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CHIMICA ORGANICA E BIOCHIMICA LA FERMENTAZIONE GLI ENZIMI I MIGROORGANISMI IL FERMENTATORE IL DNA IL DNA RICOMBINANTE L'INEGNERIA GENETICA LA SINTESI PROTEICA IL TRATTAMENTO DELLE ACQUE REFLUE PRODUZIONE DELL'ALCOL ETILICO PRODUZIONE DI ACIDO LATTICO PRODUZIONE DI ACIDO CITRICO AMINOACIDI, ENZIMI E PROTEINE GLI ANTIBIOTICI LE VITAMINE GLI ANTICORPI GLI ORMONI

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CHIMICA ORGANICA E BIOCHIMICA      -­‐  LA  FERMENTAZIONE  

 

-­‐  GLI  ENZIMI    

 

-­‐  I  MIGROORGANISMI    

 

-­‐    IL  FERMENTATORE  

 

-­‐  IL  DNA  

 

-­‐  IL  DNA  RICOMBINANTE  

 

-­‐  L'INEGNERIA  GENETICA  

 

-­‐  LA  SINTESI  PROTEICA  

 

-­‐  IL  TRATTAMENTO  DELLE  ACQUE  REFLUE  

 

-­‐  PRODUZIONE  DELL'ALCOL  ETILICO  

 

-­‐  PRODUZIONE  DI  ACIDO  LATTICO  

 

-­‐  PRODUZIONE  DI  ACIDO  CITRICO  

 

-­‐  AMINOACIDI,  ENZIMI  E  PROTEINE  

 

-­‐    GLI  ANTIBIOTICI    -­‐  LE  VITAMINE    -­‐  GLI  ANTICORPI    -­‐  GLI  ORMONI    

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LA  FERMENTAZIONE    

La fermentazione è una via metabolica che permette agli esseri viventi di ricavare energia da particolari molecole organiche (carboidrati o raramente amminoacidi) in assenza di ossigeno. Parte dell'energia liberata dalla trasformazione chimica viene infatti immagazzinata in ATP (adenosintrifosfato). La resa energetica delle fermentazioni (in cui il prodotto finale non viene completamente ossidato) è molto inferiore rispetto all'ossidazione aerobica (completa) dello stesso substrato.

Dal punto di vista strettamente chimico la fermentazione è una disproporzione ovvero una ossidoriduzione in cui la stessa molecola viene in parte ossidata ed in parte ridotta. I carboidrati sono le principali molecole fermentabili. Oltre alla fermentazione, in assenza di ossigeno, sono possibili altri processi; alcuni batteri usano anche la respirazione anaerobica in cui l'accettore finale di elettroni è una sostanza inorganica diversa dall'ossigeno (ione solfato, ione nitrato, ecc.).

Data la grande importanza che le fermentazioni svolgono nella preparazione di parecchi alimenti (ma anche nella loro degradazione) il termine fermentazione è stato ampiamente usato per indicare una qualsiasi trasformazione catalizzata da un microrganismo. Talvolta il termine è ancora usato in questo senso.

Dal momento che in anaerobiosi non è disponibile l'ossigeno come accettore finale di elettroni, lo stesso substrato viene in parte ossidato ed in parte ridotto. Le fermentazioni sono quindi delle disproporzioni.

Nella maggior parte delle fermentazioni il metabolita di partenza è uno zucchero o un altro composto in cui il numero di ossidazione medio del carbonio è zero in quanto il carbonio stesso verrà in parte ossidato ed in parte ridotto.

Nelle fermentazioni conviene distinguere due parti:

• la glicolisi, comune alla maggior parte delle fermentazioni; • la rigenerazione del NAD, dal NADH+H+ (che viene ossidato).

Nella prima parte, la glicolisi, il glucosio viene trasformato in due molecole di acido piruvico con contemporanea produzione di due molecole di ATP e due molecole di NADH. L'ATP è una molecola ad alto contenuto energetico subito disponibile per le varie necessità della cellula. Nella seconda parte, la cellula provvede alla rigenerazione del NAD+. Il NADH, nella sua forma ridotta, rappresenta una grossa fonte d'energia, circa 2,5 ATP, che per essere utilizzata richiede però la presenza d'ossigeno. In assenza d'ossigeno, il NADH ridotto deve essere liberato del suo prezioso carico senza ricavarne energia. Le varie fermentazioni differiscono per il modo in cui il NAD+ viene rigenerato.

Confrontando i numeri di ossidazione dei singoli atomi di carbonio della molecola di Ac. lattico (-3; 0; +3) con il numero di ossidazione del carbonio nel glucosio (0), si nota come la stessa molecola sia stata in parte ossidata ed in parte ridotta (disproporzione). È questa ossidoriduzione interna che fornisce l'energia fissata nelle due molecole di ATP

   

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Gli enzimi

Nel metabolismo energetico le cellule producono notevoli quantità di CO2 che deve essere eliminata con l’apparato respiratorio. Il trasferimento della CO2 dalle cellule al sangue e da esso allo spazio alveolare avviene previa idratazione del diossido di carbonio. Questo processo è spontaneo ma avverrebbe in tempi lentissimi, non fisiologici. Questa semplice reazione è catalizzata, nel nostro organismo, da un enzima altamente specifico ed efficiente, l’anidrasi carbonica. Una sola molecola può idratare 105 molecole di CO2 al secondo e la reazione è 10 milioni di volte più veloce di quella senza enzima! Solo grazie alla presenza di enzimi le trasformazioni chimiche del nostro organismo possono avvenire nei tempi e nei modi compatibili con le necessità vitali.

Gli enzimi sono proteine altamente specializzate con una funzione di catalisi estremamente specifica.

Tutte le catene o i cicli metabolici sono costituiti da una serie di passaggi e di trasformazioni, anche minime, catalizzate da sistemi multienzimatici.

Molti enzimi effettuano la loro azione solo con i residui aminoacidici di aminoacidi posti nel sito attivo e, in questo caso, sono proteine pure. Altri, invece, per la loro azione catalitica, necessitano della presenza di componenti chimici addizionali, cofattori, che possono essere ioni inorganici come il Fe2+, il Mg2+, il Mn2+, o lo Zn2+, oppure complesse molecole organiche chiamate coenzimi. Sia i cofattori che i coenzimi sono chiamati gruppi prostetici.

L’azione degli enzimi è caratterizzata da alcune proprietà fondamentali:

1) possono accelerare le reazioni anche più di un milione di volte 2) escono immodificati e di nuovo efficienti alla fine della catalisi. 3) sono efficaci in piccole quantità. 4) non influenzano l’equilibrio chimico di una reazione reversibile. Essi rendono più veloce il processo in entrambe le direzioni. L’equilibrio chimico viene semplicemente raggiunto prima. 5) sono, in genere, altamente specifici. Taluni hanno una specificità assoluta

Importanza dei cofattori

I cofattori sono i coenzimi, molecole organiche estremamente importanti per la funzione degli enzimi, in genere vitamine idrosolubili oppure gli ioni metallici che in genere operano sulla struttura enzimatica permettendole di combinarsi col substrato.

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Se il coenzima è legato covalentemente alla proteina si parla di oloenzima, enzima biologicamente attivo.La proteina prende il nome di apoenzima. I coenzimi sono pochi e li ritroviamo, sempre gli stessi, in numerosi enzimi. Essi si consumano nelle reazioni enzimatiche e vengono rigenerati in altre reazioni che avvengono in compartimenti cellulari diversi Meccanismo d’azione degli enzimi La reazione di catalisi enzimatica avviene all’interno di una “tasca” della proteina chiamata sito attivo. La molecola che si lega all’enzima e su cui l’enzima opera si chiama substrato. Gli enzimi, fondamentalmente, stabilizzano lo “stato di transizione (ES)” che è la specie molecolare a maggior contenuto energetico. Si usa indicare con S il substrato su cui l’enzima opera la trasformazione (catalisi) ed E l’enzima. Tutto il meccanismo parte dalla formazione del complesso enzima-substrato ES ed avviene secondo lo schema: E + S ES EP E + P

dove ES è il complesso enzima-substrato ed EP il complesso enzima-substrato modificato, ovvero il prodotto P. La reazione è reversibile. Come si vede l’enzima esce immodificato dalla reazione e il substrato ha invece subito la trasformazione operata dall’enzima ed è il prodotto della catalisi.

Una reazione chimica spontanea avviene dopo che si è superata una barriera energetica, energia di attivazione, necessaria per favorire l’allineamento degli orbitali di legame e gli urti tra i reagenti. Tali urti, proporzionali alla concentrazione dei reagenti sono definiti urti utili. La velocità con cui questa reazione avviene dipende dal movimento casuale delle molecole che è proporzionale alla temperatura.

Gli enzimi catalizzano le reazioni abbassando l’energia di attivazione

Nelle reazioni spontanee il contenuto d’energia libera dei reagenti (substrato in questo caso) è maggiore di quella del prodotto. Nella figura A si vede l'andamento di una reazione esoergonica (spontanea) non catalizzata. Il picco massimo è l'energia d'attivazione che occorre superare affinché la reazione proceda. La figura B mostra l’andamento della reazione catalizzata in cui si può osservare come lo stato di transizione sia ad un livello di energia molto più bassa.

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Abbassando l’energia d’attivazione, si avranno un numero superiore di molecole in grado di superarla senza ricorrere ad aumenti di temperatura.

Nel grafico (B) si possono osservare le tappe descritte e gli stati di transizione che corrispondono ai punti di maggior impegno energetico, in cui è possibile il ritorno verso i reagenti. Per questo sono i momenti più critici della reazione. I complessi ES ed EP invece sono i momenti di maggiore stabilità energetica. Superato l’ultimo stato di transizione la reazione libera il prodotto (substrato modificato) e l’enzima esce immodificato pronto per una nuova catalisi. L’azione dell’enzima è quindi quella di abbassare l’energia di attivazione in modo selettivo “costringendo” i reagenti ad avvicinarsi, orientarne gli atomi in modo che si possano formare o rompere i legami. Gli enzimi sono proteine globulari complesse nella cui struttura terziaria si può individuare una zona specifica, chiamata sito attivo, in cui avviene la reazione col substrato e la sua trasformazione nel prodotto specifico. Il meccanismo d’azione dell’enzima è spesso paragonato a quello della chiave-serratura per evidenziarne la specificità. In termini molecolari è chiaro che esistono delle zone in cui, in modo altamente specifico, si possono formare legami tra la residui aminoacidici della proteina enzimatica e il substrato. Non raramente il sito attivo dell’enzima è la zona nella quale è presente il gruppo

prostetico la cui funzione è sempre di primaria importanza nella catalisi.

Il modello chiave-serratura per esemplificare l’azione di un enzima è largamente intuitivo ma anche decisamente insufficiente per comprendere il delicato processo di legame di un enzima con il suo substrato, la catalisi e la liberazione del prodotto.

Ci possiamo chiedere come è possibile questo enorme aumento della velocità indotto dagli enzimi. e da dove arriva l'energia necessaria ad abbassare l'energia d'attivazione di una reazione?

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I gruppi funzionali nel sito attivo (residui aminoacidici, ioni metallici, coenzimi) reagiscono col substrato generando una via della reazione a bassa energia ricavata dalle numerose interazioni deboli non covalenti, le stesse che stabilizzano le proteine: legami idrogeno, forze di van Der Waals, interazioni idrofobiche ed ioniche. Queste interazioni, esoergoniche, sono fondamentali per la formazione del complesso ES e ne determinano la stabilità La somma di questo rilascio di piccole quantità di energia, chiamata energia di legame, è la fonte principale di energia libera necessaria per abbassare l'energia d'attivazione. In definitiva, le interazioni deboli che portano alla formazione del complesso ES sono le forze che contribuiscono alla catalisi. Per avere la massima efficacia l'enzima dovrà avere solo una parziale complementarietà al S ma dovrà essere totalmente complementare allo stato di transizione ES. Così anche la elevata specificità di un enzima, che è la proprietà di distinguere molecole simili, si può spiegare con la caratteristica disposizione dei gruppi funzionali nel sito attivo che se formano interazioni perfette con un determinato substrato nello stato di transizione, non potranno farlo con un substrato simile ma non identico. Da un punto di vista strettamente molecolare il sito attivo si orienta in modo tale da portare i gruppi specifici del sito attivo in condizioni di massima efficienza per la catalisi. Questo adattamento porta ad una modificazione conformazionale dell'enzima indotta da uno specifico substrato.

Proprietà degli enzimi

1. Gli enzimi sono sensibili al calore , e possono essere danneggiati (il termine chimico corretto è denaturati) facilmente per eccesso di freddo o di caldo. Queste due cause possono modificare irreparabilmente il sito attivo : danneggiando il sito attivo non si forma il complesso enzima-substrato.

2. Gli enzimi sono creati nelle cellule ma sono capaci di funzionare anche fuori di essa.Questo consente agli enzimi di essere immobilizzati senza distruggerli.

3. Gli enzimi sono sensibili al pH, il tasso al quale possono condurre una reazione è dipendente dal pH .Un esempio è la pepsina che funziona in presenza di pH vicino a 2. Invece l'amilasi salivare raggiunge il massimo rendimento con un pH neutro, cioè vicino a 7.

4. Gli enzimi sono riutilizzabili ed alcuni enzimi sono capaci di catalizzare centinaia di migliaia di reazioni ogni secondo.

5. Ogni enzima è specifico cioè può catalizzare una sola reazione. 6. Gli enzimi lavorano anche in modo da raggiungere la quantità desiderata e

mai in eccesso: quando si forma un eccesso di composto, smettono di produrlo finché il sistema non è tornato in equilibrio.

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Classificazione degli enzimi

Ossidoreduttasi: ossidazione, deidrogenazione e riduzione in presenza di coenzimi o accettori di idrogeno

- Transferasi: trasferimento di radicali (aminici, carbossilici, ecc.)

- Idrolasi: idrolisi di legami peptidici (proteasi), esterici (esterasi, fosfatasi, nucleotidasi) e glucosidici (glucosidasi, glucuronidasi)

- Sintetasi: reazioni di sintesi di due o più molecole con l’ausilio di energia fornita da nucleotidi trifosfati

- Isomerasi: interconversione di isomeri

- Liasi: rottura di un legame C -C, C -O, C -N, C -S con formazione di un doppio legame; saturazione di un doppio legame per introduzione di H20, H2S, NH3.

