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BIOMASSE E AGROENERGIA: UN MODELLO DI GOVERNANCE REGIONALE ATTRAVERSO L’ANALISI DEL CASO CAMPANIA BIOMASSE E AGROENERGIA UN MODELLO DI GOVERNANCE REGIONALE ATTRAVERSO L’ANALISI DEL CASO CAMPANIA INEA 2011 collana POLITICHE PER L’AMBIENTE E L’AGRICOLTURA ISBN 9788881xxxxxx a cura di Roberta Ciaravino e Vincenzo Sequino In questi ultimi anni, il mondo della ricerca è stato chiamato ad affrontare temi fondamentali e di interesse globale sui rapporti tra agricoltura e ambiente. Con tali consapevolezze, l’INEA si è posta come obiettivo la valorizzazione delle attività attraverso la definizione di un’area di ricerca “Politiche per l’ambiente e l’agricoltura”. Da oltre un decennio, infatti, l’INEA svolge studi su applicazione e valutazione delle politiche e sostenibilità dei sistemi agricoli, sviluppo dell’agricoltura biologica, ruolo dell’agricoltura nella difesa della biodiversità e nella lotta alla desertificazione, temi ambientali del settore forestale, fino a filoni più recenti quali la gestione del rischio climatico in agricoltura, i cambiamenti climatici e la produzione di bioenergie. Un ruolo importante è assegnato alla fase di condivisione dei risultati, affidato alla collana “Politiche per l’ambiente e l’agricoltura”, che vuole valorizzare le competenze e la produzione scientifica nel settore e contribuire al dibattito sulle tematiche, di cui il presente rapporto rappresenta uno dei primi prodotti.

collana politicHe per l’amBiente e l’agricoltura Biomasse

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Biomasse e agroenergiaun modello di governance regionale attraverso l’analisi del caso campania

inea 2011

collana politicHe per l’amBiente e l’agricoltura

isBn 9788881xxxxxx

a cura di roberta ciaravino e vincenzo sequino

in questi ultimi anni, il mondo della ricerca è stato chiamato ad affrontare temi fondamentali e di interesse globale sui rapporti tra agricoltura e ambiente. con tali consapevolezze, l’inea si è posta come obiettivo la valorizzazione delle attività attraverso la definizione di un’area di ricerca “politiche per l’ambiente e l’agricoltura”. da oltre un decennio, infatti, l’inea svolge studi su applicazione e valutazione delle politiche e sostenibilità dei sistemi agricoli, sviluppo dell’agricoltura biologica, ruolo dell’agricoltura nella difesa della biodiversità e nella lotta alla desertificazione, temi ambientali del settore forestale, fino a filoni più recenti quali la gestione del rischio climatico in agricoltura, i cambiamenti climatici e la produzione di bioenergie.un ruolo importante è assegnato alla fase di condivisione dei risultati, affidato alla collana “politiche per l’ambiente e l’agricoltura”, che vuole valorizzare le competenze e la produzione scientifica nel settore e contribuire al dibattito sulle tematiche, di cui il presente rapporto rappresenta uno dei primi prodotti.

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Istituto Nazionale di Economia Agraria

Biomasse e agroenergiaun modello di governance regionale

attraverso l’analisi del caso campania

a cura di

roberta ciaravino e vincenzo sequino

INEA 2011

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Istituto Nazionale di Economia Agraria

BIOMASSE E AGROENERGIA: UN MODELLO DI GOVERNANCE

PER LA CAMPANIA

a cura di

INEA 2011

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Il presente lavoro, realizzato nell’ambito del progetto “Promozione dello sviluppo di filiere agroenergetiche in Campania”, vuole essere un momento di sintesi dell’attività svolta negli ultimi tre anni dal gruppo di lavoro INEA, coinvolto nello studio ed analisi delle dinamiche delle agroenergie in Campania, a supporto dell’Area generale di coordinamento Sviluppo Economico ai fini della programmazione strategica nella redazione del Piano Energia ed Ambiente Regionale (PEAR). La cooperazione tra istituto di ricerca in agricoltura ed as-sessorato allo sviluppo economico ha rappresentato la vera peculiarità dello studio svolto, in quanto gli scenari energetici, sono stati prefigurati cercando di facilitare l’incontro tra istanze provenienti dal settore produttivo e dal settore primario. In questo senso si ringra-zia per la fattiva collaborazione anche l’Area generale di coordinamento Sviluppo Attività Settore Primario della Regione Campania.

L’ elaborazione di metodologie ed analisi dello studio sono state realizzate dal Gruppo di lavoro INEA composto da: Roberta Ciaravino, Domenica di Matteo, Giovanni Paribello, Vincenzo Sequino, Rossana Spatuzzi.

Alla redazione del presente volume hanno contribuito:

Coordinamento scientifico: Roberta Ciaravino e Vincenzo Sequino

Capitolo I - Vincenzo Inserra (Cap. 1.1., 1.2) Roberta Ciaravino (Cap. 1.3, 1.4) Giovanni Paribello (Cap 1.5)

Capitolo II – Roberta Ciaravino

Capitolo III - Rossana Spatuzzi

Capitolo IV – Domenica di Matteo

Capitolo V - Vincenzo Inserra

Elaborazioni cartografiche - Giovanni Paribello

Si ringrazia: il Professore Antonio Saracino del Dipartimento di Arboricoltura, Botanica e Patologia Vegetale della Facoltà di Agraria di Portici, il Settore Sperimentazione Infor-mazione Ricerca e Consulenza in Agricoltura (Se.S.I.R.C.A.) AGC 11- Regione Campania nella persona di Amedeo D’Antonio

Coordinamento editoriale: Benedetto Venuto

Realizzazione grafica: Ufficio grafico INEA (Barone, Cesarini, Lapiana, Mannozzi)

Segreteria di redazione: Roberta Capretti

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III

IndIce

Premessa V

Introduzione VII

Capitolo 1

Le agroenergIe: La dImensIone comunItarIa, nazIonaLe deLLe poLItIche

1.1 La rinnovata sensibilità verso le fonti energetiche alternative: gli anni ’90 e la congiuntura energetica europea 1

1.2 Lo sviluppo dell’agroenergia: da esigenza ambientale a nuova prospettiva per il comparto agricolo ed il territorio 8

1.3 Evoluzione normativa del sistema energetico 10

1.4 Incentivazione della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili 14

1.5 Biomasse e biocombustibili: alcuni aspetti ambientali e fiscali 19

Capitolo 2

IL ruoLo regIonaLe neL sIstema energetIco

2.1 Il ruolo regionale nel sistema energetico 23

2.2 Il procedimento autorizzativo in Regione Campania 27

2.3 l bilancio energetico in Campania 28

2.4 Il PASER, il PEAR e gli altri strumenti di programmazione tra efficienza, risparmio ed energia rinnovabile 30

Capitolo 3

agroenergIa e agrIcoLtura In campanIa

3.1 Biomassa dall’agricoltura 41

3.2 Colture energetiche dedicate 43

3.3 Biomassa residuale 45

3.4 Lo scenario agro-forestale regionale 47

3.5 Analisi SWOT e governance agro energetica 55

Capitolo 4

IL potenzIaLe agroenergetIco In campanIa

4.1 La metodologia di indagine 65

4.2 La filiera del biogas 68

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IV

4.3 La filiera della biomassa lignocellulosica 78

4.4 La valorizzazione energetica delle biomasse 86

4.4.1 Potenziali energetici delle biomasse residuali individuate 90

4.4.2 Organizzazione delle filiere 92

Capitolo 5

La reaLIzzazIone dI un dIstretto agroenergetIco In campanIa: costruzIone dI un modeLLo teorIco dI rIferImento

5.1 Territorio, risorse, distretto e filiera come capitale per l’implementazione di un progetto agroenergetico 107

5.2 Il piano di comunicazione del bacino agroenergetico 125

5.2.1 Il profilo teorico peliminare tra marketing ambientale e brand del territorio 137

5.2.2 Il profilo pratico del Piano di Comunicazione: output, strumenti, messaggi e dimensioni comunicative 142

5.2.3 Il Piano di Comunicazione e la risoluzione dell’effetto NIMBY tra compensa- zione riparatoria ed oggettività dell’informazione 151

Appendice 155

Riferimenti bibliografici

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V

premessa

In uno scenario di sviluppo in cui l’approvvigionamento dell’energia che si deve co-niugare con la salvaguardia dell’ambiente, diventa uno dei punti più complessi alla base della evoluzione economica e sociale del mondo, l’azione delle realtà territoriali di piccola scala, si colloca molto bene in un quadro di bilanciamento degli interessi.

In Italia dopo la nazionalizzazione del sistema elettrico (1962), la trasformazione di ENEL in SpA (1992) e la liberalizzazione del mercato (1999), si è giunti alla sostituzione di una piccola parte dell’energia prodotta in energia pulita, ma non si è certo risolto il pro-blema della dipendenza energetica dagli altri Paesi (Francia e Slovenia principalmente).

Nel passaggio a politiche maggiormente mirate allo sviluppo sostenibile ed a visioni ecologiste ed ambientaliste, la produzione energetica nazionale ha contribuito alla gradua-le trasformazione da “produzione accentrata” (mega centrali di centinaia di megawatt a carbone, petrolio, gas naturale) a “produzione decentrata” (piccole centrali di pochi mega-watt di potenza, dislocate in maniera diffusa sul territorio, alimentate da fonti alternative e rinnovabili). Una sorta di “federalismo energetico” che spinge anche verso una maggiore infrastrutturazione dei territori, alla quale bisogna dedicare la giusta attenzione in fase di programmazione degli interventi, per poter preservare la naturalità del paesaggio rurale.

Ma qual è il contributo che l’agricoltura ed il mondo rurale possono dare al settore energetico e di contro quali sono i vantaggi che da questo nuovo filone economico ne pos-sono trarre?

L’energia prodotta a partire da fonti rinnovabili non ha conosciuto crisi. Il settore è incentivato a livello politico, economico, industriale e di ricerca. Le prospettive di svilup-po per il cosiddetto green job sono entusiasmanti. Eppure l’agroenergia stenta a decollare soprattutto in Campania. I fattori critici già individuati come freno all’avvio di un processo di sviluppo sono l’assenza di una filiera strutturata sul territorio regionale, la complessità dell’iter burocratico-amministrativo e la molteplicità di norme a cui questo fa riferimento, oltre alla diffidenza che attualmente hanno le comunità, gli enti locali, le utenze ad ac-cettare progetti riguardanti l’utilizzo di biomasse molto spesso identificate con il rifiuto indifferenziato.

Il presente lavoro vuole delineare un modello attuabile per lo sviluppo di filiere agro-energetiche attraverso la compartecipazione di imprese, attori locali, territori.

L’analisi effettuata parte dal presupposto che in Campania non è percorribile l’ipotesi di sfruttamento di terreni attualmente dedicati alle produzioni agricole food (di qualità e non) e d’altro canto è importante preservare sia il paesaggio rurale, la biodiversità, ma an-che l’informazione e la conoscenza da parte della popolazione locale.

Lo studio è stato quindi focalizzato sulle biomasse residuali, sottoprodotti dell’attivi-tà agri-silvicola che normalmente non solo l’impresa agricola non utilizza, ma che smalti-sce attraverso costi aggiuntivi, favorendo l’utilizzo energetico di materiali che attualmente hanno un impatto ambientale negativo (come le deiezioni animali), oltre alla salvaguardia di aree boscate da fenomeni di dissesto ed abbandono (recupero della biomassa ligno-cellulosica attraverso la corretta gestione forestale).

Secondo questo approccio, il comparto agricolo rappresenta il primo passo per un concreto start-up della filiera basato da un lato sul versante dell’autoconsumo per le im-

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prese del settore agricolo, dall’altro favorendo la creazione di vere e proprie filiere agro-energetiche nelle aree rurali con l’obiettivo di creare un sistema economico integrato con la produzione di energia pulita.

Benché gli obiettivi in termini di potenza installabile possano essere considerati non così rilevanti, le agroenergie originano molteplici attese in termini di sviluppo locale nelle aree rurali. L’approccio strategico alla materia quindi deve essere necessariamente di tipo multidisciplinare ed intersettoriale sia a monte, con una governance basata sull’in-terazione tra enti locali e centrali, sia a valle con la costituzione di partenariati complessi che assicurino il consenso intorno ad un progetto comune e definiscano il comportamento di tutta la filiera locale delle bioenergie.

Questo rapporto fornisce un quadro esaustivo creando le basi di alcune riflessioni importanti per ideare strumenti di azione.

Prof. Ing. Sergio Vetrella

Assessore Trasporti, Viabilità e Sviluppo Economico della Regione Campania

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VII

IntroduzIone

Le parole “sostenibilità”, “cambiamenti climatici”, “energie rinnovabili”, “agroener-gia” sono sempre più presenti nel linguaggio corrente e cominciano a diffondersi anche tra i non addetti ai lavori. Ciò deriva dalla maggiore attenzione rispetto alle questioni ambien-tali e dalla crescente consapevolezza che determinati cambiamenti negli stili di vita non solo sono necessari, ma vanno messi in atto al più presto, a partire dagli accordi interna-zionali fino alle abitudini comuni del singolo cittadino.

In Campania non è stato ancora avviato un vero e proprio processo di sviluppo dell’agroenergia. Fatta eccezione per poche ed isolate iniziative, non sono ancora presenti sul territorio regionale delle filiere agro energetiche. Il crescente interesse del mondo im-prenditoriale è testimoniato però dalle numerose richieste di autorizzazione presentate presso gli uffici regionali competenti. Diventa cruciale in questa fase gestirne il processo di sviluppo per indirizzare e monitorare le ripercussioni sul territorio in particolare in relazione all’agricoltura.

Se si pensa ad un contesto socioeconomico consolidato, più o meno ampio che sia, è facile immaginare la complessità delle azioni da intraprendere perché questo possa riadat-tarsi/ ristrutturarsi e rispondere concretamente alle richieste di sostenibilità. Tale rivolu-zione sostenibile è da intendersi come un riequilibrio tra le fonti energetiche a vantaggio delle rinnovabili ed allo stesso tempo la loro più efficiente utilizzazione. Il tutto, in una visione più ampia, associato ad una corretta gestione delle attività produttive e dei relativi carichi inquinanti nell’ambiente, etc. È compito delle Istituzioni gestire questo cambia-mento, informare sulle opportunità e sui rischi, divulgare le possibilità sempre nuove delle tecnologie emergenti, offrire un’adeguata gamma di incentivi.

Sul tema delle energie la Regione Campania ha emanato, nel marzo 2009, una propo-sta di Piano Energetico Ambientale Regionale (PEAR) incentrando l’attenzione nel valoriz-zare le risorse naturali e ambientali territoriali, promuovere processi di filiere corte terri-toriali, stimolare lo sviluppo di modelli di governance locali, generare un mercato locale e regionale della CO

2, potenziare la ricerca e il trasferimento tecnologico, avviare misure di

politica industriale. L’introduzione di politiche volte a “decarbonizzare” l’economia, cioè a ridurre le emissioni di CO

2 in atmosfera, potrà offrire importanti opportunità commerciali

nei settori tecnologici legati all’efficienza energetica ed alle energie rinnovabili, promuo-vendo il contenimento della spesa relativa all’approvvigionamento energetico, una moder-nizzazione in chiave ecologica del sistema economico e la creazione di comunità locali più sostenibili.

Il tema dell’agroenergia riveste, quindi, un importante ruolo nella programmazione regionale, suscitando grande interesse nel settore agricolo ed agroindustriale. Se da un lato questa è una opportunità per il settore agricolo in un’ottica di multifunzionalità, come opportunità di integrazione al reddito e primo passo nel contenimento del carico di azoto stabilito dalla Direttiva sui nitrati (91/676/CEE), dall’altro il business è talmente cresciuto da attirare i grandi capitali anche estranei all’agricoltura, soprattutto per gli impianti di grandi dimensioni.

Il contesto normativo, soprattutto a livello nazionale, è in continuo divenire: se da un lato si lavora per agevolare e semplificare le procedure per l’autorizzazione alla realizza-

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zione ed all’esercizio degli impianti, dall’altro il rapido evolversi delle politiche su modalità e tempi di incentivazione, rende il mercato altamente instabile e con esso praticamente nulle le possibilità di accedere alle risorse finanziarie necessarie ad attivare l’investimento iniziale.

L’idea quindi di un modello per lo sviluppo di una nuova filiera agroenergetica deve tener conto soprattutto della fluttuazione dell’intervento pubblico ed essere quindi capace di autonomia economico/finanziaria oltre che sostenibile dal punto di vista territoriale ed energetico.

In altre parole è necessario analizzare la possibilità di sviluppo della filiera sulla base delle sue caratteristiche endogene e non strettamente legate a incentivi esterni.

Ma qual è il contributo che l’agricoltura ed il mondo rurale possono dare al settore delle energie pulite ma anche quali sono i vantaggi che da questo nuovo filone economico ne possono trarre?

In Campania il settore agricolo ed agroalimentare mostra caratteri distintivi soprat-tutto in termini di qualità delle produzioni nel comparto oleicolo, lattiero-caseario, carni ed ortofrutticolo (10 DOP e 8 IGP riconosciute, 12 prodotti in corso di riconoscimento), con un comparto vitivinicolo che presenta più di 20 vini a denominazione di origine.

Questo scenario induce a valutare gli interventi di sviluppo delle agroenergie nelle aree rurali con estrema cautela a causa dell’impatto che questi potrebbero avere sul terri-torio, soprattutto con riferimento allo sfruttamento economico di terreni fertili per la pro-duzione di biomasse e bioliquidi, dovendo interessare grandi superfici dedicate in colture estensive e con basso impiego di manodopera per raggiungere livelli economici competiti-vi, cosa difficilmente ipotizzabile, considerate le caratteristiche strutturali dell’agricoltura campana.

Le valutazioni da effettuare sono molteplici e rispondono non solo a criteri di fattibi-lità e convenienza economica ma soprattutto a criteri di sostenibilità ed effettiva riduzione delle emissioni gassose in atmosfera, oltre che al mantenimento di un armonioso sviluppo del territorio in tema di paesaggio, biodiversità e produzioni agricole. È inoltre da consi-derare il livello di accettazione della popolazione residente rispetto alla installazione di impianti per la produzione di energia seppure di piccola taglia.

In questo senso l’ottica di sottrarre aree agricole alle coltivazioni per produzioni de-dicate alle agroenergie non è una strategia perseguibile, per gli effetti che avrebbe nel breve periodo sul territorio e nel lungo sul valore economico della PLV campana.

Benché gli obiettivi in termini di potenza installabile possano essere considerati non così rilevanti, le agroenergie originano molteplici attese in termini di sviluppo locale nel-le aree rurali. L’approccio strategico alla materia quindi deve essere necessariamente di tipo multidisciplinare ed intersettoriale sia a monte, con un modello di governance basa-to sull’interazione di diverse aree dell’Amministrazione regionale (ambiente, agricoltura, attività produttive, politiche del territorio), sia a valle con la costituzione di partenariati complessi che assicurino il consenso intorno ad un progetto comune e definiscano il com-portamento di tutta la filiera locale delle bioenergie.

L’assenza di una filiera agroenergetica, fa sì che diventi indispensabile la presenza di un sistema locale pronto a cogliere le opportunità di sviluppo partendo dal basso. Il ruolo degli enti locali in questo senso può diventare essenziale nel favorire l’aggregazione volontaria dei diversi attori, integrando nella filiera non solo i fornitori, i produttori ed i

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trasformatori, ma anche il sistema amministrativo, il sistema creditizio e il terziario e cre-ando la massa critica necessaria alla sostenibilità di un progetto di investimento in energia da fonti rinnovabili. Tra i soggetti indispensabili per la formazione del partenariato: enti locali; operatori del settore energetico; aziende agricole, forestali, agroindustriali anche in forma associativa (Organizzazioni di produttori, Cooperative, Consorzi di bonifica;); istituti di credito.

Da qui la necessità di individuare e stabilire un modello per favorire ed indirizzare lo sviluppo delle agro energie. Per tale ragione nel libro si propone di sviluppare una gover-nance su scala locale, che alimenti il sistema competitivo mediante la partecipazione delle comunità territoriale.

Quando si parla di agro energia si intende da un lato l’energia strettamente deriva-ta da materia prima prodotta a partire dal comparto agricolo, dall’altro si fa riferimento all’energia prodotta da altre fonti rinnovabili che insistono su aree agricole. Si tratta nel primo caso di energia dall’agricoltura e nel secondo di energia “per” l’agricoltura, trattan-dosi il più delle volte di impianti posizionati in territori rurali, in cui almeno una parte dell’energia prodotta è destinata alle attività agricole.

Ma tenendo conto delle caratteristiche dell’agricoltura campana quali filiere è possi-bile attivare?

Con la SAU al 41,4% del territorio regionale, valore di poco inferiore a quello nazio-nale che è pari al 42,3%, e con un’agricoltura partecipa per 3.100 milioni di euro alla ric-chezza regionale, la Campania ospita il 38% delle aziende produttrici di ortofrutta e cereali DOP ed IGP del Mezzogiorno ed il 4% di quelle nazionali, ed il 18% delle aziende dedicate all’allevamento di vitigni per la produzione di vini DOC e DOCG, ovvero circa 9.700 su un totale di 60.00 aziende. La presenza di un consistente numero di prodotti tipici e tradizio-nali completano il quadro dell’agroalimentare di qualità.

Premesso il forte interesse a livello generale per i nuovi prodotti agroenergetici, è opportuno chiedersi quali sono le filiere concretamente realizzabili sul territorio regionale. Vista l’importanza economica rivestita da alcuni comparti del settore e le superfici dedica-te all’agricoltura di qualità non è ipotizzabile uno sviluppo che vada a discapito dell’attuale assetto produttivo.

La tipologia di biomassa che garantisce il rispetto dell’alto valore dell’agroalimentare regionale senza alterarne il sistema produttivo è la cosiddetta biomassa di seconda genera-zione, ovvero ottenuta dalle attività di recupero e non da colture dedicate. L’utilizzo di tale materia prima deve necessariamente rispondere a tre requisiti. Deve essere disponibile in quantità significativa, di facile reperibilità e consentire l’economicità del recupero. Questi sono gli elementi che condizionano l’approvvigionamento degli impianti di trasformazione dai quali dipende l’efficacia della prima fase della filiera.

Nel Capitolo 4 viene condotta un’approfondita analisi sul territorio relativa al com-parto agricolo ed agroalimentare sui quantitativi di biomassa residuale presenti in Cam-pania. La corretta gestione della attività di recupero di tali biomasse, inoltre, può rappre-sentare un importante vantaggio per i produttori che intendano, o debbano, disfarsene. Si tratta infatti di materiali si scarto di attività produttive che data la loro concentrazione in aree limitate e la forte stagionalità che caratterizza le produzione agricole ed agroin-dustriali possono rappresentare un vero e proprio problema per il produttore che ne ha la responsabilità. Più difficile stabilire a priori i costi di recupero considerati i diversi fattori e

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le variabili di influenza: oscillazione dei prezzi dei prodotti energetici, variazione dei costi di trasporto, distanze etc..

Esiste il rischio, però, che il comparto agricolo non sia preparato per gestire corret-tamente l’avvio della filiera e quindi che la fase di trasformazione, di gran lunga più remu-nerativa, assorba tutti i vantaggi delle nuove attività escludendo il settore primario dai be-nefici economici correlati. Nella maggioranza dei casi il singolo imprenditore agricolo non è in grado di sostenere da solo l’investimento necessario per la costruzione dell’impianto e delle infrastrutture connesse, né riuscirebbe facilmente a gestire impianti che non siano “micro”, né potrebbe assorbire all’interno dell’azienda tutta l’energia prodotta.

Di qui l’interesse strategico verso nuove forme di governo del territorio verso, cioè, l’attivazione di strumenti che favoriscano l’aggregazione degli attori coinvolti nella filiera, favorendo la creazione di partenariati tra imprenditori agricoli, investitori privati ed enti locali, e che potrebbero ingenerare comportamenti virtuosi e creare il microclima neces-sario allo sviluppo economico, puntando su impianti di piccole dimensioni, associati a materie prime reperibili in loco.

Vincenzo Sequino

Responsabile sede Campania

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Capitolo i

Le agroenergIe: La dImensIone comunItarIa e nazIonaLe

1.1 La rinnovata sensibilità verso le fonti energetiche alternative: gli anni ’90 e la congiuntura energetica europea

L’inesorabile esaurirsi delle fonti energetiche primarie di origine fossile, le profonde modificazioni della biosfera in atto, la competizione tra fabbisogno energetico ed alimen-tare hanno accresciuto, nel corso degli ultimi decenni, la sensibilità dell’opinione pubblica e quindi impegnato l’agenda politica dei governi con quella che potremmo definire la ‘que-stione energetica’, o meglio l’approccio integrato alle questioni energetiche1, secondo cui si afferma il legame imprescindibile tra preservazione dell’ambiente, diversificazione delle fonti energetiche di riferimento (graduale abbandono delle fonti fossili2 e successivamente del nucleare per la produzione di energia) e razionalizzazione degli usi.

È da qui che bisogna partire per meglio comprendere come sia possibile successiva-mente parlare, forse per la prima volta, di Fonti Energetiche Rinnovabili3 (FER) e dunque dare forma e sostanza a filoni di studi, divulgazioni e condivisione delle conoscenze di livello comunitario tra gli Stati, negli Stati, per gli Stati.

Il cambiamento della mentalità collettiva, della sensibilità politica, degli orientamen-ti e delle dichiarazioni di intenti, dunque, si consuma, si profila e si perfeziona prima ad un livello meramente teorico-programmatico, per aver soltanto dopo, non con qualche problematica battuta di arresto, una ricaduta reale e concretamente impattante sui sistemi legislativi nazionali e quindi sui territori e sui sistemi produttivi.

Il collegamento tra il vecchio ed il nuovo, tra il passato ed il futuribile, sembra ormai a portata di mano: termini come eolico, geotermia, fotovoltaico, entrano a pieno titolo a far parte del linguaggio comune e dell’opinione pubblica.

Anche le energie, o meglio il mutamento della sensibilità collettiva, sono il risultato

1 È bene specificare che con la dicitura approccio integrato alle questioni energetiche non si intende fare riferimento ad un preciso obiettivo politico né ad un provvedimento legislativo ad hoc da parte delle istituzioni europee circa la materia delle politiche dell’ambiente e della produzione dell’energia, ma ci si riferisce a livello più ampio, ad un importante orientamento strategico comunitario relativo alla realizzazione di interventi che possano combi-nare tutela dell’ambiente e sistemi puliti per la produzione delle energie necessarie per rispondere al fabbisogno nazionale. La strategia dell’approccio integrato, infatti, puntava sulla diversificazione, valorizzazione e razio-nalizzazione delle risorse energetiche alternative. Cfr., Quaderni INEA – Rete Leader, Bioenergia rurale. Analisi e valutazione delle biomasse a fini energetici nei territori rurali, 2008.

2 A tal proposito si parla anche di defossilizzazione e decarbonizzazione per la produzione di energia alternativa, in contrasto con le risorse energetiche tradizionali altamente inquinanti.

3 Con l’acronimo FER (Fonti Energie Rinnovabili) sono da considerarsi energie rinnovabili tutte quelle che sono generate da fonti che si rigenerano o che non sono soggette ad esaurimento, nel senso di futura scarsa rilevabilità e presenza e, per esteso, tutte quelle risorse il cui uso non pregiudica le condizioni ambientali, la sostenibilità e la presenza di risorse naturali per le generazioni a venire. Tradizionalmente sono FER il sole, il vento, il mare, il ca-lore della Terra, ovvero quelle fonti disponibili anche per il futuro al di là del loro utilizzo, in contrasto con le altre fonti, dette appunto non rinnovabili, giacché sono il risultato di lunghissimi processi di origine e sedimentazione storica (in particolare le fonti fossili quali petrolio, carbone, gas naturale).

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di un processo storico-economico di evoluzione, così come evidenziato nella tabella a se-guire.

Tabella n. 1.1 – Fonti energetiche e orientamento storico-economico

FONTE ENERGETICA PRINCIPALECONGIUNTURA STORICA

ED ECONOMICAORIENTAMENTO DELL’OPINIONE

PUBBLICA

CaRBoNE/ElEttRiCita’

(1770- 1890)

avvio industrializzazione;

sviluppo reti ferroviarie e commer-ciali;

prima rivoluzione industriale in inghilterra;

sensibilità al tema energia ed am-biente assente;

pessime condizioni di vita delle popolazioni;

ceti operai delle città-fabbrica sot-topagati;

GENERalita’ FoNti FoSSili

(1900-1950)

perfezionamento totale dello

sviluppo dell’occidente;

il ‘900 come secolo della prosperità;

le due guerre mondiali tra lo sviluppo dell’industria pesante e bellica e l’impiego dell’acciaio come materiale di riferimento;

sensibilità al tema energia ed am-biente assente;

inquinamento industriale indi-scri-minato visto come volano di sviluppo necessario per il rag-giungimento del tanto agognato benessere econo-mico;

la guerra sui due fronti: politico-mili-tare ed economico-indu-striale;

GENERalita’ FoNti FoSSili

“pEtRoliZZaZioNE” E aVVio DEl NUClEaRE

(1950-1990)

ricostruzione post bellica (piano Marshall e nuova industrializ-zazione europea);

indipendenza ex colonie:

avvio industrializzazione nei pVS;

costruzione della società di massa: altissimi livelli di consumo e derego-lamentazione mercato;

anni 70/80: austerity, shock petroli-fero, stagflazione, crisi mediorientale;

caro greggio, dipendenza delle eco-nomie occidentali dall’oro nero, vero e proprio fattore di balance of power geopolitica internazionale;

rinnovata sensibilità dell’opinione pubblica verso i temi dell’ambiente e dell’energia,

eventi chiave: disastro di Chernobyl (1986), disastro di Seveso (1976), re-ferendum abrogativo nucleare italia (1987), direttiva 96/82/CE Seveso i;

sviluppo dei movimenti politici e sociali ambientalisti: (primo partito verde in australia UGt – 1976, Green party GB 1973, partito dei Verdi italia 1985, WWF e legambiente)

DECaRBoNiZZaZioNE, SoStitUZio-NE FoNti FoSSili E FoNti ENERGE-tiCHE RiNNoVaBili. VERSo l’ECoNo-Mia DElla SoStENiBilita’

(anni ’90 ad oggi)

industrializzazione matura;

ristrutturazione dei sistemi pro-dut-tivi: dall’industria pesante alla lean production;

just in time, terziarizzazione del-l’economia, economia dei servizi e delle consulenze;

approccio qualitativo e non solo quantitativo della domanda;

conferenza di Rio (1992);

il tema ambiente ed energia e’ al cen-tro del dibattito politico e sociale;

eventi e concetti chiave: scioglimento dei ghiacciai, accesso alle risorse ali-mentari, articolazione dello sviluppo sostenibile, la RSi e la RSt, responsa-bilità intergenera-zionale;

movimento no global, il cosiddetto “popolo di Seattle”

Fonte: elaborazione INEA. Per la voce eventi e concetti chiave si consulti Roberto Della Seta, La difesa dell’ambiente in Italia. Storia e cultura del movimento ecologista, Edizioni Franco Angeli, Milano, 2000.

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Il Protocollo di Kyoto, oramai datato tredici anni, seppur all’interno di un quadro economico e politico assai problematico, ha avuto il merito di aver realmente accelerato il cammino verso una lunga stagione di riflessione e di riforma della politica climatica degli Stati: benché il conto delle promesse disattese e delle drammatiche contraddizioni sia di fatto sotto gli occhi di tutti, l’accordo sui cambiamenti climatici adottato nell’omonima città giapponese costituisce un sostanziale passo in avanti rispetto ad analoghe decisioni siglate in precedenza.

Per l’Italia l’obiettivo di riduzione delle emissioni di gas serra del 6,5% rispetto ai valori del 1990, entro il periodo 2008-2012 è risultato con il tempo abbastanza ambizioso, sia perché l’Italia è caratterizzata da una bassa intensità energetica sia in funzione del fatto che dal ‘90 ad oggi le emissioni nazionali di gas serra sono già notevolmente aumentate e, senza l’applicazione di politiche e misure adatte, sono destinate a crescere ancora. Nono-stante ciò nell’ultimo periodo la riduzione del consumo di energia dovuta alla crisi econo-mica ha fatto sì che fosse abbattuto anche il livello di emissioni.

Per comprendere lo sforzo di riduzione che l’Italia dovrà ulteriormente effettuare per raggiungere tale obiettivo, basti pensare che lo scarto tra scenario di emissione “tenden-ziale” di gas serra al 2010 (579,7 Mt CO

2 eq) e quota limite di emissioni assegnata (487,1

Mt CO2 eq) è pari a ben 92,6 Mt CO

2 equivalenti.

Il raggiungimento dell’obiettivo finale di riduzione delle emissioni, dovrebbe seguire un passo differenziato secondo il settore di riferimento così come mostrato dalla tabella che segue.

Tabella 1.2 – Riduzione emissioni CO2 in Mt eq. Dettaglio per misura/settore di riferimen-to. Programma di Implementazione Nazionale

Periodo 2008/2012

SETTOREOBIETTIVO

in Mt eq.

Energia 6,8

industria 28,2

trasporti 16,8

Civile 10,2

agricoltura 30,8

totale 92,8

Fonte: elaborazione INEA su dati Ministero dell’Ambiente, CIPE e Comitato Nazionale di Gestione e Attuazione della Direttiva 2008/87CE n. 033/2007.

Nonostante un miglioramento della tendenza generale – così come confermano le nor-mative e le misure presentate nella legge finanziaria 2010 – l’Italia ha essenzialmente sotto-valutato l’importanza degli impegni sottoscritti a Kyoto. I costi per la mancata applicazione del Protocollo di Kyoto in Italia rischiano di aumentare fino a 2,56 miliardi di euro all’anno se non verranno adottate delle politiche rigorose e costanti di riduzione delle emissioni di circa 98 Mt/anno tra il 2008 e il 2012.

Queste riflessioni si collegano direttamente al tortuoso percorso che sia l’Italia sia gli altri paesi hanno compiuto sino al Vertice di Copenhagen, quale ulteriore tappa di sviluppo

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della politica internazionale a tutela del clima, per il potenziamento delle misure previste nel primo periodo di attività del Protocollo di Kyoto, nonché per l’implementazione di altre stra-tegie relative sia al brevissimo periodo, che a scenari di medio termine, val a dire a partire dal 2013.

Almeno negli intenti, la conferenza di Copenhagen si presentava come un appunta-mento di importanza cruciale, previsto per scongiurare il pericolo di ulteriori slittamenti nella definizione di nuovi ambiziosi obiettivi per la riduzione dei gas a effetto serra.

In ragione della loro maggiore responsabilità storica sull’effetto serra, i paesi industria-lizzati erano stati chiamati ad agire per primi, siglando un duplice impegno che prevedeva:

• l’impegno a ridurre entro il 2020 i gas serra del 40 per cento almeno rispetto ai livelli del 1990, come indicato da tutte le associazioni che fanno parte del Climate Action Network;

• lo stanziamento di almeno 110 miliardi di euro all’anno per permettere alle economie in via di sviluppo di fare fronte agli impatti del cambiamento climatico, per adottare tecnologie verdi e sostenibili e per la lotta alla deforestazione. Somme, queste ultime, che dovevano essere pubbliche e aggiuntive rispetto agli aiuti allo sviluppo già previsti dai governi.Al di là dei principali obiettivi relativi alla riduzione delle emissioni, al sostegno per

l’implementazione delle tecnologie e delle energie verdi e della responsabilità differenziata nelle emissioni tra paesi sviluppati e Paesi in Via di Sviluppo, il Vertice danese non ha di fatto portato a nessun risultato degno di nota.

In particolare numerosi nodi non sono stati sciolti, ovvero:

• la mancata individuazione di adeguati strumenti per la lotta alla deforestazione, attual-mente responsabile del 25% delle emissioni globali di gas ad effetto serra;

• la mancata realizzazione di una riforma strutturale dei meccanismi flessibili attual-mente previsti dal protocollo di Kyoto, soprattutto al fine di limitare il ricorso ai crediti di carbonio;

• la mancata definizione di un quadro di strumenti atti a realizzare la riduzione delle emissioni nelle economie a rapida crescita del 15-30 per cento in meno rispetto ai livelli previsti fino al 2020;In effetti, l’indisponibilità della maggior parte dei paesi a rinunciare a quote importanti

di emissioni, specie in relazione ai settori strategici per lo sviluppo economico interno, così come la generica presa d’atto dei contenuti programmatici del Vertice, ha prodotto scarsi ri-sultati, vanificando anche la possibilità di apportare un sostanziale miglioramento agli stru-menti previsti dal Protocollo di Kyoto che costituisce l’inizio di questo cammino.

Dopo il sostanziale immobilismo di Copenhagen è già partito il conto alla rovescia per la preparazione della Conferenza UNFCCC Messico 2010 (COP 16) che dovrebbe portare alla firma di un nuovo accordo per combattere il cambiamento climatico.

Oltre alla definizione di misure che possano realmente comportare una modificazione dei modelli climatici attualmente stabiliti, la lotta contro il cambiamento climatico necessita dello sviluppo immediato di azioni che limitino le emissioni di gas serra: la sfida principale di Messico 2010 è quella di far convergere misure, provvedimenti ed iniziative verso una specifica strategia politica di respiro globale, giacché solo la trasversalità dei programmi e la disponibilità piena delle Parti interessate, può determinare il concreto avvio dell’inversione di tendenza.

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Le politiche UE

All’interno della cornice strategica dei Programmi Comunitari e della programma-zione relativa alla Politica Agricola Comune, il tema della valorizzazione delle fonti ener-getiche rinnovabili e tra queste, delle bioenergie, assume una particolare importanza solo a partire dall’inizio degli anni ’90, in concomitanza con altri importanti cambiamenti del mercato dell’energia in Europa4.

Per questo motivo, l’attenzione verso la produzione di energia dal recupero delle bio-masse, hanno seguito la naturale evoluzione della politica comunitaria, verso l’accoglimen-to più generale del concetto di sviluppo sostenibile5. In tale ottica, quindi, le biomasse sono state poste al centro della politica ambientale ed energetica focalizzando su due condizioni di partenza: da una parte le attività agro-silvo pastorali offrono una grande massa di mate-riale potenziale a disposizione e, dall’altra, il suo recupero determina certamente positivi effetti sul mix energetico, soprattutto in termini di incidenza delle FER sulla quota di ener-gia complessivamente prodotta in Europa.

Infatti, le iniziali ricadute positive relative per lo più alle possibilità di utilizzo di energia da biomassa in termini di autoconsumo e produzione di biocombustibili, più tardi hanno mostrato importanti performance di risultato anche relativamente ad altri aspetti come la riduzione dell’inquinamento atmosferico da emissioni di CO2

, l’aumento dei tassi di occupazione e la minore dipendenza commerciale da fonti energetiche extracomunita-rie.

Concetti come diversificazione delle fonti energetiche, sicurezza degli approvvigio-namenti e riutilizzo degli scarti, hanno poi trovato vero e proprio fondamento giuridico in alcune direttive comunitarie, che per la prima volta hanno disciplinato in maniera cogente la materia6.

A tal proposito, nella tabella che segue, si riportano le principali dichiarazioni UE in materia di energia ed agroenergie.

Nell’anno 2005, con il Piano di Azione per la Biomassa, la Commissione Europea ha dato impulso all’utilizzo e produzione di energia a partire da biomassa.

Tra gli obiettivi individuati: la riduzione delle emissioni di CO2, la copertura di una

quota prestabilita del fabbisogno energetico UE tramite fonti rinnovabili, la rimozione degli ostacoli tecnici, maggiore impulso alla ricerca tecnico scientifica

4 A livello generale ci si riferisce al rinnovato ruolo delle politiche della tutela ambientale e del risparmio energetico, mentre più nello specifico gli avvenimenti cui si intende fare riferimento sono l’avvio della liberalizzazione del mercato dell’elettricità (prima direttiva 96/62/CE, poi 2003/54/CE) e del mercato del gas (prima direttiva 98/30/CE, anche in questo caso poi successivamente sostituita con 2003/55/CE).

5 Il termine sviluppo sostenibile apparve per la prima volta nel 1987 all’interno del Rapporto Brundtland, così chiamato dal nome della Presidentessa della Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo. Nel Rapporto la definizione di sviluppo sostenibile recita: “Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presen-te senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”. In tale contesto non viene menzionata l’accezione ambientalista vera e propria, mentre ci si concentra maggiormente sul benessere e sulla qualità della vita come qualità dell’ambiente circostante. A partire da questo concetto, la dimensione della sostenibilità che riguarderà l’uso razionale delle risorse e la responsabilità per le generazioni future, sarà presso-ché accolta nei maggiori Documenti programmatici e strategici sia UE sia ONU.

6 Il fondamento giuridico relativo alle biomasse trae origine da due direttive, la prima dir. 2001/77/CE e la succes-siva dir. 2003/30/CE, agganciate anche alla definizione di biocombustibile. Ai sensi di tali direttive, la biomassa è la parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui provenienti dall’agricoltura, comprendente sostanze vegetali e animali, dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e ur-bani. Per biocarburanti, invece, si intendono carburanti liquidi o gassosi per i trasporti, ricavati dalla biomassa.

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Tabella 1.3 – Principali atti/dichiarazioni UE in materia di energia e agro energie

Tipologia Atto Campo di Interesse

libro Verde 1996 Energia per il Futuro – Fonti Energetiche Rinnovabili

Direttiva 1996/62 (Sostituita Da 2003/54) liberalizzazione Del Mercato Dell’energia Elettrica

Direttiva 1998/30 (Sostituita Da 2003/55)liberalizzazione Del Mercato Dei Servizi Di Erogazione Del Gas

libro Verde 2000 Sicurezza Degli approvvigionamenti

piano Di azione 2005 azioni integrate per l’utilizzo Della Biomassa

Direttiva 2003/30alimentazione Biocarburante Sistema pubblico Dei trasporti

Risoluzione Del 26/09/07 politica Estera Comune in Materia Di Energia

Direttiva 2001/77 Biomassa

Direttiva 2009/28 promozione Fer

Direttiva 2003/30 Biocombustibili

Comunicazione N. 59/2007 Sottoprodotti – Scarti Della lavorazione

Direttiva 2008/98Rifiuti – processo Di Recupero Ed Elenco Materie prime Secondarie ammesse

Tabella n. 1.4 - Atti Comunitari e Obiettivi Biomasse/FER – Gli strumenti principali I/III

ATTI INIZIATIVE PROVVEDIMENTI UE OBIETTIVI PREFISSATI

liBRo BiaNCo 1997

produzione di 135/MtEp di biomassa entro il 2010;

incidenza del 12% di FER sul mix energetico complessivo dell’UE entro il 2010.

piaNo Di aZioNE DElla BioMaSSa 2005

Miglioramento degli approvvigionamenti;

Rimozione degli ostacoli tecnici;

promozione di Studi e Ricerche;

Correzione obiettivi libro Bianco: da 135/MtEp a 149/MtEp annuali, dal 12% al 10% di incidenza complessiva FER sul mix energetico UE;

50% impianti domestici per il riscaldamento alimentati da biomassa;

37% di produzione elettrica da biomassa;

12,5% di produzione di diesel e bioetanolo vegetali;

Riduzione complessiva aliquota iVa per impianti di tele-riscaldamento.

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Tabella 1.5 – Atti Comunitari e Obiettivi Biomasse/FER – Gli strumenti principali II/III

ATTI INIZIATIVE PROVVEDIMENTI UE OBIETTIVI PREFISSATI

paCCHEtto Di aZioNi iN MatERia ENERGEtiCa (2007)

Realizzazione di una politica energetica europea (pEE);

limitazione del surriscaldamento (massimo 2 gradi Celsius);

Sviluppo mercati interni del gas e dell’elettricità;

produzione sostenibile di energia elettrica da combusti-bili fossili;

azzeramento a partire dal 2020 delle emissioni da car-bone,

linee di indirizzo per il settore nucleare;

indicazione progressi nell’uso di biocarburanti e altri combustibili provenienti da FER;

Realizzazione di un piano Strategico europeo per le tec-nologie energetiche;

Monitoraggio risultati azioni implementate all’indomani del libro Verde;

indagini a norma dell’articolo 17 del Reg. CE n. 1/03 nei settori europei del gas e dell’elettricità.

Tabella n. 1.6 – Atti Comunitari e Obiettivi Biomasse/FER- Gli strumenti principali III/III

ATTI INIZIATIVE PROVVEDIMENTI UE OBIETTIVI PREFISSATI

CoRNiCE StRatEGiCa Di pRoGRaMMaZioNE iNtEGRata DEl CoNSiGlio EURopEo Di pRiMaVERa (2007)

pRiNCipio DEl 20-20-20 (entro il 2020):

riduzione delle emissioni di gas serra del 20%;

aumento dell’efficienza energetica del 20%;

formazione di un mix energetico proveniente per il 20% da Fonti Rinnovabili, tra queste l’8% da biomasse e biocarburanti, arrivando al 10% di utilizzo di questi biocarburanti verdi sul totale del consumo di benzina e gasolio per autotrazione.

Al momento uno dei principali riferimenti politici a livello europeo nel settore del-la bioenergia e delle politiche energetiche è il pacchetto di azioni in materia energetica, adottato dalla Commissione europea il 23 gennaio 2008: il documento “Due volte 20 per il 2020. L’opportunità del cambiamento climatico per l’Europa” ha lo scopo di istituire una nuova politica energetica per l’Europa finalizzata a combattere i cambiamenti climatici, a rafforzare la sicurezza energetica e la competitività dell’UE definendo obiettivi ambiziosi riguardo alla riduzione delle emissioni di gas serra e allo sviluppo di energia rinnovabile.

Altro aspetto da non sottovalutare, vista la particolare natura della produzione di energia da biomasse, è quello del rapporto tra biomassa e produzioni agricole, in partico-lare tra biomassa e regimi normativi e di sussidio previsti dalla Politica Agricola Comune (PAC).

A partire dal 2003 la PAC ha subito un generale processo di riforma, svincolando il sostegno agli agricoltori dalle quantità prodotte ed incentivando il ruolo multifunzionale dell’agricoltura.

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Questa riforma, nello specifico, ha offerto la possibilità di coltivare qualsiasi materia prima agricola su superfici cosiddette set-aside no food, ovvero terreni a riposo non desti-nati a colture alimentari, e beneficiare ugualmente dei sussidi, determinando la formazio-ne di coltivazioni energetiche, l’aumento della produzione di materia prima per biocombu-stibili con colture dedicate7.

In tale contesto si è avviato un processo di metamorfosi dell’attività imprenditoriale agricola nel campo della produzione delle energie rinnovabili, soprattutto per quanto ri-guarda la produzione di biocarburanti e di energia elettrica e termica a partire da biomassa.

1.2 Lo sviluppo dell’agroenergia: da esigenza ambientale a nuova prospettiva per il comparto agricolo ed il territorio.

Nell’aprile 2009 il Libro bianco “L’adattamento ai cambiamenti climatici: verso un quadro d’azione europeo”8 stabilisce le strategie per migliorare la capacità di adat-tamento ai cambiamenti climatici in Europa, sottolineando la necessità di integrare la questione in tutte le principali politiche europee e rafforzare la cooperazione tra i vari livelli di governo. Il documento intende favorire la comprensione dei cambiamenti clima-tici e l’impatto che essi potranno avere, sottolineando la necessità di creare entro il 2011 un Clearing House Mechanism, una camera di compensazione in cui le informazioni sui rischi dei cambiamenti climatici, i possibili impatti e le best practices possano es-sere scambiati tra governi, agenzie ed organizzazioni che operano in quest’ambito. Esso è accompagnato da tre documenti settoriali sull’agricoltura9, sulla salute10 e sul tema delle acque, delle coste e dell’ambiente marino11. Il documento sull’agricoltura sottoli-nea i possibili impatti sulla produzione, distinguendo le possibili conseguenze per i vari comparti produttivi e suggerisce azioni strategiche per contrastare gli effetti negativi del cambiamento, sia a livello di singola azienda agricola che dell’intero settore (azioni di resilienza e mitigazione). Se infatti da un lato resistere ai cambiamenti climatici rappre-senterà un costo in più per l’imprenditore agricolo, dall’altro la produzione di energia a partire da materia prima di origine agro-forestale, consentendo l’abbattimento dei costi e rendendo possibile la diversificazione del reddito, potrebbe migliorare la resilienza delle aziende agricole.

L’agroenergia rappresenta una possibile risposta del settore a patto di capire in primis “come” possa contribuire a questo processo di adattamento, per poi porsi l’inter-rogativo “in che misura”. Tale processo è da intendersi come un riequilibrio tra le fonti energetiche a vantaggio delle rinnovabili ed allo stesso tempo una loro più efficiente uti-lizzazione, associando il tutto ad una corretta gestione del territorio e dei relativi carichi nell’ambiente circostante.

L’avvio di una filiera agroenergetica, quale che sia la biomassa utilizzata, presenta sicuramente margini più ampi di successo nei casi in cui si riesca ad instaurare un forte

7 Da 0,31 milioni di ettari nel 2004 fino a 2,84 milioni di ettari incentivati del 2007.

8 COM(2009) 147/4, 01.04.2009. Il Libro Bianco sull’Adattamento ai Cambiamenti Climatici non costituisce un do-cumento vincolante dal punto di vista dell’ottemperanza agli obblighi legislativi, ma un documento strategico aggiuntivo alle singole politiche nazionali e ad altri interventi obbligatori già decisi in ambito comunitario.

9 SEC(2009) 417.

10 SEC(2009) 416

11 SEC(2009) 386

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legame col territorio dovuto ad esempio, ad una elevata concentrazione di biomassa di-sponibile per la trasformazione12.

Una favorevole combinazione di fattori è data dalla contemporanea domanda di ener-gia elettrica in costante crescita associata ad un elevato fabbisogno di energia termica, si-tuazione che può presumibilmente verificarsi in aree ove siano concentrate trasformazioni agroindustriali o altro tipo di industria manifatturiera che necessita di energia termica per il proprio processo produttivo.

Perché vi sia uno sviluppo veramente efficiente le imprese agricole devono poter par-tecipare al valore aggiunto derivante dai meccanismi incentivanti messi a disposizione a livello nazionale e/o regionale per le energie rinnovabili. Ciò non perché potenziali produt-tori di energia pulita ma in quanto potenziali produttori della materia prima energetica: la biomassa. Perché siano rispettati contemporaneamente i principi di sostenibilità ed econo-micità è necessario che si instauri un’interazione positiva tra impresa energetica e azienda agricola evitando innanzitutto un meccanismo competitivo che vedrebbe crescere una a di-scapito dell’altra e garantendo, al contempo, una migliore gestione degli aspetti ambientali.

Ad esempio, per gli impianti di piccole dimensioni che per proprie caratteristiche rispondono meglio al principio di sostenibilità, le possibilità di raggiungere un’adeguata efficienza economica sono legate alla capacità di radicarsi nel contesto produttivo locale e di creare un circolo virtuoso grazie all’abbattimento dei costi di produzione, recupero e trasporto della biomassa.

È da questa prospettiva che bisogna partire per meglio comprendere il generale orien-tamento localista, ormai fortemente radicato, circa la produzione di energia: attualmente in molti territori, a megacentrali di grande capacità, si preferiscono strutture di piccola taglia dall’impatto ambientale più modesto.

Le politiche energetiche ed ambientali, tra cui gli incentivi all’agroenergia, hanno suscitato negli ultimi anni un forte interesse da parte degli operatori del settore agricolo ai quali si presenta la nuova prospettiva di inserire l’energia “pulita e rinnovabile” tra i propri prodotti.

Sebbene la capacità produttiva sia nettamente inferiore rispetto agli impianti alimen-tati con fonte fossile generalmente di grandi dimensioni e, talvolta, anche insufficiente ad assicurare la copertura del fabbisogno energetico territoriale, le cornici programmatiche europee, nazionali e soprattutto regionali, incentivano tale processo, tendente alla realiz-zazione di una vera e propria autosufficienza energetica dei contesti rurali.

Se capillarmente prevista ed applicata, questa politica potrebbe dare luogo ad una rivalutazione economica del contesto locale (green economy), per pervenire alla realizza-zione finale di un sistema energetico distrettuale.

D’altro canto l’approccio dal punto di vista locale, può essere attuato solo con politi-che di tipo bottom-up al fine di evitare l’ostilità delle comunità residenti (effetto NiMBY) rispetto alla realizzazione di progetti indesiderati e di sfruttamento di risorse scarsamente presenti sul territorio con potenziale perdita di biodiversità. A tal fine, l’affiancamento di interventi mirati al monitoraggio e controllo tramite l’ausilio degli indicatori delle per-formances ambientali (carbon footprint) risultano senz’altro utili strumenti di verifica in termini di efficacia ed efficienza degli impianti.

12 Potrebbe essere il caso delle aree a forte concentrazione di allevamenti gravate dalla questione degli ingenti quan-titativi dei reflui da smaltire. In questo caso ai benefici derivanti dalla produzione di energia si associano quelli derivanti dalla migliore gestione dei reflui da smaltire, che in molti casi equivale anche ad una migliore gestione economica.

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Se colte nella loro accezione di complementarità e sostegno aggiuntivo, le agroener-gie costituiscono certamente un rimedio alla impellente esigenza, invocata a vari livelli, di ridurre le emissioni climalteranti: l’uso delle biomasse per scopi energetici può essere considerato neutro rispetto al problema dell’aumento della CO

2 in atmosfera – giacché la

CO2 emessa con la combustione e quella rimossa con la fotosintesi si equivalgono – consen-

tendo così di annullare le emissioni rispetto a quelle prodotte dall’impiego di combustibili fossili. Inoltre tra i gas e le sostanze che alterano clima ed ambiente ci sono il metano ed i nitrati, prodotti in grande quantità dalle deiezioni zootecniche, che fanno dell’agricoltura uno dei settori a maggiore impatto, questa volta non a causa dell’energia consumata.

Appare quindi, chiaro, quali e quanti possano essere i vantaggi ambientali in termini di vivibilità e sostenibilità economica e sociale che l’implementazione di una efficace pro-grammazione agroenergetica locale può perseguire, partendo però da due presupposti: il primo è relativo alla complementarità delle fonti energetiche rinnovabili, mentre il secondo riguarda la valutazione delle condizioni territoriali e contestuali di ciascun luogo, giacché a territori diversi corrisponderanno necessariamente fonti energetiche e programmazioni energetiche locali differenti.

1.3 Evoluzione della normativa nazionale sul sistema energetico

Volendo proporre un quadro sintetico dei grandi cambiamenti occorsi in quegli anni nel sistema energetico nazionale, bisogna guardare al complesso di norme, anche comunitarie, che possono essere ricondotte a tre filoni principali: norme di attuazione della politica energetica, norme di riforma della Pubblica Amministrazione (federalismo fiscale, decentramento amministrativo, etc.), e norme di liberalizzazione del mercato dell’energia.

Il processo di decentramento delle attribuzioni nel campo dell’energia rinnovabile inizia con la legge 308/82 che introduce un primo inquadramento normativo per le fonti rinnovabili insieme alla definizione di risparmio energetico, conferendo alle Regioni la competenza su programmazione ed incentivazione di queste due tematiche.

Nel 1991 con le leggi n. 9 e n. 10, vengono rispettivamente introdotti i provvedi-menti per la liberalizzazione della produzione di energia ed i principi generali per l’uso razionale dell’energia.

In particolare la Legge n. 10 del 9 gennaio 1991 “Norme per l’attuazione del piano energetico nazionale in materia di uso razionale dell’energia, di risparmio energetico e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia” pone l’accento su obiettivi di riduzione dei consumi e di miglioramento della compatibilità ambientale. Tra l’altro, all’art. 5, sancisce l’obbligo per le Regioni di individuare bacini energetici predisponendo Piani regionali, i quali devono contenere provvedimenti finalizzati all’uso razionale dell’ener-gia, al risparmio energetico ed allo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili, con la formulazione di obiettivi definiti secondo priorità di intervento.

Sul secondo fronte, la riforma della Pubblica Amministrazione attuata attraverso il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni e agli Enti Locali (legge delega 59/97 e decreto legislativo 112/98), attribuisce agli Enti Locali le funzioni amministrative in materia di controllo sul risparmio energetico e l’uso razionale dell’energia conferendo, in particolare, alle Province, nell’ambito delle linee di indirizzo e di coordinamento

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previste dai Piani Energetici Regionali, le funzioni riguardanti la redazione e l’adozione dei programmi di intervento per la promozione delle fonti rinnovabili e del risparmio energetico, l’autorizzazione alla installazione e all’esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica inferiore a 300 MWt, il controllo sul rendimento energetico degli im-pianti termici. Delega, infine, alle Regioni le funzioni amministrative non riservate allo Stato e non attribuite direttamente agli Enti locali, prevedendo che siano poi le stesse Regioni a determinare quali di queste funzioni amministrative debbano rimanere di competenza propria e quali debbano essere trasferite.

Lo Stato, oltre a conservare le funzioni e i compiti concernenti l’elaborazione e la definizione degli obiettivi e delle linee di politica energetica nazionale, nonché l’ado-zione degli atti di indirizzo e coordinamento sulla programmazione energetica regiona-le, riserva a sé altre funzioni amministrative, tra cui quelle che riguardano: la ricerca scientifica in campo energetico e le determinazioni concernenti l’ambiente.

La legge costituzionale 3/2001, infine completa il processo di attribuzione ratione materiae in capo alle Regioni con la nuova formulazione del Titolo V - art. 117 - della Costituzione affidando alle stesse potestà legislativa concorrente in materia di produ-zione, trasporto e distribuzione nazionale di energia. In particolare spetta alle regioni, nell’ambito degli indirizzi della politica energetica nazionale e comunitaria:

• l’individuazione di “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”• la formulazione degli obiettivi della politica energetica regionale• la localizzazione e realizzazione degli impianti di teleriscaldamento• lo sviluppo e valorizzazione delle risorse endogene e delle fonti rinnovabili• il rilascio delle concessioni idroelettriche• la certificazione energetica degli edifici• la garanzia delle condizioni di sicurezza e compatibilità ambientale e territoriale• la sicurezza, l’affidabilità e la continuità degli approvvigionamenti regionali.

Sul terzo fronte, quello del mercato, i provvedimenti più importanti per il settore energetico e della produzione di energia da fonti rinnovabili sono rappresentati dalla direttiva 96/92/CE del Parlamento europeo e del Consiglio ed il Decreto legislativo na-zionale di attuazione n. 79 del 1999 (Decreto Bersani).

Con questo decreto si liberalizza il mercato elettrico disciplinando il settore: la produzione, l’importazione, la vendita e l’acquisto di energia elettrica sono diventate attività libere e questo ha generato la graduale apertura alla concorrenza del mercato. A partire dal gennaio 2003, non è stato più possibile che un solo soggetto detenesse di-rettamente o indirettamente più del 50% del mercato nazionale; mentre la trasmissione ed il dispacciamento, attività riservate allo Stato, sono state attribuite in concessione al GRTN (Gestore Della Rete di Trasmissione Nazionale) oggi Terna. L’art. 11 dedicato all’energia da fonti rinnovabili obbliga a partire dal 2001 i produttori e gli importatori di energia elettrica ad immettere, nel sistema elettrico, una quota stabilita di energia ‘pulita’, mentre la completa liberalizzazione della distribuzione si è avuta a partire dal luglio 2007, come stabilito dalla direttiva 2003/54/CE.

Accanto agli strumenti normativi che negli anni ’90 hanno determinato il cam-biamento radicale nel sistema energetico nazionale, il graduale passaggio a politiche mondiali maggiormente ambientaliste ha portato verso sistemi di definizione di quote per le emissioni e per la produzione di energia. L’articolo 3, comma 2, della direttiva 2001/77/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 settembre 2001, relativa alla Promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel merca-

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to interno dell’elettricità, stabilisce che ogni cinque anni, gli Stati membri adottano e pubblicano una relazione che stabilisce per i dieci anni successivi gli obiettivi indicativi nazionali di consumo futuro di elettricità prodotta da fonti energetiche rinnovabili in termini di percentuale del consumo di elettricità.

Come già accennato uno dei principali riferimenti politici a livello europeo nel settore della bioenergia e delle politiche energetiche è il pacchetto di azioni in materia energetica, adottato dalla Commissione europea il 23 gennaio 200813. Il documento che accompagna cinque proposte di direttive14, con lo scopo di predisporre gli strumenti per l’attuazione degli obiettivi generali approvati dal Consiglio europeo nel marzo 200715 - e prima ancora indicati dal Consiglio europeo del marzo 200616 - ovvero la riduzione del 20%, rispetto al 1990 delle emissioni di gas ad effetto serra entro il 2020, una quota del 20% di energie rinnovabili nel totale dei consumi energetici dell’UE entro il 2020 ed il traguardo del 10% per l’utilizzo di biocarburanti.

