorse edovute ad errori di costruzione dei marmi (perinesattezze rispetto delle misure previste dal pro-getto), il mattino dell’inaugurazione tutto andòesattamente come desiderato.Nessuno si accorse che l’opera non era in bronzooriginale. Al termine della cerimonia, svelai ilsegreto e annunciai la verità. Furono in molticoloro che, pensando che scherzassi, si precipita-rono a raschiare parti dell’opera, non credendo ailoro occhi. I committenti furono contenti delrisultato e mi diedero subito conferma per lafusione definitiva del lavoro.

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Non appena consegnatami dalla fonderia, collo-cai l’opera finita: due radici che escono dal ter-reno ed entrano in una fessura della base di mar-mo bianco di Carrara; (foto 142) fuoriesce poi ununico ramo che attraversa il manto erboso per

raggiungere due colonne triangolari staccate l’u-na dall’altra e elevandosi tra esse termina con ungermoglio sferico ancora chiuso. Nelle sue formecosì naturali, sembra un albero nato e cresciutoda sempre proprio li, su quel terreno benedetto. Èstata per me un’esperienza affascinante, al servi-zio della natura e della gente.Quel roccolo miracoloso, che mi ha beneficiatodei rami che qualcuno ha modellato per me e peril suo cimitero senza saperlo, ha contribuito arealizzare un mio sogno. La pioggia e l’aria e lafuria dei temporali e le grida dei cacciatori e l’e-co dei loro spari e quella parte del Pertus, tuttoquesto è impresso in quella semplice scultura nelcimitero dove anche mio nonno è presente.

Giugno 2002

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All’Avis e Aido, 2002, scultura nel cimitero di Almeno S. Bartolomeo in Provincia di Bergamo

L’ARMATA BRANCALEONE

Come ogni mattina, dopo aver fatto colazionecon caffè, latte e pane raffermo, alle otto in pun-to ero pronto a scendere le scale che dal primopiano portano nel mio studio al piano terra perpreparare pennelli, colori, esaminare la tela inlavorazione dal giorno precedente e vedere se erail caso di apportare modifiche. Così inizianoancora oggi gran parte delle mie giornate. Quel-la mattina, avevo deciso di passare negli ufficidello stabilimento “Gres” a Petosino per farevisita all’amico pittore Vittorio Consonni, impie-gato in quella fabbrica (foto 143).

In quell’occasione m’informò che aveva appenaricevuto, da parte dalla signora Carla Topan, pre-side del comprensorio scolastico di Sorisole, l’in-carico di trovare un paio d’artisti scultori per larealizzazione di due opere da collocare nel parcoadiacente le scuole medie delle due frazioni. “Setu accettassi non farei altro che portarti da lei perun incontro insieme allo scultore Defendi, cheinformerò dell’iniziativa per sentire se intendepartecipare”, mi disse. “Potrebbe essere unamagnifica esperienza” gli risposi. Lo pregai per-ciò di fissare al più presto un appuntamento con iresponsabili dell’eventuale progetto. Una settima-na dopo, mi trovavo seduto alla scrivania dellasignora Topan la quale, in modo tanto energico erisoluto ci convinse di accettare quella impresadesiderata anche da lei. Sembrava un’operazionefacile perché l’Amministrazione comunale avreb-

be dato un cospicuo contributo finanziario. Daparte mia, avevo già cominciato a pensare in gran-de, e quindi fui pronto ad esporre le mie intenzio-ni, la preside ci disse testualmente: “Calma,ragazzi! Avremo a disposizione un determinatobudget che dovremo assolutamente rispettare”.Mi venne subito l’idea di coinvolgere il direttoredello stabilimento Gres, che ha sede sul territoriodel comune, affinché si desse da fare per metter-ci a disposizione, ovviamente gratis, il materialenecessario alla realizzazione delle sculture. Visti i precedenti di collaborazione tra l’aziendaGres e il Comune, decidemmo di dar corso allapredisposizione di un progetto di massima. Lanostra idea era di realizzare una vera e propriainstallazione scultorea con il diretto contributodegli studenti della scuola. Prima di iniziare i lavori, invitai i ragazzi interes-sati nel mio laboratorio per spiegare loro la miaattività in campo artistico e poi, attraverso altricolloqui in aula, cercai di convincerli sulla sceltadel tema che mi ero prefisso. Fui molto contentodei risultati ottenuti con loro e così, insiemeall’insegnante di educazione artistica, prof.Colombo, gli alunni stilarono un documento dapresentare alla preside. La stessa lo perfezionò egli attribuì il titolo di “Palomar”, dal nome del-l’osservatorio astronomico più grande del mondo.Prima di tutto fu realizzato un primo documentodenominato “Scheda di progetto”, un vero e pro-prio manifesto d’intenti, per informare tutto ilcomprensorio scolastico dell’iniziativa (foto 144).Si diede così il via ai lavori. Mi è impossibile rac-cogliere qui tutte le felici impressioni di queimomenti vissuti con tanti ragazzi vivaci, che pergioco animarono le fasi di quel pur duro lavoro.Immaginatevi le giornate trascorse all’aperto nelparco della scuola, mentre mettevamo i picchettiper segnare la posizione delle opere: “dai, Marco,batti il picchetto con la mazzuola! Luca! Tieniteso lo spago e spostati nella direzione del muro!”Era tutto un coro di voci sino a quando, tutto d’untratto, passava sulla strada vicina un loro amico insella al motorino e tutti i ragazzi, si univano ingruppo per discutere la cilindrata e la marca delveicolo. Il richiamo all’ordine del professore diturno rimetteva ognuno al suo posto e i lavori pro-

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seguivano alacremente. Non sono mancate le pas-seggiate al fiume per la raccolta di sassi (foto150) di diversi colori e dimensioni. Siamo anchestati insieme alla cava da cui si estraeva la cretaper la produzione del materiale del Gres che ser-

viva, ovviamente, alle nostre sculture. Un vero eproprio laboratorio d’idee e di scambio di espe-rienze reciproche all’aria aperta che contribuiro-no alla costruzione, insieme, di quell’installazio-ne scultorea sempre più concreta e tangibile.

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Ecco i cinque soggetti che dovevano comporrel’installazione.

“Albero morto.” Un albero morto da installa-re, per fare da contrasto a un altro albero vivo,che doveva essere trapiantato a una certa distan-za per ragioni di progettazione. Mi ricordai chedietro il santuario della Madonna della Castagna,c’era quanto faceva per noi: un grande albero dirovere del diametro di circa cinquanta centimetri,al quale erano stati recisi i rami perché secchi. Inquello stato poteva essere un pericolo per l’inco-lumità pubblica, e perciò toglierlo di mezzo,restaurarlo e rimetterlo in quel parco scolasticosarebbe stata un’ottima soluzione. Ritrovarlo nelnuovo ambiente, alla vista di tutti quei ragazzi,anche per me fu meraviglioso.L’operazione si eseguì prima con il taglio a cin-quanta centimetri da terra, poi con il trasportoeffettuato con un camion munito di braccio mec-canico gentilmente offerto dalla ditta Fratelli Sal-vetti di Paladina. L’albero fu cementato perché l’u-midità del terreno avrebbe fatto marcire veloce-mente la base (foto 146). Al centro di esso, a tre

metri di altezza, è stato appeso un filo a piomboper dimostrare il punto di gravità a pochi centime-tri da terra. Con il sole, la sua ombra viene proiet-tata su un pannello bianco facendo simbolicamen-te da meridiana: la sua altezza dal pavimento è amisura aurea rispetto a tutta l’altezza del filo.

“Albero vivo.” Questo doveva essere un albe-ro di carpine dalle forme ideali che si trova anco-ra nel parco delle scuole di Sorisole, in mezzo atanti altri della stessa specie: doveva essere spian-tato vivo e poi portato a far parte dell’installazio-ne, ma il Comune non acconsentì preferendo pre-levare un altro albero da un sito diverso.

“Albero in Gres.” L’idea di chiedere al diret-tore dello stabilimento del Gres il materiale pereventuali lavori di scultura fu accolta positiva-mente dallo stesso; c’ invitò nel suo stabilimentoe ci offrì tutto il materiale necessario e la possi-bilità di eventuali cotture delle opere da noi for-mate. Vittorio Consonni ne ritirò gran parte perrealizzare un lavoro di composizione che con iragazzi realizzò nell’ambito del progetto. Io vole-vo eseguire il fusto di un albero dell’altezza dioltre tre metri; per farlo avevo a disposizione tubidi terra refrattaria cruda dal diametro di cinquan-ta centimetri. Eseguirlo in un pezzo unico sareb-be stato impossibile per il peso, per l’altezza eper la difficoltà nella modellatura. Decisi alloradi tagliare i tubi in pezzi da cinquanta centimetrie modellarli uno per uno: li riunii uno sopra l’al-tro fino a raggiungere l’altezza desiderata.Fu un’operazione massacrante e difficile perchéla terra pressata dalla macchina ancora umidapoteva rompersi e rendersi così inservibile. Quellavoro di modellatura doveva essere eseguito nel-la scuola, ma per ragioni di sicurezza e perchécon il caldo delle aule la terra asciugava troppo infretta, preferii lavorare nel mio laboratorio, alfresco delle mura. Ogni tanto un professore por-tava i ragazzi ad aiutarmi e a documentare conuna telecamera le nostre operazioni manuali.In quell’occasione mi fu di grande aiuto l’amicoCeresoli che mi seguì in quei lavori di fatica conresponsabilità e pazienza (foto 147).Un giorno la preside organizzò su mio consigliouna visita alle cave a cielo aperto che si trovanoa Palazzago dove si estrae la terra per la costru-146

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zione dei manufatti Gres; fu bello vedere tantointeresse e curiosità in quei ragazzi, stupefattidelle risposte pratiche e convincenti del respon-sabile della cava che ci aveva accompagnati. Nes-suno aveva immaginato che un mucchio di terrapotesse essere così prezioso (foto 148). Ormai illavoro di modellatura dell’albero volgeva al termi-ne e mancava solo la cottura (foto 149). Ci fu mes-so a disposizione il forno e il personale necessarioper la delicata operazione. Dopo aver caricato ipezzi d’albero sul camion uno per uno tramite pic-cole barelle, li portammo nella fabbrica vicino aigrandi forni. Decidemmo dopo poche prove ilcolore dell’albero che, a cottura compiuta si, pre-sentò perfetto. Era presente solo qualche deforma-zione dovuta all’alta temperatura, ma niente inconfronto alla difficoltà dell’impresa. Portammo ipezzi finiti nel parco e riunimmo il tutto nella suacompletezza senza alcun imprevisto.

“Albero di cemento”. Era una scultura cheavrei voluto eseguire con i ragazzi nella scuola,in polistirolo espanso, usando il filo rovente per itagli con una modellatura abbastanza grezza:

doveva essere usata come modello per una verascultura in cemento fatta eseguire dai fratelli Bre-sciani, cementisti del posto e anche miei amici.Tentai di convincere questi specialisti a fare illavoro sponsorizzato da loro stessi, ma la spesaera troppo alta, perciò non se la sentirono diaccettare quella mia proposta; le casse dellascuola ormai erano esaurite e i costi ormai supe-ravano il limite da spendere. All’inaugurazione ciaccontentammo di sostituire la prevista sculturain cemento con una semplice forma dell’alberoricavata da una lastra di polistirolo.