Cinetica enzimatica

Lo studio della velocità delle reazioni catalizzate da enzimi parte considerando gli effetti della [ S ], concentrazione del substrato che , naturalmente, varia nel corso della reazione essendo S trasformato in P. Allora ponendo in vitro una [ S ] molto superiore a quella dell'enzima si può calcolare la V0 , velocità iniziale, considerando la variazione di [ S ] trascurabile. Il grafico mostra l' effetto dell'aumento della concentrazione di substrato sulla velocità iniziale di una reazione catalizzata da un enzima. La velocità aumenta esponenzialmente fino a raggiungere un plateau che rappresenta la velocità massima che non varia anche con aggiunte successive di substrato. Questa velocità si raggiunge quando tutto l’enzima è saturato dal substrato. La velocità della reazione è data dall’equazione di Michaelis-Menten che lega la velocità ad una costante , la Km, caratteristica per ogni enzima e che è utile conoscere perché ci fornisce una misura dell’affinità di un enzima per il suo suo substrato. Vmax [S] V0 = —————— Km +[S]

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Poiché è difficile calcolare la velocità massima, ci conviene calcolare ½ Vmax, sostituendo questo valore a V0. Vmax [S] [S] da cui sostituendo: Vmax = —————— ; 1 = ----------- e Km = [S] 2 Km+ [S] 2 Km+ [S] V0 = ½ Vmax Dalla relazione si evince che gli enzimi con una Km alta, hanno una minore affinità per il loro substrato e viceversa. L’esochinasi, enzima presente nelle cellule del cervello, ha una Km di circa 400 volte più piccola della glucochinasi che catalizza la stessa reazione nel fegato: la fosforilazione del glucosio. Il motivo risiede nelle piccole concentrazioni di glucosio presenti nel circolo encefalico e dalla necessità che le cellule nervose hanno di utilizzarlo anche in basse concentrazioni.

Gli inibitori enzimatici

Gli enzimi, oltre a catalizzare le reazioni, intervengono nei processi di regolazione metabolica. Quindi saranno necessari meccanismi di attivazione o di inibizione enzimatica. Le sostanze che inibiscono gli enzimi sono potenti agenti farmacologici. Per esempio l'aspirina inibisce il primo enzima della sintesi delle prostaglandine che partecipano al processo della produzione del dolore.

Gli enzimi catalizzano tutti i processi che avvengono all’interno delle cellule. Sfruttando l’inibizione enzimatica sono stati creati alcuni fra i più importanti agenti farmaceutici. La stessa aspirina inibisce l’enzima catalizzatore della prima reazione della sintesi delle prostaglandine.

Esistono due classi di inibitori enzimatici: quelli reversibili e quelli irreversibili. Uno dei comuni tipi di inibizione reversibile è definita competitiva. Un inibitore competitivo, compete con il substrato per il legame al sito attivo di un enzima, e la reazione viene impedita a causa dell’inibitore (I) legato, poichè impedisce fisicamente al substrato di legarsi all’enzima. Essendo l’inibizione di natura reversibile è possibile spostare l’azione enzimatica a favore del substrato semplicemente aggiungendone dell’altro all’ambiente. Questo diminuisce le probabilità che un enzima si leghi ed un inibitore, consentendo così la normale catalisi.

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Nella categoria degli inibitori reversibili rientrano anche gli inibitori non competitivi e gli inibitori in competitivi.

L’inibizione non competitiva si lega ad un sito distinto da quello preposto a legare il substrato senza interferire quindi con il legame ES, tuttavia questo legame inattiva l’enzima, tanto in presenza che in assenza di S. L’inibitore non competitivo riduce la quantità di enzima attivo abbassando di fatto la Vmax.

L’inibizione incompetitiva funziona come l’inibizione non competitiva ma, al contrario di questa il cui inibitore si lega all’enzima, l’inibitore incompetitivo si lega solo a complessi ES.

Gli inibitori irreversibili modificano o distruggono un gruppo funzionale dell’enzima, essenziale per la sua funzione.

Una classe particolare di inibitori irreversibili è quella degli inibitori suicidi, relativamente poco reattivi se non quando raggiungono il sito attivo di un dato enzima. Questi inibitori portano avanti le prime tappe di una normale reazione, ma invece di essere trasformati nel prodotto previsto, vengono convertiti in prodotti molto reattivi che si combinano in maniera irreversibile con l’enzima.

La regolazione enzimatica È chiaro che in un organismo le vie metaboliche debbano funzionare con una coordinazione tale che siano attive solo quelle necessarie al momento e inibite quelle che non servono, in quel momento, alla vita di una cellula. Vi sono enzimi particolari che operano nella catena metabolica, attivandola o inibendola secondo la richiesta e la concentrazione ottimale del prodotto finale che concorrono a produrre. A sua volta questo importante enzima chiamato enzima regolatore, è controllato dall’organismo attraverso vari sistemi come la stimolazione o l’inibizione a produrre quel determinato enzima mediante ormoni o neurotrasmettitori. L’enzima regolatore determina quindi la velocità complessiva di una catena metabolica. Nelle vie metaboliche vi sono due classi di enzimi regolatori: gli enzimi allosterici che agiscono mediante un legame reversibile di un metabolita regolatore chiamato modulatore o effettore e gli enzimi regolati mediante modificazioni covalenti reversibili.

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Gli enzimi allosterici

Gli enzimi allosterici hanno quasi sempre una struttura quaternaria (più subunità polipeptidiche) e possiedono, oltre al sito attivo in una subunità, anche un altro sito, sito regolatore in un'altra subunità, al quale si lega l’effettore (o modulatore).

L’enzima esiste in due configurazioni tra loro convertibili. In una subunità troviamo il sito regolatore che può essere nella configurazione attivata oppure in quella inattivata. Se il modulatore induce una attivazione della catena metabolica allora esso si lega al sito regolatore dell’enzima stimolando il sito attivo, situato generalmente in altra subunità, a legarsi col substrato. Al contrario, se il modulatore è un inibitore, si avrà la perdita di affinità sul sito attivo dell’enzima. Tale condizione determina il blocco della via metabolica.

Inibizione allostrerica

In alcuni sistemi multienzimatici l'enzima regolatore viene inibito in modo specifico dal prodotto finale

della via, quando tale prodotto si accumula oltre le necessità delle cellule. In genere l'enzima allosterico è il primo della via metabolica. Questa inibizione si chiama inibizione retroattiva o inibizione da prodotto (meccanismo a feedback). Nei batteri è attiva una via metabolica che converte, attraverso cinque reazioni, un aminoacido, la L-treonina in un altro aminoacido, la isoleucina. Il primo enzima di questa via metabolica è la treonina deidratasi (E1) e viene inibito allostericamente, con meccanismo a feedback , dalla isoleucina. È ovvio che quando la Isoleucina, che funziona da effettore o modulatore, viene utilizzata dalla cellula e la sua concentrazione diminuisce, essa si stacca dall’enzima allosterico che ritorna nella conformazione attivata e il sito attivo ritorna affine alla L-Treonina e la via metabolica riprende la sua attività.

La cinetica enzimatica, con gli enzimi allosterici, ci fornisce curve di velocità con andamento sigmoide e non iperbolico. Il valore della Vmax non cambia mentre cambia quello della Km che diminuisce in caso di effettore positivo ed aumenta in caso di effettore negativo.

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Altri meccanismi di regolazione enzimatica si hanno quando l’enzima viene

modificato covalentemente da alcuni gruppi chimici come il fosfato, l’adenosina monofosfato, l’uridina monofosfato e i gruppi metilici. Questi gruppi possono legarsi all’enzima ed essere rimossi da altri enzimi. Un enzima appartenente a questa categoria è la glicogeno fosforilasi che regola nel muscolo e nel fegato il processo di demolizione del glicogeno.

Un esempio interessante del meccanismo di regolazione enzimatica è dato da due effettori importanti come la calmodulina, in tutte le cellule, e la troponina nelle cellule muscolari. Essi sono attivati, all’interno delle cellule, dalla presenza di ioni Ca2+ che è normalmente bassa rispetto a quella dell’ambiente extracellulare con un gradiente di circa 10.000 volte. La cellula, in condizioni normali, non fa passare gli ioni Ca, opponendosi alla naturale tendenza mantenendo chiusi i canali proteici. Sappiamo che la contrazione muscolare avviene quando la cellula apre i canali proteici agli ioni Ca2+ ; in queste condizioni la troponina viene attivata, altrimenti, vista la bassa concentrazione degli ioni Ca, essa è una molecola inattiva. Un segnale nervoso fa aprire i canali proteici, gli ioni Ca2+ passano attraverso la membrana e si legano alla troponina che viene così attivata. La troponina, funziona da effettore attivando un enzima che determina la contrazione muscolare. In questo meccanismo è interessante notare la connessione che c’è tra un segnale nervoso e la sua “traduzione” in attività chimica precisa. La concentrazione degli enzimi allosterici è generalmente molto bassa nelle cellule e la loro sintesi viene stimolata o inibita da specifici ormoni che operano a livello genico.

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L’insulina, ad esempio esplica la sua azione stimolando la sintesi degli enzimi glucochinasi, fosfofruttochinasi e glicogeno sintetasi, reprimendo quella degli enzimi della biosintesi del glucosio, rispettando il suo effetto ipoglicemizzante. È interessante osservare che le vie anaboliche e quelle cataboliche sono sempre localizzate in organelli e compartimenti cellulari diversi in modo che gli enzimi che controllano una via catabolica, non controllino contemporaneamente anche quella anabolica. La compartimentazione è un metodo efficiente della gestione dell’attività cellulare.

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MICRORGANISMI Tutti gli organismi non visibili ad occhio nudo, a qualunque regno naturale appartengano, sono chiamati microrganismi. Essi sono i batteri, le alghe unicellulari, i lieviti, i funghi, le muffe ed i virus. I microrganismi sono presenti in terra, aria, acqua e cibi. Il nostro organismo, che ne è privo alla nascita (sebbene possa essere infettato attraverso la madre), con il mangiare e il respirare viene esposto alla loro azione. Per la maggior parte questi microrganismi sono inoffensivi (banali), ma alcuni sono invece patogeni e possono causare malattie. In particolare, tra i microrganismi, vanno distinti batteri e virus. I batteri sono microrganismi unicellulari insediati in qualsiasi essere vivente o nell’ambiente e sono la forma vivente più abbondante sulla terra. Alcuni, i cosiddetti batteri estremofili, riescono a vivere anche in condizioni estreme di temperatura, acidità o salinità. I batteri si cibano di nutrienti fluidi e in circostanze ideali si riproducono in circa 15 ÷ 30 minuti. Alcuni tipi di batteri possono formare spore, dotate di uno strato protettivo termoresistente in grado di proteggerli da mancanza di umidità e cibo. Sono coinvolti in vari processi: alcuni scindono la materia organica e ricoprono un importante ruolo ecologico, altri favoriscono il metabolismo umano. Tra le malattie causate dai batteri ci sono ad esempio difterite, pertosse, tetano e alcune gravi meningiti. I virus (termine latino che significa “veleno”) sono le forme di “vita” più piccole e semplici che si conoscano. Sono da dieci a cento volte più piccoli dei batteri. I virus sono incapaci di vita autonoma, per sopravvivere e riprodursi devono inserirsi in una cellula ospite. Possono infettare organismi animali e vegetali, batteri compresi. Al di fuori delle cellule ospiti, i virus sono inattivi, hanno una copertura protettiva e sono così piccoli che possono passare attraverso i filtri che bloccano i batteri. Sono all’origine di molti tipi di malattie, come ad esempio la varicella, la poliomielite, la sindrome da immunodeficienza acquisita, la più comune influenza, il morbillo, la mononucleosi, l’herpes, la varicella, la parotite, la rabbia, il vaiolo, l’epatite, la rosolia e alcuni tipi di tumori. Gli antibiotici, destinati a combattere i batteri, sono inefficaci verso le infezioni da virus. Esistono invece dei vaccini che riescono a prevenire alcune malattie di origine virale, come l’influenza, il morbillo, la parotite, la rosolia, l’epatite B ecc. Le vaccinazioni sono un modo semplice, efficace e sicuro per proteggere i bambini da importanti malattie infettive che possono causare gravi complicazioni. Con la vaccinazione vengono introdotti nel corpo componenti di virus e batteri non in grado di provocare la malattia, ma capaci di sviluppare meccanismi di difesa. In Italia le vaccinazioni obbligatorie sono quelle per difterite, tetano, epatite B e poliomielite. Le vaccinazioni facoltative sono quelle per pertosse, haemophilus influenzae tipo B; morbillo, parotite, rosolia, varicella, meningococco C, papilloma virus e l'antinfluenzale. Altre vaccinazioni sono riservate ai soggetti che devono recarsi in Paesi con condizioni particolari o ad elevato rischio, si tratta dei vaccini per Tbc, epatite A, tifo, rabbia, febbre gialla, colera. La differenza più evidente tra i due tipi di microrganismi è che i virus possono moltiplicarsi soltanto all’interno di una cellula ospite, mentre alcuni batteri possono crescere su superfici non viventi e moltiplicarsi autonomamente. Inoltre a differenza dei batteri che attaccano il corpo come “soldati” facendosi spazio con l’eliminazione di cellule e mangiando letteralmente i tessuti, i virus sono “guerriglieri” che non attaccano molto, ma si infiltrano. Invadono le cellule e costringono le strutture cellulari a mettersi al loro servizio, consentendone la replicazione. Al contrario dei batteri, i virus non sono naturalmente presenti nel corpo umano.