Tali obiettivi sono stati ripresi e meglio specificati nella Direttiva 2009/28/CE17 Promozione dell’uso delle energie da fonti rinnovabili che ripartisce l’obiettivo gene-rale del 20% da fonte rinnovabile tra tutti gli Stati membri secondo il principio del bur-den sharing già utilizzato con il protocollo di Kyoto. La Commissione ha infatti fissato i singoli obiettivi nazionali, giuridicamente vincolanti, tenendo conto della situazione economica di ogni Stato. Con l’Italia è stata concordata una quota del 17% di energia da fonti energetiche rinnovabili (FER) da raggiungere entro il 2020. A sua volta la legge 13/09 prevede che gli obiettivi comunitari circa l’uso delle energie rinnovabili siano ripartiti, con modalità condivise, tra le regioni italiane attraverso una burden sharing regionale.

La direttiva europea introduce inoltre un meccanismo che mira a favorire il trasfe-rimento di energia rinnovabile tra gli Stati membri e la realizzazione di progetti comuni. Annualmente ogni Stato membro pubblica e notifica alla Commissione una stima della

13 COM(2008) 30

14 Il ‘pacchetto’ prevede l’approvazione dei seguenti provvedimenti:

- comunicazione della Commissione sulla dimostrazione in tempi brevi della produzione sostenibile di energia da combustibili fossili e il relativo finanziamento. COM(2008) 13;

- proposta di revisione della direttiva 2003/87/CE sul sistema per lo scambio di quote di emissioni.COM(2008) 16;

- proposta di direttiva concernente gli sforzi degli Stati membri per ridurre le emissioni dei gas ad effetto serra al fine di adempiere agli impegni della Comunità in materia di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra entro il 2020. COM(2008) 17;

- proposta di direttiva relativa allo stoccaggio geologico del biossido di carbonio e recante modifica delle direttive 85/337/CEE e 96/61/CE del Consiglio e delle direttive 2000/60/CE, 2001/80/CE, 2004/35/CE, 2006/12/CE e del regolamento (CE) n. 1013/2006. COM(2008) 18;

- proposta di direttiva sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili. COM(2008) 19;

- disciplina comunitaria degli aiuti di Stato per la tutela dell’ambiente. GU C 82 del 1.04. 08.

15 Consiglio dell’Unione Europea 7224/1/07. I tre obiettivi principali della politica energetica per l’Europa (PEE) sono:

- aumentare la sicurezza dell’approvvigionamento;

- garantire la competitività delle economie europee e la disponibilità di energia a prezzi accessibili;

- promuovere la sostenibilità ambientale e lottare contro i cambiamenti climatici.

16 Documento del Consiglio 7775/1/06 in conseguenza del quale la Commissione ha elaborato nel gennaio 2007 la Road map per le energie rinnovabili [COM(2006) 848] in cui delinea una visione a lungo termine delle politiche per le fonti energetiche rinnovabili nell’UE.

17 Pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea il 5 giugno 2009, L140, p 16-62.

Page 25: collana politicHe per l’amBiente e l’agricoltura Biomasse

13

produzione eccedentaria di energia da fonti rinnovabili rispetto alla traiettoria indicati-va in modo che si possa prevedere un trasferimento agli altri Stati. Allo stesso modo gli Stati che pensano di non poter raggiungere la quantità stabilita, dovranno pubblicare una stima della richiesta di energia da fonti rinnovabili per compensare il divario.

Per quanto riguarda il settore dei trasporti ciascun Paese dell’UE deve assicurare che in tutte le forme di trasporto la propria quota di carburanti da fonti rinnovabili sia almeno pari al 10%. A quest’obiettivo non si applica il meccanismo di ripartizione tra Stati membri, quindi anche per l’Italia vale questo principio. La direttiva dispone che per i biocarburanti prodotti da residui, materie cellulosiche di origine non alimentare, ovvero per i biocarburanti di “seconda generazione”, si conteggi un contributo doppio rispetto a quello fornito da altri biocarburanti. Inoltre allo scopo di salvaguardare al massimo la sostenibilità18, per il raggiungimento dell’obiettivo del 10% precisa che non saranno contabilizzati i biocarburanti derivanti da materie prime prodotte su terreni che hanno un elevato valore di biodiversità.

Si impone inoltre ad ogni Stato di adottare un Piano di azione nazionale (PAN) per l’energia da fonti rinnovabili. Obiettivo primario del PAN per l’Italia19 è, quello di incre-mentare l’efficienza energetica e ridurre i consumi di energia. Oltre al Piano straordi-nario per l’efficienza e il risparmio energetico previsto dalla legge 99/2009, gli obiettivi operativi previsti nel piano sono: promozione della cogenerazione diffusa, misure volte a favorire l’autoproduzione di energia per le piccole e medie imprese, rafforzamento del meccanismo dei titoli di efficienza energetica, promozione di nuova edilizia a rilevante risparmio energetico e riqualificazione energetica degli edifici esistenti, incentivi per l’offerta di servizi energetici, promozione di prodotti nuovi altamente efficienti. In parti-colare per quel che riguarda le biomasse sono proposti i seguenti interventi:

• revisione periodica dei fattori moltiplicativi, delle tariffe omnicomprensive; • eventuali strumenti di stabilizzazione della quotazione dei certificati verdi, come

l’introduzione di una “banda di oscillazione” del prezzo, che possano dare più certezza agli investitori e consentire una migliore programmabilità delle risorse e degli impatti sul sistema di prezzi e tariffe;

• modulazione degli incentivi in modo coerente all’esigenza di migliorare alcune opzioni dei produttori (ad esempio, il tipo di localizzazione) e ridurre costi extra costi d’impianto o di sistema;

• per le biomasse e i bioliquidi: possibile introduzione di priorità di destinazione a scopi diversi da quello energetico e, qualora destinabili a scopo energetico, discri-minazione tra quelli destinabili a produzione di calore o all’impiego nei trasporti da quelli destinabili a scopi elettrici;

• sempre per le biomasse: particolare attenzione sarà dedicata alle dinamiche del costo della materia prima e del costo di esercizio, perseguendo una convergenza dell’intensità del sostegno con quanto si registra in ambito europeo.Tutti questi obiettivi e misure potranno confluire nella Strategia energetica nazio-

nale, per la cui definizione è prevista una Conferenza nazionale sull’energia e l’ambiente.

18 Artt 17.3-17.5

19 Inviato alla Commissione europea a fine luglio 2010.

Page 26: collana politicHe per l’amBiente e l’agricoltura Biomasse

14

1.4 Incentivazione della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili

La promozione delle fonti rinnovabili in Italia è incentrata su programmi di incenti-vazione che possono essere raggruppati nelle seguente tre tipologie:

a) assegnazione di certificati verdi alla produzione;b) assegnazione di un incentivo amministrato alla produzione; c) remunerazione amministrata dell’energia elettrica immessa (tariffa fissa onnicom-

prensiva)Le modalità di accesso alla rete, di distribuzione e di cessione dell’energia sono di-

versificate ed alternative per tipologia di fonte e potenza dell’impianto: ad esempio il de-creto ministeriale 18 dicembre 2008 consente agli impianti alimentati da fonti rinnovabili di potenza nominale media annua non superiore a 200 kW, di accedere allo “scambio sul posto”, meccanismo che consente di immettere in rete l’energia elettrica prodotta ma non immediatamente autoconsumata, per poi prelevarla in un momento successivo per soddi-sfare i propri consumi.

La tabella 1.7 sintetizza le modalità di accesso alla rete, di cessione dell’energia elet-trica prodotta da fonti rinnovabili e gli incentivi previsti20.

La possibilità di produrre energia da parte del settore agricolo deriva dalla recente normativa che ha profondamente modificato il mercato dell’energia liberalizzandolo.

Oggi la produzione, l’importazione, la distribuzione e quindi l’erogazione al consu-matore finale di energia elettrica sono attività aperte alla concorrenza. Il mercato della produzione di energia, quindi, è caratterizzato ad esclusione di ENEL, ex monopolista, da imprese pubbliche locali, piccoli produttori e autoproduttori. La trasmissione dell’energia, consistente nel trasferimento sulla rete nazionale ad alta e altissima tensione è un’attività riservata allo Stato ed attribuita in concessione alla società per azioni Terna.

Le fonti rinnovabili godono però della priorità di dispacciamento cioè, a parità di prezzo proposto, nell’ordine di merito economico con cui vengono ordinate le offerte ai fini della risoluzione del mercato, le offerte riferite ad unità alimentate da fonti rinnovabili non programmabili e programmabili hanno la priorità rispetto alle fonti tradizionali.

Il decreto Bersani ha inoltre previsto la semplificazione delle procedure attraverso l’adozione di una autorizzazione unica e la possibilità di ubicazione degli impianti anche in zone classificate come agricole dai vigenti piani urbanistici.

Lo stesso decreto ha consentito lo sviluppo dell’attuale regime di incentivazione delle FER basato su criteri di mercato: lo scambio dei certificati verdi (CV). Tale meccanismo deriva dall’obbligo, a partire dal 2002, per i soggetti produttori o importatori di energia elettrica, di immettere nella rete nazionale una certa percentuale di energia da impianti alimentati da fonti rinnovabili. Di contro i produttori di energia da FER possono scambiare tramite i CV la loro quota di energia ‘verde’ con i produttori da fonti tradizionali in modo che quest’ultimi possano ottemperare all’obbligo. Un certificato verde, oggi corrisponden-te alla produzione di 1 MWh di energia da fonte rinnovabile, è in realtà un vero e proprio titolo scambiabile su un apposito mercato. Il prezzo dei CV si forma attraverso la libera contrattazione tra gli operatori, la quale può avvenire bilateralmente o nel mercato orga-nizzato dal Gestore dei mercati energetici (GME) .

Il prezzo al quale il Gestore dei servizi energetici (GSE) emette i CV è detto prezzo di riferimento il quale, come stabilito dalla finanziaria 2008, è pari alla differenza tra un valo-

20 TUP - Testo unico ricognitivo della produzione elettrica, AEEG, marzo 2009

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15

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16

re fisso di 180€/MWh ed il valore medio annuo del prezzo di cessione dell’energia elettrica nell’anno precedente. Per il 2008, ad esempio, ai fini della definizione del valore del CV, l’autorità preposta ha stabilito un valore medio annuo del prezzo di cessione dell’energia elettrica pari a 91,34€/MWh. Il prezzo dei CV nel corso del 2009 è oscillato tra i 96 ed i 103€/MWh, mentre il prezzo medio di scambio dei CV sul mercato per l’anno 2010 è stato di 84€/MWh21.

Oltre ad aver modificato la modalità di parametrazione del CV, la Finanziaria 2008 ed il suo collegato€ hanno introdotto sostanziali novità nel sistema di incentivazione delle rinnovabili tra cui il graduale incremento, della quota obbligatoria di elettricità prodotta da FER per le grandi aziende produttrici da fonti fossili e la tariffa fissa omnicomprensiva.

Per il periodo dal 2007-2012 la quota obbligatoria di cui all’art.11 del D.lgs.79/9922 è incrementata annualmente di 0,75 punti percentuali. Pertanto essa assumerà annualmen-te i seguenti valori:

Tabella 1.8 – Valori incrementali per anno di energia prodotta da FER in Italia. Periodo 2007-2012

ANNO Quota obbligatoria (%)

2007 3,80

2008 4,55

2009 5,30

2010 6,05

2011 6,80

2012 7,55Fonte: GSE

Per avere diritto all’emissione dei certificati verdi, il produttore deve ottenere la qua-lifica di Impianto Alimentato da Fonti Rinnovabili (IAFR), dimostrando con apposita do-cumentazione tecnica presentata al GSE, che l’impianto rispetta tutte le caratteristiche richieste dalla normativa. Inoltre, a partire dal 2008, il valore del CV viene moltiplicato per un coefficiente (cfr. Tabella 1.5) che varia in funzione del tipo di fonte rinnovabile. Il coefficiente stabilito per l’energia prodotta a partire da fonte derivante dal settore agricolo è sicuramente tra i più interessanti, in previsione del fine di favorire lo sviluppo di filiere locali. Il quadro normativo è stato modificato prima con l’emanazione del decreto del Mi-nistero dello Sviluppo economico del 18 dicembre 2008 e poi dalla Legge 99/09: il sistema degli incentivi che se ne trae è sintetizzato nella tabella che segue per quel che riguarda i coefficienti moltiplicativi dei CV ed in quella successiva per la tariffa omnicomprensiva. Quest’ultima è la tariffa alla quale possono accedere per un periodo di 15 anni, in alterna-tiva ai CV, i produttori per gli impianti di potenza nominale media annua non superiore ad 1 MW (0,2 MW per l’eolico) entrati in esercizio in data successiva al 31 dicembre 2007, per l’energia netta immessa nel sistema elettrico. La tariffa omnicomprensiva comprende sia il valore dell’incentivo che il ricavo relativo alla quantità di energia elettrica prodotta.

21 In realtà il prezzo previsto era di circa 112 /MWh, prezzo a cui si sarebbe arrivati solo se ci fosse stato un eccesso di domanda rispetto all’offerta.

22 Il c.d decreto Bersani all’art. 11 prevede che “gli importatori e i soggetti responsabili degli impianti che, in ciascun anno, importano o producono energia elettrica da fonti non rinnovabili hanno l’obbligo di immettere nel sistema elettrico nazionale, nell’anno successivo, una quota prodotta da impianti da fonti rinnovabili”.

Page 29: collana politicHe per l’amBiente e l’agricoltura Biomasse

17

Tabella 1.9 - Coefficienti moltiplicativi dei CV

N° FONTE COEFFICIENTE

1 Eolica per impianti di taglia superiore a 200 kW 1,00

1-bis Eolica offshore (*) 1,50

3 Geotermica 0,90

4 Moto ondoso e maremotrice 1,80

5 idraulica diversa da quella del punto precedente 1,00

6Rifiuti biodegradabili, biomasse diverse da quelle di cui al punto successivo (*)

1,30

7Biomasse e biogas prodotti da attività agricola, alleva-mento e forestale da filiera corta

1,80

Solo dopo DM MipaaF7 bis

Biomasse e biogas di cui al punto 7, alimentanti impianti di cogenerazione ad alto rendimento, con riutilizzo dell’energia termica in ambito agricolo

8Gas di discarica e gas residuati dai processi di depura-zione e biogas diversi da quelli del punto precedente

0,80

Tabella n. 1.10 - Tariffa omnicomprensiva. Impianti di potenza elettrica < 1 MW

FONTE RINNOVABILEEntità della tariffa

(euro/cent/kWh)

1 Eolica per impianti di taglia inferiore a 200 kW 30

2 Solare Conto energia **

3 Geotermica 20

4 Moto ondoso e maremotrice 34

5 idraulica diversa da quella del punto precedente 22

6

Biogas e biomasse, esclusi i biocombustibili liquidi ad ecce-zione degli oli vegetali puri tracciabili attraverso il sistema integrato di gestione e di controllo previsto dal regolamento (CE) n. 73/2009 del Consiglio, del 19 gennaio 2009 (***)

28 (*)

8

Gas di discarica, gas residuati dai processi di depurazione e biocombustibili liquidi ad eccezione degli oli vegetali puri tracciabili attraverso il sistema integrato di gestione e di con-trollo previsto dal regolamento (CE) n. 73/2009 del Consiglio, del 19 gennaio 2009(*)

18

(*) Modificato dalla legge 99/09.(**) Per gli impianti da fonte solare si applicano i provvedimenti attuativi dell’articolo 7 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387.(***) La definizione di biomassa: è stata ribadita della Direttiva 2009/28 del 23 aprile 2009 Art. 2 definizioni: «biomassa»: “la fra-zione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l’acquacoltura, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani”.

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18

Il concetto di filiera corta, inserito nella Legge, n. 222 del 29.11.0723, faceva riferi-mento ad impianti alimentati da biomasse e biogas derivanti da prodotti agricoli, di al-levamento e forestali, ivi inclusi i sottoprodotti, ottenuti nell’ambito di intese di filiera o contratti quadro ai sensi degli articoli 9 e 10 del decreto legislativo 27 maggio 2005, n. 102, entro un raggio di 70 km dall’impianto che li utilizza per produrre energia elettrica.

Il coefficiente poteva essere applicato solo nel momento in cui un decreto ministe-riale avesse specificato le modalità di calcolo della lunghezza del raggio. Con l’emanazione del Decreto ministeriale MiPAAF del 2 marzo 201024, la questione è stata definitivamente risolta, specificando che “la lunghezza del predetto raggio è misurata come la distanza in linea d’aria che intercorre tra l’impianto di produzione dell’energia elettrica e i confini amministrativi del Comune in cui ricade il luogo di produzione della biomassa”.

Riguardo alla tracciabilità, i produttori di energia dovranno acquisire, trasmettere al MiPAAF e conservare, per ogni singolo fornitore della biomassa, una serie di informazioni di dettaglio circa i fornitori stessi, le specie di ciascuna materia prima, la relativa superficie e i dati catastali, il quantitativo di prodotto ottenuto.

Lo stesso DM individua, all’articolo 6, gli incentivi non cumulabili con i Certificati verdi o la Tariffa omnicomprensiva sinteticamente riportati di seguito:

• incentivi pubblici di natura nazionale, regionale, locale o comunitaria in conto energia, in conto capitale o in conto interessi con capitalizzazione anticipata, assegnati dopo il 31 dicembre 2007, per gli impianti entrati in esercizio dopo il 30/06/2009 come modifi-cato dalla L. 23/07/2009 n.99 art.27 comma 12;

• incentivi pubblici di natura nazionale, regionale, locale o comunitaria in conto capitale o in conto interessi con capitalizzazione anticipata eccedenti il 40% del costo dell’inve-stimento per gli impianti, entrati in esercizio fino al 14/08/2009, alimentati a biomasse da filiera. Qualora detti incentivi siano stati erogati in misura non eccedente il 40% del costo dell’investimento non è consentito per tali impianti, pena la decadenza dal diritto agli incentivi, l’uso di biomasse non da filiera per più del 20%;

• incentivi di cui all’articolo 18 del D.lgs. 387/2003;

• incentivi pubblici in conto capitale per la realizzazione dell’impianto, nell’ipotesi di ri-chiesta di Certificati Verdi aggiuntivi, per ulteriori quattro anni, per gli impianti di alimentati da biomassa da filiera ed impianti da rifiuti non biodegradabili entrati in esercizio tra il 1/4/1999 ed il 31/12/2007.

Per gli impianti al di sotto di 1 MW la legge 244/07 (così come modificata dalla legge 99/09 art.42) invece stabilisce la cumulabilità tra tariffa omnicomprensiva ed incentivi pubblici di natura nazionale, regionale, locale o comunitaria in conto capitale o in conto interessi con capitalizzazione anticipata non eccedenti il 40% del costo dell’investimento, ottenuti per gli impianti di proprietà di aziende agricole o gestiti in connessione con azien-de agricole, agroalimentari, di allevamento e forestali, alimentati dal fonti rinnovabili.

Per il teleriscaldamento le misure esistenti sono a favore degli utenti allacciati alle relative reti abbinate ad impianti alimentati da fonte geotermica e da biomasse. Il mecca-nismo riconosce a favore dell’utente finale un incentivo di 25,8 €/MWht ed un ulteriore incentivo di circa 21,00 €/kWt installato nelle sottocentrali d’utenza a parziale copertura dei costi di allacciamento.

Sono inoltre in avvio strumenti che utilizzano quale strumento per certificati bianchi

23 Collegato alla Finanziaria 2008, articolo 26, comma 4-bis.

24 Il decreto, concertato con il MiSE, è stato pubblicato con Gazzetta Ufficiale n. 103 del 5 maggio 2010.

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19

per promuovere la cogenerazione, anche abbinata al teleriscaldamento. Il teleriscaldamen-to da fonti rinnovabili potrà avvantaggiarsi di questo meccanismo, potendosi, sulla base delle attuali normative, sommare agli incentivi all’elettricità da rinnovabili quelli assicurati all’uso del calore cogenerato25.

1.5 Biomasse e biocombustibili: alcuni aspetti ambientali e fiscali

La direttiva 2008/98/CE del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti, modifica l’enuncia-zione del termine biomassa (Art.2) già presente nella direttiva 2001/77/CE e recepita con il D.lgs. n. 387/2003, definendola come “la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l’acquacoltura, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani”. Viene infatti introdotta la specifica che riguarda l’origine biologica della biomassa agricola ed aggiunge i residui della pesca e dell’acquacoltura.

Le biomasse sono spesso soggette a dispute giurisprudenziali sulla loro qualifica-zione giuridica come rifiuto o sottoprodotto. La differente terminologia applicata implica infatti la possibilità o meno di poter movimentare la biomassa a costi maggiori o minori: il rifiuto infatti dovrà essere raccolto da ditte autorizzate ed accompagnato da documen-tazione specifica (registri di carico e scarico rifiuti) con responsabilità specifica per che se ne deve disfare; il sottoprodotto può invece essere trasportato senza alcuna procedura particolare. Poter considerare la biomassa un sottoprodotto rappresenta quindi una enor-me semplificazione rispetto agli adempimenti burocratici.

Sono sottoprodotti, secondo la definizione normativa26, le sostanze ed i materiali dei quali il produttore non intende disfarsi che soddisfino tutti i seguenti criteri, requisiti e condizioni:

1. siano originati da un processo non direttamente destinato alla loro produzione;2. il loro impiego sia certo;3. soddisfino requisiti merceologici e di qualità ambientale idonei a garantire che il loro

impiego non dia luogo ad emissioni e ad impatti ambientali qualitativamente e quan-titativamente diversi da quelli autorizzati per l’impianto dove sono destinati ad essere utilizzati;

4. non debbano essere sottoposti a trattamenti preventivi o a trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualità ambientale di cui al punto 3), ma posseggano tali requisiti sin dalla fase della produzione;

5. abbiano un valore economico di mercato.

Il testo unico ambientale (TUA) fino ad oggi poteva considerare sottoprodotto solo residui agricoli che venivano riutilizzati a scopo energetico all’interno dell’azienda che li produceva. Oggi la Legge 129/2010 ha modificato questa disposizione (art. 185 comma 2 del TUA) prevedendo che possono essere sottoprodotti, nel rispetto delle condizioni della lettera p), comma 1 dell’articolo 183: “materiali fecali e vegetali provenienti da sfalci e potature di manutenzione del verde pubblico e privato, oppure da attività agricole, utiliz-zati nelle attività agricole, anche al di fuori del luogo di produzione, ovvero ceduti a terzi,

25 Come indicato dal Piano di azione nazionale (PAN).

26 Art. 183 comma 1 lett. p) del D. Lgs. 152/2006

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20

o utilizzati in impianti aziendali o interaziendali per produrre energia o calore, o biogas, materiali litoidi o terre da coltivazione, anche sotto forma di fanghi, provenienti dalla pu-lizia o dal lavaggio di prodotti agricoli e riutilizzati nelle normali pratiche agricole e di conduzione dei fondi”.

Diventa quindi possibile la cessione a terzi di reflui da allevamento e scarti di potatu-re e sfalci provenienti da agricoltura o manutenzione del verde pubblico.

Anche l’utilizzo del digestato, effluente in uscita dall’impianto di digestione anae-robica, presenta problemi ambientali che hanno acceso il dibattito giurisprudenziale ed agronomico. Esso mostra caratteristiche chimico-fisiche diverse, correlate al tipo di sub-strato utilizzato, con un buon potere fertilizzante in quanto apporta sostanza organica ed elementi nutrivi immediatamente assimilabili dalla coltura, con una maggiore presenza di azoto sotto forma ammoniacale. Il suo impiego ai fini agronomici comporta da un lato maggiore efficienza, dall’altro va controllata l’epoca di distribuzione per poter massimiz-zare tale maggiore efficienza27. La normativa ha costantemente ostacolato l’utilizzo del digestato come fertilizzante28 fino a quando la Conferenza delle Regioni del 23 settembre 2010, ha approvato un documento sull’utilizzazione agronomica del digestato proveniente da impianti di biogas, affermando che “il digestato, a seguito delle profonde modificazio-ni chimico-biologiche che avvengono durante la digestione anaerobica, assume spiccate proprietà fertilizzanti e può sostituire totalmente o parzialmente i fertilizzanti chimici se utilizzato secondo le corrette pratiche agronomiche di distribuzione (sia per quanto riguar-da le modalità che i periodi); nel caso di zone vulnerabili, a maggior tutela dell’ambiente e della qualità dell’aria e delle acque, il digestato potrà essere utilizzato in totale sostituzione dei fertilizzanti chimici (es. urea) - e quindi a bilancio di coltura - solo se risponde a preci-se caratteristiche di caratterizzazione ed efficienza, tali da conferire al digestato proprietà simili a quelle dei fertilizzanti azotati (es. urea) e quindi ‘proprietà sostitutiva’ ”. Viene di fatto chiesta la modifica del D.M. 6 aprile 2006 sull’utilizzo agronomico del digestato.

Per quel che riguarda gli aspetti fiscali la finanziaria 2007, sostituendo ciò che era stato stabilito all’art.1 comma 369 della finanziaria 2006 statuisce che “..la produzione e la cessione di energia elettrica e calorica da fonti rinnovabili agroforestali e fotovoltaiche non-ché di carburanti ottenuti da produzioni vegetali provenienti prevalentemente dal fondo e di prodotti chimici derivanti da prodotti agricoli provenienti prevalentemente dal fondo, effettuate dagli imprenditori agricoli, costituiscono attività connesse ai sensi dell’articolo 2135, terzo comma, del codice civile e si considerano produttive di reddito agrario”.

La Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 32/E del 6/07/09 chiarisce che l’attività di produzione deve essere svolta con materie prodotte in maniera prevalente dall’impresa agricola (tranne che per il fotovoltaico). Non rientra nel settore agricolo la produzione di energia da fonti eoliche e da quelle idriche. L’imprenditore dovrà tenere una contabilità separata tra attività agricola e vendita di energia. Il regime IVA per la cessione di energia elettrica sarà quello ordinario (20%) a meno che non rientri nel caso previsto alla Tabel-la A – parte terza n. 103 del DPR n. 633 del 1972 e ss. mm. ii. “energia elettrica per uso domestico; energia elettrica e gas per uso di imprese estrattive, agricole e manifatturiere comprese le imprese poligrafiche, editoriali e simili; energia elettrica per il funzionamento degli impianti irrigui, di sollevamento e di scolo delle acque, utilizzati dai consorzi di boni-

27 LIFE 2006 – Integrated system to enhance sequestration of carbon, producing energy crops by using organic resi-dues. CRPA, Reggio Emilia

28 Decreto MiPAAF del 6 aprile 2006 “Criteri e norme tecniche generali per la disciplina regionale dell’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento, di cui all’articolo 38 del D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152”.

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21

fica e di irrigazione; energia elettrica fornita ai clienti grossisti di cui all’articolo 2, comma 5, del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79; gas, gas metano e gas petroliferi liquefatti, destinati ad essere immessi direttamente nelle tubazioni delle reti di distribuzione per essere successivamente erogati, ovvero destinati ad imprese che li impiegano per la produ-zione di energia elettrica”.

In Italia per la promozione dell’utilizzo dei biocarburanti nei trasporti ed in attua-zione della direttiva 2003/30/CE sono state emanate varie disposizioni normative che da un lato hanno imposto ai produttori l’obbligo di miscelazione con biocarburanti di origine agricola, dall’altro hanno previsto agevolazioni sulle accise.

La legge n.266/200529 stabiliva l’esenzione dalle accise sui carburanti per un quanti-tativo annuo di 200.000 tonnellate di biodiesel. Un altro provvedimento30 aveva introdotto per i produttori di carburanti diesel e di benzina l’obbligo: “di immettere al consumo bio-carburanti di origine agricola (…)in misura pari all’1 per cento dei carburanti diesel e della benzina immessi al consumo nell’anno precedente. Tale percentuale, espressa in potere calorifico inferiore, è incrementata di un punto per ogni anno, fino al 2010”.

La finanziaria 200831 ha ulteriormente rafforzato gli obiettivi precedenti, aumen-tando al 3%32 per il 2008 l’obbligo di miscelazione di biocombustibili con il carburante tradizionale. Il DM 25 gennaio 2010 modifica in ultimo la quota minima di immissione in consumo di biocarburanti ed altri carburanti rinnovabili fissando la misura del 3,5 per cento per l’anno 2010, 4 % per l’anno 2011 e 4,5 % per l’anno 2012.

Contrariamente a quanto viene per la promozione dell’utilizzo dei biocarburanti, dal punto di vista degli incentivi le disposizioni contenute nella finanziaria 2010 prevedono una rilevante riduzione dello stanziamento destinato all’agevolazione per il bioetanolo non-ché un significativo ridimensionamento della quota di biodiesel ammessa ad accisa agevo-lata. In particolare, la norma prevede che, per l’anno 201033, l’autorizzazione di spesa sia ridotta da 73 a 3,8 milioni di euro e che, a decorrere dal 2011, l’autorizzazione di spesa sia ridotta di 0,1 milioni annui. Si dispone, poi, la riduzione, limitatamente all’anno 2010, da 250mila a 18mila tonnellate della quantità di contingente che può beneficiare dell’aliquota ridotta di accisa.

29 Legge 23 dicembre 2005, n.266.w

30 Legge n. 81/2006.

31 Legge 244/2007 Art. 2, commi 139-140

32 Art 2. comma 139 della Finanziaria 2008 , Legge n. 224 del 24/12/2007. Per l’anno 2009, la quota minima di cui all’articolo 2-quater, comma 1, del decreto- legge 10 gennaio 2006, n. 2, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 marzo 2006, n. 81, come sostituito dall’articolo 1, comma 368, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e fissata, senza oneri aggiuntivi a carico dello Stato, nella misura del 3 per cento di tutto il carburante, benzina e gasolio, immesso in consumo nell’anno solare precedente, calcolata sulla base del tenore energetico.

33 Legge n. 191 del 23 dicembre 2009 - articolo 2, comma 64

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Capitolo ii

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2.1 Il ruolo regionale nel sistema energetico

Come già accennato la riforma della Pubblica Amministrazione attuata attraverso il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni e agli Enti Locali ha attribuito alle Regioni le funzioni amministrative non riservate allo Stato in materia di energia rinno-vabile.

Lo Stato, oltre a conservare le funzioni e i compiti concernenti l’elaborazione e la definizione degli obiettivi e delle linee di politica energetica nazionale, nonché l’adozione degli atti di indirizzo e coordinamento sulla programmazione energetica regionale, riser-va a se altre funzioni amministrative, tra cui quelle che riguardano la ricerca scientifica in campo energetico e le determinazioni concernenti l’ambiente.

L’autorizzazione alla costruzione di impianti per la produzione di energia da fonte rinnovabile è demandata alle Regioni34. La materia è disciplinata, a livello statale, dal Decreto legislativo 387/2003 e ss.mm.ii.

Il decreto prevede all’art. 12 - Razionalizzazione e semplificazione delle procedure autorizzative - per quali tipologie di impianti è necessario attivare il procedimento di au-torizzazione unica rilasciata dalla Regione o dalle province delegate dalla regione stessa, secondo il quale è necessaria la convocazione di una conferenza di servizi ai sensi della legge 241/90. Al di sotto di certe taglie l’autorizzazione unica viene sostituita da una semplice denuncia di inizio attività (DIA) presentata al Comune competente.

L’art. 12 prevede per alcuni tipi di impianti35 che questi possano essere ubicati anche in zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici. Nell’ubicazione si dovrà tenere conto delle disposizioni in materia di sostegno nel settore agricolo, con particola-re riferimento alla valorizzazione delle tradizioni agroalimentari locali, alla tutela della biodiversità, così come del patrimonio culturale e del paesaggio rurale di cui alla legge 5 marzo 2001, n. 57, articoli 7 e 8, nonché del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228, articolo 14.

In ultimo l’articolo prevede l’emanazione di Linee Guida per l’autorizzazione alla costruzione e all’esercizio di impianti di produzione di elettricità da FER, con specifico riguardo al corretto inserimento degli impianti eolici nel paesaggio, da predisporre in conferenza unificata tra il Ministro dello sviluppo economico, il Ministro dell’ambiente della tutela del territorio e del mare ed il Ministro per i beni e le attività culturali.

34 Tranne che per gli impianti eolici off-shore, la cui autorizzazione è di competenza statale.

35 Impianti alimentati da fonti rinnovabili programmabili: impianti alimentati dalle biomasse e dalla fonte idraulica, ad esclusione, per quest’ultima fonte, degli impianti ad acqua fluente, nonché gli impianti ibridi, di cui alla lettera d) dell’art. 12; impianti alimentati da fonti rinnovabili non programmabili o comunque non assegnabili ai servizi di regolazione di punta: impianti alimentati dalle fonti rinnovabili che non rientrano tra quelli di cui alla lettera b) dell’art.12.

Page 36: collana politicHe per l’amBiente e l’agricoltura Biomasse

24

Le nuove Linee guida nazionali36 prevedono la sola denuncia di inizio attività (DIA)per:

a) impianti di generazione elettrica alimentati da biomasse, gas di discarica, gas residuati dai processi di depurazione e biogas non ricadenti fra quelli di cui al punto 12.3 ed aventi tutte le seguenti caratteristiche (ai sensi dell’articolo 27, comma 20, della legge n. 99 del 2009): i. operanti in assetto cogenerativo; ii. aventi una capacità di generazione massima inferiore a 1000 kWe (piccola cogene-razione) ovvero a 3000 kWt;

b) impianti di generazione elettrica alimentati da biomasse, gas di discarica, gas residuati dai processi di depurazione e biogas, non ricadenti fra quelli di cui al punto 12.3 e al punto 12.4 lettera a) ed aventi capacità di generazione inferiori alle rispettive soglie indicate alla Tabella A allegata al d.lgs. 387 del 2003, come introdotta dall’articolo 2, coma 161, della legge n. 244 del 2007.

Basterà invece una semplice comunicazione per gli impianti alimentati da biomasse, gas di discarica, gas residuati dai processi di depurazione e biogas aventi tutte le se-guenti caratteristiche: i. operanti in assetto cogenerativo37; ii. aventi una capacità di generazione massima inferiore a 50 kWe (microgenerazio-ne);

c) impianti alimentati da biomasse, gas di discarica, gas residuati dai processi di depu-razione e biogas non ricadenti fra quelli di cui al punto a) ed aventi tutte le seguenti caratteristiche (ai sensi dell’articolo 123, comma 1, secondo periodo e dell’articolo 6, comma 1, lettera a) del DPR 380 del 2001): i. realizzati in edifici esistenti, sempre che non alterino i volumi e le superfici, non comportino modifiche delle destinazioni di uso, non riguardino le parti strutturali dell’edificio, non comportino aumento del numero delle unità immobiliari e non implichino incremento dei parametri urbanistici; ii. aventi una capacità di generazione compatibile con il regime di scambio sul posto.

Negli schemi che seguono si sintetizza il regime di autorizzazione per le principali fonti rinnovabili, così come previsto dalle nuove Linee guida.

36 Linee guida per il procedimento di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 per l’autorizzazione alla costruzione e all’esercizio di impianti di produzione di elettricità da fonti rinnovabili non-ché linee guida tecniche per gli impianti stessi. GURI n.219 del 19.09.2010.

37 Per la simultanea produzione di calore ed elettricità.

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27

2.2 Il procedimento autorizzativo in Regione Campania

La Regione Campania ha emanato, fino ad oggi, quattro diversi atti di regolamenta-zione delle procedure di autorizzazione:

1. D.G.R. Campania del 19 marzo 2004 n. 460 - D.Lgs. 387/03 - Art. 12: autorizzazione alla costruzione e all’esercizio di impianti di produzione dell’energia elettrica alimen-tati da fonti rinnovabili. Individuazione del Settore “Sviluppo e Promozione delle Atti-vità Industriali – Fonti Energetiche” quale struttura responsabile del procedimento e dell’adozione del provvedimento finale;

2. D.G.R. Campania del 30 novembre 2006 n. 1955 “Linee guida per lo svolgimento del procedimento unico relativo alla installazione di impianti per la produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile”;

3. D.G.R. Campania del 20 marzo 2009 n. 500 - “Linee guida per lo svolgimento del procedimento dell’autorizzazione unica da applicare nelle more dell’approvazione delle linee guida statali previste dall’art. 12, comma 10, del d.Lgs. 387/2003”;

4. D.G.R. Campania del 30 ottobre 2009 n. 1642 - “Norme generali sul procedimento in materia di autorizzazione unica di cui all’art. 12 del D. Lgs. 29.12.2003 n. 387”.

Con quest’ultimo provvedimento la Regione ha inteso dare una risoluzione alla vaca-tio legis di linee guida nazionali all’epoca esistente. Le norme generali riprendono l’impal-cato del D. Lgs. 387/2003 declinando l’iter istruttorio e semplificando la documentazione da presentare attraverso specifici formulari.

Si conferma inoltre la delega alle Province per i procedimenti di autorizzazione dei seguenti impianti da fonte rinnovabile:

a) fotovoltaici: fino alla potenza di 1 MW di picco, fatti salvi gli interventi di cui alle lette-re b2 e b3 del D.M. 19/02/2007;

b) eolici: fino alla potenza di 1 MW;c) idroelettrici: fino alla potenza di 1 MW, compresi quelli che utilizzano l’energia del

moto ondoso;d) ermoelettrici alimentati a biomassa e/o biogas con le caratteristiche e i limiti di cui al

comma 14 dell’art. 269 del D.Lgs. n. 152 del 03/04/06;e) gli interventi a biomassa vegetali liquide vergini di cui all’art. 65 della LR 1/2008 con

potenza superiore a quella di cui alla precedente lett. d) fino a 5 MW elettrici.

La normativa agroenergetica legata all’agricoltura

Con la legge finanziaria regionale del 2008 la Campania in merito allo sviluppo delle agroenergie ha disposto 38 la creazione dei “distretti energetici” in quei territori comuni su cui è presente una certa concentrazione di impianti di produzione di energia da fonte alternativa 39, prevedendo di norma, non più di un distretto per provincia che abbia come rappresentante il comune nel cui territorio è presente il maggior numero di impianti40.

Per quanto riguarda le filiere riconducibili alla gestione del patrimonio forestale re-gionale la normativa riguardante l’uso del territorio prevede una deroga specifica per le

38 Art.54, Legge regionale n°1 del 30 gennaio 2008

39 Con capacità produttiva complessiva non inferiore a 30 MW.

40 A rappresentanza del distretto è posto il Comune con il maggior numero di impianti e con la maggiore potenza nominale, realizzati nel corso dell’anno 2007 e, comunque, con potenza complessiva non inferiore a 20 MW.

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28

operazioni finalizzate all‘ottenimento di biomasse utilizzabili come fonti per la produzione di energia rinnovabile.

I beni silvo-pastorali comunali o di proprietà di altri enti sono assoggettati ai Piani di Assestamento41 che ne gestiscono l’utilizzazione. Nelle more della definizione dei predetti Piani di Assestamento, il prelievo annuale di massa legnosa non può superare il 50% di quello medio-annuo effettivamente realizzato nell’ultimo decennio da ciascun Ente pro-prietario.

Tali limiti di utilizzazione non si applicano alle cure colturali in grado di generare biomasse per la produzione di energia rinnovabile. In tal caso le operazioni devono essere autorizzate dall’ente delegato territorialmente competente previa richiesta contenente una dettagliata relazione descrittiva delle operazioni tecniche, del prelievo complessivo del ma-teriale ritraibile e della destinazione dello stesso.

Inoltre la legge prevede la possibilità di eseguire cure colturali consistenti in opera-zioni di sfollo e diradamento anche ai boschi pubblici e privati ricadenti in aree protette quali aree SIC, pSIC, ZPS, - Habitat - rete natura 2000, previa presentazione di un progetto a firma di un tecnico abilitato.

Nell’ultima finanziaria regionale42 all’Art. 1 comma 25 si prevede che “la regione Campania, nell’ambito della valorizzazione delle tradizioni agroalimentari e agrituri-stiche locali, delle politiche di tutela delle biodiversità e del patrimonio culturale e pae-saggistico rurale.… e nell’ambito del corretto inserimento delle centrali di produzione di energia da fonti rinnovabili, sancisce il rispetto di una distanza degli insediamenti energetici non inferiore a cinquecento metri lineari dalle aree interessate da coltivazioni viticole con marchio Doc e Docg e non inferiore a mille metri lineari da aziende agritu-ristiche ricadenti in tali aree”.

2.3 Il Bilancio energetico in Campania

La competitività del sistema economico regionale risulta ancora oggi pesantemente penalizzata dal ritardo strutturale e dagli alti costi dell’energia, per questo motivo la rispo-sta delle politiche deve integrare sia gli aspetti di mercato (richiesta di competitività) che il fabbisogno energetico.

Con un sistema elettrico in forte deficit di produzione, un parco auto ancora forte-mente inquinante, una mancata integrazione territoriale degli operatori della produzione e della distribuzione dell’energia, la Campania pone in essere problematiche tutt’altro di facile soluzione, sia da un punto di vista organizzativo ed economico che socio-culturale.

La richiesta di energia elettrica in regione non è mai stata coperta interamente dalla produzione locale, quindi la Campania si è sempre trovata in condizioni di import di ener-gia dalle altre Regioni confinanti, soprattutto Puglia, regione caratterizzata da un cospicuo surplus di energia, alla quale è interconnessa.

Tuttavia quest’energia elettrica non è pienamente utilizzabile per coprire il fabbiso-gno campano a causa di limitazioni sulla capacità di trasporto dell’energia. La situazione di deficit della produzione è andata aggravandosi negli ultimi trenta anni, fino al 2007,

41 I Piani di Assestamento devono essere redatti a cura degli Enti proprietari o degli Enti pubblici da loro incaricati conformemente alle norme tecniche, allegato A della legge regionale 28 febbraio 1987, n. 13, e successive modifiche ed integrazioni, sono adottati dalla Giunta Regionale previo parere del Comitato Tecnico Regionale.

42 Legge regionale n. 2 del 20 gennaio 2010

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29

quando l’entrata in esercizio di nuovi impianti ha consentito una riduzione del deficit ri-spetto agli anni precedenti.

Infatti il bilancio energetico relativo all’anno 2007 mostra un apporto da fonti di energia rinnovabile rispetto al totale prodotto di circa il 19 % in termini di potenza instal-lata e di circa il 13% in termini di energia sviluppata (pari a 820 MWp con una produzione netta di circa 1.200 GWh). Per il 2008 la quota di energia prodotta sale a 1477 GWh.

In termini di consumi finali l’agricoltura incide per appena l’1,5% sul settore energe-tico regionale contro il 2,3 % a livello nazionale.

Inoltre nel periodo 2007–2018 l’evoluzione stimata per la domanda in Campania (consumi + perdite) si aggira intorno all’1,6% annuo, leggermente inferiore allo sviluppo della domanda (+1,9%) e dei consumi (+2,2%) dell’ultimo decennio.

Tabella n. 2.1 - Consistenza del parco elettrico e bilancio dell’energia elettrica nella regio-ne Campania,2007

FontePotenza elettrica

netta in MWProduzione netta di energia elettrica

in GWh

idroel. (fluente, bacino, apporti naturali) 331 354

idroel. (pompaggio) 985 1.406

termoelettrico da fonte fossile (inclusa cogenerazione)

2.514 6.790

Rifiuti 0 0

Biomasse 27 77

Eolico 458 778

Fotovoltaico 7 1

totalE 4.322 9.406

di cui destinata al consumo 7.476

Apporto da f.e.r.: Pe,fer (MW) 823 1.210

Apporto da f.e.r.: Pe,fer/Pe,tot (%) 19,0 12,9

Tabella n. 2.2 - Consistenza del parco elettrico e bilancio dell’energia elettrica nella regio-ne Campania per l’anno 2008

FONTE Potenza efficiente lorda in MW Produzione netta GWh

idroel. (fluente, bacino, apporti naturali) 333,8 405,1

idroel. (pompaggi) 1.000 1.354,7

termoelettrico tradizionale 2.810 8.319,8

Eolico 652,5 992,8

Fotovoltaico 15,5 6,4

Biomasse 42,8 73

Totale da FER 1.045 1.477

totalE 4.854 11.152

di cui destinata al consumo 9.232

Energia richiesta (consumi fin + perdite) 19.092

Deficit 2008 -9.861

Fonte: elaborazione INEA su dati Terna – 2008

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30

Tabella n. 2.3 - Consumi finali elettrici per settore e annoC

ampa

nia

Anno 2003 2004 2005 2006 2007 2008 %

Settore GWh GWh GWh GWh GWh GWh 2008

agricoltura 228,1 243,8 248,9 246,6 263,7 264,2 1,5%

industria 5.403,9 5.280,3 5.353,2 5.509,3 5.564,4 5.365,3 31,3%

terziario * 4.611,5 4.757,9 5.052,0 5.322,7 5.512,6 5.769,7 33,6%

Usi Domestici

5.470,3 5.651,5 5.680,1 5.746,0 5.746,7 5.760,4 33,6%

totale Consumi

15.714,1 15.933,4 16.334,1 16.824,5 17.087,4 17.159,7 100,0%

* Al netto dei consumi FS per trazione.Fonte: Dati Statistici sull’energia elettrica in Italia, 2008 -Terna

Fonti energetiche rinnovabili in Campania - 2008

Fonte: elaborazione INEA

2.4 Gli strumenti di programmazione per l’energia rinnovabile e l’agroenergia

IL PASERLa Regione Campania ha intrapreso un percorso di sviluppo a partire dal 2006 con

Il Piano di Azione per lo Sviluppo Economico Regionale (PASER) che aggiornato annual-mente, prevede al suo interno linee di azione riguardanti il sostegno allo sviluppo produt-tivo e la competitività del tessuto imprenditoriale regionale in settori strategici, quale la produzione di energia, nell’ambito di programmi integrati di ricerca e innovazione, trasfe-rimento e sviluppo tecnologico.

La linea d’azione 1 del PASER, affida un ruolo centrale al comparto produzione ener-getica, in particolare da fonti energetiche rinnovabili, al fine di promuovere lo sviluppo della filiera agro-energetica regionale, attraverso l’implementazione di adeguati processi territoriali che incidano sulla governance e sui modelli gestionali al fine di:

– potenziare lo smaltimento e la valorizzazione agroenergetica degli scarti agroforesta-

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31

li, agroindustriali e del comparto zootecnico regionale, sfruttando il biogas - per usi termici ed elettrici, ed ottenendo alla fine del processo produttivo – ammendanti e fertilizzanti;

– favorire lo sviluppo di colture bioenergetiche oleaginose e successiva trasformazione in biocombustibili, nonché di colture bioenergetiche per la combustione diretta in im-pianti FER incrociando obiettivi ed azioni per lo sviluppo di aziende agroenergetiche e di consorzi che vedano coinvolte in formule gestionali innovative le stesse comunità locali;

– provvedere a corredare la promozione della filiera con il supporto di adeguate azioni di analisi, pianificazione e programmazione, in ottemperanza alla Legge 10/91, al d.lgs. 387/03 e alla restante normativa in materia.

Gli strumenti operativi per il conseguimento degli obiettivi, sono stati delineati con la legge regionale n. 12 del 28 novembre 2007 “Incentivi alle imprese per l’attivazione del piano di azione Per lo sviluppo economico regionale” creando cinque forme di incentivo per la competitività delle imprese:

1. Il contratto di programma regionale - finalizzato a valorizzare la contrattazione pro-grammata a livello regionale e a favorire l’attuazione di interventi complessi di svilup-po territoriale e settoriale realizzati da una singola impresa o da gruppi di imprese nell’ambito della programmazione concertata e volti a generare positive ricadute sul sistema produttivo regionale;

2. Il credito d’imposta regionale per nuovi investimenti produttivi - finalizzato a razio-nalizzare e specializzare la strumentazione destinata al sostegno e allo sviluppo delle imprese sul territorio regionale e ad affrontare situazioni di carattere congiunturale;

3. Il credito d’imposta per l’incremento dell’occupazione - finalizzato a favorire l’incre-mento dell’occupazione stabile e la creazione di nuove opportunità di inserimento du-raturo nel mondo del lavoro;

4. Gli incentivi per l’innovazione e lo sviluppo - finalizzati a promuovere progetti orientati al rafforzamento dei processi produttivi, distributivi e organizzativi di impresa, all’in-ternazionalizzazione, all’incremento della dimensione d’impresa e della competitività sui mercati nazionali e internazionali, tramite la realizzazione di interventi di caratte-re strutturale in investimenti produttivi, in formazione del capitale umano, in ricerca e sviluppo tecnologico, volti a produrre effetti duraturi per le imprese che operano sul territorio regionale;

5. Gli incentivi per il consolidamento a medio e lungo termine delle passività a breve - finalizzati a favorire il rafforzamento della struttura patrimoniale delle imprese aventi sede legale ed unità produttive ubicate sul territorio regionale e a facilitare il rapporto con il sistema creditizio e finanziario.

Già nel 2006 la forte richiesta di autorizzazioni per la costruzione di impianti FER, soprattutto eolici e l’avvio del nuovo periodo di programmazione dei fondi comunitari, evi-denziava l’esigenza per l’Amministrazione regionale di dotarsi di uno Piano strategico per l’energia al fine di meglio incanalare risorse finanziarie e meglio gestire il territorio.

il pEaRGli obiettivi primari della proposta di Piano Energetico Ambientale della Regione

Campania (PEAR)43 consistono, nel valorizzare le risorse naturali e ambientali territoriali,

43 Approvato con Deliberazione n. 475 del 18 marzo 2009 e pubblicato nel BUR Campania n.27 speciale del 6 maggio 2009.

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promuovere processi di filiere corte territoriali, stimolare lo sviluppo di modelli di gover-nance locali, generare un mercato locale e regionale della CO

2, potenziare la ricerca e il

trasferimento tecnologico, avviare misure di politica industriale.

L’intento è quello di contribuire ad avviare una sorta di rivoluzione copernicana nella impostazione delle finalità e degli strumenti per conseguirle, in cui le previsioni, e le scelte conseguenti, divengano strumenti per lo sviluppo.

L’introduzione di politiche volte a “decarbonizzare” l’economia, cioè a ridurre le emis-sioni di CO

2 in atmosfera, ha determinato importanti opportunità commerciali nei settori

tecnologici legati all’efficienza energetica ed alle energie rinnovabili, promuovendo il con-tenimento della spesa relativa all’approvvigionamento energetico, una modernizzazione in chiave ecologica del sistema economico e la creazione di comunità locali più sostenibili.

Le politiche energetiche regionali si pongono come strumento cruciale per la riconver-sione del sistema regionale verso un modello di mercato concepito a basse emissioni, a par-tire dalla dimensione locale, con l’individuazione dell’Ente locale, quale referente diretto e interlocutore privilegiato per il governo del territorio e delle aree urbane, industriali e rurali.

Il PEAR è stato preceduto dalla elaborazione di “Linee d’indirizzo strategico”44, che hanno definito finalità, obiettivi e approccio metodologico per la redazione del Piano “qua-le strumento per la programmazione di uno sviluppo economico ecosostenibile median-te interventi atti a conseguire livelli più elevati di efficienza, competitività, flessibilità e sicurezza nell’ambito delle azioni a sostegno dell’uso razionale delle risorse, del rispar-mio energetico e dell’utilizzo di fonti rinnovabili non climalteranti”.

Compito del piano energetico ambientale della Regione Campania è quello di ripren-dere gli indirizzi delineati, indicando la strategia complessiva. I cinque pilastri program-matici individuati sono:

– riduzione della domanda energetica tramite l’efficienza e la razionalizzazione, con par-ticolare attenzione verso la domanda pubblica;

– diversificazione e decentramento della produzione energetica, con priorità all’uso delle rinnovabili e dei nuovi vettori ad esse associabili;

– creazione di uno “spazio comune” per la ricerca e il trasferimento tecnologico; – coordinamento delle politiche di settore e dei relativi finanziamenti.

La proposta di piano energetico ambientale regionale contiene alcuni obiettivi speci-fici che riguardano le biomasse di origine agro-forestale:

– favorire la creazione di filiere corte per la produzione di energia da biomassa di origine agro-forestale, ottenuta soprattutto da scarti agricoli, di allevamento e forestali, laddo-ve i territori sono maggiormente vocati a questo tipo di produzione ed in aree interne svantaggiate dove la creazione di una filiera della biomassa possa creare occupazione conseguendo al tempo stesso l’autosufficienza energetica di piccole comunità;

– creare le condizioni per l’ulteriore sviluppo delle agro-energie all’interno delle imprese agricole;

– semplificare le procedure amministrative per autorizzare gli impianti a biocombusti-bili gassosi fino a 3 MWt, gli impianti a biocombustibili solidi fino a 1 MWe e quelli a biocombustibili liquidi fino a 5 MWe;

– favorire l’integrazione degli impianti a biomassa con altre fonti rinnovabili (soprat-

44 Approvate con l’aggiornamento del Piano di azione per lo sviluppo economico regionale (PASER) con delibera di G.R. n. 962 del 30/05/2008

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tutto solare termodinamico, fotovoltaico, microeolico fino a 200 kW). In particolare, al fine di sviluppare le risorse endogene dei territori rurali, viene

data priorità alla cogenerazione a partire da biomasse locali ed allo sviluppo della genera-zione distribuita basata su impianti di medio-piccola taglia ad alta efficienza energetica, che attraverso l’integrazione tra diverse fonti di energia rinnovabile, possono contribuire alla riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra.

Il documento strategico prevede inoltre la strutturazione di interventi per incen-tivare l’utilizzo di energia rinnovabile da biomasse agro-forestali all’interno dell’azienda agricola, in raggruppamenti di aziende e piccole comunità rurali; la possibilità di affidare agli enti locali in maniera diretta a cooperative e loro consorzi lavori e/o servizi riguar-danti la realizzazione e la gestione di impianti di produzione di calore alimentati da fonti rinnovabili di origine agro-forestale in armonia con le caratteristiche peculiari, le risorse e le vocazioni specifiche dei territori, puntando all’integrazione produttiva tra energia rin-novabile e programmabile.

L’assenza di una filiera agro-energetica, fa sì che diventi indispensabile la presenza di un sistema locale pronto a cogliere le opportunità di sviluppo partendo dal basso. Il ruolo degli enti locali in questo senso può diventare essenziale nel favorire l’aggregazione volon-taria dei diversi attori, integrando nella filiera non solo i fornitori, i produttori ed i trasfor-matori, ma anche il sistema amministrativo, il sistema creditizio e il terziario e creando la massa critica necessaria alla sostenibilità di un progetto di investimento in energia da fonti rinnovabili. Tra i soggetti indispensabili per la formazione del partenariato:

– enti locali; – operatori del settore energetico; – aziende agricole, forestali, agroindustriali anche in forma associativa (Organizzazioni

di produttori, Cooperative, Consorzi di bonifica;); – istituti di credito.

L’intenzione del policy maker è quella di sviluppare una governance su scala locale, che alimenti il sistema competitivo mediante la partecipazione delle comunità territoriale.

il programma operativo FESR, Adottato dalla Commissione Europea, con decisione n. C(2007)4265 dell’ 11 set-

tembre 2007 il P.O. concentra le risorse su alcune priorità strategiche di sviluppo come la sostenibilità ambientale, la competitività del sistema produttivo regionale, il comparto energetico, infrastrutture e trasporti, innovazione tecnologica e ricerca, sviluppo urbano e qualità della vita, turismo e politiche culturali, cooperazione. In particolare l’asse 3 “Ener-gia” persegue l’obiettivo principale di ridurre il deficit energetico, agendo, in condizioni di sostenibilità ambientale, sul fronte della produzione, della distribuzione, e dei consumi.

La strategia per la riduzione del deficit del bilancio regionale di energia elettrica non solo costituisce un obiettivo primario della politica regionale del sistema produttivo, ma i suoi impatti si ripercuotono inevitabilmente anche sull’ambiente. Pertanto, il suo perse-guimento verrà favorito attraverso la promozione di azioni e iniziative volte a conseguire:

– la garanzia di un adeguato approvvigionamento energetico; – la riduzione delle emissioni climalteranti come previsto dal protocollo di Kyoto; – l’uso razionale ed efficiente dell’energia teso a contenere i fabbisogni energetici e le

emissioni nonché a minimizzare i costi della produzione e i relativi impatti, ed a razio-nalizzare le reti di distribuzione dei vettori energetici ed il loro stoccaggio. Il traguardo

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34

da raggiungere è la riduzione del deficit da fabbisogno elettrico regionale al 15% entro il 2010, agendo principalmente su tre fronti: la produzione, la distribuzione e il consumo di energia.

In coerenza con le attività previste dal PSR, il PO sottolinea il ruolo del comparto agricolo e, in generale dei territori rurali per il settore energia, grazie al quale la disponi-bilità di materia prima di origine vegetale consente la trasformazione di biomasse a pre-valente composizione lignocellulosica (potature, residui agricoli) in calore e/o elettricità mediante turbine a cogenerazione, ormai disponibili sul mercato anche nel formato micro a costi non eccessivi e di facile gestione anche da parte di un operatore non specializzato, intendendo per agro energia un approccio integrato, finalizzato alla valorizzazione delle risorse rinnovabili dei territori rurali improntato a modelli di sviluppo che ottimizzino l’uso delle risorse e del territorio, massimizzino la redistribuzione dei benefici economici e occupazionali a favore delle imprese agricolo/forestali e delle comunità locali, integrino le fonti di approvvigionamento e gli attori/produttori/utenti delle medesime.

L’Asse quindi sviluppa tra le altre azioni finalizzate a sostenere e/o realizzare im-pianti per la produzione di energia, al fine di soddisfare in tutto o in parte i fabbisogni energetici dell’utenza, da cogenerazione distribuita, in particolare da biomassa, inclusa la valorizzazione energetica della frazione organica dei rifiuti; azioni per sostenere e/o realiz-zare impianti per la produzione di energia proveniente da fonti rinnovabili per valorizzare il patrimonio pubblico e ridurre i costi energetici degli enti locali; sostenere l’incremento dell’efficienza energetica negli usi finali e la riduzione delle emissioni climalteranti, anche tramite la cogenerazione ad alto rendimento.

il programma operativo interregionale (poi) “Energia rinnovabile e risparmio ener-getico”

Approvato dalla Commissione UE il 20/12/07, si propone con una strategia comune, di raggiungere obiettivi ambiziosi di produzione di energia da fonti rinnovabili per le regioni del Mezzogiorno. La finalità del programma è quella di contribuire, insieme ai Programmi Operativi Regionali, al perseguimento dell’obiettivo generale di “Promuovere le opportunità di sviluppo locale attraverso l’attivazione di filiere produttive collegate all’aumento della quo-ta di energia prodotta da fonti rinnovabili e al risparmio energetico” individuato dal QSN.

In questa direzione il POI contribuisce agli specifici orientamenti che prevedono:

– il sostegno ai progetti volti a migliorare l’efficienza energetica, ad esempio per quanto riguarda il patrimonio edilizio pubblico e la diffusione di modelli di sviluppo a bassa intensità energetica;

– la promozione dello sviluppo e dell’uso di tecnologie rinnovabili ed alternative, anche per il riscaldamento e la refrigerazione, che possono conferire un vantaggio all’UE raf-forzandone la posizione competitiva.

il programma di Sviluppo Rurale 2007-2013(pSR) Gli indirizzi comunitari per la attuale programmazione di sviluppo rurale hanno

spinto sin dall’inizio verso la diversificazione delle economie rurali e verso la promozione di nuove fonti di reddito agricolo, come la produzione delle biomasse. Infatti proprio nel Reg. CE 1698/05 si evidenzia la necessità di “incentivare i miglioramenti nei settori del-la trasformazione e della commercializzazione dei prodotti agricoli e forestali primari

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35

sostenendo gli investimenti finalizzati a rendere tali settori più efficienti, a promuovere la produzione di energie rinnovabile da biomasse agricole e forestali, ad introdurre nuove tecnologie ed innovazione, ad aprire nuovi sbocchi di mercato”. Con la decisione comunitaria n. 61/2009 gli Orientamenti strategici comunitari (OSC) sono stati modificati individuando alcune nuove sfide di rilievo per l’agricoltura europea, segnatamente i cam-biamenti climatici, le energie rinnovabili, la gestione delle risorse idriche, la biodiversità e la ristrutturazione del settore lattiero-caseario, ed individuando nell’agricoltura e nella silvicoltura i settori che possono dare un contributo sostanziale alla fornitura di materie prime per la produzione di bioenergia, al sequestro del carbonio e ad un’ulteriore riduzione delle emissioni di gas a effetto serra.

Il Piano Strategico Nazionale (PSN) dal canto suo ha fissato obiettivi ed azioni chiave per le agroenergie, attraverso misure di sostegno agli investimenti per l’impiego di biomas-se locali e la produzione di energia rinnovabile all’interno dell’azienda agricola, evidenzian-do l’opportunità di sviluppare filiere corte ed impianti di produzione di medie e piccole dimensioni.

In coerenza con le strategie delineate a livello comunitario e nazionale relativamen-te allo sviluppo delle energie rinnovabili, il Programma di Sviluppo Rurale (PSR) 2007-2013 della Regione Campania approvato dalla Commissione con Decisione C(2007)5712 del 20/11/07, affronta il tema della produzione di energia da fonti alternative prevedendo misure che investono direttamente nella produzione di biomassa per scopi energetici e che prevedono premialità per tutti gli interventi tesi all’uso di fonti di energia rinnovabile.

Tale sfida viene ulteriormente rafforzata introducendo nuovi interventi tesi a raf-forzare, in termini sia di strumenti operativi che di risorse finanziarie, la coerenza con le nuove sfide dettate dall’Healt Check, oltre che delineate nel Piano Energetico Ambientale Regionale (PEAR).