”Cannocchiale”. Un punto di riferimentonell’impianto del progetto, dove tutto dovevaessere osservabile attraverso un tubo Gres del dia-metro di 15 centimetri e lungo 70, girevole a 360gradi con possibilità di inclinazione a piacimento.L’idea mi era venuta pensando alla mia scultura“Il grande buco”, che è stata esposta in diversemostre dopo il 1997. Il tubo è sorretto da unsostegno di bronzo abbastanza originale, ricavatoda uno scarto di fusione adibito a scorrimento delbronzo fuso nei relativi stampi a cera persa, e infi-lato in una base verticale alta più di un metro.148

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Appena sotto il cannocchiale, su un piatto circo-lare, sono segnati dei numeri che quando si com-binano, indicano “guardando dal tubo” l’identitàdel soggetto le cui caratteristiche sono descritte afianco, su una tabella compilata dai ragazzi.Sono così segnalate le posizioni strategiche delterritorio, le opere presenti nel parco, gli ambien-ti scolastici. In futuro saranno inseriti i nuovilavori che abbelliranno la scuola: quel marchinge-gno fu realizzato personalmente nel mio laborato-rio per la complessità tecnica di costruzione,mentre l’esterno del tubo fu decorato dai ragazzi.Mia figlia Emi, ceramista, offrì gratuitamente lasua collaborazione presso la scuola per insegnareai ragazzi come usare gli smalti per la decorazio-ne del cannocchiale. A lavoro ultimato si portò iltubo presso la ditta Ghisalberti di Petosino, cheproduce mattoni, per la cottura. Per un errore diposizionamento del pezzo - forse troppo vicino

alla fiamma del forno - il tubo andò in frantumi edivenne inservibile. Scelsi allora di sostituirlo conun nuovo pezzo e di farlo decorare anno dopoanno ai ragazzi con adesivi colorati, ritagliatisecondo il loro estro artistico.Ci sono i temi dedicati al labirinto espressi nellarealizzazione del pavimento circolare dal diame-tro di 280 centimetri, dove poggia la base delcannocchiale: lungo il perimetro esterno correuna fascia in cemento di colore grigio, che rac-chiude il cerchio in quattro parti uguali partendodal centro e formando una croce. Le linee sonoposte in direzione dei quattro punti cardinali, cheall’esterno sono contrassegnati su formelle in ter-racotta Gres. Sulle stesse sono stati incisi gliautografi della preside, il mio, quelli del profes-

sore e della professoressa che hanno collaboratoall’iniziativa, e sono state incise le iniziali deipunti cardinali. Affermerei che questa è stata laparte di lavoro più sofferta perché dopo che ilcomune fece eseguire ai suoi stradini le fonda-menta in calcestruzzo, non poté mandare altriaiuti perché tutto il personale addetto era impe-gnato in altri lavori urgenti di manutenzione; cosìil tettuccio fatto costruire con liste di legno ecoperto da un telo di polietilene, al primo tempo-rale fu spazzato via dal vento perché fissato conchiodi troppo corti: per fortuna continuarono lebelle giornate che ci seguirono fino a lavori ulti-mati. Preparati con i ragazzi i modelli in polisti-rolo per la realizzazione della prima parte dellabirinto, gettammo le strisce di colore rosso conmateriale offertoci dal cementista Bresciani conl’amico Gennaro Ceresoli. Era un pomeriggiosotto il sole cocente (foto 151). La preside fece

spargere la voce che serviva urgentemente unmuratore e che nel caso qualche papà disoccupa-to o pensionato che potesse portare aiuto, ciòsarebbe stato benaccetto, ma ovviamente senzacontributo. Due giorni dopo arrivò un anzianopensionato, direi anche bravo, ma con tanta fret-ta: doveva partire a giorni per la Francia in visi-ta parenti. Era così veloce che mi faceva staresempre in ansia e con l’affanno in gola. Potreidire che fu mandato dalla Provvidenza ma la col-laborazione avrebbe dovuto durare più a lungo.Per caso, saputo che il bidello, da giovane, avevalavorato come muratore, lo ingaggiammo per lemescole cementizie. Un giorno andammo allaricerca di tondini di ferro per armare un plinto incemento per la base della scultura in Gres: adoc-

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chiammo dal venditore edile, fornitore dei mate-riali alla scuola, un camioncino carico di pezzi ditubi di antenne appena tolti da un tetto. Bene,anche quel materiale fu provvidenziale e a costozero per la nostra armatura. Mentre caricavamo ilmalloppo sul tetto della mia automobile, scop-piai in una risata. “Si può sapere cosa è succes-so’”, mi chiese il bidello che in quel momentoera con me. “Sai, amico, che facciamo parte diuna magnifica impresa!” gli risposi; “mi fa ricor-dare un film con Vittorio Gassman e che si inti-tolava L’armata Brancaleone dove tutti i perso-naggi guerrafondai erano vestiti con armatureimprovvisate e surreali fatte di padelle, pentole eoggetti vari. Così noi non, trovando veri tondinidi ferro, abbiamo rimediato con tubi e ferri diantenne arrugginite, con un bidello come mura-tore e altre cose che adesso non ti posso raccon-tare”. Nella fase di realizzazione della primametà del labirinto, vidi in una bacheca del labo-ratorio della scuola dei piccoli pannelli con fis-sati degli insetti di diversi tipi, come un cervovolante ancora in buone condizioni ed altre spe-cie. Saputo che la direzione della scuola volevadisfarsene perché dopo tanto tempo la bachecaentomologica stava per sfasciarsi, ebbi l’idea ditogliere quegli esemplari delicatamente uno aduno per fissarli su frammenti di cristallo dellospessore di 10-15 millimetri e incastonarli nelpavimento come piccolissime vetrinette irregola-ri. Ebbero un effetto straordinario perché profes-sori e ragazzi di tutta la scuola furono attirati dal-la curiosità. Nell’altra metà dello stesso pavi-mento, nella parte sud realizzammo, sempre neltema del labirinto, da una parte un percorso fra isassi sezionati di diversi colori e forme dallospessore di due centimetri e fissati nel cemento,e dall’altra un cammino tra forme di diversemisure rettangolari riempite da frammenti di cot-to Gres, con i nomi di tutti gli studenti dellascuola, dei loro insegnanti e del personale di ser-vizio, incisi da ogni singolo partecipante (foto152). Inutile dire che, il giorno dell’inaugurazio-ne, in tanti rimasero a testa in giù e per minuti acercare il proprio nome su quel pavimento. Pen-sare che in futuro quei ragazzi, diventati padri,verranno alla scuola ad accompagnare i propri

figli e rivedranno i loro nomi su quel pavimentoeseguito con tanto sudore, potendo a loro voltaraccontare la storia di questa bellissima espe-rienza, mi riempie il cuore di gioia.Il 10 giugno 2001 fu così festeggiata la chiusuradell’anno scolastico con la presentazione dell’o-pera dello scultore Giancarlo Defendi collocatanel parco della scuola di Sorrisole, l’installazionedel pittore Consonni, la mia nel parco delle scuo-le di Petosino, e l’apertura della mostra di lavoridegli alunni delle scuole di tutto il comprensorio.Si diede poi inizio ai festeggiamenti nel parcodelle scuole di Sorrisole, con canti, saggi, propo-ste musicali, con i genitori degli scolari sedutipresso appositi tavolini a consumare un ricchissi-mo rinfresco, nell’ambito di un programma pre-parato sapientemente dalla preside e dagli stessialunni della scuola. Fu un vero successo per tuttinoi. Artisti,professori, ragazzi; se questi progettisono stati realizzati con tanta fatica, alla fine ne èvalsa la pena.La mia speranza è che nasca inseguito uno stimolo per continuare in futuro adabbellire questo luogo con altre opere che lascinoun segno nel tempo per tutti coloro che amanol’arte, la natura e la vita, e che il cannocchiale delparco si arricchisca così di altri punti di riferi-mento, per la scuola e per chi la abita.

Valbrembo, agosto 2002

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UN ANNO DOPO

La tragica notizia dell’amico Consonni mi giun-se per telefono un anno dopo aver terminato quelduro lavoro nel parco della scuola: “Caro Cesare,delle nostre installazioni presso le scuole di Peto-sino non è rimasta traccia”; Pensai subito chefosse una burla, ma con il passare dei secondipurtroppo si manifestò vera.La mattina seguente partii immediatamente versola scuola: e al mio arrivo trovai solo dei mucchidi terra altissimi che erano in bella vista ai mieiocchi; delle sculture, neppure l’ombra. Tornai acasa spaesato e quel giorno non ebbi il coraggiodi riprendere il lavoro, tanto quella delusioneintorpidì il mio stato d’animo.M’infusi coraggio e mi promisi che sarei andato afondo della faccenda: feci una visita alla direzio-ne scolastica, ma né il professor Colombo checollaborò al progetto, né la nuova preside, seppe-ro darmi una risposta plausibile sui motivi diquella brutta storia; telefonai allora in Comune echiesi un colloquio con il Sindaco, che mi fu con-fermato per la settimana seguente. Il giorno stabi-lito fui ricevuto dall’assessore, certo Panza, che inquell’epoca era responsabile dell’assessorato allaCultura: una persona cordiale con cui potei discu-tere serenamente; la sua risposta fu la seguente;”Signor Benaglia, anche noi non sappiamo di pre-ciso dove sia andato a finire tutto il materiale spa-rito, dopo aver affidato l’incarico dei lavori d’am-pliamento della scuola all’impresa appaltatrice,della quale ancora oggi siamo in causa; farò dellericerche in merito, ma mi fa pensare che tutto siaandato a finire in discarica, in ogni modo la infor-merò in seguito del risultato della mia inchiesta”.Da quella conversazione capii che alla direzionedella scuola, condotta dalla nuova preside, non

interessava più il nostro progetto, forse troppoimpegnativo, e aveva optato per altre scelte. Per-ciò l’interesse per il recupero ormai poteva esse-re abbandonato: credo che quella fu una veradisgrazia. Perché avevano speso tanto denaro perrealizzare un progetto poi distrutto? Perché nonci hanno informato? Perché tante fatiche gettateal vento? Un mistero che non potrò mai capire.Sono convinto tuttora che quel parco della scuo-la non vedrà più le mie sculture e nemmeno quel-le dell’amico Consonni. La mia installazione cheera l’inizio di continuità destinata a durare neltempo, è stata di fatto distrutta senza nessunapossibilità di recupero. Sono stato veramentesfortunato e penso con quest’esperienza di nonaccettare più offerte per opere pubbliche: è unvero peccato.Ancora oggi - febbraio 2004 - su internet al sitowww.icsorisole.it si possono vedere i tre progettieseguiti: quello di Defendi è rimasto, gli altridue, quello mio e dell’amico Consonni, sonoandati distrutti.

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La scuola di Petosino oggi.

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Palomar, installazione fissa nel parco della scuola di Petosino in provincia di Bergamo, 2001. Nella foto, il par-co della scuola con l’installazione non ancora ultimata. Immagine tratta dal sito internet dell’Istituto Lanfranchi.

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I LABORATORI

Il primo pezzo della mia casa fu costruito in eco-nomia su due piani poco prima di sposarmi, nel1959. Il piano inferiore era adibito a una piccolaesposizione di mobili mentre il primo piano costi-tuiva la nostra abitazione. Nel 1965 iniziarono ilavori di ampliamento della costruzione cheacquisì le attuali dimensioni. In quel periodo lapittura non era ancora la mia vera professione:dipingevo solo nei ritagli di tempo, specialmenteil sabato e la domenica mattina, in uno spazioricavato sopra il mio laboratorio di falegnameria.Visto che il sottotetto della nuova casa era abba-stanza ampio, pensai di collocarvi il mio nuovostudio. Fu un’idea molto azzeccata e quello spa-zio divenne, per molti anni, il luogo per eccellen-za della mia produzione artistica, soprattutto pit-torica (foto 153). Nel 1999 cedetti poi quello spa-zio a mia figlia e al mio genero che lo utilizzaro-no per costruirvi il loro appartamento. In quellospazio silenzioso si svolse il mio lavoro di pittorein armonia con tutto quello che succedeva attor-no a me. Lì si avverarono tanti miei sogni e quel

luogo fu spesso sede di indimenticabili incontricon tanti amici e artisti. In quell’ambiente, profu-mato costantemente di colori ad olio e trementinae particolarmente torrido durante i mesi più caldidell’estate, gustai tanta bella musica e programmiradio che mi fecero compagnia oltre a contribui-re al mio arricchimento culturale. Ora ho sposta-to il mio studio al piano terra, dove sono necessa-rie ancora alcune modifiche architettoniche chemi permetteranno di lavorare con una lucemigliore di quella attuale. Certo, rimpiango itempi in cui, nella mia mansarda, mi sentivo qua-si padrone del mondo, grazie alla meravigliosavista che si stendeva dalle vicine colline sino allevette più lontane. Ma non mi dispiace neanche ilnuovo ambiente, con quella sua luce così partico-lare e, soprattutto, col fresco d’estate.