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Con il termine di funghi si indicano i vegetali privi di clorofilla e non differenziati in fusto, radici e foglie. Il corpo vegetativo dei funghi è quasi sempre filamentoso, unicellulare o pluricellulare, ed essendo privi di clorofilla sono obbligati a vita parassitica (ai danni di altri esseri viventi), o saprofitica (su sostanza morta), o simbiotica (in unione con alghe). L’importanza dei funghi in natura è dovuta al fatto che le forme saprofite demoliscono i composti organici contribuendo alla loro trasformazione in sostanze minerali. Esistono però anche moltissime specie parassite responsabili della riduzione della produttività e anche della perdita di piante utili, di alterazioni e deterioramenti di manufatti vari, di varie malattie che colpiscono gli animali e l’uomo. Molte specie sono utilizzate nell’industria casearia (produzione di gongorzola, camembert ecc.), farmaceutica (produzione di antibiotici, vitamine ecc.) e chimica. Con il termine muffa si indicano molti funghi che vivono sulla sostanza organica in decomposizione o alla superficie di organismi animali o vegetali, formando miceli di color bianchiccio o verdognolo o un’efflorescenza polverosa, bianca, grigia, verdastra o nera. Il lievito è una sostanza costituita da funghi, ossia colture di saccaromiceti utilizzati nella produzione di alcool o di anidride carbonica e quindi nei processi di fermentazione alcolica e di panificazione. Nella panificazione si utilizza il lievito di birra che è una coltura pura e selezionata, ottenuta dal melasso di barbabietola. Le alghe sono organismi vegetali autotrofi ossia, forniti di clorofilla, capaci di trasformare l’anidride carbonica in composti organici. Le alghe unicellulari vivono isolate o riunite in colonie. Le cellule costituenti le alghe sono di solito rivestite di una membrana cellulare impregnata di sostanze mucillaginose o silicee o calcaree. Le alghe vivono nelle acque salate, dolci e stagnanti, sulle rocce e nei terreni umidi, sulle cortecce degli alberi; possono anche vivere in simbiosi con altri organismi (la simbiosi di un’alga con un fungo dà luogo al lichene). La proliferazione delle alghe indotta da eutrofizzazione delle acque (eccezionale arricchimento in sostanze nutritive) provocata da cause umane rappresenta oggi una tra le più preoccupanti emergenze ambientali. Essa determina l’abbassamento del tasso di ossigeno nell’acqua, rendendo questa inospitale per molte specie. Ci sono migliaia di germi e specie di microrganismi associate alla trasformazione delle sostanze organiche. Alcuni microrganismi intervengono con effetti positivi in alcuni processi di trasformazione degli alimenti: come ad esempio i batteri lattici nella produzione del formaggio, dello yogurt ed in alcuni prodotti di salumeria, i lieviti nella produzione del vino e della birra, ecc.. I microrganismi si trovano ovunque: nell’ambiente, così come sulla pelle degli animali o sulla buccia dei vegetali, negli intestini degli animali così come sugli attrezzi, sugli impianti di lavorazione, sulle mani e sul vestiario delle persone che vengono a contatto con il cibo o con sostanza organica. Generalmente i microrganismi non si trovano all’interno dei tessuti viventi sani, in altre parole nelle carni animali in buona salute o nella polpa di vegetali integri. I microrganismi sono però sempre presenti per invadere i tessuti animali o vegetali, attraverso aperture della superficie o quando le protezioni dall’ambiente sono indebolite da una malattia o dalla morte. I microrganismi attaccano tutte le sostanze costituenti gli alimenti. Alcuni idrolizzano gli amidi e la cellulosa e fermentano gli zuccheri; altri idrolizzano i lipidi e producono rancidità; infine alcuni degradano le proteine e formano odori putridi e ammoniacali. Vi sono microrganismi che formano gas, altri che producono acidi, altri che provocano alterazioni al colore originale o formano pigmenti colorati sui cibi; i più pericolosi, per fortuna in numero relativamente limitato, sono quelli che producono tossine (salmonelle, Clostridium botulinum, stafilococchi) e danno origine alle

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intossicazioni alimentari (botulismo, enterotossina, ecc.) e quelli che sono agenti di malattie infettive (microrganismi patogeni). La maggior parte dei microrganismi preferisce temperature medie (da 25 a 40° C) e sono detti mesofili; alcuni crescono bene sotto i 20° C fino al punto di congelamento e sono chiamati psicrofili; per altri che sono chiamati termofili, la temperatura ottimale di crescita è situata sopra i 40° C fino circa ai 60° C. Molti batteri, tutte le muffe e i lieviti richiedono la presenza di ossigeno per la crescita (acrobici); altri crescono solamente in assenza di ossigeno (anacrobici).

Come si classificano i batteri

I batteri possono essere classificati in base a:

• morfologia • comportamento alla colorazione di Gram • esigenze metaboliche • localizzazione a livello cellulare

Morfologia I batteri si possono classificare a seconda della morfologia, cioè della loro forma: le due forme più frequenti sono i cocchi (rotondeggianti) o i bacilli (di forma allungata od ovalare), ma esistono anche i vibrioni (a forma di virgola), gli spirilli e le spirochete. Cocchi e bacilli possono a loro volta essere classificati in base al loro modo di aggregarsi:

• i bacilli, potendosi dividere secondo il loro asse più lungo, tendono a formare catene di due cellule (diplobacilli) o più (streptobacilli);

• i cocchi, invece, potendosi dividere secondo uno o più assi, possono aggregarsi in coppie (diplococchi), gruppi di quattro (sarcine), in grappoli (stafilococchi) o in catene (streptococchi).

Comportamento alla colorazione di Gram La procedura di colorazione di Gram è stata messa a punto nel 1880 dal medico danese Hans Christian Gram, e consente di differenziare due gruppi principali di batteri - Gram positivi e Gram negativi - in base alla diversa composizione chimica della loro parte cellulare, che fa assumere loro un colore diverso a seguito di questa procedura:

• i batteri Gram positivi, avendo un rivestimento cellulare più semplice, mantengono la colorazione violetta dopo essere stati trattati;

• i batteri Gram negativi, essendo circondati da un rivestimento più complesso, perdono la colorazione di Gram colorandosi di rosso per l’aggiunta di safranina (un secondo colorante).

Esigenze metaboliche In relazione alla necessità o meno di ossigeno, i batteri si distinguono in aerobi e anaerobi. La maggior parte dei batteri ha bisogno di ossigeno per il proprio metabolismo, questi batteri vengono quindi definiti aerobi. Altri, al contrario, non possono vivere in presenza di ossigeno, poiché non possiedono un sistema di detossificazione nei confronti dei prodotti derivanti dal suo metabolismo, e pertanto vengono detti anaerobi.

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Localizzazione a livello cellulare A seconda dell’esigenza di vivere dentro o fuori le cellule, i batteri vengono distinti in:

• extracellulari: se, come nella maggior parte dei casi, devono vivere fuori dalle cellule, cioè negli spazi interstiziali dei tessuti (per esempio, Escherichia coli e Pseudomonas sono batteri extracellulari obbligati);

• intracellulari facoltativi: se possono anche stare dentro le cellule (per esempio Salmonella e Shigella);

• intracellulari obbligati: se devono necessariamente vivere dentro le cellule (come Chlamydia e Mycoplasma).

La patogenicità dei batteri

I fattori che determinano la patogenicità dei batteri sono:

• il potere tossico • il potere invasivo • la capacità di resistenza alle difese dell’ospite

La presenza in grado variabile di ciascuno di questi fattori determina la virulenza del singolo ceppo di una specie patogena. Il potere tossico In alcuni casi la malattia infettiva può essere causata da sostanze tossiche presenti nei batteri (endotossine) o liberate da essi (esotossine). Le endotossine:

• sono macromolecole di struttura lipopolisaccaridica, formate cioè da lipidi e zuccheri complessi, costitutive della parete esterna dei Gram-negativi;

• hanno proprietà antigeniche (antigene 0), sono quindi in grado di stimolare la produzione di anticorpi, ma questi hanno attività antibatterica e non antitossica, non sono perciò in grado di neutralizzarle direttamente;

• tutte le endotossine di batteri diversi causano, in maniera più o meno accentuata, effetti simili: shock endotossico, vasculite focale e febbre (dovuta al lipide A);

• sono meno potenti delle esotossine, ma sono più stabili al calore.

Le esotossine:

• sono macromolecole di natura proteica; • a seconda del tessuto bersaglio della loro azione vengono distinte in:

1. neurotossine, che interferiscono con la trasmissione normale degli impulsi nervosi; 2. citotossine, che uccidono le cellule dell’ospite per mezzo di un’aggressione enzimatica; 3. enterotossine, che stimolano in modo anomalo le cellule dell’apparato gastrointestinale.

• sono molto potenti e quindi agiscono a dosi estremamente basse, ma sono termolabili.

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La capacità di resistenza alle difese dell’ospite I meccanismi con cui i batteri possono superare le barriere difensive dell’organismo sono:

• produzione di sostanze che ostacolano la fagocitosi (capsula, facile liberazione di antigeni che neutralizzano gli anticorpi opsonizzati);

• perdita di antigeni (rendono difficile il riconoscimento immunologico);

• liberazione di enzimi che favoriscono la diffusione dell’infezione (fibrinolisina, streptochinasi, stafilochinasi, ialuronidasi).

Principali batteri patogeni I batteri patogeni vengono suddivisi nelle seguenti classi a seconda della specie cui appartengono:

• cocchi Gram positivi (a loro volta divisi in stafilococchi e streptococchi) • bacilli Gram positivi (a cui appartengono, tra gli altri, i clostridi) • cocchi Gram negativi (a cui appartengono, tra gli altri, le neisserie) • bacilli Gram negativi • enterobatteri • batteri atipici

Cocchi

• Cocchi Gram positivi

STAFILOCOCCHI Gli stafilococchi sono batteri aerobi ospiti abituali della cute, cioè della pelle, e delle mucose (soprattutto nel rinofaringe, cioè naso e gola); in genere penetrano nell’organismo attraverso lesioni cutanee. Staphylococcus Aureus

E' in grado di incrementare le sue capacità invasive producendo tossine (enterotossine) ed enzimi (jaluronidasi); causa soprattutto infezioni della cute, foruncolosi, osteomielite, endocarditi, sepsi, e rare ma gravi polmoniti. E' inoltre responsabile di gravi infezioni nosocomiali e di tossinfezioni alimentari dovute all’enterotossina presente negli alimenti inquinati (in genere creme e gelati). Staphylococcus epidermidis

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E' un batterio ospite abituale di cute, cavo orale, narici, ed essendo presente nel pulviscolo atmosferico può inquinare materiali di diversi ambienti. Causa infezioni nosocomiali su protesi, cateteri venosi, pace-maker, e provoca inoltre infezioni delle vie urinarie. STREPTOCOCCHI Gli streptococchi sono batteri aerobi presenti sulla cute e sulle mucose dell’uomo e degli animali a sangue caldo. Elaborano numerose sostanze extracellulari, tra cui tossine ed enzimi, che ne aumentano notevolmente virulenza e invasività. Streptococcus pyogenes (b-emolitico di gruppo A)

È responsabile di processi suppurativi o sierofibrinosi delle mucose (soprattutto della faringe), della cute (ove provoca impetigine, piodermite, erisipela), delle articolazioni, e di membrane sierose, endocardio, meningi e organi interni. Raramente può anche causare setticemie (Streptococcical Toxic Shock Sindrome) e febbre puerperale con esito fatale. Come complicanza di un’infezione da Streptococcus pyogenes possono comparire reumatismo articolare acuto e glomerulonefrite. Questo batterio produce tossine extracellulari, come l’esotossina pirogena che è responsabile della caratteristica sintomatologia della scarlattina. Streptococcus viridans

E' un batterio che appartiene alla flora batterica del cavo orale, e svolge un ruolo importante nello sviluppo di carie e paradontosi; può essere anche implcato nello sviluppo dell’endocardite. Streptococcus pneumoniae (pneumococco)

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Si trova sulle mucose delle prime vie respiratorie nel 30% delle persone sane. È responsabile del 90% delle polmoniti batteriche. E' dotato di una capsula che lo protegge dalla fagocitosi da parte dei macrofagi. Può indurre anche una sindrome particolare detta sindrome emolitico-uremica. Enterococchi

Si trovano normalmente nell’intestino dell’uomo e di vari animali. Il ceppo più comune è l' Enterococcus faecalis. Questi batteri sono responsabili soprattutto di infezioni delle vie urinarie e, meno frequentemente, di endocarditi e sepsi.

• Cocchi Gram negativi NEISSERIE Sono batteri aerobi; tendono a dividersi in coppie e a formare dimeri. Neisseria meningitidis

Presente nel rinofaringe di portatori sani (fino al 30% della popolazione), è causa della meningite purulenta epidemica, che si diffonde con facilità e rapidità nelle comunità giovanili (asili, scuole, caserme). Alla sua patogenicità sembra partecipare anche un’endotossina dato che, inoculandola in quantità adeguata, si producono lesioni simili a quelle che si osservano nella malattia.

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Neisseria gonorrhoeae Non essendo in grado di sopravvivere nell’ambiente esterno, viene trasmessa solo per contatto diretto attraverso la via sessuale. È l’agente responsabile della blenorragia (o gonorrea), che nell’uomo si manifesta con un’uretrite acuta purulenta e nella donna con un’infezione diffusa (ma soprattutto una cervicite) delle vie genitali. Può indurre anche epididimite (nell’uomo), artrite gonococcica (soprattutto nella donna), una grave congiuntivite neonatale e, raramente, congiuntiviti o faringiti negli adulti.

Bacilli

• Bacilli Gram positivi

Corynebacterium diphteriae

Questo batterio sintetizza un’esotossina che distrugge le cellule con cui viene in contatto, ma è anche cardio- e neuro-tossico. È l’agente responsabile della difterite e provoca infezioni soprattutto delle tonsille e del rinofaringe o, più raramente, di ferite cutanee. Bacillus anthracis

Si tratta di un batterio sporigeno, anaerobio facoltativo. È l’agente del carbonchio, una malattia altamente infettiva che nell’uomo colpisce la pelle (pustola maligna) e i polmoni. La letalità è legata alla produzione di un’esotossina proteica, termolabile (cioè che viene distrutta dal calore). CLOSTRIDI I clostridi sono batteri anaerobi e sporigeni. Molti sono ospiti abituali dell’intestino dell’uomo e degli animali e sono patogeni solo opportunisti. Clostridium tetani

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Questo batterio è l’agente del tetano, è poco invasivo e penetra nell’organismo attraverso le ferite, grazie al terriccio o a corpi estranei contaminati. La reazione locale all’infezione di per sé è modesta, ma l’esotossina che il batterio produce è neurotossica e, quando raggiunge i centri nervosi, provoca convulsioni e contrazioni muscolari spastiche intermittenti, che sono particolarmente pericolose per la vita del paziente se colpiscono la muscolatura respiratoria della parete toracica e della glottide, poiché provocano asfissia. Clostridium botulinum Si tratta di un batterio dotato di una scarsa infettività, tuttavia può infettare le ferite o essere responsabile di infezioni nei neonati. Può inoltre provocare un grave avvelenamento alimentare (botulismo): la neurotossina che esso produce va a contaminare i cibi (soprattutto verdure, pesci, frutta e condimenti), in genere quelli confezionati in casa (es. conserve) o, comunque, secondo procedure di produzione e conservazione non corrette. La produzione di tossine si può verificare anche a basse temperature, es. a 3 °C, e quindi anche negli alimenti conservati nel frigorifero. Le tossine del clostridium botulinum sono invece termolabili: una cottura ad almeno 80 gradi per 30 minuti le distrugge. Bacilli Gram negativi

Haemophilus influenzae

E' un batterio aerobio e fa parte della normale flora delle vie respiratorie; ne esistono sei tipi capsulari. È responsabile di riacutizzazioni di BPCO (broncopneumopatia cronica ostruttiva), specie negli anziani, di bronchite acuta e di polmonite lobare, ed è il principale responsabile di otite, sinusite ed epiglottite nell’età pediatrica. Può essere particolarmente pericoloso, perchè causa sepsi, meningite e osteomielite nella prima infanzia. Presenta una sempre maggiore resistenza agli antibiotici beta lattamici, ma i ceppi incapsulati stano diventando sempre meno frequenti grazie alla vaccinazione anti-haemophilus influenzae praticata nei bambini. Bordetella pertussis È il batterio responsabile della pertosse, l’infezione bronchiale caratterizzata da accessi di tosse spastica seguiti da inspirazione forzata con il tipico stridio, e dall’emissione di muco denso e filante. Pseudomonas È un genere di germi che conta numerosissime specie a diffusione ubiquitaria. Sono germi molto

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resistenti ai disinfettanti, e si ritrovano facilmente nei lavandini, nei recipienti per rifiuti, nei sanitari e nei condizionatori. Possono inquinare il materiale medicale. Alcune specie fanno parte della normale flora saprofita e possono colonizzare la cute e l’intestino dell’uomo. Possono provocare infezioni delle ferite e delle vie urinarie e causare anche polmoniti in alcune categorie di pazienti debilitati o immunocompromessi(per es. in quelli ricoverati nei reparti di terapia intensiva, nei pazienti con HIV); possono inoltre provocare gravi sepsi negli ustionati.