La durata settennale del programma e la sua dinamicità, lo rendono uno strumen-to politico e finanziario molto importante per lo sviluppo delle filiere agro-energetiche e la presenza dell’ approccio Leader (approccio bottom-up, partenariato pubblico/privato, integrazione multisettoriale) può essere utilizzata per favorire la nascita di filiere agro energetiche locali.

Gli obiettivi del PSR 2007-2013 della Regione Campania nel settore della biomassa sono:

– incentivare il ricorso alla consulenza ed alla formazione nel campo della produzione di materie prime a finalità energetica o di energie da biomassa;

– classificazione della biomassa combustibile e delle relative migliori tecnologie per l’uti-lizzazione;

– sostegno all’utilizzazione forestale dei terreni a scopo energetico, mediante erogazione di contributi alle specie a rapido accrescimento coltivate a breve durata (SRF);

– stimolare la raccolta e conferimento di biomasse ad elevato potenziale energetico con-centrate in particolari distretti territoriali;

– incentivare la produzione di impianti per la produzione di energia termica e/o elettrica alimentati da biomasse agro-forestali;

– incentivare il recupero di biogas prodotto da biomasse agricole e da effluenti zoo-tecnici.

Il territorio regionale è stato distinto in 7 macroaree in base alla presenza di deter-minate caratteristiche ambientali, economiche e sociali. Nelle macroaree identificate con la lettera D (D1 - Aree a forte valenza paesaggistico-naturalistica, con potenzialità di svi-

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36

luppo integrato e D2 - Aree caratterizzate da ritardo di sviluppo) la necessità di sviluppare le bioenergie è enucleata tra i principali fabbisogni individuati.

Nel PSR lo sviluppo dell’offerta e l’uso innovativo delle biomasse vegetali ed animali per fini energetici viene sostenuto attraverso un ampio ventaglio di misure comprese:

– nell’Asse I “Miglioramento della competitività del settore agricolo e forestale”, misure che hanno una funzione strumentale per lo sviluppo di nuovi prodotti, processi e tec-nologie nei settori agricolo e forestali e si distinguono in:

- misure volte a ristrutturare e sviluppare il capitale fisico e a promuovere l’innovazione mediante il miglioramento professionale delle aziende agricole e degli operatori fore-stali;

- incentivazioni al miglioramento delle attrezzature di raccolta e stoccaggio;- investimenti necessari alla realizzazione di impianti di piccole e medie dimensioni per

la combustione di biomassa, anche per piccole reti di teleriscaldamento;- investimenti per sostenere l’approvvigionamento energetico anche con fonti rinnova-

bili; – nell’Asse II “Miglioramento dell’ambiente e dello spazio rurale” mediante lo sviluppo

di energie rinnovabili e di materie prime per la filiera bioenergetica; – nell’Asse III “Qualità della vita nelle zone rurali e diversificazione dell’economia rura-

le”, diversificando l’economia rurale con l’incentivazione di sviluppo di microimprese nel settore delle bioenergie; azioni di informazione sulla produzione e l’uso di energia da biomassa.

Le azioni dedicate alla produzione di energia da fonti alternative, quali biomasse, bio-gas ma anche fotovoltaici od eolici, si diversificano a seconda del territorio di riferimento e delle tipologie di beneficiari.

Misura Intervento Beneficiari Aree

111

interventi di formazione e di informazione che mirano ad aumentare la sensibilizzazio-ne su tematiche di carattere ambientale con

riferimento alle energie rinnovabili

operatori del comparto agricolo, forestale ed agroalimentare

intero territorio regionale

121

Finanziamenti relativi ad interventi per l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili e/o alternative; gli investimenti tesi alla produ-

zione di energia dovranno essere dimen-sionati per non superare la soglia di 1 MW e l’energia prodotta dovrà essere utilizzata in

prevalenza in ambito aziendale.

imprenditori agricoli singoli o associati

a seconda del com-parto produttivo

122

interventi strutturali e infrastrutturali a carattere eminentemente produttivo per la

produzione di biomasse legnose da utilizza-re come fonte energetica rinnovabile

privati singoli o associati proprie-tari di superfici forestali e boschive

Comuni singoli o associati

proprietari di superfici forestali e boschive

Nelle aree forestali insistenti in tutte le

sette macroaree

123 interventi per la produzione ed utilizzazione di energia proveniente da fonti energetiche

rinnovabili

imprese che operano nel campo della conservazione, lavorazione, trasformazione e/o commercia-lizzazione dei prodotti agricoli e

forestali

intero territorio regionale

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37

124

interventi nel settore della bioenergia con riferimento anche alle biomasse forestali, al fine di incentivare l’offerta di fonti energeti-

che rinnovabili

partenariati (atS, Consorzi, socie-tà) formati da: produttori pri-

mari, imprese di trasformazione, Università /enti di ricerca pubblici

o privati

intero territorio regionale

125 sott. 3interventi per la produzione di energia elet-trica da Fonti di Energia Rinnovabile – FER-

Comuni,

Enti parco,

Comunità montane,

Consorzi di bonifica

intero territorio regionale

221

interventi per l’imboschimento delle superfi-ci agricole con specie a rapido accrescimen-to allo scopo di ottenere in tempi brevi una

elevata produzione di biomassa da destinare alla produzione di energia.

imprenditori agricoli professionali (i. a. p.) singoli o associati;

imprenditori agricoli singoli o associati;

persone fisiche e giuridiche di di-ritto privato e altre entità di diritto

privato;

Enti pubblici proprietari dei terreni da imboschire.

Macroaree a2, B, C

227

Realizzazione o ripristino di aree dotate di strutture per l’accoglienza comprensivo

della ristrutturazione e/o adeguamento di rifugi o fabbricati e loro attrezzature, anche

in termini di autonomia energetica (fonti rinnovabili)

Regione Campania;

province;

Comunità Montane;

Comuni;

Enti parco nazionali e regionali;

Consorzi di Bonifica

intero territorio regionale esclu-sivamente nelle

zone forestali o a fisionomia boschiva ed arbustiva appar-tenenti al Demanio

pubblico (azione “a” e “b”) oppure in

possesso (proprietà o affitto) degli Enti

pubblici destinatari (azione “b”)

311

interventi per la realizzazione di impianti, fino ad 1MW di potenza, per la produzione

di energia da fonti rinnovabili destinata alla vendita

Componenti della famiglia agricolaMacroaree C, D1

e D2;

331 attività di informazione relativamente ad azioni di sensibilizzazione sulle energie

rinnovabili.

imprenditori dei settori extragricoli operanti in ambito rurale,

operatori delle imprese extragri-cole,

attori territoriali operanti all’inter-no di filiere extragricole, e tutti gli

altri operatori economici impegnati nell’asse 3

Macroaree C, D1 e D2

Fonte: Regione Campania.

linee di indirizzo strategiche dell’area agricoltura per le agroenergie Il documento strategico presentato nel marzo 2010, espressione dell’Area Generale

di Coordinamento 11 (Agricoltura), contiene obiettivi specifici di breve-medio periodo per le agroenergie in ambito agricolo e rurale. Tali obiettivi sono:

– individuazione di bacini agro-energetici coerenti con la programmazione regionale in coerenza con la tutela di biodiversità, produzioni tipiche e preservazione dei suoli agri-coli ad elevata fertilità;

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38

– incentivazione per imprese agro-forestali singole o associate alla realizzazione di im-pianti di cogenerazione di piccola taglia che utilizzino biomassa da residui agricoli e/o forestali generati in prevalenza all’interno dell’azienda stessa;

– incentivazione per aziende che forniscono reflui zootecnici ed agroindustriali nell’am-bito di accordi di filiera per la produzione di biogas ad uso energetico, utilizzando siste-mi di tracciabilità compatibili con la normativa comunitaria e nazionale;

– incentivazione alla predisposizione di piani di gestione delle aree boscate pubbliche e private finalizzata anche alla produzione di biomassa ad uso energetico che utilizzi sistemi di tracciabilità compatibili con la normativa comunitaria e nazionale ed alla certificazione finalizzata all’acquisizione dei c.d. “crediti carbonio”;

– forme di premialità per progetti di filiera agro-energetica che nascano da partenariati locali (pubblici, privati o misti) negli areali individuati dal PEAR e dalle presenti Linee;

– supporto alla progettazione di impianti cogenerativi/trigenerativi di piccola taglia ali-mentati a biogas o biomassa ligneo-cellulosica, i cui futuri fornitori della materia pri-ma siano imprese agricole locali, nell’ambito di accordi di filiera già individuati;

– studi e ricerche finalizzate alla valorizzazione e recupero a fini energetici di aree sen-sibili:

– aree interessate dal cuneo salino; – aree con alterazioni significative dello status agro-ambientale; – aree a rischio di marginalità; – incentivazione di governance locali in aree rurali, che adottino politiche integrate di

efficienza/risparmio energetico, sostenibilità ambientale ed utilizzo di energie rinno-vabili in un’ottica di filiera;

– formazione specifica indirizzata agli imprenditori, sulle possibilità offerte dallo sfrut-tamento a fini energetici di prodotti residuali delle attività agricole ed agroindustriali in un’ottica di filiera e valorizzazione economica del mix “risparmio energetico/effi-cienza nei consumi/ produzione da fonti alternative”.

Alcuni di questi obiettivi rispecchiano quanto già previsto nella elaborazione del Pro-gramma di Sviluppo Rurale (PSR Campania) per il periodo 2007-2013.

il piano territoriale regionale ptR 45 Rappresenta il quadro di riferimento unitario per tutti i livelli della pianificazione

territoriale regionale ed è assunto quale documento di base per la territorializzazione della programmazione socioeconomica regionale nonché per le linee strategiche economiche adottate dal Documento Strategico Regionale (DSR) e dagli altri documenti di programma-zione dei fondi comunitari.

Il documento include la questione energetica e lo sviluppo delle fonti di energia rin-novabile all’interno delle Linee Guida per il paesaggio in Campania ed i diversi Quadri Territoriali di riferimento, dove declina gli obiettivi strategici di valorizzazione dei ter-ritori marginali attraverso lo sviluppo di sistemi per la gestione ambientale, l’adozione di tecnologie pulite, il riutilizzo dei rifiuti e l’utilizzazione economica dell’energia, in partico-lare attraverso investimenti per l’adozione di tecnologie di produzione d’energia solare e da biomasse.

I rifiuti possono inoltre essere impiegati come materia prima indispensabile per pro-cessi di recupero di materia, nell’ambito delle filiere di riciclo già attive, e di energia, attra-

45 Legge regionale n. 13 del 13 ottobre 2008

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39

verso l’impiego di tecnologie avanzate ad elevata efficienza di conversione e basso impatto ambientale.

L’individuazione di zone specifiche di producibilità di agro energia (cioè energia derivata direttamente o indirettamente da biomasse di origine agricola, agroforestale o agroindustriale) è legata prevalentemente a zone che nel PTR vengono individuate come a dominante naturalistica, Rurale e Paesistico-ambientale-culturale. Lo stesso Piano Terri-toriale Regionale (PTR), dettando gli indirizzi generali di tutela e gestione sostenibile delle risorse ambientali, naturalistiche ed agroforestali, con particolare riferimento agli aspetti paesaggistici, disciplina la trasformabilità dello spazio rurale, limitandone l’edificabilità alle specifiche esigenze delle aziende agricole, stabilisce l’obbligo per i piani urbanistici provinciali, comunali e di settore di evitare nuovi consumi di suolo agricolo, privilegiando il recupero di aree già urbanizzate, dismesse, sottoutilizzate, degradate.

il piano Forestale Generale 2009-201346 Contiene al suo interno l’obiettivo di Incremento della produzione di biomasse

combustibili in Campania, mettendo in evidenza le ottime potenzialità esistenti in re-gione in termini di produzione di biomassa. Secondo i dati dell’Inventario Nazionale delle Foreste e dei Serbatoi di Carbonio (dati anno 2005) vi sono 445.274 ha di superficie fore-stale, la biomassa anidra è pari a 59.85 Gt, quindi lo stock di carbonio calcolato ad ettaro risulta pari a 64.51 t ha-1. La biomassa disponibile può essere quindi essere incrementata mettendo in atto misure per il miglioramento dei boschi esistenti e l’ampliamento delle superfici forestali.

Tabella n. 2.4 - Articolazione programmazione energetica regionale e strumenti regionali-sovraregionali

STRUMENTI REGIONALI – SOVRAREGIONALI OBIETTIVI PRINCIPALI/STRUMENTI

programma operativo FESR

(Fondo Europeo Sviluppo Regionale)

Sostenibilità ambientale;

Competitività sistema economico-produttivo campano;

Sviluppo comparto energetico;

programma operativo interregionale “Energia rinnovabile e risparmio energetico”

(poi)

Contribuire, insieme ai POR, all’obiettivo generale di promuo-vere le opportunità di sviluppo locale attraverso l’attivazione di filiere produttive corte.

programma di Sviluppo Rurale 2007-2013

(pSR)

Misure volte allo sviluppo di impianti aziendali di potenza inferiore ad 1M per autoproduzione(imprese agricole) e vendita (imprese di trasformazione e commercializzazione), nonché interventi di risparmio energetico e la possibilità di impiantare foreste a breve rotazione per la creazione della filiera foresta-legno-energia.

linee di indirizzo strategiche dell’area agricoltura per le agronenergie

Bacini agro-energetici

Sviluppo di filiere agro energetiche

Utilizzazione di risorse endogene

Recupero aree marginali

Miglioramento governance energetiche locali

46 Approvato con deliberazione di Giunta Regionale n. 44 del 28 gennaio 2010.

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40

piano territoriale regionale

(ptR)

Rispetto delle Linee Guida per il paesaggio in Campania;

Accoglimento e valorizzazione delle differenze dei differenti Quadri Territoriali Regionali;

Adozione di tecnologie pulite;

Rifunzionalizzazione di aree agricole marginali;

Sviluppo di sistemi per il riciclaggio dei rifiuti e l’utilizzazione economico-energetica delle biomasse.

piano Forestale Generale

(pFG)

Incremento della produzione di biomasse combustibili in Campania;

Ampliamento delle superfici forestali;

Manutenzione boschi esistenti;

piano di azione per lo Sviluppo Economico Regionale

(paSER)

Potenziamento e valorizzazione agroenergetica degli scarti agroforestali, agroindustriali e del comparto zootecnico;

Realizzazione di apposite piattaforme regionali per la rac-colta;

Sviluppo delle colture bioenergetiche oleaginose;

Trasformazione in biocombustibili;

Aziende/Consorzi per l’implementazione delle filiere con il coinvolgimento delle comunità locali,

Azioni di pianificazione, analisi, programmazione e promozio-ne della filiera (L. 10/91 - Dlgs. 387/03);

legge Regionale n. 12 del 28 Novembre 2007

“Incentivi alle imprese per l’attivazione del PASER”

Contratto di programma regionale; per la valorizzazione della contrattazione programmata a livello regionale al fine di favorire interventi complessi di sviluppo territoriale e settoriale.

Credito di imposta regionale per nuovi investimenti produttivi

Credito di imposta per l’incremento dell’occupazione;

Incentivi per lo sviluppo

Incentivi per il consolidamento economico

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41

Capitolo iii

agroenergIa e agrIcoLtura In campanIa

3.1 Biomassa dall’agricoltura

Quando si parla di agroenergia si intende l’energia prodotta a partire dall’agricoltura. Da essa è possibile ricavare, attraverso svariate tecnologie, un’ampia gamma di prodotti.

Esistono diverse definizioni del termine agroenergia e sembra che il relativo dibat-tito vari in relazione al territorio di produzione. La stretta correlazione tra aspettative e potenzialità dell’ambiente circostante, infatti, fa sì che le questioni agroenergetiche siano sostanzialmente allineate alle problematiche del territorio di riferimento. Nello scenario americano l’agroenergia è associata al dibattito sui biocarburanti e la problematica della competizione con i suoli destinati alle produzioni alimentari, mentre in Europa maggiore attenzione è posta agli obiettivi del 2020 e di conseguenza al mix energetico ottimale tra le varie FER.

Bisogna distinguere però tra produzione di materia prima e produzione energetica: la prima vede necessariamente coinvolto il comparto agricolo, la seconda può interessare lo stesso l’azienda agricola, oltre a fornire materia prima, diventa anche produttore di ener-gia. In entrambi casi il fattore “terra” è fondamentale sia sulla concorrenza tra prodotti energetici e produzioni agricole, sia se si voglia pensare all’impatto che gli impianti di pro-duzione possono avere su territori rurali, in termini di biodiversità, ambiente, occupazione spazi agricoli, etc.

Qualsiasi processo produttivo è caratterizzato, in ordine cronologico, dalla mate-ria prima, dal processo di trasformazione ed il prodotto finale. L’agroenergia può essere assimilata ad un’ industria multi prodotto in cui la biomassa rappresenta la gamma di materie prime alle quali possono essere applicate differenti tecnologie di trasformazione per generare i seguenti prodotti finali: energia elettrica, calore (eventualmente associato alla produzione di freddo) e biocarburanti destinati al trasporto. A questi possono essere affiancati dei prodotti intermedi: i biocombustibili liquidi. Si tratta in ogni caso di prodotti bioenergetici ovvero derivanti dalla biomassa e di origine non fossile.

Esistono diversi tipi di biomassa con svariate origini e caratteristiche chimico-fisi-che, così come sono disponibili numerose tecnologie per la sua valorizzazione energetica, caratterizzata da differenti livelli di maturazione tecnologica e di diffusione sul mercato.

Il termine biomassa si diffuse in Italia verso la fine degli anni settanta quando, dopo la prima crisi energetica, si risvegliò l’interesse per le fonti alternative. Ad oggi come già accennato, la più recente definizione proveniente dalla UE è dettata dalla recente direttiva sulle fonti rinnovabili che la inquadra come ”la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l’acquacoltura,

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42

nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani47”;

Non sono però così netti i confini tra rifiuti e biomassa e non è chiaro quali siano esattamente le categorie di materiali che possono rientrare in questa definizione.

Sarebbe auspicabile avere un riferimento univoco ed ufficialmente riconosciuto dei materiali che possono essere considerati biomassa utilizzabile a fini energetici perché, come si dirà più avanti, la questione delle definizioni diventa di fondamentale importanza in ambito operativo, nel momento in cui ci si scontra con questioni di tipo normativo e bu-rocratico relativamente all’autorizzazione degli impianti, all’approvvigionamento dei mate-riali, all’effetto NiMBY derivante dalla stretta connessione con la problematica dei rifiuti.

In realtà il termine biomassa è mutuato dal mondo scientifico, più precisamente dal-le scienze biologiche e dall’ecologia che definiscono biomassa tutto ciò che ha matrice or-ganica ad esclusione delle plastiche e dei materiali fossili. Essa può essere vista, tralascian-do l’approccio normativo e mettendo in primo piano la relazione tra biomassa ed energia, come la forma più sofisticata di accumulo dell’energia solare mediante il processo di foto-sintesi. I vegetali, infatti, sono gli unici organismi in grado di convertire l’energia radiante in energia chimica e stoccarla sotto forma di molecole complesse a elevato contenuto ener-getico. Solo successivamente il mondo animale attraverso la catena trofica può sfruttare la bioenergia così prodotta. È considerata una risorsa rinnovabile se opportunamente utiliz-zata, l’inesauribilità infatti è legata al ritmo di impiego della stessa che non deve superare la capacità di rigenerazione delle formazioni vegetali. Allo stesso tempo è considerata una fonte energetica neutrale ai fini dell’incremento delle emissioni di gas a effetto serra. Infatti come già accennato, durante il naturale processo di crescita i vegetali contribuiscono alla sottrazione dell’anidride carbonica atmosferica catturandola attraverso il processo della fotosintesi che consente la fissazione del carbonio nei tessuti e la trasformazione della ra-diazione solare in energia chimica. A seguito della sua combustione si generano emissioni di anidride carbonica, tuttavia la quantità emessa è pari a quella assorbita dalla pianta e pertanto non va ad alterare il bilancio della CO2

preesistente, a differenza dei combustibili fossili che reimmettono in atmosfera l’anidride carbonica fissata milioni di anni fa.

In realtà il settore tecnologico sta man mano sperimentando e progettando proce-dimenti di recupero dell’energia intrinseca dei vegetali che siano il più possibile effica-ci. Anche l’energia fossile immagazzinata nel petrolio ha origine dalla biomassa e con la combustione dei derivati del petrolio non si fa altro che liberare l’energia originariamente immagazzinata da preistorici vegetali. La differenza sostanziale è che il processo di for-mazione dei giacimenti di petrolio ha richiesto intere ere geologiche, e sarebbe impensa-bile immaginare un’ulteriore produzione di questa riserva, mentre il consumo dello stesso precede a ritmi velocissimi, assolutamente incompatibili con il termine sostenibilità. Le biomasse invece, hanno la capacità di rigenerarsi in un arco di tempo breve e, pertanto, appaiono illimitate. In realtà anche su questo aspetto ci sarebbero molte riflessioni da fare riguardo alla sostenibilità.

Un’altra importante distinzione riguarda il grado di trasformazione energetica. I pro-cessi di conversione energetica possono dare origine ad un prodotto finito non più stoccabile come nel caso della combustione, mentre in altri generano dei prodotti intermedi rispetto ai quali è ancora possibile stabilire la destinazione energetica. I biocarburanti ad esempio sono destinati al trasporto, hanno quindi una destinazione energetica ben definita, mentre i biocombustibili liquidi così come i biocombustibili solidi possono essere stoccati e poi utilizzati per produzione di solo calore, di sola elettricità, o per una produzione combinata

47 Definizione derivante dalla Direttiva 2009/28/CE.

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43

di entrambe. I bioliquidi ed i biocombustibili solidi, quindi, possono essere considerati dei prodotti energetici intermedi ottenuti da step intermedi della trasformazione.

Esistono delle fasi di trasformazione intermedie che danno origine a prodotti agroe-nergetici finiti a loro volta sfruttabili per ottenere quali prodotti finali l’elettricità, il calore e/o la refrigerazione.

In sintesi i prodotti intermedi del processo agroenergetico sono :

a. Biocarburantib. Bioliquidi48 (con destinazione diversa dal trasporto)c. Combustibili solidi

Come prodotti energetici finali si considerano invece l’elettricità, il calore e/o la refri-gerazione e l’energia spesa per sistemi di trasporto alimentati da biocarburanti.

Per individuare le potenzialità agroenergetiche di un territorio e su quale tipo di filiera impostare una possibile ipotesi di sviluppo, occorre avere una visione chiara ed ap-profondita del ruolo che il comparto agricolo può svolgere nella produzione di biomassa.

La molteplicità dei prodotti agroenergetici dipende sia dalle tecnologie di trasforma-zione impiegate che dalla specificità delle materie prime utilizzate, ovvero dai vari tipi di biomassa.

È possibile classificare la biomassa in due gruppi, quella prodotta appositamente a scopi energetici (colture dedicate) e quella ottenuta tramite attività di recupero dai com-parti agricolo, forestale ed agroindustriale (biomassa di recupero).

3.2 Colture energetiche dedicate

Le colture dedicate si distinguono in relazione alla specializzazione produttiva, ov-vero alle caratteristiche chimico fisiche delle specie coltivate alla quali è inevitabilmente legato anche il processo di trasformazione. Le colture dedicate, infatti, possono essere raggruppate in tre categorie principali, colture da biomassa lignocellulosica, colture olea-ginose e colture alcoligene.

In relazione al tipo di destinazione, possono essere applicate specifiche tecniche agronomiche per ottimizzarne la produttività, potenziando le caratteristiche che massi-mizzano il potere calorifico e/o il rendimento energetico. Ad esempio mirando ad ottenere biomassa con un basso tenore di umidità se destinata alla combustione o un più alto con-tenuto in olio se destinata alla produzione di biocarburanti.

La biomassa lignocellulosica, costituita da sostanze solide tra cui prevale la lignina e la cellulosa, può essere ottenuta sia tramite impianti di specie arboree, sia grazie a coltiva-zioni di specie erbacee, queste ultime distinguibili in annuali e poliannuali. Si tratta di dif-ferenze significative in termini di tecniche produttive che differiscono per gli investimenti iniziali, per la gestione della forza lavoro, per i rischi sostenuti dall’imprenditore.

Tra le colture arboree le più diffuse per la produzione di energia sono quelle a rapido accrescimento che consentono un più veloce ritorno economico, meglio conosciute appun-to come Short Rotation Forestry (SRF).

Le SRF sono coltivazioni energetiche legnose costituite da specie selezionate per

48 «Bioliquidi»: combustibili liquidi per scopi energetici diversi dal trasporto, compresi l’elettricità, il riscaldamento ed il raffreddamento, prodotti a partire dalla biomassa; «Biocarburanti»: carburanti liquidi o gassosi per i trasporti ricavati dalla biomassa.

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l’elevata resa in biomassa e per la capacità di rapida ricrescita in seguito al taglio, con turni di ceduazione brevi ed un’elevata densità d’impianto.

Tra le specie erbacee caratterizzate da un ciclo di vita annuale, le più interessanti sperimentazioni a livello nazionale sono state effettuate con vati tipo di i sorgo, oltre a mais, canapa e kenaf.

Queste colture offrono il vantaggio di non occupare il terreno agricolo in modo per-manente, potendosi pertanto ben inserire nei cicli tradizionali di rotazione colturale e con-sentendo la coltivazione anche su terreni tenuti a set-aside rotazionale. Tale flessibilità è un fattore importante per quanto riguarda l’impatto che può avere la coltivazione di specie a destinazione energetica sugli agricoltori: il fatto che il terreno non sia vincolato in modo duraturo li rende infatti più propensi ad impiantare specie per loro inusuali.

Diverse specie erbacee poliennali sono sfruttabili per la produzione di biomasse lignocellulosiche anche in relazione alle variabili condizioni pedoclimatiche. Numerose sperimentazioni sono state condotte con la canna comune, il miscanto e il panìco (Pani-cum italicum L.). Queste specie però presentano un maggior impatto sull’organizzazione dell’azienda agricola in quanto occupano il suolo per diversi anni (10-15 anni) e presen-tano inoltre un elevato costo d’impianto. A loro vantaggio invece, la notevole quantità di biomassa prodotta per più anni e con bassi costi aggiuntivi una volta entrate in produzione (rispetto alle specie annuali). Si tratta inoltre di specie generalmente poco esigenti: richie-dono modesti quantitativi di acqua, di fertilizzanti e antiparassitari, ed esigue lavorazioni del terreno.

Le colture oleaginose e le colture alcoligene si differenziano dalle colture finora trat-tate poiché non forniscono direttamente il biocombustibile, bensì la materia prima da cui ricavare i biocarburanti attraverso trasformazioni chimiche e biochimiche. Molte specie tra le colture oleaginose sono diffuse su scala mondiale, si tratta sia di colture erbacee (il girasole, il colza e la soia) , sia arboree (la palma da cocco). In linea generale le oleaginose producono semi caratterizzati da un elevato contenuto in oli: nel girasole il contenuto in oli è in media del 48% con punte del 55% mentre nel colza è in media del 41% con picchi del 50%. I semi di soia, invece sono quelli che presentano le concentrazioni minori comprese, in media, tra il 18 e il 21%; per tale motivo, ai fini della destinazione energetica, risultando pertanto sfavoriti.

Gli oli grezzi ottenuti dalle colture oleaginose sono caratterizzati da un elevato po-tere calorifico inferiore (in media di 9.400 kcal/kg), per cui possono essere utilizzati come biocarburanti, in sostituzione del gasolio, per la produzione di energia termica ed elettrica e in cogenerazione. La loro conversione in biodiesel ne consente l’impiego anche per l’au-totrazione.

Le colture alcoligene assicurano invece un tipo di biomassa dagli elevati contenuti in carboidrati fermentescibili destinabili, grazie ad un processo di fermentazione, alla pro-duzione di bioetanolo, biocarburante sostituto della benzina o dei composti antidetonanti (ad esempio MTBE).

La materia prima da avviare alla filiera di produzione del bioetanolo può essere costi-tuita da zuccheri semplici (in primis saccarosio e glucosio) o da zuccheri complessi (ami-do) ed è ottenuta, rispettivamente, dalle colture dedicate saccarifere o da quelle amilacee. Tra le colture saccarifere, quelle ritenute adatte alle condizioni del terreno e del clima in Italia, sono la barbabietola da zucchero e il sorgo zuccherino, tra le colture amilacee il frumento tenero, soprattutto nell’Italia meridionale, e il mais, in particolare nell’Italia set-

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tentrionale. Le colture saccarifere presentano un elevato contenuto in zuccheri semplici: l’estratto zuccherino fermentescibile nella barbabietola costituisce in media il 20% della biomassa secca raccolta, nel sorgo il 18%. Le colture amilacee contengono l’amido in forma di granuli e i residui di glucosio che lo compongono possono essere idrolizzati e, succes-sivamente, fermentati a bioetanolo: il frumento tenero presenta un contenuto in amido corrispondente al 70%, il mais pari al 78%.

Le colture oleaginose, per esempio dato il loro elevato contenuto in oli, sono desti-nate alla trasformazione in biocarburanti. Nel caso di prodotti ad alto contenuto di ligno-cellulosa la destinazione più comune è, invece, la conversione in prodotti intermedi da utilizzare sia a livello di grandi impianti che per uso domestico o in enti pubblici per il riscaldamento, come nel caso di cippato, pellet, bricchette.

Diverse tecnologie che possono essere applicate con risultati diversi alla stessa tipo-logia di biomassa, preferibilmente con dei pretrattamenti diversificati che ne ottimizzano i rendimenti finali.

3.3 Biomassa residuale

La gamma dei prodotti classificabili come biomassa residuale49 è molto ampia ed eterogenea specie se si considera che, oltre agli scarti delle attività agricole, possono essere presi in considerazione anche i residui derivanti dalle attività forestali e dalle trasforma-zioni agroalimentari.

Tra gli scarti recuperabili per la produzione di energia occupano un posto predomi-nante i reflui degli allevamenti costituiti dall’insieme dei liquami bovini, bufalini, suini, avicoli, che per contenuto idrico e rapporto carbonio/azoto risultano idonei alla produzio-ne di biogas mediante digestione anaerobica. Si tratta di una destinazione alternativa allo spandimento degli effluenti sul terreno, considerata interessante sia dal punto di vista della stabilizzazione che dello smaltimento degli stessi. Questa possibilità d’impiego è importan-te specie nei casi di allevamenti intensivi i cui i terreni abbiano un’estensione limitata con conseguenti criticità per la gestione dell’azoto, soprattutto in determinati periodi dell’anno. A vantaggio dell’uso energetico dei reflui si fa presente la disponibilità costante nel corso dell’anno con quantitativi consistenti, in particolare nelle aree ad elevata concentrazione degli allevamenti. A ciò si aggiunga la possibilità di integrare il potenziale di biogas pro-dotto, utilizzando gli scarti delle produzioni erbacee altrettanto diffuse nelle aree agricole vocate alle produzioni animali, dove è generalmente diffusa la coltivazione del foraggio.

A questo tipo di reflui possono essere associati con successo i residui derivanti dalla lavorazione del latte, il siero di scarto proveniente dalla produzione dei formaggi, i qua-li grazie alle proprie caratteristiche possono essere abbinati in codigestione ai reflui. In questo caso esiste anche il vantaggio della vicinanza dei siti di produzione che consente

49 La biomassa residuale è detta anche di seconda generazione. Questa terminologia è mutuata dal processo tecno-logico innovativo di produzione dei biocarburanti che rispetto al metodo tradizionale converte la biomassa ligneo cellulosica proveniente dai residui agricoli, utilizzando ad esempio gli stocchi di mais come materia prima per la produzione del biocarburante. Si distingue dalla prima generazione che invece è basata su colture alimentari quali mais, soia, canna da zucchero, in quanto fonti facilmente accessibili di zuccheri, amidi e olii. Negli ultimi anni è stata preferita la tecnologia di seconda generazione a partire da biomasse ligneo cellulosiche di recupero trattan-dosi dell’insieme dei sottoprodotti derivanti dalle coltivazioni alimentari, quali i residui di potatura delle specie arboree, dell’olivo, della vite, e dei residui colturali delle specie erbacee, spesso destinati ad impieghi alternativi del tutto marginali o alla distruzione.

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di minimizzare i costi di recupero del residuo. I caseifici, infatti, sono collocati nelle im-mediate vicinanze degli allevamenti; nelle piccole realtà locali si tratta quasi sempre della stessa azienda che alleva e trasforma. In questi casi la possibilità di conferire all’impianto i quantitativi di siero in eccesso consentirebbe di risparmiare i costi della corretta gestione dello stesso in qualità di vero e proprio rifiuto speciale. In questo, come in molti altri casi, la realizzazione di una struttura organizzativa in grado di remunerare adeguatamente la raccolta ed il recupero dei residui dipende dalla capacità di una determinata area produtti-va, costituita da aziende accomunate da medesime esigenze e potenzialità, di fare sistema.

A questa tipologia si affianca la biomassa ligneo cellulosica derivante dalla gestione forestale. Esiste, infatti, una certa quota di ramaglia non utilizzabile con finalità produttive che deriva dalle operazioni di manutenzione del patrimonio forestale pubblico e privato.

Con caratteristiche strutturali molto simili, anche se proveniente da specie arboree variegate e con finalità ornamentali è la biomassa derivante dalla gestione del verde pub-blico. In questo caso i quantitativi di biomassa destinabili ad energia sono piuttosto esigui e difficilmente quantificabili perché legati a molteplici fattori. Innanzi tutto ci troviamo in ambiente urbano e quindi la percentuale di verde pubblico rispetto agli spazi cittadini dipende dall’importanza data dalla pubblica amministrazione a questo tipo di bene che non rappresenta solo un valore estetico, potendo apportare alla collettività numerosi altri benefici. Una conseguenza dell’importanza attribuita alla presenza del verde è la gestione di questo patrimonio, i cui scarti potrebbero incrementare la quota di biomassa ligneo cellulosica conferita agli appositi impianti, fermo restando l’esistenza di un’efficiente orga-nizzazione del trasporto.

Lo stesso ragionamento relativo all’economicità delle attività di recupero fatto per i reflui degli allevamenti vale per i residui delle lavorazioni agroindustriali, dalle quali possono essere recuperati numerosi altri residui destinabili alla produzione di energia, sempre che si verifichino le condizioni necessarie. Spesso quantitativi modesti e carenze organizzative rendono le operazioni di gestione di questi scarti troppo costose rispetto ai benefici ottenibili. Alcune aree con una certa specializzazione produttiva, presentano però un’elevata concentrazione di residui agroindustriali, specie se si pensa alle lavorazioni tipi-camente stagionali per le quali il prodotto e quindi lo scarto dell’intera annata si ottiene in un breve arco di tempo, in genere di uno o due mesi. È il caso ad esempio, della trasforma-zione del pomodoro, della produzione dell’olio di oliva e di altre conserve alimentari stagio-nali. In queste circostanze, focalizzando l’attenzione sulle esigenze della trasformazione, allo svantaggio legato alla stagionalità della produzione e quindi alla disponibilità limitata ad un certo periodo dell’anno si contrappongono i vantaggi della gestione. Chi si occupa del recupero può ottimizzare i costi del trasporto ed allo stesso tempo alleviare il compi-to dei trasformatori che per motivi igienici sono tenuti a rispettare i tempi rapidissimi di gestione dello scarto. Il management combinato di smaltimento e recupero può risolvere agevolmente le criticità delle produzioni stagionali con gli ingenti quantitativi di scarto che devono essere repentinamente allontanare dagli impianti di trasformazione; ciò vale sia per le sanse residue della lavorazione delle olive sia per gli scarti di pomodoro etc.

Infine, tra la biomassa di recupero, troviamo i residui delle produzioni agricole idonei alla trasformazione energetica e raggruppabili in relazione al maggiore o minore contenu-to di lignina. Questa sostanza, che predomina nelle piante di alto fusto a differenza delle colture erbacee nelle quali prevale la cellulosa, determina significative differenze sia per quanto riguarda i processi di trasformazione applicabili che la resa energetica. Tra i residui delle colture erbacee prevalgono le paglie dei cereali autunno-vernini e del riso, stocchi,

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tutoli e brattee di mais etc, mentre al secondo gruppo appartengono la ramaglia di potatura dei fruttiferi, compresi i sarmenti della vite ed i residui di potatura dell’olivo ed i residui. Tra i principali sottoprodotti dei cereali autunno-vernini coltivati per la produzione di gra-nella vi sono le paglie residue sul campo dopo la trebbiatura. Si tratta di un materiale che può essere utilmente impiegato a fini energetici sebbene frequentemente venga lasciato sul campo per essere interrato oppure venga raccolto e utilizzato come lettiera o, più raramen-te, come alimento per gli animali. La quantità disponibile per ettaro di superficie varia in proporzione alla quantità di granella raccolta, ma generalmente è piuttosto bassa.

I sottoprodotti del mais da granella sono gli stocchi, i tutoli e le brattee, il cui quan-titativo complessivamente raggiungibile può variare in base alle condizioni della coltura al momento della trebbiatura e alle caratteristiche costruttive della barra di raccolta della mietitrebbiatrice.

La raccolta tardo-autunnale generalmente comporta maggiori criticità dovute all’ele-vato tasso di piovosità media tipico di questo periodo che aumenta l’umidità del prodotto e quindi ne riduce la qualità (sviluppo con muffe, perdite di sostanza secca sia in pre che in post raccolta, imbrattamento con fango), oltre a generare difficoltà nella transitabilità del terreno. La raccolta meccanica degli stocchi non presenta particolari difficoltà tecnico- operative: i cantieri di lavoro attualmente adottati prevedono la trinciatura (riduzione del materiale in piccole scaglie) e l’andanatura (disposizione del materiale in campo lungo file lineari) prima del confezionamento in balle cilindriche. In taluni casi alla trinciatura segue il trasporto diretto allo stoccaggio.

La paglia di riso invece è un residuo agricolo che presenta un recupero relativamente problematico. La raccolta, che deve avvenire dopo quella del prodotto principale, si effet-tua, infatti, nel periodo autunnale, caratterizzato da un’elevata piovosità, e su terreni con difficoltà di sgrondo delle acque. In alcune realtà la paglia di riso viene utilizzata come lettiera per animali. Il suo impiego come combustibile avviene generalmente nell’ambito dello stesso ciclo produttivo del prodotto principale e, in particolare, in fase di essiccazione dello stesso.

I sottoprodotti delle colture arboree da frutto derivano dalle operazioni di potatura dei frutteti che si eseguono in epoche e con cadenze variabili in relazione alle esigenze fisiologiche delle specie coltivate, in corrispondenza del periodo di riposo vegetativo. In determinate circostanze per evitare lo sviluppo di possibili patologie, diventa necessario l’allontanamento del materiale dall’appezzamento. La possibilità di procedere alla raccolta del materiale ed il quantitativo di materiale recuperabile dipende da molti fattori. La dispo-sizione e la pendenza del terreno, la densità d’impianto, la forma di allevamento, nonché le modalità di potatura incidono notevolmente sulla possibilità di recuperare i residui di potatura (sarmenti di vite, frasche di olivo, ramaglie di frutteti) pertanto la possibilità di riutilizzo di questi materiali a fini energetici è concretamente realizzabile solo a determi-nate condizioni.

3.4 Lo scenario agro-forestale regionale

I principali comparti che caratterizzano lo scenario agricolo regionale sono l’orto-frutta, i cereali, gli allevamenti, i settori oleicolo e vitivinicolo, il tabacco e le foreste. Numerosi inoltre sono i prodotti a marchio di origine e le produzioni tradizionali che con-traddistinguono il territorio.

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Il valore delle produzioni regionali di ortaggi, frutta, latte e carne incide per oltre il 20% rispetto al Mezzogiorno; il tabacco nonostante sia destinato a calare incide per il 97% sulle regioni meridionali e per il 37% a livello nazionale mentre altri comparti ad alto valore sono quello del vino, dell’olio e dei cereali.

Per quanto riguarda il comparto zootecnico50 la Campania con quasi 493.000 UBA è la sesta regione dopo Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte, Veneto e Sardegna ed ospita oltre il 36% dei capi allevati al sud. Mentre per densità di allevamenti bovini è la quinta regione italiana, con un rapporto unità di bovino adulto superficie territoriale pari a 36,27 UBA/kmq di gran lunga superiore ai valori medi per le regioni del centro e del sud che non superano le 19 UBA/kmq. Si nota inoltre un notevole incremento negli ultimi anni con un aumento percentuale medio della densità di allevamenti di oltre il 10% dal 2002 al 2007.

Nella tabella che segue è indica la produzione vendibile del comparto pari a circa 516.000 milioni di euro suddivisi tra carne e latte prodotti in regione.

Tabella 3.1 – Quantità prodotta e valore della produzione per i principali prodotti cam-pani, valori percentuali rispetto al dato del Mezzogiorno ed al dato nazionale, nell’anno 2009.

Prodotti Quantità prodotta (migliaia di q)

Valore produzione regionale nel 2009

(mln di euro)

Incidenza Valore pro-duzione regionale/ Tot. Mezzogiorno

Incidenza Valore pro-duzione regionale/

Tot. Italia

Cereali 3.057 51.449 9% 2%

ortaggi 13.939 828.166 26% 15%

Frutta 6.366 313.372 26% 11%

agrumi 700 26.977 2% 2%

Vino 1.281 63.691 16% 3%

olio 410 105.846 10% 8%

Carne 1.688 328.482 21% 4%

latte 4.863 187.446 20% 4%

tabacco 313 89.955 97% 37%

Fonte: Elaborazione INEA su dati ISTAT, 2009

Nel suo complesso il settore agricolo vanta produzioni di alto livello qualitativo che costituiscono assieme all’agroindustria una componente di notevole importanza per l’eco-nomia della regione.

50 Secondo i dati ISTAT 2008.

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49

Tabella 3.2 – Numero di aziende e superfici per provincia relative alle produzioni ortofrut-ticole e cerealicole DOP e IGP ed oli extravergini nell’anno 2008.

Ortofrutta e cereali (DOP e IGP) Olio Extravergine di Oliva (DOP e IGP)

Provincia Aziende agricole Superficie (ha) Aziende agricole Sup. olivicola (ha)

Caserta 52 231 - -

Benevento 6 14 - -

Napoli 264 163 54 86

avellino 24 119 - -

Salerno 327 287 142 476

Totale Campania 673 813 196 561,87

Totale Mezzogiorno 1.759 7.277 2.699 19.846

di cui Campania (%) 38% 11% 7% 3%

totale italia 15.450 42.922 18.167 88.814

di cui Campania (%) 4% 2% 1,1% 0,6%Fonte: Elaborazione INEA su dati ISTAT, 2008.

La regione ospita il 38% delle aziende produttrici di ortofrutta e cereali DOP ed IGP del Mezzogiorno ed il 4% di quelle nazionali. Secondo i dati del 2008 nelle regioni del Mezzogiorno sono attive 1.759 aziende per un numero complessivo di 7.277 ettari; a livello nazionale 15.450 su una superficie di 42.922 ettari, mentre in regione le aziende sono 673 su una superficie di 813 ettari. In termini di superficie investita la Campania partecipa alle produzioni di qualità occupando l’11% della superficie del Mezzogiorno con prodotto DOP ed IGP ed il 2% rispetto alla superficie nazionale.

Per quanto riguarda gli oli extravergine di oliva la Campania ospita il 7% delle azien-de a marchio DOP ed IGP ed il 3% della superficie del Mezzogiorno dedicata ai prodotti di qualità.

Le aziende votate alla coltivazione di vitigni per la produzione di vini DOC e DOCG in Campania rappresentano circa il 18% delle aziende viticole.

Sono presenti numerosi prodotti tipici e tradizionali che testimoniano la ricchezza del comparto in termini economici e non solo, assicurando l’esaltazione di componenti più difficilmente traducibili in valori monetari. I prodotti di qualità infatti esprimono un elevato valore in quanto a tradizione, legame con il territorio, capacità di conservazione del patrimonio genetico e quindi di tutela della biodiversità. Tra i prodotti a “marchio di origine” sono presenti le DOP (Denominazione di Origine Protetta), strettamente legate ad una determinata zona produttiva le cui peculiari caratteristiche qualitative dipendo-no essenzialmente o esclusivamente dal territorio in cui sono prodotti. Più precisamente in Campania sono state riconosciute 12 DOP tra cui la Mozzarella e la Ricotta di Bufala Campana, il Provolone del Monaco, quattro oli extra-vergine (Cilento, Colline Salernitane, Penisola Sorrentina e Colline dell’Ufita); infine il Pomodoro S. Marzano dell’Agro Sarnese-nocerino ed il pomodorino del Piennolo del Vesuvio.

A dimostrazione dell’importanza della tradizione oleicola campana un altro olio che attualmente gode della protezione transitoria nazionale in corso di registrazione presso l’Unione Europea sta per essere aggiunto alle DOP già riconosciute, mentre la Castagna di Serino e l’Oliva di Gaeta sono in fase di istruttoria ministeriale. Tra i prodotti a marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta) attribuito a beni agricoli e alimentari dotati almeno di una caratteristica strettamente legata all’origine geografica, sono presenti in Campa-nia 8 prodotti con marchio IGP registrato, tra cui il Carciofo di Paestum, i Limoni Costa

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50

D’Amalfi e di Sorrento, la Mela Annurca Campana e la Nocciola di Giffoni.

Tabella 3.3 – Le produzioni di qualità

Caciocavallo Silano

Cipollotto Nocerino

Fico bianco del Cilento

Mozzarella di Bufala Campana

olio extravergine di oliva Cilento

olio extravergine di oliva Colline Salernitane

olio extravergine di oliva irpinia - Colline dell’Ufita

olio extravergine di oliva penisola Sorrentina

DOP - Reg. CE 510/06 pomodorino del piennolo del Vesuvio

pomodoro S. Marzano dell’agro Sarnese-nocerino

provolone del Monaco

Ricotta di Bufala Campana

In corso di registrazione presso l’Unione Europea con protezione transitoria nazionale

olio extravergine di oliva terre aurunche

In fase di istruttoria ministerialeCastagna di Serino

oliva di Gaeta

Carciofo di paestum

Castagna di Montella

limone Costa d’amalfi

limone di Sorrento

Marrone di Roccadaspide

Melannurca Campana

IGP - Reg. CE 510/06 Nocciola di Giffoni

Vitellone Bianco dell’appennino Centrale

IGP in corso di registrazione presso la Unione Europea con Protezione Transitoria Nazionale

Suino Napoli (protezione transitoria non richiesta)

Transitoria Nazionale

IGP in fase di istruttoria ministeriale

Noce di Sorrento

pasta di Gragnano

torrone di Benevento

torroncino croccantino di San Marco dei Cavoti

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Tabella 3.4 – I vini di qualità

Vini a Denominazione di origine controllata e garantita

DOCG

Fiano di avellino.

taurasi

Greco di tufo

Vini a Denominazione di origine controllata

DOC

aglianico del taburno o taburno

aversa

Campi Flegrei

Capri

Castel San lorenzo

Cilento

Costa d’amalfi, accompagnata o no dalle sottozone: Furore o Ravello o tramonti

Falerno del Massico

Galluccio

Guardia Sanframondi o Guardiolo

irpinia accompagnata o no dalla sottozona: Campi taurasini

ischia

penisola Sorrentina, accompagnata o no dalle sottozone: Gragnano o lettere o Sorrento

Sannio

Sant’agata de’ Goti o Sant’agata dei Goti

Solopaca

Vesuvio

Vini ad Indicazione Geografica Tipica

IGT

Beneventano

Campania

Colli di Salerno

Dugenta

Epomeo

paestum

pompeiano

Roccamonfina

terre del VolturnoFonte: Sito ufficiale della Regione Campania, 2010

Anche il comparto vitivinicolo è caratterizzato dalla presenza di numerose produzio-ni di qualità. Tra i vini campani registrati, tre sono a Denominazione di Origine Controlla-ta e Garantita (DOCG) veri prodotti di punta della provincia di Avellino: il Taurasi, ricono-sciuto già dal 1993, il Fiano di Avellino e il Greco di Tufo, ben 18 vini a Denominazione di Origine Controllata (DOC) e 9 ad Indicazione Geografica Tipica (IGT).

Infine sono ben 331 le produzioni campane classificate come “tradizionali” secondo il Reg. CE 509/06, tra cui l’Albicocca Vesuviana, il Limone di Sorrento, Costa d’Amalfi e di Procida, la Ciliegia Napoletana, la Noce di Sorrento ,la Mozzarella e la Pizza Napoletana sono stati registrati come S.T.G., Specialità Tradizionali Garantite.

L’agricoltura campana vanta dunque produzioni di alto livello qualitativo, nonostan-te la forma di conduzione più diffusa sia ancora quella tradizionale a carattere familiare e malgrado la ridotta dimensione media aziendale. Secondo l’indagine ISTAT (dati SPA

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52

2007) che esamina la distribuzione delle aziende per classi di ampiezza della superficie agricola utilizzata, circa il 60% delle aziende dispone di meno di 2 ettari e coltiva il 13% circa della SAU; mentre meno del 1% delle aziende presenta una superficie che supera i 50 ettari.

A dispetto di queste caratteristiche strutturali, il settore svolge un ruolo molto impor-tante per l’economia della regione. Il valore della produzione dell’intera branca agricoltura per il 2009 è pari a 3.130.438.000 di euro, che al netto dei consumi intermedi ha determi-nato un valore aggiunto pari a 2.003.437.000 euro. Esso rappresenta circa il 22% del valore aggiunto prodotto dall’agricoltura nell’intero Mezzogiorno ed il 9% rispetto all’Italia. A li-vello nazionale la Campania è al quarto posto dopo Lombardia, Emilia Romagna e Sicilia.

L’occupazione, come negli altri settori, sconta la crisi emersa negli ultimi due anni, mostrando un calo fisiologico. Nel 2007 infatti l’incidenza degli occupati nel settore prima-rio sul totale regionale era pari al 6,1%, mentre nel 2009 i lavoratori occupati sono 66.000, il 4% del totale, comunque in linea con il dato nazionale.

In ogni caso in Campania si concentra l’8% circa della manodopera agricola italia-na, il 18% rispetto al Mezzogiorno. Si tratta per il 75% di manodopera familiare, al pari di quanto si registra a livello nazionale. La cui importanza strategica nelle aree rurali, si traduce in un fattore di garanzia sia per il presidio del territorio, delle tradizioni rurali, dell’economia locale.

il settore forestale La superficie forestale totale della Regione Campania è di circa 445.000 ettari 51,

ripartita tra Bosco (384.395 ettari) ed altre terre boscate (60.879 ettari) con un indice di boscosità pari al 32.7%. Preceduta solo da Sardegna e Calabria è la terza regione nel Mez-zogiorno per estensione di superficie forestale, ma solo una parte di questo patrimonio è gestita in maniera efficiente52.

Secondo la CUAS del 2009 la superficie forestale regionale è pari a 380.360 ettari di cui oltre il 90% di latifoglie, mentre la superficie occupata da specie arboree da frutto soggette ad operazioni di potatura è di circa 236.000 ettari. In Campania le utilizzazioni legnose53 che comprendono il legname da lavoro e la legna per combustibili risultano poco meno di 700.000 metri cubi, quantitativi che potrebbero essere facilmente incrementati, migliorando la gestione forestale.

In realtà le potenzialità di sfruttamento del patrimonio forestale regionale dipendono da numerosi fattori che non consentono a priori un’agevole quantificazione del materiale ottenibile.

Tra le varie possibilità di approvvigionamento della biomassa ligneo-cellulosica, il patrimonio forestale campano può giocare un ruolo chiave, specie attraverso una migliore gestione degli scarti delle potature. Ramaglia e cimali residui delle altre utilizzazioni pro-duttive assieme agli scarti delle operazioni di taglio e potatura derivanti da una corretta gestione delle superfici boscate, non sono altro che quel quantum di biomassa potenzial-

51 Secondo i dati riportati nell’Inventario Nazionale delle Foreste e dei Serbatoi Forestali di Carbonio (2005).

52 Per avere un quadro sulle superfici forestali regionali esistono diverse fonti informative tra cui l’Inventario Nazio-nale delle Foreste e dei Serbatoi Forestali di Carbonio (INFC), l’ISTAT e la carta di uso agricolo del suolo (CUAS). Tali fonti pur differenziandosi per i diversi criteri di classificazione delle superfici possono essere utilizzate per ricavare informazioni specifiche sulla proprietà, sul numero di aziende, sull’accessibilità, etc.

53 ISTAT, 2008.

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mente utilizzabile ai fini energetici nel rispetto del principio di sostenibilità.

Si tratta di un quantitativo al netto di quanto già impiegato come legname da lavoro, legna da ardere, o per la produzione di carta e pannelli, etc., quindi di residui delle opera-zioni di raccolta concentrati prevalentemente in prossimità delle aree forestali.

La legna recuperabile dai boschi può essere considerata una fonte energetica soste-nibile, fermo restando il rispetto del principio di sfruttamento sostenibile delle foreste san-cito dal Programma Quadro per il Settore Forestale. Esso mira ad “Incentivare la gestione forestale sostenibile al fine di tutelare il territorio, contenere il cambiamento climatico, attivando e rafforzando la filiera forestale dalla sua base produttiva e garantendo, nel lun-go termine la multifunzionalità e la diversità delle risorse forestali”. Il “recupero” della biomassa ligneo-cellulosica derivante da operazioni di gestione del patrimonio forestale risponde pienamente al principio che vede nei residui agricoli una delle fonti privilegiate per la produzione di energia rinnovabile.

Tabella 3.5 Superfici in ettari dalla Carta di uso agricolo del suolo

Colture arboree soggette a potature

Vigneti 17.464

Frutteti e frutti minori 102.220

oliveti 105.766

agrumeti 2.413

Castagneti da frutto 8.478

Totale arboree da frutto 236.342

Superfici forestali

Boschi di latifoglie 367.063

Boschi di conifere 5.642

Boschi di conifere e latifoglie 3.657

aree a ricolonizzazione artificiale 3.895

Totale sup. forestali 380.257

Fonte: Regione Campania, 2009.

Svariati sono gli elementi che incidono sui quantitativi di biomassa utilizzabile a fini energetici. Da un lato la gestione più o meno efficiente, dall’altro fattori riconducibili uni-camente all’economicità delle operazioni di recupero dovuti ad esempio all’accessibilità del luogo ed al costo delle operazioni di raccolta.

Le questioni legate alla gestione si differenziano notevolmente in caso di proprietà pubblica o privata.

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In Campania la superficie forestale è prevalentemente di proprietà privata (52%) e secondo l’INFC è suddivisa nella macrocategoria54 dei boschi (47%) e nelle altre terre boscate (6%). In particolare si può osservare che all’interno della macrocategoria bosco la categoria boschi alti di proprietà privata è preponderante e occupa il 54% della superficie forestale regionale.

Sempre secondo l’INFC il 51% dei boschi privati è di proprietà individuale mentre buona parte dei boschi pubblici, il 41% circa, è di proprietà comunale.

Per quanto riguarda le superfici forestali di proprietà pubblica la pianificazione re-gionale55 prevede l’obbligo di gestione dei boschi e dei pascoli pubblici secondo un Piano di Assestamento o Piano Economico. Si perseguono tra le altre, le finalità di conservazione, miglioramento ed ampliamento del patrimonio boschivo regionale, l’incremento della pro-duzione legnosa, la difesa del suolo e la sistemazione idraulico-forestale, la prevenzione e la difesa dei boschi dagli incendi, la conservazione ed il miglioramento dei pascoli monta-ni. Questi obiettivi sono resi operativi attraverso due tipi di strumenti, il Piano Forestale Generale (PFG) e il Piano di Assestamento Forestale (PAF) come prevede la L.R. 11/9656.

Secondo il Piano Forestale Generale della Campania57, nel 2009 risultano redatti 146 Piani di Assestamento (relativi a 144 comuni) che hanno sottoposto a pianificazione 102.164 ettari di bosco, 10.278 di pascolo e 38.722 di altre superfici. La superficie totale assestata è di 151.164 ettari, cioè il 35% della superficie boscata regionale.

La superficie boscata assestata (258.767 ha) corrisponde al 39% dei boschi appar-tenente ai patrimoni comunali, quella relativa ai pascoli corrisponde al 45,5%. Su circa 101.000 ettari di bosco e 47.000 di pascolo - corrispondenti alla proprietà demaniale di 211 comuni - mancano del tutto strumenti di pianificazione forestale.

La provincia in cui la pianificazione forestale è più presente è Salerno, seguita, nell’or-dine, da Caserta, Avellino e Benevento, mentre nel territorio della provincia di Napoli non vi sono PAF elaborati per superfici demaniali, l’unico piano aziendale presente è riferito ad una proprietà privata a struttura societaria (Monte Faito).

Per quanto riguarda le superfici in proprietà privata, secondo l’ISTAT in Campania sono presenti 38.258 aziende a boschi su una superficie complessiva di 164.228 ettari. Si tratta nella maggior parte dei casi di aziende di piccole dimensioni, infatti oltre la metà ha

54 boschi: aree forestali con ampiezza minima di 0.5 ha e larghezza minima di 20 m, caratterizzate da una coper-tura arborea superiore al 10% determinata da specie capaci di raggiungere 5 m di altezza a maturità in situ. Sono escluse le aree con copertura di specie arboree forestali superiore al 10% ma aventi uso prevalente agri-colo o artificiale (residenziale, commerciale, industriale o di servizio ai trasporti e alle comunicazioni), qua-li parchi urbani, campeggi, seminativi con alberi sparsi, scarpate stradali e ferroviarie, ecc. (INFC, 2003b). altre terre boscate: aree forestali con ampiezza minima di 0.5 ha e larghezza minima di 20 m, caratte-rizzate da una copertura arborea compresa tra 5% e 10% di specie capaci di raggiungere 5 m di altez-za a maturità in situ o, in alternativa, da formazioni con una copertura superiore al 10% determina-ta da specie arbustive o da specie arboree incapaci di raggiungere l’altezza in situ a maturità di 5 m. boschi alti: all’interno della macrocategoria Boschi è compresa la sottocatagoria Boschi alti comprendente Boschi di larice e cembro, Boschi di abete rosso, Boschi di abete bianco, Pinete di pino silvestre e montano, Pinete di pino nero, laricio e loricato, Pinete di pini mediterranei, Altri boschi di conifere, pure o miste, Faggete, Querceti a rovere, roverella e farnia, Cerrete, boschi di farnetto, fragno, vallonea, Castagneti, Ostrieti, carpineti, Boschi igrofili, Altri bo-schi caducifogli, Leccete, Sugherete, Altri boschi di latifoglie sempreverdi. - Le stime di superficie, 2005, Inventario Nazionale delle Foreste e dei Serbatoi Forestali di Carbonio (INFC).

55 La Regione, si è dotata di una propria normativa forestale con l’emanazione della Legge Regionale n. 11 del 7 mag-gio 1996: “Modifiche ed integrazioni alla Legge Regionale 28 febbraio 1987, n. 13, concernente la delega in materia di economia, bonifica montana e difesa del Suolo”.

56 L.R.11/96 articolo 10, comma 1. secondo la quale “i beni silvopastorali di proprietà dei Comuni e degli Enti pub-blici debbono essere utilizzati in conformità di Piani di Assestamento Forestali”

57 Approvato con DGR n. 44 del 28.01.2010 e dai dati messi a disposizione dal Settore del Piano Forestale Generale (febbraio 2008).

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una superficie inferiore ai 5 ettari. Tale frammentazione della proprietà va a svantaggio di una gestione ottimale delle risorse forestali, già penalizzate da condizioni orografiche sfa-vorevoli (il 60% dei boschi si trova in montagna ed il 35% in collina). Le ridotte dimensioni medie e l’elevata frammentazione delle proprietà forestali che caratterizzano quasi tutto il territorio regionale rappresentano un problema comune al resto del patrimonio forestale nazionale.

In molti casi i proprietari delle superfici forestali, non essendo veri e propri titolari di azienda, non ne conoscono neppure le potenzialità. Spesso si tratta di beni ereditati di cui il proprietario non si occupa per motivazioni varie, contribuendo così a fare aumentare il numero e l’estensione dei boschi abbandonati.

3.5 Analisi SWOT e governance agro-energetica

Dalle caratteristiche del comparto agricolo campano si evince che il settore primario svolge un ruolo determinante per l’economia regionale ed uno stravolgimento del sistema produttivo difficilmente potrebbe comportare un incremento di redditività complessivo dei territori. Resta ferma, però, la necessità di rispondere alle esigenze energetiche ed ambientali.

Come visto, la concorrenza tra produzione agro-energetica e produzioni agricole, tra le quali tante riconosciute con marchi di qualità, potrebbe avere conseguenze nefaste, non quantificabili e soprattutto poco prevedibili. Si pensi ad esempio a quanto si è verificato negli anni passati negli Stati Uniti ed in Brasile con il boom delle coltivazioni destinate ai biocarburanti le quali, sottraendo migliaia di ettari alle colture food, hanno fatto lievitare il prezzo mondiale dei cereali.

