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Verso la conferenza annuale sullo stato delle autonomie sociali in Toscana Welfare: Territorio, sussidiarietà, partecipazione Atti delle iniziative territoriali Arezzo - 29 ottobre 2011 Partecipazione e coesione sociale: le autonomie sociali nel welfare locale Lucca – 18 novembre 2011 Welfare, finanza locale e federalismo: l’impatto sulle autonomie sociali Firenze – 15 dicembre 2011 Welfare: territorio, sussidiarietà, partecipazione. Il ruolo delle autonomie locali

CONFERENZA PERMANENTE DELLE AUTONOMIE SOCIALI (COPAS) · programmazione e bilancio” del Consiglio regionale della Toscana Firenze 15 dicembre 2011 – Welfare: territorio, sussidiarietà,

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Verso la conferenza annuale

sullo stato delle autonomie sociali in Toscana

Welfare: Territorio, sussidiarietà, partecipazione

Atti delle iniziative territoriali

Arezzo - 29 ottobre 2011 Partecipazione e coesione sociale: le autonomie sociali nel welfare locale

Lucca – 18 novembre 2011 Welfare, finanza locale e federalismo: l’impatto sulle autonomie sociali

Firenze – 15 dicembre 2011 Welfare: territorio, sussidiarietà, partecipazione. Il ruolo delle autonomie locali

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INDICE

Presentazione Eleonora Vanni – Presidente della Conferenza permanente delle autonomie sociali Iniziative territoriali: Arezzo 29 ottobre 2011 – Partecipazione e coesione sociale: le autonomie sociali nel welfare locale. Mirella Ricci – Vicepresidente della Provincia di Arezzo Marco Manneschi – Presidente della Prima Commissione consiliare “Affari istituzionali, programmazione e bilancio” del Consiglio regionale della Toscana Giovanni Devastato – Professore all’Università degli Studi La Sapienza di Roma Riccardo Guidi – Direttore della Fondazione Volontariato e Partecipazione Sauro Testi – Sindaco del Comune di Bucine Renato Boni – AUSER Toscana Luciano Franchi – Vicepresidente della Conferenza permanente delle autonomie sociali Lucca 18 novembre 2011 – Welfare, finanza locale e federalismo: l’impatto sulle autonomie sociali. Maurizio Bettazzi – Vicepresidente del Consiglio delle autonomie locali della Regione Toscana Andrea Volterrani – Presidente Fondazione ForTeS Riccardo Mussari – Professore Ordinario di Economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche – Università degli Studi di Siena Marco Manneschi – Presidente della Prima Commissione consiliare “Affari istituzionali, programmazione e bilancio” del Consiglio regionale della Toscana Firenze 15 dicembre 2011 – Welfare: territorio, sussidiarietà, partecipazione. Il ruolo delle autonomie sociali. Patrizio Petrucci – Presidente CESVOT Rodolfo Lewanski – Autorità regionale per la partecipazione della Toscana Alessandro Petretto – Professore di economia pubblica all’Università degli Studi di Firenze Rita Biancheri – Professore di sociologia della famiglia e dell’educazione all’Università degli Studi di Pisa Luca Menesini – Vicesindaco del Comune di Capannori Renato Boni – AUSER Toscana Gianluca Mengozzi – Presidente ARCI Toscana Jacopo Ceramenni Papiani – Fondazione Istituto Andrea Devoto Vincenzo Striano – Vicepresidente della Conferenza permanente delle autonomie sociali

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Presentazione Copas ha organizzato il percorso di preparazione della conferenza annuale sullo stato

delle autonomie sociali in Toscana articolandolo sul territorio a partire dalla sua identità

di organismo che rappresenta la sussidiarietà sociale, e basandosi sul ruolo di "voce della

società civile e delle realtà associative nelle istituzioni". Con la convinzione che

l'orientamento a partecipare attivamente, a fare insieme, a cooperare non dipenda da

“ripiegamenti” del pubblico nei confronti della "pervasività" delle formazioni sociali, ma

si inserisca in un contesto di trasformazione, anche della sovranità, proprio delle società

pluralistiche e si è provato a incrociare le logiche della rappresentanza con quelle

dell'esercizio attivo e responsabile di cittadinanza quale compito primario e qualificante

per la costruzione e sviluppo di comunità partecipate consapevolmente. Copas inoltre, ha individuato nel tema del welfare una priorità su cui confrontarsi a partire da un'idea di welfare comunitario che le autonomie sociali contribuiscono a realizzare, non solo attraverso servizi, ma con percorsi di prossimità, promozione dei processi partecipativi, sviluppo di comunità, relazionalità fra le persone. Ci è sembrato opportuno mettere al centro del nostro lavoro un confronto ed una riflessione sul senso che partecipazione, territorio, sussidiarietà e welfare hanno nel contesto attuale e possono assumere in futuro nonché sul ruolo di organizzazioni, che fanno di questo senso un elemento qualificante del loro agire e del rapporto con le amministrazioni pubbliche. In una società “individualizzata” e sempre più “mediatizzata” recuperare l’interesse, l’impegno, la responsabilità per ciò che ha un carattere pubblico, sociale, o di "bene comune" lo riteniamo un elemento prioritario verso cui indirizzare l’impegno delle organizzazioni che rappresentiamo e quello della Copas stessa. La crisi, di cui ormai viviamo a pieno le conseguenze, è di carattere strutturale con ricadute pesanti e di lungo periodo a livello sia economico che sociale. L'associazionismo ed il Terzo Settore creano “capitale sociale”, allargano la partecipazione, favoriscono l’incontro fra le persone, portano sulla scena politica ed economica molte potenzialità che diventano forza in ragione della loro connessione e della capacità di fare rete. Producono fiducia perché si basano su norme di reciprocità reali che spesso non sono riconosciute, o sono riconosciute in funzione strumentale, da una società che basa i suoi rapporti solo su norme economiche classiche e non valorizza e promuove forme plurali di economia civile. Il concreto protagonismo dei cittadini e dei soggetti sociali organizzati può essere effettivamente condizione per l’esercizio di una cittadinanza attiva che garantisca la possibilità di ridisegnare il ruolo di istituzioni giuste, di reti sociali solidali, di rapporti di

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sussidiarietà e presenza sul territorio caratterizzati da corresponsabilità e reciprocità nella chiarezza di competenze attraverso percorsi che, dalla contrattazione bilaterale approdano, attraverso una modalità di relazione co-operativa, ad una presa in carico condivisa per “fare welfare” insieme. Per poter realizzare una solida coesione sociale, occorre primariamente la soddisfazione di alcune necessità materiali come occupazione, casa, reddito, salute, educazione tutti ambiti messi a repentaglio da tagli indiscriminati alla spesa pubblica. La composizione sbilanciata su alcune aree della spesa di welfare nonché la gestione ragionieristica della revisione della spesa, che ha ulteriormente sacrificato capitoli già scarsamente finanziati, impone un ripensamento collettivo, una gestione di sistema ed una “selettività” negli interventi che presuppongono una diversa visione della spesa per il welfare da considerare quale fattore moltiplicatore di sviluppo con significative ricadute sull’occupazione dei giovani e delle donne oltreché sulla qualità della vita delle persone liberando ulteriori energie da investire in benessere sociale ed economico. Per questo si rende necessaria la piena attivazione di una risorsa largamente diffusa in Toscana, anche per l’apporto primario delle autonomie sociali, costituita da relazioni sociali attive e da una rete di scambi di informazioni, supporto, solidarietà e affidabilità che promuove e supporta il coinvolgimento di tutti nella gestione delle istituzioni consolidando il senso di identità e di appartenenza alla comunità. Sulla base di queste considerazioni abbiamo pensato, con un percorso di ascolto e incontro con le persone, di favorire la partecipazione attiva dei cittadini e delle comunità locali ad un percorso di innovazione sociale nonché di sviluppare, nel campo delle politiche sociali, una conoscenza il più possibile condivisa, tra l'accademia e l'esperienza sul territorio, tra la teoria e la pratica di cittadinanza, in una sorta di circolarità del sapere che si confronti anche con l'esperienza del Terzo Settore. Secondo questa logica dunque il cittadino e i corpi intermedi sono da identificare come risorse stabili di comunità e il Terzo Settore non è da considerare solo per il ruolo che svolge nell’offerta e nella gestione dei servizi, o per fattori contingenti legati alla scarsità di risorse e alle difficoltà degli enti pubblici, ma anche per elementi culturali e strutturali al terzo settore che ne fanno un soggetto responsabile, all'interno delle comunità locali impegnato nella presa in carico e gestione di beni comuni e nella produzione di valore aggiunto sociale ed economico. Certo siamo sempre di fronte all'annoso problema di definire regole chiare e condivise per un sistema di partecipazione del terzo settore alla definizione, attuazione e valutazione delle politiche pubbliche e quando si definiscono dei luoghi (come la Copas) e delle

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modalità il rischio è che siano luoghi formali, perfino "vuoti" di significativa partecipazione. Sta qui la risposta del perché abbiamo scelto questa modalità: abbiamo provato ad aprire la riflessione a contributi differenti, alla espressione differente, a raccogliere e valorizzare più istanze in un contesto plurale a non essere un luogo ingessato di rappresentanza solo formale. Credo si capisca che non ci sottraiamo al ruolo e ai compiti istituzionali, ma vogliamo provare a inserire alcuni elementi di dinamicità che ci facciano stare nelle comunità e non dietro ad una lente analitica. Valutare l'impatto delle politiche della Regione sulle autonomie sociali è uno dei nostri compiti istituzionali, ma intendiamo farlo in maniera partecipata e più ampia possibile. Eleonora Vanni Presidente della Conferenza permanente delle autonomie sociali

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Arezzo 29 ottobre 2011

Partecipazione e coesione sociale:

le autonomie sociali nel welfare locale

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Mirella Ricci - Vicepresidente della Provincia di Arezzo Benvenuti, ai saluti unisco una riflessione fatta a voce alta e lo faccio perché il tema è importante, perché siamo davanti a tantissime sfide: il riassetto istituzionale, la coesione sociale, la riduzione delle risorse, l’aumento dei bisogni, se dovessimo dipingere un quadro, forse l’Urlo di Munch sarebbe l’unico possibile ed immaginabile da poter dipingere. Crediamo, comunque, che ci possano essere davvero delle proposte che accettano le sfide, per ridisegnare un welfare che abbia davvero la capacità di includere il più possibile e di escludere il meno possibile. Parto da quella che è un’analisi attuale, davanti a uno snodo importante che la Regione Toscana sta effettuando con il riassetto delle autonomie locali. Credo che la prima cosa importante sia conoscere ciò che esiste e capire quali sono gli strumenti possibili per non creare più frammentazione, ma per costruire un’armonizzazione dei percorsi a livello locale, che poi si traducono in percorsi socio-assistenziali efficaci. Dicevo chiusura della Comunità Montana, che si trasforma in unione dei comuni, chiusura della Società della Salute, alcuni comuni però, visto che l’adesione all’unione dei comuni è facoltativa, hanno deciso di restarne fuori: questo è il quadro. E allora quello che è stato fatto oggi come associazione di servizi che era gestita dalla Comunità Montana per il sociale e dalla Società della Salute per l’alta integrazione necessita di vedere un soggetto – quello più naturale sarà l’unione dei comuni, che davvero sia il punto di riferimento, il punto strategico che va a rivedere il piano socio-sanitario. La Regione Toscana in realtà, sta costruendo il piano socio-sanitario: un piano che ha uno strabismo, ponendo fin troppa attenzione sull’aspetto sanitario dei percorsi e molto meno su la parte sociale. Considerando l’aumento delle persone non autosufficienti e disabili è necessario strutturare interventi sociali locali e regionali efficienti ed efficaci rispondenti ai singoli bisogni, ponendo al centro del progetto l’individuo. Se in Casentino l’Unione dei comuni facoltativa non ha risolto la frammentazione dei servizi, il Valdarno ha iniziato un percorso per associare i servizi, la Zona Aretina, che è quella più numerosa dal punto di vista degli abitanti, è caratterizzata da un capoluogo, Arezzo popoloso e comuni medio-piccoli, è difficile identificare nell’unione dei comuni lo strumento per unificare i servizi e renderli più usufruibili e più sostenibili. Vi dico queste cose per capire la complessità rispetto a quelli che sono gli enunciati di una legge che ha l’ambizione e la filosofia giusta di associare, di unificare i servizi e quella che è in realtà la frammentazione territoriale allo stato dell’arte, che ha necessità di adottare strumenti che in questo momento sono più calzanti per integrare i servizi, altrimenti facciamo molte enunciazioni, ma poche si traducono in ottimizzazione dei servizi per i cittadini. Ultima zona che da anni ha associato i servizi socio-sanitari è la Val di Chiana, ha costruito un piano socio-sanitario coinvolgendo tutti gli attori presenti nel territorio. Nella nostra provincia esiste, quindi, un percorso per associare i servizi, esiste una governante condivisa