Enterobatteri

Gli enterobatteri sono normalmente presenti nell’intestino. Se si insediano in altri organi possono provocare gravi infezioni per lo più endogene (pielonefrite, colecistite, colangite, infezioni di ferite, setticemia, meningite). Escherichia coli La maggior parte dei ceppi è costituita da patogeni facoltativi, ma si trovano anche patogeni obbligati che causano infezioni enteriche. Esistono almeno quattro tipi di infezione enterica: diarrea (per lo più dei neonati e causata da ceppi enteropatogeni), diarrea acquosa (causata da ceppi enterotossici), dissenteria con sangue, muco e leucociti nelle feci (causata da ceppi enteroinvasivi che uccidono le cellule della mucosa intestinale) e colite emorragica (causata da ceppi del sierotipo 0157:H7, che si trovano principalmente nella carne bovina mal cotta e producono una tossina identica a quella delle Shigelle). L'Escherichia coli causa anche l’85 per cento delle infezioni delle vie urinarie. Il 50 per cento dei ceppi produce beta-lattamasi, pertanto è resistente alla terapia con antibiotici beta-lattamici. Klebsiella spp. Sono batteri che si trovano un po’ ovunque e possono infettare le attrezzature mediche (dispositivi respiratori e cateteri). Causano soprattutto infezioni nosocomiali, che possono essere particolarmente gravi nei pazienti immunocompromessi. La maggior parte dei ceppi produce beta-lattamasi. Proteus spp.

Sono batteri mobili molto diffusi nelle acque, nel suolo, nelle fogne e sui vegetali. Il Proteus mirabilis causa infezioni delle vie respiratorie. Il Proteus vulgaris è responsabile, invece, di infezioni secondarie nelle necrosi (piaghe da decubito, ulcere varicose delle gambe, eccetera). Sono inoltre possibili infezioni dell’orecchio, peritoneali ed enteriche. Salmonella spp.

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Comprende un vasto numero di sierotipi che possono infettare numerose specie di animali (soprattutto pollame) dal cui contatto diretto o indiretto si può contrarre una salmonellosi. La Salmonella typhi, l’unica patogena solo per l’uomo, è l’agente eziologico del tifo o febbre tifoide, un’infezione generalizzata con invasione del tessuto linfatico, caratterizzata da febbre con bradicardia relativa. La Salmonella paratyphi è responsabile del paratifo, una malattia simile alla precedente ma con manifestazioni meno gravi e una maggiore partecipazione gastroenterica, soprattutto di tipo diarroico. Shigelle spp. Si conoscono 4 specie enteropatogene: Shigella dysenteriae, Shigella flexneri, Shigella boydii, Shigella sonnei. Questi batteri provocano la dissenteria (più grave con Shigella dysenteriae). Nel bambino l'infezione è molto grave e comporta anoressia, nausea, vomito, diarrea con sangue, muco e pus nelle feci, e un concreto rischio di disidratazione dato dall’elevato numero delle scariche (20 o più al giorno). Il contagio avviene attraverso cibo od oggetti contaminati.

Lieviti e muffe Lieviti e muffe sono organismi microscopici che appartengono al regno dei funghi. I lieviti sono funghi unicellularidi forma rotondeggiante dalle dimensioni di 5-10 micron; come tutti gli altri funghi, sono eucarioti (le cellule hanno nucleo visibile e provvisto di membrana nucleare. Si riproducono per gemmazione: la nuova cellula si sviluppa come una gemma, una piccola protuberanza della cellu-la madre, dalla quale poi si stacca. I lieviti si sviluppano in presenza di zuccheri e sono importanti nel settore alimentare perché fermentano gli zuccheri producendo alcool (fermentazione alco-lica) e anidride carbonica. Vengono perciò utilizzati nella produzione del vino e della birra e per far “lievita-re” il pane: infatti, l’anidride carbonica prodotta è un gase fa “gonfiare” la pasta del pane, della pizza e di tutti gli altri alimenti lievitati (brioches ecc.). Il lievito ha un alto contenuto di vitamine del gruppo B e viene utilizzato anche come integratore alimentare. Tra i vari lieviti vanno ricordati quelli appartenenti al genere Saccharomyces, come il lievito di birra (Saccharomyces cerevisiae), utilizzati sia nella produzione del vino e della birra, sia nella panificazione. Le muffe sono microrganismi pluricellulari, costituiti da un intreccio di ife, alle cui estremità si sviluppa lo sporangio, che contiene le spore riproduttive. Si sviluppano facilmente in ambiente acido (pH 5,5) e a temperature di 15-30 °C; muoiono a 60-65 °C. Le muffe sono responsabili dell’alterazionedi molti alimenti, come il pane, le farine, i cereali in generale, il latte e i suoi derivati (burro, formaggi, yogurt), la carne, la frutta e le verdure.

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Le muffe del genere Penicillium si ritrovano spesso sugli agrumi (arance, li-moni) dove formano una patina blu-verdastra; allo stesso genere appartiene il Penicillium notatum, che produce la penicillina (il primo antibiotico scoperto da Alexander Fleming) e i Penicillium camemberti e roqueforti, che intervengono nella maturazione di alcuni famosi formaggi francesi (Camembert e Roquefort). Un altro genere di muffe è l’Aspergillus, che contamina farine e cereali e può produrre sostanze molto tossiche, come le aflatossine.

IL FERMENTATORE

Un fermentatore è un particolare bioreattore sterile utilizzato appositamente per svolgere al suo interno il processo di fermentazione.

Generalmente il processo della fermentazione avviene in maniera discontinua, per cui durante il suo funzionamento il fermentatore è isolato dall'ambiente esterno e viene aperto solo durante la fase iniziale di carica dei nutrienti e la fase finale di prelievo dei prodotti.

Il fermentatore è in genere dotato di strumentazioni per il controllo del processo e dispositivi per lo scambio termico, l'agitazione e la sterilizzazione.

Il fermentatore nell'homebrewing

Nel caso specifico dell'homebrewing il fermentatore ha solitamente la forma di un secchio, può essere di plastica rigida o di acciaio inox ed avere diverse dimensioni. Quelli più comunemente utilizzati (nonché più facilmente reperibili sul mercato) sono di plastica, hanno una capacità di 28 o 32 litri e consentono agevolmente di produrre una cotta di birra di 23 litri (come è nella maggior parte delle ricette).

Un fermentatore standard è composto dalle seguenti parti (dall'alto verso il basso):

• gorgogliatore: è semplicemente un "sifone" che permette all'anidride carbonica in eccesso di uscire ed impedisce alle impurità provenienti dall'ambiente esterno di penetrare e contaminare la birra;

• guarnizione del gorgogliatore: serve a far aderire bene il gorgogliatore al coperchio del fermentatore;

• coperchio: chiude il fermentatore in modo ermetico; • termometro adesivo: indica la temperatura approssimativa alla quale sta avvenendo la

fermentazione; • falso fondo (opzionale): posizionato sul fondo del fermentatore filtra le trebbie; • rubinetto: rende agevole il travaso della birra tramite un apposito tubo che vi si può

innestare; • anti-sedimento per rubinetto (opzionale): evita, in fase di travaso, che passino dal rubinetto

anche materiali non desiderati come lievito esausto o trebbie.

Altri tipi di fermentatore di tipo semi-industriale o industriale possono avere forme diverse ed in particolare avere un fondo ad imbuto (necessita di supporto, "baggiolo") ed un doppio rubinetto (uno per l'imbottigliamento ed uno per lo scarico).

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IL DNA Cos’è il DNA in parole semplici? Dove si trova? Spesso ci chiediamo che cosa vuol dire questa parola che ci sembra così complicata. In realtà è molto più facile di quanto si possa pensare. Rivolgiamo il nostro pensiero ad una lunga catena, come se fosse una doppia spirale, una doppia elica. E’ questo il DNA: si trova all’interno di ogni cellula del corpo umano. E’ composto da cromosomi, che contengono tutte le informazioni genetiche che si trasmettono da un individuo all’altro. Ogni parte del DNA è formata da elementi più semplici, come se fossero gli anelli di una catena. Il DNA è la base fondamentale della vita.

La struttura

Ogni molecola di DNA, a differenza dell’RNA (un’altra catena chimica delle cellule), è formata da elementi più semplici, che vengono chiamati nucleotidi. Questi ultimi, a loro volta, sono costituiti da uno zucchero, un fosfato e da un’altra molecola, che appartiene alle basi azotate. Ogni nucleotide della catena forma dei legami con altri due nucleotidi. Nella doppia elica gli zuccheri e i gruppi fosfato sono disposti verso l’esterno e formano l’ossatura dell’intera struttura, disposta in maniera verticale. Per quanto riguarda, invece, le basi azotate, esse sono: adeina, timina, guanina e citosina. I loro appaiamenti non avvengono a caso, perché l’adenina si appaia con la timina e la guanina con la citosina. Lo schema seguito prende il nome di complementarietà delle basi.

Le funzioni

La funzione più importante del DNA è quella di contenere le informazioni necessarie per far funzionare l’organismo. Questi dati possono essere trasmessi da una cellula all’altra e da un organismo all’altro. Non dobbiamo, infatti, dimenticare che all’interno di questa molecola sono presenti le istruzioni fondamentali, che servono a sintetizzare delle proteine importanti per costruire i tessuti e gli organi e per poter mettere in atto tutti quei processi biologici e chimici che garantiscono la sopravvivenza dell’organismo. Tutte queste informazioni formano insieme il codice genetico, che è costituito da basi azotate disposte a tre a tre.

La funzione più rilevante del DNA è quindi quella di trasmettere le caratteristiche ereditarie da un individuo all’altro. La ricerca scientifica si è molto occupata del rapporto fra genetica e DNA, scoprendo anche nuovi fattori di sviluppo del genoma. Si è scoperto che molte componenti dell’individualità di ogni persona sono stabilite proprio da questa molecola: anche l’intelligenza che dura nel tempo è stabilita dal DNA, così come molte peculiarità fisiche, a partire dal colore dei capelli o da quello degli occhi.

Come si duplica

La molecola di DNA, per duplicarsi, in un tratto abbandona la sua forma a spirale. Interviene a questo punto un enzima, che va a separare i due filamenti che formano la doppia elica. Le basi azotate che rimangono esposte riescono ad agganciare i nucleotidi del DNA liberi nel nucleo. Perché si verifichi questo processo deve intervenire un enzima, il DNA polimerasi, che riesce ad agganciare le basi azotate complementari e a legarle le une alle altre. In questa maniera si ottengono due doppie eliche identiche a quelle che costituiscono il punto di partenza.

Ogni cellula del nostro corpo contiene lo stesso DNA ricombinante (in grado di ricombinarsi) in 46 cromosomi. Nelle cellule uovo della donna e negli spermatozoi dell’uomo è presente metà

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corredo cromosomico: nel momento del concepimento ogni spermatozoo, fondendosi con la cellula uovo, fa in modo che venga ricomposto il patrimonio intero di 46 cromosomi. Ogni individuo, in sostanza, riceve metà del proprio DNA dalla madre e metà dal padre.

Il DNA mitocondriale

Il DNA mitocondriale viene tramandato dalla madre ai figli. Da questo punto di vista è lecito affermare che tutti i figli della stessa madre presentano lo stesso DNA mitocondriale. Le informazioni che caratterizzano questa molecola si trovano al di fuori dei cromosomi di una cellula. Più precisamente è possibile rintracciarle all’interno di alcuni organelli cellulari chiamati mitocondri. Esiste un apposito test del DNA mitocondriale, che serve a ricostruire la storia individuale in linea materna o a determinare la parentela di due o più persone proprio attraverso la linea ereditata dalla madre. Da non dimenticare, per la sua utilità, per ciò che riguarda i test del DNA, anche il fingerprinting: un metodo di identificazione costituito dal confrontare frammenti di DNA che provengono da individui differenti.

DNA RICOMBINANTE

Le biotecnologie sono una scienza nuova che comprende l’ingegneria genetica e che si basa sull’utilizzo del DNA ricombinante. Grazie agli enzimi di restrizione, delle vere e proprie “forbici molecolari”, si può tagliare un frammento di DNA e ricucirlo da un'altra parte. Ciò è possibile poiché questi enzimi creano frammenti di DNA dalle estremità coesive, cioè in grado di incollarsi fra loro in maniera perfetta. In questo modo è possibile incorporare un gene all’interno di un vettore, spesso un plasmide, che può essere inserito dentro un’altra cellula, anche di un’altra specie. Questa sarà quindi in grado di esprimere il gene esogeno, ovvero estraneo.

Ovviamente non è tutto così semplice come sembra: per esempio un gene eucariota che ha degli introni cioè regioni che non codificano, inserito in un procariota, non sintetizzerà la proteina corretta. Per risolvere questo problema si utilizza l’enzima trascrittasi inversa, in grado di creare una stringa di DNA complementare (cDNA) all’mRNA maturo, che ha già perso gli introni. Il cDNA viene poi inserito nel vettore, il quale sarà espresso nel procariota. Lo scopo delle biotecnologie è quella di utilizzare le cellule come delle “fabbriche”, in grado di compiere il lavoro per cui sono state riprogrammate, e di sfruttarne alcune caratteriste peculiari. Le applicazioni possono essere utilizzate in diversi campi:

• Medico - sintesi di farmaci, vaccini e antitumorali (l’insulina umana è stata la prima molecola prodotta da un batterio ricombinante), fecondazione artificiale, diagnosi, terapie geniche.

• Ambientale/agronomico - trattamento delle acque reflue (bioremediation), piante resistenti a condizioni avverse (parassiti, decomposizione, pesticidi, freddo, siccità).

• Industriale - produzione di biocarburanti (bioetanolo, biodiesel), di vitamine e di enzimi, utilizzati in settori come la cosmesi, il tessile e l’alimentare.

Gli organismi più utilizzati sono il batterio Escherichia coli, che vive nell’intestino umano, e il lievito Saccharomyces cerevisiae, il comune lievito del pane, i quali sono facilmente manipolabili, grazie alle conoscenze di tipo biochimico, biomolecolare e genetico finora acquisite. Inoltre questi

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organismi si replicano velocemente e hanno basse necessità nutrizionali. Ciò li rende perfetti per la crescita nei bioreattori, dispositivi utilizzati come contenitori dell’organismo ricombinante.

