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Come una pianta di cappero

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Massimo Granchi, romance Edda nasce nella seconda metà del Novecento in una famiglia di umili origini e in un quartiere popolare alla periferia di Cagliari. Una madre distratta da tanti figli e dall’alcool, un padre troppo assente per motivi di lavoro, la lasciano crescere ostinata e fragile, in mezzo alle molteplici stravaganze dei suoi fratelli. Il sogno è l’unica dimensione in cui può vivere. Edda, infatti, vorrebbe godersi la libertà fuori dalle quattro mura domestiche, dalla sua città e da se stessa. Alcuni viaggi verso l’emancipazione, a volte obbligati, la portano per lunghi periodi a vivere in Continente. A Palermo fa la giostraia ed è ospite di una famiglia di zingari. A Roma è acrobata in un circo. Mentre la vita incombe, si definiscono in lei i segni di una debolezza emotiva profonda, aggravata dai molti ostacoli che incontra, dagli amori infelici e dai fallimenti che subisce...

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MASSIMO GRANCHI

COME UNA PIANTA DI CAPPERO

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COME UNA PIANTA DI CAPPERO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-604-2 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Ottobre 2013 Stampato da

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Ringrazio i miei amici Maria Rita Arena, Giovanna Cardinali, Marco Cassandro, Claudia Murroni, Laura Murru, Giancarlo Petri, Rita Pisanello e Jeff Shapiro per aver letto le bozze con pazienza e per avermi dato consigli preziosi. Ringrazio mia moglie Costanza di essere sempre la prima sostenitrice di ogni mio progetto.

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A Lolli

La felicità è una ricompensa che giunge a chi non l’ha cercata. Anton Cechov.

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PROLOGO. Cagliari, marzo 2012 Dammi la mano. Non puoi camminare? Come? Certo che puoi camminare! Ti aiuto io, forza! Facciamo un passo alla volta, insieme, e andiamo avanti adagio. Ti dà fastidio la sabbia nelle scarpe? Levale. Stai meglio ora? Se credi, ci fermiamo qui. Hai visto com’è bello il mare questo pomeriggio? Senti i profumi nell’aria. Sono felice perché mi hai dato ascolto. Finalmente siamo insieme. Mi senti? Capisci quello che dico? Ah! Sorridi. Allora mi senti! Ti ricordi quando mi dicevi “io ti ho fatto e io ti distruggo”? E le chiacchierate che facevano assieme? E quando mi cantavi le canzoni che ti piacevano? Marina’, dimmi sì. Voglio amarti una sola notte così! Oh, oh! Vola marina’. Vola marina’. Vola qui sul mio cuor! Non canti con me? Non ne hai più voglia? C’è qualcosa che desideri ancora? Vuoi provare a dirmelo? Sono qui. Posso ascoltare.

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PARTE I

PREDESTINATA

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Capitolo uno. Cagliari, ottobre 1962 Edda Damassi aveva quattro sorelle, Olga Maria, che tutti chiamavano Ol-ga, Rita Maria, che tutti chiamavano Rita, Maria Carla, che tutti chiamava-no Carla, ed Eleonora. Aveva anche due fratelli maggiori, Michele e Salva-tore, quest’ultimo chiamato Totò. I bambini vivevano insieme ai loro geni-tori in un appartamento al quinto piano di un palazzo al centro di un quar-tiere popolare di Cagliari, steso tra le pendici del Colle San Michele e i margini di Piazza Medaglia Miracolosa. La sorella maggiore di Edda era Olga. Tra loro esisteva una distanza carat-teriale propria di due culture agli antipodi. La seconda giudicava la prima un essere misterioso verso il quale provava un latente senso d’inferiorità acuito dai suoi limiti di pazienza. I gesti sobri di Edda, la sua serietà, le e-rano estranei e la mandavano in bestia. Era infastidita dall’uso di alcune parole ricercate che Edda utilizzava per esprimersi mettendola in difficoltà di fronte agli altri. «Maleodorante. Contestualmente. Circospetto». «Ma che cazzo vuol dire?» la apostrofava Olga. Edda giudicava sua sorella maggiore un essere inferiore, grossolano e pri-mitivo, cui riconosceva il rispetto conseguente a un atavico timore e la tol-leranza dovuta a un fenomeno singolare. «Tu sei tutta scema! Sei una matta!» le gridava addosso Olga durante le discussioni che le accaloravano il viso fino a farle affiorare alle tempie due vene gonfie. Edda si era convinta che non potesse esserci nulla di sbagliato nell’essere matta se ciò significava essere diversa da sua sorella. Più che una matta, lei si sentiva un alieno. Si limitava, dunque, a non rispondere alle minacce verbali perché non le capiva. Stendeva le braccia lungo il tronco esile op-ponendo un’occhiata abbrunita allo sguardo di Olga. Prima di uscire per raggiungere la sezione femminile delle scuole elemen-tari di Is Mirrionis, Olga sbraitava nel corridoio verso l’unica stanza da let-to che ospitava i maschi e le femmine della famiglia per il sonno. Se non riceveva risposta, raggiungeva a grandi passi la soglia chiusa. Piombava in camera spalancando la porta di legno sul buio. Sollevava la serranda a tre quarti facendo molto rumore. Schiudeva gli infissi malamente smaltati di bianco e batteva la porta dietro di sé, dopo che se ne era andata com’era venuta. L’aria pungente invadeva lo spazio e svegliava i bambini raccolti su due materassi spogli addossati al muro.

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Il padre era spesso fuori per lavoro con i suoi compagni giostrai. La madre era di turno all’ospedale Santissima Trinità di Cagliari. L’appartamento si animava piano di sbadigli e scalpiccio di passi nudi sul-le piastrelle. Il risveglio brusco lasciava sul volto di Eleonora, la più picco-la, un’espressione stinta. La bambina rimaneva in un angolo del letto a ciucciarsi il pollice. Edda si precipitava in bagno con Rita. Carla e Totò non si lavavano mai. Il ragazzo restava appallottolato sul letto accanto a Eleonora. Masticava insulti tra i denti e poi si riaddormentava. Carla si ve-stiva in fretta e sgattaiolava scalza fuori di casa prima del passaggio dei camion dei rifiuti. Le piaceva setacciare i cumuli d’immondizie per racco-glierle dallo sterrato accanto alla vecchia cabina dell’energia elettrica di piazza Valsassina. L’alba era il migliore momento per farlo. Gli odori or-ganici erano attenuati e la varietà di cianfrusaglie era intatta. Il suo amico Bernardo la aspettava ogni mattina di fronte al portone del palazzo. «Portami il carrello, Bernardo. Muoviti!». La bambina strillava per riani-mare l’amico che indugiava su di lei con lo sguardo devoto. Carla raccoglieva vecchi giochi, pezzi di legno, vetro, scarpe, carta, bucce d’arancia e gusci di ricci marini. Ogni pomeriggio dopo la scuola allestiva il mercato sui muri di pietra che delimitavano i giardini delle case popolari del quartiere Podgora. I suoi compagni di giochi si divertivano a scoprire la merce esposta. Quando Carla decideva di apparecchiare il muretto che con-finava con la bottega della signora Mariolina Vinci, vedova di guerra, la donna compariva sulla soglia del negozio e le diceva: «Mi vuoi fare con-correnza, bellixedda1? O vuoi tenere lontani i miei clienti?». Carla tirava su con il naso e lo stropicciava con il dorso della mano sudicia senza disto-gliere l’attenzione dalle sue carabattole. «Eh già» diceva candidamente, dopo una valutazione intensa di quanto se-lezionato tra gli scarti. Raccoglieva anche vecchi abiti e stracci che a volte indossava, fino a quan-do sua sorella Olga non se ne accorgeva e li gettava fuori dalla finestra. Una volta Carla trovò un paio di zoccoli di legno grossi e pesanti abbando-nati in fondo a un bidone della spazzatura. Non era difficile per lei infilarsi all’interno del contenitore con l’aiuto di Bernardo che la caricava sulle spalle e la spingeva dentro. Il bambino la aspettava all’esterno e vigilava prima di tirarla fuori. Oltre agli zoccoli, Carla aveva recuperato una carcassa di tartaruga di ma-re. Il guscio era rimasto in esposizione per giorni sui muretti dei suoi mer-cati. La bambina aveva raccolto esclamazioni festose di “Oh!” e “Ah!” dai suoi amici. Aveva fantasticato sulle mangiate di carne di tartaruga fatte da anonimi divoratori più fortunati di lei mentre deglutiva con l’acquolina in bocca. La prova tangibile dell’esistenza di banchetti inaccessibili al suo pa-lato rifinì presto nei bidoni metallici da dove era emersa. 1 Bellina.

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Carla riversò la sua insoddisfazione sugli zoccoli di legno e li indossò spesso. I suoi piccoli piedi scivolavano in avanti mostrando le falangi con le unghie annerite di terra. In casa Damassi non si portavano le scarpe per-ciò quelle calzature erano diventate un trofeo da esibire. La facevano sem-brare più alta, anche se si muoveva a fatica e piegava le caviglie esili sotto il suo peso. Olga gliele sottrasse con la forza dopo qualche settimana per-ché si convinse che a lei stavano meglio. Edda non faceva caso alle particolarità di sua sorella Carla e ai gesti autori-tari della sorella maggiore perché erano diventati consuetudini appaganti. Le urla di Olga echeggiavano in casa e riempivano l’assenza dei genitori nelle lunghe giornate vissute dai bambini in completo abbandono. Olga non risparmiava l’uso di parole oscene che utilizzava contro le altre per sottolineare il suo dominio e per incitare se stessa ad avere la giusta deter-minazione. Era stata la prima tra le sorelle a sperimentare la solitudine e non aveva avuto nessuno cui riferirsi nella ricerca di aiuto. La mattina, invece di prepararsi, Rita cantava in terrazza e improvvisava alcuni passi di danza. «Farò la ballerina da grande!». «Entra e chiudi che fa freddo!» le intimava Olga. «Ancora cinque minuti, ti prego!». «Ti faccio ballare io se non muovi quel culo secco che ti ritrovi e non rien-tri in casa! Chiudi quella porta, porca p…». Rita non reagiva agli insulti. Strangolava in gola il suono della voce te-mendo di dover respingere attacchi più incisivi. Olga interpretava il suo silenzio come una sfida. Le piazzava in volto schiaffi sonori e veloci, a mani larghe. «Ti muovi o no?». «Tu non mi fai paura e io non piango!». Rita affondava i suoi occhi dentro quelli di Olga e tracollava un poco, senza cedere. Edda osservava Rita, in disparte. Si domandava se sua sorella fosse stupida o coraggiosa. Lei non avrebbe mai affrontato Olga a quel modo. Il contatto fisico non le piaceva. La violenza le sembrava volgare, un’azione che asso-ciava al comportamento animale e pensava fosse uno spreco inutile di e-nergie. Olga aveva rispetto di Michele, il fratello maggiore. In casa regnavano una pace irreale e una calma desolante quando lui era presente. Il ragazzo ave-va un lavoro precario e qualche soldo che metteva a disposizione della fa-miglia. Godeva dell’ammirazione dei più piccoli. Era quieto e riflessivo. Aveva studiato il tempo necessario a imparare a leggere e scrivere. Non riusciva a immaginare come potesse servirgli sapere di più nella vita che mettere una firma e fare di conto. Avrebbe appreso le cose utili facendo esperienza. Si era convinto che la sua esistenza lo avrebbe comunque ob-bligato a svolgere un lavoro duro, avvilente e fatto di sacrificio. Per le sue sorelle desiderava un futuro diverso. Michele le lasciava a scuola durante

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le giornate in cui era al mercato del pesce del quartiere Marina, di fronte al porto di Cagliari, a vendere ricci di mare. Controllava l’irruenza di Olga, preparava Eleonora, raccoglieva le bambine più grandi intorno a sé con to-no rassicurante. Aspettava di vederle sfilare fuori dalla porta. A ognuna di loro dedicava un sorriso e una parola d’incoraggiamento. Eleonora era af-fidata alle cure di una vicina, la signora Mercede Ines Cadeddu, una donna fisicamente ingombrante, con la testa riccioluta e dai modi spicci ma genti-li, che aveva un meticcio di grossa taglia con cui Eleonora amava giocare. Ines viveva con suo marito, un uomo taciturno che nessuno aveva mai vi-sto lavorare, ma che era sempre ricoperto d’oro. Michele rientrava a casa la sera ed era esausto. Sapeva che avrebbe trovato sua madre Natalina ubriaca, ma per quanto possibile, con il suo aiuto, a-vrebbe preparato le bambine e le avrebbe messe a letto. Olga si era convinta che l’atteggiamento protettivo di Michele fosse un’intrusione gratuita negli affari suoi. Non avrebbe mai confessato aper-tamente di sentirsi sollevata dalla sua presenza. Il proprio carico di respon-sabilità, che nessuno le aveva chiesto di assumersi, si ammorbidiva serran-dola nel mutismo. La presenza di Michele era un dono per lei. Grazie a lui, Olga dava un limite alla sua irrequietezza e in parte conteneva la solitudi-ne. L’unica vittima delle rare scenate di rabbia di Michele era suo fratello Totò che passava la notte a leggere fumetti alla luce di una candela. Anche di giorno abbandonava il suo giaciglio solo in casi eccezionali. Ammontic-chiava ovunque i suoi abiti sporchi e non curava l’igiene personale. Dopo la terza elementare aveva dichiarato lo sciopero contro ciò che richiedesse uno sforzo mentale. Poi aveva cominciato la serrata contro ogni forma di affaticamento fisico. Un altro suo interesse, oltre ai fumetti, era la ricerca di mozziconi di sigaretta che sua madre disseminava per casa scegliendo punti strategici di raccolta. Totò li raccattava e li accumulava in un angolo del davanzale di marmo della finestra di camera, ricercandoli quando era assalito dalla noia. Olga evitava il confronto con lui. Era intimorita dal suo fisico imponente e dalle mani grandi che erano il doppio delle sue. Totò avrebbe potuto rivoltarla con un colpo solo. Se Olga voleva rimproverarlo, lo faceva da lontano, alla presenza di Michele e quando era sicura che lui non potesse sentire. «Non mi rompere i coglioni» la rimbrottava Totò quando la sentiva.