La redditività delle colture dedicate a biomassa non è ottimale, tanto è vero che il mercato non si è mosso in tal senso, nonostante il disaccoppiamento degli aiuti della PAC dalla produzione e le misure del PSR dedicate. Il processo produttivo comporta costi ele-vati, sarebbe infatti necessario impiegare numerosi ettari ad alta produttività per renderlo economicamente conveniente. Ciò vale tanto più per le colture finalizzate alla produzione di biocarburanti. Infatti, le coltivazioni oleaginose e quelle amidacee necessitano di grandi superfici perché l’agricoltore possa ottenere remunerazioni vantaggiose a fronte di rese piuttosto basse. Si tratta di produzioni che necessitano macchine e attrezzature aziendali per poter ottenere un prodotto standardizzato e che, in ogni caso, presenterebbero costi elevati ed un bilancio energetico relativamente basso a fronte di uno sfruttamento intensi-vo del suolo58. A ciò si aggiunga la ridotta dimensione aziendale, elemento caratterizzante delle aziende campane, che va a discapito della meccanizzazione e dell’equa distribuzione dei costi, determinando una forte rigidità alla riconversione.

Allora quale contributo può offrire il settore al processo di sviluppo agroenergetico? E soprattutto che tipo di sviluppo è auspicabile sul territorio regionale?

Restano infatti molto elevate le aspettative sull’agroenergia, per l’opportunità di di-versificazione ed integrazione del reddito agricolo e per i vantaggi ambientali che ne po-trebbero derivare.

La tipologia di biomassa, per produrre la quale non verrebbe alterato l’assetto del sistema agricolo regionale, è proprio quella residuale. Ma a quali condizioni quest’ultima

58 ENEA, 2005. Bioenergie: quali opportunità per l’agricoltura italiana.

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è in grado di sostenere, se pur a livello locale, delle vere e proprie filiere produttive? Deve possedere principalmente due caratteristiche essere disponibile in quantità significativa e facilmente recuperabile a basso costo. Questi elementi condizionano in particolare la fase di approvvigionamento degli impianti di produzione, la più delicata, dalla quale dipende sostanzialmente l’efficacia dell’intera filiera.

Per ciò che riguarda la disponibilità è determinante distinguere le diverse tipologia di sottoprodotti. In Campania esiste la possibilità di sfruttamento di biomasse residuali provenienti sia dal comparto zootecnico, concentrato soprattutto in alcune aree della re-gione, che dalle attività agroindustriali (in particolare la trasformazione del pomodoro) ed agro-forestali (cfr. cap. IV).

Si tratta di materiali di scarto che spesso possono rappresentare un vero e proprio problema per chi ne ha la responsabilità. I residui non più riutilizzabili devono essere ge-stiti in virtù delle norme che disciplinano lo smaltimento dei rifiuti, rappresentando per l’impresa una voce di costo a volte non indifferente. La gestione finalizzata al recupero energetico consente, al contrario, di valorizzare economicamente gli scarti trasformando così un costo in un possibile introito oltre a rappresentare un vantaggio ambientale a be-neficio della collettività in termini di riduzione del volume complessivo di rifiuti prodotti e da smaltire sul territorio.

L’economicità del recupero può essere valutata solo analizzando parametri complessi come ad esempio la variazione dei costi di trasporto in relazione alla distanza tra biomassa recuperata e impianto di produzione o la fluttuazione dei prezzi dei prodotti energetici. In assenza di un contesto avviato risulterebbe avventato prevedere i singoli parametri eco-nomici, specie se si pensa a quanto le stesse scelte di governance messe in atto dagli Enti preposti sul territorio possono influire sul risultato finale.

Se si guarda alla seconda fase della filiera agroenergetica, gli elementi fondamentali che determinano la buona riuscita della trasformazione sono la sicurezza e la regolari-tà degli approvvigionamenti che possono essere garantiti solo con accordi di filiera. Gli impianti devono essere dimensionati in funzione della capacità del territorio di fornire biomassa, della stagionalità di alcune tipologie di residui, così come delle esigenze di tra-sporto e di stoccaggio. Per il buon funzionamento dell’intera catena agroenergetica locale è necessaria la contemporanea presenza sul territorio di tutti gli attori del ciclo produttivo, fornitori di biomassa, trasformatori finali e indotto, in modo da riuscire a strutturare un contesto locale ben organizzato che presenti il duplice vantaggio di essere svincolato dagli interessi economici del singolo imprenditore agricolo e che allo stesso tempo riesca a sgan-ciarsi dai pericolosi meccanismi internazionali del mercato energetico.

A questo proposito, il Piano Energetico e Ambientale Regionale detta gli obiettivi generali in materia di energia e risparmio energetico in linea con quanto stabilito a livello europeo, delineando per l’agroenergia vere e proprie strategie di filiera.

Lo scenario tendenziale previsto per le FER è il raggiungimento di un sostanziale supporto al fabbisogno elettrico regionale mediante percentuali sempre crescenti, più pre-cisamente del 12% nel 2013 ed al 20% nel 2020, partendo dall’attuale 4%.

Il contributo specifico delle agro energie, l’apporto che il settore primario può dare al bilancio energetico regionale è evidentemente poco rilevante se paragonato alle altre fonti rinnovabili, ma ciò che interessa maggiormente è il raggiungimento di altre finalità di inte-resse strategico, sia dal punto di vista economico che ambientale: incremento del green job in aree rurali, creazione di una nuova filiera, attenuazione degli effetti ambientali deteriori

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rispetto all’utilizzo dei reflui zootecnici, miglioramento della gestione forestale demaniale e assorbimento CO

2, etc.

Il Piano punta a favorire la creazione di filiere corte per la produzione di energia da biomassa di origine agroforestale, ottenuta soprattutto da scarti agricoli, di allevamento e forestali, laddove i territori sono maggiormente vocati a questo tipo di produzione ed in aree interne svantaggiate dove la creazione di una filiera della biomassa possa creare occu-pazione conseguendo al tempo stesso l’autosufficienza energetica di piccole comunità. Per far questo si punta alla realizzazione di impianti di piccola taglia gestiti non direttamente dal singolo imprenditore agricolo ma da partenariati composti da attori della filiera, utenti, enti locali, con approccio bottom up che massimizzi i vantaggi su scala locale.

La filiera-agro energetica, come già accennato in precedenza, ha prospettive di svi-luppo interessanti in territori montani o collinari dove esiste la concomitanza di almeno due elementi, concentrazione di biomassa e domanda di calore. Nello sfruttamento energe-tico della biomassa il rendimento complessivo aumenta notevolmente se oltre all’elettricità prodotta si recupera il calore generato dallo stesso processo (cogenerazione). L’energia termica prodotta non è immagazzinabile, pertanto la vicinanza tra l’impianto di produ-zione e l’utenza è un fattore strategico assieme alla quantità di calore necessaria nel corso dell’anno.

Partendo dal presupposto che impianti di taglia medio-piccola si adattano di più a territori rurali dove il paesaggio bucolico deve essere preservato, e considerato che impian-ti troppo grandi avrebbero necessità di essere alimentati da grandi quantità di biomassa, difficilmente reperibile a livello locale, la filiera presenta maggiori vantaggi qualora vi sia coincidenza di materia prima locale a prezzi contenuti e produzione energetica da impianti di cogenerazione.

In Europa esistono vari esempi di piccole comunità, strutture pubbliche, scuole o piccole realtà produttive che attraverso la cogenerazione da biomassa ed il teleriscalda-mento sono riuscite ad affrancarsi dal fabbisogno di energia elettrica e termica da fonti fossili.

A livello regionale, fatta eccezione per poche ed isolate iniziative, non sono ancora presenti impianti a biomassa in grado di dar vita a vere e proprie filiere agroenergetiche. Il crescente interesse del mondo imprenditoriale è testimoniato però dalle numerose richie-ste di autorizzazione presentate presso gli enti competenti.

In alcune aziende agricole di più grandi dimensioni, ci sono stati i primi tentativi per la realizzazione di piccoli impianti aziendali (soprattutto biogas). Le difficoltà incon-trate da questi pionieri consistono nella difficoltà finanziaria e burocratica iniziale (avvio dell’investimento, soprattutto se finanziato in parte da fondi pubblici, procedure di autoriz-zazione lunghe e farraginose) e nella successiva gestione dell’impianto.

Sono invece del tutto assenti impianti extra aziendali gestiti in collaborazione con le aziende agricole che forniscono la materia prima.

Le possibilità di sviluppo dell’agroenergia in Campania dipendono in parte dalle ca-ratteristiche intrinseche del settore agricolo ed agroindustriale regionale ed in parte dalla recettività del territorio, ovvero dalla capacità degli operatori sia pubblici che privati di far si che queste peculiarità si trasformino in punti di forza per il raggiungimento di obiettivi concreti.

L’analisi SWOT (Strengths-Weaknesses-Opportunities-Threats), consente di eviden-ziare le reali problematiche e potenzialità dell’area interessata.

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Lo schema che segue sintetizza i punti salienti dell’analisi effettuata mettendo in relazione il contesto agricolo ed agroindustriale con l’attuale quadro tecnico-economico. Il tutto fermo restando la possibilità di evoluzione dei fattori esogeni di natura normativa, economica o tecnologica, soggetti, come già evidenziato, a rapidi cambiamenti da cui di-pendono opportunità e minacce.

Gli elementi endogeni al settore agricolo che possono essere sfruttati a vantaggio della creazione delle filiere rappresentano i punti forza su cui far leva per dare avvio allo sviluppo agroenergetico, controbilanciati dai punti di debolezza, limitazioni intrinseche al comparto.

Figura 3.1 Schema Analisi SWOT

F A T T O R I I N T E R N I F A T T O R I E S T ER N I

A G

R I

C O

L T

U R

A

pUNti Di FoRZa oppoRtUNitÀ

A L T R

I S E

T T O R

I

Vocazione agricola del territrio

presenza di aree a forte concentrazione di scarti e reflui

propensione delle aziende agricole verso le FER

Sfruttamento degli scarti forestali

Sfruttamento degli scarti dell’agroindustria

Sfruttamento di aree “marginali”

integazione e diversificazione del reddito agricolo

Migliore gestione dei reflui in aree ad elevata con-centraz.

possibilità di sfruttamento degli scarti dell’agroin-dustria

abbattimento dei costi attraverso l’autoconsumo energetico

Sostegno alle aree rurali

Contributo agli impegni di kyoto

Contributo agli obiettivi del pEaR

Sensibilità delle istituzioni riguardo a alle FER ed agroenergia

incentivi specifici per gli impianti da biomassa

interventi del pSR a favore delle agroenergie

possibilità di integrare agroenergia altre fonti rinno-vabili

possibilità di vendere l’energia prodotta

Creazione di mercati indotti (logistica, servizi, etc.)

Migliore gestione dei nitrati

Gestione comune dei reflui e abbattimento dei costi

Mancata organizzazione di filera

Ridotta dimensione aziendale

Scarsa propensione alla cooperazione e all’associa-zionismo

Scarso know-how sulle agroenergie da parte degli operatori

Costi di recupero della biomassa elevati nelle picco-le aziende

Discontinuità nella disponibilità di biomassa

Difficile gestione degli scarti forestali

Carenza di aziende specializzate nello smaltimento rifiuti

Scarso presidio del territorio sulla gestione rifiuti agricoli

Elevato rapporto capi allevati/SaU

Zone vulnerabili ai nitrati

incertezza normativa

Difficoltà burocratiche per autorizzazione impianti

Rischio di riduzione degli incentivi

Gestione delle filiere agroenerg. esterna al mondo agricolo

Cattiva gestione del patrimonio forestale

Sottrazione di terreni alle produzioni agrarie

PUNTI DI DEBOLEZZA MINACCE

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Punti di forza

Uno dei principali elementi di forza per la realizzazione delle filiere agroenergetiche, data la vocazione agricola del territorio, è la possibilità di sfruttamento della biomassa di recupero. Infatti, secondo la territorializzazione della disponibilità potenziale di biomasse ad uso energetico in Campania59 , esistono diverse aree ad elevata concentrazione di scarti e sottoprodotti nelle quali sono ipotizzabili sia l’attivazione di processi per la produzione di biogas sia lo sfruttamento della biomassa ligneocellulosica. In particolare è possibile notare un’elevata concentrazione degli allevamenti e quindi di reflui zootecnici in due aree della regione corrispondenti all’Alto Casertano ed alla Piana del Sele.

Altro punto di forza è il sempre crescente interesse per le energie rinnovabili da parte degli operatori agricoli, che mostrano in particolare una favorevole propensione per l’agroenergia. Ma se da un alto si nota una discreta crescita per quanto riguarda il grado di informazione in materia, dall’altro c’è ancora bisogno di competenze tecniche specifiche che ricoprano il fabbisogno dell’intera filiera.

Tra gli elementi di carattere socioeconomico strettamente legati al comparto agrico-lo si prospetta la possibilità d’integrazione e diversificazione del reddito grazie alle attività connesse alla produzione e/o al recupero di biomassa da destinare ad energia. In condizio-ni di mercato favorevoli, infatti, la biomassa derivante da scarti agricoli, forestali ed agroin-dustriali altrimenti inutilizzati può essere valorizzata economicamente assicurando non solo il recupero dei costi di smaltimento e dei costi energetici, ma anche la realizzazione di un profitto derivante dalla vendita di energia rinnovabile.

Per quanto riguarda nello specifico le aree rurali, tra i vantaggi associati allo svilup-po economico di filiere connesse all’agroenergia va certamente tenuto in conto l’effetto positivo a sostegno dell’occupazione, dovuto all’intensificarsi di attività legate ai comparti della logistica e della trasformazione energetica attraverso la creazione dell’indotto. Questi benefici effetti valgono specialmente per quei contesti locali di limitate dimensioni, come le aree rurali interne spesso soggette a spopolamento ed abbandono, per cui l’intensificarsi delle attività produttive può contribuire a scongiurare l’abbandono di realtà aziendali che sussistono al limite del mercato. Secondo la classificazione delle macroaree del PSR, la Campania presenta circa l’80% del territorio ricadente in aree rurali intermedie ed aree rurali con problemi complessivi di sviluppo. In entrambi i casi si tratta di aree dove l’occu-pazione in agricoltura è un parametro vitale per l’economia e l’instaurarsi di nuovi processi produttivi potrebbe apportare notevoli benefici sia di carattere sociale che ambientale.

Inoltre un ulteriore punto di forza è rappresentato dal recupero di determinate aree. I terreni ambientalmente sensibili, a rischio di marginalità e a rischio di abbandono coltura-le potrebbero così usufruire di un utile tornaconto di carattere economico, ma soprattutto ambientale in termini di recupero e protezione del suolo nonché salvaguardia del paesaggio.

Punti di debolezza

Come per qualsiasi altro processo di sviluppo economico, in una fase iniziale le agro-energie scontano l’assenza di una filiera strutturata, ma la situazione è aggravata dalla tradizionale scarsa propensione alla cooperazione e dallo scarso know how da parte degli operatori agricoli, sia per quanto riguarda la fase di produzione che di trasformazione della biomassa.

59 Cfr. Capitolo 4.

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La ridotta dimensione aziendale, caratteristica comune a molte realtà agricole me-ridionali, incide negativamente sulla gestione delle operazione di recupero e smaltimento degli scarti, gravando in maniera negativa anche sulla diffusione della meccanizzazione che potrebbe rappresentare una valida soluzione in particolari circostanze. La produzione di energia da biomassa, infatti, subisce la stagionalità delle produzioni agricole ed agroin-dustriali che in molti casi aggrava i costi di movimentazione e stoccaggio. Si pensi alla forte concentrazione degli scarti agroindustriali dovuta alla stagionalità delle lavorazioni, nonché ai periodi in cui devono essere raccolte e stoccate le colture dedicate che matura-no in periodi concomitanti, con conseguente aggravio di costi. In autunno per esempio si presenta il problema delle sanse derivanti dalla produzione dell’olio: ingenti quantitativi di sottoprodotto che per questioni igieniche devono essere repentinamente allontanate dai frantoi.

Tutto ciò nel territorio regionale è spesso associato alla carenza di ditte specializzate nella gestione degli scarti, che di conseguenza non sempre vengono smaltiti correttamente. In molti casi gli elevati costi di gestione di queste operazioni, ed un’organizzazione logi-stica scarsa, creano una sinergia negativa che grava specialmente sulle aziende di piccola dimensione.

Minacce

Tra i fattori esterni al mondo agricolo che potrebbero penalizzare lo sviluppo delle filiere agro-energetiche pesa innanzitutto la complessità delle procedure amministrative per l’autorizzazione degli impianti da FER alla quale si aggiunge l’incertezza relativa ad alcune questioni normative (cfr. Cap.I).

Anche il rischio di una progressiva riduzione degli incentivi attualmente previsti per la promozione delle fonti rinnovabili, può essere considerato un vincolo allo sviluppo delle agroenergie.

A questa potenziale minaccia si aggiunge il rischio di completa esclusione del com-parto agricolo dalla fase di trasformazione, come spiegato in precedenza. Ciò comportereb-be margini troppo bassi per gli operatori agricoli se messi a confronto con i ricavi associati alla fase di produzione di energia, tali da scoraggiare qualsiasi interesse ad investire nel mercato.

In più il potenziale forestale a cui si potrebbe attingere per ricavare in maniera so-stenibile la biomassa da destinare alla filiera legno-energia rischia di rimanere inutilizzato a causa della parziale gestione del patrimonio regionale. Da un lato per lo scarso interesse mostrato dai proprietari privati spesso scoraggiati dall’inaccessibilità o dai costi elevati, dall’altro per la mancata applicazione dei piani di assestamento (cfr. par. 3.3).

Il rischio di sottrazione di terreni fertili all’agricoltura campana di qualità a vantag-gio di colture dedicate da biomassa può essere considerato invece un elemento di distor-sione dello sviluppo agro-energetico.

Opportunità

Molte opportunità favorevoli allo sviluppo delle filiere derivano dal contribuito posi-tivo che le agroenergie possono apportare con la progressiva sostituzione dei combustibili fossili. Attraverso l’incremento della quota di rinnovabili, esse possono contribuire da un

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lato al rispetto dei parametri di Kyoto e dall’altro al raggiungimento degli obiettivi del PEAR Campania. Si tratta di elementi positivi legati all’aspetto energetico, a cui si aggiun-gono i vantaggi derivanti dalla possibilità d’integrazione con altre fonti rinnovabili quali il fotovoltaico ed il minieolico.

Si riscontra, inoltre, un’elevata sensibilità verso le FER da parte delle istituzioni, sempre più impegnate nella ricerca di strategie che favoriscano il raggiungimento di questi obiettivi. A livello nazionale sono disponibili incentivi specifici per gli impianti da biomas-sa, così come esistono anche varie forme di finanziamento privato tramite apposite società di servizi energetici (ESCo60). Per gli agricoltori che intendono diventare veri e propri produttori di energia da biomassa esistono interessanti opportunità di reddito grazie al meccanismo dei certificati verdi per gli impianti di grandi dimensioni ed alla tariffa fissa omnicomprensiva (per gli impianti di piccole dimensioni).

Inoltre alcune misure del PSR Campania sono dedicate all’agroenergia ed alle fonti rinnovabili con l’intento di favorire da un lato la riduzione dei costi legati all’approvvigio-namento energetico e dall’altro la diversificazione del reddito anche si tratta nella maggior parte dei casi di favorire gli investimenti per autoconsumo.

Vantaggi di carattere puramente ambientale, innescabili con il corretto funziona-mento delle filiere, derivano dalla migliore gestione dei reflui zootecnici, che specie nelle aree sensibili ai nitrati, può contribuire alla riduzione dell’inquinamento. Poiché si pensa ad uno sviluppo del comparto che passi attraverso il principio di recupero delle biomasse, si andrà verso una più efficiente gestione degli scarti agricoli ed agroindustriali con conse-guenti vantaggi per il territorio.

Alcuni fattori intrinseci al comparto agricolo, infatti, se da un lato costituiscono dei punti di debolezza del comparto, dall’altro possono rappresentare dei veri e propri elementi di forza per lo sviluppo agroenergetico.

Agli elementi favorevoli di cui si è parlato in precedenza, se ne sommano alcuni deri-vanti in realtà da vere e proprie carenze del sistema agricoltura. Svariate situazioni relative all’attuale gestione dei reflui possono tramutarsi in condizioni favorevoli alle agroenergie. Si tratta dell’elevato rapporto capi allevati/SAU, della vulnerabilità ai nitrati di alcuni ter-reni, delle difficoltà nella gestione dei reflui dovuti alla mancata presenza sul territorio di ditte specializzate per lo smaltimento, ai conseguenti elevati costi di conferimento. A ciò si aggiunge lo scarso presidio del territorio legato ad una sovrapposizione di competenze che spesso si traduce in un “vuoto” di responsabilità per l’esecuzione dei controlli. Tutte que-ste criticità correttamente gestite possono trasformarsi in elementi a favore della diffusione dell’agroenergia in Campania.

Lo stesso discorso vale per la gestione del patrimonio forestale che, una volta inne-scato il circolo virtuoso del recupero di biomassa a fini energetici, potrà godere dell’effetto trainante delle filiere.

Diversa prospettiva è invece quella dello sfruttamento di particolari suoli offrendo un’alternativa economica ad aree attualmente in difficoltà. Infatti, in linea con l’esigenza d’integrazione delle nuove filiere nell’attuale contesto agro-economico, alle biomasse di recupero possono essere associate le colture dedicate praticate in aree attualmente non idonee alle produzioni alimentari. In questi casi si potrebbero trasformare delle aree tem-poraneamente o parzialmente sospese dalle attività agricole in aree produttrici di biomas-

60 Energy Service Company: società specializzate in interventi per l’efficienza energetica, con il compito di organiz-zare e gestire l’investimento energetico assumendosene il relativo rischio.

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sa. Si pensi ad esempio alla possibilità di utilizzare i terreni localizzati in aree marginali con produttività economica ai margini della rimuneratività, oppure quei terreni ambiental-mente sensibili con particolari problematiche ecologiche ed agronomiche.

Esempi in Campania sono alcune zone lungo la fascia litoranea della provincia di Sa-lerno minacciate dal fenomeno desertificazione a causa della salinizzazione, spesso dovuta all’uso agricolo intensivo associato ad errati interventi di bonifica oppure all’effetto del regime idrico interno che favorisce la risalita dei sali.

Inoltre aree con status ambientale alterato potrebbero essere temporaneamente uti-lizzate per colture dedicate, senza pertanto interferire con le produzioni alimentari. Secon-do il rapporto sui Siti contaminati in Campania del 2008 nel territorio regionale esistono diverse aree a contaminate. Si tratta sia di siti SIN (Siti di Interesse Nazionale) individuati con decreto del Ministero del Tesoro61 sia di aree con problematiche di natura varia che potrebbero essere definite di “interesse locale”. Il primo caso riguarda sei siti ricadenti in Campania rispetto ai 55 individuati a livello nazionale la cui procedura di bonifica prevede l’applicazione di veri e propri Programmi nazionali di bonifica e ripristino ambientale. A questi poi si affiancano numerose aree di minori dimensioni caratterizzate ad esempio da concentrazioni elevate di diossina o di PCB (policlorobifenili) entrambe sostanze chimiche facilmente assimilabili attraverso l’alimentazione e dannose per la salute.

Il modello di governance

L’analisi sin qui svolta rende evidente che le maggiori difficoltà all’avvio delle filiere agro energetiche consistono proprio nel fare massa critica. I territori che sono potenzial-mente vocati alle bioenergie non perseguono la loro vocazione per paura che il costo am-bientale sia loro ed il profitto vada a chi costruisce gli impianti o piuttosto alle ESCo,etc.

A questo punto se il mercato non riesce ad avviare processi di start up della filiera, deve supplire un sistema di governance locale, con modelli improntati non al singolo attore della filiera, ma ad un partenariato composto da attori ed enti locali. La compresenza di chi gestisce il territorio e chi gestisce le risorse garantisce il profitto agli elementi deboli della filiera ma anche la sostenibilità, intesa come salvaguardia ambientale, a garanzia del territorio e della popolazione locale.

L’azienda agricola viene sollevata dai problemi di gestione dell’impianto e partecipa al valore aggiunto degli incentivi, al tempo stesso si può creare la massa critica per l’ap-provvigionamento dell’impianto e rendere la popolazione locale partecipe allo sfruttamen-to dell’energia termica prodotta (teleriscaldamento)62. Bastano quindi pochi Megawatt per innescare l’indotto: trasporto della biomassa, servizi all’impianto, laboratori di analisi, etc.

Le sinergie che si possono innescare sono anche di tipo finanziario: partecipazione di istituti di credito, sistemi di finanziamento integrati (Progetti integrati, Accordi quadro, Intese di filiera, etc.) sfruttando il cofinanziamento di fondi diversi per la realizzazione non solo dell’impianto ma anche delle infrastrutture necessarie.

61 Ai sensi dell’art 252 del D.Lgs. n. 152 del 2006.

62 L’energia elettrica viene obbligatoriamente immessa in rete e non può approvvigionare direttamente le utenze circostanti.

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Fig 3.2 – Classificazione delle macroaree del PSR la Campania

Fonte: PSR Campania 2007-2013

aree di agricoltura intensiva e con filiere produttive integrate

aree con specializzazione agricola ed agroalimentare e processi di riqualificazione dell’offerta

aree caratterizzate da ritardo di sviluppo, perticolarmente sensibili agli effetti della riforma della paC

aree urbanizzate con spazi agricoli residuali

aree urbanizzate con forti preesistenze agricole e diffuse si-tuazioni di degrado ambientale

aree a forte valenza paesagistico-naturalitica con forte pressione antropica

aree a forte valenza pesaggistico-naturalistica con potenzialità di sviluppo integrato

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Capitolo iV

IL potenzIaLe agro energetIco In campanIa

4.1 La metodologia di indagine

In Campania, la pianificazione e la programmazione regionale sono volte allo svilup-po di filiere agroenergetiche correttamente inserite nei contesti locali, al fine di valoriz-zare le risorse endogene dei territori rurali e favorire la creazione di valore aggiunto per il comparto agricolo. I recenti indirizzi regionali in materia di energia, come già illustrato in precedenza, hanno sottolineato l’interesse rivolto al recupero di biomassa residuale ed alla produzione di biomassa da colture energetiche nelle aree a rischio di marginalità o nelle quali non sussistano condizioni agro-ambientali per coltivazioni food.

Per la valutazione del potenziale di biomassa residuale disponibile sul territorio cam-pano, sono stati presi in esame scarti e/o sottoprodotti di origine agricola, agroindustriale ed agroforestale. A tal fine, sono stati analizzati i settori che maggiormente possono con-tribuire a fornire quegli scarti e/o sottoprodotti idonei all’implementazione di filiere agroe-nergetiche, considerando l’opportunità di ricorrere a colture dedicate63 un’ipotesi valutabi-le caso per caso, data l’importanza di ponderare gli interventi di sviluppo delle agroenergie sul territorio per via dell’impatto che questi potrebbero avere.

La scelta di focalizzare l’attenzione sulla biomassa residuale consente l’utilizzo ener-getico di materiali che, se non correttamente utilizzati o smaltiti, potrebbero comportare conseguenze negative per l’ambiente (es: i quantitativi elevati di deiezioni zootecniche, soprattutto nelle aree vulnerabili ai nitrati di origine agricola64) e permette di preservare le aree marginali e boscate da fenomeni di dissesto ed abbandono (si sottolinea che, per le aree boscate, la biomassa a cui si fa riferimento è quella derivante dal recupero di ramaglia e cimali mediante corretta gestione forestale).

La valutazione della disponibilità di biomassa residuale destinabile a bioenergia non è un’operazione semplice, sia per via della complessità dei processi produttivi ad essa cor-relati, che della scarsa presenza di banche dati aggiornate e caratterizzate da elevati livelli di dettaglio. Ad ogni modo, mediante una lettura approfondita del sistema agricolo, sono stati quantificati quei residui effettivamente disponibili sul territorio, il cui recupero pre-sentasse reali vantaggi sia sotto il profilo energetico che dei processi di produzione e tra-sformazione della materia prima, nonchè della convenienza economica correlata al ritiro ed al trasporto.

La fase di analisi ha condotto all’individuazione dei seguenti sottoprodotti idonei alla

63 Le colture dedicate potranno infatti prendere parte alle filiere nell’ottica del ruolo multifunzionale riconosciuto all’agricoltura dai recenti indirizzi comunitari, focalizzando soprattutto l’attenzione su colture a basso impatto e che possano contribuire al recupero delle aree marginali ed alla tutela del territorio proteggendo la biodiversità, le risorse idriche e la fertilità del suolo. In sintesi, l’individuazione della stima e della localizzazione della biomassa residuale disponibile potrebbe orientare le produzioni da colture dedicate, dato che la presenza di quantitativi in-teressanti di sottoprodotti utilizzabili per la conversione energetica rappresenta un importante punto di partenza per lo sviluppo di filiere agroenergetiche sul territorio.

64 Deliberazione n. 700 del 18 febbraio 2003.

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conversione energetica in Campania:

– deiezioni animali provenienti da allevamenti zootecnici; – residui di lavorazione del settore lattiero caseario; – scarti agroindustriali del settore conserviero; – residui di lavorazione dei frantoi; – scarti inutilizzati dei foraggi insilati; – scarti ortofrutticoli; – residui ligneocellulosici da industrie agroalimentari; – scarti di lavorazione del legno vergine; – scarti di potatura di vigneti, oliveti e frutteti; – scarti derivanti dalla manutenzione del verde pubblico; – ramaglia di cedui e fustaie proveniente dal settore forestale.

Le biomasse individuate, per via delle loro intrinseche caratteristiche, risultano ido-nee ad essere valorizzate mediante conversione energetica attraverso differenti tecnologie che consentono la produzione contemporanea di energia elettrica e termica65. In particola-re, alcuni dei residui citati si prestano maggiormente ad essere trasformati in energia me-diante processi biochimici66,, altri mediante processi termochimici, altri ancora, a seconda dello stato in cui si presentano e delle proprietà chimico-fisiche67, possono essere conver-titi in energia mediante entrambi i processi menzionati. In quest’ultimo caso, la scelta del processo di trasformazione dipende dalla valutazione di aspetti ambientali ed economici, nonché dei rendimenti complessivi di conversione. Ciò si riflette nella possibilità di indivi-duare due differenti tipologie di filiere agroenergetiche, corrispondenti a due diverse tipo-logie impiantistiche caratterizzate da maturità tecnologica e consolidata diffusione negli impieghi di settore.

Le due filiere a cui si fa riferimento corrispondono una alla trasformazione della biomassa in biogas attraverso digestione anaerobica (filiera del biogas) e l’altra alla con-versione energetica di biomassa lignocellulosica mediante impieghi termochimici (filiera lignocellulosica). I due specifici schemi di filiera individuati differiscono, oltre che per gli schemi di processo, anche per le modalità di gestione logistica della materia prima (ap-provvigionamento, trasporto, pretrattamento, stoccaggio, etc.).

La prima filiera in quest’ambito descritta, detta filiera del biogas, si riferisce all’im-piego del processo biochimico di digestione anaerobica, ampiamente diffuso nel Nord Eu-ropa ed anche nel Nord Italia, per la conversione energetica delle biomasse. Tale processo comporta la produzione di un prodotto intermedio, appunto il biogas, la cui combustione in motori alternativi68 consente oggi di raggiungere rendimenti elevati, sia per la produzio-ne di energia elettrica che termica69, tali da attirare l’interesse di molteplici investitori. In

65 Cogenerazione, soluzione impiantistica che consente di massimizzare i benefici ambientali ed economici deri-vanti dalla conversione energetica delle biomasse attraverso la produzione contemporanea di energia termica ed elettrica.

66 Tra i processi biochimici quello che è stato preso in considerazione è la digestione anaerobica, che presenta ormai maturità tecnologica e che ha conosciuto un interessante numero di applicazioni in Italia ed in Europa.

67 Tra le quali si cita a titolo di esempio il contenuto di umidità, il rapporto C/N, il valore del potere calorifico infe-riore, etc.

68 In realtà il biogas prodotto dal processo può essere destinato a molteplici impieghi: può, infatti, essere adoperato come combustibile gassoso per alimentare bruciatori di caldaie per produrre acqua calda o essere utilizzato in motori endotermici, turbine a vapore o turbine a gas per produrre energia elettrica e termica.

69 I rendimenti detti risultano, a pieno carico, superiori al 40%, dunque i rendimenti globali oltrepassano l’80% con-siderando una soluzione di cogenerazione, vale a dire di generazione simultanea in un unico processo di energia termica e di energia elettrica; l’energia termica prodotta può essere impiegata anche per produrre freddo, si parla in questo caso di trigenerazione.

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67

questa filiera agroenergetica possono confluire tutte quelle biomasse che presentano spe-cifiche caratteristiche (matrice organica con elevata attitudine a fermentare in condizioni di anaerobiosi, opportuno rapporto Carbonio/Azoto, etc.); esempi di biomasse tipicamente impiegate in questi processi sono i reflui zootecnici, gli scarti ortofrutticoli, i residui di colture foraggere e cerealicole, etc..

La seconda filiera individuata, definita filiera lignocellulosica, è relativa principal-mente all’impiego del processo di combustione abbinato ad impianti di cogenerazione che, come la precedente, sta conoscendo numerose applicazioni. Essa consente il raggiungi-mento di rendimenti elettrici più modesti (intorno al 20% per la piccola taglia) e di maggio-ri rendimenti termici (fino a circa l’80%); il processo di trasformazione della biomassa in energia risulta però meno complesso ed oneroso rispetto a quello previsto dall’altra filiera.

Nella successiva tabella si elencano quali, tra le biomasse individuate, sono state pre-se in considerazione per alimentare l’una o l’altra filiera.

Filiera del biogas Filiera lignocellulosica

deiezioni animali

residui lattiero-caseari

scarti industria conserviera

residui dei frantoi

scarti ortofrutticoli

scarti insilati

residui agroindustriali ligneocellulosici

scarti di lavorazione del legno vergine

scarti di potatura

scarti della manutenzione del verde pubblico

ramaglia forestale

Come già accennato, per alcune delle biomasse elencate sarebbe possibile l’impiego in entrambe le filiere (ad esempio, le sanse vergini70 risultano un buon substrato per la fer-mentazione anaerobica71 ma, previa essiccazione72, potrebbero essere impiegate anche per la combustione) ma si è preferito considerare per ogni biomassa l’inclusione nella filiera per la quale è possibile diminuire il numero di pretrattamenti.

Per le due filiere, l’individuazione delle biomasse residuali che maggiormente si pre-stano ad alimentarle in Campania è scaturita da numerose considerazioni. Tra queste si sottolineano: la sostenibilità ambientale dei processi, le analisi di mercato dei sottoprodotti individuati, gli aspetti logistici legati all’approvvigionamento ed al trasporto della biomas-sa, il contesto normativo, il potenziale energetico ricavabile, la stagionalità delle produzio-ni, la disponibilità di dati quanto più aggiornati ed attendibili73.

Di seguito si riportano, distinte per tipologia di filiera di appartenenza individuata, le biomasse residuali per le quali, a valle delle analisi tecnico-economiche, è risultato con-creto l’interesse per la loro valorizzazione energetica.

70 Si evidenzia come, in questa trattazione, non sia stato preso in considerazione l’impiego di sanse esauste per com-bustione dato che queste rappresentano il residuo del processo dell’ulteriore estrazione dell’olio dalla sansa umida mediante solventi chimici e presentano, dunque, minore sostenibilità ambientale, per quanto la sansa esausta venga oggi considerata da più parti idonea all’impiego energetico.

71 Se impiegate in percentuali non predominanti.

72 Le sanse vergini presentano un tenore di umidità variabile in funzione del processo di estrazione dell’olio extra-vergine di oliva impiegato, ad ogni modo sempre considerevole.

73 Aspetto di non poco conto, data l’evidente assenza di informazioni complete e recenti per alcuni comparti.

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68

4.2 La filiera del biogas

Per le biomasse destinate alla filiera del biogas individuate nella prima fase di analisi e per le quali siano state identificate fonti di informazione aggiornate74 è stata realizzata una stima dei quantitativi presenti in regione su base annuale.

Disponibilità di deiezioni zootecniche

Per la valutazione dei quantitativi di reflui zootecnici recuperabili sul territorio cam-pano è stata impostata una metodologia di rilevazione e rielaborazione dati. Per il reperi-mento di informazioni sulla distribuzione dei capi di bestiame si è provveduto alla valuta-zione di molteplici banche dati. Dall’analisi dei dati rilevati (Istat, Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise, Centro Regionale per il Monitoraggio delle Parassi-tosi – CReMoPAR75, etc.) ed a seguito di una prima stima dei carichi di effluenti prodotti, è stato possibile valutare le specie maggiormente diffuse in regione e per le quali risultasse maggiormente agevole e conveniente il recupero dei reflui a fini energetici, vale a dire la specie bovina, bufalina e suina. Per ognuna delle tre specie è stata impiegata come base dati quella per la quale fossero soddisfatte le seguenti condizioni:

– dati recenti ed aggiornati, – rilevazione dati completa su base comunale (vale a dire, per i comuni investigati, pos-

sibilità del censimento di tutti i capi presenti sul territorio comunale), – possibilità di rilevare i dati su tutti i comuni del territorio regionale.

Si riporta di seguito, in tabella 4.1, per ognuna delle tre specie esaminate, la banca dati impiegata per la valutazione dei capi di bestiame.

Tabella 4.1 – Banche dati (dato per comune) impiegate per la stima dei capi di bestiame in Campania relativamente alla specie bovina, bufalina e suina.

SpecieBanca dati indivi-duata

motivazione Aggiornamento

Bovinaistituto Zooprofilattico Sperimentale dell’abruzzo e del Molise

Dato completo ed aggiornato in tempo reale (monitoraggio nascite, movimentazioni, macel-lazioni)

2008

Bufalinaistituto Zooprofilattico Sperimentale dell’abruzzo e del Molise

Dato completo ed aggiornato in tempo reale (monitoraggio nascite, movimentazioni, macel-lazioni)

2008

Suina CremoparDato più completo disponibile su base comunale

2007

Dalla consultazione del Sistema di identificazione degli allevamenti e dei capi bovini

74 Non è stata possibile, ad esempio, la rilevazione dettagliata degli scarti di insilati presenti annualmente in Cam-pania.

75 Il CReMoPAR - attivato con una Convenzione tra l’Assessorato all’Agricoltura e alle Attività Produttive della Regio-ne Campania, Settore SIRCA ed il Settore di Parassitologia Veterinaria e Malattie Parassitarie del Dipartimento di Patologia e Sanità Animale della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Napoli Federico II – svolge soprattutto attività di ricerca ed attività diagnostica.

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69

dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise è stato ottenuto il nu-mero di capi bovini e bufalini presenti per comune (2008): se ne riporta una sintesi su base provinciale in tabella 4.2.

Tabella 4.2 – Sintesi per provincia della consistenza di capi di bestiame bovini e bufalini, rilevati su base comunale

ProvinciaN° Bovini

(n°capi/anno)

N° Bufalini

(n°capi/anno)

Totale Bovini e Bufalini

(n°capi/anno)

Avellino 33.102 498 33.600

Benevento 51.800 1.367 53.167

Caserta 48.413 174.698 223.111

Napoli 9.275 3.431 12.706

Salerno 63.901 78.844 142.745

Totale Campania 206.491 258.838 465.329Fonte: Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise – 2008.

Poichè per la specie suina la banca dati dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise è risultata incompleta ed approssimativa, si è preferito utilizzare quella relativa al progetto Cremopar. I risultati ottenuti, in termini di consistenza dei capi di bestiame suino, sono riportati sinteticamente nella successiva tabella 4.3.

Tabella 4.3 – Sintesi per provincia della consistenza di capi suini rilevati con dettaglio co-munale

ProvinciaSuini

(n° capi/anno)

Avellino 4.500

Benevento 29.237

Caserta 1.031

Napoli 9.873

Salerno 3.089

Totale Campania 47.730Fonte: Centro Regionale per il Monitoraggio delle Parassitosi – CReMoPAR - Regione Campania -2008.

Successivamente alla fase di rilevazione dei dati, si è proceduto all’analisi della di-stribuzione territoriale del numero di capi di bestiame rilevato, sovrapponendo le infor-mazioni sulla consistenza dei capi con quelle relative ai limiti amministrativi dei comuni, all’orografia della regione, alle zone vulnerabili ai nitrati di origine agricola (ZVNOA)76, individuando le macroaree ad alta densità di capi di bestiame e con maggiore disponibilità di effluenti zootecnici.

Le macroaree a maggior interesse sono risultate tre, ricadenti una quasi interamente nella provincia di Caserta, l’altra tra la provincia di Caserta e quella di Benevento, l’ultima nella provincia di Salerno.

76 La Regione Campania, con deliberazione n. 700 del 18 febbraio 2003, ha individuato le zone vulnerabili a nitrati di origine agricola (ZVNOA) e, con deliberazione n. 209 del 23 febbraio 2007, ha approvato il Programma d’azio-ne della Campania per le zone vulnerabili ai nitrati di origine agricola (rimodulazione della DGR n. 182 del 13 febbraio 2004), il quale regolamenta l’utilizzo agronomico degli effluenti zootecnici al fine di mitigare il rischio di percolazione dei nitrati nelle acque superficiali e profonde.

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70

Pertanto, in tali macroaree è stata condotta un’indagine volta alla conoscenza sia delle strutture aziendali che delle categorie produttive, mediante sopralluoghi nelle azien-de e somministrazione di questionari ai conduttori degli allevamenti e ad esperti del setto-re. Sulla base delle forme prevalenti di stabulazione individuate per ogni specie negli areali di interesse e del Decreto 7 aprile 200677, sono stati determinati i quantitativi di refluo prodotto annualmente per ciascun capo.

Per la specie suina è stata individuata come stabulazione prevalente quella “a pavi-mento totalmente fessurato”, cui corrisponde una produzione di 3778 m3 annui di refluo per tonnellata di peso vivo di animale, identificabile in un’unica tipologia di effluente (li-quiletame).

Per la specie bovina e bufalina, le tipologie di stabulazione individuate hanno condot-to alla necessità di considerare tre diversi tipi di effluenti zootecnici:

6. letame79

7. liquame80

8. liquiletame81.

Per la specie bovina è risultata prevalente la stabulazione fissa82 ed è stata indivi-duata una produzione annua pari a circa 20,7 m3 annui di effluenti per capo, di cui il 23% classificabile come liquame, il 75% come letame e solo il 3% come liquiletame.

Per quanto riguarda la specie bufalina, è risultata maggiormente diffusa la tipologia di stabulazione libera “senza paglia”; il coefficiente di produzione annua di effluenti rica-vato è risultato pari a 14,8 m3 annui di effluenti per capo (di cui oltre il 92% è classificabile come liquiletame).

La stima dei quantitativi di effluente prodotti è stata condotta su base comunale e distinta, oltre che per tipologia di specie, per tipologia di effluente (letame, liquame e liqui-letame) al fine consentire una determinazione accurata della resa energetica dei substrati.

Si riportano, nella successiva tabella, i quantitativi di reflui stimati sul territorio re-gionale distinti per tipologia.

77 Tabella 1 Effluenti zootecnici: quantità di effluente prodotta per peso vivo e per anno in relazione alla tipologia di stabulazione dell’Allegato I del D.M. 7 aprile 2006, Criteri e norme tecniche generali per la disciplina regionale dell’uti-lizzazione agronomica degli effluenti di allevamento, di cui all’articolo 38 del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152.

78 Considerato il peso medio di un animale adulto pari a 180 kg, il coefficiente applicato equivale a circa 6,7 m3 annui per capo.

79 Si parla di letame quando il contenuto di sostanza secca è dell’ordine del 11÷25 %. È costituito dalle deiezioni so-lide e dai materiali utilizzati per la lettiera, per questo è un materiale molto maturo a lenta degradabilità, definito palabile. È il concime organico per eccellenza e presenta la più alta percentuale di azoto organico residuale (circa 70%) e la più bassa di azoto minerale (circa il 10%). La sua funzione principale è di tipo strutturale mentre l’effetto nutritivo, anche se minore, si prolunga per più annate dopo quella di distribuzione. Può essere stoccato su aree in cemento, anche ammucchiato. La direttiva 91/676/CEE, nota anche come “direttiva nitrati”, non limita lo spandi-mento del letame in agricoltura.

80 Il liquame ha un contenuto di sostanza secca pari a circa il 10% e deriva da feci, urine e spesso dalle acque di lavaggio. In generale, nel liquame bovino le azioni nutritiva, strutturale e residuale sono più o meno bilanciate fra loro. I liquami possono subire diluizioni anche importanti a causa delle acque di lavaggio, come effetto si ha la riduzione di sostanza secca e di elementi fertilizzanti. La direttiva 91/676/CEE (“direttiva nitrati”) limita lo span-dimento del liquame in agricoltura.

81 Il liquiletame presenta un contenuto di sostanza secca compreso tra il 10 e il 21%. È composto da feci, urine e ma-teriali da lettiera. Ha poca consistenza, è fluido, scorre lentamente, è ancora movimentabile, però richiede pareti di contenimento per lo stoccaggio.

82 Per i capi in produzione è stato considerato nel 70% dei casi l’impiego di paglia, nel 25% la lettiera permanente e nel 5% la tipologia “senza paglia”; per i capi in rimonta è stata considerata la presenza di lettiera (che nel 45% dei casi è prevista nelle aree di riposo), mentre per i vitelli è stata ipotizzata nel 100% dei casi la stabulazione fissa con paglia.

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Tabella 4.4 – Sintesi per provincia delle quantità di effluenti zootecnici stimati su base annua (dati in m3)

Provincia Liqui-letame suino

Liquame bovino

Letame bovino

Liqui-letame bovino

Totale effluenti

bovini

Liquame bufalino

Letame bufalino

Liqui-letame

bufalino

Totale effluenti bufalini

avellino 29.970 155.795 510.866 18.024 684.684 259 329 6.783 7.371

Benevento 194.718 243.797 799.433 28.205 1.071.435 711 903 18.619 20.232

Caserta 6.866 227.856 747.161 26.361 1.001.378 90.843 115.371 2.379.387 2.585.600

Napoli 65.754 43.653 143.142 5.050 191.845 1.784 2.266 46.730 50.780

Salerno 20.573 300.750 986.189 34.794 1.321.733 40.999 52.069 1.073.855 1.166.923

totale Campania

317.882 971.850 3.186.791 112.434 4.271.075 134.596 170.937 3.525.374 3.830.906

Per ogni specifico tipo di refluo sono stati ricavati, da Letteratura di settore, i valori medi dei parametri chimico-fisici83 che caratterizzano i singoli substrati relativamente alla loro attitudine a fermentare in condizioni di anaerobiosi, in particolare in riferimento al contenuto medio di sostanza secca, di sostanza organica e di resa in biogas.

Si evidenzia che, sul territorio regionale, è stata stimata una producibilità annua di biogas da reflui pari a quasi 150 milioni di m3 (di cui il 51% circa è risultato riferibile a reflui bufalini, il 42% a reflui bovini e il 7% a reflui suini).

Si riporta, di seguito, la localizzazione dei capi di bestiame bufalino, bovino, e suino presenti sul territorio campano.

Figura 4.1 – Distribuzione dei capi bufalini in Campania

Fonte: elaborazione INEA su banca dati Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise - 2008

83 V. Tabella A1, Appendice.

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72

Figura 4.2 – Distribuzione dei capi bovini in Campania

Fonte: elaborazione INEA su banca dati Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise - 2008

Figura 4.3 – Distribuzione dei capi suini in Campania

Fonte: elaborazione INEA su banca dati Cremopar

Disponibilità dei residui di lavorazione del settore lattiero caseario

Un altro sottoprodotto di origine zootecnica che ben si presta per la valorizzazione energetica è il siero di latte, residuo proveniente dalla caseificazione del latte. In particola-re, esso può essere impiegato come substrato in soluzione di codigestione anaerobica per la produzione di biogas. Al fine della valutazione di un suo possibile utilizzo, sono stati presi in considerazione vari aspetti quali gli impieghi attuali del sottoprodotto, la convenienza economica ed ambientale di un suo riutilizzo a scopo energetico, la convenienza del recu-

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73

pero e del trasporto, la localizzazione sul territorio delle aziende di trasformazione del latte che dispongono di siero.

Secondo l’Istat, nel 2006 in Campania sono state raccolte presso le aziende agricole dall’industria lattiero-casearia quasi 380.000 tonnellate di latte (di cui circa il 59% di vacca e circa il 41% di bufala, solo lo 0,5% di ovicaprini). Considerando che la produzione di siero associata al latte di vacca è molto inferiore a quella relativa al latte di bufala84 ed analizzan-do la struttura e la localizzazione delle aziende di trasformazione del latte, è scaturito un interesse soprattutto nei confronti del siero residuo della trasformazione del latte di bufala che rappresenta, tra l’altro, il principale prodotto agroalimentare di qualità della regione (marchio D.O.P. - Mozzarella di Bufala Campana).

Sono stati utilizzati dati relativi al trasformazione del latte messi a disposizione dal consorzio Mozzarella di Bufala Campana, l’organismo riconosciuto dal Ministero delle Poli-tiche Agricole e Forestali per la tutela, vigilanza, valorizzazione e promozione del formag-gio Mozzarella di Bufala Campana. Dall’analisi dei suddetti dati su base comunale, è risul-tata la produzione annua in Campania di circa 70.000 tonnellate di siero di latte di bufala.

La distribuzione dei caseifici sul territorio è concentrata specialmente in provincia di Salerno e Caserta, dove è raggruppata la maggior parte delle aziende casearie.

Dalla letteratura di settore, sono stati ricavati i valori medi dei parametri85 che ca-ratterizzano il substrato rispetto alla resa energetica, stimando una producibilità annua di biogas pari ad oltre 600.000 m3.

Figura 4.4 – Distribuzione dei residui di siero di latte di bufala in Campania

Fonte: elaborazione INEA su dati del Consorzio di Mozzarella di Bufala Campana

84 Dato che il latte di bufala è destinato quasi completamente alla caseificazione, mentre quello di vacca in gran parte alla produzione di latte da bere.

85 V. Tabella A2, Appendice.

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74

Disponibilità di scarti agroindustriali in Campania

Il settore agroindustriale produce una grande quantità di scarti, sottoprodotti di la-vorazione ed effluenti che vengono comunemente smaltiti come rifiuti, determinando un forte costo ambientale ed economico. La valorizzazione di tali materiali di scarto a scopo energetico consente di eliminare un sentito problema ambientale permettendo, al con-tempo, di accrescere il valore aggiunto dei prodotti e creando un’opportunità di sviluppo economico.

Alcuni residui del comparto agroindustriale rappresentano un substrato idoneo all’avvio di filiere agroenergetiche.

In funzione della disponibilità di tali scarti sul territorio campano, della convenienza ambientale ed economica relativa al loro recupero e conversione in energia mediante dige-stione anaerobica, si è concentrata l’attenzione sui seguenti sottoprodotti:

– residui della trasformazione del pomodoro (buccette); – residui dei frantoi (processo meccanico di estrazione dell’olio di oliva); – scarti ortofrutticoli mercatali.

Infatti questi residui, per via delle proprie caratteristiche biochimiche e fisiche, risul-tano idonei ad alimentare impianti a biogas. Inoltre, appare molto conveniente il sistema di recupero e trasporto di suddetti scarti dato che, al momento della loro trasformazione, questi risultano localizzati in grandi quantità nei centri di trasformazione (es: aziende conserviere, frantoi) e/o distribuzione (mercati ortofrutticoli).

Disponibilità di residui del processo di trasformazione del pomodoro

La Campania produce circa il 48% del pomodoro trasformato in Italia86.

Sul territorio campano sono presenti 104 aziende di trasformazione del pomodoro, le quali rappresentano circa il 70% delle aziende nazionali (su un totale di 177 aziende in Italia). Di queste, la maggior parte risulta localizzata tra le province di Salerno e Napoli (26 aziende in provincia di Napoli, 74 in provincia di Salerno, 2 in provincia di Caserta ed 1 in provincia di Avellino)87.

Pertanto, il comparto conserviero della trasformazione del pomodoro è stato oggetto di indagine al fine di valutare la possibilità di impiego degli scarti a fine energetico. Ai fini della produzione di biogas ha rivestito particolare interesse la quantificazione delle buccet-te88 di pomodoro disponibili in regione ed il cui attuale impiego è, sostanzialmente, legato all’alimentazione animale89. Queste costituiscono, difatti, un buon substrato per la fermen-tazione anaerobica per via dell’elevato contenuto di sostanza organica e della quasi totale assenza di inquinanti, anche se va considerata la stagionalità molto marcata della produ-zione (la trasformazione del pomodoro viene effettuata, di norma, da luglio a settembre).

86 Nel 2007, in Campania sono stati trasformati circa 2,2 milioni di tonnellate di pomodoro, a fronte di un trasformato nazionale pari a 4,6 milioni di tonnellate.

87 Dati dell’Associazione Nazionale degli Industriali delle Conserve Alimentari Vegetali (ANICAV), che attualmente associa oltre 150 imprese, di cui quasi il 70% dedite alla trasformazione del pomodoro, rappresentando circa il 50% del pomodoro trasformato in Europa, per un totale di 43÷44 milioni di quintali rispetto agli 86 milioni complessivi. L’area del Mezzogiorno d’Italia rappresenta un 50% di quel 50%.

88 Residuo del processo di trasformazione del pomodoro.

89 Questo residuo viene normalmente ceduto dalle industrie di trasformazione a titolo gratuito alle aziende zootecni-che.

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75

Per la stima dei quantitativi sono stati impiegati dati dell’Associazione Nazionale de-gli Industriali delle Conserve Alimentari Vegetali (ANICAV) del 2007, dai quali risulta una trasformazione, in Campania, di quasi 1.900.000 tonnellate di pomodoro all’anno, corrispondenti a circa 57.000 tonnellate di buccette impiegabili per la produzione di oltre 4 milioni di m3 annui di biogas90.

Figura 4.5 – Distribuzione delle buccette di pomodoro in Campania

Fonte: elaborazione INEA su dati ANICAV

Disponibilità di sansa vergine

La sansa vergine rappresenta il residuo del processo di estrazione dell’olio dalla pasta di olive nei frantoi mediante processo esclusivamente meccanico. Questa, per le proprie caratteristiche e proprietà chimico-fisiche, ben si presta ad essere impiegata per produr-re biogas mediante digestione anaerobica (in percentuale non dominante nel substrato). Naturalmente, va tenuto conto della stagionalità della sua disponibilità: di norma i sotto-prodotti dell’industria olearia si rendono disponibili, annualmente, a partire dalla fine di ottobre fino a febbraio.

Sarebbe stato possibile anche considerare, a fini energetici, l’utilizzo energetico della sansa esausta come combustibile ma, come già accennato, dato che la produzione di sansa esausta sottintende l’impiego di solventi chimici (normalmente n-esano) per l’estrazione dell’olio di sansa, è apparso maggiore il beneficio ambientale derivante dalla conversione energetica in biogas di sansa vergine. Infatti quest’ultima, essendo sottoposta solo a pro-cessi meccanici di trasformazione, non dovrebbe presentare tracce di macroelementi e/o microelementi inquinanti.

Si sottolinea che anche le acque di vegetazione residue del processo di estrazione dell’olio potrebbero essere impiegate per la produzione di biogas mediante fermentazione anaerobica. Queste possono essere impiegate come fertilizzante e ammendante sui suoli

90 V. Tabella A3, Appendice

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agricoli, nel rispetto dei limiti normativi91, dei divieti di spandimento e dei parametri di qualità dei suoli e delle acque92, pertanto le eccedenze potrebbero essere impiegate per alimentare impianti a biogas. In Campania è stata stimata una produzione annua di quasi 150.000 m3 di acque di vegetazione93.

Anche per la stima della disponibilità di sansa vergine sul territorio regionale94 ci si è riferiti a dati comunali, dei quali si riporta il raggruppamento per provincia in tabella.

Tabella 4.5 – Sintesi per provincia dei dati relativi alla produzione di sansa vergine in Campania

Provincia Sansa vergine (t/anno)

avellino 5.519

Benevento 8.298

Caserta 5.163

Napoli 2.930

Salerno 31.691

totale Campania 75.512Fonte: AGEA – 2007.

Le circa 75.000 tonnellate di sansa vergine stimata su base annua in Campania po-trebbero consentire la produzione di quasi 8 milioni di m3 di biogas all’anno95.

Figura 4.6 – Distribuzione della sansa vergine in Campania

Fonte: elaborazione INEA su dati AGEA

91 La disciplina regionale prevede come limiti allo spandimento delle acque di vegetazione quello di 50 m3/ha annui per reflui provenienti da impianti di estrazione dell’olio tradizionali o di tipo misto; per le acque di vegetazione provenienti da impianti continui il limite è di 80 m3/ha all’anno.

92 Dunque nel rispetto delle caratteristiche pedologiche, idrogeologiche, agricole ed ambientali del sito di spandimen-to, della tutela delle acque (sia superficiali che di falda) e della normativa vigente.

93 I Settori Tecnici Amministrativi Provinciali per l’Alimentazione della Regione Campania, con rielaborazioni del Settore Sperimentazione Informazione e Consulenza in Agricoltura (SeSIRCA) della Regione Campania, hanno stimato la produzione di 146.396 m3 annui di acque di vegetazione nel triennio 2003-2005, distribuiti per il 59% in provincia di Salerno, per il 18% in provincia di Benevento, per l’11% in provincia di Caserta, per l’8% in provincia di Avellino e per il 4% in provincia di Napoli.

94 Dati AGEA (Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura) relativi alla produzione di olio della campagna oleicola 2006/2007.

95 V. Tabella A4, Appendice.

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Disponibilità di scarti vegetali mercatali

Gli scarti vegetali presentano caratteristiche che li rendono idonei ad alimentare impianti di digestione anaerobica. Al fine di quantificare una parte degli scarti ortofrutti-coli disponibili in regione, è stata focalizzata l’attenzione sui residui vegetali dei mercati ortofrutticoli; risulta, infatti, conveniente sia dal punto di vista economico che logistico ipotizzare un sistema di raccolta e trasporto degli scarti mercatali, oltre che dal punto di vista ambientale (il mancato recupero energetico di tali scarti comporta, infatti, l’emissio-ne in atmosfera di gas climalteranti dovuti all’avvio spontaneo di processi fermentativi).

Si riportano nel seguito, i risultati di un’indagine conoscitiva96 sui mercati all’ingros-so presenti in Campania condotta dall’Assessorato all’Agricoltura e alle Attività Produttive della Regione Campania nell’ambito dell’azione di recupero della frazione organica degli scarti mercatali finalizzata alla produzione di compost. La valutazione qualitativa e quanti-tativa degli scarti prodotti è stata svolta sui trenta mercati attualmente attivi in Campania ed ha consentito di stimare annualmente la produzione di 5.465 t/anno di scarti ortofrutti-coli a fronte di un totale complessivo degli scarti (vegetali e imballaggi in plastica, cartone e legno) di 10.932 t/anno. È stato osservato come le produzioni maggiori di scarti vegetali si registrino in quei mercati dove è presente una parziale lavorazione della merce e l’onere di smaltire diversi quintali di prodotti invenduti viene lasciato all’ente gestore del mercato.

La distribuzione territoriale dei trenta mercati all’ingrosso (localizzati nelle province di Napoli, Salerno e Caserta) è riportata nella successiva tabella.

Tabella 4.6 – Mercati all’ingrosso presenti in Campania e la relativa suddivisione per provin-cia

Mercati all’ingrosso in Campania*

Provincia Napoli

15 mercati ortofrutticoli

2 mercati ittici

2 florovivaistici 19: totali mercati

Provincia Salerno

7 mercati ortofrutticoli

1 mercati ittici 8: totali mercati

Provincia Caserta

3 mercati ortofrutticoli 3 3: totali mercati

* Nelle province di Avellino e Benevento non sono presenti mercati di tipo ortofrutticoli, ittici o florovivaistici.

Fonte: SINTESI, Consulenza e Servizi dell’Ambiente - 2008.

Le circa 5.500 t/anno di scarti vegetali mercatali potrebbero consentire la valoriz-zazione energetica di 200.000 m3 di biogas all’anno97, evitando l’emissione di gas serra in atmosfera ed il recupero sostenibile di sottoprodotti che, seppur non rappresentino ingenti quantità, costituiscono un residuo di cui disfarsi.

96 Fonte: SINTESI, Consulenza e Servizi dell’Ambiente, 2008.

97 V. Tabella A5, Appendice

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Gli areali individuati per la filiera del biogas

Ai fini dell’individuazione degli areali di maggiore interesse per la filiera del biogas, particolare interesse ha rivestito l’analisi della consistenza dei capi di bestiame bovino e bufalino, i cui effluenti rappresentano il principale potenziale energetico ricavabile da biomassa residuale nell’ambito della filiera del biogas (84% del potenziale complessivo sti-mato), nonché la distribuzione territoriale degli altri residui esaminati. L’analisi dei dati, condotta valutando le peculiarità98 del territorio campano, ha consentito l’individuazione di tre areali99 particolarmente vocati al recupero di biomassa ai fini della produzione di biogas, rappresentati nella figura successiva (areale A, B e C).