Gli studi biotecnologici hanno permesso di ottenere tecnologie molto importanti e utilizzate in modo diffuso nei laboratori di tutto il mondo. La tecnica chiamata PCR, ad esempio, è in grado di sintetizzare in breve tempo moltissime copie di un gene o di un suo frammento a partire anche da una sola molecola. Questa metodica è sfruttata anche dalla polizia scientifica per il test del DNA, una prova dal valore legale in sede di processo. Inoltre è oggi possibile sequenziare un genoma, ovvero “leggere” il DNA di ciascun individuo. Questa tecnica può avere riscontri preventivi importanti nella diagnosi precoce e nello studio della predisposizione ad alcune malattie. Il traguardo non più lontano è quello di creare un genoma completamente sintetico, da inserire in un organismo al posto dell’originale. Così facendo la cellula farà soltanto ciò che è scritto in questo nuovo DNA, essendo esso il suo “libretto di istruzioni”. In un recente esperimento il professor Craig Venter, uno scienziato americano di fama mondiale, è riuscito a inserire un genoma completamente artificiale in un batterio svuotato del suo DNA. Questa nuova cellula è il primo passo verso la creazione di nuove forme di vita capaci di svolgere i ruoli che l’uomo può sfruttare per il benessere suo e dell’ambiente, come la produzione di farmaci o la degradazione delle sostanze inquinanti.

L'INGEGNERIA GENETICA

L’ingegneria genetica può essere considerata la base sulla quale si fondano le biotecnologie moderne, in quanto permette di isolare un gene dall’organismo che lo possiede e inserirlo in un ospite spesso di una specie diversa.

L’ingegneria genetica permette anche di realizzare un gene sintetico, costituito da parti di geni diversi provenienti da più organismi: per esempio siamo in grado di sostituire la sequenza di DNA che precede un gene, chiamata promotore, cambiando il livello o le condizioni di espressione di quel gene.

Il promotore porta questo nome in quanto in grado di favorire il posizionamento della RNA polimerasi e di conseguenza la trascrizione del gene che lo segue. Per fare un esempio è possibile porre a monte (cioè prima) di un gene codificante per una proteina umana il promotore dell’operone lac di E. coli, il quale permette la trascrizione in presenza di lattosio e in assenza di glucosio, e inserirlo all’interno del lievito S. cerevisiae: il gene risulterà espresso soltanto quando si deciderà di inserire lattosio nel mezzo di cultura del lievito, eliminando allo stesso tempo il glucosio, mentre fino ad allora il gene esogeno (in quanto derivante da un organismo diverso dall’ospite) sarà come “invisibile” alle RNA polimerasi.

Similmente è possibile fondere insieme due porzioni codificanti, producendo così una sorta di “ibrido”, ovvero una proteina che per una parte appartiene a un gene e per metà a un altro. Questa tecnica è stata utilizzata, ad esempio, per ottenere un enzima in grado di resistere alle alte temperature, poichè esso è stato integrata con una porzione derivante da un organismo termofilo.

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La sintesi di un enzima dalle nuove caratteristiche viene chiamata ingegneria proteica, che permette in un certo senso di direzionare l’ingegneria genetica verso lo sviluppo di geni artificiali con una particolare sequenza.

Per esempio è possibile modificare l’attività o la specificità di un enzima cambiando alcuni residui della proteina: in alcuni casi cambiare anche solo un amminoacido può portare a grandi miglioramenti nell’uso della proteina stessa. Spesso vengono mutati i residui del sito attivo, che sono quelli primariamente coinvolti nell’interazione con il substrato: un esempio è dato da alcune proteasi, il cui sito specifico di taglio può essere modificato in diverso modo. Poichè le combinazioni possibili con cui mutare una proteina sono molteplici, è spesso utile usare la bioinformatica per prevedere la struttura 3D della proteina e come la modifica può influire sulla proteina stessa. Una volta identificato il residuo, il gene può essere mutato (o mutagenizzato) in maniera specifica: utilizzando tecniche di ingegneria genetica è possibile sostituire uno o più basi azotate per ottenere lo scopo.

Un passo oltre queste tecniche è l’ingegneria metabolica, che consiste nella ricostruzione di reti biologiche tipiche del metabolismo, avvalendosi anche della biologia dei sistemi, per poi modificarle ad un preciso scopo, come aumentare la produzione di una determinata sostanza.

Oltre a ciò è possibile inserire in un organismo una via metabolica (pathway) derivante da un altro, in modo da acquisire una capacità che prima non possedeva: un esempio è l’introduzione degli enzimi, e quindi dei geni, che permettano a lieviti modificati di utilizzare al meglio gli zuccheri pentosi, altrimenti molto poco sfruttati dalla cellula, per la produzione di biocarburanti.

La frontiera più “estrema” di queste applicazioni è la progettazione di un genoma interamente sintetico da inserire all’interno di un organismo al fine di riprogrammarne completamente l’organizzazione e la funzione interna. L’idea è quella di utilizzare la cellula come una piccola fabbrica che utilizza molecole organiche, preferibilmente a basso costo o di scarto, come materia prima al fine di produrre un bene o un servizio d’interesse.

LA SINTESI PROTEICA Si definisce sintesi proteica il processo con cui una sequenza di nucleotidi viene convertita nella successione di amminoacidi formanti una proteina. Alla sintesi proteica prendono parte attiva l'm-RNA, il t-RNA e l'r-RNA.

L'm-RNA copia l'informazione contenuta nel DNA e la trasporta dal nucleo al citoplasma (questo stadio è detto trascrizione); il t-RNA e l'r-RNA traducono il messaggio scritto sull'm-RNA in una sequenza di amminoacidi (questo stadio è detto traduzione). Durante la sintesi proteica perciò, l'informazione genetica passa dal DNA all'RNA e dall'RNA alle proteine. È questo il dogma centrale della biologia.

La trascrizione

La trascrizione è lo stadio della sintesi proteica in cui le informazioni sono trasferite dal DNA all'RNA, secondo le regole dell'appaiamento delle basi complementari.

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Come nella replicazione , è necessario che le basi azotate sporgano dalla doppia elica del DNA. Perciò il tratto di DNA che deve essere trascritto viene aperto in un punto ben preciso, caratterizzato dalla tripletta AUG di "inizio lettura". Un enzima, l'RNA-polimerasi, si lega a uno dei due filamenti di DNA che serve da "stampo", e procede dall'estremità 3' all'estremità 5' legando i ribonucleotidi complementari presenti nel nucleo. Si forma in questo modo l'm-RNA.

Quando l'RNA-polimerasi giunge alla tripletta di "fine lettura", l'm-RNA si separa dalla catena di DNA, passa per i pori della membrana nucleare ed entra nel citoplasma, dove si lega ai ribosomi. Il DNA "modello" si riavvolge a formare la doppia elica, oppure si lega a una nuova molecola di RNA-polimerasi per sintetizzare un nuovo filamento di m-RNA.

· La traduzione

La traduzione è lo stadio della sintesi proteica in cui le istruzioni portate dall'm-RNA vengono tradotte nella sequenza corretta di amminoacidi per formare una proteina.

La traduzione (v. fig. 5.6) ha luogo nel ribosoma (formato da r-RNA e proteine), composto da due subunità: quella piccola contiene un sito di legame per l'm-RNA; quella grande ha due siti di legame per due molecole di t-RNA e un sito che catalizza la formazione del legame peptidico tra due amminoacidi adiacenti.

Ogni molecola di t-RNA è specifica per un unico amminoacido ed è in grado di riconoscere sia l'amminoacido che deve trasportare, sia il codone complementare di m-RNA associato al ribosoma.

La traduzione ha inizio quando due codoni del filamento di m-RNA si legano alla subunità piccola di un ribosoma. Il primo codone è la tripletta di "inizio lettura" AUG, alla quale corrisponde l'amminoacido metionina; il secondo codifica il primo vero amminoacido della proteina. I due t-RNA, che hanno rispettivamente l'anticodone di inizio e l'anticodone complementare al secondo codone, si legano alla subunità grande e si forma un legame peptidico (cioè il legame tra amminoacidi che forma le proteine) tra i due amminoacidi trasportati.

Il t-RNA di inizio si stacca dal ribosoma mentre il dipeptide (i due amminoacidi uniti dal legame peptidico) rimane legato al secondo t-RNA. Il ribosoma si sposta sopra un altro codone dell'm-RNA e una nuova molecola di t-RNA con il proprio amminoacido si dispone nel sito di legame vuoto del ribosoma. Si crea un nuovo legame peptidico e il tripeptide si salda all'ultimo t-RNA. Il processo di allungamento della catena polipeptidica prosegue in questo modo finché tutte le triplette sono state tradotte e viene raggiunto il codone di "fine lettura". La proteina completa si stacca dal ribosoma e specifici enzimi scindono il legame con la metionina.

IL TRATTAMENO DEE ACQUE REFLUE

S definisce trattamento delle acque reflue (o depurazione delle acque reflue) il processo di rimozione dei contaminanti da un'acqua reflua di origine urbana o industriale, ovvero di un effluente che è stato contaminato da inquinanti organici e/o inorganici.

Le acque reflue non possono essere reimmesse nell'ambiente tal quali poiché i recapiti finali come il terreno, il mare, i fiumi e i laghi non sono in grado di ricevere una quantità di sostanze inquinanti

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superiore alla propria capacità autodepurativa. Il trattamento di depurazione dei liquami urbani consiste in una successione di più fasi (o processi) durante i quali, dall'acqua reflua vengono rimosse le sostanze indesiderate, che vengono concentrate sotto forma di fanghi, dando luogo a un effluente finale di qualità tale da risultare compatibile con la capacità autodepurativa del corpo ricettore (terreno, lago, fiume o mare mediante condotta sottomarina o in battigia) prescelto per lo sversamento[1], senza che questo ne possa subire danni (ad esempio dal punto di vista dell'ecosistema a esso afferente).

Il ciclo depurativo è costituito da una combinazione di più processi di natura chimica, fisica e biologica. I fanghi provenienti dal ciclo di depurazione sono spesso contaminati con sostanze tossiche e pertanto devono subire anch'essi una serie di trattamenti necessari a renderli idonei allo smaltimento ad esempio in discariche speciali o al riutilizzo in agricoltura tal quale o previo compostaggio.

Tipologia di reflui

Negli impianti di depurazione tradizionali, a servizio di uno o più centri urbani (impianti consortili) sono di norma trattate:

• le acque reflue urbane o scarichi civili: comprendono le acque di rifiuto domestiche e, se la fogna è di tipo unitario, anche le acque cosiddette di ruscellamento. Le acque di origine domestica sono quelle provenienti dalle attività domestiche e dalla deiezione umana, queste ultime ricche di urea, grassi, proteine, cellulosa ecc. Le acque di ruscellamento sono quelle provenienti dal lavaggio delle strade e le acque pluviali. Contengono, in concentrazione diversa, le stesse sostanze presenti nei reflui domestici ma inoltre possono presentare una serie di microinquinanti quali gli idrocarburi, i pesticidi, i detergenti i detriti di gomma ecc. Una delle principali caratteristiche dei reflui urbani è la biodegradabilità, che ne rende possibile la depurazione attraverso trattamenti biologici.

• alcune tipologie di acque di rifiuto industriale: gli scarichi industriali hanno una composizione variabile in base alla loro origine. Negli impianti di depurazioni tradizionali possono essere trattati solo quei reflui industriali che possono ritenersi assimilabili dal punto di vista qualitativo a quelli domestici. Tali scarichi possono essere eventualmente sottoposti a pretrattamenti in ambito aziendale, prima del loro scarico in fogna, per rimuovere le sostanze incompatibili con un processo di depurazione biologica. Infatti alcuni scarichi industriali possono contenere sostanze tossiche o suscettibili di turbare l'evoluzione biologica e pertanto tali da compromettere il trattamento biologico che è alla base del sistema depurativo tradizionale. Gli altri scarichi industriali possono avere una natura tale da essere insensibili ai trattamenti biologici pertanto devono essere trattati in maniera diversa direttamente nel luogo di produzione.

Classificazione dei solidi da rimuovere

Le acque provenienti da scarichi urbani contengono un elevato quantitativo di solidi di natura organica e inorganica che devono essere rimossi mediante il trattamento di depurazione. Tra le sostanze di natura organica fanno parte anche i microrganismi.

Le sostanze da eliminare si possono dividere in sedimentabili e non sedimentabili. Le prime sostanze sono solide e più pesanti dell'acqua e perciò vanno facilmente a fondo quando la velocità del deflusso si annulla o scende al di sotto di un certo limite.

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Le sostanze non sedimentabili in parte galleggiano e in parte restano nel liquido: disciolte o allo stato colloidale; lo stato colloidale si può considerare uno stato intermedio tra quello di soluzione e quello di sospensione propriamente detto.

Impianti di depurazione

Gli impianti di depurazione sono costituiti da una serie di manufatti (in genere in calcestruzzo armato) e apparecchiature, ognuno con specifiche funzioni, nei quali viene attuata la depurazione degli scarichi di origine civile e industriale.

Sezioni dell'impianto

Solitamente in un impianto di trattamento delle acque reflue si distinguono due linee specifiche:

• la linea acque; • la linea fanghi.

Nella linea acque vengono trattati i liquami grezzi provenienti dalle fognature e di regola comprende tre stadi, chiamati:

• pretrattamento: un processo di tipo fisico utilizzato per la rimozione di parte delle sostanze organiche sedimentabili contenute nel liquame comprende la grigliatura, la sabbiatura, la sgrassatura, la sedimentazione primaria;

• trattamento ossidativo biologico: un processo di tipo biologico utilizzato per la rimozione delle sostanze organiche sedimentabili e non sedimentabili contenute nel liquame. Comprende l'aerazione e la sedimentazione secondaria:

• trattamenti ulteriori: sono tutti quei trattamenti realizzati a monte o a valle dell'ossidazione biologica, permettono di ottenere un ulteriore affinamento del grado di depurazione. Comprende trattamenti speciali per abbattere il contenuto di quelle sostanze che non vengono eliminate durante i primi due trattamenti.

Nella linea fanghi vengono trattati i fanghi (separati dal refluo chiarificato) durante le fasi di sedimentazione previste nella linea acque. Lo scopo di tale linea è quello di eliminare l'elevata quantità di acqua contenuta nei fanghi e di ridurne il volume, nonché di stabilizzare (rendere imputrescibile) il materiale organico e di distruggere gli organismi patogeni presenti, in modo tale da rendere lo smaltimento finale meno costoso e meno dannoso per l'ambiente.

L'effluente finale trattato o refluo chiarificato viene convogliato in una condotta detta emissario, con recapito finale le acque superficiali (corsi d'acqua, mare, ecc.), incisioni o lo strato superficiale del terreno (es. trincee drenanti).