Laboratorio di scultura

Sin da quando avevo otto anni, quello stanzone diduecento metri quadrati, tenuto in piedi da spes-si muri laterali trafitti da ampie finestre e percor-so da una doppia fila di pilastri di sostegno, fuuna vera e propria palestra che formò il miomodo di vivere e di vedere le cose.Quell’ambiente nel quale avevo lavoratocostruendo mobili e serramenti fu successiva-mente usato dapprima come esposizione dimobili e poi come deposito di materiali per mobi-li componibili che mio fratello Mosè aveva idea-to. Fu così che, per circa 20 anni, non misi piùpiede in quell’ambiente, sino al 1987 quando miofratello lasciò l’attività a suo figlio Eugenio ilquale, per esigenze di tipo logistico, lasciò liberoquello spazio adibito a magazzino.Proprietaria dell’immobile era ancora mia madre.Mi fu facile convincerla a lasciami quello spazioper il mio lavoro artistico. Quell’ambiente, in cuiavevo vissuto nella mia infanzia per quel lavoroanch’esso creativo dedicato al legno, faceva par-te della mia vita, e mi convinsi che il ritorno alleorigini, anche grazie a quell’ambiente, sarebbestato una scelta saggia. Non mi pareva logicobuttare alle ortiche tutti quegli anni di esperienzae di sacrifici che erano stati necessari per impa-153

rare il mestiere di falegname per poi operare solocome pittore. Ma soprattutto mi rammaricava dasempre il fatto di aver tradito le aspettative di miononno che aveva visto in me la continuità dellasua falegnameria. Ricordo e risento ancora oggiil rumore delle trasmissioni a cinghie di cuoioche sotto il pavimento collegavano le pulegge peril funzionamento delle macchine per la lavora-zione del legno. Un solo motore per far girarecinque o sei macchine, trincee scavate nel pavi-mento e coperte da tavole di legno che ogni tan-to dovevano essere tolte per sfregare una specia-le pasta all’interno di quelle cinghie in movimen-to, perché aderissero meglio sulle pulegge. Quan-ta polvere, quanta segatura, quanti trucioli e cheforte odore di olio e grasso surriscaldati!Il nonno Mosè veniva personalmente a controlla-re gli eventuali guasti, ripararli, e a ricoprire ilpezzo di trincea con quelle tavole quanto prima.In fondo al laboratorio erano collocati il trapanoe la smerigliatrice e quelle cinghie sbucavano dalpavimento per raggiungere le pulegge a tre metrida terra e ridiscendere alla base di quegli stranimarchingegni. Allora, gli aspiratori per la polve-re non esistevano e la polvere si accumulava suimuri intonacati grossolanamente e li colorava contonalità diverse, a seconda dei legni che si stava-no lavorando. Si diceva che la polvere di legnonon facesse male ai polmoni; anzi, sembrava chefosse quasi una medicina. Chissà se era vero!D’estate, fuori dalla finestra che guardava in cor-tile all’altezza di circa quattro metri, era in bellavista un pergolato di uva bianca che mio nonnocurava come un tesoro. Ogni tanto, nell’ora diriposo, mentre il nonno era solito fare il suo piso-lino pomeridiano, prendevo un lungo listello dilegno, incidevo un taglio alla sua sommità con lasega e, dopo aver infilato il gambo del grappolodesiderato dentro quella piccola fessura potevodiventare, con un leggero avvitamento, il padro-ne di quella delizia.E poi le ciliegie e i fichi: le strategie che elabo-ravo nelle pause di lavoro mi divertivano ed era-no la mia passione. Dovevano essere studiate inmodo che nessuno si accorgesse del furto, soprat-tutto il nonno. Ma ormai tutto questo è solo un

ricordo. Ora, quello spazio è solo una desolantetettoia di “Eternit” (foto 154).Tutto il cortile del laboratorio è stato coperto daquelle lastre. Solo il laboratorio è rimasto intattocon gli stessi intonaci che, malgrado imbiancati,risentono della familiarità di sempre. Le finestrealte, esposte a nord, guardano sul verde del parcoCavagna e su una casa in fase di costruzionedistante una cinquantina di metri.Ogni tanto il rumore delle auto che passano sullaVia Patrioti, poco oltre le finestre, rompe il silen-zio del laboratorio. L’ingresso che è di fronte allamia abitazione e attraversa la Via Cascina Frera ècostruito da un portoncino di legno alto due metrie mezzo e largo un metro, appena sufficiente perentrare e uscire con i miei materiali.La parete sud ha le finestre tutte cieche e una por-ticina che si apre sul quel vecchio cortile copertodai famosi “eternit”, e che da sempre ha avuto ilnome, un po’ cupo, di “capanù” (capannone).Lo spazio è diviso in quattro parti: una di quelleè adibita a laboratorio che in inverno è riscaldatoe che uso per fare lavori più puliti possibili perrespirare meno polvere possibile. Al centro c’èun banco da falegname su cui ho lavorato dall’etàdi quindici anni, (foto 155) quando da apprendi-

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sta divenni operaio, assumendomi di conseguen-za la responsabilità del mio lavoro.Un’altra parte viene usata come spazio per foto-grafare le mie opere e dove in futuro metteròqualche attrezzatura: (foto 156) vi è stata realiz-zata tutta la documentazione fotografica delle miesculture. Una terza parte viene usata come depo-sito e dove ho installato una scolpitrice per legnoe la “stanzetta delle meraviglie” dove ho colloca-to un po’ di tutto: (foto 157) vetri colorati, sassi,radici, legni, mattoni, conchiglie, chiodi vecchi,segature e altro. Nell’ultima parte sono collocatele opere finite più grandi, (foto 158) con una sca-la che conduce su un sopralzo dove sono esposteopere di dimensioni minori (foto 159).Vi è poi una stanza quadrata di sedici metri quadrati, da me chiamata “il pensatoio” e nella qua-le mi ritiravo generalmente per scrivere o perprogettare i miei lavori; ora la dovrò usare perriporvi altre opere (foto 160). Ho intenzione di

collocarvi, uno vicino all’altro, tutti gli alberi fis-sati su piastre di ferro e lasciare al centro uno spazio dove metterò un tavolino, e su di esso scri-verò i miei pensieri. La chiamerò “la stanza deglialberi” e su quel tavolino ci sarà sempre una pen-na e un diario per scrivere.

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Tutti mi dicono che il mio laboratorio di sculturaè grande, mentre io lo ritengo molto limitato;anzi, ogni giorno diventa sempre più stretto, tan-to che mi sembra di soffocare. Chissà che laProvvidenza mi aiuti ad avere anche parte o tuttodel piano superiore, per potervi collocare il lavo-ro finito e farlo diventare un ambiente aperto atutti coloro interessati a conoscere il mio lavoro.Il mio grande desiderio sarebbe di avere nel labo-ratorio i ragazzi delle scuole con i loro insegnan-ti e fare con loro conoscenza delle cose che,ormai divenute sculture, abitano il mio laborato-rio: io le ho viste nascere o apparire in qualcheangolo di bosco, o lungo il Brembo e il Quisa. Senon si conosce la loro origine, non è facile capir-ne il vero significato e la loro bellezza esterioreed interiore. E spesso, nel silenzio del laborato-rio, le sento bisbigliare tra di loro, come faccia-mo noi quando confabuliamo in cerchio per sve-larci a vicenda i nostri segreti.160

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IL COMPUTER

Mentre stavo mostrando all’amico e collegaAlfio Domenghini i primi risultati delle mie spe-rimentazioni al computer, fui investito da una tre-menda risata: “Eccomi di fronte a un matto che asettant’anni vuol mettersi a litigare con il compu-ter”. Gli risposi che la mia curiosità era più fortedelle difficoltà che sicuramente avrei dovutoaffrontare, e che malgrado ciò volevo tentarel’avventura..Vedevo in quello strumento diabolico grandipotenzialità a basso costo specie in relazione allafotografia. Finalmente potevo avere a disposizio-ne un collaboratore fedele che potesse seguirminelle mie fantasticherie.Anni fa avevo iniziato a fotografare soggetti del-la natura come alberi, particolari di legni tarlati,pietre da far volare nelle immagini dei miei cielidipinti, per costruire ambientazioni surreali:avrei voluto trasformare certe piazze della miacittà, facendo sparire monumenti per mettere alloro posto (foto 161) alcune mie installazioni, ma

i costi per ottenere i risultati da me desiderati era-no troppo alti. Misi tutto da parte, in attesa ditempi più propizi. Mi dotai così dell’attrezzatura necessaria conl’aiuto e la consulenza di amici e parenti. Nonche volessi lasciare la pittura e la scultura per

quel marchingegno ma volevo provare ad amplia-re ulteriormente la mia smania di conoscenza. Iprimi approcci furono traumatici, ma grazie alpaziente contributo dei soliti collaboratori volon-tari, tra cui, in quest’occasione, devo assoluta-mente ricordare mio nipote Gino Cavalleri e ilmio genero Maurizio, riuscii ad accedere a quel-le conoscenze di base che mi permisero di usareregolarmente i programmi più adatti al mio lavo-ro di composizione.Crebbe in me la convinzione di trovarmi davantiad un’altra svolta significativa e l’entusiasmo miportò a ricercare nuovi approfondimenti. Acqui-stai una buona macchina fotografica digitale perritrarre quei soggetti che potevano essere utiliz-zati per le elaborazioni che avevo da qualchetempo in testa. Mi sentivo ringiovanire e rinvigorire da quelleimmagini strappate con la macchina digitale sulpalcoscenico della natura, messe poi a nudo suquello schermo virtuale per essere elaborate,sezionate, deformate a mia volontà. Per circa unanno lavorai sodo per conoscere questi nuovimezzi regalatimi dalla tecnologia, consumandoun’infinità di cartucce d’inchiostro in prove esperimentazioni senza poter realizzare qualcosadi veramente valido. Oggi, nell’ottobre del 2003e nel mese del mio settantunesimo compleannomi sento come davanti a un nuovo progetto.Al contrario di quanto sperimentai nella pittura,quando, per ottenere un minimo risultato, dovevomettere in conto tempi lunghissimi per difficoltàtecniche e d’equilibrio pittorico, con questo nuo-vo strumento le soluzioni le ottengo più veloce-mente, con risparmio notevole di quel tempo che,alla mia età, è ormai diventato materia preziosa.Il monitor occupa il posto della tela, il mouse delpennello, i colori sono a disposizione su unatavolozza in sostanza infinita. In questo piacevo-le gioco ci si può liberare finalmente da tantilimiti imposti dalla tecnica e lasciare finalmentein mano alla creatività lo scettro del comandoassoluto.

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Cielo, Terra, Pietra, immagine digitale su carta fotografica, 2003

COME CONOBBIIL PITTORE CAPELLI

L’incontro con Angelo Capelli fu occasionale efortuito. Quando iniziai a dipingere da dilettante,frequentavo un corso di disegno per corrispon-denza, ma dato il mio impegnativo lavoro di fale-gname con alle mie dipendenze una decina traoperai e apprendisti, dovetti lasciare quell’espe-rienza. Continuavo però a esercitarmi con i testiche mensilmente ricevevo dalla stessa scuola,perché il materiale l’avevo già pagato anticipata-mente. Avevo letto anche alcuni manuali praticiper dilettanti di pittura nei quali si consigliava diuscire all’aperto per dipingere dal vero il paesag-gio. Fu così che un giorno mi recai con la miaFiat Giardinetta in quel di Clanezzo per dipinge-re un bellissimo scorcio del fiume Brembo, chein quella località è davvero molto suggestivo(foto 162). Dopo avere impiantato il cavalletto e

dopo aver appoggiato la tela, disegnai il soggettoe presi i colori per colorarlo. Nel bel mezzo del-le fatiche, sentii arrivare dietro di me una moto-cicletta che si fermò: dopo aver spento il motoresentii una voce sconosciuta che si rivolse a me.“Da quanto tempo è che dipingi”, mi chiese contono deciso. Io risposi che era una delle primevolte che facevo quella esperienza. Riprendendola parola, il motociclista mi chiese dove abitavo ese mi piaceva seriamente dipingere paesaggi. “Ioabito vicino alla chiesa di Villa d’Almè e faccioanch’io il pittore”, replicò. Dopo quella presenta-

zione confidenziale mi disse che quasi tutte ledomeniche partecipava a concorsi di pitturaestemporanea, organizzati in diverse località del-la Lombardia. “Tu che sei alle prime armi, sevuoi venire con me e partecipare a qualche con-corso, potresti imparare meglio e più in fretta.Immagino che quella Giardinetta sia tua. Conquella ci si potrebbe spostare liberamente; io, conil mio Galletto, quando piove, devo stare a casa erinunciare al concorso”. Capii che quell’autopoteva essere molto utile anche per lui, perciòcolsi al volo la fortuna di quel sottinteso invito.Devo dire che, pensandoci bene, quella Giardi-netta mi cambiò la vita perché senza di lei forsenon sarei arrivato così velocemente alla pittura.Dopo quel breve dialogo, da estranei diventam-mo colleghi e ci accordammo sui futuri program-mi. “Fra due domeniche vorrei partecipare a unconcorso in Valcuvia in provincia di Varese e sevuoi sono anche disposto a darti una mano perfarti capire come possono essere usati i colori”,mi disse. “E tu come ti chiami ?”, gli chiesi. “Iomi chiamo Angelo Capelli” rispose, e mi indicòl’indirizzo preciso dove ci saremmo trovati ladomenica successiva, di mattino presto. Fu unasimbiosi bellissima: lui aveva trovato un’automo-bile e io un maestro che mi insegnava i primirudimenti della pittura. Anche se sono stati pochigli anni che ci siamo conosciuti e frequentati gra-zie a quei concorsi, ho potuto però fare la cono-scenza di tanti artisti più o meno noti, e cosí cre-scere rapidamente nella tecnica pittorica. Agliinizi, per circa un anno, il mio operato fu fatico-so e deludente e a malapena mi capitava di esse-re accettato dalle commissioni giudicatrici.Capelli, al contrario, era già noto nell’ambiente enon mancava ogni tanto di vincere dei primi pre-mi. Io, spesso, mi sentivo come un intruso. Ma lamia testardaggine aumentava sempre di più e midicevo spesso che se avevano imparato gli altri,con la pazienza sarei riuscito anch’io. Quanticolori sprecati, quante tele imbrattate, quanti chi-lometri percorsi! Ricordo che una domenica par-tecipammo addirittura a tre concorsi contempo-raneamente. Finalmente incominciarono ancheper me le segnalazioni e i primi premi di conso-