Figura 4.7 – Areali di maggiore interesse per l’attivazione della filiera del biogas in Campania

Fonte: elaborazioni INEA 2008

4.3 La filiera della biomassa lignocellulosica

Per quanto concerne l’implementazione della filiera lignocellulosica, sono state in-dividuate le seguenti tipologie di biomassa residuale idonee alla conversione energetica attraverso processi termochimici:

98 Sono stati realizzati report di tipo statistico-cartografico su base GIS per i singoli contributi delle biomasse consi-derate, valutati unitamente a considerazioni di natura orografica, statistica ed agro-ambientale (es: la forte con-centrazione degli allevamenti in alcuni territori ed il conseguente problema del contenimento del carico di azoto sul suolo).

99 L’areale A interessa 20 comuni della provincia di Salerno con una superficie totale di 108.139 ettari; l’areale B ri-sulta costituito anch’esso da 20 comuni, ricade per la maggior parte in provincia di Caserta e presenta una super-ficie totale pari a 87.465 ettari; l’Areale C è incluso tra la provincia di Caserta e quella di Benevento ed è costituito da 35 comuni, per una superficie totale pari a 95.986 ettari.

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– sottoprodotti da attività di gestione forestale (ramaglia e cimali); – scarti di lavorazione del legno vergine; – scarti di potatura; – scarti della manutenzione del verde pubblico; – residui agroindustriali ligneocellulosici.

In particolare, è stata stimata la disponibilità annuale di sottoprodotti ricavabili me-diante una corretta gestione del settore forestale.

Disponibilità di biomassa forestale

Il potenziale di biomassa di origine agroforestale è stato stimato valutando solo quella parte di sottoprodotti forestali (ramaglia e cimali) recuperabili nel rispetto degli ecosistemi boschivi, nell’ottica della sostenibilità ambientale e della corretta gestione forestale100.

La superficie forestale della Campania, secondo dati Istat, risulta pari a 289.068 ha, mentre, secondo l’INFC (Inventario Nazionale delle Foreste e dei Serbatoi Forestali di Car-bonio), risulta pari a 445.274 ha. Si tratta di una differenza notevole, spiegata dalla diversa definizione di bosco presa in considerazione dalle due fonti101; per quanto riguarda la defi-nizione dell’Istat, sono più restrittive le caratteristiche che una certa estensione di terreno deve possedere per appartenere alla categoria bosco.

L’INFC102 rappresenta la fonte ufficiale più utilizzata per le informazioni relative alle foreste, mancando un riferimento che riguardi l’intero territorio forestale nazionale e re-gionale. Pertanto, per la determinazione del quantitativo di biomassa forestale residua-le disponibile in Campania è stato adottato come riferimento informativo la banca dati dell’INFC.

È stato, comunque, osservato che nella banca dati dell’INFC la precisione delle infor-mazioni varia in funzione del livello di dettaglio, diminuendo mano a mano che dal dato regionale si passa a quello provinciale. Pertanto, per evitare la propagazione dell’errore, si è preferito riportare informazioni con aggregazione regionale, utilizzando la Carta dell’Uti-lizzazione Agricola dei Suoli (CUAS)103 della Regione Campania per la localizzazione della

100 La relativa metodologia per la quantificazione è stata elaborata da Roberta Ciaravino (tecnologo INEA) mentre l’elaborazione dei dati è stata effettuata in collaborazione con il Dipartimento di arboricoltura, botanica e patolo-gia vegetale della Facoltà di Agraria Federico II di Portici.

101 Si riportano, a tal proposito, le definizioni di bosco considerate dall’ISTAT e dall’INFC:

- definizione di Bosco dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT): estensione di terreno maggiore di 0,5 ha, in cui sono presenti piante forestali legnose arboree e/o arbustive che producono legno od altri prodotti forestali, deter-minanti a maturità un’area di insidenza (proiezione delle chiome delle piante sul terreno) di almeno il 50% della superficie e suscettibili di avere un ruolo indiretto sul clima e sul regime delle acque;

- definizione di Bosco dell’Inventario Forestale Nazionale del Carbonio (INFC): territorio con copertura arborea mag giore del 10% su un’estensione maggiore di 0,5 ha. Altezza minima degli alberi pari a 5 m a maturità in situ. Sono inclusi: soprassuoli forestali giovani, anche da piantagione; aree temporaneamente scoperte per cause na-turali o per l’intervento dell’uomo, ma suscettibili di ricopertura a breve termine;vivai forestali e arboreti da seme (che costituiscono parte integrante del bosco); strade forestali, fratte tagliate, fasce tagliafuoco e altre piccole aper-ture del bosco; formazioni lineari come barriere frangivento e fasce boscate di larghezza superiore a 20 m, estese su più di 0,5 ha.

102 Tale riferimento è stato utilizzato anche per la redazione del Piano Forestale Generale 2008- 2013 della Regione Campania. Trattandosi di stime, la precisione delle informazioni varia in funzione del livello di dettaglio raggiun-to, diminuendo man mano che dal dato regionale si passa al dato provinciale.

103 Fonte Settore Sperimentazione, Informazione, Ricerca e Consulenza in Agricoltura (SeSirca) della Regione Cam-pania, 2004.

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distribuzione della biomassa forestale sul territorio regionale.

Si è proceduto, contestualmente, alla verifica delle informazioni ricavabili dal Piano di Assestamento Forestale (PAF)104 della Regione Campania, che però non ha consentito di integrare i dati dell’INFC poiché le informazioni che questo fornisce risultano frammen-tarie.

Il PAF rappresenta lo strumento per la gestione del territorio che disciplina le utiliz-zazioni boschive per un periodo di dieci anni individuando, inoltre, i boschi di “protezio-ne”, gli interventi di rimboschimento e di ricostituzione boschiva. Esso costituisce, per i Comuni e gli Enti pubblici, il requisito per procedere ad un piano di tagli.

Tuttavia, i piani di assestamento forestale scontano, in Campania, l’inadempienza di molti Comuni105, pertanto tale fonte di dati non è risultata utilizzabile, non interessando l’intero territorio regionale. Infatti, dal 1989 al 2007, solo il 44% della superficie forestale regionale campana è stata interessata da piani di assestamento106. La provincia di Salerno risulta quella con maggiore superficie assestata, con 75.173 ettari, segue la provincia di Caserta con 22.905 ettari, Avellino con 18.495 ettari e Benevento con 10.182 ettari; la su-perficie forestale in provincia di Napoli non è stata interessata dai piani di assestamento107.

Ai fini della presente valutazione, non si è potuto prescindere dalla localizzazione delle aree protette, dato che queste coincidono, per buona parte, con le aree boscate.

La rete di aree protette in Campania è composta dal sistema dei parchi, da Zone di Protezione Speciale (ZPS) previste dalla direttiva Uccelli108 e dai Siti di Importanza Comu-nitaria (SIC) individuati in base alla direttiva Habitat109. In particolare, in Campania sono presenti 28 Zone di Protezione Speciale (215.763 ha) e 106 Siti di Importanza Comunitaria (363.215 ha), estesi complessivamente su circa 395.000 ha (29% del territorio regionale).

La Regione ha inoltre istituito110 un sistema di parchi urbani, tra cui il Parco Metro-politano delle Colline di Napoli.

104 La L.R. n. 11 del 7 maggio 1996 “Modifiche ed integrazioni alla Legge Regionale 28 febbraio 1987, n. 13, concernente la delega in materia di economia, bonifica montana e difesa del Suolo” persegue, tra le altre, le finalità di conserva-zione, miglioramento ed ampliamento del patrimonio boschivo regionale, l’incremento della produzione legnosa, la difesa del suolo e la sistemazione idraulico-forestale. Per il conseguimento di tali finalità vengono previsti degli indirizzi pianificatori da attuarsi attraverso il “Piano Forestale Generale” (P.F.G.) ed il “Piano di Assestamento Forestale” (P.A.F.). Infatti, all’articolo 10 della L. R. 11/96, comma 1, viene previsto che “i beni silvo-pastorali di proprietà dei Comuni e degli Enti pubblici debbono essere utilizzati in conformità di Piani di Assestamento Fore-stali”.

105 In Campania 96 comuni, al 2009, hanno un PAF in vigore, e per altri 57 comuni il PAF risulta scaduto (dati Regione Campania).

106 Fonte Istat.

107 Pianificazione assestamentale in Campania negli anni 1989-2007 e gli interventi manutentori sul territorio degli enti delegati negli anni 2004 – 2007 (Settore Foreste – Regione Campania).

108 Direttiva 79/409/CEE concernente la conservazione degli uccelli selvatici.

109 Direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche.

110 L.R. n.17/03.

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Tabella 4.7 – Rete Aree protette in Campania

Tipo N. Aree protette

parchi nazionali 2parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano,

parco Nazionale del Vesuvio

parchi regionali 8

Monti picentini, partenio, Matese, taburno-Camposauro, Monti lattari, Campi Flegrei, Fiume Sarno,

Roccamonfina - Foce Garigliano

Riserve naturali statali 3Castelvolturno, Cratere degli astroni,

tirone alto Vesuvio

Riserve naturali regionali 6Foce Sele e tanagro, Foce Volturno e Costa di licola

lago Falciano, Fiume Sarno, Campi Flegrei, Monti lattari

aree marine protette 4

area Marina protetta punta Campanella,

parco sommerso di Baia, parco sommerso di Gaiola,

Riserva Marina punta Campanella

aree protette altro tipo 4

oasi Bosco di San Silvestro, area naturale Baia di ieranto, oasi naturale di Monte polveracchio,

parco naturale Diecimare Fonte: PFG Regione Campania.

Figura 4.8 – Parchi e Riserve Naturali in Campania

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Figura 4.9 – Rete Natura 2000 in Campania: Siti di Importanza Comunitaria (SIC)

Figura 4.10 – Rete Natura 2000 in Campania: Zone a Protezione Speciale (ZPS)

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La realizzazione, nei suddetti siti, di impianti a biomassa per la produzione di energia rinnovabile prevede la sottoposizione dei progetti a valutazione di incidenza111 ai fini del rilascio dell’Autorizzazione Unica112. In tali aree gli interventi di gestione di boschi pubblici e privati, consistenti in operazioni di sfollo e diradamento di cedui e fustaie per il recupero della ramaglia, sono consentiti previa approvazione da parte dell’ente delegato territorial-mente competente.

Inoltre, gli indirizzi di salvaguardia, gestione e valorizzazione sostenibile delle risor-se forestali contenuti nel Piano Territoriale Regionale (PTR) della Campania113 indicano l’obiettivo di preservare nel lungo termine la multifunzionalità delle foreste, in considera-zione dei molteplici benefici che esse generano per l’economia, l’ambiente, la società (fun-zione produttiva, mantenimento della biodiversità, stabilizzazione dell’equilibrio idrologi-co, immobilizzazione del carbonio, difesa da erosione e prevenzione di calamità naturali, risorsa paesistica, sociale, ricreativa).

Ai fini del calcolo del potenziale energetico forestale, è stata considerata la categoria dei boschi alti e quella dell’arboricoltura da legno. Non sono stati presi in considerazione i boschi bassi perché questi costituiscono la parte in accrescimento che va lasciata tal quale nel rispetto del principio di uso sostenibile della risorsa. La distribuzione delle superfici dei boschi alti mostra un’estensione di 380.000 ettari circa. Si riporta, in tabella 6, la quanti-ficazione delle superfici boscate per provincia e per categoria, in ettari.

111 La valutazione di incidenza (V.I.) ha lo scopo di accertare preventivamente se determinati piani o progetti possa-no avere incidenza significativa sui Siti di Importanza Comunitaria (SIC), sui proposti Siti di Importanza Comu-nitaria (pSIC), sulle Zone Speciali di Conservazione e sulle Zone di Protezione Speciali (ZPS).

112 Tabella 1 delle “Linee guida per il procedimento di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 per l’autorizzazione alla costruzione e all’esercizio di impianti di produzione di elettricità da fonti rinnovabili nonché linee guida tecniche per gli impianti stessi”, Allegato al DM Sviluppo Economico 10/09/2010, (G.U. 18 set-tembre 2010 n. 219).

113 L.R. n. 13 del 13 ottobre 2008.

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Tabella 4.8 – Distribuzione delle superfici boscate per provincia e per categoria (dati in ha)

Macrocategorie inventariali Caserta Benevento Napoli Avellino Salerno Campania

Boschi* 70.009 43.083 11.707 72.912 186.685 384.396

altre terre boscate** 3.303 876 2.946 10.020 43.734 60.879

Superficie Forestale totale 73.312 43.959 14.653 82.932 230.419 445.275

BOSCHI ALTI

Caserta Benevento Napoli avellino Salerno Campania

FUSTAIE RESINOSE (Pini e altre resinose)

pino nero laricio, loricato 0 737 1.105 2.210 2.210 6.262

pinete di pini mediterranei 2.210 0 1.105 368 4.051 7.734

altri boschi di conifere 0 737 0 0 368 1.105

LATIFOGLIE

Faggete 10.680 4.787 0 14.730 24.999 55.196

Boschi a rovere e roverella 11.036 13.254 1.105 9.207 20.254 54.856

Cerrete boschi di farnetto, fragno, vallonea

9.207 11.416 0 15.467 31.961 68.051

Castagneti 8.470 1.841 4.380 14.727 23.782 53.200

ostrieti, Carpineti 9.943 5.892 0 6.260 31.670 53.765

Boschi igrofili 737 2.946 0 3.314 4.787 11.784

altri boschi caducifogli 5.524 1.473 1.473 5.524 16.203 30.197

leccete 11.416 0 2.210 737 22.755 37.118

Sugherete 0 0 0 0 368 368

altri boschi di latifoglie sempreverdi

0 0 0 0 368 368

totale Boschi alti 69.223 43.083 11.378 72.544 183.776 380.004

ARBORICOLTURA DA LEGNO

Caserta Benevento Napoli avellino Salerno Campania

pioppeti artificiali 419 0 0 0 737 1.156* La voce boschi comprende: boschi alti, impianti di arboricoltura da legno, aree temporaneamente prive di soprassuolo. ** ** La voce altre terre boscate comprende: boschi bassi, boschi radi, boscaglie, arbusteti, aree boscate inaccessibili o non classificate.

Fonte: INFC – Le stime di superficie, 2005.

La provincia di Salerno è quella che presenta una maggiore superficie a boschi alti (48% della superficie regionale), seguita dalle province di Avellino (19%), Caserta (18%), Benevento (11%) ed infine Napoli (3%).

È possibile evidenziare la scarsa presenza di conifere che ricoprono una superficie di soli circa 15.000 ha, mentre i boschi di latifoglie sono oltre il 96% del totale forestale.

Lo scenario di sviluppo energetico considerato prevede un’utilizzazione sostenibile dei boschi che consenta, allo tempo stesso, l’incremento della biomassa forestale e la sal-vaguardia del patrimonio boschivo, escludendo l’utilizzo a fini energetici di alcune tipologie forestali per motivi di convenienza economica (legna da ardere114). La quantificazione del potenziale destinabile alla filiera lignocellulosica è stata realizzata considerando la dispo-nibilità di legna e sottoprodotti derivanti dai boschi governati a fustaia, a ceduo semplice

114 Il mercato della legna da ardere, specie per le latifoglie, è molto florido e (i prezzi della legna da ardere sono dell’or-dine di 100÷150 €/t in funzione del periodo dell’anno, della localizzazione geografica e della tipologia).

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e ceduo composto, al netto della legna da ardere già utilizzata per fini energetici o in altre filiere quali la produzione di legname da lavoro, pannelli, carta. Per la maggior parte delle specie, il fusto ed i rami grossi sono destinati ad altri mercati, mentre la ceppaia è desti-nata a rimanere nel suolo per assicurarne la rigenerazione. Di conseguenza la biomassa potenzialmente disponibile per la filiera energetica lignocellulosica è rappresentata quasi esclusivamente dai sottoprodotti delle utilizzazioni, ovvero ramaglia e cimali.

La quantificazione della biomassa lignocellulosica disponibile in Campania è stata effet-tuata considerando l’incremento della ramaglia sulla fitomassa115 rilevata da dati INFC (anno 2005), tenendo conto della necessità di lasciare parte della massa legnosa sul terreno per evi-tare l’impoverimento del suolo e considerando i parametri di ritraibilità ed accessibilità dei siti.

Sul territorio regionale è stata dunque stimata una disponibilità annua di circa 277.000 tonnellate di biomassa lignocellulosica116, quantificata nella tabella successiva.

Tabella 4.9 – Quantificazione biomassa da superfici boscate in Campania.

Categorie Incremento fitomassa

Peso rama-glia su peso fitomassa

Incremento ramaglia

Ramaglia ritraibile

Ramaglia ritraibile e

accessibile

%

t/anno % t/anno t/anno t/anno

impianti di arboricoltura da legno 13.616 100% 13.616 13.616 13.616 4,9

pioppeti artificiali 8.776 32% 2.851 2.281 2.281 0,8

piantagioni di altre latifoglie 4.841 30% 1.470 1.176 1.176 0,4

piantagioni di conifere 12.940 100% 12.940 12.940 12.940 4,7

Conifere

pinete di pino nero laricio, loricato 41.164 25% 10.370 10.370 10.370 3,8

pinete di pini mediterranei 42.336 100% 42.336 42.336 42.336 15,3

altri boschi di conifere pure o miste 12.940 100% 12.940 12.940 10.870 3,9

latifoglie

Faggete 375.954 18% 67.644 54.116 45.457 16,4

Querceti di rovere, roverella e farnia 116.707 27% 31.798 25.438 21.368 7,7

Cerrete, boschi di farnetto, fragno e vallonea

943 19% 181 145 122 0,0

Castagneti 260.423 25% 66.257 53.006 44.525 16,1

ostrieti, carpineti 145.362 29% 42.797 34.238 28.760 10,4

Boschi igrofili 31.434 3% 995 796 669 0,2

altri boschi caducifogli 129.265 24% 31.121 24.897 20.913 7,6

leccete 113.686 28% 31.417 25.133 21.112 7,6

Sugherete 1.628 0% 0

altri boschi di latifoglie sempreverdi 479 0% 0

totale 1.312.494 368.733 299.811 276.514 100,0

Fonte: elaborazione INEA, in collaborazione con il Dipartimento di arboricoltura, botanica e patologia vegetale della Facoltà di Agraria Federico II di Portici, su dati INFC.

115 Con il termine fitomassa si intende la biomassa costituita dal peso degli organismi vegetali presenti in una data superficie. Viene espressa in g/m² o t/ha ed usata per l’analisi quantitativa della vegetazione che ricopre un terri-torio.

116 Ramaglia, considerando la condizione di albero vivo.

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aree di interesse per la filiera lignocellulosicaLe circa 277.000 tonnellate di biomassa annualmente disponibili sono concentrate

principalmente in tre areali, che interessano principalmente le province di Caserta, Avelli-no e Salerno. Nella figura è riportata la localizzazione della biomassa lignocellulosica.

Figura 4.11 – Localizzazione della biomassa boschiva sul territorio della regione Campa-nia e areali di maggiore interesse per l’implementazione della filiera lignocellulosica

Fonte: elaborazione INEA su Carta dell’Uso del Suolo (CUAS), SeSirca Regione Campania - 2004]

Nel medio-lungo periodo, possono essere considerati ulteriori contributi di biomassa lignocellulosica, quali ad esempio i sottoprodotti colturali lignocellulosici, i residui della manutenzione del verde urbano, la biomassa dedicata proveniente da short rotation forest-ry117, etc. che, una volta strutturata la filiera sul territorio possono più facilmente essere re-cuperati avvantaggiando, da un lato, la sostenibilità ambientale ed economica della filiera e, dall’altro, innescando un meccanismo virtuoso di partecipazione delle comunità locali.

4.4 La valorizzazione energetica delle biomasse

La valorizzazione energetica delle biomasse rappresenta uno dei punti di riferimento della strategia nazionale per la riduzione delle emissioni di gas serra e le novità introdotte dalla Legge 99/2009 fanno immaginare un maggiore sviluppo delle applicazioni in questo campo, dato il maggiore sostegno in termini di incentivi di cui potrà godere tale tecnologia.

La produzione di energia da biomassa risulta molto più diffusa nel Nord Italia, dove sono ormai presenti numerosi impianti alimentati sia a biogas che a biomassa lignocellulo-

117 Arboricoltura a turno breve per la quale sono previsti specifici finanziamenti nell’ambito delle misure di intervento del PSR 2007/2013 (Programma di Sviluppo Rurale finanziato dal Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale FEASR) e che rappresenta anche un mezzo molto efficace per ridurre i rischi di erosione delle aree in pendio.

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sica, spesso concepiti in soluzione di cogenerazione118 e che, in alcuni casi, alimentano reti di teleriscaldamento. In realtà, anche nel Sud Italia è presente un interessante potenziale di biomassa destinabile a fini energetici e sarebbe auspicabile un corretto sviluppo delle filiere ad esso collegate, specialmente in virtù del consequenziale sostegno al settore agri-colo che ne deriverebbe.

In tema di sviluppo delle agroenergie, gli orientamenti prevalenti che emergono in Italia pongono l’accento sull’importanza dello sviluppo di filiere locali che coinvolgano i produttori di materia prima. Lo start-up delle filiere agro-energetiche può, infatti, generare flussi finanziari ed investimenti in grado di garantire una giusta remunerazione a tutti i componenti della filiera e creare i presupposti per lo sviluppo di nuove professionalità e di piccole imprese. I benefici ambientali che ne deriverebbero, sia in termini di riduzioni delle emissioni climalteranti che di manutenzione del territorio, sarebbero notevoli, così come le ricadute sul settore agricolo, che darebbero un serio impulso alla multifunzionali-tà ed un significativo contributo allo sviluppo locale. Questa prospettiva risulta particolar-mente attraente, soprattutto nelle aree agricole caratterizzate da abbandono colturale ed in quelle in cui la crisi dell’offerta delle produzioni agricole è molto sentita. L’occasione che le bioenergie offrono, può consentire all’agricoltura di guardare al futuro sulla base di nuo-ve opportunità e di accrescere la consapevolezza della sua centralità all’interno del settore produttivo non solo per gli addetti del settore, ma anche agli occhi dell’opinione pubblica.

Lo sviluppo delle filiere agro-energetiche, del resto, non può prescindere dal legame con il mondo agricolo, soprattutto di fronte alle nuove sfide che il settore primario si trove-rà ad affrontare nei prossimi anni, nei quali all’inarrestabile crescita demografica mondiale si contrapporranno alterazioni degli ecosistemi legate all’avanzamento del cambiamento climatico, dei processi di deforestazione e desertificazione, di un inquinamento sempre più diffuso, nonché della perdita di competitività delle produzioni agricole nazionali rispetto al mercato globale.

La pianificazione della produzione di energia da biomassa agricola deve essere con-cepita in funzione delle potenzialità e delle peculiarità dei territori, mediante attente ana-lisi di quello che sui territori è gia presente in termini di biomassa residuale, valutando al contempo quanto essi possano ulteriormente contribuire in termini di colture dedicate. La produzione di biomassa da colture energetiche può trovare applicazione nelle aree a rischio di marginalità o nelle quali non sussistano condizioni agro-ambientali per coltiva-zioni food, senza alterare gli equilibri delle produzioni agricole e perseguendo obiettivi di sostenibilità ambientale.

Nel precedente paragrafo, è stata quantificata la biomassa potenzialmente disponi-bile sul territorio campano in riferimento a specifici settori e comparti. Tale analisi, oltre a chiarire quali possano essere i quantitativi di biomassa residuale in gioco in riferimento ai comparti investigati, ai quali potrebbero essere aggiunti ulteriori contributi più stretta-mente legati alle realtà locali, offre un approccio metodologico per poter affrontare le stime dei potenziali input disponibili.

In particolare, la scelta di valutare i quantitativi di biomassa teoricamente disponi-bili in Campania distinti per filiera tecnologica, consente di stimare in modo realistico il potenziale energetico dei sottoprodotti e di ipotizzare con maggiore concretezza la struttu-

118 Vale a dire considerando produzione contemporanea di energia elettrica e termica (CHP: Combined Heat and Power Production). La direttiva europea 2004/8/CE, recepita in Italia dal D.Lgs. 20/2007, recita che “considerati i potenziali benefici della cogenerazione in termini di risparmio di energia primaria di prevenzione delle perdite di rete e di riduzione delle emissioni, in particolare quelle dei gas a effetto serra, la promozione della cogenerazione ad alto rendimento basata su una domanda di calore utile è una priorità comunitaria”.

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razione delle filiere a monte degli impianti.

Per le biomasse, rispetto alle altre fonti energetiche rinnovabili, la complessità sia delle filiere che dei processi di conversione rende più ardua la valutazione dei benefici sia ambientali che economici. Le filiere agroenergetiche sono, infatti, durante l’intera vita dell’impianto, caratterizzate da processi molto articolati, che vanno dalla produzione e dalla raccolta delle materie prime fino al consumo finale, passando spesso per più di una fase di lavorazione o trasformazione119.

Inoltre, in riferimento sia alle biomasse residuali di origine agricola e forestale sia a quelle prodotte da coltivazioni dedicate, il punto critico della filiera resta l’approvvigiona-mento e soprattutto la capacità di legare gli investimenti industriali al territorio. Alla base di ogni analisi di fattibilità è necessario che vi siano specifici studi dei contesti agricoli e produttivi locali, che riescano a interpretare le vocazionalità dei territori ed a fornire stime attendibili delle potenzialità che questi possono offrire in termini di produzione di biomassa, in modo da organizzare, entro le minori distanze possibili, filiere autosufficienti in funzione della soluzione tecnologica adottata120. Infatti, nel caso del biomasse, la con-venienza economica degli investimenti risulta favorita dalla possibilità di recuperare la biomassa nel contesto locale, dati i minori costi di trasporto che competono quanto più si riducono le distanze tra i punti di approvvigionamento delle materie prime e gli impianti (a tutto vantaggio anche della sostenibilità ambientale dati i minori consumi di combustibile fossile da impiegare nelle operazioni di trasporto).

Biomasse dedicate in Campania

Molti terreni a vocazione agricola o forestale sono oggi a rischio di degrado per feno-meni di abbandono, incuria o per un eccessivo sfruttamento da parte dell’uomo, con con-seguenze spesso irreversibili. L’agricoltura moderna ha condotto, inoltre, ad una riduzione delle tipologie colturali e degli avvicendamenti, generando una maggiore specializzazione delle colture, con danni per la biodiversità121.

In questo contesto, l’impiego di colture energetiche dedicate può contribuire a per-seguire finalità di tutela ambientale, soprattutto quando queste vanno a sostituire coltiva-zioni agricole annuali, pascoli molto sfruttati o quando si impiantano su terreni a riposo, degradati o marginali122.

Per quel che riguarda la protezione del territorio, l’impianto sui terreni di colture de-dicate e di selvicoltura a turno di rotazione breve (Short Rotation Forestry – SRF) può rap-presentare un mezzo molto efficace per ridurre i rischi di erosione delle aree in pendio123,

119 Per la produzione delle biomasse dedicate è, di norma, previsto un maggior numero di fasi e di lavorazioni rispet-to a quanto avviene per le biomasse residuali, la cui produzione prescinde dal successivo impiego energetico.

120 Tenendo conto della stagionalità delle produzioni e considerando strategica la scelta del sito su cui ubicare l’im-pianto.

121 Si pensi al diffuso impiego di diserbanti

122 Nei terreni deteriorati e marginali, l’impianto di SRF o di colture a basso impatto, per via delle minori lavorazioni necessarie, può sostituire una quota variabile di colture agrarie tradizionali per migliorare la struttura dei suoli.

123 Infatti la presenza di colture consente di conservare la sostanza organica nel suolo, favorendone la naturale con-cimazione, contenendo il terreno e proteggendo dall’erosione causata dai fenomeni metereologici.

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riducendo al contempo i problemi di eutrofizzazione delle acque superficiali e di falda124.

La SRF rappresenta, inoltre, una tecnica agricola idonea al recupero di terreni con-taminati da elementi chimici nocivi (composti organici ed inorganici come i metalli pesan-ti) mediante fitodepurazione e fitoestrazione, producendo una biomassa con destinazione no-food. Specie come salice e pioppo presentano una buona capacità di assorbimento ed estrazione di metalli pesanti ed inquinanti dal terreno, utili per applicazioni combinate di fitorimediazione e produzione di biomassa125. Una riflessione dovrà, però, riguardare il successivo destino delle ceneri eventualmente prodotte a seguito dell’impiego energetico di un materiale che potrebbe presentare microelementi o macroelementi inquinanti.

Per quanto riguarda il processo di immobilizzazione della sostanza organica, le bio-masse, soprattutto quelle di origine forestale, si possono considerare dei veri e propri ser-batoi di carbonio dato che quest’ultimo, mediante il processo di fotosintesi, viene sottratto all’atmosfera sottoforma di CO

2 e immagazzinato nelle fibre vegetali o nel suolo per tempi

anche molto lunghi.

In sintesi, un’eventuale coltivazione dedicata alla produzione di biomassa nei com-prensori agricoli inquinati o a rischio di degrado presenta indubbi vantaggi per la conser-vazione e la tutela del territorio. Per quanto riguarda le aree che sono state sottoposte a de-forestazione, in questo caso sarebbe auspicabile il ricorso ad interventi di rimboschimento o, se non possibile, all’impianto di colture SRF.

Non è stata effettuata la stima delle potenzialità di biomassa dedicata disponibile in Campania in quanto, anche in virtù di quanto esposto, lo sviluppo delle colture energe-tiche deve essere valutata caso per caso e con cautela. Ad ogni modo, queste presentano maggiori vantaggi ambientali ed economici se concepite in relazione ad un’effettiva di-sponibilità di biomassa residuale sul territorio: difatti la presenza di sottoprodotti a basso costo (biomassa residuale126) rappresenta un forte spinta all’avvio di progetti di filiera.

Biomasse residuali L’impiego della biomassa residuale a fini energetici presenta, senza dubbio, un’elevata

sostenibilità ambientale, prevedendo il recupero e la valorizzazione di quei sottoprodotti che, se non correttamente smaltiti, contribuirebbero all’aumento delle emissioni climalte-ranti per l’avvio di processi fermentativi spontanei.

La disponibilità di biomassa residuale ricavabile dai sottoprodotti del comparto agri-colo, forestale e agroindustriale in Campania, operata individuando quegli scarti maggior-mente idonei all’implementazione di filiere agroenergetiche, costituisce un dato di par-tenza al quale possono essere addizionati gli ulteriori contributi127 dovuti ai sottoprodotti residuali presenti nella singola realtà territoriale (un esempio può essere rappresentato dai gusci di nocciolo o dalle vinacce, entrambi residui caratteristici di alcuni contesti locali).

124 Per via delle minori concimazioni fosfatiche e azotate previste rispetto alle principali coltivazioni erbacee, per la minore diffusione di fosforo e azoto nitrico a causa di fenomeni erosivi, nonché per il minor rilascio di nutrienti ad opera della vegetazione e della sostanza organica presente nel terreno.

125 Spesso, i suoli oggetto di depurazione contengono anche elevate concentrazioni di sostanze nutrienti; inoltre le specie vegetali utilizzate in fitodepurazione producono sovente elevate quantità di biomassa.

126 Le biomassa dedicata, infatti, sottintende un maggiore impegno in termini di manodopera e lavorazioni rispetto all’attività di recupero della biomassa residuale.

127 Che, in generale, possono essere costituiti da scarti del settore conserviero, scarti del settore vitivinicolo, scarti inutilizzati dei foraggi insilati e residui di campo delle aziende agricole, residui colturali ligneocellulosici di indu-strie agroalimentari, scarti di lavorazione del legno vergine, scarti di potatura e sottoprodotti di colture arboree ed erbacee, scarti derivanti dalla manutenzione del verde pubblico, etc..

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Per le biomasse residuali è stata valutata la potenzialità energetica ricavabile me-diante processi di trasformazione biochimici o termochimici, in funzione delle proprietà chimico-fisiche delle matrici e della sostenibilità degli impieghi. In particolare, sono state considerate due specifiche filiere agroenergetiche sviluppabili mediante processi caratte-rizzati da maturità tecnologica e di mercato, tenendo conto della fattibilità tecnico-econo-mica e delle rese energetiche.

I due esempi di filiera riguardano la produzione di biogas mediante il processo biochi-mico digestione anaerobica e la conversione termochimica della biomassa lignocellulosica. Entrambe le filiere sottintendono, seppur con diverse modalità, l’integrazione e la raziona-lizzazione dei cicli logistici a monte dell’impianto ai fini dell’ottimizzazione della redditività. L’organizzazione logistica della filiera riguarda in particolare, in funzione delle specifiche biomasse in ingresso all’impianto, la fase di approvvigionamento delle materie prime, il tra-sporto, eventuali lavorazioni per il pretrattamento della biomassa128, lo stoccaggio129.

Come già ampiamente descritto, per la filiera del biogas, sono state quantificate quel-le biomasse che presentano notevole disponibilità sul territorio regionale e caratteristiche chimico-fisiche130 favorevoli per la produzione di biogas, vale a dire sottoprodotti del set-tore zootecnico131 e agroindustriale132. Per la tipologia di filiera che sottintende la valoriz-zazione di biomassa lignocellulosica, sono stati quantificati quei sottoprodotti del settore forestale (ramaglie e cimali) che è possibile recuperare, su base regionale, nell’ottica di una corretta gestione del patrimonio boschivo.

L’individuazione di tali biomasse residuali è scaturita a valle di numerose considera-zioni, che hanno tenuto conto dei seguenti aspetti:

– resa energetica della biomassa; – potenziale energetico complessivo ricavabile; – possibilità di recupero di quantitativi sufficienti ad alimentare delle filiere; – sostenibilità ambientale dei processi; – contesto normativo; – analisi di mercato dei sottoprodotti individuati; – stagionalità della disponibilità dei residui; – studio dei processi di produzione e trasformazione della materia prima; – aspetti logistici legati al trasporto ed alla distribuzione della biomassa.

4.4.1 Potenziali energetici delle biomasse residuali individuate

Per le biomasse individuate, sono stati valutati i corrispondenti potenziali energetici installabili in Campania ipotizzando il ricorso a soluzioni impiantistiche operanti in coge-nerazione

128 Questa fase può svolgersi, a seconda del tipo di biomassa, precedentemente o successivamente alla fase di tra-sporto.

129 Lo stoccaggio, a seconda della tipologia di biomassa e dell’eventuale presenza di specifiche lavorazioni, può pre-vedersi presso l’impianto, con durata e modalità diverse in funzione della tipologia di soluzione impiantistica e delle modalità di strutturazione della filiera.

130 Matrice organica con elevata attitudine a fermentare in condizioni di anaerobiosi, rapporto Carbonio/Azoto com-preso tra 20 e 30, etc.

131 Effluenti zootecnici bovini, bufalini e suini.

132 Siero di latte di bufala, buccette di pomodoro, sansa vergine e scarti vegetali mercatali.

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La produzione di energia elettrica negli impianti è sicuramente l’aspetto maggior-mente remunerativo per la conduzione degli stessi e per il sostegno delle filiere, soprattutto alla luce degli incentivi stabiliti dalla Legge 99/2009, ma non vanno sottovalutati i benefici relativi alla contemporanea produzione di energia termica. Il recupero dell’energia termica al netto degli autoconsumi degli impianti, infatti, oltre all’indubbio vantaggio economico, consente di incrementare ulteriormente la quantità di emissioni climalteranti evitate me-diante l’impiego a fini energetici della biomassa, offrendo, inoltre, numerose possibilità di applicazione. Tra queste si ricordano l’impiego del calore in soluzioni di climatizzazione e condizionamento invernale ed estivo, eventualmente mediante teleriscaldamento o teleraf-frescamento, la produzione di acqua calda sanitaria o ulteriori impieghi in svariati processi produttivi. L’opportunità di disporre di ingenti quantitativi di energia termica (sotto forma di calore o di freddo133) consente l’abbattimento di costi e di emissioni inquinanti per le at-tività produttive localizzate nei pressi degli impianti (relative alla stessa attività aziendale o ad utenze limitrofe eventualmente presenti), ma può rappresentare un incentivo all’avvio di ulteriori processi produttivi, da considerarsi caso per caso. Esempi di utilizzo dell’ener-gia termica disponibile per attività connesse agli impianti a biomassa sono:

– impiego del calore prodotto per alimentare gli essiccatoi negli impianti di produzione del pellet;

– impiego del calore per i trattamenti termici nei caseifici ed impiego del freddo per la refrigerazione e la conservazione del latte a bassa temperatura;

– impiego nelle aziende conserviere (pomodoro, etc.) del calore per i trattamenti termici e del freddo per la refrigerazione e la conservazione delle conserve.

In realtà le possibilità di applicazione sono svariate e da valutarsi caso per caso, se-condo le specificità del contesto di riferimento ed in virtù di tale ragione, nella stima dei potenziali energetici ricavabili dai sottoprodotti esaminati, è stato considerato anche il contributo relativo all’energia termica.

Per la valutazione delle potenzialità energetiche riferibili alla filiera del biogas, è stato fatto riferimento ad un impianto134 di digestione anaerobica per la produzione di biogas abbinato ad un motore a ciclo Otto di tipo cogenerativo ed ad alto rendimento, le cui carat-teristiche tecniche principali a regime risultano le seguenti:

– ore annue di funzionamento: 7.800 – rendimento elettrico: 40% – rendimento termico: 43%.

Per il biogas, è stata ipotizzato un tenore in metano pari al 55%135.

Per la filiera lignocellulosica è stato considerato un impianto di cogenerazione con caldaia ad olio diatermico e turbogeneratore ORC (Organic Rankine Cycle) per la produ-zione combinata di energia elettrica e calore. Le caratteristiche tecniche considerate per l’impianto sono:

– ore annue di funzionamento: 6.000 – rendimento elettrico: 18% – rendimento termico: 79%.

Le stime hanno condotto ad individuare, per ogni substrato individuato, i seguenti valori di potenza elettrica e termica in Campania:

133 Ottenuto mediante trigenerazione attraverso l’impiego di specifici gruppi frigoriferi ad assorbimento.

134 Si è considerato un impianto di cogenerazione di tipo modulare (0,5MW÷1MW).

135 Per il metano è stato considerato un valore del potere calorifico inferiore pari a 8250 Kcal/Sm3 (m3 a pressione atmosferica ed alla temperatura di 15°C).

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per la filiera del biogas:

BiomassaPotenza elettrica installabile

(MWe)Potenza termica installabile (MWt)

reflui zootecnici bovini 17 18

reflui zootecnici bufalini 20,5 21,7

reflui zootecnici suini 3,7 3,9

siero 0,29 0,3

buccette di pomodoro 1,16 1,23

sansa vergine 3 3,2

scarti vegetali 0,06 0,06

totale 45,71 48,39

per la filiera lignocellulosica:

BiomassaPotenza elettrica installabile

(MWe)Potenza termica installabile

(MWt)

legna e sottoprodotti forestali 22 96

4.4.2 Organizzazione delle filiere

La valutazione della potenzialità energetica ricavabile dalle biomasse residuali con-siderate evidenzia che in Campania, in alcune aree in particolare, è concretamente pos-sibile l’avvio di progetti di filiera per la valorizzazione delle agroenergie quali “attività connesse”136 a quelle agricole.

La corretta articolazione delle filiere a monte degli impianti e l’opportuno posizio-namento e dimensionamento degli stessi, costituisce il punto cruciale per massimizzare i benefici ambientali, economici e sociali. Le filiere devono essere strutturate, inoltre, in modo da garantire la tracciabilità e la rintracciabilità delle biomasse ottenute nell’ambito di intese di filiera o contratti quadro137 (D.Lgs 102/2005 e DM MiPAAF del 12/05/2010), oppure di filiere corte, per un miglior controllo della qualità e della sostenibilità dei prodotti138.

Filiera del biogas

Per la produzione di energia da impianti a biogas mediante biomassa residuale agri-cola ed agro-industriale, è disponibile in Campania una potenzialità elettrica complessiva installabile di circa 45 MWe, cui corrisponde una potenzialità termica di circa 48 MWt, fortemente concentrata soprattutto in provincia di Caserta e Salerno. I soli reflui zootec-

136 Circolare n. 32/E del 6 Luglio 2009 dell’Agenzia delle Entrate.

137 Relativi alla stipula dei contratti di coltivazione e aventi per scopo, tra l’altro, la produzione, la trasformazione, la commercializzazione e la distribuzione di biomasse agricole.

138 Così come disciplinato dal recente decreto MIPAF del 2 marzo 2010 “Attuazione della legge 27 dicembre 2006, n. 296, sulla tracciabilità delle biomasse per la produzione di energia elettrica” (GU n. 103 del 5-5-2010).

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nici contribuiscono a circa il 90% di questo potenziale. Inoltre, gli ulteriori contributi che i singoli contesti locali, in relazione a vari comparti, possono apportare al potenziale com-plessivo lasciano immaginare che le potenzialità installabili possano risultare maggiori di quelle rilevate.

Ad ogni modo, la stima effettuata consente certamente di affermare che è possibile lo sviluppo di filiere destinate alla produzione di biogas in Campania mediante lo sviluppo di molteplici applicazioni impiantistiche di piccola-media taglia, che possano coniugare l’esigenza di valorizzare i sottoprodotti agricoli senza dover ricorrere a quantitativi troppo elevati di biomassa, consentendo di strutturare filiere corte locali garantendo, al contem-po, un conveniente tempo di ritorno dell’investimento. Inoltre, gli impianti di potenza elettrica non superiore ad 1 MWe139 possono beneficiare della tariffa omnicomprensiva di 0,28 €/kWh per 15 anni dalla data di entrata in esercizio dell’impianto, ed organizzare virtuosamente i flussi di materia in ingresso ed in uscita dall’impianto. Le taglie ottimali sono quelle che prevedono una potenza elettrica da circa 200 kWe140 a 1 MWe, in funzione del numero di capi di bestiame presenti e delle biomasse vegetali disponibili. Nel caso di aziende associate o consorziate che dispongono di maggiori quantitativi di materia prima si possono immaginare soluzioni anche con taglie superiori ad 1 MWe. Invece, nelle picco-le aziende è possibile prevedere soluzioni che installino una potenza inferiore ai 200 kW, ma in questi casi la remuneratività dell’investimento risulta minore. Pertanto, in questi casi, la realizzazione degli impianti risulta fattibile se si può beneficiare di contributi pub-blici141 o se la scelta è funzionale agli stessi indirizzi produttivi aziendali142; va considerata comunque la scarsa presenza sul mercato di soluzioni impiantistiche di tali taglie.

Impianti a biogas

La soluzione della codigestione di reflui zootecnici con la biomassa di origine vege-tale è una soluzione interessante, soprattutto nelle zone caratterizzate dalla presenza di numerosi allevamenti zootecnici e nelle aree vulnerabili ai nitrati di origine agricola143, e consente un notevole aumento in termini di produttività.

In Germania, paese leader nella produzione di biogas, oltre il 90% degli impianti utilizza scarti di origine animale (biomassa residuale) e vegetale (da biomassa residuale o dedicata) in soluzione di codigestione, in modo da assicurare buone rese energetiche e la riduzione delle emissioni climalteranti dovute agli effluenti zootecnici. In Italia, tale percentuale si attesta intorno al 50%, ma si tratta di una soluzione sempre più diffusa, soprattutto negli impianti più recenti.

In impianti di questo tipo, la vicinanza degli allevamenti alla sede dell’impianto con-sente di ipotizzare sistemi di trasferimento degli effluenti in continuo. Infatti, prevedendo

139 Biomasse e biogas derivanti da prodotti agricoli, di allevamento e forestali, inclusi i sottoprodotti ottenuti nell’am-bito di intese di filiera o contratti quadro (art. 9 e 10 del D.Lgs. 102/2005 e DM MiPAAF del 12/05/2010) o in filiere corte (Legge 99/2009, che per gli impianti a biogas di potenza superiore ad 1 MWe prevede che i certificati verdi siano calcolati moltiplicando i kWh prodotti per un coefficiente pari a 1,8, , senza distinzione per la filiera agricola).

140 Fino ai 250 kWe la realizzazione degli impianti non è sottoposta ad Autorizzazione Unica secondo il D. Lgs. 387/03 e le recenti Linee guida per l’autorizzazione alla costruzione e all’esercizio di impianti di produzione di elettricità da fonti rinnovabili, allegate al DM MiSe del 10 settembre 2010 n. 219.

141 Non eccedenti il 40% del costo dell’investimento, in conto capitale o conto interessi con capitalizzazione anticipata.

142 Necessità di energia termica ed elettrica in buone quantità per autoconsumo.

143 Deliberazione n. 700 del 18 febbraio 2003.

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nelle aziende sistemi meccanici di raccolta dei reflui, è possibile il trasferimento degli ef-fluenti liquidi (liquame e liquiletame) all’impianto mediante sistemi di condutture a parti-re dalle vasche di raccolta situate nelle aziende. In alternativa, gli effluenti liquidi possono essere conferiti all’impianto mediante carrobotte, in questo caso viene in genere prevista nell’impianto la realizzazione di una pre-vasca per lo stoccaggio dei liquami144. Nel caso di effluenti palabili (letame), gli effluenti possono essere trasportati all’impianto tramite rimorchi agricoli trainati da trattrici o altro sistema di trasporto su gomma tradizionale145 e conferiti all’impianto di digestione mediante sistemi di alimentazione, generalmente a coclea o più raramente a pistone.

Per la biomassa vegetale, il trasferimento della biomassa dai punti di prelievo avvie-ne generalmente mediante l’impiego di camion e/o rimorchi agricoli trainati da trattrici. I pretrattamenti della biomassa146, se necessari, possono essere effettuati, a seconda dei casi, sia nel punto di prelievo (in modo da ridurre i volumi e dunque il numero di camion da impegnare) o presso l’impianto stesso.

Vanno previsti, presso l’impianto, silos o trincee per lo stoccaggio della biomassa vegetale. L’alimentazione mediante biomassa del sistema di digestione avviene, general-mente, su base giornaliera, previa pesatura per consentire di effettuare bilanci di massa ed analisi dei substrati per verificare l’assenza di sostanze che possano inibire il processo di digestione anaerobica (alcune specie metalliche, disinfettanti, etc.).

La produzione del biogas a partire dalle biomasse avviene in appositi fermentatori (digestori anaerobici) al cui interno, in condizioni di anaerobiosi, mediante l’azione di gruppi microbici anaerobici in senso stretto o facoltativi, avvengono una serie di reazioni biochimiche147 che degradano la materia organica in sostanze gassose semplici (biogas148 costituito, in prevalenza, da metano - 40÷70% - e per la restante parte da anidride carbo-nica, oltre ad altri componenti in tracce).

144 Dotata di copertura a tenuta per evitare emissioni odorigene e collegata ai digestori mediante condutture.

145 Camion e/o autocarri a cassone ribaltabile dotati di copertura, etc.

146 Si tratta, essenzialmente, dello sminuzzamento della biomassa e dell’eliminazione di inerti grossolani, qualora presenti.

147 Il processo di fermentazione anaerobica può essere suddiviso in tre fasi differenti, strettamente interconnesse tra loro: idrolisi ed acidificazione, acetogenesi e metanogenesi. La terza ed ultima fase è quella propriamente metani-gena, nella quale avviene la formazione del metano.

148 Il biogas risulta idoneo all’impiego energetico per via della sua composizione. Infatti, l’elevato tenore di metano al suo interno fa sì che il biogas abbia un elevato potere calorifico (in proporzione al metano contenuto) che lo rende utilizzabile, opportunamente deumidificato e depurato, come combustibile per riscaldamento, trazione o produzione di energia elettrica. L’utilizzo a fini energetici del biogas presenta anche il grande beneficio di ridurre l’emissione in atmosfera di metano: gas con un effetto climalterante circa ventuno volte superiore a quello dell’ani-dride carbonica.

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Figura 4.12 - Trasformazione del substrato nel digestore

È proprio il contenuto di metano, combustibile ad elevato potere calorifico, che rende interessante il biogas dal punto di vista energetico.

Tabella 4.9 Composizione del biogas (concentrazioni su gas secco).

COMPONENTI PERCENTUALE

Metano (CH4) 40÷70 %

anidride carbonica (Co2) 20 ÷30 %

idrogeno solforato (H2S) 0,02 ÷ 0,2 %

Vapore d’acqua saturazione

idrogeno, ammoniaca tracce

ossigeno, azoto tracce

Per gestire il processo fermentativo anaerobico è necessario mantenere ottimali e stabili le condizioni operative, dato che la fase controllante l’intero processo, cioè la me-tanogenesi, risulta particolarmente sensibile alle variazioni ambientali del mezzo di rea-zione149. Per un corretto svolgimento del processo devono essere opportunamente valutati diversi parametri, quali i tempi di permanenza del substrato nel reattore, le concentrazioni dei microrganismi, le rese di produzione del biogas in relazione al volume del reattore e le caratteristiche del substrato trattato150.

Un sistema di monitoraggio e controllo permette la registrazione di tutti i dati relativi ai parametri di gestione del processo ed il controllo delle fasi operative, a partire dal carico delle matrici organiche fino alla produzione di energia elettrica e termica nel cogeneratore. I dati acquisiti (parametri di gestione del processo anaerobico, produzione di biogas, risul-tati dell’analisi del biogas, resa del gruppo di cogenerazione, produzione elettrica, autocon-

149 Di particolare importanza risultano parametri di stabilità del processo, quali il pH, la concentrazione di acidi grassi volatili, l’alcalinità, il rapporto tra acidi grassi volatili ed alcalinità, la produzione e composizione percen-tuale del biogas, la temperatura.

150 Contenuto di solidi totali, di solidi totali volatili, etc.

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sumo elettrico, etc.) consentono di effettuare, giornalmente, bilanci di massa del processo e bilanci economici ed energetici dell’impianto.

La complessità del processo di digestione anaerobica ha stimolato il ricorso a molte-plici configurazioni impiantistiche. Gli schemi di processo adottati, e dunque le tipologie di sistema di fermentazione, sono diversi e si differenziano in funzione della modalità di alimentazione delle biomasse nel reattore151, della gestione delle fasi biologiche152, del regi-me termico adottato153, del tenore di solidi nel substrato154.

Generalmente, per processi di tipo umido o semi-secco, vengono impiegati reattori a flusso continuo miscelato (CSTR) mentre nel processo a secco, data l’elevata densità e viscosità del materiale, si utilizza o un reattore continuo con flusso a pistone (PFR) o un reattore discontinuo (BATCH).

La soluzione impiantistica più diffusa, ad ogni modo, risulta quella che prevede lo svolgimento del processo in reattore continuo completamente miscelato (CSTR).

Per il recupero e lo stoccaggio del gas biologico prodotto deve essere prevista la re-alizzazione di un gasometro o l’impiego di cupole gasometriche a tenuta al di sopra dei digestori155, provvisti di torcia di sicurezza. Il biogas prodotto deve essere deumidificato e desolforato prima di essere inviato al gruppo di cogenerazione156, generalmente costituito da un motore endotermico a ciclo Otto157. Il gruppo cogenerativo consente la produzione di energia elettrica e di energia termica (calore recuperato dall’acqua di raffreddamento dei motori e dai fumi di scarico). L’energia elettrica può essere ceduta alla rete nazionale, al netto degli autoconsumi dell’impianto (in genere dell’ordine del 6%). L’energia termica viene in parte impiegata per il mantenimento delle condizioni termiche del sistema di fer-mentazione, e la restante parte può essere utilizzata per diversi impieghi (produzione di acqua refrigerata per il condizionamento o per processi industriali, riscaldamento di serre, realizzazione di impianti di essiccazione per varie applicazioni, il riscaldamento laghetti per piscicoltura, teleriscaldamento o altre applicazioni).

Mediante la digestione anaerobica si ottiene, oltre all’energia elettrica e termica, an-che un secondo prodotto, il digestato, effluente del processo che presenta interessanti ca-ratteristiche come fertilizzante e ammendante se impiegato nel rispetto dei piani di span-

151 Il processo può essere alimentato in modo continuo (reattore continuo miscelato o con flusso a pistone) oppure in modo discontinuo (reattore discontinuo o batch), entrambi con o senza ricircolo in testa al reattore.

152 I processi possono essere a fase unica, prevedendo l’utilizzo di un solo reattore, o a fasi separate, prevedendo l’impiego di due reattori.

153 I regimi termici adottati nella digestione anaerobica sono il mesofilo, il termofilo e lo psicrofilo (più raramente applicato). Essi sono riferibili all’attività biologica anaerobica, la quale è stata evidenziata in un ampio intervallo di temperatura (–5 ÷ +70 °C). Le differenti specie microbiche crescono e si moltiplicano in maniera ottimale in diversi intervalli termici. Pertanto si distinguono microrganismi psicrofili (temperature inferiori a 20 °C), mesofili (temperature comprese tra i 20 °C ed i 40 °C) e termofili (temperature superiori ai 45 °C). Nei processi di digestione anaerobica in regime mesofilo, le migliori produzioni di biogas si osservano in intervalli di temperatura compresi tra i 30 ed i 35 °C, mentre nel caso di processi termofili l’intervallo varia tra i 40 ed i 60 °C. In generale si può osser-vare che, all’interno dell’intervallo considerato, la produzione di biogas e la rimozione di substrato incrementano all’aumentare della temperatura.

154 In funzione del contenuto dei solidi nel reattore, si può parlare di processo umido (contenuto di solidi totali: < 10%), semi-secco (contenuto di solidi totali: 10÷20%) o secco (contenuto di solidi totali: > 20%).

155 Gasometro a campana o a membrana.

156 In alcuni casi vanno effettuati anche trattamenti per la rimozione o riduzione del contenuto di anidride carboni-ca, anche se sono disponibili in commercio motori che non necessitano di questo trattamento aggiuntivo in quanto utilizzano biogas con valori del Potere Calorifico Inferiore di circa 5 kWh/Nm³.

157 Questo tipo di motori presenta, a pieno carico, rendimenti elettrici di circa il 40% e rendimenti termici fino al 43%, dunque un rendimento complessivo di circa l’83%.

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dimento e delle regole di buona pratica agronomica158. Questo, che in impianti CSTR corri-sponde circa all’80% in peso delle quantità in ingresso, esce dall’impianto stabilizzato159 e con un notevole abbattimento delle emissioni odorigene, conservando tuttavia il contenuto di elementi nutritivi e restando, dunque, un ammendante di alta qualità. Pertanto, esso può essere destinato ad impiego agronomico, anche se la normativa vigente risulta piutto-sto controversa e contraddittoria circa la classificazione del digestato quale ammendante di qualità, sottoprodotto o rifiuto160.

Oltre a quelle descritte finora, per la realizzazione di un impianto a biogas devono essere previste ulteriori opere accessorie161.

Impianto tipo a biogas

Per alimentare un impianto a biogas che consenta di installare una potenza elettrica di circa 530 kWe, in ipotesi di codigestione di reflui zootecnici e biomassa vegetale resi-duale, ipotizzando impiegare un sistema di digestione anaerobica CSTR ed un substrato in ingresso composto, in riferimenti al peso, per circa i due terzi da residui vegetali e per il restante terzo da effluenti zootecnici bufalini o bovini, le quantità in ingresso su base annua corrispondono a circa:

– 21.500 t di biomassa vegetale residuale162 agricola o agroindustriale; – 10.000 t di deiezioni zootecniche, prodotte da oltre 1.000 capi di bestiame.

Tali quantità consentono la produzione di biogas annua pari a circa 1.950.000 m3.

Si prevede un periodo di funzionamento dell’impianto di cogenerazione pari a circa 7.800 h/anno, con una portata oraria di biogas pari a circa 250 m3/h a pieno carico163.

Dalla biomassa di partenza, dunque, saranno prodotti circa 5.340 m3 di biogas al giorno, con un tenore pari a circa il 55% in metano e con un potere calorifico inferiore pari a oltre 4,5 kJ/m3.

L’impianto di fermentazione, essendo a processo continuo CSTR, necessita di alimen-tazione continua: ogni giorno l’alimentatore caricherà nel fermentatore oltre 86 t di biomas-sa, di cui oltre 27 t/die corrispondono a reflui zootecnici e quasi 59 t/die a residui vegetali.

La tabella riporta i fattori di carico, le rese e la produttività del processo riferiti ad un giorno.

158 Infatti, prove sperimentali di campo hanno dimostrato che non ci sono differenze tra effluente di allevamento conservato in vasche di stoccaggio e effluente di allevamento digerito anaerobicamente per quanto riguarda la potenzialità a fornire azoto per la crescita delle colture. L’alta concentrazione di azoto ammoniacale presente nel digestato comporta tuttavia la necessità di distribuzione in pre-semina con immediato interramento per limitare le perdite di volatilizzazione dell’ammoniaca.

159 Spesso vengono previsti ulteriori trattamenti per la stabilizzazione dell’effluente in uscita dall’impianto.

160 Si noti che tale questione appare contraddittoria, dato che i processi di compostaggio (digestione aerobica) risul-tano ampiamente diffusi, appunto con lo scopo di produrre fertilizzante biologico.

161 Principalmente: cabina elettrica e connessioni, strade di accesso e piazzali, allacciamento utenze (idriche, elet-triche e telefoniche), sistema di illuminazione, recinzioni, sistemazione a verde delle aree esterne.

162 Ipotizzando il ricorso a colture dedicate, a parità di produttività, è possibile ricorrere a quantitativi minori di bio-massa vegetale in ingresso all’impianto data la maggiore resa energetica che contraddistingue le colture dedicate di più largo impiego (mais, sorgo, triticale, etc). Per sostituire il contributo della biomassa vegetale residuale con colture energetiche sarebbero necessarie, ad esempio circa 15.000 t/anno di insilato di mais, corrispondenti alla produzione di 250 ha di terreno coltivati a silomais irriguo.

163 Si considera un gruppo di cogenerazione che a pieno carico presenti un rendimento elettrico del 40÷4% ed un rendimento termico del 42,9%.

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Tabella 4.10 – Valori medi giornalieri in riferimento a un fattore di carico al cogeneratore dell’89% annuo.

RESE BIOMASSA Reflui bufalini/bovini Insilato di mais

portata (t/die) 27 59

Concentrazione materia secca (%) 15 25

Concentrazione materia secca organica (%) 80 86

portata materia secca organica (kg/die) 3.244 12.519

Resa in biogas (m3/t o.S.t.) 255 390

produzione biogas (m3/giorno) 830 4.510

Concentrazione di metano nel biogas (%) 55% 55%

Tabella 4.11 – Produttività dell’impianto e potenze installate.

PRODUTTIVITA’

Nm3 di biogas prodotto al giorno (reflui zootecnici) 830

Nm3 di biogas prodotto al giorno (mais) 4.510

Nm3 di biogas prodotto al giorno in totale 5.340

Nm3 di biogas prodotto all’anno in totale 1.950.000

Nm3 di metano prodotto all’anno in totale 1.072.500

Energia termica prodotta all’anno (KWh) 4.400.000

Energia elettrica prodotta all’anno (KWh) 4.140.000

potenza termica installata all’anno (KW) 564

potenza elettrica installata all’anno (KW) 530

Per quanto riguarda i costi ed i ricavi dell’investimento, si considerano come flussi di cassa le voci attive e passive di seguito riportate.

Voci passive:

– realizzazione della linea di fermentazione; – acquisto ed installazione del gruppo di cogenerazione; – costo di beni e infrastrutture (acquisto terreno164, realizzazione trincee, acquisto pesa

e trasformatore, movimento terra e varie, sistemazione a verde); – costi accessori (progettazione, allacciamenti e utenze, imprevisti); – costi di gestione annuali (manutenzione sistema di fermentazione e gruppo di cogene-

razione, assicurazione e service impianto, carburante, approvvigionamento e lavora-zione substrati, monitoraggio del processo biologico, manodopera, conferimento/spar-gimento digestato165, imprevisti).

Voci attive:

– vendita dell’energia elettrica prodotta (tariffa omnicomprensiva per impianti a biomas-sa o biogas di potenza elettrica inferiore ad 1 MWe pari a 0,28 €/kWh per 15 anni);

– vendita dell’energia termica prodotta al netto degli autoconsumi (prezzo di vendita dell’energia termica: 0,04 €/kWh).

164 Ci si riferisce al terreno per l’ubicazione dell’impianto (1 ha).

165 Si ipotizza il possesso di terreni per lo spandimento del digestato

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Per l’analisi dei costi relativi all’impianto in questione, devono essere considerati sia i costi fissi che quelli variabili. I costi fissi sono riportati in tabella 4.12 e quelli variabili in tabella 4.13.

Tabella 4.12 – Costi fissi relativi alla realizzazione dell’impianto

VOCI DI COSTO Euro

linea di fermentazione 1.100.000

Gruppo di cogenerazione 550.000

Costi accessori (costruzione) 150.000

Costi beni e infrastrutture 270.000

Costo impianto 2.060.000

Tabella 4.13 – Costi variabili annui di gestione dell’impianto

Voci di costo Euro/anno

Costi variabili annuali 430.000

Manutenzione impianto biogas 25.000

Manutenzione impianto di cogenerazione* 65.000

assicurazione e service impianto 40.000

Carburante 20.000

Costo conferimento/spargimento digestato 10.000

Costi di lavorazione ed approvvigionamento substrati 200.000

Monitoraggio processo biologico 5.000

Manodopera 30.000

Costo alimentazione linea di fermentazione 10.000

imprevisti e spese varie 25.000

* Per la manutenzione del gruppo cogenerativo è stato considerato un costo full service pari a 0,015 €/KWh.