Classificazione dei processi

I trattamenti che sono svolti all'interno di un impianto di depurazione possono essere classificati in:

• trattamenti meccanici: si basano sull'azione di principi puramente fisici o meccanici; fanno parte di questa tipologia le operazioni preliminari di rimozioni dei solidi non disciolti;[2]

• trattamenti chimici: si basano sull'aggiunta di specifiche sostanze per lo svolgimento di particolari reazioni chimiche; a tale categoria appartengono le reazioni di neutralizzazione[2]

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(utilizzate per aggiustare il pH dell'acqua), l'aggiunta di sostanze per facilitare la precipitazione e per la disinfezione;

• trattamenti biologici: si basano su processi biologici a opera di microorganismi presenti nell'acqua; a tale categoria appartengono i trattamenti svolti per la separazione dei solidi disciolti in acqua

Pretrattamenti meccanici

I pretrattamenti meccanici comprendono le seguenti operazioni:

• grigliatura/stacciatura • dissabbiatura • disoleatura • equalizzazione e omogeneizzazione • sedimentazione primaria

I primi quattro trattamenti riportati (indispensabili) sono previsti a monte dei processi di depurazione veri e propri e permettono la rimozione di materiali e sostanze che per loro natura e dimensione rischiano di danneggiare le attrezzature poste a valle e di compromettere l'efficienza dei successivi stadi di trattamento. Per quanto riguarda l'ultimo trattamento della lista, non tutti gli impianti prevedono il sedimentatore primario anche se è

PRODUZIONE DELL'ALCOL ETILICO

L’alcool etilico è un buon solvente, un ottimo comburente, un buon substrato di partenza x sintesi specifiche e viene utilizzato anche nelle industrie dei liquori, dei cosmetici e delle essenze. Può essere prodotto per via chimica e per via fermentativa (per la necessità di ridurre l’impatto ambientale); è infatti uno dei risultati dell’attività metabolica di diverse specie di microrganismi a spese di sostanze zuccherine, amidacee e ligno – cellulosiche, generalmente di scarto. Le fonti sono di diverso tipo, anche se da tutte è possibile estrarre zucchero fermentescibile, e i microrganismi appartengono ai generi Saccharomyces, Candida, e alcune specie come Kluyveromyces fragilis e Zymomonas mobilis. Frutta a parte, è necessario effettuare opportuni pretrattamenti sulla maggior parte delle materie prime. La barbabietola e la canna da zucchero vengono sottoposti ad estrazione a caldo in acqua: tra i prodotti ottenuti viene separato il melasso, miscela costituita essenzialmente da saccarosio. Questo, previa diluizione ed aggiustamento di pH, viene sottoposto ad inversione, ovvero idrolisi in glucosio e fruttosio. Grano, granturco e la patata tramite cottura forniscono l’amico in sospensione gelatinosa (i chicchi dei cereali devono essere prima macinati a secco). L’amido subisce l’idrolisi enzimatica fino alla formazione del glucosio per opera delle amilasi e dopo della maltasi. I trattamenti per ottenere la cellulosa da paglia, residui della lavorazione di carta e legno e quelli erbacei, sono più complessi e costosi, anche se il materiale di partenza è il più conveniente. La cellulosa e i materiali che la contengono devono essere idrolizzati, o per via chimica o per via enzimatica, con rese limitate in entrambi i casi. Quando si parte direttamente dalla lignina è preferibile la via chimica: dopo la macinazione a secco, si utilizza un acido forte e concentrato (di

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solito acido solforico) nei limiti in cui provocherebbe la corrosione degli impianti e l’inibizione dei microrganismi. L’idrolisi biochimica invece viene eseguita soprattutto su materiali ricchi di cellulosa grazie all’azione di enzimi appartenenti alle cellulasi (idrolisi) presenti in molte specie microbiche. L’azione enzimatica viene preceduta dalla triturazione meccanica del materiale solido. I microrganismi selezionati vengono prima fatti crescere su substrati nutritivi molto ricchi, poi trasferiti su substrati poveri di sostanze azotate e ricchi di cellulosa, per indurre la cellula a produrre la quantità massima possibile di cellulasi. Infine la biomassa viene filtrata per poter riutilizzare le cellule. La resa in zuccheri è circa del 50%. La reazione che descrive la fermentazione del glucosio in alcool etilico è: C6H12O6 à 2C2H5OH + 2CO2 + 108,7 kJ Produzione dell’etanolo: Pretrattamento delle materie prime Sterilizzazione del bioreattore Immissione delle materie prime Preparazione dell’inoculo Semina nel bioreattore Bioconversione Recupero dei prodotti Estrazione e purificazione dell’etanolo Pretrattamenti:

• melasso = il saccarosio deve essere presente dal 10 al 20% e il pH deve essere di 4,5 • amido e cellulosa = triturazione e macinazione preliminare del materiale e successiva

idrolisi. Se chimica, aggiunta di calcare macinato e di una base per ottenere il pH richiesto e per provocare la precipitazione e la separazione di tutti gli ioni non desiderati. Se enzimatica, eventuale sterilizzazione e correzione del pH

• rifiuti solidi urbani = triturati e sottoposti ad idrolisi con acidi minerali forti concentrati (solforico, cloridrico e fluoridrico), neutralizzato, filtrato e immesso nel bioreattore.

Il mosto (melasso e altri materiali contenenti glucosio) viene arricchito di fosfato e ammonio, che favoriscono la crescita cellulare ed esaltano il metabolismo, acidificato a pH ≈ 4,5 e termostatato a circa 20°C. Nel bioreattore viene immesso prima il mosto e poi inoculato il lievito madre (ottenuto da semine per ingrandimenti successivi) nella misura del 5%. La fermentazione avviene tra i 25 e i 30°C, in anaerobiosi: il bioreattore viene riempito al massimo, la formazione di anidride carbonica in superficie impedisce l’eventuale ossigenazione e i microrganismi precipitano sul fondo. L’acidità e l’anaerobiosi non rende possibile l’inquinamento e la lavorazione discontinua può durare tra le 50 e le 70 ore. La resa è del 6,5% di etanolo corrispondente al 60% di saccarosio convertito, questo

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perché la fermentazione alcolica non è l’unico processo metabolico e perché l’alcool etilico prodotto inibisce la crescita dei lieviti tra valori dal 2% al 10% in base alla specie utilizzata. I bioreattori più utilizzato sono del tipo STR ad agitazione idraulica o pneumatica, capacità massima 106 L, a pressione normale o ridotta. Recentemente sono stati adottati anche CSTR e a torre a letto fluido. Nei primi la lavorazione è continua grazie a sistemi a letto fisso su cui vengono immobilizzati i microrganismi. Hanno il vantaggio di aumentare la resa fino al 90% della conversione in etanolo dello zucchero, incrementano la produttività grazie all’immissione continua di cellule giovani, mantengono le condizioni a livelli ottimali e semplificano e rendono continui i controlli. Nei secondi invece le cellule sono immobilizzate su supporti in sospensione che, mano a mano che si riproducono, flocculano, raggiungendo densità elevate e rese relativamente alte. Tra gli altri prodotti c’è il fuseloil (un insieme di alcoli superiori, acidi organici, esteri e aldeidi) e la glicerina. All’uscita dal bioreattore la fase solida deve essere separata da quella liquida. L’etanolo si distilla a T relativamente basse (78°C):

• a pressione normale e con batteri mesofili: centrifugazione o filtrazione • batteri e lieviti termofili: a 60 – 70°C prima separazione per evaporazione, poi

centrifugazione o filtrazione • a pressioni ridotte: l’evaporazione avviene in quantità maggiore

La separazione dell’etanolo dalla fase liquida avviene soprattutto per distillazione ed estrazione, in base alla qualità che si vuole ottenere. La distillazione permette di ottenere l’etanolo al 95% (sistema a due colonne termicamente accoppiate) o l’etanolo assoluto (sistema a quattro colonne termicamente accoppiate). La prima ottimizza le quantità relative liquido – vapore, riduce i costi energetici grazie alla possibilità di utilizzare lo stesso alcool come fluido riscaldante, fa risultare stabilizzato il ciclo fermentativo e riduce sensibilmente i rischi di contaminazione per la reimmissione di lieviti e di parte del liquido sottoposto a scambio termico nel bioreattore. La seconda, invece, grazie ai cicli interni ottimizza il risparmio energetico fino al 60% e riduce notevolmente lo smaltimento dei residui della fermentazione. Il fermentato può anche essere trattato per produrre carburante con il 10% di etanolo assoluto, utilizzando una tecnica mista di distillazione – estrazione.

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LA PRODUZIONE DELL'ACIDO LATTICO

L'acido lattico (nome IUPAC: acido 2-idrossipropanoico) è un composto chimico che svolge un ruolo rilevante in diversi processi biochimici.

L'acido lattico è un acido carbossilico, la sua struttura si distingue da quella dell'acido propionico per l'aggiunta di un gruppo -OH all'atomo centrale di carbonio. La sua deprotonazione dà origine allo ione lattato.

I sali dell'acido lattico sono usati come additivi dall'industria alimentare. Come acidificante alimentare, l'acido lattico ha un sapore meno marcato rispetto ad altri additivi, non volatile e senza odore e viene catalogato come acido di uso generale da agenzie regolatorie di diverse nazioni.

Viene utilizzato come conservante, acidificante, aroma, tampone pH e antibatterico in numerose applicazioni e processi alimentari, come ad esempio la produzione di dolci, pane e pasticceria, bibite, salse, sorbetti, prodotti caseari, birra, marmellate e confetture, maionese e altri cibi elaborati, spesso in unione con altri additivi. Un nuovo utilizzo dell'acido lattico e dei suoi sali è la disinfezione delle confezioni destinate a ospitare carni, in particolare pesci, in cui l'addizione di soluzioni acquose di acido lattico durante il processo di confezionamento aumenta la durata di conservazione e sfavorisce la crescita di colonie batteriche come ad esempio Clostridium botulinum.

Una larga frazione di acido lattico per applicazioni alimentari viene impiegata per produrre agenti emulsionanti a base di esteri lattici di acidi grassi a lunga catena, particolarmente adatti per prodotti da forno che richiedono acido lattico stabile ad alte temperature.

La fermentazione lattica è una via metabolica simile alla fermentazione alcolica, che tuttavia avviene in un unico passaggio, e non comporta la perdita di un atomo di carbonio sotto forma di CO2. L'enzima lattato deidrogenasi, infatti, riduce direttamente il piruvato a lattato, ossidando allo stesso tempo il NADH (+H+) a NAD+. La fermentazione lattica avviene nei muscoli del corpo umano a seguito di grande sforzo che comporta una non più corretta ossigenazione dei tessuti: l'organismo tuttavia produce acido lattico (l'acido carbossilico corrispondente al lattato) per ottenere comunque l’energia necessaria. Il dolore dei crampi è legato alla tossicità dell’acido lattico ai danni delle cellule muscolari. Anche microrganismi come i lattobacilli, tra cui i cosiddetti fermenti lattici utilizzati nella produzione per esempio dello yogurt, compione la fermentazione lattica. L'acido lattico è utilizzato industrialmente nella produzione di plastiche biodegradabili come il PLA (acido polilattico).

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LA PRODUZIONE DELL'ACIDO CITRICO

L'acido citrico è una sostanza solida, incolore, un tricarbossilico debole di Brønsted-Lowry, solubile in acqua in un ampio intervallo di pH.

L'acido citrico è uno degli acidi più diffusi negli organismi vegetali ed è un prodotto metabolico di tutti quelli aerobici. Il succo di limone ne contiene il 5-7% e l'arancia l'1% circa ed è presente anche in quasi tutta la frutta, nei legni, nei funghi, nel tabacco, nel vino e persino nel latte.

Originariamente l'acido citrico si ricavava dal succo di limone attraverso un complesso processo con soluzione di ammoniaca, cloruro di calcio e acido solforico. Da questa fonte venne isolato per cristallizzazione per la prima volta nel 1784 da Carl Wilhelm Scheele.

Attualmente viene prodotto attraverso fermentazioni su scala industriale utilizzando funghi (es. Aspergillus niger) o lieviti in bioreattori ad ambiente a basso pH (acidulato) e bassa concentrazione di ferro; a tale scopo si utilizzano chelanti degli ioni ferro come l'EDTA. In questo modo il ciclo di Krebs viene interrotto all'acido citrico che può essere estratto dalla cellula e purificato.

L'acido citrico è un acido carbossilico debole. Allo stato anidro l'acido citrico forma cristalli rombici di gusto leggermente acido e molto solubili in acqua. I tre gruppi carbossilici (-COOH) e infine anche il gruppo idrossilico (-OH), si ionizzano progressivamente passando da un pH moderatamente acido a un pH vicino alla neutralità (i.e. fisiologico), fino a un pH nettamente basico.

Funzioni e applicazioni

Biochimiche

L'acido citrico è un importante prodotto intermedio nel catabolismo dei carboidrati di tutti gli esseri viventi aerobici, incluso l'uomo. Il relativo processo biochimico prende il nome di ciclo di Krebs. Inoltre è un componente importante dell'osso, in quanto circa 1/6 della superficie dei cristalli di apatite nelle ossa è coperta da molecole di citrato, con effetto stabilizzante[2].

Cosmetiche e detergenti

Grazie alla sua azione anticalcare viene utilizzato diluito in acqua distillata come ammorbidente eco-sostenibile per il lavaggio in lavatrice e disincrostante per la lavatrice. Nei detersivi viene usato per ridurre la durezza dell'acqua. In cosmesi può essere utilizzato come correttore di pH.

Alimenti, bevande e limone

Nell'industria alimentare è usato, con la denominazione E330, come acidulante e per correggere il pH di coloranti basici. Può essere utilizzato come emulsionante, per esempio nei gelati, e per prevenire la cristallizzazione dello zucchero nel caramello. È molto usato come additivo in bibite, prodotti di confetteria, gelatine, marmellate, birre, bevande gassate e, insieme con il sodio bicarbonato, in preparazioni effervescenti.

Farmacologiche

In campo farmacologico viene usato come anticoagulante nella conservazione del sangue estratto e come conservante in preparati farmaceutici (medicinali).

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AMINOACIDI - PROTEINE - ENZIMI

Gli amminoacidi sono biomolecole fondamentali che costituiscono le proteine. Gli aminoacidi sono formati da due gruppi funzionali: un gruppo amminico (-NH2) e un gruppo carbossilico (-COOH) legati ad un carbonio centrale detto carbonio α. Al Cα sono legati un idrogeno e un gruppo R, detto anche catena laterale o gruppo funzionale, caratteristico di ogni amminoacido e che ne determina le proprietà chimico-fisiche. Nell’amminoacido glicina, R è un altro atomo di idrogeno, per cui il Cα non è un centro asimmetrico. In tutti gli altri amminoacidi, il Cα è legato a quattro gruppi diversi, per cui determina un centro chirale. Sebbene possano esistere entrambi gli isomeri D- e L-, in natura tutti gli amminoacidi sono L- (ad eccezione di alcuni amminoacidi liberi non proteici, presenti nella parete batterica).

PROPRIETA’ FISICHE: Gli amminoacidi sono solidi cristallini bianchi con caratteristiche fisiche paragonabili a quelle dei composti ionici, presentando punti di fusione elevati e scarsa solubilità nei solventi apolari.