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Capitolo due. La mattina, dopo che con gli occhi ancora abbottonati dal sonno aveva cer-cato la via del gabinetto, Edda si lavava accuratamente usando l’acqua del bacile. Prima il viso, poi le braccia fini coperte di peluria, le mani e i piedi. Gli altri membri della famiglia la consideravano diversa anche a causa di questa sua ossessione per la pulizia. Nessun altro, tranne Rita, mostrava la stessa sollecitudine. Edda compiva gesti meticolosi, precisi, come quelli di una formica. Strofinava ogni parte del suo corpo sfruttando il tempo che aveva guadagnato nel primo turno al bagno perché per lavarsi preferiva l’acqua limpida priva di schiuma, piuttosto che la macchia spumosa lascia-ta da Olga ed Eleonora. Aveva i capelli molto crespi, Edda, e non riusciva a domarli. Li inumidiva un poco lisciandoli con le mani. Poi li legava stretti con uno spago di crine in grosse trecce che arrotolava sopra la testa. La sua chioma era motivo di orgoglio. Vaporosa, lunghissima e forte a dispetto degli stenti della sua vi-ta. La colazione era un appuntamento cui pensava nel dormiveglia durante la notte ed era per lei troppo breve rispetto all’attesa in cui si era consumata. Il pane e il latte, allungato con un bicchiere d’acqua, le piacevano. Sbricio-lava le fette di moddizzosu2 raffermo in pezzi che immergeva nel liquido caldo per farli ammorbidire e poi li ripescava con il cucchiaio. Beveva il latte a piccoli sorsi. Sentiva le briciole scivolare tra i denti e fermarsi sulla lingua. Cercava di seguire con la fantasia il percorso del liquido lungo l’esofago e nelle sue viscere vuote che sentiva gorgogliare di piacere. Usciva da casa quando il bordo del sole si dipingeva oltre le coltri di nubi frangiate all’orizzonte. L’alba, che si rivelava sulla città sedata sotto il va-pore dei comignoli, le restituiva un gradevole senso di torpore sul viso. In autunno le foglie caduche rimaste appese ai rami degli alberi avevano tinte gialle e verdi. Edda camminava con grazia composta accorgendosi dei det-tagli. Le piaceva seguire con lo sguardo il profilo irregolare degli edifici scalcinati, dei palazzi vecchi e squadrati di fronte a lei come se li vedesse per la prima volta. Esaminava le chiome diradate dei salici del parco pub-blico di piazza Valsassina. Nella penombra delle fronde riconosceva la

2 Su moddizzosu è un pane tipico del sud della Sardegna. Viene preparato con il grano o con la semola, a seconda della zona.

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strada sterrata che s’insinuava nel campo tra sterpi e asfodeli, e la infilava sicura, dietro alle sue sorelle. Edda era contenta di percorrerla a piedi. Le piaceva ritrovarsi nel silenzio dei suoi pensieri come quando la notte, sotto le coperte, pregava a mani giunte Gesù, Giuseppe, Maria e tutti i Santi per la pace della sua anima e di quella dei suoi familiari. Lungo il tragitto Edda restava muta. Incedeva con lo sguardo assorto sotto le ciglia aggrottate in un’espressione che le si era dipinta sul volto fin dalla nascita. Lasciava le sorelle procedere avanti di qualche metro di fronte a lei, per isolarsi. I tenui rumori del mattino arrivavano indistinti alle sue o-recchie e poi svanivano nello spazio astratto della sua immaginazione. Mentre lei si separava dal mondo circostante, la giornata si spalancava di fronte ai suoi occhi increduli. Non si trovava più all’interno del suo giova-ne corpo vestito di bianco. Contemplava i suoi piedi nudi che procedevano meccanicamente sulle pietre e sull’erba come se fossero due entità disgiun-te dal resto. Sognava di staccarsi dal suolo e di potersi alzare in volo, sopra i tetti del suo quartiere, per poi planare dentro il cortile della sua scuola. In una mattina speciale, Edda aveva percorso la strada con la speranza di rimediare un paio di scarpe. Il giorno prima la sua insegnante Maria Con-cetta Atzeni aveva richiamato le alunne sull’importanza di aiutare i bambi-ni più sfortunati, a partire da quelli vicini, perciò le aveva invitate a parlare con i propri genitori per trovare un paio di calzature invernali usate, da do-nare alla piccola Edda Damassi. Il suo nome aveva percosso l’aria con so-lennità, come una formula miracolosa che s’irradia nell’antro di una chiesa durante una funzione. Lei sentiva di essere diversa dagli altri e quell’attenzione nei suoi confronti le era sembrata opportuna. Quando le rivelarono che nessuno aveva trovato scarpe adatte a lei, Edda piombò in uno stato di confusione, lo stesso che la rapiva con reiterazione sia per mo-tivi futili, sia nei rari momenti di vicinanza con sua madre inebriata dall’alcool. Non le restava che la fame. Il suo stomaco borbottava dopo pochi minuti dall’ingresso a scuola. Le interiora erano strette da una morsa. Il dolore si espandeva lungo nervi e pareti molli. Un sibilo s’insinuava nella testa e non la abbandonava per il resto della giornata. Edda era magra, con braccia e gambe esili e ampi solchi ombrosi le avvol-gevano gli occhi. A lezione di matematica ostentava ancora un po’ di luci-dità. Durante l’ora di italiano aveva le vertigini. All’ora di disegno la testa le ciondolava sul banco. Volgeva lo sguardo oltre la finestra e cercava il patio, l’erba selvatica dalle larghe foglie tumide che celavano bacche verdi commestibili. Guardava le rocce bianche del colle di Tuvumannu erto fino a Piazza d’Armi, stagliato poco più avanti come un gigante dietro le infer-riate del cancello. Scrutava i fusti ramificati di capperi aggrappati capar-biamente alla roccia, le gonfie pale cariche di fichi d’india cresciuti a grap-poli sulle piante selvatiche sparse lungo la strada e pensava che si sarebbe salvata solo addentandoli all’istante.

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Capitolo tre. «Perche tu ti chiami Damassi e tuo padre Fossi?». La domanda era arrivata all’improvviso cogliendo Edda nel suo abituale smarrimento come se non fosse stata rivolta a lei, ma a un’estranea. Ora interrogava intimamente quella estranea, chiedendo una replica efficace. Era delusa dal silenzio che riceveva in cambio. Quando sembrò che la sua insistenza si facesse più sol-lecita dentro di sé, l’insegnante intervenne richiamando le bambine in clas-se. La ricreazione era finita. La maestra Atzeni era dolce e cortese. L’immagine carnale di un angelo del cielo. Almeno così appariva agli occhi di Edda. La bambina le era affezio-nata e Maria mostrava molte premure verso di lei, creatura riflessiva e dall’intelligenza silenziosa, senza che ci fosse mai biasimo o commisera-zione nelle sue attenzioni. Edda era convinta che quell’amore gratuito fosse dovuto alla sua bravura, in particolare al merito che la maestra le ricono-sceva nello scrivere poesie che poi elogiava pubblicamente leggendole in classe. Le era piaciuta soprattutto una che Edda aveva intitolato Cosa vor-rei essere: Vorrei essere un’aquila Se fossi un’aquila potrei volare Mi piacerebbe essere un fulmine E se fossi un fulmine potrei splendere Ma se fossi neve allora sparirei e dormirei nella pace Edda pensava che un giorno sarebbe diventata come Grazia Deledda. Ave-va sentito quel nome durante una lezione in classe e lo aveva impresso nel-la mente. Era rimasta colpita dalla figura austera della scrittrice sarda che compariva spesso nelle foto del libro d’italiano con una crocchia di capelli neri sul capo, proprio come lei, in una posa rigida ed elegante al tempo stesso. Aveva ripetuto il suo nome lungo la strada di casa per non scordar-lo. In camera si era riparata da sguardi indiscreti e poi l’aveva inciso dietro a un mobile con una vecchia vite trovata tra i rottami di Carla. «Le spacco la faccia!» aveva ringhiato Olga contro la compagna di Edda che aveva mostrato interesse nei confronti della famiglia.

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«All’uscita le spacco la faccia a quella brutta callona3!». Ci mancò poco che lo facesse davvero e afferrasse la piccola curiosa per i capelli poco oltre il cancello di scuola. La presenza della madre la fece pe-rò desistere, accrescendo insieme la sua sete di vendetta perché nessuno era mai venuto a prendere Olga dopo la scuola. Il solo pensiero le suscitava un’irrefrenabile invidia. Tra i fratelli Damassi vigeva un codice d’onore ferreo. Ognuno era respon-sabile dell’altro in ogni circostanza di pericolo o umiliazione. Una corsa di Totò fatta per le scale era rimasta memorabile nel quartiere. Le donne del palazzo ne avevano parlato per giorni, negli androni vuoti e grigi, di fronte al portone, dove formavano nugoli di chiocce pettegole annoiate dalla mi-seria. Il ragazzo aveva risposto all’accorato segnale di Carla che era entrata in camera sua incurante del rischio che avrebbe potuto correre in qualsiasi al-tra circostanza. «Corri, picchiano Michele!» gli aveva annunciato sua sorella. Totò, disteso pigramente a letto in mutande e canotta, si era alzato, aveva infilato i pantaloni senza allacciarli e si era buttato a piedi nudi nella trom-ba delle scale del pianerottolo. Era arrivato in fondo al palazzo e si era fermato all’ingresso spalancato sulle scale esterne. Gli era bastato vedere il fratello Michele addossato al muro di fronte a due sconosciuti per ricoprirli di botte. Il signor Ignazio Fossi non aveva potuto sposare la signora Natalina Da-massi perché era ancora coniugato con una precedente moglie di cui aveva perso le tracce. Una donna, secondo quanto la madre di Edda le aveva rac-contato, litigiosa e cinica, molto più grande di suo padre, una nomade ju-goslava, sparita in Francia. Fino a quando non avessero ricevuto notizie certe sulla sua sorte, i due non avrebbero potuto regolarizzare la loro unio-ne. I figli alla nascita avevano dunque mantenuto il cognome della madre. Il padre di Edda era il più piccolo di sette fratelli. Era nato in un paese in provincia di Piacenza. Aveva cominciato a viaggiare con i suoi familiari quando era ancora in fasce. Sua madre era una zingara sinta montenegrina emigrata in Italia in cerca di fortuna e suo padre per seguirla aveva abban-donato il paesello, rinnegato la tradizione artigiana della sua famiglia e si era adattato a svolgere la professione nomade di giostraio. I fratelli Fossi erano diventati autonomi in fretta. Dopo la morte improvvisa della madre, il loro padre era tornato al paese d’origine. Si era risposato e aveva ripreso la sua vita da dove l’aveva lasciata. Ignazio era partito con il fratello maggiore per Marsiglia, dove si era unito ad alcuni bohemien locali e altri giunti dalla Spagna. Aveva poi raggiunto alcuni parenti che gestivano un circo a Nîmes e lì aveva partecipato alle 3 Cogliona.