In tabella 4.14 si riporta la quantificazione annuale dei ricavi annuali realizzati.

Tabella 4.14 – Ricavi annui

Ricavi Euro/anno

Ricavi annuali 1.182.300

Ricavo vendita calore* 102.300

tariffa omnicomprensiva energia elettrica** 1.088.000

* Per i ricavi provenienti dalla vendita dell’energia termica è stato considerato un autoconsumo in impianto pari ad oltre il 42% dell’energia termica prodotta e un prezzo di vendita per la restante energia termica pari a 0,04 €/KWh.

** Per i ricavi provenienti dall’energia elettrica prodotta è stato considerato quale sistema di incentivazione la tariffa omni-comprensiva pari a 0,28 €/KWh prevista per 15 anni dalla legge 99/09 per impianti di potenza elettrica non superiore a 1 MW alimentati a biomasse e biogas, senza distinzione per la filiera agricola (pur basandosi l’impianto in questione su filiera corta). L’autoconsumo elettrico considerato per l’impianto a biogas è pari al 6%: per tale quantità di energia elettrica non è stata, naturalmente, calcolato ricavo da meccanismo incentivante.

L’investimento presenta un Pay Back Period166 compreso tra i quattro ed i cinque anni, tale valore indice passa a sei anni se non si tiene conto dei proventi ottenibili per la

166 PBP: numero di anni necessari a ripagare il costo sostenuto, calcolato nell’ipotesi ipotizzando di stipulare un mu-tuo della durata di otto anni per il totale dell’investimento, considerando un tasso annuo di interesse pari al 6%.

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vendita del calore prodotto.

Il tempo di ritorno dell’investimento risulta più lungo se si ipotizza di impiegare, piut-tosto che biomassa residuale, matrici provenienti da colture energetiche dato che, in tal caso, tra i costi variabili annuali dovrà considerarsi un maggiore prezzo di acquisto delle materie prime oppure il costo di produzione delle stesse.

Altri impieghi del biogasIn sintesi, il biogas può essere convertito in energia con diverse modalità e per diffe-

renti impieghi:

– produzione di calore sotto forma d’acqua calda, di vapore o d’aria calda, per il riscal-damento, l’essiccazione e per diversi processi industriali. Rendimento medio: 80÷90%.

– produzione di elettricità, generalmente con motori a gas, eventualmente con turbine a vapore o turbine a gas (a combustione interna) per gli impianti di maggiore capacità. Rendimento medio: 30÷40%;

– produzione combinata di calore e di elettricità (cogenerazione). Rendimento medio: 80÷85%, 43% per calore e 40% per elettricità.

Esistono anche altre filiere tecnologiche emergenti, quali:

– produzione di carburante (biometano167) per veicoli dotati di impianto a metano; – produzione di gas naturale biologico (biometano) per iniezione nella rete pubblica di

trasporto e distribuzione; – produzione di freddo, per esempio con macchine ad assorbimento (industrie agroali-

mentari); – utilizzo in forni industriali come combustibile primario o ausiliario.

Si sottolinea che, recentemente, la produzione di biometano da biogas per immissio-ne in rete, per utilizzo come combustibile per il riscaldamento o come biocarburante sta conoscendo un forte interesse da parte di alcuni Paesi del Nord Europa. L’Italia presenta buone potenzialità in questo settore, ma per stimolare la produzione di biometano sareb-be necessaria la predisposizione di norme168 e di meccanismi incentivanti, come nel caso della generazione elettrica da biogas. Infatti, anche l’ulteriore processo di filtrazione che il biogas deve subire per ottenere biometano, non ne consente la competitività sul mercato in assenza di specifici incentivi.

Filiera lignocellulosica

Ai fini della conversione dei sottoprodotti forestali, in Campania risulta installabile una potenzialità elettrica complessiva pari a circa 22 MWe ed una potenzialità termica di circa 96 MWt, disponibile principalmente nella provincia di Salerno e di Avellino. In realtà, sarebbe possibile recuperare anche ulteriori quantitativi di biomassa lignocellulosica resi-duale dagli scarti di potature169 delle colture arboree che spesso costituiscono un prodotto di cui disfarsi o, comunque, scarsamente valorizzato. Anche il comparto dell’agroindustria può fornire biomassa residuale (residui di lavorazione della frutta secca in guscio, raspi e vinacce, scarti di lavorazione del legno vergine, etc.).

167 O gas naturale sintetico (SNG), biocombustibile di seconda generazione.

168 Al fine di regolamentare la produzione, standardizzazione e distribuzione del biometano.

169 Vigneti, oliveti, frutteti, verde pubblico, etc.

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Inoltre, va tenuto conto dei contributi che possono apportare le colture dedicate (in particolare le SRF) impiantate in aree marginali o nelle quali non sussistano le condizioni agro-ambientali per coltivazioni per uso alimentare.

Con il termine biomassa lignocellulosica si intende una gamma di materiali molto vasta, residuali o da colture dedicate, che possono presentare differenti caratterizzazioni chimico-fisiche e poteri calorifici. In funzione della tipologia di biomassa, della taglia di interesse e degli usi finali dell’energia prodotta, possono essere individuate le soluzioni tecnologiche di conversione energetica più appropriate.

Le tipologie di combustibili solidi che si ottengono dalla biomassa legnosa sono il cippato, il pellet e le bricchette170.

Il cippato o chips di legno (wood chips) può essere ottenuto sia da prodotti forestali che agricoli (potature) mediante apposite macchine cippatrici171, a seguito di raccolta172 degli stessi. La biomassa cippata viene caricata, mediante pala meccanica o atro mezzo, su camion per il trasporto dal punto di prelievo al sito di stoccaggio, dove può essere sottopo-sta ad essiccazione per ridurne il contenuto di umidità prima della conversione energetica.

Il pellet può essere ottenuto da biomassa forestale, potature, colture a rapido ac-crescimento (SRF), scarti di legno vergine o anche residui agricoli, anche se questi ultimi risultano meno utilizzati173. La biomassa viene raccolta e movimentata mediante trattrici o altre macchine, sottoposta ad una prima fase di triturazione, essiccata, triturata in par-ticelle fini e pressata mediante macchine pellettizzatrici174.

Le bricchette, analogamente al pellet, possono essere prodotte attraverso biomassa forestale, potature di colture arboree, residui di legno vergine e scarti agricoli lignocellulo-sici175. La bricchettatura può avvenire mediante macchine ad alta, media e bassa pressio-ne, anche se queste ultime prevedono in genere l’impiego di leganti, a differenza di quelle ad alta pressione176.

Impianti di conversione energetica della biomassa lignocellulosica

Per la trasformazione energetica della biomassa lignocellulosica sono impiegati pro-cessi termochimici, generalmente la combustione177 e la gassificazione178, mentre la piroli-

170 In alcune caldaie si riesce ad impiegare con buone rese complessive anche la corteccia; la legna in ciocchi tal qua-le viene ancora, in genere, riservata alla produzione di energia termica data la difficoltà di carica automatizzata della stessa.

171 Le macchine cippatrici, in genere, sono di tipo a disco, a tamburo o a vite.

172 Nella fase di raccolta, in genere, per i prodotti forestali si può impiegare una pala meccanica mentre per le pota-ture possono utilizzarsi macchine rotoimballatrici o trincia-caricatrice trainate da trattori agricoli.

173 Vengono impiegati per lo più in caldaie policombustibile, generalmente di piccola taglia, per la produzione di energia termica, generalmente di piccola taglia.

174 Le pellettizzatrici possono essere, in funzione della disposizione e forma della trafila nel telaio: a trafila piana o cilindrica verticale.

175 Come i gusci di noce e nocciolo.

176 Che possono essere a pistone o a vite.

177 La combustione è una reazione chimica in cui una sostanza (combustibile) si combina con un comburente (ossi-geno dell’aria) sviluppando calore, con sviluppo di calore.

178 Si tratta di un processo in cui avviene, ad elevata temperatura (superiore agli 800°C), l’ossidazione incompleta di un combustibile ai fini della produzione di un gas (syngas) a basso o medio potere calorifico inferiore (variabile tra 4.000 ed i 14.000 KJ/Nm3).

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si179 risulta ad oggi ancora riservata ad applicazioni sperimentali o di nicchia.

Combustione - La combustione della biomassa avviene in sistemi che prevedono la dosatura dell’aria e del combustibile, l’accensione, il mantenimento della fiamma e la sua regolazione all’interno della camera di combustione, la volatilizzazione e movimentazione del combustibile e la gestione dei residui del processo (ceneri).

Le tecnologie più diffuse risultano essere:

– combustori a griglia180; – combustori rotanti181; – combustori in sospensione182; – combustori a letto fluido183.

La conversione energetica del calore prodotto mediante il processo di combustione in sistemi cogenerativi184 può avvenire mediante:

– impianti a vapore acqueo a turbina; – impianti a vapore acqueo a pistone o vite; – impianti a fluido organico (ORC – Organic Rankine Cycle); – turbine a gas a combustione esterna; – motori Stirling.

Di questi, le turbine a vapore185 sono normalmente impiegate per applicazioni di ta-glia comprese tra i 2 ed i 10 MW, più economici risultano gli impianti a bassa pressione con espansore volumetrico a pistone e gli impianti ORC. I motori Stirling, ancora in fase pre-commerciale, risultano maggiormente idonei alla microgenerazione (potenze comprese, in genere, tra i 5 ed i 100 kW).

Particolarmente interessanti per applicazioni in ambito agro-energetico risultano gli impianti ORC, dato l’elevato rendimento globale in applicazioni cogenerative, l’affidabilità e la limitata manutenzione, ma soprattutto la maturità di mercato e la possibilità di dispor-re di soluzioni di piccola-media taglia 186, idonee per organizzare filiere corte.

Gassificazione - La gassificazione è un processo che trasforma, a mezzo di agenti gassificanti (aria, ossigeno, vapore), un combustibile solido in un combustibile gassoso (gas di gasogeno) attraverso una combustione incompleta. Il processo avviene ad elevata temperatura (superiore agli 800°C). Il gas ottenuto è composto in massima parte da azoto, idrogeno, monossido di carbonio, biossido di carbonio e metano.

Nel caso delle biomasse lignocellulosiche, la trasformazione di queste in un combu-stibile gassoso consente diverse applicazioni successive, dato che un gas può essere più semplicemente combusto, stoccato o trasportato. Gli impianti di gassificazione della bio-

179 Processo di decomposizione termochimica di materiali organici, ottenuto mediante applicazione di calore a tem-perature comprese tra 400 e 800°C, in assenza di agenti ossidanti. I prodotti della pirolisi sono sia gassosi, sia liquidi, sia solidi, in proporzioni che dipendono dai metodi di pirolisi (pirolisi veloce, lenta, o convenzionale) e dai parametri di reazione.

180 La griglia può essere fissa o mobile per consentire l’avanzamento del combustibile durante il processo di combu-stione.

181 A tamburo rotante, dotato di inclinazione tale da favorire l’avanzamento del materiale.

182 Si utilizza combustibile polverizzato che viene combusto mediante un flusso di aria calda.

183 Nei quali la biomassa, ad elevate temperature, viene incenerita su di un letto di sabbia silicea (o altro inerte), mantenuto in sospensione (fluido) da un flusso d’aria distribuito dalla base del letto.

184 Si tralasciano i sistemi tradizionali impiegati per la sola climatizzazione residenziale (caldaie a pellet, a cippato, a bricchette e gusci di nocciolo).

185 Ciclo Rankine o Rankine-Hirn.

186 A partire dai 200÷400 kW fino ai 3 MW.

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massa possono collocarsi tra quelli di piccola-media taglia, consentendo di implementare filiere in funzione di minori distanze dai punti di prelievo della materia prima, dunque maggiormente sostenibili sotto il profilo sia economico che ambientale.

Questa tecnologia, seppur non considerata ancora commercialmente matura, sta di recente conoscendo un maggiore sviluppo.

In generale, il gas di gassificazione può essere bruciato per la produzione di calore, impiegato in motori a combustione interna per applicazioni di tipo cogenerativo o relative ad i trasporti, oppure può essere utilizzato come materia prima per la produzione di me-tanolo, idrogeno o combustibile sintetico da processo Fischer-Tropsch187, ovvero biocom-bustibili di seconda generazione. Questi ultimi, ai quali la Commissione Europea sta de-dicando attenzione, essendo derivabili da biomasse lignocellulosiche residuali (ramaglie, potature, paglie, etc.) anziché da colture oleaginose come i biocarburanti di prima genera-zione, non sono in competizione con l’agricoltura food, anche se le relative tecnologie sono ancora piuttosto lontane dalla maturità commerciale.

Di seguito si riporta un esempio di impianto alimentato a biomassa lignocellulosica. Nello specifico, è stato fatto riferimento alla tecnologia ORC (Organic Rankine Cycle) la quale, abbinata al processo di combustione della biomassa, consente la produzione combi-nata di energia elettrica e calore.

La biomassa, ad esempio il cippato ottenuto da sottoprodotti forestali o da potature, viene bruciata in una caldaia188 con produzione di calore, consentendo al fluido termovet-tore che alimenta il gruppo ORC, in genere olio diatermico, di raggiungere la temperatura di circa 300°C. Il fluido organico, ricevendo calore dall’olio diatermico, viene convertito in vapore e fatto espandere in una turbina collegata ad un generatore elettrico. A seguito dell’espansione, il vapore surriscaldato del fluido viene fatto raffreddare e condensare, re-cuperando energia termica a 70÷80°C, e rinviato all’evaporatore. L’energia termica recu-perata, insieme a quella derivante dai fumi di combustione, può essere impiegata per varie applicazioni successive189.

Il ciclo ORC consente la produzione di energia elettrica con un rendimento dell’ordi-ne del 15÷18 % e di energia termica con un rendimento circa del 70÷80 %, dunque con un rendimento globale molto interessante.

Questa tecnologia risulta idonea per applicazioni di piccola-media taglia190 e presen-ta, oltre all’elevata efficienza complessiva, altri vantaggi quali: i costi operativi contenuti, la poca necessità di manutenzione, la lunga vita dell’impianto191, la semplicità di gestione, l’affidabilità del sistema e le buone prestazioni di lavoro ottenibili anche a carico parziale. Inoltre, la recente standardizzazione e produzione in serie degli impianti a ciclo Rankine organico ha comportato una riduzione dei costi di investimento. I moduli più richiesti dal mercato vanno dai 400 kWe ad oltre 1 MWe.

Per alimentare un impianto di tipo ORC di potenza elettrica pari a 600 kWe sono

187 Il biodiesel e la nafta prodotti da sintesi Fischer-Tropsch presentano alta qualità e potrebbero essere impiegati per abbattere le emissioni di inquinanti del settore agricolo, caratterizzato da un parco macchine obsoleto.

188 In genere a griglia inclinata mobile. In alcuni casi può essere prevista, prima dell’ingresso del materiale ligno-cellulosico in caldaia, una fase di essiccazione per abbattere il contenuto di umidità della biomassa, in genere dell’ordine del 50%.

189 Alimentazione di reti di teleriscaldamento ed altri impieghi quali l’essiccazione del legno, il raffrescamento me-diante gruppi ad assorbimento, etc.

190 Non appare conveniente superare impianti con potenza elettrica superiore ad 1,5 MW dato che, altrimenti, sareb-be difficile fornire a delle utenze l’energia elettrica prodotta.

191 Il fluido di lavoro non comporta problemi di corrosione.

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necessarie circa 10.500 t/anno di biomassa cippata t.q.. È stato considerata una soluzione di cogenerazione e di valorizzazione dell’energia termica prodotta192.

Per l’impianto è stato considerato un funzionamento per 7.000 ore/anno, un rendi-mento elettrico del 18%, un rendimento termico del 79%.

Tabella 4.15 – Impianto ORC: alimentazione, produzione energetica e potenze installate.

IMPIANTO ORC Unità Quantità

tonnellate di biomassa t di cippato 10.500

Energia termica prodotta all’anno KWh 10.920.000

Energia elettrica prodotta all’anno KWh 4.200.000

potenza termica installata all’anno KW 2.600

potenza elettrica installata all’anno KW 600

I costi ed i ricavi considerati per l’investimento sono relativi alle seguenti voci attive e passive:

Voci passive:

– acquisto ed installazione della caldaia ad olio diatermico e del turbogeneratore ORC, opere accessorie;

– costo di beni e infrastrutture (acquisto terreno, realizzazione stoccaggi, acquisto pesa e sistema di alimentazione);

– costi accessori (progettazione, allacciamenti e utenze, imprevisti) e varie; – costi di gestione annuali (manutenzione caldaia e turbogeneratore, assicurazione e

service impianto, manodopera, approvvigionamento e lavorazione biomassa, carbu-rante, imprevisti e spese varie).

Voci attive:

– vendita dell’energia elettrica prodotta (tariffa omnicomprensiva per impianti a biomas-sa o biogas di potenza elettrica inferiore ad 1 MWe pari a 0,28÷/kWh per 15 anni);

– vendita dell’energia termica prodotta al netto degli autoconsumi (prezzo di vendita dell’energia termica: 0,04÷/kWh).

Le voci di costo (costi fissi e variabili) considerate sono riportati nelle tabelle 4.16 e 4.17.

Tabella 4.16 – Costi fissi relativi alla realizzazione dell’impianto.

VOCI DI COSTO Euro

Caldaia ad olio diatermico 1.200.000

turbogeneratore oRC 1.000.000

Costi beni e infrastrutture 550.000

Costi accessori 150.000

Spese varie 200.000

Costo impianto 3.100.000

192 Si considera una produzione utile di energia termica per circa 4.200 ore/anno

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Tabella 4.17 – Costi variabili annui di gestione dell’impianto

Voci di costo Euro/anno

Costi variabili annuali 560.000

Costi manutenzione impianto 50.000

assicurazione e service impianto 20.000

Manodopera 40.000

Costi approvvigionamento biomassa 400.000

Carburante 30.000

imprevisti e spese varie 20.000

Tabella 4.18 – Ricavi annui.

Ricavi Euro/anno

Ricavi annuali 1.565.760

Ricavo vendita calore* 436.800

tariffa omnicomprensiva energia elettrica* 1.128.960

* Si è considerato un autoconsumo in impianto pari a circa il 40% dell’energia termica prodotta e un prezzo di vendita per la restante energia termica pari a 0,04 €/KWh.

** Per i ricavi provenienti dalla vendita dell’energia elettrica prodotta, è stato fatto riferimento alla tariffa omnicomprensiva pari a 0,28 €/KWh prevista per 15 anni dalla legge 99/09 per impianti di potenza elettrica non superiore a 1 MW alimentati a biomasse e biogas. L’autoconsumo elettrico considerato per l’impianto è pari al 4%.

Il tempo di ritorno dell’investimento193 risulta compreso tra i cinque ed i sei anni.

Per la conversione energetica del cippato di legna in impianti di piccola-media taglia, oltre alla tipologia impiantistica descritta, possono essere impiegati reattori di gassificazio-ne abbinati a motori endotermici CHP. In generale, anche se tale tecnologia presenta varie soluzioni progettuali194, un impianto di gassificazione che alimenta un motore a combu-stione interna di potenza elettrica pari a 600 kW in soluzione di cogenerazione195 presenta un tempo di ritorno dell’investimento confrontabile, o leggermente superiore, con quello valutato per un impianto ORC della stessa potenza elettrica196.

193 Anche in questo caso, come per l’impianto a biogas, si è ipotizzando di stipulare un mutuo per otto anni per il totale dell’investimento (un tasso annuo di interesse: 6%).

194 In funzione della tipologia di reattore, della tipologia di agente gassificante, etc., cui corrispondono diverse rese produttive ed assetti impiantistici.

195 Se la conversione energetica del gas di gassificazione avviene in motori endotermici a ciclo Otto CHP, generalmen-te la potenza termica corrispondente è pari a circa 650 kWt.

196 Diverse risultano le quantità di energia elettrica e termica prodotte, in relazione agli specifici rendimenti, nonché le quantità di cippato in ingresso e le caratteristiche tecniche dell’impianto, ma in generale per le due tecnologie impiantistiche considerate l’investimento risulta sostenibile.

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107

Capitolo V

La reaLIzzazIone dI un dIstretto agroenergetIco In campanIa: costruzIone dI un modeLLo teorIco

dI rIferImento

5.1 - Territorio, risorse, distretto e filiera come capitale per l’implementazione di un progetto agroenergetico

Trattare il tema della produzione di energia, piuttosto che analizzare il significa-to di concetti di sostenibilità o autosufficienza energetica dei territori, è questione assai complessa, foriera di mille e una difficoltà interpretative, che racchiudono in sé riflessioni relative ai più disparati campi del sapere e del progresso scientifico e tecnologico attuale.

Pertanto, la ricostruzione del quadro sociale, economico, politico e culturale in cui i propri protagonisti decidono di orientarsi verso un determinato tipo di bilancio energeti-co – di virare cioè verso una cosiddetta rivoluzione verde197 – dà origine ad un insieme di interdipendenze in cui le fasi di studio, progettazione ed attuazione sono caratterizzate da un complesso sistema multidisciplinare in cui le risorse rinnovabili possono trasformarsi in energia solo se il sistema di governance locale lo consente. Ciò accade per un duplice motivo:

– in primo luogo il tema delle energie è, come già delineato, strettamente connesso a quello dell’ambiente, nel senso che non è più possibile operare, in maniera del tutto manichea, nessuna separazione tra dimensione energetica e ambiente, connotando della maggiore onnicomprensività possibile il significato di quest’ultimo termine.

In tal senso solo la governance locale può decidere quale sia il giusto bilanciamento tra fabbisogno energetico, risorse disponibili e tutela di biodiversità.

– In secondo luogo, invece, la maturazione stabile di un approccio combinato tra produ-zione di energia/salvaguardia ambientale all’interno delle fasi dell’agire politico, signifi-ca che gli stessi territori e le comunità locali devono farsi carico della programmazione politico-previsionale e della erogazione gestionale-economica di vere e proprie politi-che energetiche, coordinate tra i vari attori, al fine di determinare pratiche condivise

197 A livello scientifico con il termine rivoluzione verde si intende fare riferimento ad un processo generale di inno-vazione delle tecniche agrarie, al fine di consentire uno straordinario aumento delle produzioni agricole. Tali dinamiche, sviluppate in particolare dal premio Nobel scienziato americano Norman Borlaug, hanno riguardato per lo più i paesi in via di sviluppo, allo scopo di combattere le gravissime condizione di sottoalimentazione delle popolazioni ridotte in condizioni di carestia. Dal punto di vista strettamente scientifico, la rivoluzione verde consiste in un insieme combinato di interventi (accoppiamento di specie vegetali, loro modificazione genetica, parcellizzazione delle dosi di acqua, fertilizzanti di nuova generazione, utilizzo di prodotti agrochimici accre-scitivi) che determina l’incremento produttivo della specie vegetale identificata. Fatta salva tale premessa di significato scientifico attinente prevalentemente al campo delle scienze agrarie, nel paragrafo sin qui delineato, il termine rivoluzione verde è utilizzato in un’accezione ben più ampia, relativa alla rappresentazione di prassi, comportamenti e decisioni che pongono al centro la tutela dell’ambiente. Più nello specifico, l’aggettivo verde indi-ca ciò che è “amico” dell’ambiente e, nel campo delle energie rinnovabili, sta a rappresentare tutte le tecnologie e i sistemi di produzione energetica che non implicano l’utilizzo delle fonti fossili inquinanti. Per l’approfondimento del concetto si veda Saltini A., Tra storia e futuribile: dalla prima alla seconda rivoluzione verde, Rivista di Storia dell’Agricoltura, XLI, n.1, giugno 2001.

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108

che nascano dalla consapevolezza di dover accogliere le differenti istanze che gli ope-ratori economici e le comunità residenti esprimono di volta in volta.

La realizzazione di un distretto agroenergetico in Campania richiede necessariamente la formulazione di una serie di riflessioni, al fine di evidenziare le complessità che, sia teoricamente sia praticamente, si sommano all’interno di un progetto multivaloriale e multisettoriale. Ciò vuol dire analizzare i diversi aspetti che concorrono all’attuazione di un distretto agroenergetico: trattasi per lo più, di un’analisi teorica, caratterizzata cioè dalla proposta di un modello concettuale, da applicare successivamente in pratica, pervenendo a determinare tutte le corrispondenze e i collegamenti tecnici, strumentali ed economici necessari per l’implementazione di un progetto dal valore anzitutto territoriale. Per questo, i linkages istituzionali, l’analisi degli stakeholder, il ruolo della governance – solo per citare gli elementi fondamentali – sono considerati come fattori scomponibili, singolarmente individuabili, separabili ed analizzabili, da includere solo in seconda battuta nell’alveo di una riflessione più organica, di sistema.

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109

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110

Il primo e più importante ragionamento da formulare, come evidenziato anche nella tabella precedente, riguarda il territorio, colto nella sua accezione di multi significato, in cui e da cui si originano, sia in maniera data e storicamente sedimentata, sia attraverso un continuo processo deterministico in divenire – le risorse, le peculiarità che rendono possibile l’attuazione di uno specifico progetto.

A tal proposito, partendo dall’obiettivo della realizzazione di un distretto agroener-getico in Campania, incentrato sulla strutturazione di una filiera per la produzione e l’ero-gazione localizzata di fonti energetiche alternative, in primis derivanti da biomasse, ai fini della nostra analisi si rivela particolarmente significativo superare il problema definitorio relativo ai termini della questione in oggetto. Definire in via introduttiva che cosa è il ter-ritorio, quali sono le risorse localizzate da attivare, quali e quanti comportamenti devono osservare gli stakeholders, vuol dire concretamente determinare un orientamento generale da seguire, canalizzare le possibilità e le volontà di attuazione di un progetto in un unico schema logico da applicare solo successivamente al modello teorico predefinito. Se si parte da questa base comune, sarà poi possibile pervenire ad altre specificazioni attraverso le quali contestualizzare maggiormente il contenuto di quei fattori che, in maniera combina-ta, concorrono all’attuazione del progetto.

Il territorio/I – Sin qui abbiamo definito il territorio come la sede fisica e geografica ove implementare il progetto, partendo da una valutazione di quelli che sono definiti come fattori di localizzazione (risorse), disponibili in maniera sparsa, ovvero non sistematica-mente organizzati e collegati tra di loro. Tuttavia questo solo criterio fisicista non è in gra-do di descrivere le molteplici complessità insite nel concetto, reificando di fatto il territorio a mero oggetto, a contenitore fisso di “cose” date. È bene intendere chiaramente questo aspetto, scongiurando il pericolo di una semplificazione eccessiva del discorso: siccome l’implementazione del distretto agroenergetico parte proprio dalla valutazione della dimen-sione contestuale dei territori – e per questo si basa sulla necessità fondante di scegliere l’areale di riferimento dotato di determinate caratteristiche funzionalmente adatte – non è pertanto possibile affermare che “un territorio vale l’altro”, cioè che ci possa essere un certo grado di indifferenza verso le diverse condizioni che i territori offrono. Per questo motivo, il distretto delle agroenergie, è, e deve essere, anzitutto un progetto territoriale, basato sulla capacità del luogo/dei luoghi di candidarsi ad essere moltiplicatore di risorse e funzionalità. Uno spazio geometrico, fisico, geografico e amministrativo, certamente sì, ma anche e soprattutto uno spazio economico in cui applicare in maniera strutturata, coordinata e continuativa le dinamiche dello sviluppo locale: sono proprio quest’ultime a suggerire quali azioni implementare, quali criteri bisogna seguire, di quali comportamenti e quali risorse è necessario tenere conto. Per meglio chiarire i vari elementi inclusi nell’ac-cezione di territorio, riportiamo qui di seguito una tabella esplicativa in cui al territorio corrispondono diversi criteri (da tenere presente per la scelta dell’areale di riferimento del distretto agroenergetico) e numerosi significati (attinenti cioè agli aspetti oggetto di valu-tazione territoriale).

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111

Tabella 5.2 – Il territorio: criteri di scelta dell’areale di riferimento e significato per l’im-plementazione del distretto agroenergetico

ELEMENTO CRITERIO SIGNIFICATO

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FISICO

• estensione;

• morfologia;

• tipologia dei terreni;

GEoGRaFiCo

• collegamenti inter/intra territoriali;

• definizione dell’ambiente dominante;

• condizioni climatiche e di posizionamento;

• delimitazione dell’ambito;

ECONOMICO

• coltivazioni presenti;

• livelli di produttività;

• livelli di specializzazione;

• numero e profilo delle attività economiche presenti;

• rilevazione delle forme di condivisione/agglomerazione eco-nomica e/o rappresentativa imprenditoriale;

politiCo

• politiche di scala locale e/o sovra comunale;

• processi di governance;

• attenzione generale verso le tematiche dell’ambiente;

• buone pratiche e progetti già realizzati in materia;

aMMiNiStRatiVo

• entità e caratteristiche principali delle procedure burocrati-che e gestionali attivate e attivabili in futuro relative all’am-biente;

• studio della normativa di settore;

SpERiMENtalE

• lo sviluppo “dal basso”: rinnovate strategie di interazione nella multilevel governance;

• condivisione della conoscenza;

• realizzazione innovativa del valore di un progetto ambientale;

• formulazione teorica di un modello;

• rinnovamento della valutazione e del monitoraggio per la creazione di una nuova best-practice;

Il discorso sin qui approntato, tuttavia, per essere teoricamente corretto e completo dal punto di vista contenutistico, necessita di una riflessione attinente alla definizione nonché successiva valutazione della dimensione agricola e rurale dei territori presi in esa-me. In pratica occorre pervenire ad una rilevazione sistematica del grado e della misura in cui i territori interessati hanno effettuato il “passaggio” da una primaria dimensione agricola ad una più moderna dimensione rurale, ma non da un punto di vista quantita-tivo, bensì privilegiando un più complesso criterio descrittivo di analisi territoriale. Tale aspetto, lungi dall’essere trattato in questa sede in maniera esaustiva, è di fondamentale importanza perché costituisce il sostrato su cui fare attecchire logiche e dinamiche di sviluppo economico territoriale tout court, all’interno di contesti caratterizzati da produt-tività agricola. Infatti, differentemente dalle politiche industriali, o più in generale rispetto a decisioni strategiche circa la realizzazione di innovazioni di processo e/o di prodotto nel campo della produzione manifatturiera o dell’erogazione di servizi (terziario e terziario avanzato), il discorso territoriale sviluppato riguarderà anche la valutazione del cosiddetto locally embedded. Con questo termine – letteralmente localmente radicato – si intende

Page 124: collana politicHe per l’amBiente e l’agricoltura Biomasse

112

fare riferimento ad un complesso di rappresentazioni multi e trans scalari delle risor-se, dei saperi, delle vocazioni, delle organizzazioni, delle sedimentazioni sociali e storico-economiche, che sono presenti sul territorio198. Molto spesso il locally embedded viene utilizzato con la stessa accezione di significato di un altro termine molto in voga nelle scienze dello sviluppo economico, ovvero la cosiddetta path dependance, cioè dipendenza dal percorso. Tuttavia tale concezione – secondo cui il territorio esprime già in nuce un carattere di predeterminazione rispetto al proprio futuro, in maniera del tutto dipendente e addirittura vincolante rispetto alle risorse, alle relazioni e alle dinamiche presenti in un dato momento – volge uno sguardo orientato verso la fissità da e per il territorio esaminato, non tenendo debitamente in conto il carattere dinamico, fluido, per certi versi addirittura transeunte, dei fattori e delle condizioni espresse ed esprimibili da ed in un dato ambiente. È per questo motivo che la dimensione agricola, imperniata sull’agricoltura di sussistenza e sulla circolarità/reciprocità familiare o di gruppo delle reti di produzione e consumo, non è sufficientemente in grado di favorire l’istituzionalizzazione di un distretto agro energetico. A tal proposito, per meglio chiarire le differenze intercorrenti tra i termini agricolo e rura-le si riporta qui di seguito una tabella esplicativa tesa a cogliere le principali caratteristiche dei due concetti in esame.

Tabella 5.3 – Caratteristiche della dimensione agricola e della dimensione rurale. Una comparazione

CARATTERISTICHE PRINCIPALI

DIMENSIONE AGRICOLA DIMENSIONE RURALE

• attività primarie;

• metodologie lavorative tradizionali/ primo- moderne;

• economia della sussistenza, della circolarità e della reciprocità del surplus;

• vocazione storica del territorio;

• conoscenze e comportamenti produttivi e gestionali secolarizzati;

• multifunzionalità dell’agricoltura;

• multivalorialità sociale, politica, culturale ed ambientale dell’agricoltura,

• scambio aperto, commercio ed internazionalizzazione;

• l’agricoltore come imprenditore, l’agricoltura come sistema,

• forme di clusterizzazione ed agglomerazione delle specializzazioni produttive territoriali;

• tecnologie agroalimentari, ricerca scientifica applicata;

Fonte: elaborazione INEA – si consulti anche Esposti R., Sotte F., La dimensione rurale dello sviluppo locale. Esperienze e casi di studio, Franco Angeli Editore, Milano, 2002.

Infatti, se l’aggettivo agricolo attiene per lo più ad una derivazione di carattere eco-nomico delle attività colturali ed agrarie complessivamente considerate, il termine rurale, invece, assume sin da subito un significato modernista e sviluppista (sviluppo rurale, appunto), inteso come emancipazione e rinnovamento delle attività agricole – almeno per come erano precedentemente identificate – verso il pieno riconoscimento del concetto di multifunzionalità dell’agricoltura. Ciò non significherà certamente che il distretto agro-energetico non deve e non dovrà esprimere anche, e soprattutto, un certo valore eco-nomico – anzi l’aspetto della creazione e della redistribuzione delle utilities costituisce

198 Come scrive Francesca Governa: “la territorialità è assai complessa e per questo necessità di differenti elementi a sua rappresentazione e spiegazione. In particolare la dimensione del locally embedded, degli assett materiali ed im-materiali presenti localmente in un dato contesto territoriale, nel senso di radicamento, di presenza cioè di legame e di radici, spiegano come è possibile costruire apposite politiche di sviluppo economico e di trasformazione del territo-rio”. Cfr., Governa F., Territorialità e azione collettiva. Una riflessione critica sulle teorie e sulle pratiche di sviluppo locale, in Rivista geografica italiana, Società di studi geografici di Firenze, n. 3, 09/2007, pagg. 335-339.

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senza dubbio un aspetto fondamentale dell’intero progetto – ma soltanto che accanto a logiche puramente produttive e reddituali bisognerà prevedere, realizzare e monitorare fattualità di tipo sociale, politico, culturale, identitario, di tutela ambientale, riconversione e riammodernamento dei saperi contestuali, delle risorse umane ivi impiegate. Si consu-ma tutta qui la conversione, o meglio come precedentemente affermato, il passaggio dalla dimensione e dall’accezione agricola dei territori coltivati alla dimensione rurale dei con-testi ambientali e naturali, compiutamente in relazione alle nuove esigenze, di vario tipo e livello, che vengono mano a mano a profilarsi nel complesso scenario contemporaneo locale. Pertanto, partendo dal presupposto dell’avvenuta rivoluzione in senso rurale dei contesti analizzati, il territorio prescelto per l’implementazione del distretto agro ener-getico in Campania dovrà accludere nel suo alveo criteri di competitività, effectivity199 e organizzazione geografica, fisico-spaziale, economica, nonché capacità di prodursi ed auto-riprodursi200 come sede di sperimentazione politica, amministrativa ed imprenditoriale. Un territorio, cioè, che assurge definitivamente a territorio progetto201, ad ambito settoriale dedito alla specializzazione funzionale, in cui è possibile applicare una formulazione – anzitutto teorica – relativa ad un modello di realizzazione di progettualità complesse con finalità economico-produttive e di tutela dell’ambiente, come per esempio può essere un distretto agroenergetico.

Le risorse/II – L’approccio territorialista sin qui evidenziato si basa sul presupposto che lo sviluppo di nuovi progetti derivi in maniera diretta dal rapporto di territorialità che lega, in un processo interattivo di lunga durata, la società e le risorse del territorio. Ne discende che i programmi e le azioni che riescono a sfruttare coevolutivamente le dinami-che presenti e le potenzialità future, possano poi ottenere un valore aggiunto in termini di sostenibilità, efficacia delle misure e legittimità dei comportamenti degli stakeholder. Tali benefici, tuttavia, per essere realmente e sistematicamente forieri di diversificati e più

199 Il termine effectivity è stato applicato nell’ambito delle discipline economiche territoriali come tributo teorico svi-luppato nelle teorie sociali dello studioso Herbert Simon. In base alle sue teorie, il principio di effectivity è relativo a qualsiasi tipo di azione pubblica dalla quale è lecito aspettarsi conseguenze, o meglio retroazioni funzionali pratiche, dotate, appunto, di pragmatica efficienza e, dunque, effettività. Tornando al nostro campo di interesse, nell’attuazione di progetti territoriali di sviluppo locale, quali che siano le risorse ed i saperi coinvolti nella sua stessa attuazione, è importante riuscire continuamente a misurare il grado di effectivity di un azione, in modo da coordinare i lavori ed eventualmente procedere ad un perfezionamento della progettualità precedentemente approvata. Cfr., Storper M., Le economie locali come beni relazionali, sta in Rivista di studi sullo Sviluppo Locale, pp. 179-222.

200 La capacità di prodursi ed autoriprodursi di un territorio, che chiameremo a questo punto sistema locale, concerne la capacità delle attività economiche ivi presenti di originare non soltanto sviluppo economico settoriale, relativo cioè agli attori coinvolti nel determinato processo produttivo in atto, ma di ingenerare meccanismi virtuosi di diffusione del benessere e della ricchezza prodotta. Un sistema locale si produce e autoriproduce, quindi, quando è capace di creare good effects che hanno impatto e portata automaticamente riflettentesi sul mercato del lavoro e sulla creazione di economie esterne locali. Per un approfondimento del concetto si veda De Matteis G., Possibilità e limiti dello sviluppo locale, sta in Rivista di studi sullo Sviluppo Locale, pp. 41-63.

201 Per approfondimenti sul concetto di territorio progetto si veda Camagni R., Apprendimento collettivo e competiti-vità territoriale, Franco Angeli Editore, Milano, 2002.

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competitivi risultati, hanno bisogno di un’azione territorializzata e territorializzante202, che tenga conto delle peculiarità, del capitale materiale ed immateriale, in una sola pa-rola dello stock presente di risorse e del tipo di capitale sociale presente. Il rapporto che la territorialità istituisce con le risorse specifiche, contestuali, stabilmente presenti nello spazio progettuale individuato – ovvero territorio dell’azione o territorio attivo – è pre-condizione necessaria perché si possa parlare di implementazione di azioni e misure e, in ultima istanza, di sviluppo locale tout court, giacché si produce l’indispensabile mobilità dei fattori genericamente coinvolti nel progetto.

Per ulteriori spiegazioni si consulti la tabella qui di seguito:

Tabella 5. 4 – Rapporto tra territorialità e risorse materiali

TERRITORIALITA’ RISORSE MATERIALI RICADUTE SUL PROGETTO

Passiva Presenti

Negativa

le risorse presenti non sono sistematicamente collegate tra di loro. il territorio è un insieme vuoto di fattori che non producono effetti positivi.

In negativo Scarse/del tutto assenti

Progetto irrealizzabile

le risorse non sono presenti sul territorio oggetto di valutazione. il progetto non può realizzarsi nelle forme previste. incapacità fatto-riale e propositiva del contesto analizzato. Si rende necessario la studio e la ricerca di un altro contesto territoriale.

Come progetto

( attiva)

Presenti

Progetto realizzabile

le risorse materiali sono sufficienti per la realizzazione del proget-to. l’esperienzialità, la sensibilità comune e la densità relazionale necessarie per l’organizzazione sono presenti al massimo grado possibile. tale territorio rappresenta l’idealtipo – tra tutte le alternative precedentemente vagliate e sottoposte a studio – della scelta, in quanto già caratterizzato da sviluppati software compor-tamentali di reciprocità tra i vari settori ed i vari stakeholder.

Fonte: elaborazione INEA – si consulti anche Dematteis G., Governa F., Il territorio nello sviluppo locale. Il contributo del modello SLOT, Atti del Convegno “Il territorio nello sviluppo locale”, Stresa, Giugno 2003.

202 L’azione territorializzata e territorializzante cui si fa riferimento riguarda in realtà un altro ben più importante concetto che è quello del cosiddetto ciclo d Barbara Kruger i vita dei luoghi. A partire dal cosiddetto processo di produzione dello spazio – ovvero il complesso sistema di relazioni che il territorio intrattiene rispetto ai diversi modi di produzione che ivi si insediano, anzi sono proprio questi ultimi a determinare poi la struttura sociale ed urbanistico-architettonica dell’ambiente circostante – territorializzazione significa trasformare il territorio in base alle esigenze umane, dare luogo ad un meccanismo di assegnazione di funzioni economiche e produttive, in altre parole funzionalizzarlo. Allo stesso modo la deterritorializzazione (defunzionalizzazione) concerne invece la perdita di tali funzioni tradizionalmente esercitate dal contesto e quindi il profilarsi dell’esigenza di una nuo-va attribuzione di valori, strutture e complessità, del tutto diverse rispetto a quelle precedenti (in questo caso il territorio viene rifunzionalizzato). A questo punto, come si collega la realizzazione di un distretto agroenergetico con tale ciclo di territorializzazione, riterritorializzazione e deterritorializzazione, quale vera e propria storia dei luoghi analizzati? Si collega in modo diretto ed interdipendente rispetto a delle dinamiche puramente eco-nomiche: in pratica il compito di questo progetto è anche quello di seguire il ciclo di funzionalità dei territori, o meglio di inaugurarne addirittura uno del tutto nuovo. Ad esempio, per effetto di una crisi economica, così come a causa di una straordinaria innovazione tecnologica, i territori cambiano funzioni, usi, destinazioni e dinami-che di utilizzo, pertanto la produzione e la distribuzione di energia devono tenere presente questi nuovi approdi: ad un processo di cambiamento economico e spaziale dei luoghi, dovrebbe necessariamente seguire un parallelo percorso di ristrutturazione non solo delle conoscenze, ma anche degli output e delle prassi realizzate, in via di realizzazione o già realizzate, giacché la mutevolezza dei contesti territoriali richiede e richiederà sempre più flessibilità produttiva, apertura organizzazionale e competenze aggiornate e diversificate. Per un approfondimen-to si veda Vanolo A., Gli spazi economici della globalizzazione, Utet, Torino, 2007, pp. 8-9.

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Il rapporto tra territorialità – modo di essere del territorio – e quantità di risorse disponibili – stock di fattori da utilizzare – determina la riuscita o meno del progetto, o meglio decreta la scelta stessa di un territorio per la realizzazione di un progetto previsto: appare ormai chiara l’impossibilità di operare una netta divisione tra il territorio e le risor-se, ovvero tra il contenente ed il contenuto, tra il significato ed il significante. Pertanto, l’insieme delle risorse immobili locali può essere considerato come un capitale territoriale a tutti gli effetti, che si rende cioè produttivo di valori di uso e di mercato nei rapporti tra e di territorialità attiva. Per questo motivo, l’espressione capitale territoriale203, è un con-cetto al tempo stesso funzionale e relazionale, che comprende cose molto diversificate tra di loro, le quali però presentano alcune caratteristiche sostanziali in comune. Innanzitutto ci riferiamo ad un insieme localizzato di beni comuni, che producono vantaggi collettivi, non divisibili e non appropriabili privatamente, che presentano numerose caratteristiche esplicate qui di seguito nella tabella successiva.

Tabella 5.5 – Capitale territoriale e caratteristiche dei beni che lo compongono/Declina-zione teorica

BENI

(componenti del capitale territoriale)

Caratteristiche principali

- Immobilità

Sono beni stabilmente incorporati in certi luoghi. il fruitore (territorial users) per fruirne deve necessariamente localizzarsi nel contesto;

- Specificità

Beni difficilmente reperibili altrove, ovvero nelle stesse qualità, composizioni, quantità, quindi mai completamente fungibili;

- Patrimonialità

Beni che si accumulano e si sedimentano solo nel medio-lungo periodo, quindi il contesto territoriale che ne è assente non conoscerà un miglioramento delle proprie condizioni patrimoniali in tempi brevi. Sono la risultante di un processo di una stratificazione economica, produttiva, storica e comunitaria di lungo/lunghissimo periodo.

- Di carattere pubblico

Sono tutti quei beni verso i quali si possono determinare problemi di assett proprietario o di utilizzo/rendita/usufrutto. Nello specifico si trovano in questa situazione i beni oggetto di:

• reti proprietarie multiple;

• diritti di passaggio;

• posizioni monopolistiche;

• manifestazioni di pubblico interesse;

• diritti di prelazione;

• pubblica utilità;

• free-riding;

• sotto controllo authority;

Fonte: elaborazione INEA su dati OCSE – Territorial Outlook 2001 on Local Development

Riassumendo, seguendo sempre la linea di una indispensabile introduzione di tipo teorico, le componenti del capitale territoriale possono essere così raggruppate nelle se-

203 La principale definizione di capitale territoriale è elaborata dalla Commissione Europea, secondo cui “each region has specific territorial capital that is distinct and generates a higher return for specific kinds of investments than for others. Territorial development policies should first and foremost help areas to develop their territorial capital”. Cfr. Camagni R., Per un concetto di capitale territoriale, Lezione Ires Piemonte, Marzo 2008, pagg. 6-7.

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guenti classi:

– condizioni e risorse dell’ambiente naturale; – patrimonio storico, culturale, sia monumentale sia di tipo antropologico-tradizionale

(dialetti, usanze religiose); – capitale fisso infrastrutturale, impiantistica ed esternalità derivanti;

L’elencazione appena illustrata, tuttavia, definisce soltanto delle macrocategorie e non può essere considerata certamente onnicomprensiva di tutti i fattori ed i significati relativi alle risorse: infatti, attenzione a parte merita il concetto di capitale immateriale o risorse relazionali, sempre nell’alveo della stessa riflessione metodologica relativa al capi-tale territoriale. In maniera più immediata, il capitale immateriale relazionale può essere definito come l’insieme di tutti i beni relazionali incorporati nel capitale umano locale, in qualità di capitale cognitivo, capitale sociale, delle conoscenze, delle varietà culturali e delle capabilities delle istituzioni (Storper - 1997), ma ad una più attenta riflessione si può chiaramente comprendere come anche questa definizione sia di fatto assai limitante. Pertanto, per una definitiva e corretta declinazione del termine bisognerà includere nel discorso le dimensioni sociali e relazionali, connotanti in maniera specifica gli attori di un territorio.

Per questo motivo il capitale immateriale è:

– sociale in quanto può essere definito come l’insieme di norme e valori che governano l’inte-

razione fra persone, le istituzioni in cui sono incorporate, le reti di contatto che si stabili-scono fra i diversi attori sociali e la generale coesione della società (il “collante” che tiene insieme la società, appunto)204;

– relazionalepoiché, a differenza del capitale sociale che si può affermare ovunque esista una so-

cietà, il capitale relazionale può essere interpretato come il sistema di rapporti bilaterali/multilaterali che sono sviluppati intenzionalmente dagli attori locali, sia all’interno che all’esterno del territorio locale. In questo senso, il suo significato è simile a quello di milieu locale, quale sede intangibile, atmosfera locale particolare legata a tre tipologie di esiti co-gnitivi, come la riduzione di incertezza nei processi decisionali innovativi, il coordinamen-to ex-ante fra attori economici in vista di azioni collettive programmate e l’apprendimento collettivo (ovvero un livello di alta mobilità all’interno del mercato del lavoro locale);

Passando dall’affrontare per lo più l’aspetto immediatamente teorico della questione, al fine di meglio chiarire il significato dei termini oggetto della nostra analisi, ma è ora quanto mai necessario procedere verso la strutturazione concreta di uno schema tramite cui applicare i principi e le definizioni da cui si è riccamente attinto per il progetto.

In tal senso la tabella che segue costituisce uno schema di natura riassuntiva ed esplicativa a cui corrispondono due macrocategorie: nella prima colonna “capitale mate-riale” sono state illustrati tutti i fattori materiali, fisici, di sistema, di cui il distretto non può concretamente fare a meno per la sua implementazione concreta, nella seconda “ca-pitale immateriale”, invece, si è proceduto all’elencazione di tutte quelle condizioni – più

204 È importante ricordare che la definizione di capitale sociale non è univoca. Altri autori, tra cui principalmente lo studioso americano Robert Putnam hanno definito diversamente questo concetto, riferendosi per lo più al ruolo attivo delle comunità sulla scena politica nazionale, misurando il livello di associazionismo delle diverse società analizzate. Nel nostro discorso l’interesse principale concerne il capitale sociale come stock rilevante di risorse immateriali, di relazione, di rete, scambio e contatto in un determinato proprio territorio. Tra l’altro per gli econo-misti esso include il capitale rappresentato da regole, comportamenti e relazioni che facilitano lo scambio e l’inno-vazione, anche se la sua funzione originaria non è legata a finalità prettamente ed originariamente economiche.

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che veri e propri fattori – ritenute ugualmente indispensabili e che vanno direttamente a connotarsi come vero e proprio lubrificante del sistema considerato.

Tabella 5.6 – Capitale materiale ed immateriale minimo per il distretto agro energetico/Declinazione pratica

CAPITALE MATERIALE DEL PROGETTO CAPITALE IMMATERIALE DEL PROGETTO

tERRENi

Sede fisica del progetto

- terreni per l’implementazione delle strutture e degli impianti. Estensione, posizione geografica, stato ambientale del territorio delimitato, condizioni biologiche e microclimatiche;

EStERNalita’

i vantaggi derivanti dalla localizzazione attiva

- Risorse relative alla accessibilità, interconnessione con altri sistemi territoriali vicini, condizioni della integrazione intermodale, connettività generale. Creazione di economie esterne, processi di agglomerazione e concentrazione territoriale. Realizzazione tout court di un distretto delle agroenergie

allEVaMENti E ColtiVaZioNi

le risorse disponibili

- allevamenti e coltivazioni di vario tipo presenti sul territorio, risorse vegetali e animali generali;

REti

la reticolarità degli attori e delle loro azioni

- Reti per la cooperazione, per la transcodifica delle pratiche, dei comportamenti, dei vantaggi e delle conoscenze. Rapporti che si originano a partire dal milieu innovateur;

BioMaSSE

la “materia prima” del progetto

- Scarti vegetali, forestali, del verde pubblico, dell’industria agroalimentare, deiezioni animali, materiale vegetale ed organico diversamente riciclato. tutto ciò che concorre alla formazione delle biomasse;

RElaZioNi E SoCiEta’

il capitale relazionale e la condivisione

- Sistema di relazioni tra gli attori del territorio. Valo-rizzazione, perfezionamento ed aggiornamento delle conoscenze. Cultura, insieme di norme, valori, identità espresse dagli attori per la riuscita del progetto;

iMpiaNti

l’infrastrutturazione di base

- impianti di tipo tecnico (vasche di raccolta, dige-stori, impianti industriali per la cogenerazione, reti per il potenziamento di allacciamento, conversione e trasmissione dell’energia elettrica, impianti di controllo e sicurezza). infrastrutture spaziali come capannoni, depositi, spazi per la raccolta e la movimentazione;

iNStitUtioNS

la governance del sistema tra valore aggiunto e codifica-zione di regole e azioni certificate

- istituzioni politiche, di rappresentanza degli interessi, associazioni di categoria, nel pieno svolgimento dei propri compiti amministrativi, burocratici e di formu-lazione di polizie. altre istituzioni (centri di ricerca, Università, aziende private, agenzie di sviluppo locale, enti locali, rappresentanti dell’associazionismo locale, esperimenti di spin-off) come attoRi per la riuscita del progetto. Creazione del valore, condivisione dei vantaggi, implementazione generale del sistema di governance a sostegno del progetto.

È bene tuttavia specificare che in relazione alla categoria del capitale immateriale, non si tratta di elementi puramente e completamente immateriali nel senso letterale del termine, ma piuttosto di precise condizionalità che hanno bisogno di strutture complesse per il loro sostegno e la loro applicazione, anche se non direttamente promananti da esse. Ad esempio, la capacità di cooperazione degli attori territoriali, così come la presenza di alti livelli di istruzione in un determinato contesto, sono condizionalità certamente fa-vorevoli per l’implementazione di un progetto territoriale, ma non dipendono in maniera

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diretta dagli attori istituzionali (cooperazione) o dall’Università e dal sistema scolastico (livelli di istruzione) siti in quel territorio, ma sono piuttosto l’esito di un lungo processo di sedimentazione vocazionale, storica e soprattutto economica di quel luogo specificamente considerato. Inoltre, va anche considerato che non di rado i territori (attraverso una lettura storicizzante dei propri percorsi di sviluppo locale) e gli attori ivi presenti esprimono una fortissima capacità selettiva, promuovendo o disincentivando di fatto la riuscita di alcuni progetti: infatti si potrebbe verificare l’ipotesi in cui in un territorio, pur disponendo delle risorse materiali ed immateriali adatte al tipo di attività che si intenderebbe istituire, gli stakeholder locali esprimano una sorta di ritrosia o di vero e proprio rifiuto nei confronti di una determinata progettualità. Pertanto, i caratteri della determinatezza e della fissità, che rendono possibile la rilevazione dello stock complessivo di capitale materiale ed imma-teriale presente in un territorio, da soli non bastano e non possono e non devono portare in maniera precipua all’identificazione di un areale di riferimento preciso, giacché la sola presenza delle stesse risorse considerate non implica in maniera automatica il loro utilizzo ai fini progettuali. È per questo motivo che alcune procedure e certe altre prassi attecchi-scono in determinati territori e non in altri, in questo senso le dinamiche originantesi dal locally embedded esprimono ancora un loro proprio peso fondamentale – non di rado a mò di ostacolo per l’innovazione e la tecnologia – facendo ovviamente salva la premessa secon-do cui tale influenza negativa è tanto maggiore quanto più arretrati ed economicamente svantaggiati saranno gli ambiti territoriali individuati per la realizzazione del progetto. In definitiva, dopo aver circoscritto l’ambito della riflessione relativa ai concetti di territorio e risorsa – in primis dal punto di vista epistemologico ed in secundis da un punto di vista pratico-progettuale per l’implementazione del distretto agroenergetico – procediamo con l’analisi degli altri due importanti tasselli, finora mancanti, del nostro puzzle progettuale, ovvero la filiera e il distretto.

Oltre il distretto oltre la filiera/ III-IV - L’agricoltura, così come è stato possibile notare sin qui relativamente agli aspetti della valorizzazione economica ed ambientale del territorio, è sempre più chiamata ad assolvere un ruolo multifunzionale nella gestione dei contesti rurali. Pertanto le politiche di promozione delle agroenergie non dovrebbero sup-portare la produzione di energia in se stessa e per stessa, ma in maniera più vasta ed on-nicomprensiva dare centralità a tre elementi in particolare, quali il territorio, la comunità locale e l’impresa agricola in qualità di imprenditore tout court. Questo nuovo approccio, pertanto, rilancia la necessità di elaborare una vera e propria formalizzazione strutturale di un modello, o meglio di un tipo di organizzazione spaziale ed economica secondo cui l’agricoltore può agire ed operare, all’interno pur sempre di un predefinito quadro di regole e prassi consolidate. La formalizzazione, in questo senso, è rappresentata dalla istituzio-nalizzazione di un distretto – distretto delle agroenergie, appunto – che deve essere retto da un chiaro sistema di governance locale, foriero di meccanismi di concertazione interi-stituzionale allargata, nonché rappresentativo delle istanze e delle peculiarità relative agli attori economici coinvolti, come i soggetti dediti alle attività di produzione, consumo e distribuzione delle energie rinnovabili che si intende produrre o che sono già disponibili in qualità di vero e proprio output con definito valore di uso e valore di scambio. Dal distretto e per il distretto, dunque, partire per puntare all’ottimizzazione dell’uso delle risorse ter-ritorialmente disponibili – oggetto di una preliminare analisi quali-quantitativa sulla base della quale si è strutturata la parte principale dello stesso progetto – al fine di realizzare collateralmente il combinato effetto di una massimizzazione della ricaduta socio-economi-ca all’interno di tutti i livelli territoriali coinvolti (regionale, provinciale e comunale). La questione, tuttavia, non è di così facile trattazione, ma anzi abbisogna di un chiarimento

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semantico iniziale, dal quale originare anzitutto un discorso relativo al significato della parola distretto, giacché il filone di studi della geografia economica e dell’economia dello sviluppo è ovviamente molto vasto al proposito ed ha seguito l’evoluzione dello scenario economico e tecnologico a partire dalla crisi del post-fordismo sino poi alla globalizzazione ed alla new economy205.

Tuttavia, l’elemento che desta particolare attenzione riguarda la precisione con la quale è possibile identificare gli elementi costitutivi, appunto, di un distretto: sia che si tratti di un’agglomerazione per fini di industrializzazione manifatturiera, sia invece relati-vamente a diversificate e diversificabili forme di clusterizzazione di imprese caratterizzate da attività ed output immateriali – in tal senso si notino i cosiddetti distretti della cono-scenza e dell’high-tech di cui la Silicon Valley californiana costituisce certamente l’esem-pio principe – le difformità rilevabili nella composizione e nella strutturazione della forma territorializzata aggregata di impresa, sono pressoché inesistenti.

A tal proposito segue una tabella esplicativa relativa agli elementi fondanti il distretto.

205 Lo studio principale sui distretti industriali è rappresentato inizialmente dalle analisi di Alfred Marshall, teoriz-zate per la prima volta a partire dalla seconda metà del XIX secolo, in riferimento delle zone tessili inglesi dello Sheffield e della regione del Lancshire. La definizione marshalliana che seguì fu la seguente: “si parla di distretto industriale quando si fa riferimento ad un’entità socioeconomica costituita da un’insieme di imprese, facenti generalmente parte dello stesso settore produttivo, localizzato in una data area circoscritta, tra le quali vi è col-laborazione ma anche comportamenti orientati alla concorrenza ed alla competizione selettiva”. Tale teorizza-zione concettuale resiste ancora oggi, nel bel mezzo della globalizzazione e della ristrutturazione delle economie nazionali all’insegna della diversificazione post-fordista (in piena antitesi con l’omologazione e la massificazione fordista dei consumi e della produzione) e dell’immaterialità degli output (consulenze, servizi di assistenza tec-nica, gestione, istruzione e terziario avanzato in primis), nonché verso la cosiddetta new economy, ad intendere l’uso massiccio ed indiscriminato dei nuovi strumenti telematici, a diretta erosione dei comportamenti e delle azioni tradizionali in campo economico. Cfr., Becattini G., Riflessioni sul distretto industriale marshalliano come concetto socioeconomico, sta in Stato e Mercato, n. I, Aprile 1999, pp.112-128

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Tabella 5.7 – Il distretto e le sue caratteristiche principali

ELEMENTI FONDANTI CARATTERISTICHE PRINCIPALI

Territorioil territorio è la sede fisica del distretto e deve essere storicamente e naturalisticamente circoscritta e determinata;

Comunità sociale

la comunità sociale riguarda la presenza della popolazione stabilmente residente sul territorio individuato. tale comunità è di fondamentale importanza perché esprime capitale morale ed intellettuale e rende possibile la strutturazione della domanda e dell’offerta e del mercato locale del lavoro e della specializzazione produttiva;

Comunità economicala comunità economica è relativa all’insieme degli operatori economici specializzati ivi insediati;

Rapporti tra le comunità

le due comunità – sociale ed economica – diventano un tutt’uno indissolubile e si caratterizzano per reciproci e continui scambi, nonché vicendevoli strutturazioni di interpretazioni orientate ora alla cooperazione, ora alla condivisione, ora alla competizione. la dimensione sociale ed economica diventa coincidente tanto che si parla di comunità del distretto;

Specializzazione produttiva

la produzione manifatturiera e/o di beni immateriali persegue il mantenimento del vantaggio competitivo distrettuale su una specifica produzione. a tale specializzazione seguono fenomeni di plurispecializzazione dell’indotto collegato e dinamiche di auto contenimento semantico-cognitivo relativamente alle conoscenze coinvolte nella produzione dell’output prescelto;

Divisione del lavoro

alla fase di specializzazione produttiva segue quella della creazione della divisione del lavoro nel senso della determinazione di un vero e proprio mercato locale del lavoro, in relazione anche alla cultura distrettuale e sociale espressa dagli operatori del sistema. Questo coordinato complesso di fattori da origine alla formazione di micro condizionalità tipiche di ogni distretto.

Reti corte e reti lunghe

per sopravvivere e svilupparsi appieno, il distretto necessita di reti corte – quelle cui fa riferimento in occasione dell’approvigionamento dei fattori produttivi, inclusa la manodopera – e di reti lunghe, ovvero quelle del commercio, dello scambio e dell’aumento della domanda. le stessi reti presentano una vera e propria multivalorialità, nel senso che veicolano ulteriori conoscenze e posseggono in sé forza per includere nuovi attori e per escluderne alcuni già presenti.