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lazione. Un giorno arrivò il colpo di fortuna.“Domenica c’è un concorso molto importante aMilano”, mi disse Angelo, “e se vuoi parteciparepreparati”. Io risposi che forse era ancora prema-turo per me affrontare quell’impresa ma gli avreifatto volentieri compagnia con la Giardinetta,anche se ero indeciso se partecipare o no al con-corso. Il mattino presto, partimmo per Milano,diretti al Castello Sforzesco. Alla fine, decisiquasi per gioco di partecipare anch’io. Dopo averfatto timbrare le tele e aver ricevuto la merendadagli organizzatori, com’era previsto dal regola-mento, decidemmo di dirigerci verso la zona deiNavigli. Il titolo del concorso era “Primavera aMilano” e, con sotto agli occhi la visione poeticadi quei barconi sull’acqua, tentai di fare il mioquadro e lo intitolai “Primavera sul Naviglio”(foto 163). In quella occasione non mi sembrò difar tanta fatica per realizzare la mia opera, forseperché la mia coloristica di allora si adattava par-

ticolarmente a quel tema. Alle due del pomerig-gio consegnammo le opere. La commissione giu-dicatrice era composta da critici d’arte (tra cuinomi di prestigio, come Monteverdi e Degrada) eaveva il compito di stilare la classifica per la pre-miazione che era prevista alle sei di sera. Tutti gliartisti partecipanti alla manifestazione aspettaro-no con ansia l’esito del concorso. Angelo Capel-li era tra i favoriti. Si parlava già della sua pre-senza nella rosa dei premiati. A un certo puntofurono riconsegnate le opere agli artisti nonaccettati, fra i quali figuravano pittori tante volte

premiati in altre analoghe manifestazioni. Eratutto un fermento di voci sugli ipotetici premiatifino a quando una voce con tono serio e cerimo-nioso annunciò che da quel momento sarebberostati pronunciati i nomi degli artisti accettati epremiati. Si iniziò dal trentesimo premio fino allesegnalazioni. In quelle figurò anche il nome diCapelli con la sua opera. Io, in quel momento, rimasi disorientato perché ilmio nome non figurava né nelle accettazioni nénell’elenco degli scartati. Pensavo impossibile lamia ammissione nella rosa dei premiati, perchésapevo benissimo che le mie capacità erano piut-tosto limitate. Ormai pensavo che il mio quadrofosse per errore sparito dalla circolazione e perqualche imprevedibile circostanza neanche sotto-posto al giudizio dalla giuria. In quel momento,la voce annunciò i primi cinque classificati par-tendo dal quinto classificato, poi il quarto, il ter-zo, il secondo e poi finalmente il primo. Quasi mivenne un colpo all’annuncio dell’assegnazionedel primo premio al pittore Cesare Benaglia!“Ma non è possibile!” gridai, mentre AngeloCapelli mi veniva incontro, complimentandosicon me. Il premio consisteva in un assegno cir-colare del valore di duecentocinquantamila lire euna medaglia d’oro. Tenendo conto che, a quel-l’epoca, un operaio guadagnava mediamente sul-le settantamila lire al mese, si trattava di cifrapiuttosto considerevole. Sulla strada del ritorno,per festeggiare l’avvenimento, offrii la cena adAngelo e a un altro amico pittore, Solvetti di Ber-gamo, che aveva partecipato con noi al concorso.Arrivai a casa abbastanza tardi e trovai miamoglie dai suoceri che aspettava il mio ritorno.Ormai era abituata a quei miei ritardi domenica-li. Appena la vidi, come per calmarla, le raccon-tai subito del premio ricevuto e le consegnai l’as-segno. Lei lo guardò e mi disse: “Meno male cheoggi hai guadagnato venticinquemila lire, cosípotrai pagare i tuoi materiali per la pittura!”. “MaTiziana”, risposi ridendo, “guarda meglio l’asse-gno: sono duecentocinquantamila lire, non venti-cinquemila!”. In quell’attimo mia moglie scop-piò in un urlo che mi fece perfino impaurire. Ilcaso volle che proprio il giorno dopo scadessero

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i termini per la copertura di un mio assegno inbanca e, senza quei soldi, sarei stato in difficoltà.Talmente era dura la vita da imprenditore. Nonmi vergogno di dire che alla premiazione, nelprendere in mano quell’assegno, piansi abbon-dantemente, pensando alla divina Provvidenzache non mi aveva mai lasciato in asso.Da quel momento, la fiducia nelle mie capacitàcrebbe sempre di più e vinsi diversi premi in con-corsi anche importanti e quei risultati mi diedero

la forza e l’entusiasmo per continuare con pas-sione sulla difficile strada di questa mia vocazio-ne artistica. Adesso spero di poter vivere abbastanza per rea-lizzare un sogno che, per ora, può rimanere solonel mio cassetto: senza le necessarie possibilitàfinanziarie non è possibile che ciò avvenga. Maho sempre avuto fiducia nella provvidenza e cre-do che, come a Milano quel giorno, mi aiuteràancora.

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COME CONOBBI ONO KAZUNORI

Conobbi Ono alla Galleria d’Arte Fumagalli diBergamo: era presente con alcune sue opere inoccasione di una collettiva d’arte. Rimasiimpressionato dai suoi lavori e dalla sua presen-za personale: un tipo di giapponese strano, alto distatura e carismatico nel portamento. A quell’e-poca aveva lo studio a Milano, ma in quell’occa-sione mi espresse il desiderio di venire ad abita-re a Bergamo perché trovava nella nostra città unambiente molto tranquillo, circondato da parchiverdi che gli davano la possibilità di passeggiarea volontà a contatto con la natura.Era amante della vita all’aria aperta perché il suolavoro ormai stava avvicinandosi sempre più aduna filosofia naturalista. Dopo quel primoapproccio gli diedi il mio indirizzo nel caso aves-se avuto bisogno di aiuto per mettere su casa estudio in città. Un giorno si fece sentire e mi chie-se se potevo aiutarlo. Io, in quel periodo, dipin-gevo quadri ma avevo ancora l’attività artigianalecome mobiliere e gli assicurai che, se avesse avu-to bisogno di arredare la propria casa e lo studio,non ci sarebbero stati problemi.Gli procurai tutto il necessario con pagamentodilazionato nel tempo, perché la sua professionenon gli permetteva di pagare subito. Quel legamefinanziario ci rese amici e continuammo a fre-quentarci scambiandoci pareri anche sul nostrolavoro artistico.Era un artista che lavorava tanto la notte perché ilsilenzio si addiceva alla sua creatività. A causadel troppo lavoro si ammalò ai polmoni, tanto daessere ricoverato all’Ospedale Maggiore di Ber-gamo per ben sei mesi.Io ero il solo amico italiano che potesse aiutarlo,perciò dovetti seguirlo in tutte le fasi di quellasua lunga malattia fino alla completa guarigione.Furono per lui momenti molto duri, ma per for-tuna tutto si risolse positivamente. Ricordo chedovetti firmare in Questura a Bergamo unadichiarazione di responsabilità per la sua perma-nenza in Italia. Anche per questo, penso, egli miè stato sempre riconoscente. Dopo quella malattia ritornò al suo lavoro artisti-

co e dopo poco tempo fece venire dal Giapponela moglie Nobuko e la figlioletta Satoko. Spessole domeniche c’invitavamo per passare la giorna-ta assieme ai nostri figli, oppure si andava in Val-le Seriana, nella zona di Clusone, in cerca di fun-ghi. Quella permanenza durò diversi anni. Poi,con tutta la famiglia, egli tornò in Giappone.Dopo circa un anno, con nostra sorpresa, citelefonò da Milano avvertendoci che il giornosuccessivo sarebbe venuto a trovarci. Arrivò almattino dopo e ci disse che avrebbe dovuto ese-guire delle opere per un suo amico tedesco. Noigli offrimmo la nostra casa e lo spazio nel labora-torio per il lavoro; fu molto contento di quell’o-spitalità in cambio di un piccolo contributo men-sile per le spese. Quella permanenza si rivelò mol-to utile anche per i nostri figli perché vedevano inlui un buon consigliere e un uomo che aveva gira-to il mondo e poteva raccontare tante esperienze.Sapeva comunicare con loro più di noi genitori ediscutere i loro problemi con una sua particolarefilosofia orientale che li incantava. Specialmenteper mio figlio Lucio, Ono è stato di grande aiutoper alcune importanti scelte di vita e per noi geni-tori fu provvidenziale la sua presenza. Intanto iltempo passò in fretta e, finito il suo programma dilavoro, fece un viaggio a Parigi e in Germania perrecarsi dal suo sponsor tedesco al fine di portarglitutta la documentazione fotografica dei lavorieseguiti in quel periodo. Ritornò molto contentoper aver ricevuto il solito compenso necessarioper continuare nelle sue ricerche artistiche. Fumolto fortunato per aver trovato una persona chelo aiutasse finanziariamente, ma posso dire che lomeritasse largamente per la serietà con cui vivevae portava avanti il proprio lavoro. Le sue scelteerano severe ed intelligenti, tanto che riuscì adinfluenzare anche alcune mie scelte in campo pro-fessionale. Da buon falegname gli preparavo isupporti per le opere ma, nel medesimo tempo,capivo che la sua presenza era molto utile per lamia creatività; ormai c’eravamo affezionati l’unl’altro. Venne purtroppo il giorno della partenzaper il Giappone. Tutta la famiglia sentì la suamancanza. Dopo circa un anno ci telefonò dalGiappone dicendoci che aveva bisogno di ritorna-

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re per un periodo di tre mesi e chiedendoci sepotevamo accoglierlo ancora in casa nostra pereseguire alcune opere. Noi fummo felici per quel-la sua richiesta e accettammo di buon grado la suadomanda di asilo. Dopo pochi giorni arrivò contutti i bagagli; io gli lasciai sempre il suo spazionel mio laboratorio per il suo lavoro e così iniziòper me una seconda esperienza provvidenziale acontatto con quella persona tanto preparata (foto164). La collaborazione e lo scambio reciproco di

preziose esperienze continuarono ancora perqualche mese. Ono era una persona molto gene-rosa con tutti i suoi amici e capivo che tutti lo sti-mavano. Un giorno venne a fargli visita un amicogiapponese. Aveva una bellissima macchina foto-grafica, e Ono lo convinse a regalarmela in cam-bio di una mia opera da portarsi in Giappone. Unaltro giorno, un altro giapponese, il sig. TakashiSakai, disegnatore artistico di stoffe per arreda-mento e abbigliamento, che era suo amico, vennein casa nostra e rimase colpito dal nostro paesinoe da Bergamo. Disse allo stesso Ono che glisarebbe piaciuto abitare qui per uno o due anni alfine di avere nuove ispirazioni per il suo lavoro;cercammo cosí, nella nostra cerchia di amicizieun piccolo appartamento per questo nuovo amico;tutto si risolse velocemente. Sakai ripartì per ilsuo paese e disse che sarebbe tornato presto pervivere in quell’appartamentino da noi ammobilia-to. Ormai anche Ono, finito il suo lavoro, lo docu-mentò fotograficamente. Partì poi per la Germa-nia e tornò con il suo solito contributo per inizia-re un progetto di lavoro di cinque anni: la sua idea

era di acquistare un fuoristrada e viaggiare in lun-go e in largo nel suo Giappone per raccogliereinformazioni sull’arte popolare delle diverseregioni, per poi sintetizzare il tutto in un successi-vo progetto artistico.In quel periodo (era il 1988) era stata appenainaugurata la Biennale di Venezia. Da quandoscelsi di fare l’artista, non mancai a nessuna del-le Biennali veneziane. Vi andavo, di solito, incompagnia di colleghi e amici, con una gita diuna sola giornata, anche per questioni di caratte-re economico. Ono m’invitò tre giorni a Veneziaper visitare la città, i musei e per partecipareall’inaugurazione della stessa Biennale d’Arte(foto 165). Fu un’esperienza molto significativa

perché egli mi fece conoscere, all’inaugurazionedel padiglione giapponese, giornalisti, critici eregisti del Sol Levante, tutti suoi amici e inviatidal governo nipponico per documentare la ceri-monia di apertura del padiglione. Fu un’occasio-ne unica che non potrò mai dimenticare e mimeravigliai di come Ono conoscesse quei perso-naggi tanto importanti e influenti dell’arte e del-la cultura del suo Paese.Alla sera ci trovammo in Piazza S. Marco doveincontrammo il critico d’arte Giorgio Mascherpae, più tardi, andammo a cenare al ristorante“Colombina” dove era presente gran parte delladelegazione giapponese. Godemmo quei tre gior-ni pieni di cultura e nel tardo pomeriggiolasciammo l’albergo prendendo il battello gremi-to di gente. Ono mi consigliò di fare attenzione alportafogli perché sapeva che, in quella calca, si