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feste di paese con la palla di ritorno e la ruota della fortuna. Aveva sposa-to per interesse una nomade più vecchia e ricca di lui. La relazione tra loro si dimostrò subito appesantita da forti squilibri caratteriali e recidivi tradi-menti. Si separarono qualche anno più tardi senza troppe formalità e senza figli. Richiamato militare in Italia per lo scoppio della seconda guerra mondiale, Ignazio aveva combattuto nella Campagna d’Africa Orientale da soldato semplice. Ferito durante un bombardamento alleato a Gallabat era stato rimpatriato e trasferito d’urgenza con un aereo militare al più vicino ospe-dale della Sardegna per ricevere cure adeguate. Lì aveva incontrato Natali-na un’infermiera bella, analfabeta e ragazza madre. Natalina era cresciuta in una famiglia rigida. Suo padre era un imprenditore marmista nato a Napoli da un uomo di origine siriana e da una genovese. Era emigrato in Sardegna per motivi di lavoro. Non tollerava che in fami-glia si parlasse il sardo perché riteneva fosse una lingua volgare. Ex dell’Unione militare di protezione antiaerea fascista durante la seconda guerra mondiale, dopo l’armistizio aveva sotterrato la sua divisa in un po-sto segreto ai piedi del Monte Urpinu per il timore di subire ritorsioni da parte dei partigiani. Aveva imposto l’uso del Voi a moglie e figlie. Le di-scussioni a tavola, il disordine, i giochi rumorosi, i gesti affettuosi non era-no ammessi. Le ragazze potevano uscire solo se accompagnate dalla ma-dre. L’uomo le teneva confinate in camera esigendo che si raccogliessero in preghiera per almeno un’ora al giorno e che facessero volontariato in ospedale tra i derelitti perché non essendo loro indigenti, erano tenuti a considerarsi debitori nei confronti del prossimo. La signora Moi in Damassi, sarda da generazioni, nata a Pula, infliggeva punizioni corporee alle proprie figlie perché era giusto così e perché non conosceva altri metodi educativi. I suoi silenzi e la sua fermezza, conse-guenti a un retaggio arcaico ereditato da una famiglia di pastori possidenti, rudi come la roccia del Gennargentu, erano pareti invalicabili innalzate tra lei e le sue figlie. Natalina soffriva dell’eccessiva severità dei genitori. Non si rassegnava all’idea di rimanere esiliata dall’esistenza. Non aveva potuto studiare per-ché femmina e ultima di cinque figlie. Non aveva amici. Le giornate erano troppo belle e lunghe per esaurirle all’interno di quattro mura domestiche e lei era troppo vitale. Quando vedeva passare i militari della vicina caserma La Marmora, li salutava dalla finestra aperta su un mondo che non poteva vivere. Sognava che qualcuno di loro, magari di un paese lontano, potesse salvarla dall’incubo e portarla via. Rimaneva a lungo affacciata alla fine-stra come in attesa di un segnale che potesse rivelarle un’esistenza miglio-re. Con le spalle rivolte a una sorte sfavorevole, liberava la sua visione fan-tastica oltre le case muffite addossate al suo giardino di speranze. Invece di compiere un percorso personale verso il riscatto, incoraggiata da

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un’improvvisa brezza di libertà, conobbe clandestinamente un uomo sposa-to che le regalò un figlio che lei chiamò Michele, identico a quel padre che non volle mai vederlo né riconoscerlo.

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Capitolo quattro. Il rientro di Ignazio Fossi dalle sue trasferte di lavoro rappresentava un’occasione di festa per la famiglia. Iniziavano i giorni di abbondanza che si sarebbero esauriti presto, ma sarebbero stati intensi per i bambini. In quei giorni arrivavano sulla tavola i formaggi, il brodo di gallina, le uova, la frutta fresca e secca, i dolci di mandorle, il pane carasau4, il vino, ma soprattutto il torrone di Tonara e la cioccolata di cui Edda era ghiotta. L’arrivo di Ignazio era annunciato in strada dai vicini che passavano voce e urlavano dalle finestre da un piano all’altro dello stabile. Qualcuno bussava alla porta della famiglia per informare personalmente Natalina e i bambini dell’arrivo dell’uomo, e visto che c’era, magari rima-neva a casa per curiosare un po’. Allora il piccolo appartamento al quinto piano si riempiva di estranei rumorosi e di movimenti frenetici. Se i bam-bini erano già in strada quando arrivava il padre, lo scortavano tenendolo per mano e intascavano le monetine che lui porgeva. Carla gli andava in-contro con il suo carrello carico di rifiuti. Edda sapeva che il momento mi-gliore per stare con lui era quello del conteggio delle monete e lo aspettava sulla porta di casa. Prima di farlo entrare, Edda lo fissava e gli domandava: «Quanto hai guadagnato, babbo?». «Niente, mir tschaj5. Non mi abbracci?». La bambina gli saltava addosso e si aggrappava al suo cappotto che portava odori di luoghi lontani. Lasciava la presa e poi frugava nelle tasche dei pantaloni e nella borsa di pelle d’asino, dove trovava il fazzoletto carico di monete, avvolto a doppio nodo con gli angoli logori. Lo sollevava verso il soffitto facendosi strada tra i fratelli raccoltisi in cucina. «Lasciate contare le monete al mio maschio!» ordinava Ignazio riferendosi a Edda che era la sua preferita, la figlia nella quale, tra tutti, egli si ricono-sceva. Edda contava piena d’orgoglio l’incasso della lunga trasferta di suo padre. Quel genere di esercizio matematico le era sempre piaciuto ed era grata al-la maestra Maria per averle insegnato a fare di conto. Aspettava per giorni l’occasione di svolgere una mansione così delicata, riservata a lei sola.

4 È un tipico pane sardo, originario della Barbagia e diffuso in tutta la Sarde-gna, conosciuto con il nome italiano di carta musica. 5 Figlia mia in sinto, una lingua della popolazione romaní, altrimenti chiamati zingari.

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Calcolava e valutava ad alta voce prima le monete di maggior valore, poi le altre. Ogni banconota accartocciata che scovava tra i denari le sembrava il bottino di una pesca miracolosa. Le piaceva il tintinnio e l’odore del metal-lo. Impilava i soldi con precisione e ne faceva colonne ordinate sulla tavola ponendole davanti agli occhi felici. Di tanto in tanto pescava dal mucchio e intascava. Ignazio conosceva quel trucco. Lo accettava perché era suo complice. Edda avrebbe usato il bottino per comprare le caramelle, le bi-glie o per puntare le giocate a Sette e mezzo o a Pinella nelle partite contro suo padre, che diceva di essere un grande campione ma che con lei perdeva sempre. Dopo aver calcolato l’incasso, Ignazio affidava alle sue figlie il compito di pagare i debiti accumulati al negozio della signora Vinci. Con i soldi rima-sti facevano la spesa per i giorni successivi. Edda desiderava mangiare fin-ché il suo stomaco non avesse smesso di brontolare e quel fastidioso ronzio che riempiva la testa come uno sciame d’api non avesse smesso di tormen-tarla. Avrebbe mangiato fino a quando non si fosse sentita sazia. Allora a-vrebbe fatto appello a tutti i suoi sensi per catalogare le percezioni gustati-ve che avrebbe usato come palliativo nei momenti di debilitazione. Un pomeriggio Edda si era trovata distesa sotto il letto della camera dei suoi genitori. Davanti agli occhi aveva la statua del Sacro Cuore di Gesù, il quadro di un pastorello tra le sue pecore chinato davanti alla Madonna ac-cogliente avvolta in un manto di luce, la foto della sua sorellina morta di scarlattina a due anni, e una reliquia dei suoi capelli neri, una bara di vetro dai contorni dorati che conservava una statuina distesa di Santa Rita da Ca-scia, collocata tra due ceri ingialliti. La prima ad accorrere era stata Olga che aveva cominciato a scuoterla energicamente e a chiamarla. Rita e Car-la, giunte subito dopo, avevano pianto. Poi era arrivato Ignazio che l’aveva stretta tra le braccia e l’aveva adagiata sulle sue ginocchia. Edda non ri-spondeva a nessuno stimolo, ma vedeva i volti e percepiva i suoni. Il ron-zio alla testa l’aveva abbandonata, ma non sentiva mani e piedi. Dopo a-verle offerto un bicchiere d’acqua e zucchero, Ignazio volle portarla dal medico il quale la visitò e non ebbe alcun dubbio nel definirla denutrita e anemica. Edda non capiva il significato del vocabolo anemica, ma suonava bene. L’avrebbe usato contro Olga in una qualche occasione per metterla in im-barazzo. Le sarebbe balzata davanti durante una discussione, avrebbe sen-tenziato “Io sono anemica!” e l’avrebbe zittita fissandola severamente. Le era parso che quella parola nuova potesse suggellare il ricordo del momen-to speciale in cui aveva ricevuto l’attenzione esclusiva di suo padre. Ignazio era corso in rosticceria e aveva comprato un pollo arrosto. Era tor-nato a casa, dove Edda lo aspettava, adagiata sul letto matrimoniale dei suoi genitori, esangue come una morta. Ignazio l’aveva sollevata e portata in cucina tenendola tra le braccia. Le aveva versato del vino rosso in un

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bicchiere e l’aveva invitata a bere. Poi rivolto agli altri figli assiepati attor-no al tavolo con occhi sgranati per la fame, aveva ordinato loro di non toc-care il pasto destinato all’ammalata. Natalina non cucinava perché non c’era mai e se c’era, non le piaceva, o era un po’ ubriaca, tranne quando Ignazio era presente. Allora era allegra e sobria, cantava in pizzu e cuddu monti6 e in su monte gonare7, riordinava gli armadi, batteva i tappeti sul terrazzo, apriva le finestre, lavava i panni, chiacchierava allegramente con la signora Marcialis del piano di sotto e con la signorina Lucrezia che viveva nell’appartamento accanto. Organiz-zava tornei di carte con i vicini, esauriva avidamente le sue sigarette fino al filtro lasciando Totò a bocca asciutta. Qualche volta cucinava pure la pasta all’olio. La domenica Ignazio si vestiva con l’abito della festa. Metteva le scarpe nere lucide, il cappotto grigio, il cappello in testa sulle ventitre e portava i figli ai giardini pubblici, poi alla messa e a comprare lo zucchero filato. Il pomeriggio giocavano insieme a carte sul tavolo di cucina. Prima di cena, mentre era intento a cucinare, Ignazio raccontava alle figlie episodi legati alla vita della nonna paterna chiromante, della zia materna bruscia8, de s’ogu pigau9, di come riconoscerlo e annullarne gli effetti, di come diffida-re delle lusinghe fatte dalle persone maligne. Una volta raccontò della notte in cui da ragazzo, durante un viaggio, aveva dormito sotto un wurdon10 di fronte a un cimitero. A mezzanotte si era risvegliato e aveva visto sfilare in processione un gruppo di ombre sospese a mezz’aria che tenevano tra le mani delle fiammelle. Era rimasto intirizzito dalla paura nel vedere in pri-ma persona gli spiriti dei morti di cui tanto aveva sentito parlare da bambi-no. Aveva smesso di respirare fino a quando le luci non erano sparite dietro a una colonna d’ingresso del camposanto. Durante i racconti del padre, Edda rimaneva con la bocca asciutta e le mani fredde che si confondevano con il legno bianco del tavolo sul quale le ave-va dimenticate. Stringeva la tovaglia in attesa dell’ennesima rivelazione. Sobbalzava a ogni figurazione sinistra descritta dal genitore. Rideva. Am-mutoliva ancora. Voleva sapere di più sulla sua famiglia e sulle cose del mondo. Allora Ignazio continuava a raccontare. Le svelava i segreti celati nella mezzanotte, momento carico di mistero in cui una porta magica si a-pre tra due mondi. La realtà e l’illusione si fondono. I personaggi che li a-

6 Canto sardo. 7 Canto sardo. 8 Dal latino fata del male o strega. In senso spregiativo è detta in sardo sa coga, sa brùsa, o bruscia. 9 Malocchio. 10 Carrozzone zingaro.