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tra enti locali ed Asl, esiste un terzo settore che non eroga solo servizi alla persona ma che è in grado di cooprogettare con l’ente locale, esiste un volontariato che è in grado di potare valore aggiunto ed essere efficace antenna che sa captare i bisogni emergenti. Il terzo settore si trova in questa compagine, a dialogare, a colloquiare con gli enti locali, che spesso, considerata la poca disponibilità di risorse chiede la fornitura dei servizi a costi “stracciati”, spesso viene messo in concorrenza con le associazioni di volontariato. Suddividere i servizi leggeri e non da erogare alla persona spesso crea confusione su chi li deve erogare, il risparmio non può essere il parametro che identifica lo strumento necessario da adottare. La coesione sociale, che è stata possibile fino a oggi, riconoscendo a ognuno dei componenti del terzo settore (associazioni di volontariato, cooperative di tipo A e di tipo B, associazioni di promozione sociale), in realtà il quadro si fa più confuso. Perché a fronte di una riduzione di risorse e la necessità di erogare comunque i servizi, chiamo le associazioni di volontariato, fraziono i servizi e ne do loro una piccola parte di quelli considerati “ più leggeri”. Entrano in competizione le associazioni di volontariato e le cooperative di tipo A e di tipo B, applicando regole confuse che snaturano i servizi stessi e mettono tutti contro tutti. Credo davvero che oggi sia l’opportunità giusta, credo che sia lo strumento giusto della Regione Toscana che deve guardare negli occhi queste problematiche e cominciare a dare delle risposte , condivise, che in realtà rimettano al giusto posto ogni elemento, ogni soggetto di questo puzzle, perché altrimenti non riusciremo ad identificare la figura che doveva apparire. Dobbiamo combattere con forza la tentazione delle associazioni di volontariato di trasformarsi in pseudo cooperative sollecitate da enti locali poco lungimiranti. Credo che davvero, la più grande sfida che abbiamo davanti sia sì la riduzione delle risorse, sia sì quella dell’assetto istituzionale – e non è di poco conto – ma non è da sottovalutare quello ciò che sta succedendo e quale debba essere la qualità dei servizi erogati, l’accreditamento che la Regione Toscana aveva identificato aveva alzato l’asticella sui parametri, ma altrettanto ingiustamente non aveva poi le risorse per garantire che l’asticella dei servizi da erogare e accreditare davvero si potesse tradurre in azioni reali. Le questioni non sono di poco conto, ma se davvero non rimettiamo ordine e caliamo nella realtà locale, stabilendo quali sono gli ambiti ottimali per ottenere la migliore risposta possibile per la persona che ha necessità e bisogni, credo che facciamo un errore enorme, rischiando , nell’arco di pochi anni, di scatenare la guerra tra poveri, tra cooperative di tipo A, cooperative di tipo B ed associazioni di volontariato. Dobbiamo ristabilire quello che è il meccanismo che per ora aveva funzionato, quando c’era una sostenibilità del sistema e una chiarezza riconosciuta, un ruolo riconosciuto reciprocamente dai vari soggetti che si ritrovavano a giocare la partita del welfare. Il terzo settore sicuramente ha idee, ha proposte che possono essere utili, credo sia importante il confronto tra associazioni di volontariato e cooperazioni di tipo A e di tipo B, perché è fondamentale avere senso di responsabilità e

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reciprocità, qualche volta anche in controtendenza agli stessi enti locali che dovrebbero garantire l’armonia sociale. Credo sia questo, alla fine, quello che ci potrebbe salvare da collisioni che per forza verranno fuori e che si tradurranno in disservizi per chi ha necessità. Scusate la lunghezza, però credo che se queste riflessioni ho l’opportunità di farle a chi in Regione Toscana ha il compito preciso di capire che cosa sta succedendo e di tracciare le linee che si stanno delineando, che per avere cogenza devono capire che cosa produrranno, semplificazione, frammentazione. Vi ringrazio e credo che dovremmo fare fronte comune: enti locali, terzo settore e soprattutto le singole persone, perché esiste la tentazione di non riconoscersi in niente e in nessuno che possa rappresentare le proprie istanze e le proprie esigenze e di pensare “ me la devo cavare da solo”, sarebbe la vera sconfitta per tutti. Buon lavoro e grazie .

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Marco Manneschi - Presidente della Prima Commissione consiliare “Affari istituzionali, programmazione e bilancio” del Consiglio regionale della Toscana Grazie. Saluto tutti quanti e ringrazio per l’invito. Ovviamente sono giorni particolarmente difficili per quello che è accaduto in Toscana perché, ancorché legato a fattori naturali, credo sia sotto l’attenzione di tutti che insieme ai fattori naturali ci sono anche i fattori umani e penso che questi fattori umani, frutto di errori e sottovalutazioni, oggi in materia di rischio idraulico, domani per altri aspetti, producano e possano produrre conseguenze gravissime sulla vita di tutti i cittadini. Cosa voglio dire, citando l’episodio di questi giorni? Voglio dire che in tutte le attività pubbliche si vive innanzitutto molto agganciati alla necessità di apparire e comunicare, più che di lavorare, provvedere, prevedere e costruire. Molto spesso subiamo l’influenza di scuole di pensiero cosiddette “dominanti” tali da mettere in difficoltà quelle istituzioni che si prefiggono di rispettare le diversità, le pluralità, le particolarità, il territorio, chi è in condizioni di svantaggio e tutto ciò che innerva una società democratica, che distingue una società moderna, civile, da una società imbarbarita basata sulla legge del più forte. Sono giorni nei quali stiamo iniziando a discutere – e dovremo farlo rapidamente, perché il governo ci ha assegnato dei termini molto stretti - per decidere la dimensione minima delle forme associative tra i comuni e questo ha un’incidenza specifica sul tema della giornata, proprio sulla possibilità che si mantengano e si garantiscano una partecipazione, come dice il titolo, e una coesione sociale attraverso la capacità delle istituzioni di dare delle risposte. Purtroppo in questi anni abbiamo assistito a una grande confusione, a una proliferazione di strumenti che non sempre hanno risposto alla necessità di provvedere ai problemi ai quali le istituzioni singole sono preposte: spesso molte di queste istituzioni si autolegittimano, diciamo che c’è una tendenza a giustificare la propria esistenza anche oltre il ragionevole; dico questo perché l’altro ieri, in consultazione, per la riforma delle autonomie locali ho ben accolto la presenza dell’Associazione Urbat, che riunisce i consorzi di bonifica i quali, mentre si discuteva di una legge di razionalizzazione, sono venuti a raccontarci che vogliono l’assegnazione di ulteriori funzioni. Voglio dire, per l’amor del cielo, va tutto bene, però poi viene un momento in cui dobbiamo cercare di imboccare una strada, altrimenti quello che è accaduto in Lunigiana è solo un simbolo di quello che può accadere alle istituzioni, che verranno travolte dai problemi, dalle difficoltà, dalla mancanza di risorse e dalla grandissima depressione economica che sta attanagliando anche la nostra regione. Ho letto il contributo che la conferenza ha fornito al Consiglio Regionale per la predisposizione del piano sanitario e sociale integrato regionale e vedo che i pareri della conferenza pervengono puntualmente su molti dei piani e dei programmi della Regione Toscana. Rammento che la Regione Toscana, nei suoi atti di programmazione, ha

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confermato le risorse per le attività sociali per i prossimi anni, e ciò nonostante la diminuzione evidente delle risorse e dei trasferimenti statali. Questo forte impegno della Regione Toscana non rappresenta la soluzione dei problemi, perché molti problemi si possono affrontare e risolvere con una migliore organizzazione istituzionale, prestando attenzione all’attività di prevenzione piuttosto che alle attività successive, quando i problemi hanno assunto la caratteristica dell’irreparabilità. Torno sul tema del livello istituzionale che, se pure non rappresenta l’oggetto del presente convegno, è comunque un elemento centrale, anche al fine di garantire sia la partecipazione sia la coesione sociale. Vorremmo infatti capire se ci sono dei suggerimenti per evitare, anche qui, il disastro che potrebbe derivare dal rimanere ognuno a difesa del proprio orticello. Mentre si favorisce un processo di riaggregazione degli enti locali, nel valorizzare le unioni di comuni, le forme associative e di collaborazione, vorremmo capire come si può inserire in tale riorganizzazione la questione del sociale. Infatti, in questo momento, i livelli istituzionali non coincidono territorialmente: la mappatura della Toscana si presenta variegata, con sovrapposizioni che talvolta diventano anche giustapposizioni, che generano grande confusione. Il terminale del sistema sociale è il Sindaco, non ci sono altri soggetti a cui ci si rivolge quando nascono problematiche di natura sociale e ai Sindaci spesso mancano gli strumenti per dare delle risposte sia in termini razionali sia, come ho detto prima, in termini preventivi. I vostri suggerimenti saranno quindi preziosi per elaborare una riorganizzazione istituzionale che consenta risposte rapide ed efficaci. Grazie di nuovo e buon lavoro.

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Giovanni Devastato – Professore all’Università degli Studi La Sapienza di Roma

Nel welfare plurale: dalla supremazia alla reciprocità

La società moderna è contrassegnata da una pluralità di ordini che dà luogo ad istituzioni multiple nel duplice senso del polimorfismo (rispetto agli attori) e della poliarchia (rispetto ai poteri). Ciò determina nuove forme di esercizio del governo locale, per cui da livelli di governo gerarchicamente ordinati che muovono da un principio di autorità nell’allocazione delle risorse e nella formazione delle decisioni (governement come gestione amministrativa di adempimenti e atti formalmente rilevanti secondo lo schema dei decisori centrali) si è passati ad un sistema di governo in cui le decisioni non sono più prese al centro, ma codecise da un network di attori interdipendenti (governance multiattore come regia e coordinamento di una pluralità di gruppi ed istituzioni secondo lo schema degli attori locali). Agire in una logica di governance vuol dire, perciò, realizzare l’azione di governo attraverso un processo di decisione interattivo, complesso, basato su un approccio multidimensionale attraverso la reciproca intesa tra gli attori ed una metodologia concertativa finalizzata ad un processo condiviso di costruzione collettiva delle politiche pubbliche.

Pertanto la governance – che negli ultimi anni si è evoluta verso uno sviluppo deliberativo determinato da quella che è stata definita “la svolta discorsiva” – si distingue sia dal modello tradizionale del semplice government il quale è basato sulla centralità gerarchica dell’autorità pubblica e sulla preminenza degli aspetti giuridico-formali delle istanze di controllo (in cui il cittadino è considerato fondamentalmente suddito della P.A.) sia da quello più recente del New Public Management, modulato su ingegnerie di tipo aziendale e su procedure algoritmiche (in cui il cittadino è visto più come cliente del- la P.A) in quanto si connota come amministrazione condivisa del governo locale (in cui il cittadino è riconosciuto come attore) orientato a produrre valore pubblico diffuso per la produzione di beni comuni.

Un bene comune irrinunciabile è la democrazia intesa non tanto come governo del popolo quanto piuttosto come governo dei molti. Certo ci troviamo in una fase storica in cui la democrazia vive un profondo disagio che alcuni interpretano come declino della democrazia moderna liberale 1 , altri utilizzano un’espressione più forte parlando di postdemocrazia2 , riferendosi prevalentemente all’insufficienza degli istituti tradizionali della democrazia rappresentativa sempre più ridotta ad uno scambio privato tra eletti e lobbies economiche. Anche senza considerarla un destino ineluttabile, la democrazia si è

1 Galli C., Il disagio della democrazia, Einaudi, Torino 2011. 2 Crouch C., Postdemocrazia, Editori Laterza, Bari 2009.

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rivelata fino ad oggi il modello politico più avanzato in grado di custodire la fragile speranza in un’umanità in grado di governare se stessa sulla base della dignità e della libertà di tutti. Aldilà delle possibili ricette, dalla crisi della democrazia si esce sperimentando un nuovo laboratorio di democrazia partecipativa, locale e diretta potente antidoto alla degenerazione della democrazia moderna che si esprime o nella forma della democrazia mediatica o in quella, parimenti perniciosa, a matrice populista. La prima forma, quella mediatica, è storicamente inedita perchè non è mai esistita prima: il principio di maggioranza consiste nella dittatura dell’audience all’interno di meccanismi tipici della società dello spettacolo; la visione dello spettatore si sostituisce alla partecipazione del cittadino. La seconda forma, quella populista, sostiene che non siamo più nelle monarchie, in cui si governava per diritto divino, ma nelle democrazie costituzionali, nelle quali si governa per mandato elettorale, diretta espressione della volontà popolare. Ora, nell’ideologia populista, il concetto di popolo viene enfatizzato in quanto, partendo dal presupposto che il popolo possiede, a priori, una bontà originaria, chi lo rappresenta incarna in sé tale proprietà trascendentale e quindi, in quanto tale, interpreta correttamente questa volontà, ne rappresenta la sintesi suprema ed è legittimato a farsi sua guida. Sappiamo che storicamente questa posizione è stata la premessa dei totalitarismi che hanno attraversato il secolo breve del Novecento. Dobbiamo, perciò, fare uno sforzo d’immaginazione per cercare di capire come andare oltre le derive della democrazia per riconnotarla come vero bene comune. Innanzitutto la democrazia è un regime di apprendimento reciproco, ci si mette in gioco dentro processi di partecipazione e questo lo si fa anche con una logica di apertura mentale, perché se partecipo a un contesto con l’idea della mia autoreferenzialità e della mia centralità con molta probabilità difficilmente realizzerò qualcosa. Invece occorre salvaguardare due aspetti basilari: la capacità di dialogo e la capacità di ascolto, che in una sola parola potremmo definire l’ascolto dialogico. Tra le modalità individuate da Hirschman3 nel triplice schema di voice-exit- loyalty, cioè o della protesta oppositiva ( dissenso) o del ritiro silenzioso (defezione) o della lealtà (appartenenza), in democrazia e, in particolare nei processi di costruzione del welfare locale, vi è la modalità concertativo-negoziale che ha caratterizzato molte pratiche programmatorie nel nostro Paese. Nel campo della nuova programmazione sociale, tutto ciò dà luogo a processi interattivi all’interno di arene decisionali miste, che implicano l’adozione di procedure consensuali all’interno di una variegata costellazione di partner in cui le strutture pubbliche assumono

3 Hischman A., Lealtà, defezione e protesta: i rimedi alla crisi delle imprese, dei partiti e dello Stato Bompiani, Milano 1982)

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una funzione di catalizzazione e/o regolazione dei potenziali auto-organizzati della comunità locale.

In questo senso la peculiarità della network governance è quella di sviluppare una capacità di soluzione dei problemi pur essendo campo di tensione tra interessi organizzati in quanto la produzione di azioni collettive avviene attraverso giochi di reciprocità continuamente rinegoziati tra gli attori .