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poteva essere derubati con facilità. Io lo sistemainella tasca più sicura e, arrivati al piazzale dellastazione, vidi il viso di Ono impallidire e gli chie-si se si sentisse bene. Nello stesso tempo si agita-va come se stesse cercando qualche cosa. “Mihanno rubato il portafogli” gridò mentre cercavain tutte le tasche possibili e nella borsa che avevaa tracolla. Ma del portafogli nessuna traccia.Facemmo regolare denuncia alla polizia ferrovia-ria e tornammo a casa in treno, muti e ancora in-creduli dell’accaduto. Ono stette male per unasettimana. Poi si riprese da quell’esperienza chefu molto negativa per la sua sensibilità raffinata.La perdita del denaro, oltre settecentomila lire, edei documenti - che dovette denunciare e far dupli-care - gli diedero qualche grattacapo burocraticoche rese un po' amaro il ricordo di quel soggiornoitaliano. Poi, fece i bagagli e mi chiese di accom-pagnarlo a Milano. Un suo amico scultore, Hide-toshi Nagasawa, pure lui giapponese, lo avevainvitato a passare l’ultimo giorno di permanenzain Italia nella sua casa. Nel pomeriggio, assieme aimiei figli, lo portammo con la nostra automobilein quella città e restammo in compagnia fino asera. Al momento di lasciarci, dopo esserci guar-dati negli occhi, mi venne una crisi di pianto checontagiò anche Ono. Ci scambiammo un saluto eio, senza più parole, scesi velocemente le scaleaspettando i miei figli in strada per tornare a casa.Quella separazione aveva il sapore dell’addio masperavo che ci saremmo rivisti ancora.Pochi giorni dopo la sua partenza arrivò l’altrosuo amico Sakai come previsto. Anche lui, comeOno, fu ospite regolare della nostra famiglia apranzo e a cena. Fu una piacevole compagnia per-ché era una persona molto gentile e generosa. Neiprimi momenti, perché non conosceva abbastan-za bene la nostra lingua, con il vocabolario allamano si sforzava nel farsi capire. Tutto ciò fu puredivertente e portò allegria nella vita di tutti noi.Quella sua permanenza fu molto prolifica per ilsuo lavoro perché aveva trovato l’ambiente idealeper l’ispirazione. Ogni tanto faceva viaggi a Pari-gi e a New York per proporre ai suoi clienti le suenuove creazioni, portandosi dietro giganteschecartelle contenenti disegni bellissimi, molto

apprezzati: a mio avviso vere e proprie opered’arte. Un giorno arrivò sua moglie con una figliae stettero con lui circa una settimana. La crisieconomica giapponese era in quel periodo moltoforte e, dato che aveva lasciato in altre mani l’am-ministrazione della sua azienda in quel Paese, vidovette tornare presto per risolvere incombentiproblemi. Ci dispiacemmo per quella partenzaobbligata. Però eravamo tutti molto soddisfattiperché sapevamo che quel soggiorno in Italia erastato per lui molto importante e prolifico.Un giorno, partito l’amico Sakai, Ono mi telefonòdal Giappone per chiedermi se sarei stato dispostoad andare da lui per aiutarlo ad eseguire un gran-de affresco per l’università di Kyoto. Mi disse chesarebbe stato molto contento se avessi accettato.Gli risposi che sarei stato in grave difficoltà sapen-do che la mia salute delicata non avrebbe retto aquell’improvviso cambiamento di ambiente.Sarebbe stata un’esperienza molto utile per il miolavoro, ma non volli rischiare. Al termine di quel-l’impegnativo lavoro, per premio gli offrirono unviaggio in compagnia di un gruppo di insegnantidella stessa Università per visitare le fabbriche chefornirono i materiali per quel lavoro e per visitarei musei italiani più rappresentativi. Un giorno rice-vetti da Firenze una telefonata dello stesso Onoche mi avvertì che il giorno dopo sarebbe passatoda noi. Arrivò puntualissimo e abbastanza adiratocon quei professori: disse che loro volevano sol-tanto andare a zonzo per le città anziché visitaremusei e fabbriche. Perciò si separò da loro e fuggìa Bergamo. Disse che era stanchissimo e demora-lizzato per quell’esperienza. Stette da noi cinquegiorni, ospite in casa nostra. Parlammo dei nostri progetti, delle rispettivefamiglie e dei diversi problemi sociali del suo edel nostro Paese. A lui piaceva molto parlare contutti per conoscere tante cose. Le giornate passa-rono velocemente. A Bergamo salutò pochi ami-ci, solo i più stretti. Al termine del suo soggior-no, mi ficcò in mano cinquecentomila lire e midisse: “Sai, Cesare, questi soldi li dovevo spen-dere con quei professori, ma credo che siano piùutili a te che a loro. Ora sono tuoi”. Da allora cilasciò promettendoci che sarebbe tornato ancora

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con la moglie Nobuko e la figlia Satoko. Miricordo, come se fosse oggi, di una passeggiatafatta assieme a loro nei boschi di Clusone allaricerca di funghi (foto 167). Satoko era stata pun-ta da alcune api le togliemmo due di quegli inset-ti dai capelli mentre lei saltava di qua e di làurlando come una belva inferocita. Sento congrande nostalgia la mancanza dei racconti diOno, delle storie affascinanti e degli aneddoti delsuo Paese natio, dei ricordi della sua infanzia edelle sue scelte che lo portarono a fare l’artista.La sera, immancabilmente dopo cena, seduti atavola, ascoltavamo quei racconti mentre le orepassavano velocemente e, alla fine, ci congeda-vamo dandoci la buona notte; noi andavamo nel-le nostre stanze a dormire mentre lui scendeva alpiano terra, nel suo spazio, per continuare a scri-vere o a lavorare.Andavamo sempre molto d’accordo, forse perchésia io che lui amavamo alla stessa maniera ilnostro lavoro. 167

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Opera lasciatami dall’amico e collega Ono Kazunori, 1989

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L’AMICO LONTANO

Una sera dal cielo terso con tanto di luna piena,sopra una Ostuni illuminata dai lampioni dellemura, ci accolse con la sua famiglia al completo,dopo che avevamo fatto un viaggio di mille chi-lometri sulla nostra Fiat Uno. Quella toccanteimmagine mi è rimasta stampata nella memoriacome un punto di riferimento quando devo sfo-gliare il registro delle mie amicizie (foto 168).

Alla lettera C della rubrica, alla riga CiccareseDino, eccola ancora lì quella remota luna, quelpresepe naturale disegnato da luci di sogno; èbello ricordare gli amici in un così favoloso con-testo.Tutto iniziò nel 1967 quando l’amico Cesare Arti-na lo portò nel mio studio di pittura in occasionedi una visita di cortesia: fu la prima stretta dimano che ci legò in una profonda e sincera ami-cizia fino a oggi. Allora economo della Casa diriposo per anziani di Brembate Sopra, paese con-finante con il mio, era arrivato dal Meridione permotivi di impiego e per la voglia di fare nuoveesperienze: fu tanto entusiasta del mio lavoro cheben presto volle acquistarmi alcune opere. Torna-to nella sua terra, dove aveva trovato impiegopresso l’assessorato alla Cultura della RegionePuglia, mantenne la promessa fattami di tenersi incontatto con me e con il mio lavoro (foto 169). Grazie a lui, in occasione di alcuni viaggi cheintrapresi alla volta di Ostuni insieme con miamoglie e i figli, potei scoprire le bellezze dellasua terra, del suo mare e, specialmente, il calore

della sua ospitalità. Ricordo ancora le lunghe pas-seggiate in vere e proprie foreste di ulivi monu-mentali, forse tra i più belli d’Italia, con quelleloro forme così nobili quanto segnate dal tempo.Dino ci portò a visitare siti archeologici, le grottedi Castellana, le cave di tufo bianco, i trulli diAlberobello e tanto altro. Sono passati più di tren-tacinque anni da quando ci siamo conosciuti, mala nostra amicizia non è mai venuta meno, mal-grado la distanza geografica che ci separa. Dino èun valente scrittore che ha alle spalle numerosepubblicazioni a sfondo culturale, storico e socia-le. Diverse sono state le volte in cui mi chiese diillustrare i suoi libri con mie opere. I temi sonostati i più svariati, dagli ulivi ai costumi religiosied alle tradizioni ostunensi, dalla storia dell’eco-nomia locale all’analisi di aspetti della vita socia-le e culturale tipici della realtà meridionale.Molte di più sarebbero state le possibilità di col-laborazione se non fosse stato per i limiti impostidalla distanza e dai miei sempre numerosi impe-gni in campo artistico. Ma conoscendo l’infatica-bile attività letteraria di Dino, credo che insiemeavremo ancora occasione di affrontare altreavventure, e lasciare così ai posteri il risultato didue fedeli amicizie.

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Teschio, pietra dai campi di Ostuni, tavola in legno di pero, cm 53x40x8, 1994

ALBERTO MELI

Da una telefonata seppi che l’amico e collegaAlberto Meli aveva concluso la sua vita terrena:un altro amico che non potrò più rivedere. Nel1979, nella galleria La Roggia di Palazzolo sul-l’Oglio condotta dall’amico gallerista MarioPedrali, vidi una sua scultura esposta in una col-lettiva. Rimasi sorpreso: ammirando la sua ope-ra, scoprii quanto era vicino al mio modo di rap-presentare la natura. Dissi a Pedrali che avreivoluto conoscere il Meli di persona: lui fece mol-to di più perché riuscì ad organizzare una mostradi sculture sue in abbinamento con altrettantemie opere ad olio: fu per me un evento cheampliò ancora di più le mie prospettive di lavoro,forte dal fatto di poter essere vicino a un artistacompleto come lui; fu un vero successo di pub-blico e di critica, assicurato dall’abilità organiz-zativa del gallerista (foto 170).

La sorpresa più grande fu dopo aver allestito lamostra: osservando le opere e pur non conoscen-doci, le nostre visioni erano identiche; dopo averdocumentato con una cinepresa i passaggi dell’o-perazione in tutti i suoi particolari, emergevanosempre di più due anime gemelle. Il Meli mi confessò che quella era la prima per-sonale dopo l’Accademia Carrara, dove avevastudiato arte. Solo con il pittore Mario Signori ingioventù aveva esposto in una galleria; era unartista schivo e rifiutò inviti a mostre in ambien-ti importanti perché affermava che erano una per-dita di tempo. Quel personaggio originale e geniale riuscì a get-

tare in me un seme che poco tempo dopo germo-gliò nell’idea che anch’io potevo fare lo scultore:in quel periodo, mio fratello stava per cessare lasua attività di standista, e di conseguenza fu libe-rato un ambiente adibito a magazzino; fu l’occa-sione propizia per farmi un buon laboratorio einiziare così quell’attività da me desiderata. Cer-to non potevo pretendere di possedere le capacitàdi Alberto, che dalla Carrara aveva ricevuto tuttequelle nozioni necessarie ad un artista per svi-luppare i sogni: io alle mie spalle avevo le vec-chie esperienze di lavoro da falegname, unicaarma da sfoderare; credo che quel coraggio siastato utile perché ora posso dire di essermi diver-tito e appagato.Ogni tanto passavo da casa sua per caricarmi lospirito: la moglie Ester voleva che restassi a pran-zo; quelle chiacchierate attorno al tavolo furo-no molto profique (foto 171): raccontava dellacollaborazione col grande Jan Arp in Svizzera,

e delle amicizie con maestri di quell’epoca inquel fortunato tempo durato una decina di anni;lei amava molto il lavoro del marito e il fatto diessere una valente pittrice dotata di forte sensibi-lità artistica, le è stato di aiuto specialmente negliultimi anni di vita. In quel periodo c’era anche il loro figlio adottivoche tanto adoravano e che purtroppo rimase vitti-ma di un incidente stradale: quella disgrazia perAlberto fu un duro colpo. Anche lui rimase tra lavita e la morte dopo essere stato investito daun’auto mentre attraversava la strada principaledel suo paese: appena uscito dall’ospedale, miraccontò di aver vissuto quel momento come un

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sogno: aveva visto una gran luce che lo attirava,poi si era sentito uscire dal corpo e dall’altovedeva la gente che accorreva per chiedere del-l’accaduto; poco dopo disse di aver ripreso cono-

scenza ma in uno stato confusionale; ripeteva chela sua era stata una guarigione miracolosa. Quan-do la raccontava i suoi occhi vivaci brillavano diuna commozione che faceva tenerezza.La sua morte lascerà un vuoto materiale, ma leopere rimarranno a raccontare le storie della suagenialità e - per chi lo ha conosciuto - anche lasua grande umanità. L’ultima volta che ci siamolasciati fu nel primo banco a destra nella suachiesa dove assistevamo insieme con Ester allamessa, in occasione dell’inaugurazione delmuseo delle sue opere, un paio di mesi fa.Non avrei mai immaginato che quelli erano pro-prio gli ultimi sguardi che potevamo scambiarci.La sua morte fu repentina, senza lunghe soffe-renze, come credo desiderava:tutte le opere da luistesso donate al museo sono ormai al sicuro inquel luogo pubblico che il suo Comune gli hadedicato e dove la gente le potrà ammirare (foto172). Credo che questa sia una fortuna che ogniartista possa augurarsi; certamente Meli se lomeritava largamente per le sue doti eccezionali,inoltre le opere della fedele Ester, compagna del-la sua vita, sono anch’esse presenti in quell’am-biente, a testimoniare quanto si sono aiutati l’unl’altro.