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bitano si mescolano e si perdono. I fantasmi rimangono imprigionati sulla terra. «Non guardatevi mai allo specchio a mezzanotte, figlie mie, perché potre-ste vedere il diavolo!» rincarava Natalina, caricando di disagio la paura che aveva avviluppato le sue bambine. «Non pettinatevi i capelli a quell’ora, perché potreste perderli tutti!». Quando la cena era pronta, anche le figlie erano cotte a puntino. Il pasto era servito. Edda consumava la sua porzione di cibo immersa nei suoi pen-sieri, con le guance rubizze di eccitazione e il cuore in tumulto. La notte, Ignazio entrava nella stanza dei suoi figli, li baciava sulla fronte uno a uno e faceva loro il segno della croce. Si chinava su Edda. Lei sentiva profumo di tabacco e muschio. «Camo to rado11» le sussurrava. Poi le sorrideva e la abbracciava forte. Si drizzava. Allontanandosi sollevava uno zefiro d’aria carica di rassicurante umanità. Edda lo vedeva sparire dietro la porta di camera e poi fissava il filo di luce della lampada a olio che illuminava la sua scrivania. Il bagliore si allunga-va in corridoio affettando le tenebre. Edda ascoltava sua padre farfugliare frasi che gli morivano tra le labbra mentre scriveva lunghe lettere a desti-natari sconosciuti, ai parenti sparsi in Francia, Spagna e Germania, a rap-presentanti delle istituzioni locali per ottenere le licenze. Allora Edda si assopiva, cullata dalla presenza del genitore e dalle lusinghe della sua fantasia. Misteriose figure senza volto si affollavano nella sua mente. Ripeteva tra sé storie magiche di paesi esotici e fate, formule mira-colose che entravano nel suo sogno tormentato per distorcere i riflessi con-fusi di paesaggi sconnessi. Si addormentava recitando un’accorata preghie-ra a Gesù, a Giuseppe, a Maria e a tutti i Santi perché per nessun motivo la facessero svegliare a mezzanotte.

11 Ti voglio bene, in sinto.

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Capitolo cinque. Ignazio ripartiva dopo cinque o al massimo sette giorni per l’ennesima fe-sta di paese, lasciando la casa nel solito, muto disincanto che si sarebbe presto riempito delle urla isteriche di Olga, dei canti accorati di Rita, dei rimestii di Carla e dei pianti di Eleonora. I soldi erano finiti. Natalina riprendeva a bere. Staccava strisce di carta da parati e le arrotolava per fare le sigarette con il tabacco che teneva sfuso nelle ampie tasche della sua veste da camera. Chiamava Edda e la mandava dalla signora Vinci a finire i risparmi rimasti per comprare il vino. La mat-tina usciva all’alba per dirigersi al vecchio ospedale Santissima Trinità a pochi chilometri da casa dove ancora faceva l’infermiera. A volte faceva il turno di notte in obitorio perché i morti non le facevano impressione. Lo raccontava con orgoglio ai suoi figli e diceva che, piuttosto, bisogna avere paura dei vivi. Natalina era così. Caparbia e istintiva. Non temeva niente e nessuno. Per qualche tempo aveva anche lavorato al manicomio di Monte Claro, dove dopo anni di lontananza dalla sua famiglia d’origine aveva ritrovato sua madre, malata e pazza, abbandonata da suo padre quando aveva cominciato a dare i primi segni di depressione. Le battaglie che Natalina intentava caparbiamente contro la vita affogava-no solo nella mollezza del vino e lasciavano indietro il resto, inclusi i figli. Molte erano le esperienze vere o presunte che avevano segnato la sua vita e lei le raccontava con dovizia di particolari, soffermandosi sui dettagli oltre il necessario, per dare a ognuno il valore che meritava. Ancora incinta di Michele era stata cacciata di casa da suo padre. Era riu-scita a farsi ospitare da una vedova che chiamava zia, ma che non era sua parente. La donna viveva sola e senza figli in una casa di pietra e paglia che assomigliava più a un nuraghe che a un appartamento. La piccola di-mora sorgeva alla periferia di Pirri, poco distante da Cagliari. Natalina ini-ziò a fare la teracca12 da privati e a lavare le scale di condomini eleganti nella zona di via Sonnino che raggiungeva sopra il carro trainato da buoi di Ninnetto Carta, un parente acquisito che gironzolava intorno alla vedova. La ragazza lavorò fino al nono mese di gravidanza. Alla nascita di Michele, con lo scoppio della seconda guerra mondiale, fu accolta in ospedale, nonostante fosse analfabeta, prima come aiuto cuoca, poi come inserviente ai piani e infine come infermiera, tanta era la necessi-

12 Donna di servizio, in sardo.

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tà di personale. Natalina lasciava Michele alle suore. Qualche volta i colle-ghi dell’ospedale la aiutavano a occuparsi del bambino e allora lo ospita-vano di nascosto nei corridoi, nelle stanze dei medicinali, nel ripostiglio, dove giocava con lacci emostatici, provette e scatole di farmaci. Dopo due anni aveva conosciuto Ignazio, ricoverato nel reparto di ortope-dia e traumatologia. Insieme avevano riso della vita, sospirato su ogni cica-trice del passato. L’uomo se ne era invaghito. L’aveva riempita di atten-zioni. L’apprezzava per quella che era, una donna sola e tenace. Accettava il suo passato di naufraga perché lo era stato anche lui, ma soprattutto ac-cettava suo figlio Michele. Quando Ignazio fu in grado di camminare erano andati a vivere insieme. Si erano incontrati nel turbinio di una guerra deva-stante e senza pace. Il loro amore era nato sotto i bombardamenti che ave-vano sventrato la terra e ridotto in polvere case e palazzi di Cagliari. Men-tre centinaia di profughi scappavano verso le zone interne della Sardegna, loro due avevano cercato un’occasione di riscatto, una tregua solitaria dal mondo, in ciò che rimaneva della città. «Come fai a leggere le ricette e riconoscere le medicine, mamma?» le ave-va chiesto una volta Edda. «Non c’è bisogno di leggere, figlia mia. Riconosco le confezioni». La sua risposta aveva affondato la bambina. Edda si chiedeva se sua madre fosse davvero un’infermiera, se fosse vittima di qualche malocchio o sem-plicemente fosse una donna terribilmente incosciente. Per questo temeva per la sua incolumità e dunque per se stessa. Decise che se ne sarebbe presa cura. Avrebbe chiesto consiglio a sua zia bruscia se fosse stato necessario, si sarebbe fatta finalmente insegnare come togliere il malocchio. Ma is brebus13 non si poteva raccontare. «Tu sei come me, figlia mia!» le aveva detto una volta sua zia Ada, con un tono ruvido nella voce che non lasciava presagire nulla di buono. «Ogni cosa a suo tempo» aveva sentenziato, e Edda l’aveva interpretato come una minaccia. L’intimità conclamata delle loro anime, riconosciuta anche dagli altri membri della famiglia, la rendevano una bambina temuta e rispettata in-sieme. Un giorno Edda avrebbe potuto essere introdotta ai segreti della bruscia e questa possibilità fece insinuare nella sua mente il sospetto, oltre che la preoccupazione, di essere una predestinata, di avere un compito nel-la vita cui mai avrebbe potuto sottrarsi e che solo lei avrebbe potuto assol-vere, suo malgrado. La notte le apparivano in sogno molti personaggi della sua vita, anche mor-ti, che le parlavano del presente e del futuro affidandole verità appena sus-surrate dal vento. Se si trattava di parenti stretti allora significava che erano in cerca di preghiere e Edda formulava le sue suppliche fino a prosciugare 13 Parole di potere, venivano usate nel caso di malocchio, anche sugli animali.

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la saliva. Se non si sentiva soddisfatta e temeva un ritorno di certe alluci-nazioni, sgusciava di casa, raggiungeva la chiesa della Medaglia Miracolo-sa e si rivolgeva a Don Enrico Boi, parroco esorcista. Edda lo guardava in trepidante attesa, dal basso, con gli occhi lucidi. Sten-deva le sue braccia sottili per donare i pochi spiccioli che aveva sottratto a suo padre. Il suo sacrificio sarebbe servito a ottenere una messa a suffragio. Don Enrico raccoglieva le monete dalla mano di Edda e la licenziava con un segno della croce. Le figure che le apparivano in sogno animavano anche la sua vita reale. A volte le sembrava di incrociarle in casa. Era convinta di vederle fuggire dietro agli angoli e alle porte come topi frettolosi. Le sembrava di scorgerli sul bordo del letto intenti a fissarla con i piccoli occhi neri scintillanti o a rosicchiare le lenzuola smosse nel buio. Nella confusione sconfortante del-la sua mente, avida di risposte e amore, aveva pensato che lei potesse di-ventare una guaritrice. Era arrivata a pensare che il suo scopo sulla terra fosse quello di curare le sofferenze perché le conosceva bene, non solo le proprie ma anche quelle della sua famiglia, della gente del suo quartiere, dei poveri, degli emarginati e dei delinquenti che incrociava ogni giorno per le scale, al mercato, in piazza. Allora, prima di salvare la società, a-vrebbe guarito sua madre dall’alcol, sua sorella Olga dalla rabbia, Totò e Rita dalla solitudine, Carla dall’insicurezza, Eleonora dalla precoce buli-mia, senza però riuscire a considerare davvero di salvare se stessa.

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Capitolo sei. A dieci anni Edda iniziò ad accompagnare suo padre alle feste di paese. I-gnazio le aveva detto che ormai era pronta. Lui aveva bisogno di un assi-stente capace che lavorasse gratuitamente, senza troppe pretese. Sua figlia era infaticabile e graziosa. Le forme del suo corpo avevano cominciato a fiorire sotto gli abiti leggeri. Dovette lasciare la scuola senza aver concluso la quarta elementare. Lo fece e non ebbe rimpianti. Se non fosse diventata poetessa almeno avrebbe girato un po’ il mondo e sarebbe stata utile alla sua famiglia. Con queste parole aveva salutato la maestra Maria che l’aveva fissata a lungo in silenzio, trattenendo a stento la sua riprovazione tra le labbra. La donna era infine riuscita ad allungare una mano per strin-gere forte, un’ultima volta, quella della sua allieva prediletta. «È un pecca-to, Edda. È un vero peccato» le aveva sussurrato. Edda era desiderosa di conoscere i posti che aveva vagheggiato nella mente quando era piccola. Avrebbe finalmente capito da dove arrivavano i soldi e perché finivano nel fazzoletto di suo padre. Cominciava a pensare di essere una bambina fortunata. Provava una sensazione nuova, gratuita ed esaltan-te, priva di reale consapevolezza. Il lavoro di giostraio lo aveva nel sangue. Ne aveva sempre sentito parlare. Ora finalmente lo avrebbe vissuto in pri-ma persona. Suo padre era uno zingaro e dunque un po’ lo era anche lei. Oltre alla maestra Maria, anche sua zia Ada avrebbe dovuto rinunciare a educarla. E questo andava, entusiasticamente per Edda, contro ogni prono-stico. Scoprì che suo padre era noto tra i frequentatori più assidui di feste come tziu umbali e per gioco cominciò a chiamarlo così. Il gruppo di giostrai si riuniva al paese di destinazione o formava una carovana durante il tragitto raccogliendo nuovi passeggeri nei villaggi. La squadra era composta da mercanti, giocolieri, musici, attori, dolciari, animali domestici e selvatici sorvegliati da ammaestratori. Insieme sceglievano il campo dove allestire la fiera. Gli operai montavano il calcio in culo, la giostra per i più piccoli, il tavolo per la palla di ritorno e la ruota della fortuna decorata con banco-note lucide in miniatura di diversa taglia, plastificate e incollate su ogni spicchio a colori della ruota. I paesani curiosavano intorno al campo già dal mattino. Bambini e anziani si intrattenevano in discussioni vivaci vicino alle attrazioni sino all’ora di pranzo. La festa si animava nel pomeriggio. La musica risuonava nell’aria carica di ritmi indistinti e odori stucchevoli. Nel cielo volavano i palloncini e sventolavano le bandierine colorate, srotolate lungo un’intricata rete di