Con la costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà il cittadino, singolo o associato, diventa il fulcro a fronte del quale saggiare la legittimità dell’azione delle istituzioni pubbliche tanto nel ripartire le funzioni amministrative fra i vari livelli di governo quanto in relazione all’obbligo cui sono tenuti tutti i poteri a favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, finalizzata allo svolgimento di attività di interesse generale. Lo spazio amministrativo non è più un’area riservata ai soggetti pubblici ma diventa un luogo in cui devono poter operare anche i soggetti che sono espressione spontanea della società. Quando tali soggetti mostrano di realizzare l’interesse generale (quando producono, preservano e promuovono beni comuni) allora integrano le funzioni dei poteri pubblici, si pongono dunque sul loro stesso piano condividendone la sovranità. In tal senso la sussidiarietà, intesa come una cooperazione tra tutti gli attori che partecipano, ciascuno come può, entro il campo di una comune e condivisa responsabilità, diventa anche un parametro della validità dell’azione dei pubblici poteri.

Si afferma, dunque, un modello di sussidiarietà circolare ossia una circolarità di responsabilità comune e di partecipazione aperta e condivisa della funzione pubblica, grazie alla quale l’iniziativa pubblica riconosce e sostiene forze sociali, selezionandole in base alla finalizzazione delle loro attività a interessi generali.

In tal modo la sussidiarietà non comporta un mero arretramento dello Stato ma si risolve in una diversa modalità di intervento da parte di esso. D’altro canto questa “cessione di sovranità” del pubblico verso le organizzazioni sociali non è una semplice dazione ma ha l’effetto di esigere una ulteriore assunzione di responsabilità della società nelle sue forme organizzate e chiede in cambio la capacità ad una presenza regolata, condivisa, fortemente integrata. Se il principio di sussidiarietà consente ai cittadini di essere una “risorsa” per l’amministrazione e per la comunità alla quale appartengono, essi sono anche fattore di innovazione amministrativa perché l’azione dei cittadini attivi cambia il contesto in cui l’amministrazione stessa opera. I cittadini attivi, sia in forma singola che associata, rappresentano un potente strumento di coesione sociale, in quanto introducono quello che si potrebbe definire un “valore aggiunto civico” nel sistema sociale, politico ed economico, producendo fiducia, occasioni di incontro e di confronto, pluralismo delle opinioni. Da qui nasce la necessità di passare da meccanismi di consultazione finalizzati al semplice

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consenso a modalità di coinvolgimento secondo un principio di corresponsabilità sulla base di strumenti pattizi e/o di politiche contrattualizzate.

Da questo punto di vista partecipare non vuol dire soltanto “essere parte” ma soprattutto “prendere parte” sulla base di due dimensioni fondamentali: l’autonomia e l’intenzionalità. Si tratta di adottare una logica di azione pubblica orientata all’inclusività e all’apertura permettendo una permeabilità virtuosa tra soggetti diversi dentro pratiche di partecipazione reale. Si viene a configurare, così, un approccio costruttivista (gioco multi-attore a somma positiva) orientato a produrre una visione consensuale sulle strategie programmatiche in vista della produzione di beni comuni. L’esistenza di un terzo settore ampio, vitale e pluralistico va dunque considerata un ‘bene in sé’. Infatti, proprio attraverso di esso si esercita quel pluralismo delle istituzioni e delle opinioni che costituisce un elemento fondamentale per la nostra democrazia locale.

Ci troviamo attualmente in una fase di passaggio importante per lo sviluppo di un welfare locale sempre più contrassegnato come laboratorio di democrazia partecipativa, in cui gli enti territoriali devono caratterizzarsi come attivatori della capacità di autorganizzazione degli attori locali secondo un modello sussidiario dell’azione pubblica. Lo spazio dentro cui l’agire partecipativo prende corpo è la dimensione locale che si connota come un’arena in cui si sperimentano pratiche condivise per la costruzione collettiva di politiche pubbliche integrate.

Per raggiungere tale obiettivo occorre stabilire in maniera chiara: - in primo luogo, è necessario stabilire la cornice regolativa: bisogna definire il coefficiente di apertura ed inclusività dei processi partecipativi, stabilendo “chi partecipa”; inoltre è necessario adottare un sistema condiviso di regole di accesso definendo “come si partecipa”. Basta la rappresentanza formale o bisogna andare verso modalità di rappresentatività reale? Inoltre basta essere portatori di interesse o bisogna esprimere una competenza concreta per poter partecipare? I soggetti della partecipazione sono diversificati e non sempre i singoli cittadini riescono ad avere un accesso reale a queste dinamiche; spesso sono le forme più strutturate di organizzazioni formali di cittadinanza che hanno maggiore potere di “voice”. Dalla soluzione a questi quesiti dipende il carattere realmente plurale e molteplice delle arene partecipative o la loro natura esclusiva e ristretta;

- occorre, poi, stabilire precisi metodi in funzione anche degli obiettivi che ci si pone sapendo che i gradi della partecipazione (il “cosa” è in gioco) si declinano lungo una scala che va dalla manipolazione del consenso fino all’empowerment (effettivo potere decisionale) passando per forme intermedie di interazione con i cittadini come l’informazione, la consultazione, il partenariato, la deliberazione pubblica. Superare la

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retorica della partecipazione vuol dire posizionarsi sui gradini alti di questa scala in termini di partecipazione effettiva;

- un’ulteriore questione riguarda l’agenda della partecipazione e la possibilità di contribuire concretamente alla sua rielaborazione o alla sua soluzione. Si tratta solo di pronunciarsi sulla soluzione di un problema dato (problem solving) o è possibile intervenire anche nella definizione del problema stesso (problem setting)?

- un ultimo problema riguarda i dispositivi facilitanti le pratiche partecipative (tavoli, forum, laboratori, ecc.) e il loro grado di strutturazione, stabilità e riconoscibilità; da ciò dipende la possibilità di innescare reali processi di interazione costruttiva tra i soggetti coinvolti generando arene decisionali miste.

Ciò presuppone alcune condizioni di fattibilità del processo, quali:

- l’agire comunicativo che rende visibile la propria soggettività per esporsi in pubblico e sottoporsi al vaglio di elaborazioni critiche; si tratta di assumere l’etica della discussione pubblica propria delle comunità espressive: esporsi allo sguardo pubblico attraverso la messa in visibilità;

- le coalizioni argomentative in cui il confronto avviene non sulla base di meri rapporti di forza o su sterili retoriche della partecipazione secondo comportamenti rituali, ma attraverso una convergenza comune sul punto di vista meglio argomentato; si tratta di argomentare le proprie ragioni in modo che siano accessibili al giudizio altrui e riconoscibili come ragioni legittime attraverso un processo di risalita in generalità;

- le arene decisionali miste proprie delle pratiche partecipate di democrazia deliberativa distinta dalle forme tradizionali di democrazia rappresentativa. In questo senso deliberare non vuol dire, come avviene nel gergo amministrativo, “adottare formalmente una decisione”, ma assume il significato di “esaminare le ragioni pro o contro una certa soluzione” dando spazio e peso ai cittadini, coinvolgendoli nelle questioni che li riguardano in uno scenario caratterizzato da confliitti profondi e problemi inediti rispetto ai quali è necessario generare nuove soluzioni e prefigurare ipotesi alternative;

- In tal modo i pubblici poteri assumono il ruolo di istituzione terza per la me- diazione propria di un’amministrazione condivisa post-burocratica. In altre parole si tratta di trasformare la molteplicità prospettica delle diverse posizioni in campo in sintesi comune e visione collettiva.

Da qui l’importanza delle nuove pratiche deliberative il cui valore aggiunto è riscontrabile su due piani: sul piano del contenuto delle decisioni in quanto si tratta di decisioni migliori perché ampie e condivise; infatti, nonostante la fatica di mettere d’accordo tutti, questi processi

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decisionali risultano migliori in quanto sono: più efficienti (con riguardo ai tempi e ai costi); più equi; più saggi (per la compresenza di soluzioni innovative); più stabili (in quanto frutto di intese durature); più facili da attuare (perché inserite dentro assetti organizzativi e procedurali); sul piano della densità delle relazioni perché coinvolgono e includono una molteplicità di soggetti, generando capitale sociale e promuovendo l’agency delle organizzazioni. In sostanza, come abbiamo già osservato, si tratta di declinare la democrazia locale come regime di apprendimento reciproco: da parte delle istituzioni che devono imparare ad ascoltare, connettere e tradurre; da parte della società civile che deve saper partecipare, generalizzare e argomentare.

Pertanto il processo di cambiamento è a due vie: riguarda il potenziale innovativo delle istituzioni che devono aderire con coerenza a queste nuove logiche di azione e riguarda la capacità di auto-organizzazione della società civile e delle sue forme organizzate che devono giocare in maniera chiara un ruolo forte di soggetti di una sussidiarietà attiva evitando di smarrire la propria identità diventando isomorfiche rispetto al servizio pubblico.

In conclusione ritengo utile collegare tutto questo a quanto sostiene la strategia europea di Lisbona 2020 secondo cui per realizzare la coesione sociale dobbiamo costruire una società intelligente, ossia fondata sulla conoscenza; sostenibile, precisando che la sostenibilità non è soltanto economico/finanziaria, ma anche ambientale e sociale; e in terzo luogo inclusiva, cioè fondata sui diritti di cittadinanza.

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Riccardo Guidi - Direttore della Fondazione Volontariato e Partecipazione

Partecipazione e politiche socio-sanitarie: il caso complicato delle Società della Salute

Buongiorno a tutte e a tutti e grazie per l’invito a quest’importante iniziativa in questa bellissima sala. Vi avevo preparato qualche slide, giusto per ‘complicare’ il caso ‘complicato’ delle Società della Salute, ma ve le risparmio, così diamo alla nostra discussione un carattere un po’ più informale. Quando con Eleonora Vanni abbiamo pensato al titolo del mio intervento ho pensato che scrivere “il caso complicato” suonasse poco ortodosso. Negli interventi di stamani ho sentito dire “affanno, ritardo, confusione, scenario incasinato” e dunque penso di essere in buona compagnia. È un vocabolario che richiama, come diceva anche il prof. Devastato, delle forme collettive di convivenza che sono, per usare un espressione ancora più forte, ‘sotto assedio’. Assediate sono le istituzioni, ma anche il terzo settore e le stesse autonomie sociali. Non credo comunque che questa una novità scaturente dalla crisi: si tratta probabilmente di fenomeni che arrivano a cristallizzarsi oggi, dopo lunghe incubazioni e chiari segnali che sono stati sottovalutati. È comunque interessante domandarsi se e come il sistema di welfare in Italia, con tutti i ritardi del caso, ha provato a reagire in qualche modo ad una crisi che dura da tempo. Le Società della Salute toscane possono essere prese come un caso-studio interessante per focalizzare alcuni elementi utili al ciclo di incontri della Copas. Alle trasformazioni sociali che si sono imposte da tempo alla nostra attenzione, il sistema delle politiche e dei servizi socio-sanitari ha provato a reagire con una serie di innovazioni e riforme che, da almeno dieci anni, caratterizzano lo scenario istituzionale. La riforma costituzionale che ha riconosciuto il principio di sussidiarietà, la L.328/2001 e la legislazione regionale che ne è seguita sono alcune delle più note riforme in campo sociale che hanno segnato un’epoca. Riforme come queste hanno indubbiamente avuto molti meriti. Eppure la loro costruzione e gli effetti che hanno prodotto sono, a mio avviso, ‘complicati’. Come in molti altri casi, queste innovazioni si sono affastellate più che cumulate in modo organico. A me pare di osservare – e questo è l’oggetto vero del mio intervento – che le innovazioni istituzionali anche nella efficiente terra Toscana hanno delle storie molto complicate. Sono spesso innovazioni che si affastellano, che non riescono a costruire un processo di innovazione cumulativo; sono spesso innovazioni prescritte, direi quasi “vendute”, argomentate come “panacea” dei mali; sono spesso innovazioni usate come strumento retorico e, forse, sono innovazioni “bruciate” da aspettative molto alte in partenza che nella

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pratica sono “tradite”. Questo, ragionando di Società della Salute, mi pare molto pertinente. La mia domanda fondamentale è (e ringrazio il professor Devastato, perché mi ha aperto lo scenario e il campo): come si traducono in pratica alcune innovazioni come quella della Società della Salute. C’è qualcuno che sostiene che tradurre sia tradire, sempre. Chi ha qualche banale esperienza linguistica lo sa. La traduzione da una lingua straniera all’italiano, o viceversa, non è un processo meccanico, ma bensì è un processo interpretativo, e in buona parte creativo: non esiste l’automatismo linguistico e così non esiste l’automatismo in sede di attuazione legislativa. Pensare che l’esistenza di una legge risolva i problemi è a dir poco utopistico: nel processo di attuazione di una legge (anche di una buona legge) si generano percorsi che sono in buona parte autonomi sia dalle disposizioni che dal discorso “ufficiale” sulle disposizioni. Il caso delle Società della Salute è, a mio avviso, in certa misura esemplare. La Fondazione Volontariato e Partecipazione, su stimolo e finanziamento della Regione Toscana, sta realizzando una ricerca su come si è tradotta in pratica quest’innovazione istituzionale, con particolare riguardo alla partecipazione. Quando il legislatore ha messo a sistema lo strumento delle Società della Salute ha immaginato l’articolazione -all’interno della stessa- di due organismi, il Comitato di partecipazione e la Consulta del terzo settore, distinguendoli per composizione e ruoli. Questa è la partecipazione delle organizzazioni territoriali con una qualche legittimità, che dovrebbero contribuire alla definizione degli obiettivi di politica sociosanitaria e non solo territoriali, valutandoli, presentando proposte rispetto al piano integrato di salute, che è lo strumento di governo territoriale. Nel farlo, dovrebbero rispondere inoltre a quei principi che ricordava il professor Devastato: apprendimento reciproco, la possibilità di influire sulle decisioni, etc.. Abbiamo però un altro livello della partecipazione dentro le Società della Salute: quello che si concretizza nella previsione legislativa delle “Agorà della salute” e nella realizzazione di alcuni progetti ex legge regionale 69/2007 (la legge sulla partecipazione). Le Agorà e i progetti partecipativi ex legge 69 hanno costruito un altro profilo della partecipazione dentro le Società della Salute, che non è la partecipazione delle organizzazioni, ma è la partecipazione dei singoli cittadini, costruendo in questo modo una polarità tra forme partecipative: un conto è la partecipazione delle organizzazioni alla programmazione e alla valutazione locale delle politiche e dei servizi e un conto è la partecipazione dei singoli cittadini a questioni delineate e specifiche. Entrambi i poli sono complicati. E innanzitutto è complicato tenerli separati. Le organizzazioni in cui si dovrebbe realizzare la partecipazione, comprese quelle del terzo settore, sperimentano problemi inoltre problemi interni (la rappresentanza, ad esempio) o di rapporto con la società e il territorio (la