Fonte: elaborazione INEA – si veda Becattini G., Distretti industriali e made in Italy: le basi socioculturali del nostro sviluppo, Marsilio Editore

I fattori relativi all’esistenza di un distretto, al di là della specializzazione produttiva interna, possono essere riassunti in pochi elementi centrali, intorno ai quali prendono forma e sostanza tipiche forme di aggregazione territoriale ed economica di alcuni opera-tori imprenditoriali. Riportando il discorso sin qui compiuto verso una necessaria quanto centrale dimensione della fattibilità di un progetto di natura rurale ed ambientale, biso-gnerà chiedersi se si possa ritenere valido o meno il modello del distretto per le agroener-gie e, se si, in quali modalità e per quali ragioni. Non è semplice formulare una risposta a questo interrogativo, in quanto si richiamano in campo una serie di riflessioni relative a diversi piani del sapere, caratterizzati da più livelli di profondità teorica. Sicuramente la formula distrettuale ha costituito e costituisce tuttora un’importante ossatura per il siste-ma economico nazionale e regionale delle realtà territoriali che ne sono interessate: non è un caso se i filoni teorici di ricerca che si sono irrobustiti a partire dalla fine degli anni ’70 e fino agli ultimi decenni parlano addirittura di sviluppo della cosiddetta “Terza Italia” o

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del modello dell’ ”Italia di mezzo”206, proprio per identificare l’alternativa di sviluppo che ha connotato le regioni dell’Italia centro-settentrionale, al fine di sopperire alla mancanza di una più forte ed integrata concentrazione industriale territoriale del tipo multinaziona-le o iperstrutturato, così come invece è accaduto nei sistemi economici più maturi ed evoluti. E, d’altro canto, non di meno bisogna dimenticare che il distretto si è “atteggiato” a vera e propria chance di maggiore governabilità e condivisione allargata di conoscenze tacite ed espresse circa la realizzazione di spill-over del know-how tecnologico abbinato al sapere contestualizzato differentemente manifestato da ciascun territorio, soprattutto rispetto ad una rete produttivo-industriale caratterizzata dal sottodimensionamento della piccola e media impresa. La rilevazione delle caratteristiche positive relative all’organizza-zione distrettuale delle attività sul territorio, tuttavia, non limita la riflessione a questi soli aspetti, ma anzi rilancia la necessità di effettuare una lettura ed una interpretazione mag-giormente storicizzante e territorializzante di tale modello spaziale economico, o quanto meno dei percorsi di sviluppo direttamente originati e tracciati da questa possibilità ulte-riore. Ciò significa che non si tratterà affatto di glorificare o di demolire un modello, come quello distrettuale, ma di metterne in evidenza luci ed ombre, ovvero quei fattori che nel corso del tempo ne hanno decretato il successo, ma che oggi appaiono quanto mai non connotati della stessa forza rispetto alla post-modernità e alle nuove competizioni econo-miche e commerciali imposte dalla globalizzazione. In pratica il concetto di distretto – a partire dalla maniera marshalliana fino poi alle declinazioni elaborate dai principali stu-diosi come Becattini e Rullani – attualmente esprime un certo grado di anelasticità nel rappresentare ed accludere al suo interno la vera e propria ristrutturazione cui è andata incontro l’economia e la produzione negli ultimi decenni207. Infatti, a partire dagli anni ’50, l’esigenza della costruzione di un mercato dei consumi massificato, basato sulla standar-dizzazione della domanda e sull’omologazione dei bisogni e dei gusti dei compratori, trova-va nel distretto una vera e propria metafora in grado di assicurare un certo livello quanti-tativo costante di output. La diffusione di uno stile di vita consumistico, appunto, orienta-to all’estensione esponenziale degli acquisti (anche attraverso appositi programmi nazio-nali di sostegno al reddito al consumo), necessitava di una organizzazione produttiva defi-nita per lo più intorno alla manifattura tradizionale, ad una struttura verticistica di co-mando e alla produzione in serie, rigidamente settorializzata ed incentrata, sia nei tempi sia nelle fasi. In tal senso il distretto ha costituito il paradigma interpretativo ideale, quale forma territoriale parcellizzata in cui le tecnologie diventano comuni proprio per aumen-tare il tasso di produttività, nonché agglomerazione di attività monoprodotto capaci di esprimere maggior peso contrattuale nei confronti dei fornitori e dei diretti concorrenti. Attualmente, quindi, non si tratterà sic et simpliciter di ritenere errata l’ipotesi e la scelta

206 Gli studi sui distretti industriali e, più in generale, su tutte le aree a industrializzazione leggera, hanno portato a un profondo ripensamento del modo in cui viene descritta la struttura economica dell’Italia. Ci si è resi conto, infatti, che la classica divisione tra nord sviluppato e sud arretrato nascondeva profonde differenze. Esiste, per l’appunto, una “Terza Italia”, formata proprio da quelle aree in grado di crescere durante la crisi degli anni ‘70, che comprende il nord-est, l’Emilia Romagna, la Toscana, le Marche e anche alcune zone ristrette del Mezzogiorno. La definizione “terza Italia” la si deve a sociologi come Bagnasco e Trigilia, che a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80, forniranno una descrizione molto accurata delle società distrettuali e in particolare vi studieranno i rapporti tra sistema economico e sistema politico.

207 Lo stampo industrialista da cui trae origine il modello distrettuale rende tale opzione produttiva non completa-mente applicabile, almeno in linea del tutto teorica, alla generalità delle attività economiche considerate. Più che di veri e propri distretti, infatti, in alcuni casi si dovrebbe parlare di forme di organizzazione distrettuale, incentrate comunque intorno alla centralità della prossimità spaziale degli operatori. Inoltre, tutti gli operatori economici non possono ragionevolmente esprimere lo stesso grado di innovazione tecnologica e di concentrazione dei capitali e dei fattori produttivi. Pertanto potrebbe darsi luogo ad un effetto di locomotiva-traino, ad una sorta di percorso a due velocità rispetto alle condizioni e alle possibilità singolarmente considerate di ciascun attore del sistema.

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distrettuale, così come non si può e non si deve evitare di includere gli elementi positivi nelle nuove, o meglio, nelle rinnovate teorizzazioni economiche e produttive. Pertanto, partendo dalla consapevolezza che non è più possibile replicare modelli di sviluppo e di successo economico, se non nel proprio tempo e nel proprio spazio, bisognerà tenere de-bitamente in conto le contingenze storiche ed ambientali di ciascun caso specifico e spe-cificante, giacché i modelli sono validi per dati criteri e date potenzialità. A questo punto, anziché al distretto, sgombrando il campo dal possibile errore metodologico di considerar-lo come ennesima riproposizione di un modello fisso, rigido e ancora parzialmente aggan-ciato alle vicissitudini storiche ed economiche dal quale si è originato e che ha raccontato, bisognerà fare riferimento ai distretti, o ancora più semplicemente a circoscritti elementi distrettuali cui attingere cum grano salis, ovvero in maniera logica e di volta in volta in relazione alle condizioni del contesto e alle dinamiche economiche dispiegantesi. Tanti distretti per tante attività, per tanti territori, per tante diversificate e diversificabili realtà, attingendo dall’eredità del passato, attualizzandola però verso l’accoglimento delle rinno-vate esigenze che lo sviluppo economico – e soprattutto la più recente categoria teorica e metodologica dello sviluppo locale – pone in essere, seguendo le velocissime strade dell’in-novazione tecnologica, dell’apertura organizzazionale e della sempre maggiore complessi-ficazione delle conoscenze, degli scenari e dei processi applicativi. Tali conclusioni hanno uniforme veridicità rispetto alla generalità delle attività economiche – in quanto non avrebbe senso attualmente organizzare sulla falsariga di un distretto industriale degli anni ’70 sia la produzione di un capo di abbigliamento (produzione low tech) che di un personal computer (ovvero produzione high-tech) – ma assumono rilevanza maggiore in relazione ad attività e settori dall’alto valore aggiunto, come ad esempio nel caso del nostro progetto. A questo punto, si profila l’esigenza di identificare ed applicare lo strumento-base del no-stro progetto, ovvero individuare il modello organizzativo e funzionale relativo all’utilizzo della biomassa a fini energetici. Sin dall’inizio il termine distretto agro-energetico è stato al centro del discorso, ma in base alle riflessioni e alle indagini sin qui compiute, si dovrà parlare di distretto inteso come una nuova forma distrettuale, capace di contenere e svi-luppare le mille e una caratteristica proprie del progetto in analisi. La messa a sistema del distretto, quindi, seguirà la specificità contestuale, economica, produttiva, politica e socia-le del territorio di riferimento, tanto che in tale ottica non ci si riferirà più al distretto tout court, ma piuttosto ad un sistema innovativo locale organizzato su base distrettuale. È questo il passaggio di fondamentale importanza che bisogna attualmente compiere, al fine di strutturare sistemi più complessi che non siano caratterizzati da organizzazioni distret-tuali classicamente intese, in quanto definite tali limitatamente ai soli aspetti della pros-simità spaziale degli operatori e della condivisione della mission aziendale e produttiva, ma che si candidino invece a diventare sistemi aperti inclusivi di dinamiche e logiche in fieri, ove si possa liberamente lasciare spazio agli esiti della rinnovata rappresentatività politica ed economica cui vanno in cerca i maturati e potenziati attori locali. In poche parole è necessario transitare dal distretto agro energetico al distretto rurale organizzato secondo le logiche di un sistema locale innovativo delle agroenergie, in qualità di:

Sistema produttivo locale caratterizzato da una identità storica e territoriale omogenea, derivante dall’integrazione fra attività agricole ed altre attività locali, nonché dalla produzione di beni e/o servizi di particolare valore e specificità, coe-renti con le tradizioni e le vocazioni naturali e territoriali208.

208 Si veda a tal proposito il Decreto Legislativo 18 maggio 2001, n. 228. Cfr., Gaviglio A.A.M; Pirani A., Rigamonti L., La progettazione dei distretti rurali: un modello per il caso “agroenergetico”; Paper presentato al XXXVII incontro di studio del Ce.S.E.T dell’Università degli Studi di Milano.

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Sempre proseguendo sulla stessa linea e tenendo conto della preventiva opera di analisi di contesto e della raccolta di dati quali-quantitativi, le logiche dell’innovatività e la necessità della proposizione di un modello “reale” e “realista”, assumeranno la forma di un network, ovvero di una rete (net) che funziona (work). In questa rete, i produttori e i trasformatori iniziali (attori economici principali) integrano vicendevolmente i propri comportamenti, in modo da assicurare precisi contingenti energetici al territorio e agli utenti (beneficiari, users), sulla base di una infrastrutturazione adatta alla generazione distribuita (aspetto degli investimenti e del capitale hard materiale del progetto), sempre in maniera tale da tutelare e potenziare la multifunzionalità delle imprese agricole, non-ché altri aspetti come le strategie di tutela dell’ambiente, di autosufficienza energetica e di massimizzazione del profitto degli operatori. Ovviamente qualsiasi forma di aggregazione territoriale di attività economiche, al di là del livello produttivo e della tipologia di output cui dà luogo, insiste e si implementa necessariamente su un contesto territoriale dato: senza pervenire ad un particolareggiato livello di specificazione teorica circa il concetto di territorio – di cui tra l’altro si è già detto all’inizio di questo capitolo – è importante invece sottolineare che il distretto, così come qualsiasi altra forma territorializzata di prossimità produttiva, si misura con la vocazionalità territoriale, ovvero con i fattori e le spinte inno-vatrici o conservatrici di un determinato contesto. Per questo motivo, in un certo senso, bisogna “fare i conti” con questi fattori, i quali possono rivelarsi vere e proprie potenzialità o debolezze del sistema, possono cioè assurgere a forze centripete o centrifughe per, da, all’interno e all’esterno del progetto considerato. A tal proposito, bisognerà distinguere tra milieu conservatore cui associare la forma della distrettualità tradizionalmente concepita e, all’opposto, il milieu innovateur che si contraddistingue per il distretto inteso come sistema locale innovativo.

Rimandiamo qui di seguito alla relativa tabella esplicativa.

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Tabella 5.8 – Differenza tra distretto tradizionale e sistema locale innovativo distrettuale in base al milieu locale di riferimento

MILIEU CONSERVATORE

Distrettualità tradizionale

MILIEU INNOVATEUR

Sistema locale innovativo distrettuale

obiettivi contestuali con finalità regolative ed imposi-tive;

obiettivi di portata sistemica con finalità di apertura ester-na, di creazione di best practice e di spill over. Da principi generali ad obiettivi particolari;

il territorio è utilizzato come insieme di risorse date, individuate rigidamente e delimitate. i progetti sono re-alizzati su territori statisticamente predefiniti all’inizio del processo innovativo;

la priorità non è accordata a territori delimitati ma ai progetti e agli obiettivi strategici della programmazione comunitaria, nazionale e regionale. lo spazio progettuale è identificato in base a precisi parametri solo alla fine del processo innovativo;

la governance del sistema è rigidamente strutturata e controllata dalla pubblica amministrazione competente per materia. la politica impone “dall’alto” misure, obiettivi e scelte. Gli attori locali si organizzano in base ad una superiore e precedente decisionalità politica;

la governance del sistema è allargata a tutti gli attori coinvolti. la pubblica amministrazione e la decisionalità politica hanno compiti di supporto, assistenza ed integrazione, verso la realizzazione del progetto individuato. il controllo e la supervisione sono appannaggio soprattutto degli stessi privati coinvolti, previa formulazione ed osservanza di obiettivi di redditività economica e di indici di performance;

Gestione pubblica, istituzione di enti pubblici speciali ad hoc;

tendenza alla privatizzazione, snellimento delle procedure e delle certificazioni. assorbimento delle funzioni da parte dei privati attori del sistema locale;

le azioni hanno carattere sussidiario e ricompensativo degli svantaggi con finanziamenti anche pubblici: gli attori vengono inglobati nel distretto per inserirli in dinamiche maggiormente competitive;

le azioni hanno carattere di premialità e di incentivazione rispetto a settori innovativi o al raggiungimento di ottimi obiettivi: gli attori vengono inglobati nel distretto in virtù della loro specializzazione settoriale e del loro carattere di competitività;

Reti corte: il profitto è essenzialmente localizzato, gli scambi di informazioni e conoscenze assai limitati, pressoché assente l’apertura ad altri sistemi analoghi;

Reti lunghe: il profitto anche in questo caso è essenzial-mente localizzato ma una parte di esso è reinvestito in in-novazione e scambio di pratiche di R&S con contesti anche internazionali. i mercati e i processi di dialogici di scambio hanno talvolta struttura cooperativa internazionale;

Fonte: elaborazione INEA – si veda Italo Talia, Forme, strutture e politiche della città, Liguori Editore, Napoli, 2002;

La strutturazione del distretto agro energetico costituito nei termini di sistema lo-cale innovativo poggia su una condizione indispensabile, ovvero la realizzazione di filiere strutturate e chiuse, in quanto solo con esse si possono diminuire i costi di produzione e di transazione, quindi rendere la coltivazione delle colture dedicate alla produzione di biomassa economicamente convenienti per l’agricoltore, con il trasferimento di valore ag-giunto alla fase di produzione primaria. La creazione di filiere favorisce lo sviluppo delle industrie di mezzi tecnici e di macchine, l’abbattimento dei costi di trasporto, la presenza capillare sul territorio di strutture di trasformazione e stoccaggio del prodotto, e di centri di vendita. Per la realizzazione di filiere strutturate risulta di fondamentale importanza il ruolo delle Regioni e degli Enti locali che, oltre a promuovere progetti legati all’uso delle biomasse, dovrebbero partecipare attivamente allo sviluppo del settore. La filiera corta, che rimane l’unica risposta reale in grado di sortire effetti positivi, infatti comporta un avvicinamento fra il momento della produzione a quello del consumo e questo richiede una particolare considerazione dei modi con i quali le persone stabiliscono dei legami: in questo tipo di progetti la relazione sociale per eccellenza deve essere rappresentata dalla reciprocità. Bisogna partire dall’idea di fondo che i distretti agroenergetici, e la relativa

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strutturazione interna della filiera, sono caratterizzati dal fatto che la fruizione di energia non è un mero fatto politico (garanzie di approvvigionamento e distribuzione sicura di un bene strategico) o un processo di natura tecnica ed economica (organizzazione efficien-te delle imprese distributrici, liberalizzazione dei mercati), ma coinvolge in pieno anche aspetti sociali e culturali connessi al valore simbolico dell’energia (problema ambientale, equità degli scambi, tanto per citare gli esempi più importanti). Pertanto le dimensioni geografiche della delimitazione dei sistemi territoriali e della prossimità spaziale degli ope-ratori economici, così come quelle economiche dell’integrazione verticale fra i settori, a partire dai collegamenti esistenti tra i vari stadi delle fasi produttive, devono collimare con la creazione e condivisione di un determinato, riconosciuto e riconoscibile, valore aggiun-to del progetto. Soltanto così si potrà pervenire alla implementazione di un sistema locale innovativo delle agroenergie, ovvero di un insieme di operatori stabilmente presenti su un dato territorio, generalmente predisposti all’accoglimento delle nuove tecnologie nonché allo sviluppo di comportamenti cooperativi di condivisione e potenziamento, sulla base di una governance strutturata e di un valore aggiunto comune, sul quale, giustamente insisto-no fattori di redditività attesa ed, in seconda battuta, realizzata. A questo punto si tratterà di identificare concretamente e fattivamente quali e quanti attori dovranno originare una serie di azioni di sistema coordinate tra loro, al fine di portare alla realizzazione del model-lo, ovvero del progetto di bacino agroenergetico in Campania.

5.1.2 Il bacino agro energetico ed il suo “valore aggiunto”: governance, tracciabi-lità e modello E.SCo

Il bacino agro energetico della Campania – che si basa sulle condizioni preliminari sin qui evidenziate, tanto che si parlerà di precondizioni per la sua attuazione – evidenzia la possibilità di concretizzare uno sviluppo auto sostenibile e durevole del territorio regio-nale, non solo dunque dell’areale di riferimento, basato sulla valorizzazione delle risorse e del capitale umano endogenamente disponibile. Da queste motivazioni, insieme a quanto detto circa gli scenari sovra regionali, la tutela dell’ambiente e l’importanza sempre cre-scente delle FER, nasce un vero e proprio processo economico ed istituzionale, al quale fare riferimento per la strutturazione del bacino agro energetico. Gli obiettivi generali e specifici, nonché le altre finalità pure indicate nel progetto, prendono forma e sostanza all’interno di un vero e proprio Piano di Azione, quale insieme di tappe, indicazioni e pre-scrizioni che possano dare origine, come secondo la definizione della Regione Campania, ad un “quadro organico contenente elementi di programmazione e pianificazione, finaliz-zati ad una corretta gestione del territorio, in riferimento all’insediamento degli impianti FER”209. In pratica, il bacino agro energetico si inserisce in un quadro legislativo già di per sé legittimato – si veda il PEAR e la normativa regionale in materia – in cui la massima attenzione deve essere posta verso due elementi:

– da una parte lo studio delle caratteristiche tecniche, biologiche e rurali del progetto, che gli attribuiscono un alto valore high tech e labour intensive;

– dall’altra, invece, alla dimensione politica, gestionale, economica e di governance del sistema stesso;

Pertanto, l’approccio concreto dovrà necessariamente basarsi sull’attivazione e multi

209 Si veda a tal proposito il Documento per la Consultazione del gruppo di lavoro della Regione Campania per la promozione della filiera agroenergetica dell’Assessorato all’Agricoltura e alle Attività Produttive, anno 2006.

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competenza di un insieme integrato di attori, così come indicato nella tabella qui sotto:

Tabella 5.9 – Piano di Azione Bacino Agroenergetico/ Gli attori del sistema

PROFILO ATTORE

di concertazione

• Regione Campania;

• amministratore locale;

• altro ente locale (es. comunità montane, parchi regionali);

• tessuto imprenditoriale locale (aziende, imprenditori nel campo agricolo ed agro energetico, operatori economici coinvolti o col-legabili alle varie fasi produttive);

• sistema finanziario privato;

• cittadini (Forum, associazionismo cittadino, comitati civici, assemblee di quartiere);

di sistema

• diversi per ogni realtà locale individuata;

• riferiti ai diversi settori: operatori del turismo, della salvaguardia del territorio, associazioni di categoria;

di monitoraggio

• Regione Campania;

• eventuale ente privato previsto dagli operatori economici del progetto;

Nello specifico, agli attori su indicati spettano precisi compiti di attuazione delle singole fasi del progetto, sempre all’interno della loro propria cornice di competenze istitu-zionalmente e legislativamente assegnate. Tuttavia queste due dimensioni – ovvero quella istituzionale e legislativa – fungono da quadro generale di riferimento per le regole e le norme da seguire e non devono essere interpretate in maniera stringente circa l’assegna-zione settoriale di compiti e funzionalità: partendo dalla necessità di realizzare un siste-ma essenzialmente aperto, disponibile cioè all’accoglienza e all’elaborazione di flussi di informazione ed indicazioni esterne di vario tipo – soprattutto economiche e della società civile – può darsi che alcuni compiti siano di fatto assegnati e/o riassegnati diversamente rispetto alle varie fasi di incontro e concertazione tra tutti gli operatori del sistema stesso, proprio in relazione al carattere dialettico e concertativo del bacino. Pertanto, a diversi attori corrisponderanno, almeno nelle più delicate fasi iniziali, diversi compiti:

– all’autorità regionale essenzialmente lo sviluppo della programmazione energetica 2007-2013, nonché la definizione di un iter disciplinare di riferimento che preveda strumenti di attuazione e assegnazione di specifiche funzioni e la pubblicizzazione/comunicazione del progetto attraverso iniziative ad hoc con finalità di marketing ter-ritoriale e di promozione della cultura territoriale di impresa, soprattutto in un settore dall’alto valore sociale ed ambientale come quello delle FER. In questa fase è altresì particolarmente importante concretizzare un certo livello di consenso intorno alle ini-ziative previste dal progetto. Nello specifico, gli operatori e soprattutto il livello locale della cittadinanza coinvolta non devono avvertire la realizzazione del bacino come “calato dall’alto”, come autoritativamente imposto, ma come invece “produttore” di benefici e vantaggi, anzitutto territorialmente radicati;

– all’amministratore locale, nella fattispecie della scala comunale dell’intervento, il re-cepimento delle direttive regionali, nonché servizi di supporto dati, analisi e strumenti di quantificazione territoriale. Allo stesso modo il comune coinvolto nel progetto deve fornire dati relativi all’assetto proprietario dei terreni individuati ed impegnarsi nella ricomposizione degli interessi coinvolti rispetto al’obiettivo che si intende realizzare.

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In tal senso il progetto non deve basarsi su una strategia di colonizzazione dei terreni e dei territori utili alla implementazione del bacino – facendo ricorso anche alle previste possibilità dell’esproprio e della pubblica utilità - ma piuttosto deve trarre forza da fasi – anche più o meno lunghe – di continuo dialogo e concertazione informativa in cui al livello amministrativo locale sia fatto chiaramente comprendere che essere favorevole alla realizzazione del bacino agro energetico sul proprio territorio è economicamente e socialmente conveniente, produce cioè positivi effetti di aumento del reddito, del tasso di occupazione, di mobilitazione del capitale materiale e sociale che innescano generali dinamiche di sviluppo locale;

– al tessuto imprenditoriale locale, la proposizione concreta del livello qualitativo e quantitativo da assegnare al progetto, in base alle tecnologie disponibili, all’esperienza nel settore, alle condizioni logistiche e del reddito dell’operatore individuato, alla ca-pacità di produrre occupazione e valore aggiunto per il territorio, nonché, di concerto con il livello regionale e comunale di governo, la netta individuazione del regime gene-rale di agevolazione fiscale e territoriale da assegnare a termini di legge. Nello specifico l’ente pubblico deve concordare il volume delle risorse disponibili per l’implementa-zione del progetto a partire dal trasferimento tecnologico che si intende realizzare dal mondo della ricerca al mondo della produzione industriale distrettuale (come in questo caso specifico), nonché quantificare gli incentivi disponibili per le imprese innovative e formalizzare le regole per il seed capital210. Queste funzioni, ad una prima lettura, possono sembrare appannaggio esclusivo del livello di governo pubblico coinvolto, ma in un’ottica di partenariato collettivo interistituzionale, che parte dalla condivisione delle norme di attuazione e degli obiettivi attesi, va da sé che anche il livello generale di risorse debba essere preventivamente stabilito, sia in base alle effettive economie di scopo che si intende realizzare sia in base alle diversificate esigenze che ciascun opera-tore sarà chiamato ad esprimere. Per questi motivi, l’assegnazione di risorse deve esse-re frutto di una sorta di burden sharing economico concordato, in modo da assegnare a ciascun operatore paritarie condizioni di partenza e di effettività progettuale. Tali riflessioni si riverberano e sono inoltre strettamente collegate anche alle peculiarità del sistema creditizio e finanziario con il quale ci si interfaccia. In particolare le ban-che hanno un’importantissima funzione di sostegno del reddito, soprattutto nelle fasi di start up del progetto considerato. Tuttavia le generali condizioni socio-economiche della regione sembrano propendere negativamente circa un sostegno privato, pertanto gli istituti di credito, anziché agire in prima linea nell’assunzione diretta del rischio di impresa, potrebbero fungere da ente concessionario e/o di controllo di ultima istanza nell’erogazione dei fondi previsti, come già sperimentato nell’assegnazione delle risorse relative ai bandi della legge 488/92211.

210 Si definiscono seed capital i fondi finanziari cui un imprenditore o un altro operatore economico-finanziario fanno riferimento per lo start up di una nuova attività economica. Tale pratica finanziaria non è per niente diffusa in Europa ma se ne conoscono significativi esempi solo negli Stati Uniti. Più nello specifico il seed capital riguarda un impegno pubblico da parte dello Stato, vero e proprio finanziatore delle attività economiche selezionate, al fine di sostenerne il rilancio, il risanamento e la riconversione, fino a che le condizioni di redditività non siano riequilibrate. Cfr., Parente R., Politiche per l’innovazione di impresa e formazione dei cluster tecnologici, Università degli Studi di Salerno, 2008.

211 Nella legge 488/92 il sistema creditizio aveva una duplice funzione di gestione delle risorse del CIPE e di controllo-re di ultima istanza, relativamente alla concessione dei finanziamenti. In pratica dopo una prima autorizzazione, i richiedenti del finanziamento – imprese che rispondevano a certi requisiti prestabiliti di attività economica e localizzazione produttiva – presentavano lo stesso progetto alle banche che, dietro ulteriore e definitivo controllo dei requisiti richiesti e della documentazione necessaria, assegnavano o meno le risorse previste, occupandosi anche di svolgere un controllo per stato di avanzamento della spesa. La lista delle banche concessionarie era precedentemente indicata a livello ministeriale.

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– alla cittadinanza, la comunicazione esterna – non tra gli operatori, ma tra i cittadini fruitori del sistema – dei vantaggi aggregati che il bacino potrà concretizzare, nonché la rappresentanza delle istanze sociali più importanti, relative al consenso e al rispetto di determinati requisiti che rendono possibile l’attuazione del progetto (es. clausole ambientali, etc.). Specificamente il progetto deve essere sostenibile, non solo nel senso ambientale e produttivo del termine, ma per la dimensione che in questo punto ci inte-ressa trattare, la sostenibilità concerne l’accettazione sociale da parte della comunità verso un progetto non ritenuto estraneo se non addirittura dannoso;

– agli operatori di sistema, ovvero contestualizzati al territorio di riferimento e ratio-ne materiae circa i saperi scientifici coinvolti nel progetto, compiti di potenziamento e perfezionamento del Bacino. Si pensi a tal proposito al ruolo che possono svolgere le Università, i Centri di Ricerca e Formazione e le Agenzie di Sviluppo territorialmente presenti. Più nello specifico il sistema della ricerca – includendo anche le Stazioni sperimentali, le Fondazioni e le Agenzie private – possono produrre nuove conoscenze nonché farsi promotrici di studi e ricerche settoriali, suscettibili in una seconda fase di applicazione industriale (vero e proprio obiettivo della ricerca in campo agroener-getico).

– agli enti del monitoraggio – in primis la Regione Campania – la strutturazione di pre-ordinate e continue fasi di controllo – in entrata dei capitali (rispetto delle condizioni e delle regole previste) ed in uscita degli output (livelli economici di reddito, energia pro-dotta) – attraverso cui realizzare un unico macroindicatore generale di performance, al fine di riorientare le azioni e correggere gli errori eventualmente rinvenuti. L’attività del monitoraggio esprime una importantissima funzione di reset del sistema, fonda-mentale per la realizzazione di un sistema quanto più perfetto e perfettibile possibile. A tal proposito il monitoraggio deve essere per lo più di carattere pubblico, in quanto si deve ancorare alla facoltà e al potere decisionale di misure, provvedimenti correttivi e legislativi che solo in una dimensione pubblico-amministrativa possono trovare la necessaria legittimità richiesta. Ciò, comunque, non escluderebbe l’istituzione di altre forme di controllo e monitoraggio imbastite dagli stessi operatori privati integrati nel Bacino, ma a patto che questi concordino preventivamente, con il livello di governo interessato, la dimensione e le caratteristiche delle attività che in tal senso si intende effettuare.

Per lo sviluppo compiuto di un sistema del genere, occorre che tutti gli sforzi di ciascun portatore di interessi vengano integralmente indirizzati verso la pianificazione ottimale delle attività previste per l’implementazione del progetto. Soltanto se ciascun agente “farà la sua parte” si potrà avere un adeguato funzionamento del sistema, nonché l’affermazione vera e propria del valore aggiunto, da redistribuire a tutti i partecipanti del sistema-bacino. In pratica, il valore aggiunto del realizzando bacino agro energetico è la risultante del completo utilizzo del potenziale territoriale precedentemente individuato e definito, nonché la massima sostenibilità ambientale del progetto e la massima ricaduta socio-economica del progetto per tutti i livelli amministrativi e territoriali coinvolti. Per questo motivo, tutti gli elementi sin qui considerati, devono dar vita ad una continua e continuata azione politica di pianificazione e di governance della stessa: realizzare un bacino agro energetico non è per niente semplice e necessita di un’attenzione di lungo/lunghissimo periodo da parte delle pubbliche amministrazioni proponenti, giacché le pro-grammazioni che intendono sortire effetti sul breve periodo non possono ragionevolmente riassumere in pochi mesi la complessità di una fase di studio, concertazione, applicazione e monitoraggio di un progetto del genere, sia per ragioni squisitamente politiche sia per

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motivazioni di ordine pratico. In merito alle ragioni di stampo politico è importante sotto-lineare che inizialmente gli stakeholder territoriali, e particolarmente i livelli inferiori di governo come ad esempio i comuni e le comunità montane che pure un’importante ruolo potrebbero giocare, potrebbero accogliere in maniera non pienamente positiva tale proget-tualità, per conoscenza limitata della materia o semplicemente per una maggiore attenzio-ne verso quelle strutture definite igieniche del territorio, che purtroppo in certi contesti sono mancanti o urgono di significativi miglioramenti. Ed è qui, in questa iniziale difficoltà degli attori territoriali, in questa e verso questa conoscenza parziale del progetto e delle dinamiche che si possono originare, che l’amministrazione pubblica interessata deve farsi essenzialmente e principalmente carico di comunicare il valore del progetto sul lungo periodo, procedendo in maniera assai articolata, con scadenze, termini ed individuazione precisa di azioni da compiere, monitorando costantemente il cambiamento di atteggia-mento (iniziale, di medio e di lungo periodo) degli attori intervistati da coinvolgere. In tal senso si tratta di definire e strutturare una governance agroenergetica globale che si può così definire:

un sistema a rete partenariale estesa di governance agroenergetica locale, gestita attraverso la partecipazione condivisa degli attori/stakeholder coinvolti a cui sono sta-ti precedentemente assegnati compiti specifici all’interno di una riconosciuta cornice disciplinare di livello governativo superiore (regionale). Economicamente e socialmen-te gli attori parte del progetto devono essere supportati dal radicamento territoriale e potenziamento gestionale del “valore aggiunto” incarnato e realizzato dal bacino agro energetico stesso, al fine di redistribuire i benefici effetti economici attesi in termini di aumento del reddito, impiego della manodopera locale, impiego del capitale umano lo-cale altamente qualificato, nonché potenziamento sistemico degli operatori del mondo della ricerca e della formazione e degli obiettivi della tutela ambientale e della ricon-versione energetica pulita. La struttura base è di natura consortile, con interventi di programmazione a cascata, ovvero a carattere regionale (normativa e linee strategiche) provinciale e locale (areale di riferimento e concertazione tra le istituzioni), in base alle necessità di volta in volta espresse.

Un sistema, in cui al centro della riflessione e dell’attività politica ed economica viene posto il bacino, quale modello aperto funzionale di produttività ambientale, strut-turato sulla base di filiere di autoconsumo e, soprattutto, microfiliera territoriale per la generazione e distribuzione di energie alternative pulite provenienti da biomasse. Questa modalità deve essere concepita come territoriale – tanti territori tante filiere diverse – e come innovativa, poiché sposta l’attenzione dall’interesse comune del singolo operatore economico (l’imprenditore nel campo delle agroenergie) e dall’interesse corporativo della categoria (un gruppo di imprenditori che intendono investire risorse nello stesso settore economico), verso tutti i soggetti interessati, ovvero il territorio (in quanto soggetto mate-riale del progetto), l’ente pubblico, l’operatore economico e la comunità locale. In relazione alla definizione del valore aggiunto e alla determinazione della governance del bacino, i veri e propri collanti che rendono possibile l’attuazione del progetto, vi sono numerosi problemi da risolvere, o meglio fattori di debolezza, messi in luce da alcuni studi in ma-teria di sviluppo rurale e sulla scorta di altri progetti già realizzati212. Si tratta, così come

212 Per gli studi si è consultato Marchetti A., Governo e uso sostenibile delle risorse energetiche e ambientali, nuove opportunità per le aree interne. Per i progetti già realizzati sono stati studiati i casi della Comunità montana di Camerino – Progetto di distretto energetico vento-legno di Camerino – e la prima fase di sviluppo dell’eolico nella Regione Campania ai sensi della programmazione 1992-2001 CIP 6/92.

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introdotto nelle pagine precedenti, di difficoltà relative ai tempi della realizzazione: lo stato dell’arte non permette di calare sul territorio, velocemente e senza incontrare problemi, progetti così complessi, giacché si verificano seri rallentamenti relativi alle lungaggini degli iter autorizzativi e alla costruzione, combinata ed integrata, di condizioni economiche e di condivisione sociale più inclini alla strutturazione di cicli produttivi della fattispecie fino-ra indicata. Pertanto le problematiche che la governance del bacino agro energetico sarà chiamata a risolvere atterranno principalmente:

1. alla generica limitata disponibilità all’impiego di capitali per investimenti tecnologici;2. alla debolezza del sistema creditizio;3. alla non immediata percezione del valore economico da parte degli operatori e del va-

lore sociale da parte della comunità locale;4. incertezze nelle fasi della programmazione politica ed economica degli interventi da

parte del governo nazionale e soprattutto regionale;5. generale mancanza di cultura territoriale informativa e tecnologica;

Quali strumenti, o meglio, quali elementi devono caratterizzare il bacino agro ener-getico per risolvere tali problematiche, o quanto meno per fronteggiarli man a mano che si presentano? Questo è senza dubbio un interrogativo di ampio interesse, ma sin da subito bisognerà limitare il campo delle riflessioni, ed in questo caso delle risposte, verso fattori e condizioni che non costituiscono certamente la panacea per tutti i fattori di debolezza che si possono individuare quando si struttura un progetto, né si potrà ragionevolmente trat-tare di soluzioni erga omnes. In riferimento al punto 1, ad esempio, fondamentale si rileva l’opera della programmazione politica di lungo periodo, al fine di mettere a disposizione delle risorse già preventivamente in capitolo di spesa, mentre al punto 2 si potrà rispondere con il rafforzamento del sistema creditizio in termini di sviluppo di strumenti innovativi come il venture capital, business angels o i già citati seed capital di derivazione pubblica che però possano coinvolgere a vario titolo anche gli istituti privati, così come al punto 3 si potrà provvedere con l’articolazione di un adeguato piano di comunicazione interno ed esterno al sistema di operatori del progetto. Tuttavia, ancora una volta, la dimensione che sembra in grado di accludere e risolvere dal suo interno la maggior parte delle problemati-che man a mano evidenziatesi, è quella economica, verso la creazione di valore in termini di:

– mobilitazione di manodopera e di personale qualificato direttamente dal mercato loca-le del lavoro (anche per questo la filiera deve essere locale);

– infrastrutturazioni per lo sviluppo del bacino direttamente sul territorio; – fìtti/vendite/comodati di uso per i terreni delle installazioni; – partecipazione in quota capitale da parte degli enti locali alle quote di ricavo prodotto; – abbassamento del costo di lavorazione della materia prima (con conseguente rinnovato

interesse dell’imprenditore agricolo per il settore agro energetico); – abbattimento dei costi di stoccaggio, riciclo e trasporto; – caratterizzazione elettrica e termica della produzione di energia, con conseguente ri-

duzione del carico sulla rete tradizionale e riduzione del costo dell’energia per gli im-prenditori e la comunità locali;

– ricorso ai produttori locali per la produzione di impiantistica e componentistica; – stanziamento di fondi per lo studio applicato sulle biomasse e sulle dinamiche dell’in-

novazione tecnologica per i centri di ricerca e le Università; – commercializzazione di prodotti energetici verdi; – autoproduzione e autoconsumo;

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Questi benefici, i più pregnanti da un punto di vista strettamente produttivo e di adesione al sistema, costituiscono un complesso di condizioni favorevoli da tutelare e po-tenziare, anche perché la loro realizzazione rende possibile la concretizzazione congiunta di tutte le altre ricadute positive per il bacino agro energetico e per la comunità locale che ne è interessata. A questo punto, dopo averne definito i contorni e le caratteristiche principali, la governance si deve basare su sistemi concreti di governo locale e di raccor-do interattoriale tra i vari portatori di interesse del territorio e del progetto considerato, sia in relazione ai compiti specifici sia in relazione all’utilizzo delle risorse. In pratica la governance del sistema bacino agro energetico assume definitivamente un livello ed una macrodimensione di competenza e fattività principalmente regionale: ciò non significa che lo scaling comunale e locale propriamente detto siano assenti, ma soltanto che sono stati inglobati e precedentemente considerati nelle prime fasi di programmazione e deci-sione. Il comune interessato così come l’ente locale non sono scomparsi dal progetto, anzi sono sempre il centro economico-territoriale dal quale partire per il bacino e la filiera, ma questi si appoggiano ugualmente al livello superiore di governo – quello regionale, ap-punto – per trarne potenziamento ed accompagnamento nelle fasi di start up, proprio per scongiurare il pericolo di una sua futura dipendenza e di un suo perenne agganciamento a dinamiche afferenti ad ambiti territoriali più vasti come la regione, ad esempio, in quanto le situazione ambientali e produttive sono assai diversificate anche nel raggio di distanze relativamente brevi. La governance regionale, pertanto, sarà di tipo disciplinare, di pro-mozione e regolamentazione attraverso l’individuazione e razionalizzazione degli areali e dei bacini territoriali ottimali per lo sviluppo delle FER. Tale iter si realizza in ottempe-ranza della legge 10/91 “Norme per l’attuazione del Piano Energetico Nazionale in materia di uso razionale dell’energia,di risparmio energetico e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia” e anche del Dlgs 387/03 “Norme per l’attuazione della Direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità”, individuando nel PEAR lo strumento di pianificazione principale. A questa struttura di base fanno da cornice di completamento altri strumenti come il Catasto Regionale delle Biomasse (per la valutazione del potenziale disponibile in maniera difforme sul territorio), la Valutazione Ambientale Strategica (VAS), il già ci-tato Piano di Comunicazione (sviluppato nel paragrafo successivo) ed infine, ma non per importanza, i Protocolli di Intesa tra Regione, Enti Locali, Imprese e Cittadini, per lo svi-luppo globale di un mercato delle agroenergie, sempre e solo per gli stakeholders ricadenti nel territorio-progetto del bacino. La caratterizzazione distrettuale del modello di produ-zione agroenergetica territoriale sin qui delineata, annovera numerosi vantaggi rispetto al singolo impianto aziendale di auto sussistenza, trattandosi di produzione di energia dal chiaro carattere integrativo delle fonti tradizionali o di potenziamento di generazione distribuita, rispetto anche ad altre Fonti Energetiche Rinnovabili diverse dalle biomasse. Innanzitutto l’aspetto problematico dei costi di gestione degli impianti e di produzione/redistribuzione della energia derivante dalle biomasse, pone un’esigenza di maggior co-ordinamento ed armonizzazione degli attori locali della filiera, al fine di determinare un abbattimento dei costi rispetto a forme unipersonali di impresa nello stesso settore eco-nomico di appartenenza. Allo stesso tempo il distretto supera il problema della cronica mancanza di capitali per l’investimento nel settore delle FER: in tal senso la costruzione di un sistema allargato di imprenditori che investono inizialmente i propri capitali, con il sostegno integrativo degli enti locali (modalità combinata di autofinanziamento e sgravio fiscale), crea le premesse necessarie per un totale coinvolgimento degli operatori nella corretta e virtuosa gestione della nuova attività, ovviando primariamente all’esigenza del

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finanziamento, quasi o del tutto assente da parte di un sistema creditizio attualmente in crisi e generalmente poco sensibile verso tali realtà, specie se strutturate su scala locale. Il finanziamento dei progetti relativi alle FER e alle energie alternative da parte del sistema bancario sconta una generale mancanza di approccio sistemico nella loro propria valuta-zione, con una serie di conseguenze negative:

– la valutazione finanziaria effettuata è spesso ancorata ad un arco temporale di breve-medio periodo, entro cui l’istituto bancario si attende legittimamente ricavi positivi dal capitale investito. Trattasi tuttavia di una logica concorrenziale di mercato assai asfittica, in quanto non legata a dinamiche di lungo periodo, così come invece sugge-risce la messa a sistema di progetti di natura energetico-ambientale, per permettere il radicamento di prassi ed azioni all’interno di contesti economici e territoriali locali che sono quasi sempre sprovvisti di esperienze pregresse simili;

– sono preferibilmente oggetto di esito positivo singoli interventi o particolari tipologie di interventi strutturali collegati al potenziamento e allo sviluppo delle fonti energe-tiche alternative, ma non già progetti territoriali di sistemi FER veri e propri. Basti compiere una breve analisi dei prodotti finanziari previsti dai maggiori istituti bancari nazionali per rendersi conto delle operazioni oggetto di finanziamento. Il riferimento riguarda le misure attinenti ai cosiddetti micro mutui rinnovabili e mutui di ecofi-nanziamento, con destinatari beneficiari privati, per lo più proprietari di stabili ed immobili oggetto di ristrutturazione ed installazione di fotovoltaico o altri sistemi di alimentazione energetica alternativa. Per quanto riguarda le biomasse e lo sviluppo di sistemi di produzione e generazione distribuita di energia, la situazione è molto più complessa, in quanto i finanziamenti resi disponibili dal sistema creditizio sono di molto inferiori rispetto alla prima categoria di interventi, essendo per lo più legati ad uniche forme di prestiti business, già previsti per altre aziende ed in generale per tutti i tipi di operatori economici che necessitano di linee di credito. In tal senso il difetto principale è rappresentato dalla non piena comprensione della particolarità del settore delle FER e della mancata consapevolezza dell’ulteriore valore sociale, dunque non solo economico, che tali progetti rivestono dal punto di vista ambientale e territoriale;

– ad aggravare una già complicata situazione si aggiunge inoltre lo scarso sviluppo di strumenti di finanziamento e di credito alternativi agli istituti bancari. I cosiddetti business angels o forme di credito etico per l’ambiente (dalle condizioni economi-che di rientro particolarmente vantaggiose) sono quasi del tutto assenti nel contesto locale, data la particolare complessità del comparto economico delle FER, accompa-gnato da un immobilismo della classe dirigente che non promuove prassi ed attività sperimentali.

È anche per questi motivi che il modello distrettuale di associazione condivisa e con-divisione economica sembra essere la migliore soluzione tecnica, organizzativa e gestionale per il radicamento di un complesso progetto di produzione agroenergetica regionale, anche verso lo sviluppo di realtà aziendali ancora più strutturate come ad esempio le ESCo e gli Ecoparco Industriali. Molti interventi relativi all’installazione di tecnologie energeti-camente efficienti presentano indici di redditività economica positivi se confrontati con interventi di ristrutturazione del processo o di riorganizzazioni interne volte all’amplia-mento o al miglioramento dei servizi offerti ai consumatori finali di energia. A fronte di tale vantaggio scontano però un’importanza ed una visibilità decisamente minori, resa più evidente in un contesto locale a bassa intensità energetica come il nostro, che comporta spesso un loro accantonamento ed una sottostima da parte del management economico presente. Tale decisione si spiega talvolta anche per la mancanza di personale esperto di

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tematiche energetiche all’interno del quadro territoriale di riferimento, che aumenta i ri-schi correlati ad interventi di razionalizzazione dei consumi di energia. Un caso particolare è rappresentato invece dalla Pubblica Amministrazione, che si trova a dover gestire rigidi capitoli di spesa usualmente in carenza di fondi rispetto alle esigenze complessive, e che pertanto si trova in molti casi a soffrire di scarsità di risorse finanziarie. Tali inconvenienti possono essere superati attraverso il ricorso al finanziamento tramite terzi (FTT o TPF nell’acronimo inglese): tale strumento prevede la partecipazione di un soggetto terzo che fornisce le disponibilità finanziarie necessarie alla realizzazione dell’intervento desidera-to, purché esso sia caratterizzato da un rischio molto contenuto e da un flusso di cassa sostanzialmente stabile originato dai risparmi energetici conseguiti. Ciò permette infatti a tale soggetto di ripagarsi dei costi di installazione e gestione dell’impianto sostenuti in un tempo ragionevole. Le ESCo, ovvero Società di servizi energetici, operano in tale con-testo reperendo le risorse finanziarie richieste, eseguendo diagnosi energetica, studio di fattibilità e progettazione dell’intervento, realizzandolo e conducendone manutenzione ed operatività. Alcune di queste attività possono essere affidate in outsourcing ad altri sog-getti (ad esempio l’installazione dell’impianto o la sua manutenzione) od essere eseguite in proprio dalla ESCo stessa. Al termine del periodo richiesto per rientrare dall’investimento e remunerare le attività della società di servizi, l’impianto viene in genere riscattato dal soggetto beneficiario dell’intervento, mentre la sua gestione può essere lasciata in carico alla ESCo o affidata ad altri soggetti. Per quanto riguarda il canone da versare alla società di servizi sono possibili soluzioni molto varie e legate al caso particolare. La somma dovuta è compresa fra l’ammontare della bolletta energetica annua ed una sua quota, a seconda della redditività dell’intervento e dell’efficienza precedente l’intervento, del numero di anni di durata del contratto, dal rischio assunto e delle esigenze del soggetto beneficiario. La so-luzione più comune e vantaggiosa tuttavia è rappresentata dalla ripartizione del risparmio, per cui alla ESCo viene riconosciuto un 70-90% della bolletta energetica annua (shared saving), anche se sono comunque comuni casi in cui alla ESCo tocca l’intera entità del risparmio conseguito, cui corrisponde il minimo tempo di riscatto dell’impianto da parte del beneficiario, e contratti a garanzia dei risultati, che consistono in una forma di leasing in base alla quale all’utente viene garantito al termine del contratto un’entità dei risparmi pari almeno all’ammontare delle quote versate, comprensive di interessi. I vantaggi di ope-rare in uno schema di questo tipo per l’utente sono:

– l’assenza di rischi finanziari (in caso di intervento sbagliato e non remunerativo chi ci rimette è la ESCo che si assume tutte le responsabilità al riguardo);

– l’opportunità di realizzare interventi anche in mancanza di risorse finanziarie proprie ed in presenza di difficoltà nel reperire finanziamenti esterni;

– la risoluzione delle problematiche connesse alla gestione e manutenzione dell’impian-to;

– la disponibilità di risorse interne per altri compiti; – la possibilità di conseguire benefici energetico-ambientali importanti, tenuto conto del

fatto che i profitti della ESCo, in presenza di un contratto ben realizzato, sono propor-zionali all’efficienza dell’impianto.

Ovviamente tali vantaggi hanno bisogno di una struttura contrattuale chiara, che disciplini e regoli chiaramente responsabilità e ruoli degli attori coinvolti, al fine di:

– garantire l’utente (consumatore locale di energia) circa l’efficacia e l’efficienza dell’in-tervento energetico realizzato, tenuto conto anche dell’andamento instabile del merca-to energetico e tecnologico ivi collegato;

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– tutelare la ESCo in modo che riesca effettivamente a rientrare dai costi sostenuti ed a realizzare una certa quota di profitto. Tali aspetti, inoltre, rendono possibile la concre-tizzazione di una vera e propria dimensione economica degli interventi così realizzati. Il richiedente l’intervento del terzo per il prestito, l’utente locale finale, l’imprenditore, il costruttore dell’impianto, il proprietario dei terreni, diventano così tutti attori di un unico sistema economico locale basato sulle FER.

A tal proposito, i punti da considerare con attenzione per l’implementazione di un modello ESCo riguardano l’elaborazione di una attenta indagine relativa ai profili e agli stili di consumo dell’utente locale di energia ex-ante ed ex-post (ovvero il consumo finale di energia effettuato prima del progetto e quello atteso in termini di potenziamento all’in-domani della realizzazione del progetto), il possibile andamento dei prezzi di elettricità, gas naturale ed altri combustibili, l’affidabilità delle fonti naturali nel nostro caso degli im-pianti basati su biomasse, la possibilità di prevedere adeguamenti dei corrispettivi dovuti in base all’andamento del mercato ed eventualmente dei risultati effettivamente conseguiti grazie all’intervento, la stipula delle opportune garanzie ed assicurazioni sia dal punto di vista finanziario sia da quello tecnico (dipendente in larga parte dall’esperienza e dei sog-getti di cui si avvale la ESCo). La complessità del distretto, in primis, e dell’organizzazione di un modello interno basato sulla ESCo, in secondo luogo, dipende dalla maturità degli attori coinvolti e dalla standardizzazione/proceduralizzazione delle azioni previste e suc-cessivamente realizzate. Va sottolineato che allo stato attuale non esiste alcuna definizione di ESCo: il primo accenno ufficiale a questa denominazione, peraltro esistente all’estero ed in Italia ormai da decenni, si trova nei D. M. 24 aprile 2001 sull’efficienza energeti-ca, mentre la Delibera 103/03 dell’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas ha introdotto come requisito la presenza nell’oggetto sociale, anche in modo non esclusivo, dell’offerta di servizi integrati per la realizzazione e l’eventuale successiva gestione di interventi. Il di-stretto delle agroenergie che trova nella strutturazione della ESCo un interessante quanto adottabile esempio di gestione economica e tecnica della produzione di energia, tende più specificatamente alla realizzazione di un modello regionale-locale di ecologia industria-le213, basata sulla sostenibilità e sulla competitività dei costi finali. Per il sistema produttivo locale, il distretto agroenergetico:

– porta allo sviluppo di nuovi comparti; – ad un aumento dell’occupazione ad alti livelli ed in linea con la nuova offerta territo-

riale; – riduzione dei costi ambientali; – rinnovamento del patto sociale tra comunità e governo locale; – al profilarsi di un modello energetico e produttivo ancora più complesso, come ad

esempio l’Ecoparco Industriale.Il modello dell’Ecoparco industriale costituisce l’idealtipo di produzione manifattu-

riera sostenibile, in quanto le tecnologie di processo e di prodotto vengono ad essere col-legate all’aspetto dell’efficienza energetica (quali e quanti fonti energetiche disponibili) e della loro propria installazione sul territorio: trattasi di una forma avanzata di integrazione tra industria e sistema energetico di riferimento, implementabile per lo più in realtà ter-ritoriali che già posseggono strutturati sistemi di gestione delle problematiche ambientali ed elevati livelli di reddito disponibili per il perfezionamento delle realtà industriali già

213 Il termine ecologia industriale è stato coniato per la prima volta da Robert Frosch in un articolo del 1989 pubbli-cato sulla rivista ambientale americana Strategies for manufacturing. Si intende il ricorso all’insieme delle prassi e delle azioni di produzione manifatturiera ed industriale attuate nel rispetto dei criteri della sostenibilità, riuso, riciclo, riconversione e rispetto dell’ambiente.

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esistenti. Considerazioni analoghe possono essere formulate in relazione al capitale umano e al know-how necessario per l’implementazione del distretto, giacché risulterebbe assai complicato – se non del tutto impossibile – operare una gestione corretta degli impianti e delle attività da parte del singolo imprenditore agricolo, molto spesso proprietario dei ter-reni senza una formazione professionale e culturale affine alle conoscenze tecnico-specia-listiche del settore. Per tale motivo, al di là delle caratterizzazioni organizzative prescelte, l’affidamento a personale qualificato, in tutte le fasi ed in tutti i casi, risulta fondamentale sia per una corretta gestione sia per una messa in sicurezza degli impianti, non tralascian-do inoltre le positive ricadute territoriali in termini occupazionali e formativi. Pertanto, il modello distrettuale si pone come soluzione a varie problematiche, quali:

– la presenza di risorse e capitali che seppur territorialmente presenti, sarebbero altri-menti sparsi alla rinfusa e senza la possibilità di collegamenti logici e di messa a siste-ma di valore economico e produttivo;

– capitale umano poco qualificato, accompagnato dalla mancanza di figure specialisti-che nel campo delle FER;

– costi di gestione e di produzione troppo esosi per i singoli imprenditori agricoli, senza menzionare la complessità burocratica ed insediativa che gli impianti FER registrano nella fase di implementazione definitiva;

– la mancata sperimentazione di modelli e prassi organizzative innovative, tipo ESCo, partenariato pubblico-privato, forme cooperative di associazione tra gli attori locali.

L’elencazione qui presentata, tuttavia, non presenta certamente un elevato tasso di esaustività: come è stato possibile notare sin precedenza, molto più pregnanti e numerosi sono i fattori che spiegano il perché della scelta distrettuale rispetto ad un modello locale di integrazione degli attori per la costituzione di una filiera agroenergetica e, all’interno di questi elementi, una menzione a parte meritano altri due aspetti, ovvero la tracciabilità delle biomasse e il perfezionamento di un sistema energetico caratterizzato da generazio-ne distribuita.

Il distretto delle agroenergie, basato sulla costituzione di una filiera corta, si pone anche come costruttore di un sistema locale di tracciabilità della biomassa da conferire direttamente agli impianti. In quanto materia prima sottoposta a processi di lavorazione all’interno degli impianti e dunque direttamente collegata all’aspetto della produzione di energia elettrica, la biomassa deve essere oggetto di controlli da parte degli operatori scien-tifici regionali, al fine di:

– determinare il livello qualitativo e quantitativo della sua composizione, apportando analisi e dati di valore scientifico che acclarino chiaramente la salubrità delle sostanze presenti;

– scongiurare l’effetto NiMBY presso la comunità locale di insediamento dell’impianto;In pratica, istituire – sempre sulla base delle direttive comunitarie e nazionali – un

sistema locale vero e proprio di controllo e condivisione dei dati, che non faccia leva su stringenti condizioni burocratiche previste a livello centrale (come ad esempio l’osservan-za delle clausole di condizionalità prevista dalla UE e dall’Agenzia per le erogazioni in agricoltura - AGEA per il rispetto dei pagamenti previsti), ma che si informi invece di pe-culiarità, prerogative e possibilità già presenti presso gli operatori ed il contesto territoriale individuato, al fine di determinare una sorta di sistema che controlla se stesso, dall’inter-no, per cui le prassi e le norme di carattere centrale possono prefigurarsi come opportunità di ulteriore regolarità e rispetto della legge, e non come l’ennesimo pericolo da scongiurare o affrontare nel miglior modo possibile.

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Tale sistema può realmente contribuire alla diversificazione delle attività, attraverso l’integrazione completa della filiera per le imprese agricole che decideranno di diventare anche produttrici di energia elettrica con materia prima autoprodotta e volontariamente tracciabile ai fini dell’accesso immediato agli incentivi. Oggetto del controllo sono tutti i tipi di biomasse localmente prodotte, ovvero quelle derivanti da prodotti agricoli, di alle-vamento e forestali, nonché le biomasse da intese di filiera (prodotte nell’ambito di IdF – Intese di Filiera – e di Contratti Quadro ai sensi degli artt. 9 e 10 del D. lgs. n. 102 del 2005) e la biomassa da filiera corta (ovvero sostanze di scarto prodotte entro il raggio di 70 km dall’impianto di produzione dell’energia elettrica, ovvero distanza intercorrente tra l’impianto di produzione dell’energia elettrica e i confini amministrativi del comune in cui ricade il luogo di produzione della biomassa). Alla definizione della biomassa segue l’appli-cazione delle modalità per la tracciabilità e la rintracciabilità della biomassa. Sulla base del D. M del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali del 2 Marzo 2010, in attuazione della L. 27/12/2006 n. 296 “Tracciabilità delle biomasse per la produzione di energia elettrica”, il produttore locale che conferisce la biomassa al gestore finale dell’impianto deve presen-tare documentazione allegata attestante:

– la presenza di certificati verdi; – documenti di trasporto (Ddt) attestanti il nominativo dell’azienda di provenienza della

materia prima, con analisi quantitativa e tipologia della biomassa (ovvero da colture dedicate, gestione boschi e silvicoltura, residui attività agricole, residui attività agroa-limentari, zootecniche e forestali, residui sola zootecnia);

– contratti di fornitura della biomassa tra imprenditore agricolo (CoF – Collettore Fi-nale) che conferisce al gestore finale dell’impianto (OE, ovvero Operatore Elettrico in quanto gestore di un IAFR – Impianto Alimentato da Fonti Rinnovabili);

– altre documentazioni contenenti i dati anagrafici dei responsabili, nonché i dati ca-tastali, fiscali e di CUAA (Codice Unico delle Aziende Agricole) del singolo operatore.

Il potenziamento locale di questo sistema già previsto a livello centrale può costituire un ulteriore rafforzamento dei controlli di regolarità effettuati da parte dell’AGEA, anche sulla base dei dati SIAN (Sistema Informatico Agricolo Nazionale), nonché offrire al di-stretto territorialmente radicato altre possibilità di sviluppo: infatti la standardizzazione di una procedura condivisa di controllo della tracciabilità della materia prima utilizzata (in questo caso la biomassa così come prima definita), potrebbe fungere da buona pratica per progetti caratterizzati dall’utilizzo di altre materie prime (si pensi ad esempio alla pro-duzione di biocombustibili di origine vegetale ai sensi della Circolare del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali sul sistema di tracciabilità degli oli vegetali puri per la produzione di energia elettrica al fine dell’erogazione della tariffa onnicomprensiva di 0,28 euro a kWh prevista in attuazione della legge 99/2009). Il sistema di controllo e monitoraggio così potenziato a livello locale può finalmente dirsi compiuto e costituire un vero e proprio volano di sviluppo non solo per un singolo esperimento distrettuale locale, ma anche per tante altre realtà territorialmente vicine e geograficamente integrabili: a tal proposito più che di un unico e solo distretto agroenergetico di grandi proporzioni (che giocoforza riproporrebbe il modello della grande centrale di produzione energetica, con tutti i costi ambientali ed in termini di uso del territorio che sono stati fin qui ben illustra-ti) si dovrebbe parlare di una serie di centri di piccola taglia di generazione distribuita di energia. In tal senso:

– l’uso del territorio diventa razionale, impiegando solo parti necessarie per il progetto, con minor ricaduta ambientale sia in termini di tutela sia per le condizioni urbanisti-

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che e residenziali delle comunità vicine; – l’integrazione tra gli attori non avviene solo sulla base della prossimità geografica, ma

sulla scorta di fattori economici e funzionali (coproduzione e codistribuzione di ener-gia elettrica);

– l’approvvigionamento non è più esterno, bensì interno, rispondente al fabbisogno, alla capacità tecnica e funzionale dei micro-impianti tra di loro collegati, secondo una logica di completamento e potenziamento delle reti e della distribuzione tradizionale;

– si realizza la piena armonizzazione di fonti energetiche alternative diverse tra loro, ovvero maggiorazione nella produzione finale di energia elettrica non solo attraverso il conferimento della biomassa, ma in maniera combinata anche sulla base di altre fonti e mezzi, come ad esempio l’installazione di impianti eolici, fotovoltaici, geotermici.