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UNA MORTE PREMATURA

Il collega e amico Gerry Gervasoni mancò pre-maturamente dopo una grave malattia (foto 173).Gerry veniva spesso a farmi visita nel mio studioed era tanto felice quando poteva assistere eseguire da vicino il lavoro che stavo facendo:anche lui, con la pittura, aveva il pallino dellaricerca. Per questo tante nostre idee erano simili.Era un personaggio dolce e amante della natura equando anch’io andavo a fargli visita, dopo chemi aveva sottoposto le sue ultime creazioni pitto-riche per un parere, mi divertivo vedendolo pre-parare bevande a base di erbe aromatiche e a suodire medicinali. Il tempo passava velocemente ein quei minuti le discussioni si accendevano ani-matamente specie su come avremmo voluto rea-lizzare, ognuno per nostro conto, i nostri lavorifuturi, confidandoci a volte anche alcuni segretiprofessionali. In estate trascorreva le vacanze alsuo paese nativo in Valle Brembana, a Baresi, emi invitava con la famiglia per qualche scampa-gnata; una volta portai con me l’amico pittoreAngelo Capelli e in quella occasione Gerry ciaccompagnò su una vicina montagna. Fu vera-mente uno spasso quella memorabile scampa-gnata e Gerry, tra una barzelletta e l’altra, ci fecescordare le fatiche della giornata (foto 174).A stagione inoltrata una sera mi telefonò chie-dendomi se potevo passare dal suo studio per unparere su alcune opere che doveva presentare inuna nostra personale al Circolo Artistico di Ber-gamo e se lo potevo fare con una certa urgenza:in quell’occasione sentii la sua voce stranamente

cambiata, tanto che pensai, al momento, cheavesse bevuto un bicchiere di troppo. Quandoandai a visitarlo, gli chiesi spudoratamente, emettendola sul ridere, se era stato cosí.“Sai, Cesare, io non bevo mai alcolici. È unperiodo che non sto tanto bene; se tu potessi aiu-tarmi a preparare la personale che dovrò allestire,te ne sarei molto grato” mi disse. In quel periodolavorò come un forsennato, tanto che gli consi-gliai di darsi una calmata. Intanto, giorno dopogiorno, capivo che faticava sempre di più a par-lare. “Ma Gerry!”, gli chiesi, “ma cosa ti sta suc-cedendo?”. “Caro Cesare”, replicò, “mi hannodiagnosticato un brutto male, che inesorabilmen-te mi porterà alla paralisi completa. Soffro disclerosi multipla a placche. Ecco perché devofare molto in fretta per presentare le mie opere”.Anche se non capii che malattia fosse, rimasiimpressionato da quella sua previsione. Nono-stante la grande fatica riuscì a concludere bril-lantemente la sua mostra personale.Il termine di quella mostra, felicemente conclu-sasi, segnò l’iniziò del suo calvario. Nonostantetutto, guardando i suoi occhi, s’intuiva la suagioia di vivere e l’aria serena che il suo sguardoemanava mi lasciava esterrefatto. Dopo pochigiorni, per raggiungere il suo studio al primo pia-no dovette usare il bastone e, progressivamente,dovette farsi accompagnare perché da solo nonriusciva più ad affrontare alcun gradino. Da quelmomento, una giovane assistente sociale sioccupò del suo caso e diede una mano in famiglia

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per assistere Gerry nella sua condizione ormai diassoluta dipendenza dagli altri.Era amica di sua moglie e ancora oggi non so sefu quello uno dei motivi che portarono in seguitola moglie ad abbandonarlo. Dopo poco tempol’infermità alle gambe ebbe il sopravvento e cosìfu costretto in una carrozzella. Perse poi la paro-la e per farsi capire acquistò un apparecchio par-ticolare per scrivere dei messaggi. Ormai anchele mani persero la loro mobilità e per premere itasti di quell’apparecchio si fece mettere un con-gegno fissato al mento. Alla fine, anche la testaperse capacità di movimento e perciò quell’appa-recchio non servì più a niente. Rimaneva sempre il problema, per lui, di potercomunicare. Pensò di farsi applicare un piccolofaretto sul viso per illuminare le lettere dell’alfa-beto e i numeri posti su un tabellone appeso a unmuro del suo appartamento. Lettera dopo lettera poteva costruire una parola eformare una frase. Un po’ con l’intuizione, unpo’ con lo sguardo, un po’ con il paziente aspet-tare, alla fine il messaggio arrivava a destinazio-ne. Per me, quegli incontri erano un’esperienzatragica. Quando andavo a fargli un poco di com-pagnia, potevo solo godere dell’intensità del suosguardo dolce e sereno, ancora più di prima.Ogni tanto Antonella, l’assistente che gli erasempre accanto, lo portava in carrozzella fino almio laboratorio (foto 175). Gerry era tutto con-tento nel vedere i lavori che stavo facendo e inquella carrozzina che lo teneva prigioniero segui-

va avidamente con gli occhi tutti i movimenti chefacevo, come per rivivere i momenti passatiinsieme nelle circostanze più fortunate.Con l’amico scultore Ugo Riva organizzammouna sua mostra personale in una galleria di ViaBorgo Santa Caterina in Bergamo al fine di recu-perare qualche soldo che serviva per il suo fabbi-sogno: fu molto contento anche per il ricavato,che gli era tanto necessario. Tanti amici furonopresenti all’inaugurazione e acquistarono qual-che sua opera. Da Bergamo, Gerry si trasferì aLonguelo, in un appartamento più adatto alle suenecessità. Si era avvicinato di più a casa mia, per-ciò potevo andare a trovarlo più frequentemente.Intanto, intorno a lui si era creata tutta un’orga-nizzazione umanitaria e di volontariato che, sor-retta e guidata dal lavoro di Antonella, gli permi-se di avere la continua assistenza necessaria spe-cialmente negli ultimi tremendi periodi della ter-ribile malattia (foto 176). Dopo tante sofferenze,

Gerry si spense come fa una candela dopo averconsumato tutta la sua materia.Dopo i suoi funerali la salma fu trasferita al cimi-tero di Baresi, suo paese natale. Io e diversi altriamici lo accompagnammo durante il suo ultimoviaggio terreno. Ho sempre conservato un fortericordo della sua amicizia e nel mio orto, do-po tanti anni, raccolgo ancora more nere, gros-se e saporite, da una pianticella che un giornoGerry mi portò ancora piccina da Baresi; fu unregalo inaspettato e frutto della sua intuizione.Era sicuro che oltre ad essere utile, mi avrebbefatto piacere.175

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UNA CASA A MARSALA

Nel 1969 ero stato invitato a partecipare ad unamostra collettiva di pittura che si svolgeva a Mar-sala, in Sicilia, e in quella occasione il mio qua-dro fu venduto. Poco dopo, la stessa mostra fupresentata nelle sale della Permanente di Milanoin Via Turati. La sera dell’inaugurazione venniavvicinato da un certo Cavarretta, che era l’orga-nizzatore delle due mostre. Cercava artisti cheaccettassero l’invito ad andare per dieci giorni inquella città, con vitto alloggio e viaggio spesati,per realizzare un quadro delle saline che poisarebbe stato acquisito dalla pinacoteca locale.Io accettai all’istante quella offerta, ma a condi-zione di poter portare altri due amici pittori. IlCavarretta accettò dopo averlo assicurato chesarebbero stati comunque artisti validi. Allorachiesi agli amici Angelo Capelli e SimoneMorelli, che accettarono volentieri quella raraofferta (foto 177). Ci organizzammo e partimmo

alla volta di Genova per prendere la nave carichidi tele, cavalletti, colori e tanta voglia di fare. Fuuna traversata bellissima. Sbarcammo a Palermoche era quasi notte e, non trovando alloggio,dopo aver girovagato nel centro storico, ci fer-mammo sulla piazzola di un distributore di ben-zina e dormimmo in macchina. Al mattino prestolasciammo Palermo e per incantevoli stradepanoramiche arrivammo a Marsala all’indirizzodi un certo albergo: trovammo ad attenderci ilCavarretta che, premuroso, ci accompagnò nellahall dell’hotel e ci anticipò il programma della

giornata e di quelle successive da sviluppare incompagnia di altri artisti arrivati da altre località.Il mattino successivo scendemmo nella hall e tro-vammo seduto su una poltrona il professor Lon-garetti, allora direttore dell’Accademia Carraradi Bergamo. Meravigliato della nostra presenza,ci salutò e ci chiese come mai ci trovassimo lì:“Presumo che sia per lo stesso motivo per cui leisi trova qui” gli risposi. Nei primi due giorni, gliorganizzatori ci portarono all’isola di Mozia peruna visita al Museo Archeologico, poi nelle sali-ne per scegliere il soggetto da dipingere e dalasciare alla pinacoteca. Da quel momento inavanti, dato che avevamo la nostra automobile, cirendemmo autonomi e così, dopo aver consegna-to la nostra opera, ce ne andammo a zonzo per ifatti nostri, liberi come fringuelli e carichi di telee colori per dipingere a più non posso sotto quel-la luce e con quei colori incredibili. Un giorno,mentre eravamo alla ricerca di un soggetto per inostri dipinti, ci imbattemmo in un gruppetto dilavoratori che mangiavano seduti sul ciglio dellastrada: avendo visto la targa bergamasca dellanostra automobile, ci invitarono a mangiare unboccone e a bere con loro. Ci offrirono del vinobianco eccezionale e, dopo aver parlato del più edel meno, ci lasciammo per continuare la nostraricerca di un buon paesaggio da dipingere.Il mattino successivo ci alzammo presto e, dopoun’abbondante colazione, sempre con la nostraautomobile ci dirigemmo verso colline dalle for-me stupende: i colori risultavano intensi, le terredei campi erano di svariate tonalità; a pochissimadistanza si vedeva un appezzamento di terrenoquasi nero, a fianco un altro quasi rosso, poi unogrigio e ancora uno quasi bianco. Era come uncollage di infiniti colori. Io, abituato al mio pae-saggio dai colori pastello e a volte nebbioso, tipi-camente lombardo, non riuscivo in un primomomento a recepire quel messaggio forte daicolori accesi. Fu un’esperienza molto positiva eche stava segnando, forse, una svolta per la miaabituale coloristica: i rossi erano veramente ros-si, cosí come i blu ed i verdi. Non c’era bisognodi modificarli mischiandoli con bianchi e neri,tanto la natura era così forte nei suoi contrasti.

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Mi sentivo quasi incapace di usare i colori, ma ilcontatto con questa natura fu per me uno stimolodecisivo.Quella stessa mattina accadde un fatto che ebbedell’incredibile e che, ancora oggi, mi lascia sen-za parole. Decidemmo di dipingere un paesaggioche ci si era presentato di fronte improvvisamen-te, durante il nostro vagabondare in automobile.Impiantammo i nostri cavalletti per iniziare illavoro: (foto 178) gli amici iniziarono subito,mentre io, ancora indeciso sul soggetto da dipin-gere, fui attratto dalla forma di una vicina villet-ta e da certe sagome di alberi che la contornava-no. “Io mi sposto per dipingere quel soggetto!”

dissi agli amici. “Fai pure!” risposero loro. Cosìio mi diressi verso quella casa, impiantai il miocavalletto e mi misi a dipingere quel soggetto.Dopo circa mezz’ora, mi accorsi che un signoree una signora mi stavano osservando. Li salutai eloro, come stupiti, incominciarono a pormidomande su chi fossi, cosa facessi lì, da dovevenissi. Intanto i miei amici che si trovavano auna certa distanza, vedendomi parlare con questiestranei ormai da tempo, per paura che ci fossequalche problema si erano avvicinati per vederecosa stava succedendo. In quel momento, questidue signori mi chiesero come mi chiamavo e dis-si a quei signori il mio nome. Loro si guardarononegli occhi ed esclamarono: “Non eravamo sicu-ri, vedendo la coloristica del suo quadro, che fos-se precisamente quello che pensavamo”. “Per-ché”, esclamai, “posso sapere che cosa pensava-te?”. “Signor pittore Benaglia, in quella casa cheè la nostra, noi teniamo un quadro che avevamoacquistato in occasione di una mostra qui a Mar-sala e ora le possiamo dire che è opera sua!”. Io,i miei amici e quei signori ci guardammo negliocchi ed esclamammo: è proprio incredibile.

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SEGNALI MISTERIOSI

Lo scultore Costante Coter, i pittori Carlo Cioc-ca, Italo Ghezzi e Pino Buelli lo scultore meda-glista Ettore Calvelli sono stati gli amici piùanziani che frequentavo all’epoca dei concorsi dipittura. Il primo a mancare è stato lo scultoreCostante Coter cui andavo a far visita nella Casadi riposo di Seriate durante gli ultimi anni di vita;il primo artista che vidi dipingere all’aperto fusuo figlio Francesco che in Borgo Canale di cittàalta, stava dipingendo lo scorcio di una via sopra-stante dove in primo piano figuravano gli alberiche sembravano dei personaggi (foto 178). Quan-

do morì, i suoi figli mi avvisarono e fui presenteai suoi funerali. A questo personaggio illustre èlegata la mia decisione di cambiare il mio pseu-donimo da Cesare Benaglia Siser Bena a Benaia.Quando mancò il pittore Italo Ghezzi non riceve-vo più L’Eco di Bergamo, il giornale quotidianodi cui ero stato abbonato per anni. A suo tempodecisi, per motivi economici, di rinunciare aquell’abbonamento. Ogni tanto, quando capitava,andavo ad acquistarlo in edicola. Proprio il gior-no che lo acquistai, per puro caso, vidi l’annun-

cio della morte dell’amico Ghezzi in tempo perpartecipare ai suoi funerali (foto 179).L’amico Ghezzi, fino a tarda età, era stato il segre-tario del Circolo Artistico Bergamasco, unicaassociazione di artisti di Bergamo con una propriagalleria per le esposizioni. Ricordo che agli inizidella mia attività pittorica, allora ancora dilettan-tesca, frequentavo un corso serale di disegno delnudo presso l’Accademia Carrara. Una sera deci-si di portare alcuni miei quadri allo stesso Ghez-zi, con il proposito di fare una mostra personale.Portai una decina di quadri in segreteria e li alli-neai alle pareti della stanza sottoponendoli a unsuo parere. Li osservò attentamente, scrollò ilcapo e si rivolse a me con fare paterno, dicendo-mi: “Caro Benaglia, credo che ci dovremo rivede-re tra qualche anno prima di poter parlare di un’e-ventuale mostra. Quello che ti posso consigliare èsubito detto: laùra, laùra laùra! Te ghét de pitüráamó tat! “lavora, lavora, lavora. Devi dipingereancora tanto!”. Tornai a casa deluso ma con l’in-tenzione di seguire il consiglio di quella personaanziana della quale avevo tanto rispetto.