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rappresentatività, ad esempio). D’altra parte la partecipazione dei singoli cittadini manifesta una sua propria problematicità nota da tempo: chiamati a partecipare dalle istituzioni, i singoli -privi di organizzazione- sono probabilmente più deboli rispetto alla capacità di presidiare i processi e dunque più manipolabili. Mi sembra molto interessante che dentro le Società della Salute si sperimentino polarità di partecipazione tanto ampie e differenziate: si tratta piuttosto di integrarle, probabilmente anche di correggere una forma con i vantaggi derivanti dall’altra. Ma il problema di fondo è che, nella pratica, entrambe le forme di partecipazione al sistema istituzionale di governo locale delle politiche e dei servizi socio-sanitari sembrano oggi “dequalificate”. Stando alla rilevazione che abbiamo condotto qualche mese fa, in Toscana sono oltre mille le organizzazioni che partecipano alle Consulte e ai Comitati: 728 sono le organizzazioni che siedono nelle Consulte e 361 nei Comitati. Non manca certo il dato quantitativo formale che anzi esprime un deciso vigore. Incontriamo il problema più rilevante quando entriamo nella pratica di quello che fanno questi organismi. Evidenzio, dal lavoro che abbiamo svolto, quattro questioni riguardanti il funzionamento della partecipazione all’interno delle Società della Salute. In primo luogo, tutti constatano un grande problema di sistema: queste Società della Salute continuano a vivere? Chiudono? Che cosa dobbiamo fare? Che cosa facciamo? Dove siamo? Che cosa stiamo facendo? Una sperimentazione lunghissima, un consolidamento faticoso e una spada di Damocle data dagli ultimi provvedimenti legislativi nazionali entro cui non riescono a muoversi, come se tutto fosse congelato. «Non si capisce se viviamo o se moriamo» ha detto qualcuno. E ovviamente fare partecipazione vera in questo contesto è molto, molto complicato. Un secondo tema che gli interlocutori ascoltati sottolineano è la disomogeneità nella composizione di Consulte e Comitati. Non solo ci sono, ad esempio, alcuni Comitati di partecipazione composti da tre organizzazioni e altri da 52. Vi è soprattutto il problema di scarsa chiarezza dei criteri di composizione degli organismi di partecipazione cosicché la stessa organizzazione -pur con profilo gestionale analogo- è in un caso ammessa al Comitato e, magari 10 chilometri più in là, è esclusa. Su questo terreno si è generata una certa confusione. In terzo luogo vi è chi pone una questione decisiva per una partecipazione che valga la pena di sperimentare: su che cosa partecipiamo? Occorre su questo punto ammettere che pochissimi hanno le competenze per praticare una partecipazione di qualità su un documento complesso come il Piano Integrato di Salute. È questo un punto su cui dovremmo seriamente lavorare.

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Il quarto punto è riassumibile con una domanda decisiva: che cosa succede alla partecipazione con la crisi?. Ci sono due possibilità: (1) la crisi come ripiegamento o (2) la crisi come opportunità. Nel caso della crisi come ripiegamento, la convocazione di Comitato e Consulta viene utilizzata per fare metabolizzare i tagli, per creare consenso intorno a questi ultimi. Nel caso della crisi come opportunità, invece, Consulta, Comitato e tutte le altre possibili sedi e pratiche di partecipazione diventano “Laboratori” utili a generare invenzioni che possano in qualche modo rimediare agli effetti locali della crisi. C’è qualcuno che, nella ricerca che abbiamo realizzato, ha detto «ono molto deluso da come le Società della Salute hanno trattato la partecipazione, ma non sono affatto disilluso del potere che questo assetto istituzionale può avere». L’integrazione tra competenze, tra sociale e sanitario, tra Comuni e ASL, con la finalità di costruire un ambito territoriale ottimale o quasi - e qui cito Luciano Franchi – per la gestione dei servizi, un ambito in cui la partecipazione sta in dialettica fuori/dentro il sistema e ha dei ruoli importanti, è possibile. «Io non sono disilluso rispetto a questa legge e a quest’architettura istituzionale», ci diceva quest’interlocutore, «ma sono molto disilluso su come ha preso una forma concreta, in altre condizioni e con altre condizioni però sono pronto a rilanciare la sfida» e questo secondo me è uno dei possibili compiti che la Copas può avere: rilanciare la sfida partecipativa nel sistema di governo delle politiche e dei servizi socio-sanitari. Grazie tante per l’attenzione.

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Sauro Testi – Sindaco del Comune di Bucine (*)

Buongiorno a tutti e grazie. Credo di poter e dover fare l’intervento non solo come Sindaco del Comune di Bucine, ma come zona Valdarno, anche perché poi così portiamo un’esperienza e un punto di osservazione allargato a un’area geografica più ampia, ma sicuramente omogenea. Innanzitutto una piccola premessa: spero di riuscire a fare un intervento – lo farò limitato, perché questa me la pongo come condizione, anche perché è sabato mattina, è mezzogiorno e vorrei dare un contributo significativo, se è possibile, ma.. – e soprattutto mi piacerebbe utilizzare i tre parametri introdotti dal nostro amico Giovanni Devastato, riuscendo a fare un intervento intelligente, sostenibile e inclusivo. Sarebbe il massimo! Intelligente: vorrei dire qualcosa, sostenibile: non vi ammazzate troppo e inclusivo, perché forse è di contributo al resto degli interventi fatti. Molto velocemente, parto dalla riflessione sulla Società della Salute: come Valdarno – ma anche altre zone aretine – eravamo tra quelle aree che hanno portato gli Statuti in Consiglio Comunale nella stessa settimana in cui poi c’è stata la sentenza che dichiarava illegittime le Società della Salute. Questo che significa? Che di fatto le stavamo adottando, avevamo fatto un percorso un po’ più lento, perché stavamo lavorando anche a altri tavoli e in questo momento siamo in una sorta di limbo che, tutto sommato, non ci fa tanto danno, viste le incertezze intorno alla Società della Salute e la situazione di incompatibilità in cui alcune zone si trovano, che crea delle difficoltà, tutto sommato continuiamo la nostra esperienza come Conferenza dei sindaci nelle diverse zone. Stiamo ragionando però – e su questo il tavolo.. la riflessione poi si porta molto, molto velocemente anche sull’argomento di stamani, coesione sociale e partecipazione – dell’ipotesi che poi quello che era l’obiettivo della Società della Salute di creare momenti di integrazione forte di politiche territoriali e sociosanitarie, ridefinendo le competenze e riavvicinandosi agli enti locali e alle forme di rappresentanza dei cittadini – e qui chiaramente si apre l’aspetto della partecipazione, mentre nella prima parte si poteva ipotizzare una volontà di andare verso la coesione: una coesione di che tipo? Coesione nella definizione e nella programmazione degli interventi, per esempio – toccare l’area del sociosanitario è uno dei punti più delicati da trenta anni non solo in Toscana, dove si fa fatica a integrare politiche che invece naturalmente non potrebbero che essere così. Ora, in attesa di capire cosa fanno le Società della Salute, stiamo discutendo dell’Unione di Comuni: perché? L’Unione di Comuni in questo momento è un soggetto, anzi è un ente istituzionale che può chiaramente fare sue alcune delle aspettative e alcuni degli obiettivi della Società della Salute, ma in questo momento può aprire un ragionamento diverso e, se lo strumento fosse quello o come andiamo in quella direzione, la tematica della coesione e della partecipazione va riscritta: l’Unione di Comuni chiaramente.. abbiamo fatto qui due settimane fa un incontro sui profili di salute e sui piani integrati di salute, su tutta una serie

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di strumenti in appoggio all’idea di Società della Salute che avevano di nuovo l’idea di creare spazi di contrattazione sociale, più che di concertazione e di incontro, ridefinendo la possibilità di fare scelte forti e integrate, con la responsabilità spostata sui comuni. Benissimo, recuperavo in questi giorni un pensiero: un pensiero legato a un’esperienza che ha fatto Roma con relativo successo e tempo del Sindaco Veltroni, quando ha fatto il Piano Regolatore Generale sociale e credo che, al di là dello strumento, l’idea fosse un’idea degna, di tutto rispetto, perché per esempio abbiamo pensato per anni che lo strumento principe per regolare una comunità fosse il piano urbanistico; credo che con uno scatto culturale, se riuscissimo a fare un piano sociale inteso come un piano di profili sociali alti, di indirizzi sociali alti il piano urbanistico starebbe lì dentro, come le politiche della scuola, come le politiche del lavoro e come le politiche della viabilità. E allora l’idea è che, se il piano integrato di salute è quello strumento con cui, in modo coeso, una comunità e più comuni definiscono le aree d’intervento dandosi obiettivi e criteri e poi andando a individuare i giusti soggetti e chi fa cosa, altro grande capitolo.. ai tavoli di concertazione è importante rifare dei percorsi dove non ci sia solo il riconoscimento reciproco, ma anche la capacità di fare diventare un valore le diversità di competenze. A volte si è confusa la concertazione con un tavolo in cui, andando a discutere delle risorse, poi si confondeva un po’ di tutto: il pubblico con il privato, il volontariato nelle sue varie componenti e quindi la cooperazione sociale come il volontariato stesso. La discussione in questo momento è particolarmente rilevante, perché se arriveremo alla soluzione verso l’Unione di Comuni, ecco che probabilmente verrà anche superato l’obiettivo della Società della Salute, perché starà dentro a quel ragionamento e dovremo fare un ragionamento politico di tipo diverso: in questo momento siamo di fronte a una situazione che, in particolar modo gli enti locali e quindi i cittadini, sanno quanto sia difficile dal punto di vista della programmazione, perché quando non ci sono risorse non si fanno scelte, si fanno scelte solo in termini di tagli e questo non è amministrare, non è fare politica, questo vuol dire fare i ragionieri, la politica nel mio comune e nella zona nostra come Arezzo la fa la mia ragioniera, che tutte le mattine mi dice quando ci hanno tagliato e secondo lei che cosa bisogna toccare per non andare fuori dal patto di stabilità. Quindi non vuol dire amministrare, la polis dovrebbe essere un’altra cosa: alla faccia della concertazione! Non la facciamo neanche io e la mia ragioniera! Praticamente siamo sotto la dittatura delle ragionerie ! In questo momento possiamo vedere, per esempio, ipotesi di cambiamento: laddove la Società della Salute era soprattutto finalizzata, nelle politiche sociosanitarie, a creare dei percorsi con obiettivi alti l’Unione di Comuni può essere vissuta o come una forma di sopravvivenza e di resistenza allo status quo, che è drammatico, o invece come un tavolo nuovo che si apre e rimette in discussione un modello; un modello che è quello non solo di come gli enti entrano in relazione tra loro, non solo di come un territorio fa politiche

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fortemente integrate e non solo sociosanitarie: pensate alla forza di un territorio come quello del Valdarno, ma come la Val Tiberina e per esempio l’Unione di Comuni dà in delega i piani urbanistici di dieci comuni. Andiamo allora a vedere, al di là delle volontà dei singoli comuni, quanto questo impatta sulle politiche ambientali e sulla qualità della vita, per non parlare di tutta un’altra serie di politiche amministrative che, chiaramente, gestite omogeneamente a livello territoriale alzano la qualità delle prestazioni. Vedete, alzare la qualità delle prestazioni e il taglio dei servizi non è che sia la panacea, non è che sia la soluzione, ma noi possiamo invertire il ragionamento, nel momento in cui tutti i giorni siamo chiamati noi e poi chiamiamo ai tavoli di concertazione i soggetti del territorio per dire loro “ noi faremo questo nei prossimi mesi, decidiamo insieme che cosa si taglia”, perché ci vuole una responsabilità, non è una delega di responsabilità, ma bisognerà capire se nel nostro comune tutti insieme si decide che non si raccoglie più la spazzatura e quindi poi bisognerà farsi carico di farne di meno e di stare più attenti, si lascia l’erba alta o invece si toglie la mensa ai ragazzi nelle scuole. Di questo si parla, però non è che si possa usare la concertazione solo in termini di condivisione delle disgrazie, perché poi ci deve essere un profilo più alto e allora credo, prendendo spunto dalle tante cose che ha detto Giovanni Devastato, che tra l’altro spero a breve di poter coinvolgere in qualcosa di.. in qualche progetto costruttivo e produttivo non solo.. in questa fase noi si lavora solo per tamponare l’emergenza, credo che abbiamo una possibilità forte: in questa situazione possiamo metterci intorno a un tavolo e affrontare la situazione con una visione diversa, rimettendo in discussione un modello che sicuramente è datato e non perché ce lo dica la crisi, la crisi accentua certe difficoltà, ma è datato perché il nostro modello, al di là della Società della Salute e di alcune intuizioni, comunque è il frutto di un percorso lungo venti /trenta anni che ha bisogno di ridefinire obiettivi e diversi ruoli all’interno di questo tipo di ragionamento. Concludo facendo un esempio: dobbiamo rimettere in discussione all’interno delle nostre comunità, per esempio, quelli che sono i servizi essenziali, quelle che sono le cose rispetto alle quali non si può tornare indietro, ma dobbiamo rimettere in discussione anche una serie di prestazioni e servizi che sono andati dietro a falsi bisogni e relativamente ai quali ridefinire la priorità delle scelte. Scusate se faccio l’esempio dei comuni, ma perché mi viene naturale: normalmente faccio quelli della psichiatria, stamani mi sento meglio! I pulmini che sono andati a prendere i ragazzi di quattordici anni, che non c’entravano neanche e stavano piegati dentro a 300 metri dalla scuola e poi hanno fatto in modo di creare un servizio che, quando l’hai tolto perché non ci si può permettere, le famiglie si sono incavolate, è un falso bisogno e questo è un esempio che può sembrare terra terra, ma non è così. Però se poi non ci assumiamo la forza e la responsabilità di riscrivere insieme un patto territoriale dove si dice che in tutta una serie di interventi e di politiche.. lì sta la capacità concertativa, lì sta la partecipazione, perché non lo può riscrivere l’istituzione o