PROPRIETÀ ACIDO-BASICHE: Dalla formula generale degli amminoacidi si nota immediatamente che i gruppi –NH2 e –COOH possono ionizzarsi in risposta a variazioni di pH del mezzo acquoso. Il gruppo -NH2 può accettare un protone, mentre il gruppo –COOH può cederlo: questa caratteristica rende gli amminoacidi degli anfoliti o zwitterioni, cioè ioni dipolari in grado di comportarsi sia come acidi che come basi.

PUNTO ISOELETTRICO: Esiste un pH a cui l’amminoacido è prevalentemente in forma di ione dipolare (la solubilità è minima); questo valore del pH si chiama punto isoelettrico e non coincide col pH=7 perché le due funzioni amminica e carbossilica hanno costanti di ionizzazione diverse. Il comportamento in soluzione varia a seconda della natura del gruppo R. In generale il punto isoelettrico degli amminoacidi che hanno solo una funzione basica ed una funzione acida è intorno a 6, quello con due funzioni acide è intorno a 3 e quello con due funzioni basiche è intorno a 9.

Il termine punto isoelettrico deriva dal fatto che lo ione dipolare ha carica netta uguale a zero e se posto in un campo elettrico, non migra ne’ verso l’anodo, né verso il catodo. A pH diverso dal punto isoelettrico ogni aminoacido avrà carica netta positiva o negativa, perciò migrerà verso l’anodo o verso il catodo, con una velocità che dipende anche dal suo peso molecolare. Questo principio è alla base della tecnica separativa detta elettroforesi.

PROPRIETA’ CHIMICO-FISICHE: Le proprietà chimico-fisiche degli amminoacidi sono determinate dai loro gruppi R. Esistono 20 amminoacidi comuni e alcuni amminoacidi rari che costituiscono le unità base delle proteine. Inoltre esistono oltre 150 amminoacidi non proteici, presenti soprattutto nelle piante e nei funghi. Gli amminoacidi comuni a tutte le proteine sono classificati in base alle caratteristiche dei loro gruppi R: 9 apolari (idrofobici); 6 neutri; 3 a carica positiva (basici); 2 a carica negativa (acidi). L’organismo è in grado di sintetizzare da sé molti amminoacidi, ma non tutti. Esistono infatti 8 amminoacidi detti essenziali, perché devono essere introdotti con la dieta. Essi sono: fenilalanina, isoleucina, lisina, leucina, metionina, treonina, triptofano e valina.

LEGAME PEPTIDICO E PEPTIDI: Due amminoacidi possono unirsi tra loro attraverso il legame ammidico detto legame peptidico, tra

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il gruppo –NH2 di un amminoacido e quello –COOH dell’altro amminoacido, con liberazione di una molecola d’acqua (reazione di condensazione). L’unione di due amminoacidi genera un dipeptide. Più amminoacidi uniti tra di loro generano un biopolimero detto polipetide.

Per convenzione i polipeptidi si scrivono riportando a sinistra l’amminoacido con la funzione amminica libera (amminoacido N-terminale), e a destra quello con la funzione carbossilica libera (amminoacido C-terminale). Ci possono essere oligopeptidi quando sono presenti 15-20 residui di amminoacidi, polipeptidi 21-100 residui, macroproteine quando superano i 100 residui fino a migliaia di amminoacidi.

ORIGINE DELLE PROTEINE: Le catene polipeptidiche possono ripiegarsi dando origine alle proteine, che sono quindi costituite da polimeri di amminoacidi. La differenza tra un polipeptide e una proteina propriamente detta, consiste nel fatto che la catena polipeptidica della proteina assume una particolare conformazione spaziale che le conferisce le sue caratteristiche funzionali (per esempio un enzima, un anticorpo, un recettore di membrana). La struttura della proteina è determinata dalla sua composizione amminoacidica. In particolare, la natura delle catene laterali R determina il ripiegamento dei diversi segmenti della catena secondo strutture precise.

In una proteina si distinguono:

• la struttura primaria, ovvero la sequenza lineare degli amminoacidi della catena polipeptidica;

• la struttura secondaria, determinata da forme di ripiegamento assunte spontaneamente da segmenti della catena polipeptidica, in funzione della loro composizione amminoacidica;

• la struttura terziaria, costituita da ulteriori ripiegamenti e interazioni tra le strutture secondarie delle varie porzioni della catena. Anche questa dipende dalla natura dei gruppi R degli amminoacidi;

• la struttura quaternaria, costituita dall’associazione di più catene polipeptidiche a formare proteine con più sub-unità.

STRUTTURA PRIMARIA: Nella struttura primaria il legame peptidico è rigido e impone una limitazione alle possibili conformazioni delle catene peptidiche.

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STRUTTURA SECONDARIA: Nella struttura secondaria la catena lineare si ripiega progressivamente in modo da permettere la formazione del maggior numero di legami idrogeno tra i gruppi carbonilici e i gruppi amminici dei legami peptidici. Questi ponti idrogeno favoriscono la nascita della struttura secondaria della proteina. Tale struttura risulta stabile perché i legami idrogeno nonostante siano legami piuttosto deboli, sono presenti in grande quantità.

Le catene polipeptidiche in una struttura secondaria possono avvolgersi lungo il proprio asse formando una struttura elicoidale detta alfa elica. In questo modo i gruppi C=O e N—H, sovrapposti e situati alla distanza di 4 amminoacidi, formano i legami a idrogeno in linee parallele all’asse dell’elica. Questo tipo di struttura viene preferita nelle proteine o in tratti di una proteina con residui voluminosi che possono così disporsi verso l’esterno dell’elica.

Nella cheratina della lana, sette alfa eliche sono avvolte una sull’altra formando una fibra.

La struttura β è dovuta ad interazioni che avvengono tra due tratti di catena proteica. Essi si collocano a fianco l’uno dell’altro, costringendo la catena peptidica ad assumere una disposizione caratteristica a fisarmonica. Anche in questo caso il numero elevato di ponti idrogeno rende stabile tale struttura. I gruppi R si dispongono molto vicini (poco voluminosi) al di sopra e al di sotto del piano mediano del foglietto. Se si scalda l’alfa-cheratina, si rompono i legami idrogeno tra le unità dell’elica e la proteina assume una forma più allungata e rigida: la beta-cheratina, fatta di foglietti beta. Per questo i parrucchieri per “stirare” i capelli li scaldano prima.

STRUTTURA TERZIARIA: Le proteine con struttura terziaria sono costituite da catene polipeptidiche molto lunghe: diversi segmenti di queste catene possono assumere conformazioni a foglietto beta o alfa-elica. Queste diverse strutture sono intercalate da tratti non strutturati, detti a gomitolo casuale o random coil. Le strutture secondarie a loro volta si ripiegano in complesse conformazioni spaziali, caratteristiche di ciascuna proteina. I responsabili di tale disposizione sono i ponti di solfuro, i legami ionici, le forze di legame idrofobiche e i legami idrogeno. In base alla forma assunta, le proteine terziarie possono dividersi in globulari e fibrose. Le proteine globulari sono quelle in cui la catena proteica presenta molti ripiegamenti, le proteine fibrose sono quelle in cui prevalgono strutture direzionate senza ripiegamenti random coil.

STRUTTURA QUATERNARIA: Le proteine con struttura quaternaria si formano quando due o più proteine globulari uguali o diverse si organizzano insieme tramite legami non covalenti per potenziare la loro funzionalità.

ENZIMI: Gli enzimi sono proteine specializzate per la funzione catalitica che controllano tutti gli eventi metabolici dell’organismo. Essi agiscono da catalizzatori biologici, aumentando notevolmente la velocità delle reazioni ma risultano immutati al termine del processo. Rappresentano una percentuale rilevante delle proteine cellulari benché ciascun tipo di enzima sia presente intracellularmente in quantità molto bassa.

NOMENCLATURA: Ad ogni enzima si attribuiscono due nomi: nome corrente e nome sistematico.

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Nome corrente: i nomi degli enzimi più comuni portano il suffisso “-asi” unito al nome del substrato della reazione (es. ureasi è l’enzima che agisce sull’urea) o ad una descrizione dell’azione dell’enzima o del tipo di reazione chimica che l’enzima catalizza (es. lattato deidrogenasi è l’enzima che opera sul substrato lattato deidrogenandolo). Alcuni enzimi conservano il vecchio nome comune (es. tripsina, ptialina).

Nome sistematico: gli enzimi sono suddivisi in 6 classi principali. Il suffisso “-asi” è unito ad una descrizione della reazione chimica catalizzata.

Ossidoriduttasi: Catalizzano le reazioni di ossidoriduzione. Trasferasi: Catalizzano il trasferimento di gruppi funzionali. Idrolasi: Catalizzano la rottura di legami con l’aggiunta d’acqua. Liasi: Catalizzano l’addizione di gruppi a doppi legami o l’inverso. Isomerasi: Catalizzano le reazioni di isomerizzazione. Ligasi: Catalizzano la formazione di legami accoppiati all’idrolisi di ATP.

STRUTTURA: Gli enzimi sono costituiti da una o più proteine globulari ad alto peso molecolare che costituiscono l’apoenzima. Talvolta esse svolgono la loro attività enzimatica tal quali (es. lisozima). In molti casi, gli enzimi necessitano della presenza di Cofattori, Ioni o molecole non proteiche, indispensabili affinché l’enzima possa svolgere la sua attività catalitica. I cofattori più comuni comprendono ioni metallici (p.es. Zn 2 +, Fe 2 +) e molecole organiche (coenzimi) derivanti in molti casi da vitamine. Cofattore e apoenzima costituiscono la proteina coniugata denominata oloenzima.

Nelle molecole enzimatiche è presente una speciale tasca o solco, chiamato sito attivo. Esso contiene delle catene laterali di amminoacidi che creano una superficie tridimensionale che è complementare al substrato.

Il sito attivo si lega al substrato, formando un complesso enzima-substrato (ES). L’ES si converte in un enzima-prodotto (EP) il quale successivamente si dissocia in enzima (E) e prodotto (P).

Gli enzimi sono altamente specifici cioè catalizzano soltanto un tipo di reazione chimica ed interagiscono con uno o con pochi substrati. Essi catalizzano un solo tipo di reazione ed eliminano o riducono le possibili reazioni collaterali.

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FUNZIONAMENTO: Tutte le reazioni chimiche hanno una barriera energetica (chiamata energia di attivazione) che separa i reagenti dai prodotti.

Questa barriera è la differenza tra l’energia dei reagenti e l’energia dello stato di transizione T* che è uno stato ad alta energia.

A causa dell’elevata energia di attivazione, le reazioni non catalizzate procederebbero spesso con lentezza. In generale, un catalizzatore aumenta la velocità della reazione abbassando l’energia di attivazione. L’enzima non modifica l’equilibrio della reazione ma offre alla reazione un percorso alternativo in cui l’energia di attivazione è più bassa.

La velocità delle reazioni catalizzate dagli enzimi può essere influita da quattro fattori:

• La concentrazione del substrato • La temperatura • Il pH • Le modificazioni covalenti

CONCENTRAZIONE DEL SUBSTRATO: La velocità di una reazione catalizzata da un enzima aumenta all’aumentare della concentrazione del substrato fino a raggiungere una velocità massima (Vmax) che riflette la saturazione con il substrato dei siti attivi delle molecole di enzima presenti.

L’equazione di Michaelis-Menten descrive la variazione della velocità di reazione al variare della concentrazione del Substrato.

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v0 = velocità iniziale della reazione (*) Vmax= velocità massima Km = costante di Michaelis-Menten [S] = concentrazione del substrato

La Km è pari alla concentrazione di substrato alla quale la velocità della reazione è 1/2 della Vmax. La Km riflette l’affinità dell’enzima per il substrato: Km piccola, alta affinità dell’enzima per il substrato Km grande, bassa affinità dell’enzima per il substrato. Ogni enzima ha una Km caratteristica per un particolare substrato. La Km non varia al variare della [E].

La maggior parte degli enzimi segue la cinetica di Michaelis-Menten. Il grafico della velocità iniziale (v0) in funzione della concentrazione del substrato [S] ha un andamento iperbolico.

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Tracciando tale grafico non sempre si può stabilire con esattezza quando si raggiunge la Vmax poiché per elevate [S] la curva iperbolica ha un andamento asintotico.

Ponendo in grafico 1/ v0 in funzione di 1/[S], si ottiene una linea retta (grafico di Lineweaver-Burke). Il grafico di Lineweaver-Burke può essere utilizzato per calcolare la Km e la Vmax e per determinare il meccanismo d’azione degli inibitori enzimatici.

TEMPERATURA: La velocità di reazione aumenta con l’aumentare della temperatura fino a raggiungere un picco. Un ulteriore innalzamento della temperatura provoca una diminuzione della velocità di reazione a causa della denaturazione dell’enzima.

pH: Ciascun enzima ha un pH ottimale al quale la reazione è catalizzata con la massima efficienza. Esso in genere rispecchia quello dell’ambiente in cui l’enzima svolge normalmente le sue funzioni. La concentrazione degli H+ (pH) influenza l’attività enzimatica modificando la geometria del sito attivo e la distribuzione delle cariche elettriche dei gruppi coinvolti nel legame del substrato o nel processo catalitico stesso. Valori di pH estremi possono anche provocare la denaturazione dell’enzima. Un enzima è stabile ad un pH compreso tra 4 e 9 come le altre proteine.

INIBIZIONE DELL’ATTIVITÀ ENZIMATICA: L’Inibitore è una qualsiasi sostanza capace di far diminuire la velocità di una reazione catalizzata da un enzima. Gli inibitori possono essere: Inibitori reversibili, quando si legano agli enzimi con legami deboli, non covalenti. La diluizione del complesso enzima-inibitore provoca la dissociazione dell’inibitore e il recupero dell’attività enzimatica. Tale inibizione può seguire un meccanismo di tipo competitivo o non competitivo. Inibitori irreversibili o (inattivatori): si legano in modo stabile all’enzima, spesso con interazioni covalenti, inattivandolo.

Nell’inibizione competitiva, l’inibitore, strutturalmente simile, compete con il substrato per il legame a quel sito. Quando prevale la concentrazione del substrato, esso riesce a scacciare l’inibitore. Aumentando la [S] l’effetto di un inibitore competitivo si attenua fino ad annullarsi. Per una [S] sufficientemente elevata, la velocità di reazione raggiunge ugualmente la Vmax.

L’inibizione non competitiva si verifica quando inibitore e substrato si legano a siti diversi, chiamati siti allosterici. L’inibitore non competitivo può legarsi sia all’enzima che al complesso ES, bloccando la reazione. La Vmax è diminuita (l’inibizione non competitiva non si annulla aumentando la [S]). La Km rimane invariata (l’inibitore non competitivo non interferisce con il legame del substrato all’enzima). Sul grafico di Lineweaver-Burke le due rette (reazione inibita e non) intersecano l’asse y in punti diversi (la Vmax è diminuita) e quello delle x a livello di -1/ Km (la Km è immutata).