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fili sospesi sulle teste della gente scivolata fuori dalle case. Dopo le cinque la folla sfilava lungo la via principale verso la piazza già colma e si apriva al passaggio della processione del Santo Patrono che veniva scortato alla basilica su una pedana fissata a due grossi tronchi sorretti sulle spalle dagli uomini. La statua era preceduta dal lancio di fiori. Edda la rivedeva sbuca-re dalla navata principale della chiesa carica di gioielli, seguita da un grup-po di donne vestite di nero che intonavano antiche litanie. Lei vendeva i biglietti del calcio in culo, chiamava le corse e i nuovi giri, risistemava il birillo atterrato della palla di ritorno, attirava l’attenzione della folla e ur-lava più forte degli altri giostrai. Di tanto in tanto metteva al sicuro i gua-dagni della giornata. Ogni sera contava i soldi diligentemente. Si sedeva in prossimità del fuoco ad ascoltare i racconti di estranei che diventavano pian piano amici. Riceveva sul viso il riverbero delle braci. Aveva nelle narici l’odore di porceddu14 e nelle orecchie il suono di un violino. Guar-dava suo padre scherzare e incitare i compagni al gioco, dare le carte e ba-rare. Molto più tardi si addormentava con gli altri bambini dentro la sua carovana, dove il sonno le restituiva l’ingenuità dei suoi anni. Durante uno dei suoi viaggi, Edda aveva conosciuto una coppia di lontani parenti senza figli, originari di Cordongianus e proprietari di alcuni negozi di alimentari, con i quali aveva trascorso serate piacevoli in compagnia di suo padre. Li aveva rivisti qualche tempo dopo in un paese del Logudoro dove si erano recati a concludere certi affari. La coppia si appartava spesso a parlare con Ignazio. Negli ultimi tempi i colloqui erano diventati frequen-ti. Un giorno di autunno a Cagliari, Edda era rimasta a giocare sotto casa. Mangiava le bacche di erba selvatica e rigirava tra i denti il callo morbido che si era svelato dentro l’involucro verde. Osservava Carla e Bernardo che allestivano il loro mercatino di cianfrusaglie addossato a un muro di cinta del giardino dove viveva la vedova Vinci. Pensava a suo fratello Michele che se ne era andato. Aveva sposato una ragazza del quartiere Sant’Elia e aveva deciso, dopo qualche perplessità, di cercare un appartamento in affit-to. Natalina lo aveva messo alle strette. Nove bocche da sfamare erano troppe e lui, maggiorenne, era in grado di cavarsela da solo. Edda aveva ascoltato con apprensione le raccomandazioni che sua madre aveva rivolto a suo fratello senza riuscire a rassegnarsi all’inevitabilità di perderlo. Le partenze scatenavano in lei un senso di vuoto. Il cervello si annebbiava. Era come se non capisse fino in fondo la connessione tra un prima e un dopo la scomparsa della gente. Qualcuno c’era e un attimo dopo non c’era più. Era difficile e doloroso da accettare. Pensava di essere re-sponsabile delle privazioni che subiva. Era convinta che la perdita fosse 14 Maialino. Specialità della cucina sarda.

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connessa alla sua condizione di miseria. La paura di ulteriori abbandoni che avrebbe potuto sperimentare in età adulta le faceva desiderare di non crescere. Mentre osservava Carla smistare gli oggetti di varie provenienze tra i rifiu-ti, si compiaceva del fatto che sua sorella fosse lontana da ciò che le si ac-caniva nella mente. Aspettava i suoi improvvisi slanci di gioia che le e-splodevano sul volto quando raccoglieva qualcosa che le sembrava straor-dinario. Poi si fermava su Bernardo, rigido come un fascio di nervi tesi, e ne ammirava la dedizione. Il bambino teneva il carrello proteso verso l’amica a ricevere diligentemente ciò che lei raccattava, come se reggesse le sorti dell’universo. Un moto involontario del sopracciglio fece incupire lo sguardo di Edda fa-cendo calare sul suo volto uno stato di meditazione profonda. Rita la trovò seduta con le braccia intorno alle gambe. «Mamma ti cerca, Edda, va da lei!». «Che succede? Che c’è?». «Non lo so, ma vai, corri. È arrivata una coppia di parenti. Mamma ti vuole parlare». Edda si diresse in silenzio verso casa. Non distolse subito lo sguardo da Carla che la salutava dal monte di rifiuti. Avvertiva un senso di vertigine e si ancorò all’immagine di sua sorella per non cascare. Con il cuore in gola e i pugni stretti lungo le cosce, volse lo sguardo al portone, lo infilò e co-minciò a salire le scale mentre uno spasimo le murava la pancia. Dopo la seconda rampa di scale sentì il suo affanno farsi spazio di sottofondo alle urla di suo padre che cadevano dall’alto, insieme con quelle di un altro uomo e di una donna. Li riconobbe. Erano i parenti di Cordongianus. «No! Non è possibile! Non si può fare. Preferisco morire di fame!». Igna-zio urlava con voce alta e irregolare, ma le sue parole giungevano nitide all’orecchio di Edda. «Calmati, Ignazio, basta! Vogliono aiutarci. Lo fanno per noi. Per Edda! Eravamo d’accordo, no?». «No, la mia bambina, no! È troppo giovane. Ho cambiato idea. Forza! Fuo-ri da questa casa!». La coppia desistette e partì voltando la schiena. Scese le scale di fretta. Ar-rivata al quarto piano, incrociò Edda che era rimasta sui gradini. «Addio fill’e anima15!» le disse la donna con un piccolo cenno della mano e gli occhi visibilmente commossi. Dopo qualche istante di indecisione, Edda proseguì la scalata e raggiunse l’ultimo piano. Il cuore le batteva forte in petto e tra i tendini del collo. Na-talina si era persa in casa. Continuava a parlottare tra sé e si lamentava. I-

15 Patto sulla parola per cui una famiglia prende la figlia di altri per crescerla come propria.

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gnazio era rimasto sulla porta vinto dallo sforzo profuso. Nel vedere sua figlia si calmò. «Vieni, mir tschaj!» le disse. Lasciò sciogliere la rabbia in un profondo respiro. I muscoli contratti del volto si addolcirono. Allungò la mano per accarezzarla. Le sfiorò una guancia. Le cinse amorevolmente le spalle per accompagnarla dentro casa. «Nessuno ti porterà via, amore mio, per nessun oro del mondo».

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Capitolo sette. La sua partenza era stata annunciata da insolite polemiche, gonfiate da sua madre in interminabili prediche contro la povertà. Altri inquietanti segnali premonitori avevano animato i giorni e le settimane in discussioni spossan-ti. A dodici anni, l’aiuto che Edda poteva dare a Ignazio nelle sue trasferte di lavoro nei paesi non era più necessario. Carla aveva già iniziato il suo praticantato sostituendo Edda alle feste di piazza. La bambina aveva ab-bandonato a malincuore il suo carrello e aveva incaricato Bernardo di oc-cuparsi degli affari in sua assenza. Il ragazzo aveva accolto le parole dell’amica come una condanna che lo rigettava nell’insipienza di giorni tutti uguali. L’impegno dei fratelli Damassi al lavoro era commisurato al livello di cre-scita raggiunto. Edda, quasi adolescente, era davanti a una svolta. Il suo timore di crescere troppo in fretta si stava realizzando sotto la pressione psicologica che i suoi genitori esercitavano su di lei, sottolineando spesso come loro alla sua età, già lavorassero. Si manifestava, inoltre, nei segni di cambiamento fisico che erano piuttosto evidenti. Negli ultimi due anni le si era sviluppato il seno, era diventata più alta e aveva preso le rotondità di un frutto maturo. Nonostante cercasse di mangiare di meno, il suo consumo quotidiano appa-riva insostenibile agli occhi di Natalina. Edda aveva provato a distinguersi nei lavori domestici nutrendo la speranza di impressionare i genitori e am-bire almeno al ruolo di teracca. Si era occupata delle sorelle più piccole seguendole anche nella pulizia quotidiana. Sbrigava le faccende e riasset-tava la cucina. Faceva il bucato e nascondeva alcuni disturbi fisici che da un po’ di tempo l’assillavano e si manifestavano in dolori addominali, bat-titi irregolari del cuore e respiri implosi in petto. L’attenzione per l’ordine era diventata una sua priorità, ma la dedizione che riponeva nella cura della casa era stata interpretata da sua madre come una vocazione. Questo confermava la sua convinzione che la ragazza fosse ormai pronta ad andarsene. Arrivò il giorno in cui Natalina dichiarò di essere stanca di lavorare. Co-minciò a girare per casa senza uno scopo. In realtà l’avevano cacciata dall’ospedale dopo l’ennesimo lassativo somministrato a un paziente con la diarrea. Il suo perenne stato di ubriachezza, la crisi economica e sociale imperante nella regione che inaridiva le casse pubbliche, avevano fatto il resto. Non essendoci alcun contratto di lavoro che impegnasse il Santissi-ma Trinità nei suoi confronti, e tanto meno nessun formale diritto ricono-

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sciuto, il Comitato di gestione aveva disposto d’imperio, dopo quindici an-ni di servizio, il suo allontanamento. Qualcuno aveva suggerito a Totò di entrare nell’arma dei carabinieri. Lui, sotto i continui indelicati solleciti di un’ormai inquieta Natalina, si era ar-ruolato senza avere la minima idea di cosa andasse a fare. Chissà quali tipi di mansioni avrebbe potuto svolgere dalla branda, quel lavativo impunito? Era stato il primo pensiero degli altri membri della famiglia. Olga in parti-colare, segretamente afflitta da un’inguaribile nostalgia di suo fratello, non perdeva occasione di riferirsi crudelmente alla sua pigrizia e alla sua irre-sponsabilità. Era fermamente convinta che avrebbero rispedito a casa quel grosso sacco di merda a calci nel culo. Invece Totò non tornò. Spediva car-toline e saluti da Alessandria, Novara, Torino, Ancona e Roma fino a quando non arrivò più alcuna notizia. Edda aveva tristemente concluso che l’allontanamento da casa spegneva ogni desiderio di tornare. Anche la sua partenza avrebbe rappresentato un passaggio propedeutico, si ripeteva, che non avrebbe potuto nuocerle. Le avrebbe piuttosto portato del bene, considerato che il suo amato Michele e Totò dopo di lui, ci erano passati senza traumi evidenti. Inoltre, per una questione anagrafica, la prossima avrebbe potuto essere sua sorella Olga, perciò lei avrebbe guadagnato del tempo prezioso. Zia Giuseppina, che tutti chiamavano Peppa, arrivò a casa Fossi da Paler-mo nel mese di luglio del 1966. Moglie di Anselmo Fossi, fratello maggio-re di Ignazio, era una donna pacata e austera. Durante il primo incontro a-veva preferito non rivolgersi direttamente a Edda per non sembrare indeli-cata e per permetterle di metabolizzare la sua presenza. Qualcosa di inquie-tante aveva aleggiato sui membri della famiglia riunitasi in cucina. Peppa aveva parlato con calma, scadendo ogni parola, direttamente a Ignazio e Natalina. Aveva detto di aver bisogno di una collaboratrice domestica. Set-te figli vivaci ed energici di cui tre più piccoli di Edda le avevano procura-to un gran mal di schiena, un’invidiabile pazienza e due braccia forti come quelle di un minatore. I soldi non le mancavano e dunque poteva permet-tersi di pagare un aiuto, meglio se di un familiare perché tra consanguinei ci si intendeva meglio. La bambina le era sembrata remissiva e forte al tempo stesso. L’aveva os-servata con attenzione puntigliosa, quasi professionale, quella di chi valuta la qualità di un quarto di manzo appeso ai ganci di una macelleria. Così si era sentita Edda. La zia non aveva avuto dubbi quando Natalina l’aveva posta di fronte all’alternativa di scegliere tra lei e Olga. Quest’ultima aveva fatto di tutto per mettersi in evidenza, mentre Edda aveva presentato il peggiore sguardo contrariato che avesse mai potuto fare. Olga aveva con-versato piacevolmente, mentre Edda aveva risposto con mezze frasi. Durante il breve colloquio che si svolse in casa Fossi Damassi alla presen-za di Ignazio che sembrava tormentato e Natalina che invece era molto ec-