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l’ente locale, lo devono riscrivere tutti quei soggetti che sono portatori di qualcosa in un’ottica e con le regole di cui diceva assolutamente Giovanni Devastato, perché ho trovato passaggi da studiare meglio, perché noi abbiamo semplicemente delle idee e andranno approfondite bene. Per esempio, come Valdarno stiamo pensando di riscrivere un’idea di servizi sociali, di servizi alla persona: Giovanni ha fatto un incontro con noi e i nostri operatori, ci ha dato degli spunti e abbiamo capito che sono cambiati i bisogni, sono cambiati i cittadini e va cambiata l’organizzazione, questo a prescindere dalle risorse che abbiamo. Credo che però in questo momento approcciare in questo modo il problema ci possa dare una mano a reggere al taglio delle risorse, ma non perché troviamo risorse alternative: perché forse ridefiniamo una scala di valori, una scala di necessità, una scala di priorità alla quale le nostre scelte saranno più adeguate, più proprie e anche un po’ più condivise dalla comunità, che dovrà fare un salto di qualità anche a livello culturale. Faccio due esempi e poi finisco. Un esempio: se ora devo andare in giro dai miei cittadini a spiegare loro che non mi danno 300.000 Euro in più, da quello che mi avevano detto un mese fa sono a 700.000 Euro – ora il bilancio del Comune di Bucine, di 10.000 abitanti, è di cifre…. – ho due possibilità, o aumento l’addizionale IRPEF, che per fortuna è allo 0, 3 e quindi non sono uno di quei comuni che sono allo 0,8 impiccato, io ho questa leva fiscale potenziale; o aumento l’addizionale IRPEF di due o tre punti e recupero, che però va sempre a beccare nelle tasche degli stessi, con l’aggravante che poi le famiglie non pagano più il bollettino della mensa già quest’anno.. o non ci mandano più i ragazzi, o non lo pagano più, perché poi la luce la staccano, l’acqua la staccano, il gas lo staccano e la mensa del comune.. giustamente noi i ragazzi a piedi non ci si lasciano, se non pagano il pulmino, come qualcuno voleva fare, e neanche diamo loro il pane con l’olio se non pagano la mensa, però aumentare la pressione su quelle famiglie vuol dire avere minori entrate e quindi è un gatto che si morde la coda. L’altra cosa potrebbe essere, per esempio, togliere lo spazzinaggio dai paesi: perché? Perché ognuno si spazza davanti a casa sua, o comunque non si fa più il taglio dell’erba, ora la Martina della cooperativa ….. mi si incazza, però ognuno.. oppure l’estate non taglio più l’erba nelle frazioni, perché ogni frazione si taglia la sua, perché quello è un servizio che non risponde a un bisogno e conseguentemente, in una situazione di crisi, facciamo tutti un passo avanti, non un passo indietro e poi si sta a litigare perché si è fatto un taglio d’erba in meno. Noi l’anno scorso si è fatto un taglio d’erba in meno, perché abbiamo risparmiato 30.000 Euro per le famiglie bisognose che non pagavano gli affitti: quando si è approvato il bilancio a febbraio ci hanno fatto tutti l’applauso, non vi farei sentire le telefonate che ho avuto tra luglio e agosto, quando c’erano le feste di paese e c’era l’erba lungo le strade! Bisogna fare un passaggio culturale di questo tipo, probabilmente, e i 100.000 Euro in più che tutti gli anni ho di spazzatura, perché alla gente fa fatica buttarla nel cassonetto giusto, se tutti siamo controllori di noi

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stessi probabilmente i 100.000 Euro... non ho bisogno di aumentare un punto di addizionale IRPEF: siamo arrivati a un momento in cui bisogna far fronte anche a questo tipo di ragionamenti in modo molto chiaro. L’ultimissima cosa: l’ho detta l’altra volta, ma questa è vera, poi ora suonano anche le campane, che mi hanno richiamato all’ordine! Attenzione, se costruiamo nuovi percorsi, non bisogna rifare gli errori del passato: le ipocrisie ognuno le lasci a casa e questo vale per gli enti locali, per la committenza, per chi deve avere in gestione i servizi strategici e vale per la cooperazione piuttosto che per il volontariato. È inutile, quando si parte, scrivere dei bei progetti dandosi dei begli obiettivi dicendo in modo chiaro chi fa cosa e poi non li si rispetti, perché non si è capito, perché si fa confusione o perché costa meno e allora per questo dico che se riscriviamo il welfare locale e andiamo a dire con un po’ di coraggio che forse qualcosa che prima si chiamava welfare pesante si può chiamare welfare medio/leggero e ridiciamo anche chi fa che cosa, allentando anche.. perché probabilmente l’assistenza domiciliare, quella che accompagna a fare la spesa a 15 /16 Euro l’ora la nostra comunità non se la può permettere e allora lì si chiamano davvero i volontari, gli si dà un rimborso di 3 Euro e vanno a fare la spesa, però neanche il contrario e in questo, guardate, ci deve essere un richiamo a una presa di coscienza e una responsabilità che vale per tutti, non si può essere cooperazione sociale e impresa sociale non rispettando i contratti di lavoro e poi facendo approvare dei regolamenti interni- io vengo da quel mondo, eh, per cui chiamo in causa me e poi mi chiamo in causa anche come amministratore – e far finta di essere qualcosa che non si è. Non può essere che il volontariato faccia lavorare a nero la gente perché costa meno alla Pubblica amministrazione e tolga il lavoro alla cooperazione sociale. Dal canto nostro non può essere che le amministrazioni in questa sede firmino protocolli, per esempio, con la cooperazione di tipo B, definendo esattamente in base alla 381 e all’articolo 10 come si fa a dare affidamenti diretti e con quali percorsi e poi a livello locale il singolo dirigente del comune o il Segretario Generale non li rispetta, perché sennò ci si prende in giro e, quando invece si ha intenzione di mettere in moto dei passaggi di cambiamento – non voglio usare la parola “ rivoluzione” perché porta male – ognuno deve fare coerentemente la sua parte. Credo che questo non sia per voler vedere il bicchiere mezzo pieno, anche perché in comune devo sempre vederlo mezzo vuoto, ma lì devo fare quella parte, perché in questo momento abbiamo l’occasione, di fronte a un marasma del genere e a un movimento culturale in certi momenti pericoloso, di avere la possibilità di portare un’idea nuova, di sedersi intorno a un tavolo e di fare una scommessa rispetto al futuro con una politica che è oggi è difensiva dal punto di vista delle risorse, ma che sicuramente, prendendo spunto da quello che avete detto, può essere una politica di avanguardia e di rinnovamento rispetto alle idee che possiamo mettere in campo. Grazie.

(*) Testo non rivisto dall’autore

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Renato Boni - AUSER Toscana Brevissimamente, voglio ringraziare tutti coloro che sono intervenuti con le loro relazioni, che mi saranno molto utili per sviluppare ulteriormente all’interno delle nostre associazioni una riflessione per determinare i cambiamenti che sono necessari in questa fase. Faccio parte dell’Auser, associazione di volontariato per l’autogestione dei servizi e la solidarietà, nella quale sono presenti anche attività di promozione sociale con finalità esclusive di solidarietà sociale. Qui è stato fatto riferimento – giustamente, non poteva che essere così – al contesto nel quale si colloca questa discussione, rilevando il grave danno conseguente ad alcune scelte operate dal Governo, che provocano al sistema sociosanitario e dell’assistenza sociale, situazioni di sofferenza molto elevate: basti pensare al taglio dell’ 86% ai fondi sociali nazionali, all’azzeramento del fondo per la non autosufficienza, alle ridotte capacità di spesa e di autonomia degli Enti Locali ed alle conseguenze del patto di stabilità interno. A fronte di questi negativi cambiamenti ritengo sia importante vedere come gli stessi mettano seriamente a rischio quel sistema di tutele e di diritti che siamo riusciti a realizzare nella nostra Regione, appoggiato fino a adesso sul sensibile impianto normativo delle Istituzioni, ma anche per la presenza di un ricco tessuto sociale, nel quale il volontariato, l’associazionismo e la cooperazione in genere sono molto diffusi e radicati nel nostro Territorio. La crisi e i provvedimenti di questo e del precedente Governo stanno incidendo sulla vita delle nostre comunità, a danno dei sistemi di partecipazione e di valori che si sono fin qui affermati, perciò è necessario interrogarci su quello che possiamo fare per evitare uno scadimento del sistema e per continuare a garantire il diritto alla salute in termini universalistici ed equi, e contemporaneamente per essere in qualche modo protagonisti di un nuovo welfare a livello territoriale. Nel quadro tracciato credo occorra rimettere al centro del nostro impegno i valori che caratterizzano il mondo del volontariato, dell’associazionismo e del terzo settore. In qualche caso andrà anche ridefinita la stessa identità rispetto ai cambiamenti che sono intervenuti a partire da quello demografico e dell’invecchiamento e quindi l’esigenza di sviluppare rapporti intergenerazionali, dalla presenza degli immigrati e così via. Dall’altro lato ritengo indispensabile (come indicato dal Dott. Guidi) ripensare, come insieme di realtà che compongono il terzo settore, anche i propri modelli organizzativi, il loro funzionamento e le attività che è possibile assumere, senza disperdere la centralità dell’ente locale, che deve continuare a garantire i diritti di cittadinanza della persona. Infine, questo è un problema grosso che non c’è il tempo per poterlo sviluppare, ma che giustamente è stato presente in tutte le relazioni e in tutti gli interventi, ossia la necessità di mettere in rete i soggetti che operano sul territorio per farli interagire al fine di raggiungere

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una idonea dimensione di sussidiarietà integrata, dando luogo a dei veri e propri “patti territoriali” dove la gestione di attività e funzioni pubbliche gestite direttamente dal Terzo settore determinino maggiore efficienza ed efficacia nonché partecipazione e diffusione di valori (in Toscana Patti territoriali sottoscritti non ce ne sono molti, ma dove sono realizzati producono risultati tangibili e molto proficui). Concludo dicendo due parole sulle Società della Salute; spesso in queste realtà, che per quanto mi riguarda sono pienamente sottoscrivibili nel loro impianto istituzionale, nei loro principi ispiratori, e nel ruolo che viene riconosciuto agli enti locali, (integrazione socio sanitaria, governo e programmazione, gestione associata, partecipazione, e così via); ma anche su queste è assolutamente necessario compiere alcune scelte perché possano definitivamente decollare, ossia, anzitutto riconoscerle realmente la funzione di unico soggetto di programmazione e gestione della domanda di salute e quindi tutta la sanità territoriale (medicina generale, cure primarie, cronicità, dipendenze, salute mentale, prevenzione, educazione alla salute, ecc) obbligatoriamente integrata con l’assistenza sociale dei Comuni, lasciando all’ospedale il punto di riferimento per le acuzie, superando le attuali e improprie suddivisioni di funzioni e conflitti di competenze, in particolare con le ASL, ed inoltre coinvolgere realmente le associazioni del Terzo settore nei percorsi di rilevazione dei bisogni e di programmazione delle stesse SdS. Su quest’ultimo aspetto spesso e volentieri le associazioni del Terzo settore, volontariato compreso, sono viste e considerate dalle Istituzioni solamente come associazioni che erogano servizi punto e basta, non cogliendo l’importanza dell’apporto che queste stesse associazioni possono fornire nella co-programmazione e co-progettazione territoriale, per le competenze e sensibilità acquisite nello svolgimento delle loro attività e presenza sul territorio. La costituzione dei patti territoriali prima ricordati che a mio avviso rappresentano una forma avanzata di sussidiarietà e di forte responsabilizzazione delle associazioni e delle istituzioni, valorizzano la partecipazione fattiva ed il confronto per la determinazione di scelte più idonee per rispondere ai bisogni e disagi presenti nella cittadinanza, in particolare nei confronti dei soggetti più deboli ed esposti, soprattutto in una fase di carenza di risorse economiche e di tagli governativi. Nella piccola esperienza personale fatta nella SdS fiorentina nord-ovest, posso confermare la validità delle metodiche sopra esposte, dove, tra l’altro, abbiamo anche sviluppato, sulla base di bisogni rilevati, una co-progettazione tra le diverse associazioni e la stessa SdS. Prima era stato fatto riferimento a una nuova governance a livello territoriale, credo che questi percorsi di partecipazione nella co-programmazione e co-progettazione nelle Società della Salute, rappresentino un passo importante anche se non esaustivo della questione.