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Antibiotici

Meccanismi d'azione e utilizzo degli antibiotici

Gli antibiotici sono sostanze prodotte da microrganismi, che, se somministrati in dose adeguata, sono capaci di distruggere o di impedire la crescita e la moltiplicazione di altri microrganismi (batteri).

Gli antobiotici, che vengono prodotti per vie biosintetiche naturali, svolgono quindi una intensa attività antimicrobica che li rende indispensabili nella lotta contro le malattie infettive.

Struttura chimica degli antobiotici

La struttura chimica degli antibiotici è in genere molto complessa. Una volta nota la struttura della loro molecola, tutti gli antibiotici - in teoria - possono essere riprodotti in laboratorio; in pratica solo per alcuni si è riusciti a realizzare una sintesi totale.

Numerosa invece è la categoria degli antibiotici la cui struttura è stata parzialmente modificata per via chimica (antibiotici semisintetici). La struttura base dell'antibiotico (responsabile dell'attività antibiotica) viene conservata ma vengono apportate piccole modifiche alla molecola tali da aumentarne ad esempio la durata d'azione o diminuirne gli effetti collaterali indesiderati.

Meccanismo d'azione degli antibiotici

I meccanismi d'azione degli antibiotici sono molteplici. Nella maggior parte dei casi agiscono bloccando alcuni processi chiave del metabolismo batterico, quali ad esempio:

• la sintesi proteica; • la sintesi degli acidi nucleici; • la fosforilazione ossidativa.

Sulla sintesi proteica agiscono - secondo meccanismi particolarmente complessi - alcuni antibiotici quali ad esempio il cloramfenicolo, la streptomicina (che agisce anche sulla membrana e sulla respirazione cellulare), le eritromicine e le tetracicline.

A livello di sintesi degli acidi nucleici e quindi sulla riproduzione batterica agiscono alcuni antibiotici polipeptidici e altri quali quali ad esempio le attinomicine.

Antibiotici quali la gramicidina e la streptomicina agiscono invece sulla fosforilazione ossidativa.

L'azione degli antibiotici può inoltre esercitarsi sia a livello della parete cellulare che della membrana cellulare.

A livello della parete cellulare agiscono alcuni antibiotici come ad esempio le penicilline, le bacitracine, la cicloserina; tali sostanze agiscono impedendo l'incorporazione in essa di taluni costituenti e inibendo in tale modo la crescita delle cellule batteriche.

Sulla membrana cellulare agiscono invece alcuni antibiotici polipeptidici (tirocidina, polimixine).

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Meccanismi di azione di alcuni antibiotici.

Campo d'azione degli antibiotici

Il campo d'azione di ogni antibiotico (spettro dell'antibiotico) può essere più o meno ampio dal punto di vista terapeutico.

Regola generale vuole che gli antibiotici a ristretto spettro d'azione siano quelli che agiscono a dosi minori, e viceversa.

Resistenza agli antibiotici

Alcune cellule microbiche possono sviluppare resistenza a un certo antibiotico. Ciò si verifica in quanto la callula microbica attua un processo di mutazione genetica, che interviene nel microrganismo in seguito a somministrazioni insufficienti e protratte dell'antibiotico.

Mutazioni genetiche si possono avere anche in seguito a trasmissione del fattore RTF (Fattore Trasmissibile di Resistenza) da alcune cellule batteriche che lo possiedono. Ciò spiega il meccanismo di "resistenza crociata", secondo cui alcune cellule batteriche divengono contemporaneamente resistenti a più antibiotici. Tale meccanismo sarebbe impossibile da spiegare ricorrendo unicamente all'ipotesi di una singola mutazione.

Con l'utilizzo prolungato negli anni può succedere che un antibiotico perda di efficacia in seguito all'acquisizione di resistenza da parte della cellula batterica. Da ciò deriva la necessità di scoprire sempre nuovi antibiotici e di modificarne chimicamente la struttura base di quelli già noti allo scopo di accentuarne l'azione battericida.

Classificazione degli antibiotici

Gli antibiotici possono essere classificati in più modi. Ad esempio, possono essere classificati in base alla natura dei microrganismi che li producono o sui quali agiscono o in relazione ai meccanismi d'azione.

La classificazione più utilizzata è quella di Goldberg che si basa su criteri puramente chimici. Tale classificazione suddivide gli antibiotici in otto categorie:

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• antibiotici ß-lattamici: sono chimicamente caratterizzati da una struttura chimica ß-lattamica. Appartengono a questa categoria le penicilline e le cefalosporine;

• amminoglicosidi: la loro molecola è caratterizzata dalla presenza di amminozuccheri. Appartengono a questa categoria la streptomicina, la streptidina e antibiotici particolarmente importanti nel trattamento delle infezioni causate da batteri gram-negativi;

• cloramfenicolo: questo antibiotico si caratterizza per avere uno spettro d'azione piuttosto ampio. Risulta infatti attivo verso i cocchi, i batteri gram-positivi e gram-negativi, le spirochete e altri virus di grandi dimensioni;

• tetracicline: la loro molecola è caratterizzata da una struttura tetraciclica contenente il nucleo dell'octaidronaftacene;

• macrolidici: chimicamente parlando sono lattoni macrociclici. Tra questi il più importante è l'eritromicina;

• peptidi: sono spesso costituiti da una catena polipeptidica ciclica. Gli amminoacidi di questi antibiotici hanno configurazione stereochimica D (si differenziano pertanto dagli amminoacidi delle proteine che, invece, sono tutti di configurazione L);

• ansamicine: la loro molecola è caratterizzata dalla presenza di un benzochinone inserito in una struttura ciclica;

• antitumorali: alcuni antibiotici svolgono una azione antitumorale. Tra questi, il più importante e il primo a essere utilizzato è l'adriamicina (daunomicina).

Effetti collaterali

I più comuni effetti collaterali degli antibiotici sono causati dal fatto che alterano il normale sviluppo della flora batterica intestinale e ciò può causare disturbi digestivi.

Ben più gravi sono gli effetti collaterli dovuti a reazioni allergiche.

LE VITAMINE

Le vitamine sono sostanze di natura organica indispensabili all'organismo per la crescita e per una corretta regolazione dei processi biologici.

La loro carenza è causa di gravi malattie.

Le ricerche in nutrizione hanno infatti dimostrato che il mantenimento in salute del corpo umano dipende non solo dall'apporto di una corretta quantità di carboidrati, proteine, lipidi e sali minerali, ma anche dall'apporto di piccolissime quantità di "fattori accessori" noti come vitamine e che, per il loro esiguo fabbisogno, vengono inclusi tra i micronutrienti.

Qual è il fabbisogno giornaliero di vitamine? Quali sono le fonti alimentari? Quale ruolo, le vitamine, svolgono nell'organismo? Cercheremo di rispondere a queste domande.

Sono 13 le vitamine di cui il corpo ha bisogno

Si tratta di molecole molto diverse tra loro ma che hanno alcune caratteristiche comuni:

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• sono essenziali per il normale funzionamento dell'organismo umano: il corpo non è in grado di produrle e devono essere assunte tramite una dieta equilibrata;

• sono necessarie per la crescita dell'organismo e anche se talvolta le dosi richieste sono dell'ordine dei microgrammi ognuna di esse svolge una funzione vitale e specifica;

• non vengono utilizzate a scopo energetico; • la mancanza di assunzione di un vitamina nella dieta è causa di sindromi carenziali specifici

che scompaiono con il ripristino nella dieta di quella specifica vitamina. • gli alimenti sono buone fonti di vitamine; ciascun alimento può fornire anche più vitamine

ma non esiste un unico alimento che le contenga tutte;

La maggior parte delle vitamine devono essere introdotte con la dieta dato che il nostro organismo non può sintetizzarle, oppure la sintesi risulta insufficiente.

La classificazione delle vitamine si basa sulla loro diversa solubilità in acqua e nei grassi; pertanto distinguiamo:

Vitamine idrosolubili

Le vitamine idrosolubili sono vitamine che anche se assunte in eccesso non danno problemi di tossicità, in quanto, grazie alla loro solubilità nei liquidi biologici, vengono eliminate con le urine.

GLI ANTICORPI

Un anticorpo (immunoglobulina nel caso fosse su un Linfocita B vergine) è una proteina con una peculiare struttura quaternaria che le conferisce una forma a "Y". Gli anticorpi hanno la funzione, nell'ambito del sistema immunitario, di neutralizzare corpi estranei come virus e batteri, riconoscendo ogni determinante antigenico o epitopo legato al corpo come un bersaglio.[1] In maniera schematica e semplificata si può dire che ciò avviene perché al termine dei bracci della "Y" vi è una struttura in grado di "chiudere" i segmenti del corpo da riconoscere. Ogni chiusura ha una chiave diversa, costituita dal proprio determinante antigenico; quando la "chiave" (l'antigene) è inserita, l'anticorpo si attiva. La produzione di anticorpi è la funzione principale del sistema immunitario umorale.

Gli anticorpi sono una classe di glicoproteine del siero, il cui ruolo nella risposta immunitaria specifica è di enorme importanza. Hanno la capacità di legarsi in maniera specifica agli antigeni (microorganismi infettivi come batteri, tossine o qualunque macromolecola estranea che provochi la formazione di anticorpi). Negli organismi a sangue caldo vengono prodotte dai linfociti B, trasformati per adempiere a questo compito, in seguito a stimoli specifici, in plasmacellule. Le immunoglobuline, insieme ai recettori dei linfociti T TCR (T Cell Receptors) e alle molecole del complesso maggiore di istocompatibilità MHC (Major Histocompatibility Complex) sono le uniche molecole capaci di legare l'antigene in misura altamente specifica.

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La storia degli anticorpi nasce nel 1890 con la scoperta da parte di Emil von Behring e Shibasaburo Kitasato dell'immunità umorale per la quale usarono il siero di animali immunizzati per trattare la difterite in alcuni pazienti. La componente proteica di questo siero venne chiamata inizialmente antitossina per l'azione rivolta verso le tossine batteriche. Con la scoperta che le immunoglobuline potevano reagire con molte altre sostanze, presero il nome attuale di anticorpi e le molecole in grado di legarli antigeni.

Le immunoglobuline fanno parte delle gammaglobuline facenti parte a loro volta delle globuline uno dei due gruppi di proteine plasmatiche (insieme alle albumine).

GLI ORMONI

Gli ormoni sono dei messaggeri chimici prodotti e secreti in piccole quantità, in maniera selettiva ed esclusiva, da parte di ghiandole endocrine. Sebbene qualsiasi ormone possa diffondere in tutto l’organismo attraverso il sangue, ognuno di essi influisce soltanto su cellule bersaglio. Inoltre essi non hanno attività energetica e plastica perché non entrano nella costituzione delle cellule.

La trasmissione dell’informazione ormonale è molto più lenta di quello nervoso che consente una reazione immediata. Gli ormoni si diffondono nel sangue in 5-10 secondi, agiscono poi nell’arco di 30 minuti fino a 3 ore. L’ormone delle crescita (GH), arriva compiere il suo compito addirittura dopo alcuni mesi.

LE FUNZIONI DEGLI ORMONI:

1. Regolatrice: o Composizione chimica e il volume del fluido interstiziale; o Il metabolismo e il bilancio energetico; o La contrazione delle fibre muscolari lisce e cardiache; o Le secrezioni ghiandolari; o Alcune attività del sistema immunitario; o L’attività degli apparati genitali;

2. Controllano l’accrescimento e lo sviluppo; 3. Aiutano a stabilire il ritmo circadiano.

CLASSIFICAZIONE DEGLI ORMONI:

In base alla loro struttura chimica, gli ormoni possono essere suddivisi in:

• Ormoni proteici (o peptidici), che includono peptidi, polipeptidi e glicoproteine. • Ormoni derivati da aminoacidi, tra cui:

o Ormoni derivati dal triptofano. o Ormoni derivati dalla tirosina, tra cui:

§ Ormoni tiroidei. § Catecolamine (dopamina, adrenalina e noradrenalina).

o Ormoni derivati dall’istidina. • Ormoni steroidei, il cui precursore comune è il colesterolo, tra cui:

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o Glucocorticoidi. o Mineralcorticoidi. o Androgeni. o Estrogeni. o Progestinici. o Vitamina D.

• Ormoni derivati da acidi grassi polinsaturi, tra cui: o Prostaglandine. o Leucotrieni. o Trombossani.

Un’altra suddivisione che si può fare è quella di ormoni liposolubili e ormoni idrosolubili.

Gli ormoni liposolubili comprendono gli ormoni steroidei, gli ormoni tiroidei e l’ossido di azoto. Essi superano la membrana plasmatica liberamente o per mezzo di trasportatori proteici e si legano a recettori citoplasmatici (per gli ormoni steroidei) o recettori nucleari che regolano direttamente la trascrizione genica (per gli ormoni tiroidei).

1. Nel circolo sanguigno un ormone liposolubile si stacca dalla sua proteina di trasporto. Quindi l’ormone libero passa dal sangue al fluido interstiziale e, attraverso la membrana plasmatica, penetra all’interno della cellula per diffusione.

2. L’ormone si lega ai recettori attivati all’interno della cellula. Il complesso ormone-recettore si lega al DNA e altera l’espressione genica accendendo o spegnendo i geni specifici.

3. Quando il DNA viene trascritto, si forma un nuovo RNA messaggero che lascia il nucleo ed entra nel citosol; in questa sede esso dirige la sintesi di una nuova proteina, spesso un enzima.

4. Le nuove proteine prodotte, per ordine dell’ormone, alterano l’attività cellulare e provocano la risposta tipica innescata da quell’ormone specifico.

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Gli ormoni idrosolubili sono amminoacidi modificati come gli ormoni proteici e catecolamine.

Essi non sono in grado di penetrare la barriera lipoproteica della membrana plasmatica ed entrare nel compartimento citoplasmatico, quindi richiedono la presenza di un recettore specifico posto nella membrana plasmatica, che a sua volta determina l’attivazione di una serie di segnali intracellulari (i secondi messaggeri) che avviano la risposta biologica.

1. Un ormone idrosolubile (il 1° messaggero) diffonde dal sangue e si lega al proprio recettore di membrana della cellula bersaglio.

2. Per effetto di tale legame, all’interno della cellula inizia una reazione che trasforma l’ATP in AMP ciclico (cAMP). La reazione che permette il passaggio è consentita dall’enzima Adenilato Ciclasi, localizzato presso le membrane cellulari ed è attivato dal Glucagone e dall’Adrenalina.

3. La cAMP (2° messaggero) provoca l’attivazione di diverse proteine. 4. Le proteine attivate innescano delle reazioni che portano alle risposte fisiologiche. 5. Dopo un breve lasso ti tempo la cAMP viene inattivata e la risposta della cellula viene

interrotta a meno che nuove molecole dell’ormone continuino a legarsi ai propri recettori sulla membrana plasmatica.

La risposta a un ormone dipende sia dalla sua natura chimica sia dalla sua cellula bersaglio.

La secrezione ormonale è regolata da:

• segnali provenienti dal sistema nervoso. • modificazioni chimiche nel sangue. • altri ormoni