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Pochi giorni prima che morisse l’amico Pino Buellivenne da me il mio allievo Mauro Capelli che avevastretto amicizia con lo stesso Buelli. Saputo cheanch’io gli ero stato amico, venne nel mio studio peravvertirmi che il Buelli era molto malato. Decidem-mo di andare insieme a fargli visita: in quel momen-to, il suo stato era particolarmente grave; mi avvici-nai al suo capezzale e lui, delicatamente, mi prese lamano e mi sussurrò una frase incomprensibile,appena accennata. Solo dai suoi occhi socchiusicapii che mi stava dando un saluto. Dopo due giornipartecipai ai suoi funerali (foto 180). L’amico Buel-

li era solito fare le sue mostre personali, oltre che incittà, anche in alcune località di villeggiatura estiva.Saputo che stava esponendo nelle scuole di Brat-to, trovandomi anch’io un giorno in quel paese,andai a fargli visita. Appena vistomi entrare mifece una gran festa; era sempre stato un perso-naggio eccentrico e prodigo di battute spiritose.Visitammo la mostra, parlammo del nostro lavo-ro per una bella oretta. Lui faceva una pitturafigurativa impostata prevalentemente sui ritratti esulla descrizione di interni di cortili con galline,oggetti e personaggi. La mia attenzione si sof-fermò su un soggetto lacustre dove il lago d’Iseo,nella sua caratteristica atmosfera, sfoggiava tuttii particolari, barche comprese. Avevo notato che il pavimento sotto lo stessoquadro era molto bagnato: chiesi a Buelli co-me mai quello strano fenomeno. Con una suasolita battuta mi rispose: “Sai Benaglia, que-sta mattina l’ho trovato così e ho dedotto che,avendo dipinto il lago tanto bene, questa not-

te sia uscita un po’ d’acqua che ha bagnato ilpavimento”. Quando mancò l’amico pittore Carlo Ciocca,accadde un fatto che ha dell’incredibile. Era il1988: mi trovavo a Ponte di Legno per una vacan-za con mia moglie Tiziana, la figlia Emi e la suaamica Sara. Un giorno decidemmo di far visitaallo scultore medaglista Ettore Calvelli che inquel paese aveva la sua casa studio (foto 181). Ciaccolse con piacere e ci fece visitare lo studio; frale sue innumerevoli opere, notai un ritratto in cre-ta. La fisionomia di quell’elaborato corrisponde-180

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va esattamente ai lineamenti dell’amico Ciocca:persino la pettinatura dei capelli era identica.Chiesi al Calvelli se avesse ritratto lo stessoCiocca che io conoscevo: “Prima di tutto” rispo-se, “io non conosco alcun Ciocca, e questo ritrat-to mi è stato commissionato da un cliente che melo fece riprodurre in bronzo, durante la mia gio-ventù quando insegnavo a Milano”.A quel punto chiamai mia moglie, mia figlia e lasua amica, e feci loro osservare quel ritratto a tut-to tondo. Volevo che anche loro, che conosceva-no bene il pittore Ciocca, confermassero quellaincredibile somiglianza. Al termine di quella visita tornammo al nostroappartamento. Il mattino seguente, dopo colazio-ne, mia figlia e la sua amica dovevano scendere

in paese per fare la spesa: le chiamai e dissi lorodi comprare anche il giornale (il solito Eco diBergamo). Al loro ritorno, fu Sara che per primaincominciò a sfogliarlo. “Signora Tiziana, comesi chiamava il pittore di quel ritratto di ieri seradello scultore Calvelli?” chiese a mia moglie. “Ciocca, Carlo Ciocca” le rispose. “È incredibile”gridò Sara “c’è la sua foto e un articolo sul gior-nale dedicato a lui per la sua morte avvenuta l’al-tro ieri: (foto 182) oggi si svolgono i suoi fune-rali”. Per un attimo restammo ammutoliti perl’accaduto, e ancora oggi, a distanza di anni,penso con intensa emozione a quanto accadutoquel giorno.

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LE TAVOLE DEL LAVATOIO

L’amico Giovanni Ravasio e sua moglie Lucianaci invitavano immancabilmente ogni anno a tra-scorrere un periodo di vacanze a Ponte di Legno,in un appartamento che loro affittavano. E cosí,per diversi anni, io e la mia famiglia vivevamo unperiodo di villeggiatura estiva in quel meravi-glioso paese di montagna. Avevo fatto amiciziacon un dipendente comunale; Edoardo Nonelli,che si dilettava di pittura, in occasione di una suamostra personale. Un giorno mi consigliò diandare a visitare la chiesa di Poia, frazione diPonte di Legno, dove lo scultore medaglista Etto-re Calvelli, che allora non conoscevo, aveva alle-stito sulla porta centrale una serie di sue meda-glie bronzee dedicate a diversi santi, tema prefe-rito di quell’artista dalle capacità uniche nel suogenere (foto 183).

Dopo avere ammirato quel capolavoro, il mioocchio si fermò su un lavatoio pubblico posto sulsagrato della stessa chiesa. Alcune donne stavanolavandovi i loro panni; mi avvicinai a quellavasca di pietra piena di acqua, sui cui margini

erano fissate due tavole di larice consumatissimeper lo sfregamento subìto nel tempo con i pannidelle lavandaie (foto 184). Osservai attentamentequelle magnifiche tavole, per capire se potevanoessere utili per il mio lavoro di scultura. Fuun’occasione molto fortunata. Il giorno dopoandai di corsa dal mio amico pittore appenaconosciuto e gli chiesi se, secondo lui, potevoaverle in cambio di altre due tavole nuove. Dopopochi mesi le tavole erano nel mio laboratorio. Disolito ho bisogno di tempo per avere il coraggiodi decidermi a utilizzare un materiale così pre-giato per un mio soggetto; perciò decisi di collo-care le tavole su mensole che avevo apposita-mente predisposto per quel periodo di attesa.Rimasero quasi cinque anni su quelle mensole,finché una sera decisi improvvisamente di inizia-re il lavoro di preparazione. In quel momento eronel laboratorio con un mio coetaneo, AmilcareCattaneo, e gli chiesi se mi voleva dare una manoper spostare le tavole dalle mensole ed appog-giarle sul banco di lavoro. Prendemmo la primatavola e la appoggiammo sul banco. Intanto gliraccontai del fortunato ritrovamento dovuto aquegli amici di Ponte di Legno e gli parlai dell’a-mico scultore Ettore Calvelli. In quel preciso

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momento, il telefono squillò e sollevai la cornet-ta. “Pronto, ciao Cesare, come stai, sono Nonel-li. Scusa l’orario, ma ti ho voluto avvertire chedomani ci saranno i funerali di Calvelli; verràsepolto nel cimitero di Poia”. Esplosi in un’e-sclamazione di sorpresa, come se un caso cosìnon fosse possibile, come se si fosse trattato diun brutto sogno. Ma purtroppo era vero. Calvelliera morto.Anche questo fu un caso incredibile, o, come iopreferisco considerarlo, l’ultimo saluto che unvecchio amico morente voleva darmi attraversoquegli oggetti. E il giorno dopo andai ai funeraliin un paese imbiancato dalla neve (foto 185).

Valbrembo, 1998 185

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Le tavole del lavatoio, legno di larice, cm 55x230, 2004

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A LUIGI BOMBARDIERI

15 agosto 2003

È un momento tragico. Sto perdendo un caroamico, un ammiratore e sostenitore morale delmio lavoro. Mi divertiva un mondo quando arri-vava nel mio laboratorio e mi chiedeva partico-lari sulle mie alchimie; mentre gli spiegavo leragioni delle mie scoperte, i suoi occhi mi se-guivano incuriositi, e capivo dalle sue affer-mazioni che gli sarebbe piaciuto essere al mioposto, che diceva “privilegiato”. A suo modoanche lui era un artista, solo che la sua passionedi seguire gli artisti noti e meno noti non glilasciava il tempo per altre ambizioni personali(foto 186). Le opere d’arte, diceva, “non appar-tengono agli artisti e neanche ai mercanti, masono proprietà del mondo”.Aveva una grande stima di me e so che stavalavorando per trovare un’importante galleria chepotesse valorizzare il mio lavoro: anch’io avevouna gran stima e fiducia in lui, non solo perché lasua generosità non aveva confini, ma anche per lasua cultura artistica maturata con le tante fre-quentazioni avute con importanti artisti contem-poranei. Quando mi raccontava di loro, lo ascol-tavo in silenzio, come incantato. Senza saperlomi ha trasmesso valori importanti per la conti-nuità della mia esperienza artistica.Un giorno, durante l’ennesima visita al mio stu-dio, mi chiese se ero a conoscenza di un postici-no per un pranzetto insieme. Lo portai in unatrattoria alla Madonna del Bosco, non distanteda casa mia. Dopo una conversazione a tavola,che mi parve una vera e propria lezione di filo-sofia e di storia dell’arte, uscimmo per ripren-dere la strada di casa. Appoggiato alla portieradella sua auto, mi fece cenno di guardare un sitoquasi in cima al colle di San Vigilio, che si tro-vava di fronte a noi. “Che strano”, mi disse: “sai,caro Cesare, che proprio ieri sera alle undiciero lassù a guardare il cielo stellato! Una meravi-glia! Ho incominciato a pensare al mio passato,al percorso della vita, alle cose negative e giuste

che credo di avere fatto; avrei voluto che quelmomento durasse tutta la notte!”. Fu per meuna lezione, così come quella di pochi giornifa, quando gli telefonai in ospedale per saperecome stava. Dopo avermi rassicurato che stavameglio, tutto di un tratto mi disse: ”Caro Cesare,ti ringrazio caramente per avermi fatto sentire latua voce; ora ti devo lasciare perché vogliogodermi il tramonto”.Il suo calvario ebbe inizio un giorno, proprionel mio atelier. Lo vidi impallidire mentre sul suocellulare riceveva una telefonata ascoltata insilenzio. La sua prima esclamazione la ricordochiaramente: “Che margine ho per sopravvive-re?” Io non immaginavo ancora di cosa si trattas-se e da chi avesse ricevuto quel tremendo mes-saggio. “Dai risultati delle ultime analisi mi han-no diagnosticato un cancro allo stomaco” mi dis-se, quasi sussurrando. Rimasi impietrito e nonsapendo cosa rispondere, lo invitai alla calma ead avere fiducia. Mi affermò che non c’era tem-po da perdere e lasciò gli arnesi per la pulitura diun dipinto, che stava effettuando sotto la miasupervisione, corse alla sua auto e partì veloce-mente. Due giorni dopo subì un intervento chi-rurgico in un ospedale di Pavia. Da allora quelmale mortale non lo lasciò più in pace.Ci rivedemmo una ventina di giorni dopo ancoranel mio laboratorio, vivace come sempre e, inquell'occasione, volle la mia compagnia in unristorante di Paladina poco distante da casa mia.Non mangiò tanto, ma gli bastò per non sentirsibene: gli proposi una breve passeggiata ai piedidella collina del santuario di Sombreno. Lungo iltorrente Quisa si trova una pineta vecchia di unacinquantina d’anni, con gli alberi sistemati in fileperfette; sembra di camminare tra le navate di unacattedrale gotica (pag. 175). Rimase tanto entu-siasta che mi ringraziò per quella felice scelta.Poco tempo dopo ci riandai con i miei nipotiniMarco e Matteo, che abitano a Monaco di Bavie-ra e che sono rimasti con noi una quindicina digiorni in occasione delle vacanze scolastiche.Non so perché ma mi venne spontaneo, in quellacircostanza, di insegnar loro la preghiera dell’A-

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ve Maria, seduti sul rialzo del terreno copertod’aghi di pino. In quel momento pensai a Luigi,ai dolori che doveva soffrire. Non sapevo ancoraquanto gli restasse da vivere, perché giorno dopogiorno si era improvvisamente aggravato.Il 23 agosto alle dieci e un quarto, mentre questoscritto si trovava ancora sulla mia scrivania, ri-cevetti una telefonata con la quale mi si annun-ciava che Luigi era morto la sera prima all’ospe-dale di Pavia e che i funerali si sarebbero svolti il25 agosto alle 16. Lunedì 25 agosto mi recai allasua abitazione. La bara era già stata espostaall’ingresso, di fronte ad una vetrata floreale econ un suo bellissimo ritratto che campeggiavasulla stessa. Arrivarono molti artisti, galleristi,personalità della cultura e dell’arte, tanti amicie conoscenti.Durante la messa funebre in chiesa, un frate ten-ne un’omelia dedicata alla grande personalità diLuigi, accennando ai suoi ultimi mesi di vita vis-suti nella sofferenza sopportata con grandecoraggio e dignità, esaltandone la fede profondae la generosità di cui era dotato. Al termine dellamesta cerimonia accompagnammo il feretro alcimitero dove fu posto in un loculo come tantialtri. Mi prese un senso di tristezza perché Luigiavrebbe meritato un monumento come convienea un personaggio illustre.