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Luciano Franchi - Vicepresidente Conferenza permanente delle autonomie sociali (*)

Credo si possano chiudere i lavori di questa mattinata, che non ho dubbi nel definire estremamente positivi. Ci dobbiamo prendere un impegno come Copas, che è quello di far circolare questi contenuti affinché diventino patrimonio anche di chi non è potuto venire questa mattina: c’è la necessità di stare su questi temi e di confrontarsi, perché il momento – l’abbiamo detto all’inizio ed è stato detto da tutti – è un momento delicato ma molto importante. Ritengo che questa, per il Terzo settore, possa essere un’occasione storica: mi iscrivo al partito di quelli che credono che questo sia il momento di discutere e di riflettere e che sia un’occasione per il Terzo settore di esprimere progettualità. C’è una situazione di tale incertezza e c’è una povertà di idee tale che credo che siamo capaci di esprimere proposte, di riesaminare, riprogettare le questioni e non solo di mettere qualche piccolo cerotto a situazioni che non sono più sostenibili.. Condivido al 200 per cento le considerazioni che ha fatto il Sindaco di Bucine Sauro Testi. Probabilmente è una vicinanza essendo io un sindaco rottamato dopo tre mandati; sono vicende che ho vissuto e la questione dei territori ottimali - lo sa Guidi, perché l’ho tormentato rispetto a questo - la definizione degli ambiti territoriali ottimali sulle varie tematiche, il superamento di certi schemi mentali con i quali abbiamo convissuto da troppo tempo e dove non abbiamo acquisito flessibilità - a seconda dei temi l’ambito territoriale ottimale è diverso e ci dobbiamo aggregare per le questioni idrauliche, in un certo ambito, per le questioni sociali in modo diverso e sulle questioni sanitarie c’è una dimensione diversa - o l’acquisiamo o, altrimenti, se pensiamo che i confini siano quelli tradizionali della provincia o quant’altro……. probabilmente essendo io della provincia di Pisa, che si trova con una parte dei comuni all’interno dell’azienda sanitaria 6 di Livorno, con una parte dei comuni che fanno parte della 11, con la parte residuale che sta nella 5, chiamata azienda sanitaria di Pisa, e poi ce ne è una parte che è tributaria di relazioni con la zona di Piombino e con la parte sud della Toscana, mi rendo conto che sono espressioni di una provincia che vive sulla propria pelle la necessità di rivedere i modelli organizzativi e, quando la provincia pretende di essere il punto di riferimento su tematiche che ormai non hanno più quella territorialità - perché il Comune di Monteverdi cosa abbia a che vedere ormai con la provincia di Pisa da quando la buonanima di Benito fece il regalo al suocero e scorporò, segnandolo su una cartina, la provincia di Livorno, creando tutta una serie di situazioni e dando in cambio alla provincia di Pisa la zona di San Miniato - ne è venuta fuori una cosa tale che la provincia di Pisa sta vivendo ancora tutte le difficoltà di una riscrittura a tavolino dei confini amministrativi. Credo si debba riflettere su queste considerazioni e credo che il Terzo settore possa essere uno dei protagonisti di questa riflessione, dando un contributo positivo. Mi sento di ricordare che abbiamo cominciato un percorso e, perciò, mi guarderei bene dal trarre delle

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conclusioni perché non sarebbero assolutamente opportune e perché abbiamo deciso di fare un percorso che è la giornata di oggi, che proseguiremo il 18 novembre a Lucca con il tema “ Welfare, finanza locale e federalismo: l’impatto sulle autonomie sociali ” e poi il 15 dicembre a Firenze su “Welfare: territorio, sussidiarietà, partecipazione. Il ruolo delle autonomie sociali”. Credo che questi siano tre momenti importanti e alla fine di questi tre momenti proveremo a fare qualche considerazione: ora non sarebbe opportuno, è troppo presto. Ora dobbiamo fare tesoro delle considerazioni espresse nelle relazioni di questa mattina e cercare di rendere anche a chi non è venuto, a chi ha scelto di non venire oppure non è potuto venire questa mattina, questi contenuti. Termino ringraziando a nome della Copas chi è intervenuto e chiedendo a tutti quanti un contributo di idee su quest’iniziativa o su altre iniziative che la Copas potrebbe fare: sono gradite, sono indispensabili sollecitazioni, consigli e suggerimenti. La Copas sta cercando di fare uno sforzo significativo per individuare iniziative nuove da fare: sono graditi i contributi di tutti, alcune idee le abbiamo e abbiamo predisposto un programma di attività, ma è un programma modificabile e aggiustabile a seconda delle situazioni; è un lavoro che vorremmo fare tutti insieme con tutte le espressioni del Terzo settore e, conseguentemente, il mio invito finale è quello di chiedervi di darci una mano per scrivere un programma di attività della Copas che sia rispondente ai reali bisogni del Terzo settore. Crediamo di aver fatto un pezzo di lavoro, ma abbiamo bisogno di tutti voi per completare questo e dare veramente l’occasione di fare in modo che la Copas sia il luogo dove il Terzo settore si confronta, dove discute, dove litiga se è necessario e dove costruisce proposte da presentare al Consiglio regionale e a tutti gli altri interlocutori per costruire un futuro migliore. Le difficoltà attuali forse possono essere un’occasione - l’ho definita prima un’occasione storica - perché stanno abbattendo i freni inibitori nei confronti dei cambiamenti: non so se avremmo potuto parlare di cambiamenti in una situazione diversa, a risorse stabili e questa difficoltà credo ci costringa a una riflessione e possa essere un’opportunità. Credo si debba vivere in questo modo e non solo con una lettura depressiva della serie “oggi ci hanno tagliato questo, domani ci tagliano quell’altro, domani ci tagliano quell’altra cosa”, ma con la rilettura dei bisogni per andare a individuare quali sono i bisogni reali. C’è un libro di qualche anno fa di Al Gore sulla situazione americana che aveva proprio questo come segno caratteristico: quello di non andare mai per piccoli aggiustamenti, ma di provare a ripensare un servizio. Credo sia la cosa migliore che possiamo fare e la cosa più utile per tutto il Terzo settore. Grazie per la partecipazione e appuntamento alle altre due iniziative che faremo a Lucca e a Firenze!

(*) Testo non rivisto dall’autore

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Lucca 18 novembre 2011

Welfare, finanza locale e federalismo:

l’impatto sulle autonomie sociali

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Maurizio Bettazzi - Vicepresidente del Consiglio delle autonomie locali della Regione Toscana Mi appresto a portare il salute del Consiglio delle autonomie locali che rappresento a nome del Presidente Filippeschi e partecipo molto volentieri al vostro incontro, che rappresenta uno spaccato importante della società, in un settore sicuramente e particolarmente importante dal punto di vista non soltanto dello scenario istituzionale, ma anche degli aspetti e dei temi dei quali si occupa principalmente. Diamo atto che la Conferenza permanente delle autonomie sociali è stata disciplinata con l’articolo 61 dello Statuto Regionale che reintegra sia le funzioni che lo scenario istituzionale generale all’interno del sistema regionale quale organismo di consultazione in rappresentanza del terzo settore. In questo senso la legge istitutiva riconosce la Copas quale organismo della sussidiarietà sociale della regione e voce della società civile e delle realtà all’interno delle istituzioni. Questo incontro rappresenta sicuramente un appuntamento che vi siete dati per un confronto importante e fattivo sulle prospettive che il sistema del welfare, per un discorso di situazione economica generale di crisi che attraversa non soltanto il sistema Italia, ma anche tutte le governance degli altri Paesi europei, può portare sicuramente come contributo di sviluppo di democrazia delle nostre società. L’evoluzione delle politiche sociali e sanitarie del nostro Paese fanno spesso i conti con il progressivo ridimensionamento delle risorse disponibili: tenete presente che comunque c’è la necessità di garantire ai cittadini livelli di welfare qualificati, con l’attenzione maggiore all’organizzazione dei servizi e di quello sanitario, principalmente. Tutti gli operatori, non soltanto di questo settore ma anche tutti gli assetti che compongono la nostra Repubblica, sono chiamati a utilizzare ed ottimizzare quelle risorse, che siano poche o che siano tante, che sono disponibili per riuscire a garantire uno standard qualificato dei servizi e delle prestazioni, ma anche a cercare in un’ottica futura di riuscire a potenziarli e a migliorarli. Questo sistema è il sistema di tutte le autonomie degli enti locali in particolare, importante non soltanto nello scenario del sistema sociosanitario della Toscana, ma lo è stato, lo è e lo sarà per sviluppare un modello che con servizi e programmi garantisca anche quell’unità sociale ed il principio di giustizia sociale che deve essere alla base dell’operare di tutti i giorni. Sicuramente la legge 41/2005 attribuisce ai Comuni la promozione delle comunità locali quale sistema di relazione tra le persone, le famiglie, le istituzioni, le organizzazioni sociali , l’attenzione agli interessi diffusi, la costituzione di una rete locale di servizi sociali finalizzata all’affermazione dei diritti di cittadinanza sociale. I Comuni, nonostante le difficoltà, continuano a esercitare le funzioni di programmazione locale del sistema integrato attraverso l’approvazione di piani di salute che poi sono funzioni amministrative concernenti la realizzazione della rete locale degli interventi dei servizi sociali e anche la gestione e preparazione dei medesimi. Questo non sempre è facile, non sempre perché

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comunque i Comuni rappresentano il primo baluardo insormontabile e il primo sportello del reclamo del cittadino, perché probabilmente il Comune è l’unico ente locale che, erogando servizi, ha un contatto diretto e quotidiano con la collettività rispetto agli altri livelli istituzionali che soffrono meno di questa vicinanza alla comunità. Insieme ai Comuni anche le Province concorrono alla programmazione regionale e alla programmazione di ambito zonale, curano il collegamento con le politiche settoriali e con i programmi locali di sviluppo. Nell’ambito di questo sistema integrato è sicuramente importante tenere presente l’accordo che dovrà esserci sempre tra le rappresentanze delle autonomie locali e sociali, soprattutto in termini economici e occupazionali, per tutti gli aspetti positivi di coesione sociale, che deve essere sempre sviluppato in maniera sinergica e di come tutte le strutture, tutti gli attori di questi sistemi, debbano operare per cercare di dare anche una rete di protezione sociosanitaria sempre più adeguata alla visione dei cittadini, che tutti i giorni ovviamente avanzano richieste, segnalano carenze ed a volte anche il miglioramento dei servizi e quindi l’ascolto e il confronto possono portare a cercare, pur nella ristrettezza economica, di migliorare gli standards, ovvero andare incontro maggiormente alle esigenze dei cittadini nella qualificazione dei servizi e nell’attenzione che a loro è sempre dovuta. Per cui l’auspicio è che queste iniziative, questi incontri e lo sviluppo di questo modus operandi trovino nei prossimi mesi e nei prossimi anni queste possibilità di confronto, la possibilità di essere attenti all’evolversi della società, a come cambia e a come lo faccia, a volte, in maniera molto rapida, per permettere agli attori e ai rappresentanti delle istituzioni toscane di essere al passo con i tempi; questa attenzione ci permetterà di conoscere le problematiche fin da subito e essere attenti anche al modificarsi di questi bisogni, per poterli affrontare in tempi brevi, con attenzione e nell’ottica di garantire servizi qualificati e qualificanti alla collettività. L’auspicio che faccio prima di lasciare questo tavolo è che il confronto che ci sarà a partire da oggi, ma andrà avanti anche nel corso nei prossimi mesi, porti soprattutto a finalizzare quest’attenzione e questi risultati. L’auspicio di buon lavoro che vi rivolgo è sincero e vi do appuntamento ad ulteriori momenti di incontro con gli operatori della vostra conferenza. Buon lavoro a tutti e buona giornata!

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Andrea Volterrani - Presidente Fondazione ForTeS

Cultura, partecipazione, risorse. Le autonomie sociali tra realtà e immaginazione

Anche se siamo fra pochi intimi non è un problema, perché rispetto ad alcune questioni che ha toccato Eleonora la centralità delle autonomie sociali sta nei fatti. Probabilmente ancora non c’è sufficiente percezione (ed è un paradosso!), rispetto a ciò che è stato ed è il terzo settore da trenta anni a questa parte. All’interno della relazione ho inserito il termine “autonomie sociali” in onore della Copas: in realtà anche Eleonora nella sua introduzione è passata dalle autonomie sociali al terzo settore, perché poi è la denominazione che si usa e che ormai è utilizzata abitualmente anche a livello nazionale e in alcuni contesti anche a livello internazionale. Poi cosa comprende il termine terzo settore è un po’ più complesso. Quale è il mio compito stamani? Per il titolo del seminario credo che entrerà nel merito, molto più di me, il professor Mussari; io proverò a fare una riflessione più larga. Ho avuto occasione di riprendere alcune riflessioni sul terzo settore collegate con la questione della cultura e della partecipazione, che credo siano elementi rilevanti spesso sottostimati innanzitutto dallo stesso terzo settore e poi anche dagli altri attori (pubbliche amministrazioni e imprese). Inizio dalla citazione di Martha Nussbaum filosofa molto conosciuta e che gode di una grande credibilità: nell’ultimo libro, che è stato tradotto in italiano da poco, “ Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica”, lei scrive. “I cittadini non possono relazionarsi bene alla complessità del mondo che li circonda soltanto grazie alla logica e al sapere fattuale. La terza competenza del cittadino, strettamente correlata alle prime due, è ciò che chiamiamo immaginazione narrativa. Vale a dire la capacità di pensarsi nei panni di un’altra persona, di essere un lettore intelligente della sua storia, di comprenderne le emozioni, le aspettative e i desideri. La ricerca di tale empatia è parte essenziale delle migliori concezioni di educazione alla democrazia, sia nei paesi occidentali sia in quelli orientali”. Che ruolo hanno i soggetti delle autonomie sociali e del terzo settore in questo ambito? Un ruolo fondamentale: è vero che in altri momenti della nostra storia nei Paesi occidentali dal secondo dopoguerra ad oggi questo ruolo è stato assunto da altri (partiti di massa, sindacati) utilizzando modalità molto più strutturate. Oggi nel vuoto che si è creato nell’ambito della politica il terzo settore ha assunto o potrebbe assumere – mettiamola in termini indicativi – un ruolo ancora più rilevante. Per iniziare un’affermazione un po’ forte. Credo che le autonomie sociali siano ad una svolta: o diventano parte integrante del sistema, oppure provano a costruire un sistema. Questo non significa – un tempo si diceva – essere alternativi al sistema o costruire l’economia alternativa; no, no, questo è in relazione anche con aspetti di natura economica,