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citata, Edda aveva cambiato progressivamente d’umore. Si era posta in competizione con Olga. Dopotutto, se fosse stata scelta lei, avrebbe potuto dimostrare la sua superiorità in uno scontro diretto e alla presenza di testi-moni. Aveva la possibilità di apparire migliore e meritare di restare, nono-stante tutto. Natalina avrebbe potuto decidere all’ultimo minuto di sbaraz-zarsi di Olga e non di lei. Forte di questi propositi, Edda si era rilassata e aveva seguito la sua inter-locutrice con maggiore partecipazione. Lo scopo ultimo di quel colloquio però aveva cominciato a sbiadire. Edda aveva perso l’orientamento e si era abbandonata a un’allucinazione fatua. Aveva raccontato con sorprendente loquacità dei tempi della scuola, dei suoi sogni premonitori, delle sue pre-coci abilità di chiromante. Aveva recitato meccanicamente le ricette di cu-cina che conosceva. Si era alzata e aveva ruotato su se stessa per mostrare alla zia i suoi capelli. Aveva sorriso, infine, quando Peppa le aveva fatto notare che solo una ragazza forte poteva avere capelli come suoi. L’accordo fu concluso e Edda non riuscì ad aggiungere altro. L’allontanamento che ormai sembrava inevitabile divenne la sentenza di un sofferto martirio. Lei anticipava i tempi che i fratelli più grandi avevano rimandato a lungo e in questo sicuramente si era mostrata superiore agli altri. La fine attesa era diventata reale. La sua vera iniziazione cominciava quel giorno. Ignazio l’aveva chiamata in disparte la sera prima della partenza. «Tutto bene, mir tschaj». «Sì papà». «Sei sicura di voler partire. Sei d’accordo?». «Sì papà». «Sono orgoglioso di te. Zio Anselmo e zia Peppa sono brave persone. Puoi fidarti di loro». La baciò in fronte. Allungò le mani per tenere quelle di Edda che si ritrassero nel buio. Allora la strinse tra le braccia e Edda sentì l’odore di tabacco e muschio, ma ne fu infastidita. Aveva ostentato solidità dentro quell’abbraccio perché sentiva un disagio involontario rimestarle la pancia. Non riconosceva più l’uomo che aveva davanti. Quando Ignazio la lasciò per andarsene si sentì ripudiata. Avrebbe voluto fermarlo e urlargli dietro, ma le sue parole morirono in gola. “Vuoi davvero che vada? Perché? Cosa ti ho fatto? Chi si occuperà di voi? Chi si occuperà di me?”. Rimase muta sul bordo del letto come sull’orlo di un abisso. Lo vedeva chiaramente di fronte ai suoi occhi, prossimo e minaccioso. Ogni via di fu-ga era impercorribile. Rassegnarsi significava morire. O forse la morte sa-rebbe stata migliore? Edda partì per un paese oltre il mare, la prima volta nella sua vita, nel mese di ottobre del 1966. Salì la rampa di scale del traghetto che da Cagliari

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l’avrebbe portata a Palermo, a casa di sconosciuti, in una regione ignota, un’altra isola come la sua Sardegna, ma che non aveva mai sentito nomina-re. Il giorno dell’imbarco trascinò la sua valigia di cartone da un gradino all’altro della rampa di scale in ferro agganciata al bastimento. Tratteneva il respiro alterato dagli effluvi del mare, senza accennare al minimo sforzo per non rinunciare a quel poco di onorabilità che sentiva di dovere a se stessa. Il pianto le montava in gola e si mischiava alla nausea e alla vertigi-ne dirompenti che annebbiavano la vista. Sentiva un dolore alle nocche delle dita gelate, strette intorno all’impugnatura del suo bagaglio a mano. Digrignava i denti per il freddo. L’umido suggellava le ossa. Il suo presen-te non le importava, non esisteva più. Il suo futuro non riusciva a immagi-narlo. Non si voltò a salutare suo padre. Ignazio l’aveva accompagnata al porto e la guardò partire senza opporre resistenza.

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Capitolo otto. «Vuoi mangiare?». «…». «Vuoi mangiare bedda16?». «No!». La sua risposta, taciuta appena dietro a una nuvola di indecisione, la sorprese. Il tono della sua voce fu talmente perentorio che si stupì. Edda infatti aveva molta fame, almeno da quando un’ora prima la nave era salpa-ta dal porto. Il corridoio affollato di terza classe che la ospitava la cullava al ritmo dei flutti che si infrangevano contro il piroscafo. Lei stringeva ma-ni e gambe agli argini della branda di legno per non perdere l’equilibrio. Era calata la notte. Oltre l’unico oblò del vano letto affacciato sul mare non si vedevano le stelle. Edda non aveva mai preso il mare. Non immaginava la distesa d’acqua scura che la separava dalla terra ferma e il lungo percor-so che aveva intrapreso, ma intuiva il peso della sua condizione. Non aveva mai lasciato la sua casa prima di allora per più di una settimana. Una grande nave ora la stava portando molto lontano per un periodo inde-finito. Era stata al porto di Cagliari, a Marina piccola e a Sant’Elia qualche volta perché aveva accompagnato suo cugino Luigi Fara che andava con il retino a pesca di gamberi e suo fratello Michele che aveva la bancarella di ricci. Per raggiungerli al molo principale da dove salpavano le navi verso il Continente, attraversava a piedi il quartiere Marina sino a Via Roma. An-dava a vedere il mare e le torri bianche del municipio ottocentesco sopra le quali sibilava il vento di ponente prima di insinuarsi tra le colonne dei por-tici. Si sedeva sul bordo della banchina e respirava gli aromi salmastri. Os-servava la danza delle alghe ancorate come lingue brune ai faraglioni sommersi. Le navi ormeggiate le erano sempre parse inavvicinabili come portoni chiusi su mondi estranei verso i quali si sentiva attratta. Aveva immaginato la vita dei marinai che ci lavoravano. Li aveva incontrati, qualche volta, e aveva colto i dialetti insoliti senza capirne il senso. Aveva trascorso pome-riggi interi a seguire i gesti frenetici dei pescatori che caricavano le reti vuote sotto il sole, a bordo delle loro imbarcazioni ormeggiate. Aveva a-scoltato gli ordini risoluti che si lanciavano per stimolare la collaborazione cameratesca. Suo bisnonno materno, marinaio, era arrivato a bordo di una di quelle navi dai nomi esotici. Affacciandosi su un mare turchino era ri-masto abbagliato dalla luce che emanava quella città di marmo un po’ ara-

16 Bella, in siciliano.

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ba, distesa oltre la Sella del Diavolo e, sognando le palme di Damasco, si era convinto a restare. «Non preoccuparti, ti troverai bene! Cu nesci arrinesci17». Peppa si era rivolta a Edda parlandole con la bocca piena di cibo e senza distogliere lo sguardo dal pane e salame che teneva tra le mani. «Prendi un po’ di formaggio, picciridda18». «No grazie!». «Sai leggere e scrivere?». «Sì». «Sai cucinare?». «Sì». Edda si librò in un volo fantastico e precipitò dentro la cucina di casa sua. La vide vuota, come le volte in cui aveva dovuto preparare la cena con gli avanzi del giorno prima. «Oh brava! Mi aiuterai a cucinare. I tuoi cugini mangiano qualsiasi cosa». Peppa rise tra sé, immaginando la scena. «Si fa colazione alle cinque del mattino perché usciamo presto per aprire le giostre a Palermo. Quando invece andiamo a Corleone stiamo fuori diversi giorni. Conosci questi posti?». «No». «Certo bambina. Hai mai lavorato alle giostre?». «Sì». «Questo è bene» concluse con soddisfazione sua zia. «Dovrai svegliarti presto. La mattina ti occuperai delle tue cugine. Nel pomeriggio mi aiuterai a riordinare il campo e a sistemare gli arnesi da lavoro. Potresti seguire il tiro a segno. È una cosa semplice». Peppa le aveva parlato con serietà, trat-tandola come un’adulta, senza darle il tempo di replicare. «Ora mangia!» terminò con aria risoluta. Edda si era eccitata durante quella prima vera conversazione intrattenuta con la forestiera. Le venne appetito. Accettò un pezzo di caciocavallo. Al-lungò il braccio per raccoglierlo dalle mani di Peppa. Aveva l’impressione che le si fosse aperto davanti uno spazio nebuloso puntellato di luci che ruotavano intorno senza sfiorarla. Per tutto il tempo aveva trattenuto un tremore e un formicolio negli arti inferiori mentre, cercando di seguire la scarica di parole lanciate in un dialetto sconosciuto, le era sembrato di gal-leggiare in aria, sospesa da inconsistenti cuscinetti di sospetto. “Gesù, Giu-seppe, Maria. Gesù, Giuseppe, Maria” Edda ripeteva tra sé il suo mantra personale per infondersi coraggio. Mise due uova in un panino. Chiese di bere del vino che rifulgeva dentro un fiasco di vetro. «Bevi il vino, picciridda?».

17 Chi esce (dal suo ambiente), rinasce. 18 Bambina, ragazza.

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«L’ho assaggiato una volta. È buono!». «Allora prendi!» disse Peppa con decisione, versandole da bere. Edda lo buttò giù in fretta. «Piano! Piano! Se no ti strozzi!». La ragazza si sentì meglio. Per la seconda volta nella vita il vino le resti-tuiva vigore. Gli occhi le divennero lucidi. Edda si adagiò sul letto. Stese le gambe nelle quali il sangue aveva ripreso a circolare. Peppa le prese i piedi sopra le ginocchia. «Appena arriveremo a Palermo ti comprerò delle scarpe nuove. Queste so-no da buttare e non mi sembrano della tua misura». Edda pensò a sua sorella Olga. Natalina le aveva sottratto quell’unico paio di scarpe per donarle a lei prima della partenza. «Ti odio» erano state le ultime parole che Olga le aveva rivolto sulla porta di casa. «Dormi, ora! È molto tardi» disse Peppa. Edda si addormentò. Scivolò dentro a un sonno tormentato. Sognò reti di pescatori gettate in un mare di petrolio a recuperare scarpe abbaglianti che galleggiavano in superficie. Soffiava un vento caldo, carico di sabbia. Le barche avevano travi di metallo scuro. Erano spinte da remi con vogatori invisibili. In aria volteggiavano aquiloni contro un cielo di piombo. Le nu-vole sembravano d’olio, quello che aveva assaggiato una volta a Ittiri du-rante la Festa in onore del Santo Patrono e tra i flutti schiumosi, ancora nel sogno, pensò di vederne il profilo.

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Capitolo nove. Palermo si esibì agli occhi stupefatti di Edda nell’eleganza fiera di palazzi decadenti. Lei e sua zia la attraversarono a piedi, senza dirsi una parola. Abbandonarono la piazza del porto dietro alle loro spalle e l’odore audace di pesce e limone sparì come divorato dai vicoli, dove l’olezzo era diventa-to umano. La bambina sentiva i palpiti del cuore pulsare nelle vene del col-lo e fin dentro le orecchie, confusi ai rumori di strada, alle grida e ad altri suoni indistinti che si alzavano dai mercati dove la gente si muoveva in una danza maestosa. Per un istante dimenticò di trovarsi lontana da casa, in una grande città che la impauriva. Pensò che suo padre potesse spuntare all’improvviso, da dietro un angolo, a recuperarla e a svelarle che era stato un brutto sogno. Stupido e crudele, ma che almeno avrebbe avuto fine. Quella città le sembrò un enorme mostro che la inghiottiva. Ingordo, insa-ziabile e dai molti tentacoli. Edda aveva la gola arsa, ma non osava chiede-re da bere. Trascinava la sua valigia e di tanto in tanto sollevava lo sguardo a cercare il cielo stagliato contro le sommità degli edifici barocchi, quasi incredula che fosse lo stesso che osservava a Cagliari. Respirava a pieni polmoni per catturare quanta più aria fosse possibile. Le arrivavano alle narici polvere, odore organici e spezie sconosciute che la stordivano. La luce accecava ogni passo e la faceva barcollare dietro Peppa che seguitava la marcia in mezzo alla folla. Edda cadde. Rimase arrotolata a terra. Si sentì malfatta e goffa. «Non stare indietro, Edda, su! Alzati» la incitò sua zia. La bambina si scosse. Si rizzò e riprese la corsa dietro alla donna. La famiglia siciliana dei Fossi viveva in una roulotte parcheggiata in un campo-sosta sterrato fuori città, occupato da una piccola comunità di zin-gari apparentati tra loro. Quattro famiglie e trenta individui in tutto. Edda fu sistemata in un lato della roulotte. Una finestrella dava su un prato di margherite cinto da grossi limoni, con piante di cardo e lentisco aggrappati a rocce vulcaniche contro un orizzonte marino. L’ambiente interno era ri-stretto e caotico. Odore di erbe selvatiche e frutta appesantivano l’aria. Ri-tagli di giornali e volti di santi con occhi vitrei rivolti al cielo invadevano le pareti. Alcune bottiglie di birra erano sparse al suolo. Cesti di noci e dat-teri ingombravano i ripiani della cucina. Edda avrebbe diviso il letto con due cugine paffute e bionde. Le bambine le furono affidate senza troppi formalismi lo stesso pomeriggio del suo arrivo a Palermo. Loro la intro-dussero alla vita del campo.