5.2 Il piano di comunicazione del bacino agroenergetico

5.2.1 Il profilo teorico preliminare tra marketing ambientale e brand del territorioLa realizzazione del bacino delle agroenergie, così come declinato nella forma pre-

cedentemente illustrata, necessita del supporto di un’articolata quanto integrata e com-plessa politica di comunicazione di livello pubblico-istituzionale. Tale politica di comu-nicazione del progetto, fondata su strategie multisettoriali di valorizzazione del territorio e delle attività economiche implementate e/o implementabili214, si caratterizza pertanto per l’elaborazione finale di un vero e proprio Piano di Comunicazione (da qui in poi PdC), anche alla luce dei vari elementi attinenti al marketing del territorio e dell’ambiente. In tal senso il progetto-bacino delle agroenergie assume il valore di progetto innovatore, quale fattore strategico per lo sviluppo dei territori e delle attività ricadenti nell’areale progettuale prescelto. La letteratura dello sviluppo locale e del marketing territoriale al riguardo è molto prodiga di teorie e definizioni215, ma per gli aspetti di nostro interesse la riflessione sarà sostanzialmente limitata a due elementi: da una parte la rilevazione di un preliminare livello di classificazione e, dall’altra, invece, l’analisi del concetto di progetto innovatore come trait d’union tra lo studio dei filoni teorici alla base della formulazione del progetto considerato e le successive determinazioni funzionali e di natura tecnico-pratica che ne derivano. Il progetto innovatore consiste nello sviluppo di una iniziati-va di notevoli dimensioni economiche e strutturali, generalmente ex-novo (o comunque attinente a progetti poco sviluppati in precedenza) rispetto alle attività preesistenti nel territorio coinvolto, sia a livello di agire politico sia di sistema economico-produttivo, con il chiaro obiettivo di avviare un ampio processo di sviluppo nell’area dove è realizzato, attraverso il dispiegamento di importanti ricadute come ad esempio l’attrazione di nuovi flussi di investimento sia pubblico sia privato, piuttosto che la generazione di spin-off o il cambiamento della percezione che gli utenti e gli investitori hanno di solito dell’area in-teressata. Dal punto di vista della politica di comunicazione, definire che tipo di progetto l’amministrazione pubblica, il privato o comunque il soggetto proponente-realizzatore,

214 A tal proposito ci si riferisce alla cosiddetta “valutazione del potenziale delle biomasse” e di tutte le attività eco-nomiche correlate che potrebbero svilupparsi successivamente alla loro rilevazione, valorizzazione e messa a sistema.

215 A tal proposito, un prezioso strumento di consultazione si rivela il testo di M. G. Caroli intitolato Il Marketing Ter-ritoriale. Specificamente al riguardo del concetto di progetto innovatore si vedano altresì le posizioni critiche di P. Boccardelli, G. Guido, I. Paniccia. Cfr., Caroli G. M., Il Marketing Territoriale, Franco Angeli Editore, Milano, 2002, pp. 175-213.

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intende portare a termine, è di fondamentale importanza per molteplici motivi. Anzitutto l’attenzione verso le esternalità che lo stesso è in grado di generare216 (aspetto economico del project financing e della condivisione dei costi e del valore economico atteso e prodot-to per gli stakeholder coinvolti) nonché il tipo di comunicazione che bisogna organizzare e “calibrare” rispetto ai pubblici interni ed esterni di riferimento. Infatti, un progetto ambientale interamente supportato da e per un ente pubblico necessiterà certamente di un diverso tipo di comunicazione rispetto alla progettualità sviluppata, invece, solo ed esclusivamente da un privato, così come il profilo scientifico e ambientale di un’iniziativa è di difficile comprensione per un’utenza media di riferimento mentre, all’opposto, tro-varsi di fronte ad un pubblico di specialisti della materia agevola notevolmente il compito della comunicazione di particolari elementi, parte di un più complessivo e vasto progetto. Nel caso del bacino agroenergetico, la dimensione comunicativa inclusa nel relativo PdC, deve tenere conto del fatto che si tratta di un progetto di media scala territoriale relativo ad una definita area rurale-regionale di fascia periurbana (in modo da favorire il colle-gamento con le strutture produttive e con le comunità locali quali utenti principali delle esternalità prodotte), allo scopo di promuovere il miglioramento economico, ambientale e sociale delle zone interessate, proponendosi al contempo come buona pratica rispetto all’attivazione di risorse sparse in altri territori che potrebbero essere interessati da ana-loga progettualità. La comunicazione pertanto si muove all’interno di più ambiti temati-ci (economia, iniziativa politica, società ed opinione pubblica, ambiente e sostenibilità, cultura e tradizioni) e rispetto ad un pubblico interno ed esterno al bacino stesso, tra espressione della necessaria attrattività e diffusione del valore condiviso. A tal proposito si rende necessario uno sforzo di identificazione e classificazione del variegato insieme di soggettività che si interfacciano al territorio rispetto al bacino delle agroenergie, arrivan-do in poche parole a definire:

– stakeholder primari, quali portatori privilegiati di interessi, ovvero il pubblico interno di riferimento del progetto rispetto alle ricadute e alle esternalità dello stesso;

– stakeholder secondari, quali i clienti ed i mercati di riferimento, intesi come pubblico esterno al progetto, nel senso che vi prende parte solo nell’utilizzazione degli output finali e non già nelle fasi iniziali di studio, valutazione e progettazione;

– policy makers, ovvero gli amministratori politici ed economici pubblici, i detentori delle risorse e del potere di indirizzo strategico circa la natura degli interventi, la ti-pologia delle attività da insediare nel territorio considerato, la previsione dei risultati economici, in una sola parola i decision makers rispetto alla vocazione del territorio considerato.

Più in generale, con riferimento agli stakeholder rilevanti, la comunicazione deve mettere in luce la maggiore o minore capacità del territorio di soddisfare gli interessi, giacché i due fattori dell’incremento della qualità della “risorsa territorio” e del raggiungi-mento della soddisfazione dei pubblici interni stanno alla base del successo del progetto e per questo, quindi, necessitano di chiara, diretta ed immediata comunicazione. Anche se rimane prioritaria, la dimensione economica della soddisfazione non è l’unica a dover es-sere considerata, dunque anche il relativo PdC non può logicamente tenere conto soltanto del valore economico, appunto, espresso dal bacino: infatti a questo elemento va aggiunto

216 Possono in particolare manifestarsi tre diversi tipi di esternalità: la prima consiste negli ulteriori investimenti che il progetto in questione può direttamente o indirettamente attivare nell’area. La seconda si manifesta attraverso la ricaduta, o meglio l’effetto positivo, che il progetto ha sull’immagine complessiva del luogo. La terza esternalità considerata, invece, riguarda il miglioramento delle condizioni generali del luogo e del suo grado di attrattività. Cfr., Ancarani F., Strategie di marketing per la generazione di valore in progetti ambientali complessi per i territori dell’economia della conoscenza, Egea Milano, 34-40.

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uno di tipo più generalmente identificabile come socio-culturale. L’accezione strettamente economica deve essere messa in luce dal PdC in maniera predominante solo ed esclusiva-mente per una ben definita categoria di stakeholder, ovverosia per i proprietari dei terreni, dei fabbricati, dei produttori di macchinari, degli imprenditori agricoli, cioè per coloro che possono essere considerati come proprietari di una certa quota di “capitale territoriale” inserito nel bacino (nel senso di sua applicazione ed utilizzazione concreta), per gli attori economici che a tal proposito possono essere definiti come stakeholder (in quanto portato-ri di interessi) ma anche e soprattutto come stockholder, ovvero detentori di un certo stock di risorse impiegate. Con riferimento ad altri stakeholder, ad esempio la comunità locale residente, essa ha interesse a vario titolo:

– all’utilizzazione dell’energia prodotta dal bacino; – all’incremento delle possibilità occupazionali offerte dalla nuova attività implemen-

tata, anche se il mercato locale del lavoro può assorbire comunque personale prove-niente da altri territori. In questo caso l’interesse economico realizzato riguarderebbe per lo più la domanda supplementare di servizi e residenzialità generata dai lavoratori nuovi residenti o, ove possibile, pendolari;

– allo sviluppo di attività imprenditoriali ed economiche; – all’incremento del valore immobiliare;

Allo stesso tempo e allo stesso modo, tuttavia, vi sono interessi prettamente non economici, secondo cui la comunità locale residente tiene conto anche del miglioramento – sia realizzato sia potenziale – delle condizioni ambientali della sostenibilità e della qua-lità dell’ambiente (inquinamento, spazi verdi, livelli di rumore, lontananza degli impianti industriali dai complessi residenziali, etc), nonché di effetti non secondari di sicurezza pubblica, vivibilità, affidabilità delle istituzioni locali, immagine e marca del territorio. Il bacino agroenergetico è in grado di rispondere a tutte queste esigenze in maniera cu-mulativa ed integrata tra i vari elementi, ed è per questo che a progetto complesso dovrà necessariamente seguire un PdC altrettanto composito, in grado di “raccontare” e “comu-nicare” il bacino sotto i diversi punti di vista, cogliendo cioè le diverse accezioni insite, in maniera e con intensità differenziata, in un unico progetto. Tali considerazioni riguardano anche gli investitori diretti sul territorio, interessati per lo più a ricercare vantaggi di tipo localizzativo e la creazione di economie esterne di tipo settoriale, al fine di una specializ-zazione vocazionale dei territori, del personale locale (di origine o di stabilimento) e anche, in seconda battuta, dell’annesso mercato della formazione e della qualificazione professio-nale ivi collegata. Quindi, il primo passo per la costruzione integrata di un complesso PdC riguarda:

“ L’identificazione del pubblico di riferimento a vario titolo coinvolto rispetto al bacino delle agroenergie, partendo dalla rilevazione dei loro interessi economici e di tipo socio-culturale, strutturando diversi tipi di messaggi ed iniziative tendenti ad in-globare la multidimensionalità del progetto da presentare”.

Questo primo necessario step, preliminare all’elaborazione del PdC, si fonda essen-zialmente sul circolo virtuoso che si stabilisce tra territorio-progetto-attrattività e sod-disfazione-stakeholder-valore: in pratica esiste un’evidenza circolare tra la soddisfazione del pubblico interno ed esterno del bacino delle agroenergie e attrattività espressa dal territorio rispetto agli investitori e agli stakeholder primari.

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Per riassumere:

Tabella 5.10 – il circuito virtuoso del valore per la costruzione del PdC del bacino agroe-nergetico

TERRITORIO – PROGETTO – ATTRATTIVITA’ SODDISFAZIONE – STAKEHOLDER – VALORE

Territorio:

areale di riferimento regionale. Di carattere periurba-no all’interno dei terreni set aside no food, con buone condizioni pedologiche generali di estensione e salubrità chimico-organica;

Soddisfazione:

raggiungimento degli interessi economici e degli interes-si di tipo socio-culturale dei pubblici interni ed esterni del bacino;

Progetto:

bacino delle agroenergie basato sull’integrazione della filiera locale, detta filiera corta. progetto come buona pratica e con valore di precedente territoriale;

Stakeholder:

portatori di interesse e proprietari di quote di “capitale territoriale” (stockholder). il loro feedback decreta la riuscita o meno del progetto;

Attrattività:

vantaggi competitivi, vantaggi di tipo localizzativo, crea-zione di economie esterne e della conoscenza applicata alla valutazione del potenziale territoriale in materia.

Valore:

misura della soddisfazione percepita e realizzata rispet-to agli interessi dei pubblici di riferimento. in generale valore percepito del progetto.

Fonte: Elaborazione INEA

Gli elencati elementi dell’attrattività, del valore complessivo percepito del bacino così come della misura attesa e realizzata della soddisfazione degli stakeholder – sia in rela-zione agli operatori economici direttamente coinvolti nella determinazione/funzionamen-to e gestione del progetto, che rispetto alla comunità locale – riguardano la più generale creazione di un sistema di relazioni realmente soddisfacenti e vantaggiose. La misura del valore economico (declinata nella fase iniziale di progettazione come costi di start-up da sostenere nonché nella fase finale come profitti derivanti dall’output realizzato) è centrale per il progetto e per la sua dimensione comunicativa in quanto rimanda direttamente a quella che possiamo definire come la “risorsa fiducia del bacino”. In tal senso fiducia at-tiene all’attivazione del circolo virtuoso di scambi e rapporti come appena sopra illustrato: dalle relazioni fiduciarie stabilite tra i vari stakeholder si animano dei veri e propri processi di scambio tra gli operatori e tra questi e il territorio che viene ad essere considerato come un elemento del progetto, dunque a pieno titolo oggetto di attenzione e miglioramento continui. Le risorse fiduciarie, relazionali, territoriali ed imprenditoriali, nonché le risorse di conoscenza e know-how, rendono possibile l’attuazione di una vera e propria circolarità tra tutti gli attori del sistema: il territorio, che è stato nel frattempo opportunamente in-frastrutturato e strutturalmente migliorato ai fini del progetto, diventa la sede ideale per la realizzazione del bacino e veicola il suo rinnovato e potenziato valore all’esterno, cioè verso gli imprenditori che investiranno, proprio in ragione di queste nuove opportunità offerte localmente, nel settore delle agroenergie e delle fonti rinnovabili. In tal modo la relazione di fiducia e di cooperazione viene ad essere stabilita, in quanto da una parte il territorio esprime un valore direttamente proporzionale e funzionale all’interesse dell’imprenditore, mentre quest’ultimo con i comportamenti e le esternalità economiche cui darà luogo (costi iniziali, di gestione, impiantistica, volume delle imposte fiscali, etc.) ingenererà a sua volta altro valore economico sia per la sua propria attività sia per il territorio stesso, perfezio-nando così un processo diadico e vicendevole di scambio, generazione e rigenerazione con-tinua di valore. La creazione del valore come parola chiave per la realizzazione del bacino e per la sua stessa conoscenza e comunicazione all’esterno e all’interno degli stakeholder e del pubblico non settoriale di riferimento, si collega ad un altro importante concetto re-

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141

lativo all’immagine e alla pubblicità esterna del territorio prescelto per il progetto, ovvero a quella che viene definita come marca o brand territoriale. Il tema della marca o brand del territorio è stato alquanto trascurato dagli studiosi che si occupano di marketing e comunicazione territoriale, infatti solo recentemente sono stati proposti alcuni contributi significativi nell’ambito delle tematiche dello sviluppo di progetti ambientali di riconver-sione ecologica e di riqualificazione urbana ed industriale, soprattutto rispetto ad elementi specifici quali ad esempio l’analisi competitiva degli scenari regionali, la segmentazione dei mercati e dei pubblici di riferimento della comunicazione o ancora il posizionamento di un progetto-prodotto e il branding territoriale217. Attualmente, la rinnovata consapevolezza della centralità di tali strumenti è ampiamente condivisa anche dalle pubbliche ammini-strazioni al punto di collocare a pieno titolo il concetto di brand del territorio al centro della formulazione dei Piani di Comunicazione di progetti ambientali complessi, per lo più di natura mista pubblico-privata. Per i fattori di nostro interesse scientifico e comunica-tivo, è possibile definire il brand del territorio non alla luce di una vera e propria estesa caratterizzazione territoriale di livello urbano, provinciale o regionale, ma solo di limitarne il significato al progetto circoscritto del bacino delle agroenergie: infatti esso rappresenta e pubblicizza innanzitutto e principalmente il suo proprio territorio di insediamento geo-grafico e riferimento socio-produttivo e, eventualmente soltanto in un momento successi-vo, potrebbe più largamente riguardare un’intera area o un’intera regione assai più vasta. In pratica, la costruzione del brand regionale Campania in termini di regione dedita alla tutela ed alla salvaguardia dell’ambiente non passa solo, ma anche, per l’attuazione del progetto-bacino considerato, giacché un intervento del genere necessiterebbe di una serie di progetti più complessi e di più ampia portata, all’interno di cornici politiche program-matiche e di gestione attuate ed attuabili sul medio-lungo periodo. Pertanto, relativamente al brand territoriale abbinato al progetto:

– il bacino delle agroenergie sviluppa e veicola soltanto in parte, e non nella generalità degli intenti e delle possibilità, il messaggio e l’immagine della Campania come regione verde della conversione ecologica verso le fonti alternative e rinnovabili;

– allo stesso tempo, tuttavia, il carattere parziale di tale brand ambientale, sul medio-lungo periodo, potrebbe rivelarsi addirittura vantaggioso in termini di immagine ca-ratterizzante un solo specifico territorio (ovvero quello di insediamento del bacino), stimolando gli enti locali a seguire con maggiore convinzione il cammino verso la rico-noscibilità del saper fare e dell’acquisizione di una tradizione specialistica in materia;

– si deve optare per la realizzazione di una vera e propria brandizzazione ambientale del territorio del bacino che deve essere supportata dalle decisioni programmatiche, amministrative ed economiche degli enti locali (concessione dei terreni, vantaggio-se condizioni economiche di usufrutto, affitto, etc). A tal proposito sarà bene tenere presente che tale strategia – che si concretizza come opzione di scelta anzitutto po-litica – non risolve i problemi ambientali generalmente intesi né lancia il messaggio

217 Nel caso qui in esame non si analizzeranno generalmente tutti i contributi teorici classici del concetto di brand o marca del territorio, sviluppati per lo più soprattutto in relazione alle scienze del turismo e dell’economia dei ser-vizi turistici e dei beni culturali, ma l’attenzione sarà invece focalizzata solo sugli aspetti relativi alla promozione di progetti ambientali complessi e allo sviluppo dei relativi Piani di Comunicazione rispetto alle aziende che a vario titolo partecipano o potrebbero partecipare in futuro a progetti già realizzati o in fase di realizzazione. Per il materiale di riferimento si vedano, Rapporti di Ricerca Sine n. 05/2006, Nuovi modelli comunicativi e di marke-ting per lo sviluppo delle marche ambientali del territorio, a cura del CUEIM (Consorzio Universitario di Economia Industriale e Manageriale), Verona, pp. 79-99. Per i Piani di Comunicazione si consultino, Piano di Comunicazione Ambientale anno 2009 città di La Spezia e Rapporto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Come redigere un Piano di Comunicazione per i progetti delle amministrazioni pubbliche, Rapporto Cantieri, Edizioni Scientifiche Italiane, Roma, 2008.

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globale della redditività e della profittabilità delle FER colte nell’accezione economico-imprenditoriale, ma si configura piuttosto come un progetto di successo, dai benefici effetti sul territorio, magari anche come una buona pratica da imitare, ma comunque non al livello di un nuovo filone di opportunità imprenditoriali da seguire, dato anche il carattere altamente contestualizzato e locale del progetto;

– in tal senso, dunque, si parlerà della brandizzazione del bacino – anche attraverso la realizzazione grafica di una opportuna e riconoscibile iconografia di base (marchi, gad-gets, colori e caratteri grafici distintivi) – e non ancora, o comunque non pienamente, di brandizzazione del territorio, essendo questa un’eventualità realizzabile soltanto attraverso un processo cumulativo di politiche, esperienze, sensibilità dell’opinione pubblica e provvedimenti ad hoc;

– infine, non trattandosi di un prodotto industriale di consumo, come per esempio un semilavorato o un prodotto dal profilo tecnologico low-tech, il prodotto-energia, incu-neato all’interno del progetto-bacino, è il frutto di un processo aggregativo continuo di valori, associazioni cognitive, aspettative, consensi e dissensi. Si pensi a tal proposito alle problematiche poste in essere dal cosiddetto effetto NIMBY.

Nello specifico il Piano di Comunicazione deve veicolare un brand concept chiaro e coerente con tutti gli elementi dell’offerta progettuale che sono in grado di esprimere valo-re per i suoi utilizzatori e deve basarsi, nell’ordine, sulla:

– promozione di caratteristiche tangibili, oggettive e misurabili del bacino (impianti, territori, bilancio economico, sovvenzioni, costi e profitti realizzati in fase di start-up e attesi);

– promozione dei benefici tecnico-funzionali (allacciamento degli impianti, fabbisogno della comunità locale, autosufficienza di alcuni edifici pubblici, rinnovamento e poten-ziamento delle reti di distribuzione tradizionale, maggior collegamento con le esigenze produttive ed ambientali espresse dal mondo rurale per la raccolta e lo stoccaggio delle biomasse);

– promozione dei benefici psicologici ed esperienziali (quali la risoluzione della proble-matica NIMBY, la percezione di vivere in un ambiente pulito);

– promozione degli aspetti simbolici e valoriali, connessi ai precedenti; – promozione e diffusione, in una sorta di processo cumulativo finale, di un ben definita

identità territoriale218.

5.2.2 Il profilo pratico del Piano di Comunicazione: output, strumenti, messaggi e dimensioni comunicative

Dopo aver delineato le principali caratteristiche del progetto, relativamente ai fattori coinvolti, alle risorse attivate e/o attivabili, nonché rispetto alle componenti materiali ed immateriali parti del sistema considerato, è necessario attuare una vera e propria politica di comunicazione e pubblicizzazione del bacino agro energetico. Politica di comunicazio-ne e pubblicizzazione significa far veicolare, diffondere e far conoscere il valore stesso del progetto, porre cioè l’accento sulla valorizzazione delle diverse dimensioni ivi incluse. In tal senso la comunicazione deve essere incentrata sull’illustrazione degli interventi che si intende compiere e che sono stati compiuti sulle componenti tangibili ed intangibili del

218 L’ordine della promozione delle caratteristiche e dei fattori appena illustrati segue la struttura della cosiddetta piramide dei benefici del brand territoriale, elaborata dalla studiosa Szilvia Gyimothy. Gyimothy S., Branding in environmental management, Lunds University, 2005.

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territorio, nonché essere formulata sottoforma di programma di assistenza prima e duran-te l’implementazione del bacino. È possibile in questo modo individuare due termini chiave che si caratterizzano come la base operativa del programma comunicativo da realizzare: da una parte interventi, mentre dall’altra assistenza. Infatti, la tipologia di interventi in e per il bacino è molto vasta ed abbisogna di una matrice unitaria di diffusione: se da una parte il territorio è il contenitore delle risorse disponibili, dall’altra invece bisogna saper dare centralità all’output (declinato in energia prodotta, reddito, riconversione ecologica, sviluppo della infrastrutturazione di base e specialistica) e alla domanda (in termini di mercato di consumatori, mercato del lavoro, commodities, macchinari, strumentazione, etc). Allo stesso tempo assistenza vuol dire concepire la comunicazione come “una parte stessa del progetto” e non un discorso esterno, connotato dai caratteri dell’aggiuntività e dell’accidentalità, ma piuttosto un fattore fondante presente in tutte le fasi di attuazione, con il compito di assistere tutti gli attori verso la comprensione e l’interiorizzazione dei suoi contenuti (questo compito appare particolarmente delicato nelle fasi di start-up e di ricomposizione degli interessi degli stakeholder, relativamente alla presentazione dell’idea progettuale), nonché circa la conoscenza dei risultati (output realizzati, strategie attivate, attività e governance diffusa, pratiche condivise di rettifica e/o di miglioramento generale). A tal proposito si veda la tabella qui di seguito riportata.

Tabella 5. 11 – Fasi di attuazione del bacino agroenergetico e comunicazione relativa

FASI DEL PROGETTO TIPO DI COMUNICAZIONE RICHIESTA

ElaBoRaZioNE iDEa pRoGEttUalE CoMUNiCaZioNE iNtERNa - MEMBRi DEi GRUppi Di laVoRo

pRESENtaZioNE iDEa pRoGEttUalECoMUNiCaZioNE EStERNa – RESpoNSaBili DEl pRoGEtto/StaKEHolDER CoiNVolti

RiCoMpoSiZioNE DEGli iNtERESSi DEGli StaKEHolDER

CoMUNiCaZioNE EStERNa – RESpoNSaBili DEl pRoGEtto/StaKEHolDER CoiNVolti (RENDiCoNtaZioNE DEl ValoRE ECoNoMiCo DElla pRopoSta)

aVVio – StaRt-UpCoMUNiCaZioNE EStERNa – RESpoNSaBili DEl pRoGEtto/StaKEHolDER CoiNVolti (aSSiStENZa pER itER Da SEGUiRE)

appliCaZioNE pRoGEtto Di MEDio tERMiNECoMUNiCaZioNE EStERNa – RESpoNSaBili DEl pRoGEtto/Sta-KEHolDER CoiNVolti (SoStEGNo FaSE appliCatiVa MatURa)

CoMplEtaMENto – MESSa a REGiMECoMUNiCaZioNE EStERNa – RESpoNSaBili DEl pRoGEtto/StaKEHolDER CoiNVolti (MoNitoRaGGio,potENZiaMENto, DiFFUSioNE DEi RiSUltati RaGGiUNti)

Fonte: elaborazione INEA

Nella prima fase (elaborazione idea progettuale), la comunicazione è interna poi-ché le fasi operative riguardano i componenti dei gruppi di lavoro chiamati ad elaborare l’idea progettuale. La comunicazione riguarda soltanto le persone professionalmente coin-volte e non sperimenta ancora nessuna forma di apertura verso l’esterno, se non con inter-locutori di studio, approfondimento, ricerca e collaborazione di raccolta delle informazioni e dati utili alla stesura dell’idea progettuale;

Nella seconda fase (presentazione idea progettuale), la comunicazione diventa esterna nel senso che i gruppi di lavoro si rivolgono direttamente agli stakeholder interes-sati (sul piano istituzionale, economico-produttivo, socio-culturale) per presentare l’idea progettuale appena elaborata. In questa fase è particolarmente importante tenere presente la chiarezza del contenuto del messaggio e la precisione dei modi e dei tempi con cui la comunicazione si realizza, al fine di scongiurare il pericolo di una prima inefficace impres-sione che potrebbe compromettere seriamente l’esito del lavoro;

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Anche nella terza fase (ricomposizione degli interessi degli stakeholder) la co-municazione è esterna poiché gli interlocutori mettono in luce i propri interessi relativi al progetto. La fase di ricomposizione degli interessi è particolarmente importante in quanto serve a rilevare la disponibilità degli attori interpellati (almeno ad un livello preliminare e relativamente ad analisi ancora non approfondite) circa la realizzazione della proposta progettuale in oggetto, fungendo in tal modo quasi da rilevazione generale del consenso, caratterizzandosi al contempo anche come una primissima forma di rettifica, qualora si fossero incontrate difficoltà. Le tre fasi sin qui illustrate possono essere definite come fasi iniziali di livello preparatorio, in cui il progetto viene elaborato dal gruppo di lavoro, pre-sentato agli attori coinvolti o che si intende coinvolgere e sottoposto ad una prima verifica di validità, almeno rispetto al profilo teorico dei risultati attesi e degli interessi (di vario tipo) che i soggetti possono perseguire sposando l’idea del bacino. Il PdC, pertanto dovrà prevedere tali azioni basate contemporaneamente sull’utilizzo dei seguenti strumenti:

sintesi del progetto – il progetto è caratterizzato da un elevato grado di complessità sia teorica sia pratica, pertanto è necessario realizzare una sintesi chiara, breve ed effi-cace da presentare preliminarmente agli stakeholder. In questo caso il supporto tecnico-materiale cui fare affidamento per la costruzione della politica di comunicazione sarà rap-presentato da abstract, cd informativi, paper scientifici di breve lunghezza nonché slides di supporto. A tutto questo può essere aggiunta la sponsorizzazione su siti istituzionali (si veda Regione Campania ed INEA) del progetto in fase di realizzazione. L’esigenza della realizzazione di una sintesi convincente e realmente esaustiva del progetto elaborato trova nell’organizzazione di un evento (Conferenza, Convegno di Presentazione, Riunione) la cornice ideale per la sua stessa presentazione. A tal fine si dovrà preferire una forma allar-gata di partecipazione non solo degli stakeholder che hanno già manifestato interesse ma anche verso altri soggetti coinvolti in maniera secondaria (altri enti e comunità locale), strutturando un vero e proprio Forum di partecipazione. Inoltre, sempre nella fase prepa-ratoria, la ricomposizione degli interessi deve essere realizzata con l’ausilio di proiezioni economiche, illustrazioni di dati e statistiche ed eventuali pratiche già realizzate e/o in fase di realizzazione sia all’interno della regione sia all’esterno, in modo da supportare con livelli quantitativi concreti di analisi il valore della proposta. A tal proposito si veda la tabella qui sotto riportata:

Tabella 5. 12 - Obiettivi/Azioni/Strumenti del PdC – Livello preliminare

OBIETTIVO

(di vasta portata – di livello macro)

AZIONI

(coordinate e susseguenti tra loro)

STRUMENTI

(per presa visione e conoscenza/diffusione pubblica)

Comunicare con chiarezza ed efficacia i contenuti del progetto-bacino, chi riguardano, cosa comportano e soprattutto perché conviene aderire.

• Realizzazione elenco stakeholder da contattare;

• Realizzazione sintesi progetto e altro materiale informativo;

• Realizzazione evento di presentazione;

• presentazione del progetto agli stake-holder;

• Rilevazione interessi stakeholder, proposte, modifiche e miglioramenti;

• abstract;

• Cd informativi;

• paper scientifici;

• Slide di supporto;

• Distribuzione materiale cartaceo;

• invio e mail conoscitive;

• Comunicazione telefonica;

• Convegno di presentazione;

• pubblicazione libro proposta proget-tuale;

Fonte: elaborazione INEA

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Le ultime tre fasi, (avvio-start up, applicazione progetto di medio termine e completamento-messa a regime), differentemente dalle prime, invece, possono essere definite applicative, pertanto necessitano della pianificazione di azioni diverse, nonché dell’utilizzo di altri strumenti rispetto a quelli appena illustrati nella tabella di cui sopra. Tale diversità, ovviamente, trae origine dai tanti obiettivi che un Piano di Comunicazione si pone in essere: a seconda di uno stakeholder o di un altro, piuttosto che di comunica-zione formale istituzionale o comunicazione formale relativa alla presentazione dei pro-getti, è fondamentale che il contenuto e lo stile del messaggio siano quanto più possibile contestualizzati e contestualizzanti, a partire dal significato che si vuole trasmettere al ricevente, sia singolarmente considerato sia invece colto nell’accezione di una corpora-te communication, relativa invece a gruppi, enti ed aggregazioni più vaste di persone. A tal proposito, dunque, si farà riferimento ad una comunicazione relativa all’applicazione strumentale e tecnica del progetto, e non di fasi di condivisione e conoscenza, per cui gli obiettivi, le azioni e gli strumenti della comunicazione in questo caso saranno articolati in diverso modo. Si consulti a tal proposito la tabella qui sotto riportata.

Tabella 5.13 – Obiettivi/Azioni/Strumenti del PdC – Livello applicativo

OBIETTIVO

(di vasta portata – di livello macro)

AZIONI

(coordinate e susseguenti tra loro)

STRUMENTI

(per presa visione e conoscenza/diffusio-ne pubblica)

Comunicare con gli stakeholder individuati relativamente all’il-lustrazione dell’iter progettuale ed informativo da seguire per la realizzazione concreta del bacino, nonché fornire assistenza tecnica di medio termine e programmi di comunicazione dei risultati ottenuti. allo stesso modo si dovrà operare in relazione alla sensibi-lizzazione dell’opinione pubblica (conoscenza tematiche am-bientali) e della comunità locale interessata (per l’applicazione e la condivisione del progetto)

• Realizzazione dossier legislativi (elenco leggi ed incentivi, aggiornamento giuridico);

• Spiegazione tecnica progetto da applicare;

• Realizzazione materiale informativo, di assistenza, di supporto tecnico, verbali, resoconti e relazioni di tavoli tecnici, convegni, iniziative di studio;

• Studio delle buone pratiche;

• Strutturazione di una politica di marketing territoriale ed ambientale;

• Verbali;

• Resoconti;

• Relazioni e consuntivi di tavoli tecnici;

• Convegni e Forum;

• Giornate studio;

• iniziative pubbliche di sensibilizzazione nelle scuole e/o in luoghi di aggregazione sulle tematiche dell’ambiente e delle energie alternative;

• Campagne stampa di comunicazione specialistica;

• animazione dibattito culturale (partecipazione ad eventi, Fiere di Settore, Convegni)

• pubblicazioni specialistiche;

Fonte: elaborazione INEA

Il territorio-prodotto così come il progetto-bacino, pertanto, non sono colti nell’ac-cezione del singolo servizio o della serie di servizi fruibili, ma è concepito come “insieme”, come “nucleo”da mettere al centro della politica di comunicazione da strutturare. La de-finizione di quali e quanti elementi il programma di comunicazione deve accludere, così come i vari passaggi logici che lo articolano, devono essere al centro dei processi decisio-nali che sottostanno alla conoscenza e alla condivisione esterna del “valore” prodotto dal bacino. Ciò serve ad articolare una vera e propria politica di marketing territoriale per la conoscenza di un progetto complesso ed innovatore, all’interno della quale il Piano di Co-municazione (da qui in poi PdC) dovrà “comunicare”, far conoscere, puntare l’attenzione su una serie di fattori, quali:

– l’individuazione delle componenti e dei servizi che costituiscono l’offerta territoriale (1);

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– la definizione degli interventi innovativi sulle componenti esistenti (2); – la progettazione delle interdipendenze tra le componenti (3); – sfruttamento delle opportunità offerte dal nucleo territorio (4); – coordinamento dei soggetti che governano il sistema (5); – organizzazione strutturale dell’insieme di componenti (6);

Dunque, il PdC del bacino deve includere gli elementi sopra riportati, strutturando iniziative sia singole sia cumulative al fine di non tralasciare nessun fattore: bisognerà, punto per punto, comunicare il territorio, le risorse, il partenariato e così via e soltanto alla fine sarà possibile affermare che si è “comunicato il bacino”.

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148

Dal punto di vista della comunicazione istituzionale e degli obblighi della Pubblica Amministrazione, in questo caso relativi all’Ente locale promotore e partner del bacino agroenergetico, il PdC trae le mosse dalla legge quadro n. 150/2000 secondo cui la comu-nicazione pubblica relativa ai progetti ambientali cessa di “essere un segmento residuale divenendone invece parte integrante, al pari delle aziende private che agiscono sul mercato dei prodotti e dei servizi”219. La prospettiva lanciata da tale dettato legislativo è di fonda-mentale importanza in quanto responsabilizza – almeno nelle intenzioni del legislatore – il personale, gli uffici e le risorse umane a disposizione dell’amministrazione, verso la definizione di una comunicazione efficace, orientata verso logiche economico-aziendali di customer satisfaction e di marketing oriented, sia in relazione a servizi singoli (come può essere considerato un provvedimento comunale, provinciale o regionale) sia rispetto a progetti complessi e articolati come il bacino agroenergetico. Da parte sua, pertanto, l’ente locale deve abbinare ad una attività di informazione una più mirata di comunicazione, appunto, definita di concerto con gli enti privati verso i pubblici interni ed esterni di rife-rimento allo scopo di:

– favorire la conoscenza delle disposizioni normative relative al bacino (livello europeo, nazionale e soprattutto regionale, in modo da raccordare istituzionalmente le varie misure legislative con le decisioni comunali, in special modo rispetto all’aspetto degli incentivi);

– favorire la conoscenza delle attribuzioni dell’ente locale in materia nonché il funziona-mento e i compiti svolti o da svolgere (in tal senso potrebbe essere utile la redazione di dossier o di supplementi esplicativi, al fine di evitare incomprensioni dovute ad eccessivi tecnicismi);

– svolgere attività socio-culturale di diffusione delle conoscenze rispetto all’opinione pubblica.

Tenendo conto di tutti gli elementi sin qui declinati si potrà definitivamente perve-nire alla struttura del Piano di Comunicazione del bacino agroenergetico, redatto dall’ente locale coinvolto a pieno titolo nel progetto di concerto con gli attori privati, prevedendo precise azioni e prodotti definiti all’interno di una cornice programmatica comune e un timetable predefinito. Si vedano a tal proposito le tabelle n. 15 e n. 16 successivamente riportate.

219 Si veda la premessa alla Direttiva Ministeriale del 07/02/2002 intitolata Attività di Comunicazione delle Pubbliche Amministrazioni.

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5.2.3 Il Piano di Comunicazione e la risoluzione dell’effetto NIMBY tra compen-sazione riparatoria ed oggettività dell’informazione

Nonostante la comunità scientifica abbia riconosciuto ormai da tempo nell’utilizzo delle biomasse vegetali una della modalità meno inquinanti per la produzione di energia, le comunità locali (sono ben cinquantadue gli impianti di centrale a biomassa contestati nel-la fase di costruzione o gestione, da Atena Lucana, per citare l’esempio regionale più noto, sino a Pavia)220 sono da sempre restie ad accettare sul proprio territorio piani di sviluppo e di costruzione di impianti, centrali o depositi di stoccaggio di biomassa. Non si tratta di un fenomeno certamente nuovo né relativo soltanto alle questioni ambientali: dalla costru-zione di una rete ferroviaria ad una autostradale, dalla realizzazione di una discarica ad un impianto industriale ritenuto particolarmente nocivo per la collettività vicina, le comunità residenti hanno espresso in varie forme e modi il proprio dissenso in favore della difesa del territorio e dell’ecosistema. Tale fenomeno è conosciuto come l’effetto NIMBY (Not In My Back Yard), letteralmente “non nel mio cortile”, un acronimo che evidenzia proprio l’avversione delle popolazioni residenti verso i nuovi progetti ritenuti dannosi per l’ambien-te nel quale vivono. Per quanto riguarda la strutturazione del bacino delle agroenergie, il Piano di Comunicazione si pone come strumento informativo e di conoscenza rispetto ai dubbi, alle tematiche e alle esigenze espresse dalla comunità locale residente, inte-ressata dall’impatto ambientale (rispetto agli output cui dà luogo il bacino, salubrità, tutela delle condizioni ecosistemiche e del paesaggio) e territoriale (sistematizzazione architettonico-logistica degli spazi e degli impianti), proprio al fine di evitare opposizio-ni e manifestazioni di dissenso non informato o sull’onda emozionale della sensibilità per la tematica trattata. A tal proposito il Piano di Comunicazione deve sviluppare una dimensione comunicativa e chiarificatrice in cui il cittadino medio del luogo di riferimento del bacino possa trovare risposta circa le problematiche preesistenti al progetto e che con-corrono alla manifestazione dello stesso dissenso:

Effetto locale negativo. Generalmente la localizzazione di opere di tipo ambientale è incompatibile con altri interessi economici della zona interessata (turismo, agricoltura, ecc). Nel caso del bacino agroenergetico, il PdC deve mettere in luce il carattere della vo-lontarietà e della redditività del progetto. In tal modo il bacino non potrà essere conside-rato come accidentale ma invece frutto di uno scelta strategica precisa (a tal proposito, ad esempio, la VIA e la VAS, oltre che per gli adempimenti burocratici di merito, potrebbero fungere da strumento attendibile di certificazione della non nocività degli impianti e delle strutture che si intende realizzare).

Decisioni centrali autoritarie. Direttamente collegato alla risoluzione dell’effetto lo-cale negativo, vi è l’aspetto delle decisioni degli Enti Locali. In tal caso la decisione centrale (di per sé fondamentale in quanto legittimante dell’iniziativa) deve essere il più possibile

220 Il nostro paese offre un’ampia casistica relativamente all’effetto NIMBY. Ad esempio in Toscana il comune di Piancastagnaio (SI) nel 2007 aveva siglato un protocollo di intesa con l’Enel per lo sfruttamento dell’energia geo-termica, ma al momento l’opposizione locale sembra aver bloccato i lavori, mentre a Poggi Alti di Scansano (GR) il funzionamento del già realizzato parco eolico installato dalla tedesca EON è stato bloccato per l’accoglimento da parte del TAR di un ricorso di un viticoltore locale che adduceva motivi di disturbo degli uccelli e della fauna locale. Fino alla pronuncia definitiva del Tribunale Regionale l’impianto rimarrà fermo. A Montebello Ionico (RC) è fermo da cinque anni un progetto di realizzazione di una centrale elettrica alimentata a vento in merito a cui il TAR e il Consiglio di Stato non si sono ancora pronunciati definitivamente. Altri significativi esempi di ostruzionismo da parte dei comitati locali, per lo più costituiti ad hoc, si riscontrano per la centrale eolica di Fiastra (MC) e per altri impianti a Castellana Sicula (PA), Polizza Generosa (PA) e Latina. Ovviamente la casistica è molto più ampia, ma è significativo comunque notare la montante opposizione trasversalmente a tutte le aree del paese, relativa soprat-tutto alle FER negli ultimi anni

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152

condivisa con la comunità locale dei cittadini.

Tra autorità amministrative/politiche locali (Regione e Comune) e residenti vi deve essere un continuo scambio di pareri, opinioni e suggerimenti. L’azione dei comitati di quartiere, dei Forum e dei prodotti della comunicazione (già indicati in precedenza) fruibi-li da parte di un’utenza allargata giocano un ruolo di primo ordine. La strada seguita dalla Regione Campania nell’ambito della presentazione del PEAR (Piano Energetico Ambientale Regionale) appare come una buona pratica da seguire.

Contenuti tecnici e tempi della comunicazione. Spesso l’effetto NIMBY è reso espo-nenziale e realmente ostativo dei progetti da realizzare perché supportato soltanto da una generica predisposizione all’atteggiamento emozionale e di sensibilità dell’opinione pub-blica verso temi delicati. Per questo motivo il PdC del bacino agroenergetico deve comuni-care anche contenuti strettamente tecnici e razionali (ad esempio, estensione dei terreni interessati, quantità di energia prodotta, quantità di emissione CO2

evitate, posti di lavoro inclusi nella realizzazione dell’impianto, etc) che possano realmente conferire la misu-ra reale e dunque i benefici effetti degli interventi previsti. In tale accezione oggettiva e razionale, il linguaggio assume particolare importanza in vista della chiarezza e della tempestività rispetto all’utenza di riferimento. A tal proposito materiale fotografico, tavole sinottiche, tabelle e grafici riassuntivi potrebbero ben rappresentare, in termini di brevità e immediatezza visiva, la complessità del messaggio da veicolare. La chiarezza e l’attendi-bilità del PdC (supportato da strumenti tecnici da cui si attingono i risultati concreti) va di pari passo, tra l’altro, con i tempi di realizzazione degli interventi. Una comunicazione asincronica tra interventi realizzati, diffusione esterna del messaggio e sensibilizzazione della comunità locale, infatti, determinerebbe soltanto uno scollamento tra “quanto det-to” e “quanto fatto”, creando una percezione di disorganizzazione e lungaggine rispetto al progetto generalmente inteso. È anche per questo motivo che il PdC del bacino è da considerarsi a pieno titolo come uno dei principali aspetti da tenere in conto per la sua propria riuscita, nonché come uno degli strumenti da aggiornare continuamente in base ai progressi compiuti.

Comunicazione ambientale per la conoscenza del processo decisionale. In pratica, quindi, bisogna saper coinvolgere i cittadini e saper comunicare loro le scelte pubbliche, giacché il processo decisionale tra tecnici e politici non è sufficiente a garantire l’effettiva realizzazione del bacino in assenza del consenso dei cittadini locali residenti nel luogo in cui sorgerà l’opera. A tal proposito il primo confronto deve essere tra le istituzioni terri-toriali coinvolte (regione, provincia, comune); il secondo step, invece, deve accludere nel processo decisionale anche le principali associazioni di cittadini per ottenere le loro im-pressioni sul progetto.

I feed back raccolti durante questa fase di confronto saranno la base per valutare il rischio percepito. A questo punto la campagna di “informazione” rappresentata dal Piano di Comunicazione, dovrà spiegare l’importanza del bacino, gli effetti positivi per la società, l’esistenza dei controlli messi in essere per tutelare la salute e l’economia locale, la strut-turazione dei sistemi di monitoraggio e controllo per tutelare la salute e le condizioni della comunità e la mission strategica che si intende perseguire a livello di programmazione.

Nei casi in cui sia fatta rimostranza di eventuali danni economici per la comunità locale, la comunicazione dovrà altresì evidenziare la “compensazione” economica che i cit-tadini del luogo otterranno per ospitare il bacino, non sottoforma di trasferimenti di fondi e riconoscimenti di capitali da spendere, ma in termini di maggiore infrastrutturazione, più posti di lavoro, tariffe energetiche più basse, sconti fiscali per gli imprenditori, etc. Insom-

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ma bisogna conferire e far capire che esistono benefici tangibili immediati per tutti (es. nuovi parchi, lavoro garantito per i residenti, minore tassazione ecc.) e che la compensa-zione ricevuta non è effetto della svendita del territorio (ciò riproporrebbe la problematica dell’effetto NIMBY) ma solo il portato dello sviluppo prodotto dal bacino. In conclusione la campagna informativa originata dal PdC non è propaganda per auto convincimento, non serve ad implementare strategie di vendita e sponsorizzazione coatta del bacino, ma deve avere come scopi principali: deve far conoscere il valore economico da realizzare, rappre-sentando la misura della competitività e della profittabilità economica ad investire nel progetto, favorire la chiarezza, la tempestività, l’apertura al dialogo.

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appENDiCE

VaLorI consIderatI per I parametrI chImIco-fIsIcI che caratterIzzano I substratI In esame reLatIVamente aLLa Loro attItudIne a produrre bIogas

medIante dIgestIone anaerobIca

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156

Tabella A1. Effluenti zootecnici suini, bovini e bufalini (valori considerati).

Valori considerati Refluo zootecnico

Contenuto di sostanza secca

(%)

Contenuto di sostanza organica

presente

(%)

Resa in biogas (m3/t s.o.)

Sui

ni

liquiletame suino 17 78 415

Bov

ini

liquame bovino 9 80 240

letame bovino 21 80 270

liquiletame bovino 15 80 255

Buf

alin

i

liquame bufalino 9 80 240

letame bufalino 21 80 270

liquiletame bufalino 15 80 255

Tabella A2. Siero di latte di bufala (valori considerati).

Valori considerati

Substrato organico

Contenuto di sostanza secca

(%)

Contenuto di sostan-za organica presente

(%)

Resa in biogas (m3/t s.o.)

Siero di latte 5 90 330

Tabella A3. Buccette di pomodoro (valori considerati).

Substrato organico

Contenuto di sostanza secca

(%)

Contenuto di sostanza organica presente

(%)

Resa in biogas (m3/t s.o.)

Buccette di pomodoro 27,3 96 270

Tabella A4. Sanse vergini (resa in biogas, valori considerati).

Substrato organico Resa in biogas (m3/t tal quale)

Sanse vergini 145

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Tabella A5. Scarti vegetali (valori considerati).

Substrato organico

Contenuto di sostanza secca

(%)

Contenuto di sostanza organica presente

(%)

Resa in biogas (m3/t s.o.)

Scarti vegetali 5÷20 76÷90 350

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159

RiFERiMENti BiBlioGRaFiCi

Capitolo I

Camminiti N. M. (2009) Stato di attuazione del Protocollo di Kyoto in Italia, intervista ENEA.

Confederazione Produttori Agricoli (COPAGI), Consorzio Energia Coltivata (CEC) (2007) Linee guida per progetti di valorizzazione del territorio mediante lo sfruttamento della biomassa come nuova opportunità di reddito per le imprese agricole.

Della Seta R. (2000) La difesa dell’ambiente in Italia. Storia e cultura del movimento ecologista, Edizioni Franco Angeli, Milano.

Documento della Commissione del Parlamento Europeo, Due volte 20 per il 2020. L’oppor-tunità del cambiamento climatico in Europa, 2008.

Dossier Legambiente (2009) Copenhagen ultima chiamata per il clima

ENEA (2009) Inventario annuale delle emissioni di gas serra su scala regionale.

Ferrara V. (2008) Impatti ed emissioni del Progetto Speciale “Clima Globale”, ENEA, Roma.

Kyoto Club (2009) Position Paper, Un nuovo trattato sul clima per un nuovo ruolo dell’Ita-lia, Roma.

Pronunce CNEL, Attuazione del Protocollo di Kyoto: il periodo di applicazione della Di-rettiva Emissions Trading in Italia, in Osservazioni e Proposte, 2006;

Rapporto AIE, La politica energetica italiana. Scenario tendenziale, 2009;

AA.VV. (2008) Bioenergia rurale. Analisi e valutazione delle biomasse a fini energetici nei territori rurali, Quaderni INEA – Rete Leader, Roma.

Saltini A.(2001) Tra storia e futuribile: dalla prima alla seconda rivoluzione verde, Ri-vista di Storia dell’Agricoltura, XLI, n.1, giugno 2001.

TUP - Testo unico ricognitivo della produzione elettrica, AEEG, marzo 2009;

Capitolo III

AA.VV. (2006) Tecnologie e prospettive della produzione di energia da biomassa , «Atti del corso di aggiornamento», Politecnico di Milano, 20-22 novembre 2006, Piacenza.

AA.VV. (2008) Rapporto Energia e Ambiente 2008 - L’analisi e scenari. ENEA.

AA.VV. (2004) Il compendio del Rapporto Energia e Ambiente 2004. Editore ENEA.

AA.VV. (2004) Le colture dedicate ad uso energetico: il progetto Bioenergy farm; «Qua-derno ARSIA 6/2004.

AA.VV. (2008) – World Energy outlook 2008 – IEA.

ITABIA (2003) Le biomasse per l’energia e l’ambiente.

APAT Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (2003), Le biomasse legnose. Un’indagine sulle potenzialità del settore forestale italiano nell’offerta di

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fonti di energia. Rapporti/2003.

ARSIA (2003) Come produrre energia dal legno. «Quaderno ARSIA n°3/2003.

Bartolazzi A. (2006) Le energie rinnovabili. Hoepli, Milano.

Berton M. (2005) Distretti energetici, promotori di sviluppo sostenibile, Alberi e Territo-rio, n. 9.

Francescano V. Antonimi E. (2004) La filiera Legno-Energia in Italia e dintorni. Alberi e Territorio n 1/2.

Francescano V. (2006) Gli esempi italiani della strada europea del legno energia. Alberi e Territorio, n 9.

Pignatelli V., Piscioneri I. Sharma N.(2006) Prospettive di sviluppo delle colture da bio-massa negli ambienti dell’Italia meridionale - Dipartimento Biotecnologie, Agroin-dustria e Protezione della Salute, ENEA Atti del Convegno Colture a scopo energetico e ambiente. Sostenibilità, diversità e conservazione del territorio Roma, 5 ottobre 2006.

Rosa F. (2006) Energie rinnovabili e cogenerazione: filiere competitive se integrate. Esti-mo e Territorio n. 6.

Zezza A.(a cura di ) (2008) Bioenergie: quali opportunità per l’agricoltura italiana. INEA, Edizioni Scientifiche Italiane.

Capitolo IV

AA.VV. (2009) Politiche forestali e sviluppo rurale. Situazione, prospettive e buone pras-si. Quaderno n. 1 INEA.

AA.VV. (2008) Energie alternative – Energia da biomasse, Il nuovo manuale europeo di bioarchitettura, Ed. Gruppo Mancosu.

UE (2005) Piano d’azione per la biomassa Bruxelles, dicembre 2005.

Regione Campania (2009) Piano Energetico Ambientale Regione Campania.

Regione Campania (2010) Linee di indirizzo strategiche dell’Area Agricoltura sulle Agro-energie.

Regione Campania - APAT (2008) Il suolo, la radice della vita, Le problematiche dei suoli nelle regioni italiane.

Agenzia Nazionale Protezione Ambientale, Osservatorio Nazionale Rifiuti (2002) Il tratta-mento anaerobico dei rifiuti.

Bonazzi G. (2001), Manuale per l’utilizzazione agronomica degli effluenti zootecnici, CRPA SpA, 2001.

Piccinini S., Tosi L. (2006), Esperienze di gestione di impianti di biogas, L’Informatore Agrario, n. 1 2006.

Piccinini S., Bonazzi G., Sassi D., Soldano M., Verzellesi F. (2005) Energia dal biogas – so-luzioni possibili per l’azienda, Il Divulgatore, Anno XXVIII n°12, 2005.

C.R.P.A. Reggio Emilia (2007) Energia dal biogas prodotto da effluenti zootecnici, bio-masse dedicate e di scarto.

C.R.P.A. (2008) Biogas: l’analisi di fattibilità tecnico-economica, Opuscolo 6.20 N.4/2008.

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Mantovi P. (2009) Il digestato e il suo valore agronomico, Bondeno e agroenergia: oppor-tunità a confronto.

Analisi delle prestazioni dei gruppi cogenerativi ORC per lo sfruttamento degli scarti dell’industria del legno, Bonetti G., Pinamonti P., Reini M., Conferenza Nazionale sulla Politica Energetica in Italia - Bologna 18 - 19 aprile 2005.

Franco A., Parabita T. (2004) Biomasse per la generazione termoelettrica. Prospettive per un utilizzo più razionale., La termotecnica - Aprile 2004.

Fantozzi F. Chiaramonti D.(2008) Processi di conversione energetica di tipo termochimi-co, Produzione di energia da fonti biologiche rinnovabili, 1 – Le tecnologie, Qua-derno dei Georgofili, Firenze 2008.

Avella R., Caserta G., Marzetti P., Scoditti E. Studio di Fattibilità Riguardante la Gassifi-cazione di Rifiuti o Residui,. ERG-FORI-96-001.

Versiglioni M., Cotana F., Cavalaglio G., Riccardi F., Pianificazione economico-finanziaria di impianti a biomassa, 10° Congresso Nazionale CIRIAF – Perugia.

Governo italiano (2007) Position paper Energia: temi e sfide per l’Europa e per l’Italia.

MiPAAF (2002) Rapporto sullo stato della bioenergia in Italia al 2001.

ITABIA (2003) Rapporto. Le biomasse per l’energia e l’ambiente.

ITABIA (2008) Rapporto. I traguardi della bioenergia in Italia.

Rete nazionale per lo sviluppo rurale (2008) Bioenergia rurale, Analisi e valutazione delle biomasse a fini energetici nei territori rurali.

INEA (2008) Bioenergie: quali opportunità per l’agricoltura italiana.

INEA (2007) Annuario dell’agricoltura italiana, Volume LXI.

Università Politecnica delle Marche (2006) Progetto di fattibilità delle filiere agro-energe-tiche nella provincia di Ascoli Piceno.

Bonazzi G. (2001) Manuale per l’utilizzazione agronomica degli effluenti zootecnici, CRPA SpA.

Mantovi P. (2009) Il digestato e il suo valore agronomico, Bondeno e agroenergia: oppor-tunità a confronto.

ANICAV (2008) IX Rapporto sull’industria italiana delle conserve di pomodoro.

Progetto Life Tirsav (2004) Innovative technologies for recycling olive residue and veg-etation water.

MiPAAF (2009) Piano olivicolo-oleario - Bozza preliminare.

Boubaker F., Cheikh Ridha B. (2006) Modelling of the mesophilic anaerobic co-digestion of olive mill wastewater with olive mill solid waste using anaerobic di-gestion model No. 1 Bioresource Technology Volume 99, Issue 14, September 2008, Pages 6565-6577.

Ergüder T.H., Güven E., Demirer G.N. (2000) Anaerobic treatment of olive mill wastes in batch and UASB reactors. Waste Manage, 21 (7), 643-650

Ali Tekin R., Coskun Dalgıc A. (2000) Biogas production from olive pomace. Resources, Conservation and Recycling, Volume30, Issue4, November 2000, pp 301-313.

Bianchi P.G. Castelli P.G. CEN (1997) Manuale di Agricoltura, Hoepli, Milano.

AA.VV. (1976) Manuale dell’Agronomo, REDA, Roma.

Alpi A., Pupillo P., Rigano C., (1992) Fisiologia delle piante, Edises, Napoli.

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Kyoto club (2009) Studio sul potenziale di valorizzazione delle fonti rinnovabili per la produzione di energia elettrica e termica in Italia

Capitolo V

Ancarani F., Valdani E. (2001) (a cura di) Strategie di marketing del territorio. Generare valore per le imprese ed i territori nell’economia della conoscenza, Egea, Milano.

AA. VV. (2003) Dossier sul NIMBY e la Comunicazione Ambientale, Dossier realizzato da Ecoage.it, Scanzano Jonico.

Becattini G.(1998) Distretti industriali e made in Italy: le basi socioculturali del nostro sviluppo, Marsilio Editore, Venezia

Becattini G. (1999) Riflessioni sul distretto industriale marshalliano come concetto so-cioeconomico, in Stato e Mercato, n. I, Aprile 1999.

Camagni R. (2002) Apprendimento collettivo e competitività territoriale, Franco Angeli Editore, Milano.

Camagni R. (2008) Per un concetto di capitale territoriale, Lezione Ires Piemonte.

Caroli G. M. (2002) Il Marketing Territoriale, Franco Angeli Editore, Milano.

Carrosio G. (2007) Rapporto di ricerca progetto Equal “Energia Solidale”, I distretti rurali delle energie rinnovabili e la produzione locale di energia.

De Matteis G. (2002) Possibilità e limiti dello sviluppo locale, sta in Rivista di studi sullo Sviluppo Locale.

De Matteis G., Governa F. (2003) Il territorio nello sviluppo locale. Il contributo del mo-dello SLOT, Atti del Convegno “Il territorio nello sviluppo locale” giugno 2003, Stre-sa.

Gaviglio A.A.M; Pirani A., Rigamonti L., La progettazione dei distretti rurali: un model-lo per il caso “agroenergetico”; Paper presentato al XXXVII incontro di studio del Ce.S.E.T dell’Università degli Studi di Milano.

Gyimothy S., Branding in environmental management, Lunds University, 2005.

Governa F., Territorialità e azione collettiva. Una riflessione critica sulle teorie e sulle pratiche di sviluppo locale, in Rivista geografica italiana, Società di studi geografici di Firenze, n. 3, 09/2007.

OCSE (2001) Territorial Outlook 2001 on Local Development.

Parente R. (2008) Politiche per l’innovazione di impresa e formazione dei cluster tecno-logici, Università degli Studi di Salerno.

Sine (2006) Nuovi modelli comunicativi e di marketing per lo sviluppo delle marche am-bientali del territorio, Rapporti di Ricerca n. 05/2006a cura del CUEIM (Consorzio Universitario di Economia Industriale e Manageriale), Verona.

Rapporto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Come redigere un Piano di Comuni-cazione per i progetti delle amministrazioni pubbliche, Rapporto Cantieri, Edizioni Scientifiche Italiane, Roma, 2008;

Sotte F., Esposti R., Arzeni A. (2004) Agricoltura e Natura, Franco Angeli Editore, Milano.

Sotte F. (2002) La dimensione rurale dello sviluppo locale. Esperienze e casi di studio, Franco Angeli Editore, Milano.

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Storper M., (1997) Le economie locali come beni relazionali, in Rivista di studi sullo Svi-luppo Locale.

Vanolo A. (2007) Gli spazi economici della globalizzazione, Utet, Torino.

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164

RiFERiMENti NoRMatiVi pRiNCipali

Legge 24 dicembre 2007, n. 244 Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008).

Decreto Ministeriale del 18 dicembre 2008, Incentivazione della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, ai sensi dell’articolo 2, comma 150, della legge del 24 dicembre 2007, n. 244.

Direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili.

Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo (COM (2009) 192) Relazione sui progressi nelle energie rinnovabili Relazione della Commissione ai sensi dell’articolo 3 della direttiva 2001/77/CE, dell’articolo 4, paragrafo 2, del-la direttiva 2003/30/CE e sull’attuazione del piano di azione UE per la biomassa (COM(2005) 628).

Legge 23 luglio 2009 n. 99, Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia.

Direttiva 2003/54/CE relativa a norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica e che abroga la direttiva 96/92/CE.

D.Lgs. 387/2003, Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità.

Decreto Ministeriale del 18 dicembre 2008, Incentivazione della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, ai sensi dell’articolo 2, comma 150, della legge del 24 dicembre 2007, n. 244.

DM del 7 aprile 2006, Criteri e norme tecniche generali per la disciplina regionale dell’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento.

Piano d’azione per la biomassa dell’UE, Bruxelles, 07.12.2005.

PEAR- Piano Energetico Ambientale Regionale, Regione Campania, marzo 2009.

PSR 2007-2013 Campania, approvato dalla Commissione con Decisione C(2007)5712 del 20/11/07

Linee di indirizzo strategiche dell’Area Agricoltura sulle Agroenergie, Regione Campania, 2010.

Piano Territoriale Regionale (PTR) della Campania, L.R. n. 13 del 13 ottobre 2008.

Programma d’azione per le zone vulnerabili all’inquinamento da nitrati di origine agri-cola, Regione Campania, 2007.

Linee di indirizzo strategiche dell’Area Agricoltura per le Agroenergie, Assessorato Agricol-tura, Regione Campania, marzo 2010.

Disciplina tecnica per l’utilizzazione agronomica delle acque di vegetazione e delle san-se umide dei frantoi oleari, Regione Campania, 2006.

Piano di azione nazionale per le energie rinnovabili. MiSE, giugno 2010.

Piano Forestale Generale regionale 2008 – 2013, (Bozza) Regione Campania.

Pianificazione assestamentale in Campania negli anni 1989-2007 e gli interventi ma-nutentori sul territorio degli enti delegati negli anni 2004 – 2007 Settore Foreste – Regione Campania.

Carta dell’Uso del Suolo (CUAS), SeSirca Regione Campania – 2004

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BaNCHE Dati

Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise.

Centro Regionale per il Monitoraggio delle Parassitosi – CReMoPAR - Regione Campania.

Consorzio di Mozzarella di Bufala Campana.

Associazione Nazionale degli Industriali delle Conserve Alimentari Vegetali (ANICAV)

Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura (AGEA).

SINTESI, Consulenza e Servizi dell’Ambiente, 2008.

Settore Sperimentazione, Informazione, Ricerca e Consulenza in Agricoltura (SeSirca), Regione Campania.

INFC Inventario Nazionale delle Foreste e dei serbatoi forestali del Carbonio (2009) Carat-teri Quantitativi Parte 1 – versione 2 2005 CRA – Unità di ricerca per il Monitorag-gio e la Pianificazione Forestale Trento.

INFC, Inventario Nazionale delle Foreste e dei Serbatoi Forestali di Carbonio (2007) Le stime di superficie 2005 - prima parte - CRA – Istituto Sperimentale per l’Assesta-mento Forestale e per l’Alpicoltura Trento.

ISTAT (2000), V Censimento Generale dell’Agricoltura, Roma, Italy.

Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT).

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Finito di stampare nel mese didalla Tipografia