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ma soprattutto di natura culturale, sociale, di partecipazione e di democrazia. Paradossalmente proprio adesso, che la situazione è ancora più critica e difficile, potrebbe essere il momento di provare usando la forza immaginativa del terzo settore. Con voi vorrei parlare di cultura come aspirazione, di partecipazione come confronto creativo e di se e come le autonomie sociali sono risorse per il territorio. Perché parlo della cultura come aspirazione? Recupero un testo tradotto da pochissimo in Italia e scritto nel 2004, un piccolo saggio di Appaduraj che è un antropologo indiano che si è trasferito negli Stati Uniti e che ha fatto una serie di riflessioni rispetto alle conseguenze della globalizzazione sulla località e sui territori. Secondo Appaduraj la gestione e la costruzione del futuro sono diventate appannaggio solo dell’economia, perché soddisfare i bisogni, lavorare sui desideri, dare opportunità hanno assunto evidenze e linguaggi dell’economia. Sembra che la cultura diventi un ostacolo allo sviluppo sociale e economico, invece di essere elemento di supporto. Ma se la cultura diventa il luogo per sviluppare le capacità, le capabilities di Sen allora il futuro è il luogo anche delle aspirazioni culturali. Quale relazione con il terzo settore? Forti se è il terzo settore inteso come ha già raccontato e già introdotto Eleonora; altrimenti siamo su un altro piano dove le discussioni sono solo di natura economicistica. Quindi cultura. Faccio un esempio sui movimenti della povertà a Mumbai riprendendolo sempre da Appaduraj. In un contesto estremamente disastrato, attraverso la pazienza, la partecipazione e il protagonismo dei poveri stessi di Mumbai e coinvolgendo le autorità locali e i soggetti imprenditoriali del territorio sono riusciti a far sì che le loro necessità diventassero elemento rilevante e fondamentale dell’agenda politica. Appaduraj fa l’esempio della costruzione dei bagni pubblici. Non esistevano, c’erano solo fogne a cielo aperto, l’esigenza primaria di igiene non era percepita dagli stessi poveri. Quindi il primo lavoro che è stato quello di cambiare la percezione dei poveri stessi da un punto di vista culturale. Poi successivamente sono state costruiti effettivamente i bagni pubblici. perché si potesse andare a rispondere a quell’esigenza prima di tutto culturale. La povertà riproduce povertà: non c’erano quelle capabilities e quelle consapevolezze culturali che consentissero di trasformare un problema in un’opportunità, un’opportunità di crescita di qualità della vita. Questa è premessa dell’economia. Il primo aspetto è, quindi, quello della cultura come aspirazione, cioè un modo diverso di pensare la cultura, un modo diverso di cominciare a pensare a che cosa dovrebbe essere la cultura non come problema, ma come opportunità. Il secondo aspetto è quello della partecipazione come confronto. Nell’esperienza comune, la partecipazione è spesso sinonimo di grandi assemblee, molte parole e poi decisioni di un gruppo ristretto anche nel terzo settore. Anzi, spesso nel terzo settore si fa finta di parlare di partecipazione ma non la si esercita. Se la partecipazione, invece che raccontata, non diventa qualcosa di reale non c’è una differenza tra i soggetti del terzo settore e altre

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organizzazioni; diventa qualcosa di controproducente rispetto al terzo settore. Faccio finta di fare partecipazione ma non la favorisco, non riesco a costruire percorsi nuovi di partecipazione. In questo caso mi vengono a sostegno alcune esperienze concrete di partecipazione le quali hanno cercato di rispondere alla seguente domanda: si possono prendere decisioni includendo il maggior numero di persone possibili in un contesto e diminuendo, allo stesso tempo, la conflittualità? Diciamo che è la quadratura del cerchio. Si può costruire partecipazione se si utilizzano strumenti come il confronto creativo o l’Open Space Technology. L’Open Space Technology è uno strumento di confronto e di presa delle decisioni della collettività; ovviamente è complesso e lontano dalla cultura organizzativa prevalente nella nostra società. Esiste la necessità di apprendere. In un testo uscito recentemente di Marianella Sclavi troviamo una sorta di decalogo di come dovrebbe essere costruito un sistema di partecipazione per prendere decisioni attraverso il confronto. Cultura come aspirazione, partecipazione. Sono una premessa per arrivare a riflettere su se e come le organizzazioni del terzo settore possono essere risorse e non cercatrici di risorse. In quali ambiti invece il terzo settore può essere risorsa? Quali risorse? Questo è un primo elenco: culturali, politiche, partecipative, comunitarie, emancipative, progettuali, popolari. Parto dalla prima, la risorsa culturale. Le autonomie sociali possono costruire un cambiamento culturale su molti temi, ma anche nei comportamenti e negli atteggiamenti individuali e collettivi. Ad esempio attraverso un nuovo modo di pensare e fare la comunicazione- non entro nel merito –, ma anche costruendo percorsi educativi. Spesso il terzo settore si dimentica di questa funzione: perché se vuole che ci sia un cambiamento deve riuscire a accompagnare le persone, non a costringerle ma a convincerle e quindi a costruire un percorso insieme per cambiare comportamenti che potrebbero essere dannosi per la collettività. Secondo elemento – sono solo suggestioni, eh- risorsa per la politica. Le autonomie sociali possono produrre azioni politiche sia nel proprio interesse, sia per l’interesse generale, con specifiche azioni di pressione (la Copas è un “luogo istituzionale di pressione”), sia attraverso percorsi di innovazione e di avanguardia: pensate, per esempio, al tema della legalità. Mi raccontava recentemente un dirigente di un’organizzazione di volontariato della Basilicata che stava costruendo dei contratti a progetto dell’entità di 250 Euro: ha dovuto fare 183 km per trovare un commercialista disponibile a fare quel tipo di contratto perché tutti gli dicevano “ ma siete matti a fare un contratto a progetto per 250 Euro? Costa di più fare il contratto che il compenso”. La sua risposta è stata: “ sì, è vero che costa di più, ma se non cominciamo anche noi a far sì che ci sia una legalità su cose assolutamente semplici e normali la legalità salta su tutto. Siamo noi i primi a dover far sì che la legalità debba essere elemento condiviso e dato per scontato. e abbiamo fatto 180 km per andare a trovare il commercialista che ci faceva questa cosa”. Questa è risorsa fondamentale. È

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difficile, perché questo significa andare contro a un’idea diffusa, culturalmente diffusa in quel caso, ma importante per affermare principi e diritti. Risorsa partecipativa: potrebbero promuovere la partecipazione. E’ un elemento che è interno ed esterno alle organizzazioni: se la mia organizzazione diventa partecipata e il contesto non lo è, la mia organizzazione è fuori da quel contesto, è incapace di dialogare con quel contesto e quindi devo riuscire a costruire elementi che costringano in qualche modo, anche il contesto territoriale, a modificare la sua percezione e la sua modalità di funzionamento. Risorsa per la comunità, la più banale, ma in che modo? Preoccupandosi delle persone e della vita politica sul territorio al di là del loro interesse o tema specifico. Questo è il valore sociale aggiunto, perché se io mi preoccupo solo delle cose di cui mi occupo come organizzazione, cioè mi occupo di disabilità e sulla disabilità faccio servizi, faccio attività e faccio promozione, questo è ovvio, è inevitabile, sarebbe strano il contrario. Ma questo lo potrebbe fare anche un soggetto che non ha le caratteristiche del terzo settore. Se invece di occuparmi solo di disabilità mi preoccupo anche di un contesto più ampio della qualità della vita nel mio territorio, allora divento risorsa per la comunità, altrimenti sono una risorsa che è solo limitata al mio interesse specifico. E se arriva un altro soggetto che svolge quel servizio o quell’attività sulla disabilità ad un costo più basso e con un’efficienza maggiore è evidente che posso tranquillamente non essere più risorsa per la mia comunità. Dove sta il valore sociale aggiunto di quest’organizzazione, c’è o non c’è? È comprensibile, è visibile, è accettato, è riconosciuto sul territorio, oppure no? Tutta la riflessione sul famoso trasporto sociale in Toscana - fatemelo dire – c’era un valore sociale aggiunto o no? Se non c’è, allora il trasporto sociale, cioè portare i disabili da una parte all’altra, lo fa chiunque al costo più basso rispetto alla comunità, se invece c’è un valore sociale aggiunto riconosciuto allora dobbiamo difendere quella risorsa. Nessuno si è voluto porre il problema di dire che tipo di risorsa era e se era ancora una risorsa: poteva anche venire fuori che invece era un altro tipo di organizzazione e che quindi non c’era più questa capacità di fornire un contributo alla comunità. E allora solo a questo punto potevano essere fatte le gare. Risorsa emancipativa per gli individui. Pensate a tutto il tema della Comunità Queer, dei trans, dei gay e a tutte le difficoltà che hanno avuto nel tempo. Le organizzazioni del terzo settore che si sono occupate di questo tema hanno promosso percorsi emancipatori individuali e collettivi perché, a volte, la voglia di comunità è asfissiante. Risorsa progettuale: le autonomie sociali sono il luogo dove si pensano, si costruiscono e si realizzano nuove idee confrontandosi con gli altri sui progetti presenti sul territorio costantemente e strutturalmente. Spesso il ragionamento è inverso: cerco prima le risorse e poi faccio il progetto. Questo non aiuta una costruzione condivisa sul territorio, ma anzi,

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spesso comporta una competizione interna alle autonomie che a volte fa un po’ ridere, perché si vanno a fare competizioni con risorse particolarmente scarse. La risorsa popolare. Le autonomie sociali sono un luogo popolare teso a costruire popolarità attraverso l’apertura anche a coloro che non fanno parte delle autonomie sociali, ma che potrebbero essere risorse per le attività delle autonomie sociali. Questa è l’altra cosa che ci si dimentica: a volte c’è una percezione di marginalità, a volte c’è anche un autocompiacimento a stare nella marginalità e a non confrontarsi con tutti, perché confrontarsi con tutti significa qualche volta abbassare il tiro, perché è difficile coinvolgere tutta una popolazione di un territorio. Questa riflessione che ho fatto – vi risparmio una riflessione finale su altre cose forse più specifiche rispetto alla produzione culturale nel terzo settore – non significa dimenticarsi dei fondamentali economici e dimenticarsi della capacità di gestire le organizzazioni; significa essere capaci di essere riconosciuti sul territorio, avere rispettabilità, aver costruito fiducia e essere punti di riferimento, essere quelli che innovano e che propongono cose che gli altri non proporrebbero mai perché economicamente svantaggiose. Allora sì che si diventa risorse!!! Molte organizzazioni di terzo settore e di volontariato sono in crisi. Se fossero davvero risorse per il territorio i cittadini la difenderebbero. Altrimenti chi se ne frega se quell’organizzazione è in crisi? Che mi dà sul territorio? Che tipo di percezione ne ho come cittadino, se non diventa mia, se non la percepisco come un elemento rilevante perché è capitale sociale reale, perché è un momento di confronto, perché è un momento di crescita, perché mi fa vedere il futuro, perché mi dà una mano a vedere il mio futuro e anche il futuro del mio contesto territoriale, perché è risorsa nel senso che ho cercato di descrivere. E adesso vi propongo una citazione dello scrittore premio nobel per la letteratura recentemente scomparso, Josè Saramago «Perché siamo diventati ciechi,» «Non lo so, forse un giorno si arriverà a conoscerne la ragione,» «Vuoi che ti dica cosa penso,» «Parla,» «Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo,» «Ciechi che vedono,» «Ciechi che, pur vedendo, non vedono». La sensazione è che sia necessario andare al di là delle questioni contingenti per riuscire a vedere davvero meglio, perché altrimenti c’è qualcun altro che ci dice e che dice alle organizzazioni del terzo settore quello che devono fare. Ma è anche vero che le risorse dentro al terzo settore ancora ci sono. Grazie.