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Lo spiazzo asciutto e assolato era cinto da cinque vecchie carovane in me-tallo ossidate dal tempo e abbandonate lungo una ferrovia, dove il passag-gio frequente del treno faceva vibrare la terra. Su un lato della piazzola una fontana d’acqua perdeva dal bocchettone su un cumulo di stoviglie spor-che. I panni erano stesi su quattro file di corde che tagliavano a metà il campo dove incombeva una poltrona di finta pelle. Tre meticci macilenti girellavano senza meta con la lingua penzola per decongestionare il caldo asfissiante nonostante fosse autunno. Edda si fermò su una pietra. Accomodò le bambine sulle ginocchia. Allon-tanò lo sguardo dall’insieme indistinto della sua nuova dimora. Cominciò a narrare le storie che conosceva in maniera ritmica e narcotizzante. Edda fu accettata dal gruppo perché figlia di tziu umbali e così presero a chiamarla tutti. Ogni mattina giocava in cortile con le sue cugine. Cantava trallallèra19 a voce alta e melodiosa. Le aiutava a fare il bagno in catini di zinco quando il sole bruciava sulle lamine dei caravan ed evaporava in mi-raggi screziati. Lavava i panni e li stendeva, preparava il fuoco per far cuo-cere le verdure, poi mischiava gli ingredienti per il minestrone che ribolliva in un calderone posto in un angolo del cortile dove c’erano anche vecchi rottami d’auto bruciati dai quali suo zio ricavava fili di rame. L’uomo e i suoi figli più grandi uscivano presto la mattina per andare alle giostre che avevano a Palermo. Antonio, Silvano e Marco si alzavano prima dell’alba. I tre fratelli comunicavano tra loro scambiandosi sguardi espliciti, senza parole. Svolgevano lavori di rozza manovalanza con determinazione ani-malesca. Si assomigliavano molto fisicamente. Erano tarchiati e biondi. Avevano braccia e pettorali scolpiti, sguardi arcigni. Anselmo invece non somigliava a suo fratello Ignazio. Era alto e slanciato e aveva ancora i ca-pelli. Parlava con un accento esotico, aveva occhi azzurri vibranti e la pelle bruna. L’unica cosa che aveva in comune con Ignazio erano i tratti somati-ci, i molari d’oro e i vistosi tatuaggi che decoravano le braccia e il petto. Sua figlia Rachele aveva labbra tumide, occhi verdi penetranti e fulgidi ca-pelli color mogano. Era stata promessa sposa a Leonardo, suo cugino di secondo grado, un trentenne ozioso e arrogante, molto interessato alle don-ne, che non aveva risparmiato la stessa Edda da apprezzamenti lascivi. La ragazzina lo evitava con garbo, ma la convivenza era spesso obbligata. All’inizio di primavera Anselmo invitò Edda a partecipare alle trasferte e insieme partirono per le giostre di Corleone. Le feste di piazza assomiglia-vano molto a quelle cui aveva partecipato con suo padre. I viaggi erano lunghi ma divertenti, perché le ricordavano alcuni luoghi del Campidano e dell’Ogliastra. Le giornate di lavoro duravano quindici ore. Il mattino Edda lucidava le auto degli autoscontri e i labirinti di specchi fino a quando, nel 19 Canto sardo.

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primo pomeriggio, le giostre aprivano al pubblico e restavano accese fino a mezzanotte. Edda non contava più i soldi e non mandava il calcio in culo, ma imparò a gestire il tiro a segno, ad avviare l’autoscontro, la giostra a cavalli e quella in legno per i bambini. Imparò a leggere i tarocchi e la ma-no. A metà anno scolastico le fu proposto di riprendere gli studi per stare più vicino alle sue cugine che frequentavano le scuole elementari. La mattina lei le accompagnava a piedi fino alla scuola che distava sei chilometri dal campo. La sua mente rimaneva vuota durante il tragitto. I suoi coetanei la ignoravano. Gli adulti la consideravano una ladra di bambini, un’intoccabile e lei non capiva il motivo di tanto disprezzo. Dalla sua aula vedeva i palazzi e le strade del quartiere popolare che ospitava l’edificio scolastico, un blocco grigio dell’era fascista dalle ampie finestre con infissi di legno. Nessuna immagine, nessun suono, nessun pensiero popolavano la sua fantasia. Edda si era ritrovata a tredici anni di nuovo in quarta elemen-tare e si era accorta di quanto ormai non le importasse più. La sera prima di addormentarsi, iniziava le sue preghiere, ma piombava in un sonno incosciente senza avere il tempo di concluderle. Non ricordava di essere mai stata così stanca. I suoi sogni infantili si erano spenti. Le ombre della sua fanciullezza si annidavano ancora dietro gli angoli delle sue insi-curezze, ma erano torbide e minacciose. Smise di collezionare parole. Ri-masero chiuse in una memoria bambina. Quelle che scopriva da adulta pre-coce non le piacevano o non le sembravano degne di considerazione. Edda non aveva mai ricevuto una lettera dalla Sardegna. Dopo sei mesi dal suo arrivo a Palermo avrebbe voluto sapere della sua famiglia, ma soprat-tutto, avrebbe voluto ricevere un segno di interesse da parte di qualcuno che l’aveva amata per quella che era stata. Avrebbe desiderato raccontare del suo lavoro per ottenere gratificazione, degli inviti maliziosi di Leonar-do per esorcizzarli. Avrebbe voluto vantarsi candidamente delle attenzioni di Saro, un giovane gagè20 di Petralia Soprana, ruvido come le Madonie, ma candido come un giglio, che lavorava alle giostre. Il ragazzo faceva l’operaio e di tanto in tanto le portava mazzi di fiori e datteri nati sulle sponde del fiume Salso. Saro aveva dichiarato ufficialmente a zio Anselmo il proprio interesse per Edda. Si era presentato all’uomo con atteggiamento cerimonioso, stringen-do la coppola tra le mani. Aveva aspettato che Anselmo lo interrogasse e dopo aveva recitato sullo stomaco una formula in siciliano stretto. Lo zio di Edda aveva fatto finta di pensarci un po’. Poi era scoppiato in una risata sonora. «Tziu umbali è ancora troppo giovane!» gli aveva detto liquidando-

20 Non zingaro.

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lo con un gesto svelto della mano inanellata da fasce d’oro. «Torna tra due anni!». «Noi non ci uniamo ai gagè, tziu umbali. U rispettu è misuratu, cu lu porta l’havi purtato21». Le aveva detto l’uomo strizzandole l’occhio. «Ci sono troppi mezzi sinti, in giro» aveva aggiunto. «Quelli che fanno il lavoro delle giostre stanno perdendo la nostra cultura perché la vogliono perdere. Noi questi li chiamiamo pirdi. Io so chi è un pirdo, ma non mi chiedere di spiegartelo. Non sono in grado. Per esempio un pirdo ha una lingua che non è il nostro sinto. I pirdi non parlano più il romanes, ma solo un dialetto sporco. E lo parlano pure male! A sentirli parlare viene da ride-re!». Nonostante la sua sarcastica reticenza, Anselmo sapeva bene che qualcosa stava cambiando negli usi dei sinti occidentalizzati come lui. Edda ne era una prova vivente. Sua cognata Natalina era gagè. Lui stesso e suo fratello Ignazio erano figli di un gagè, ma anche a questo fatto lui si sforzava di dare un’interpretazione diversa. Suo padre, infatti, poteva considerarsi un crat, un gagio che cominciò a fare il lavoro di giostraio dal niente. I crat avevano sempre avuto delle belle giostre perché chi partiva con questo la-voro lo faceva per scelta, dunque iniziava con mezzi adeguati e investendo molti soldi. Proprio come aveva fatto suo padre vendendo le sue proprietà e lasciando il paese per seguire sua madre. Certi aspetti culturali necessari alla comprensione delle relazioni umane imponevano a Edda una valutazione di cui non si sentiva capace. Lei con-duceva la sua vita semplicemente, vivendo giorno per giorno per quello che era. Procedeva sospesa tra i due mondi che sua madre le aveva descrit-to da bambina nelle notti di alienazione. Il suo scopo era riuscire a soprav-vivere. La missione intrapresa era tormentata e per lei aveva significato so-lo se associata all’espiazione di tipo mistico. Ripensava spesso alle espe-rienze delle giovani vittime reticenti di abusi sessuali, martiri della chiesa cristiana, di cui aveva sentito parlare al catechismo. Maria Teresa Goretti da Cordinaldo o Antonia Mesina da Orgosolo. Ne traeva conforto. Imparava a difendersi da sola ogni giorno e per farlo si arroccava dietro alle sue emozioni, protetta dalle forze occulte che era convinta ancora di controllare. Conduceva la sua esistenza fino al limite della rassegnazione. Non avrebbe permesso né ai gagè né agli zingari di avvicinarla nello stato di purezza che aveva raggiunto. Avrebbe lottato. Si sarebbe immolata, se fosse stato necessario, portandosi fino all’estremo sacrificio del proprio onore. Il suo sguardo abbuiato trasmetteva agli altri la gravità dei suoi pensieri e non le interessava per questo di essere mal giudicata. Avrebbe continuato a sopravvivere anche da sola, tenacemente, nonostante tutto, finché la tem- 21 Il rispetto è misurato, chi lo porta lo riceve.

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pesta che imperversava fuori e dentro di lei non si fosse placata e la sua famiglia non avesse deciso di richiamarla. Fino ad allora non avrebbe chie-sto notizie. Non si sarebbe lamentata. Non avrebbe pianto. La distanza l’aveva ammutolita cancellando ogni malinconia, ogni dolore e intimo barlume di entusiasmo.

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Capitolo dieci. Dopo otto mesi arrivò una lettera per lei dalla Sardegna. Era di Michele. Il ragazzo le scriveva di aver ricevuto il suo indirizzo solo qualche settimana prima perché Ignazio non sapeva dove vivesse suo fratello Anselmo, fino a quando non era stata la stessa zia Peppa a scrivere per fornire notizie. Mi-chele le confessava alcune inquietudini. I problemi di lavoro e di famiglia erano aumentati. Sua moglie era rimasta incinta. Non riuscivano a pagare l’affitto così era stato costretto a tornare a casa di Natalina dove viveva da un mese. La casa era diversa da quando Edda era partita. Olga non strillava come prima ed era spesso assente. La sua rabbia covava silenziosa fino a quando non esplodeva in imprecazioni che rivolgeva contro i genitori, ali-mentando furiose discussioni. Una volta Michele era stato costretto a inter-venire per separarla da Ignazio, contro il quale si era scagliata impugnando una sedia di cucina. Natalina, pur di stare lontano dall’infermo domestico, faceva la serva a ore in casa di privati in via Cadello, via De Magistris, via Dante e ovunque fosse possibile. Michele le scriveva di quanto fosse orgoglioso di lei. Le raccomandava di fargli sapere se avesse avuto bisogno di lui, perché nonostante la distanza non avrebbe esitato ad andare a riprendersela. Le scriveva che i soldi dalla Sicilia arrivavano regolarmente con vaglia che Ignazio ritirava ogni mese alla Posta di Piazza del Carmine. Si raccomandava di non rattristarsi per loro perché avrebbe pensato a tutto lui ora che era tornato a stare con i ge-nitori. Edda aveva riletto la lettera di suo fratello senza riuscire a staccare lo sguardo dai fogli e senza respirare. Aveva stretto le pagine tra le dita fino a quando non era riuscita più a decifrare le parole perché la vista si era sciol-ta in lacrime. Pensò al suo primo nipote che forse non avrebbe visto nasce-re, a suo fratello che si era mantenuto onesto nonostante le difficoltà della sua vita, ai suoi genitori e ai rapporti di loro con Olga, al suo futuro in Sici-lia dove aveva dovuto crescere in fretta. Piangeva per se stessa che aveva vissuto nell’illusione di poter stare lontana dalla famiglia senza sentirne la mancanza. Aveva fatto di tutto per non affrontare un dolore insanabile che era rimasto vivo nel suo animo. Si era illusa di non desiderare l’amore di nessuno e di poter lottare da sola per condurre l’esistenza che il destino le aveva riservato. Cercò di tranquillizzarsi pensando ai pasti regolari che fa-ceva ogni giorno, al tepore che sentiva sotto le lenzuola nelle notti d’inverno mentre il vento soffiava dal mare sibilando contro i telai della carovana, ma quella lettera aveva risvegliato in lei una profonda nostalgia.