Ricordai l’escursione fatta con lui sul monteCanto Alto, dove lungo il percorso si trova ungrande prato sul crinale del monte chiamato Pra-ti Parini: dal ritorno dalla vetta, ci fermammo inquel luogo. Al margine del prato c’è una modesta

cantina in mezzo agli alberi, all’interno di unvecchio roccolo. Ci fermammo lì a mangiare lesolite ma buone cose della nostra cucina (foto187): polenta, costine, cotechino di maiale e for-maggio di monte. Anche quella era stata per meuna giornata indimenticabile.

Mi ricordai anche della prima volta che m’invitòa casa sua volendo che mi fermassi a pranzo. Suamoglie Vanna preparò un pranzo squisito. Dopoaver parlato di tante cose sull’arte e sugli artisti,mi portò con la sua auto alla frazione Barbatasopra Vertova, che si trova al culmine di una col-lina. Ci sedemmo su un grosso masso a contem-plare il massiccio della Presolana. Luigi eracapace anche di questo: sapeva regalare agli ami-ci, grazie alla sua estrema sensibilità, momentimagici. E ora, eccomi qui a dire addio, per sem-pre, all’amico.Caro Luigi, la tua presenza era una provvidenzache ogni tanto arrivava a risvegliarmi dal torporedelle solite giornate. Ricordi quando ci sedevamosul mio banco di lavoro a discutere dell’operatodi tanti artisti che conoscevi? Parlavi di loro contale rispetto e amavi le loro opere in modo esal-tante, come se avessi vissuto le loro emozioni ele loro fatiche.Ora, oltre allo spirito di mio nonno Mosè, che fuil mio primo maestro che mi segue nelle mie fati-che in laboratorio, ci sarà anche il tuo a farmicompagnia nella scelta giusta delle segature, del-le pietre, delle radici e dei legni tarlati per com-porre i miei lavori.

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Incontro con la luce, immagine digitale su carta fotografica, 2004

LE MIE FIRME

VALBREMBO 18/11/1998

Perché ho firmato le mie prime opere con lo pseu-donimo di Siser Bena? Siser doveva essere il nomedi battesimo che il mio padrino Cesare Centurelli,personaggio molto originale emigrato in Americain giovane età, aveva voluto affibbiarmi. Dopoaver guadagnato con il duro lavoro il denaro suffi-ciente per acquistarsi un podere a Valbrembo,ritornò d’Oltreoceano realizzando il sogno dellasua vita. Io nacqui proprio nel periodo del suorientro in patria; egli quale amico di famiglia, sioffrì come padrino per il mio battesimo. Volevache mi chiamassi “Siser”, e cioè Cesare come lui,ma in americano. Il parroco non accettò quellostrano nome imponendo la versione italiana. Pri-ma di morire, quel mio padrino mi offrì del terre-no perché mi potessi costruire una casa. Volevaintestare a mio nome una parte del terreno di suaproprietà. Ma io non accettai; aveva altri nipoti cuilasciare quella legittima eredità e mi sembravascorretto accettare quell'offerta pur fattami contanto cuore. Per quel suo nobile gesto ho volutocon lo pseudonimo “Siser” ricordare la sua memo-ria. “Bena”, invece, era l'abbreviativo di Benaglia.

Quando vinsi il Premio Oprandi di Bergamo nel1970, frequentavo lo studio dello scultore berga-masco Costante Coter. Era un’artista noto enonostante gli anni era ancora molto lucido e atti-vo. Allora partecipavo ai diversi concorsi di pit-tura estemporanea insieme con altri artisti, tra cuianche lo stesso Coter. Avevamo un rapporto digrande stima reciproca, pur nella differenza d’etàe, in diverse occasioni, andavo a ritirare le mieopere dopo concorso ritirando anche la sue.Vedendo che io mi firmavo con quello stranopseudonimo m'incitava spesso a cambiarlo con“Benaia”. Questo nome d’arte, diceva, "si addiceperfettamente al tuo carattere di bergamascopuro”. Del resto, anche altri colleghi pittori diBergamo mi chiamavano istintivamente Benaia,nella parlata tipicamente bergamasca. E così,dopo tanti anni, anche a ricordo di questi cariamici scomparsi, ho deciso di passare a questonuovo pseudonimo. Penso che mi stia bene, cosìnostrano, semplice e dal suono un po’ arcaico.Oltre alla firma dell’opera, sul dietro è fissato uncartoncino di cm 10x6 contenente i dati, le carat-teristiche dell’elaborato e la firma come ulterio-re garanzia: nelle opere di ricerca anche l’im-pronta digitale del mio pollice sinistro contusoquando in gioventù lavoravo alla sega circolare.

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“...La natura, vedi, è una sorta di libro viventeincompreso, eppure non incomprensibile”

Johann Wolfgang Goethe

Col patrociniodel Comune di Valbrembo

MUSEODEL

FALEGNAME

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TINO SANAwww.tinosana.com

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HANNO SCRITTO DI CESARE BENAGLIA

Domenico MontaltoAmanzio PossentiMario PortalupiLuciano BudignaMario MonteverdiCarlo Munari Dino VillaniDon Sergio ColomboCesare Rota NodariEmanuele Pasquale Renato PossentiEttore CalvelliDon Lino LazzariV.A. RonchiE. Cassa SalviC. De SantisLuciano SpiazziA. BonzanoGiuseppe BelottiA. GavazzeniMaria VerdelliAntonia FinocchiaroBarbara MazzoleniStefania BurnelliPino ViscusiBruno VianoSem GalimbertiPietro Mosca C. RinaldiDino CiccareseSergio TinagliaRomano LeoniBruno Talpo

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INDICE GENERALE

Prefazione del Sindaco Valbrembo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 7Prefazione Domenico Montalto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 9

Specchio di clima . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 151989 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 17Un giorno libero. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 22La mia infanzia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 26La mia famiglia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 29Corso serale alla Carrara . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 32L’esaurimento dopo il Premio Oprandi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 35Io e la politica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 4130° di matrimonio con pietre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 42Scambi «culturali» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 45Lavoro di formiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 47Sculture viventi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 50La folletta del bosco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 52Patate d’albero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 53Corteccia di betulle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 55La pietra e l’osso. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 56In fonderia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 58Legni fossili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 60Cosmologia blu e rossa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 65Segno interiore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 68Le mie santelle nel bosco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 70Il gruppo artistico Valbrembo 77 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 75L’U.C.A.I. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 79Una scultura nel Parco di Ossanesga . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 82Idea per l’operazione “Capra” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 93Alito di tempo nei campi della capra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 96Eclissi di sole nei campi della capra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 98Il museo del falegname . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 103Gli alberi della Pasqua . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 109«Presepi» in Parrocchia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 113Due mostre personali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 117Sul treno per Monaco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 118Inizio del periodo “Terra” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 119L’importante mostra di Sondrio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 122Pietra, pietà “Pietrà” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 127Un monumento funebre per il Camposanto di Almenno . . . . . . . . . . . . . . » 132L’armata Brancaleone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 136Un anno dopo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 142I laboratori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 144Il computer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 148Come conobbi il pittore Capelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 150Come conobbi Ono Kazunori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 153L’amico lontano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 158Alberto Meli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 160Una morte prematura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 162Una casa a Marsala . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 164Segnali misteriosi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 166Le tavole del lavatoio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 169A Luigi Bombardieri. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 173Le mie firme. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 176

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DIDASCALIE DELLE FOTO

N° 12 1965 Mamma Lucia, Emi, Papà Alfredo, il fratello Mosè, Lucio e il sottoscritto.

N° 13 1950 Con il fratello Mosè.

N° 14 1965 Emi, Tiziana, Lucio e il sottoscritto.

N° 19 1986 Natalino Marcandalli, il figlio Lucio, il Pittore Giovanni Pelliccioli, il sottoscritto, Tiziana ealtri soci del gruppo Artistico Valbrembo.

N° 28 1990 Con l’amico Enrico Leoni operatore della realizzazione dei video a me dedicati.

N° 38 1978 I fonditori Massimo Boffelli e Domenico Gennarelli proprietari della fonderia.

N° 42 1995 Con l’amico Carlo Leali, alla segheria dei Conti Agliardi.

N° 43 1991 Con l’amico Giuseppe Zucchinali.

N° 50 1980 Con l’amico pittore Carlo Ciocca al museo di Zurigo.

N° 61 1971 Con gli allievi dilettanti al centro con il pittore Carlo Celok e il pittore Prof. Bonaschi.

N° 62 1979 Con i soci del gruppo artistico Valbrembo.

N° 63 1986 Lo scultore Gianni Grimaldi, invitato per una serata culturale, parla del suo lavoro.

N° 64 1980 Da sinistra il prof. Bonaschi, il sottoscritto, una socia del gruppo, il pittore Giovani Pellicciolie il pittore Santo Forlini.

N° 65 1978 Prof. Bonaschi, il sottoscritto, il presidente dell’accademia di Zogno Fustinoni e soci dell’ac-cademia stessa.

N° 66 1980 Francesco Mangili, il sottoscritto, il Sindaco Gianleo Beltramelli, l’onorevole Galli e l’onore-vole Bonalumi.

N° 73 1990 Il “mascherero” e pittore Franz Cancelli, la pittrice Maribea Bonzani, il sottoscritto e il pitto-re Professor Mino Marra.

N° 79 1991 Con i nipoti Gianclaver, Eugenio, il sottoscritto e Nicola.

N° 84 1991 Con il fotografo Mangili.

N° 87 1992 Al centro il sottoscritto, l’onorevole Luciano Gelpi e il Sindaco Virgilio Bonalumi.

N° 88 1992 Il sottoscritto, il giornalista Amanzio Possenti e il Sindaco.

N° 89 1992 Il fotografo Francesco Mangili, l’onorevole Gelpi e il Sindaco.

N° 96 1996 L’amico fotografo Marco Colombi.

N° 102 2002 Maestro Ettore Begnis, (primo violino), Agata Borgato, (violino secondo), Marco Lorenzi (vio-la), Flavio Bombardieri (violoncello).

N° 133 1996 Con il mosaicista e pittore Vincenzo Amelio e il mosaicista Italo Peresson.

N° 135 1996 Con il signor Mazzoleni falegname.

N° 136 1996 Con il mio genero Maurizio.

N° 143 2001 Con l’amico pittore Vittorio Consonni.

N° 151 2001 Con l’amico Gennaro Ceresoli e gli scolari della scuola di Petosino.

N° 170 1979 Il pittore Giulio Mottinelli, il pittore Dino Caccia, il sottoscritto, il gallerista Mario Pedali, ilpittore Mario Signori, il pittore Cinto Galizzi, il pittore Daniele Turra, il pittore Piero Racca-gni, Alberto Meli e un simpatizzante.

N° 171 1999 Con il pittore Mario Signori e Alberto Meli in casa Meli.

N° 174 1990 Con Gerry e Angelo Capelli.

N° 176 1990 Con Antonella, Gerry, mia moglie Tiziana, amici e assistenti di Gerry.

N° 177 1980 Con il pittore Simone Morelli e Gianangelo Chiodi.

N° 178 1980 Con l’amico pittore Angelo Capelli.

N° 182 1980 Con l’amico pittore scomparso Carlo Ciocca.

N° 186 1987 Con Luigi Bombardieri e Ono Kazunori in casa mia.

N° 187 2001 Con Luigi Bombardieri ai campi Parini.

Dedico quest’opera alla mia famiglia, al gallerista Luigi Bombardieri e allo scultore Ono Kazunori.

Un grazie a tutte le persone citate in questo mio diario, e in special modo al critico d’arteDomenico Montalto, al giornalista Amanzio Possenti, allo scrittore Dino Ciccarese,

al sindaco di Valbrembo Gianleo Bertrand Beltramelli, al gallerista Corrado Rota della galleriaArte Bergamo, a Fernando Gianesini curatore della mia personale a Sondrio,

all’architetto Cesare Rota Nodari, a Tino Sana titolare del “Museo del Falegname”,a Eugenio Benaglia della “Benny Design”, a Umberto Minola titolare della E.S.T.,ai fotografi Francesco Mangili e Marco Colombi e al cineoperatore Enrico Leoni.

Finito di stamparenel mese di dicembre 2004

presso le Arti Grafiche TorriCologno Monzese (MI)

Via Mozart, 45