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Aveva ricordato il terreno assolato ai piedi del palazzo del quartiere popo-lare dove correva da bambina. Le camminate a piedi nudi in cerca di silfidi e ortica con cui faceva la zuppa in autunno. Aveva ripensato agli insegui-menti dietro alle libellule e alle farfalle, alla varietà di coccinelle che popo-lavano il giardino di margherite, alle lumache che raccoglieva tra i cardi per farle cuocere nel pomodoro. Si era figurata il Colle San Michele come fosse di nuovo affacciata alla terrazza di casa. Aveva riconosciuto il suo profilo contro il cielo azzurro di inesauribili primavere. Aveva immaginato di scalare le rocce arroventate dal sole sotto le grandi latomie fino alle ro-vine del castello con la massiccia base quadrangolare e le tre torri superstiti cinte da mura. Aveva desiderato di arrivare in cima dove avrebbe visto l’orizzonte e il mare cobalto che a volte, nelle giornate estive, le pareva di sentire rumoreggiare contro i faraglioni della Sella del Diavolo. Pensava alle abitudini irritanti della sua famiglia, ai vicini pettegoli e chiassosi, a Rita e alla sua danza, a Carla e al suo carrello, a Eleonora che camminava da sola, a se stessa che ritrovava, tra le lacrime che scendevano copiose, la speranza di tornare a casa.

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Capitolo undici. Una mattina Edda aveva preso due minuti di pausa per fumare una sigaret-ta. Si era appoggiata alla parete della biglietteria, nella penombra, a qua-ranta gradi di temperatura. Il suono delle giostre e della musica riempivano l’aria e le tormentavano i timpani. Nell’etere vagavano i profumi intensi di cera e incenso fuggiti dalla Parrocchia di Santa Maria di Monserrato. Edda aveva rivolto un gesto rapido della mano per salutare gli amici del bowling che la osservavano da lontano. La sua maglietta era scollata e le maniche larghe lasciavano intravedere i piccoli seni. I blue jeans aderenti le esalta-vano i fianchi larghi. Il mascara nero sugli occhi disegnava due linee spes-se. I suoi capelli erano sciolti, lunghi e lucidi sulle spalle. Dalle orecchie pendevano anelli dorati che aveva comprato al mercato di Ballarò. Un’ora prima aveva dovuto discutere con un gruppo di ragazzi che aveva disturba-to i clienti dell’autoscontro e gli aveva chiesto di allontanarsi. Li aveva vi-sti appostarsi poco più avanti con le braccia conserte in gesto di sfida, per poi avventarsi su un gruppo rivale che li aveva raggiunti. Da lontano senti-va le minacce lanciate in dialetto e il rumore soffocato dei cazzotti. Le la-me dei pugnali avevano brillato al sole. Aveva visto il gruppo fuggire inse-guito da un altro nugolo di giovani che si erano uniti alla lite sbucando da Vicolo del Bosco. Con lo sguardo accigliato aveva indugiato sui tafferugli e aveva riflettuto con gravità. Rigirava la sua sigaretta tra le dita e tirava lunghe boccate di fumo. Era inquieta. La lettera era nella tasca dei pantaloni, pronta a essere spedita. Edda voleva concedersi ancora qualche minuto per riflettere. Non intendeva parlare con i suoi zii dei suoi dubbi e non avrebbe dato spiegazioni. Aveva trascorso la notte a riflettere su ciò che avrebbe dovuto scrivere, poi la mattina sul ban-cone della cassa aveva stilato d’istinto poche parole incisive. Il piccolo Angelo di Salvo giocava a biglie di fronte a lei lungo un solco disegnato in terra dai suoi amici con un bastone di nespolo che avevano abbandonato al lato del chiosco di limonate. Le fu sufficiente un cenno del viso per richiamare la sua attenzione. Angelo la raggiunse e le regalò un sorriso a denti larghi irregolari. «Imbucami questa lettera, Angelo». «Sì, tziu umbali». Prima di salutarlo Edda comprò il suo silenzio con un pugno di gettoni che gli sarebbero bastati per un’intera giornata di autoscontro. Era sicura di a-ver ottenuto il suo silenzio. Il bambino coprì a passi larghi la distanza che lo separava dagli amici. Dopo aver rivolto un cenno d’intesa ai suoi com-

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pagni, sparì in Via della Libertà con la preziosa busta infilata nella tasca posteriore dei calzoncini. Era trascorso un mese dall’invio della lettera. Il tempo era cambiato bru-scamente a luglio e la pioggia che cadeva a scrosci copriva i teloni di latti-ce distesi sulle macchine ferme e i giochi abbandonati sulla piazza. Alcuni bambini erano usciti dalle case per saltare a piedi nudi dentro le pozze sta-gnanti e urlavano sotto l’acquazzone che non sembrava voler finire. Edda era rimasta affacciata al bancone della cassa dell’autoscontro in attesa della schiarita. Aveva risposto sgarbatamente a due ragazzotti intraprendenti che le avevano rivolto commenti volgari. Anche Leonardo le si rivolgeva spes-so a quel modo. Lei ormai sapeva come fare. Una sera l’uomo aveva ap-profittato del buio per spingerla dietro una carovana. Le aveva agganciato una coscia con una mano e con l’altra le aveva fasciato la schiena. «Sei proprio una bella bambina!» le aveva sussurrato. Il suo alito era avvinazza-to e dolce. Il suo naso ispido. Edda aveva reagito d’istinto. Lo aveva strat-tonato e allontanato con forza in un attimo di fortunosa incoscienza. «Pic-cola stronzetta!» le aveva ringhiato contro Leonardo prima di lasciarla nel buio. Dopo l’assalto dell’uomo, Edda era rimasta immobile senza riuscire a get-tare un grido. Aveva ricomposto la gonna sopra il ginocchio e si era messa dritta sulle gambe. Non credeva di essere riuscita ad allontanarlo e non ri-cordava come avesse fatto. Aveva vissuto in apnea durante quei lunghi i-stanti di terrore. Ogni schema precostituito di fiducia nel mondo si era in-franto. Qualcuno aveva sbriciolato la distanza che lei aveva frapposto tra sé e gli altri esseri umani per prudenza. Era stata lei a fargli credere di potersi fare avanti? Lo aveva provocato? Inetta! Si ripeteva. Stupida! Dove aveva sbagliato? La paura del momento le aveva lasciato una sofferenza fisica. La repulsio-ne era tale da materializzarsi in uno spasmo della pancia che le era durato a lungo e non le aveva permesso di mangiare. Nei giorni successivi aveva fatto in modo di non incontrare Leonardo. Non osava avvicinare Rachele, alla quale avrebbe dovuto raccontare ogni cosa ma ne temeva la reazione. La cugina si era accorta dell’interesse di Leo-nardo per Edda. Nonostante questo, accettava i comportamenti licenziosi del compagno come fosse una sua alterazione genetica. La sua ossessione per le donne appariva una disgrazia ineluttabile agli occhi della sua fidan-zata. Le ripetute bastonate che subiva la rendevano particolarmente docile rispetto a certe questioni e un’intromissione avrebbe aumentato la sua umi-liazione. Edda ripensava mestamente agli eventi succedutisi negli ultimi mesi con lo sguardo rivolto alla piazza. Sapeva di dover andare via da Palermo e di do-verlo fare presto. Aveva quasi quattordici anni, ma la forza d’animo e i ri-

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sparmi non le bastavano per poter prendere una decisione risolutiva. Resta-re a servizio dagli zii, le sembrava irragionevole. Partire le proiettava ad-dosso paure infantili. Michele apparve all’improvviso sbucando da dietro l’angolo di piazza Ruggero Settimo con via Amari. Si avvicinò piano tagliando lo slargo luci-do sotto la pioggia torrenziale. La cercò con gli occhi che la riconobbero nonostante fosse nascosta dietro all’eye-liner pesante. Lui era diventato un uomo maturo, con la barba incolta e i capelli corti sulla fronte alta che sembrava di marmo sotto la luce ferrigna del pomeriggio. Le guance sem-bravano scavate in una maschera d’ebano. Si fermò davanti a lei e le dedi-cò un sorriso. Edda pensò di avere un’allucinazione. Suo fratello sembrava un personag-gio uscito dalla fantasia delle sue notti. Era giunto per svelare un enigma o una profezia. Non ne era certa. Ma solo di questo poteva trattarsi. Lo esa-minò, cercando di decifrare il senso di quell’incontro inaspettato. Dubitò ancora della sua presenza. Michele si accorse dell’incredulità di sua sorella e sollevò le spalle come a dirle «Sono qua. Sono io». Allargò le braccia in segno di accoglienza. Lei non si gettò d’istinto verso di lui per non sentirsi vulnerabile sotto la pioggia. Si mise dritta sulla schiena. Sentì salire l’emozione che si affrettava nel sangue verso la testa, insieme ai ricordi. «Michele!». «Ciao!» le gridò il fratello. «Pensavo ti fossi imbambolata a guardarmi!». La ragazza uscì sotto la pioggia. Lo raggiunse. Lo abbracciò abbandonando il capo sul suo petto. Riusciva a sentire il battito regolare del suo cuore, l’odore di panni zuppi e tabacco. Le sembrò impossibile. Lo riguardò per la paura di perderlo ancora. «Ciao Michele!». «Ciao, Edda. Come stai?». Si fissarono. «Michele!» ripeteva Edda. «Sono qui!». «Andiamo a casa?». «Sì». Lui le accarezzò la guancia. «Come sei cresciuta, bellixedda mia! Sembri una donna! Fairt biri22? Ce l’hai il fidanzato?». «Cosa dici? Il fidanzato? Io? Non voglio nessuno!». «Certo! Nessuno è mai abbastanza per te! Non sei cambiata affatto». La presenza di Michele gettò Anselmo e Peppa in una condizione di disor-dine emotivo piuttosto sgradito. Si mossero impacciati sulla sedia di legno alla ricerca della giusta posizione. Si drizzarono contro lo schienale per ap- 22 Fatti guardare.

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prontare un contrassalto. La prima ad accettare la sfida fu Peppa. Raccolse le grosse braccia tra le gambe strette e incupì lo sguardo. Cominciò alline-ando i suoi pensieri in un ordine strategico. Esordì lamentandosi del silen-zio sulla questione impostogli dalla nipote fino a quel giorno. Avrebbe vo-luto essere avvertita per tempo in ragione di quel rispetto che lei e la sua famiglia le avevano portato trattandola come una figlia. Edda aveva man-giato alla loro tavola, aveva dormito con loro nella carovana, era stata con-siderata alla pari di un qualsiasi altro membro della famiglia. Aveva otte-nuto la loro fiducia. Peppa escludeva categoricamente che ci fossero state delle incomprensioni. Lo precisò perché niente rimanesse inespresso dopo l’illustrazione puntuale dei fatti. La donna attese i commenti della nipote, poi cercò gli occhi di suo marito per sancire in un confronto tra loro, la congruità delle sue asserzioni. An-selmo annuiva in silenzio arricciando i muscoli della fronte. Di fronte ai suoi zii la ragazza si mostrò irremovibile. Era trascorso un an-no dal suo arrivo. Il tempo, passato come le ventate prepotenti sul canale di Sicilia bloccano gli imbarchi a Lampedusa, aveva dato a Edda un’arroganza inaspettata. Non era più la ragazza che Peppa avevano cono-sciuto a Cagliari. Lo zio Anselmo annuì più volte con il capo, rispondendo ad apparizioni ragionate dentro all’encefalo. “Che se ne andassero al diavolo quel giorno stesso! Tutti e due”, pensava. “Il suo rientro sembrava necessario a en-trambi? Che partissero!”. «Non saremmo certo noi a fermarvi!». Anselmo vomitò la frase come fosse scollegata dai suoi pensieri e senza accorgersi della mancanza di connes-sioni con il resto che aveva taciuto. Peppa sembrò leggergli la mente. Fu lei a dare un senso a quelle parole. «Per noi va bene. Può partire» finì. Michele ringraziò. Smorzò un sorriso garbato. Insistette per ottenere il compenso spettante a Edda per il lavoro svolto nell’ultimo mese. Chiese anche un extra per il viaggio di ritorno. I parenti accettarono. Chiudere la questione divenne l’unica priorità. Il pa-gamento del dovuto avrebbe sancito la fine di quello spiacevole colloquio. Non volevano debiti con nessuno. E se dopo un mese o un anno, Edda a-vesse voluto ricongiungersi a loro in Sicilia, il suo ritorno non sarebbe sta-to scontato. Si apprestò a concludere Peppa, anticipando un discorso che forse immaginò si aprisse, ma che invece rimase incompiuto. Fu l’ultima volta che Anselmo e Peppa videro la loro nipote. Edda e Mi-chele partirono la sera stessa. Il piroscafo che aveva condotto la ragazza a Palermo un anno prima, ora la riportava finalmente a casa. FINE ANTEPRIMA.Continua...