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Riccardo Mussari - Professore Ordinario di Economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche - Università degli Studi di Siena

Fabbisogni, bisogni e sogni: verso il federalismo fiscale

Desidero innanzitutto rivolgere il mio più sentito ringraziamento alla COPAS e alla sua Presidente per avermi concesso l’opportunità di potervi esporre molto sinteticamente alcune considerazioni sul tema che costituisce oggetto della mia relazione. Prima di cominciare, tengo a dire che le considerazioni oggetto di questo breve intervento sono esclusivamente personali e non attengono e non sono da mettere in alcun modo in relazione col mio ruolo di consulente della Commissione Bicamerale sul federalismo fiscale né tantomeno col mio ruolo di membro del Comitato Scientifico Fabbisogni Standard costituito presso IFEL/ANCI. Fatta questa premessa, desidero fornire immediatamente una breve spiegazione del titolo di questa presentazione “Fabbisogni, bisogni e sogni: verso il federalismo fiscale”. La sequenza in cui ho proposto i tre termini nel titolo, cioè dal più lungo (fabbisogni) al più breve (sogni) vorrebbe, nelle mie intenzioni, rappresentare un messaggio positivo, di speranza. La meta del federalismo fiscale potrebbe diventare, qualora percorressimo in modo tecnicamente e politicamente corretto il cammino tracciato, l’approdo reale di un modello sociale ed economico se non “da sogno” certamente diverso da e migliore di quello esistente. Naturalmente non sempre i sogni sono d’oro, a volte sono incubi. Esiste il rischio che il sogno si trasformi in incubo perché il percorso da compiere è lungo (e nel frattempo le maggioranze politiche in Parlamento sono cambiate) tecnicamente complesso e presenta implicazioni politiche, economiche e sociali rilevantissime. Tutto ciò aumenta il rischio per coloro i quali hanno la responsabilità di condurre a termine questo “lavoro” di non mantenersi nei binari di una corretta analisi e proposta con la conseguenza inevitabile del naufragio dell’intero processo a favore del mantenimento (più o meno) di uno status quo che grande parte del Parlamento non ha valutato positivamente se, come è vero, ha dato il via con foto favorevole o con astensione alla legge delega (Legge 5 maggio 2009, n. 42) che sta alla base del progetto di federalismo fiscale in Italia. Il federalismo, anche fiscale, può essere interpretato in vari modi. Può essere letto come un tentativo di dare risposta a due tipi di problemi che sono propri del mondo contemporaneo: essere troppo piccoli per affrontare questioni molto grandi ed essere troppo grandi per affrontare questioni molto piccole. Il tentativo è quindi quello di individuare soluzioni istituzionali e finanziarie (fiscali) a un’esigenza apparentemente contraddittoria, cioè poter fare le “cose piccole” e le “cose grandi” allo stesso tempo. Non esiste una sola strada per cercare di conseguire questo risultato. Storicamente – il federalismo non è certo una “scoperta” recente – due sono stati i percorsi principali seguiti per conseguire il federalismo. Il primo noto come coming

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together tipico dell’esperienza statunitense, ossia di “comunità” istituzionalmente distinte e geograficamente limitrofe che hanno deciso di unirsi per affrontare insieme le complessità comuni e ridurre la probabilità di risolvere le controversie fra loro utilizzando lo strumento della guerra. Il secondo percorso è noto come holding together ed è riferibile all’esperienza di quelle comunità che stavano già insieme in uno Stato unitario e che, per evitare una disgregazione (potenziale fonte di sciagure, non ultime le guerre) a fronte del sorgere di problemi legati alle difficoltà sopra richiamate, trovano un nuovo modo di interpretarsi, riscrivendo le regole della convivenza e dello sviluppo sociale e economico. Questa seconda prospettiva, con qualche forzatura, potrebbe essere quella dell’Italia. D’altra parte è a tutti noto come nasce questa spinta verso il federalismo sul piano strettamente politico. Pochi hanno valutato come realizzabili concretamente certi disegni secessionisti, ma il progetto di federalismo fiscale associato e conseguente al mutamento del Titolo V della nostra Costituzione (voluto da un governo a maggioranza diversa da quella che approvò la legge 42/2009 e confermato con un referendum) può essere interpretato come una risposta o un tentativo di risposta al “malessere” di una parte importante, e non solo economicamente, del nostro Paese. Naturalmente, il federalismo non necessariamente è democratico: l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche era uno stato federale. D’altra parte, non esiste un solo federalismo né in campo istituzionale né tantomeno in quello fiscale (basti pensare alle diverse soluzioni fiscali adottate in Germania e in Canada). Allo stesso modo non possiamo pensare che il federalismo fiscale sia di per sé garanzia del buono stato salute economica delle comunità locali o di quelle nazionali. Ci sono stati federali che sono andati in default. In ultimo, il federalismo non è l’attribuzione a un’entità sovranazionale da parte di più Stati sovrani del coordinamento delle politiche monetarie, fiscali, economiche o militari (l’attuale Unione Europea). Sul piano fiscale la ragione principale che spiega il favore verso modelli di tipo federale è assegnare ai governi decentrati il potere di coordinare tre variabili fondamentali: le preferenze espresse dalle comunità locali con riguardo ai bisogni che quelle stesse comunità chiedono al governo di soddisfare mediante la produzione pubblica locale (ovvero delle politiche e dei servizi resi alle comunità locali dai rispettivi governi), i livelli quali-quantitativi di quella produzione, i costi di quella produzione il cui finanziamento deriva, in porzione prevalente, dall’ammontare dei tributi che quelle stesse comunità sono disposte a pagare. L’idea sostanziale è quindi quella di raggruppare nello stesso ambito territoriale le scelte politiche, le scelte del fare e le scelte del tassare. Ogni comunità istituzionalmente identificata dovrebbe essere in grado di esprimere e poi controllare e valutare un governo rappresentativo che, essendo il più vicino agli eletti, dovrebbe individuare la migliore combinazione possibile fra soddisfazione dei bisogni espressi localmente, costi della produzione dei servizi necessari e prelievo fiscale.

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Il federalismo fiscale, basandosi su processi decisionali decentrati, determina condizioni utili a ridurre l’omogeneità nell’interpretazione del concetto stesso di bisogno pubblico (fatto salvo naturalmente quanto prescritto dalla Costituzione) e delle scelte riguardo alle risposte tecnico-produttive individuate per soddisfarli. Chi valuta positivamente il federalismo non può essere a favore dell’omogeneità: il federalismo valorizza le differenziazioni delle preferenze e le diversità fra territori; se non c’è differenza è inutile che ci sia il federalismo fiscale e anche istituzionale perché, anche sul piano della mera efficienza economica, funzionerebbe molto meglio un governo centralizzato. Si pensi, per semplificare, alla Sanità in Italia. L’ampia potestà normativa riconosciuta da molto tempo alle Regioni ha determinato modelli diversi che, a prescindere qui da ogni analisi sul loro funzionamento, sono stati più volte sottoposti a valutazioni di tipo politico-elettorale trovando, spesso, riscontro positivo da parte dei cittadini (Lombardia, Toscana). Valorizzare le diversità fra territori significa anche accrescere le opportunità di scelta. Questo è un tema molto delicato e molto complesso che qui posso solo che accennare: in linea di principi il federalismo fiscale dovrebbe favorire la mobilità delle persone e delle imprese e quindi la competizione tra i territori. Questo fenomeno si vede oggi benissimo con riferimento alla delocalizzazione delle imprese a livello internazionale. Alcuni imprenditori hanno preferito spostare le proprie strutture produttive dall’Italia verso Paesi europei (anche UE) ove le condizioni fiscali e contributive rendono più conveniente la produzione da un punto di vista economico e dove, comunque, esiste una manodopera sufficientemente qualificata per il tipo di output che quelle imprese vogliono produrre per soddisfare la domanda espressa dal mercato. Non è peregrino ipotizzare che, mutatis mutandis, fenomeni simili accadano anche a livello locale nell’ambito di uno Stato. Quando i governi decentrati hanno un’ampia potestà di muovere la leva fiscale è ben possibile che famiglie – e sottolineo famiglie – e imprese si muovano a seconda di come i governi di territori diversi si comportano in termini di rapporto tra prelievo fiscale locale e quantità e qualità dei servizi resi. Molti ritengono che il federalismo fiscale stimoli l’innovazione. È un’ipotesi abbastanza verosimile, perché naturalmente attribuire maggiore responsabilità sul piano fiscale a livello locale implica per i governi cercare e trovare soluzioni innovative riguardo alle migliori combinazioni fra le risorse provenienti dal prelievo fiscale e la quantità e la qualità dei servizi richiesti dalle comunità. Mi ripeto: la Sanità in Italia è un caso interessante, perché le soluzioni messe in campo sono abbastanza differenziate e perché soluzioni simili producono risultati non omogenei in territori (Regioni) diversi. Molti – vengo all’ultimo punto – sottolineano come il federalismo fiscale aumenti il potere di controllo da parte delle comunità rafforzando per i governi locali il binomio autonomia e responsabilità per i risultati conseguiti. Ciò implica, già oggi, la necessità per i governi locali e regionali di ricercare costantemente la sintonia con l’ambiente socio-economico che devono governare,

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onde diventa cruciale per quelle amministrazioni affinare la capacità di captare i segnali economici, politici e sociali che vengono dalle comunità territoriali, decodificarli, interpretarli e tradurli in politiche, programmi ed azioni gestionali concrete dei quali è indispensabile rilevare, misurare, valutare e comunicare le performance tanto all’interno che all’esterno. In sostanza, il mutamento del sistema istituzionale sollecita l’esercizio consapevole dell’autonomia (intesa nel senso di riconoscimento del potere di scegliere indirizzi, politiche, programmi e di acquisire e organizzare le risorse, umane, finanziarie e materiali, per realizzare concretamente quanto deciso) e comporta per i governi locali e regionali la progressiva rinuncia a cercare esclusivamente in se stessi o in un’altra amministrazione la giustificazione del proprio esistere. Quanto accennato obbliga a ricercare un’armonia dinamica fra i valori che presiedono alle scelte e all’agire di tutte le componenti (politica ed esecutiva) attive nelle amministrazioni locali e regionali e quelli in cui si riconoscono le componenti della comunità amministrata che, proprio interagendo con esse, ne legittimano e giustificano l’esistenza sotto il profilo economico, sociale e politico. Pertanto, nella prospettiva federale, alla diversa articolazione della scala dei bisogni, conseguente alla modifica delle caratteristiche culturali delle comunità che insistono nei territori governati, il governo locale può e deve rapidamente rispondere non solo adeguando le politiche pubbliche e variando il mix di volumi e qualità dei servizi apprestati direttamente o indirettamente in funzione dell’uso della leva fiscale, ma anche modificando le logiche di programmazione, gestione, rilevazione e rendicontazione in modo da rapportarsi coerentemente all’evoluzione degli scenari socio-economici di riferimento. Tale rispondenza, tuttavia, non può mai darsi per acquisita in modo definitivo e, per tale ragione, parliamo di armonia dinamica fra singola amministrazione ed il suo territorio. Nel carattere di dinamicità del rapporto fra ogni governo e l’ambiente risiede un tratto essenziale dell’impostazione culturale di matrice federale secondo la quale non si possono disgiungere la responsabilità della spesa e la responsabilità dell’entrata non dovendo più essere possibile chiedere ad altri livelli di governo la copertura dei disavanzi finanziari ed economici quando generati da scelte palesemente antieconomiche. L’accrescersi tendenziale della quota di risorse finanziarie che pervengono, in varie forme, dalla comunità governata rende il governo locale e regionale sempre più legato economicamente al proprio territorio, dal quale attinge una significativa porzione dei mezzi monetari che utilizza ed al quale rende politiche e, direttamente e indirettamente, servizi instaurando un rapporto che, pur preservando le dimensioni sociale e politica, acquista progressivamente una forte valenza economica. Ciò contribuisce al progressivo rarefarsi del modello tradizionale di amministrazione pubblica, fortemente sbilanciato verso relazioni verticali e gerarchiche fra amministrazioni di livello diverso che trovavano una solida giustificazione nelle vecchie logiche di reperimento delle risorse finanziarie (spesa storica), a vantaggio di relazioni orizzontali con altre amministrazioni per la definizione di politiche e programmi e

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con le diverse componenti della comunità locale (famiglie, imprese, aziende senza scopo di lucro) non limitate alla sole dimensioni politica e sociale, ma progressivamente estese alla dimensione economica. Qui preme rilevare che la mutata natura del rapporto fra i livelli di governo consegue non solo a mutamenti costituzionali, ma risponde a esigenze pratiche. La necessità di un maggiore raccordo fra governi è, come accennato all’inizio, l’unica concreta opzione disponibile per tentare di affrontare con speranza di successo problemi sociali (povertà, tutela ambientale, integrazione, emigrazione, sicurezza, ecc.) di scala dimensionale tale da rendere inefficace l’azione di un solo livello di governo. Di passaggio, faccio notare che anche il management pubblico si caratterizza sempre più come processo interorganizzativo (intergovernmental management) ispirato a logiche di collaborazione fra livelli di governo uguali o diversi con conseguente superamento dell’ordinamento gerarchico nelle relazioni fra amministrazioni e la progressiva affermazione del concetto di rete istituzionale. Muovere da logiche gerarchiche a logiche di rete implica, a sua volta, la necessità di trovare adeguate forme di coordinamento istituzionale abbandonando le logiche di government per passare a quelle di governance pubblica. Come tutti i “modelli” anche quello del federalismo fiscale presenta delle potenziali criticità. In primo luogo, non è facile associare in modo univoco territori e produzioni di servizi pubblici: questo è un caso molto importante per il nostro Paese, perché in Italia esistono più di 8.000 Comuni di cui circa 650 hanno 15.000 abitanti e oltre. Ovviamente più piccoli sono i territori e più diventa complessa questa “associazione”. Non è infrequente osservare duplicazione di servizi con ridotti livelli di efficienza dovuti a dimensioni non ottimali. Non è un caso che il legislatore si sia mosso anche in questa direzione, cercando di obbligare, in alcune circostanze, le amministrazioni più piccole a trovare delle forme di associazione e di collaborazione per la produzione di beni e servizi pubblici. Ma le resistenze sono fortissime in nome di un particolarismo a me incomprensibile. Possono inoltre verificarsi situazioni caratterizzate da scelte fiscali e finanziarie irresponsabili a livello locale quale conseguenza dell’attribuzione di vasta autonomia in campo tributario. Si tratta di una faccenda molto seria. Se un’amministrazione locale qualsivoglia a seguito di sue scelte antieconomiche rischia il default (si veda il caso notissimo del Comune di Catania) e il governo regionale o centrale la salva, ciò costituirà incentivo per tutte le altre amministrazioni a assumere comportamenti fiscali e finanziari parimenti irresponsabili. Chiarisco: il federalismo fiscale non può automaticamente garantire che tutte le amministrazioni si comporteranno in maniera finanziariamente responsabile. Per contenere il rischio che ciò possa accadere bisogna, da un lato, scrivere regole costituzionali chiarissime sul punto, (ogni governo si paga i suoi debiti, si può indebitare solo al verificarsi di determinate condizioni, le risorse

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acquisite con l’indebitamento devono avere specifiche destinazioni ovvero investimenti); dall’altro lato, bisogna che queste regole siano fatte rispettare in modo assolutamente scrupoloso. Le regole contano, ma la storia conta di più: se la storia dimostra che comunque poi alla fine una soluzione al default di un governo locale si trova da parte di altri livelli di governo, allora si generano potenziali incentivi a comportamenti fiscalmente e finanziariamente irresponsabili. Infine, c’è l’altro grande tema, cioè la massimizzazione dei benefici delle singole comunità senza considerare gli effetti su altre comunità (locali o nazionale). Ci possono essere situazioni in cui aree particolarmente importanti sotto il profilo economico, finanziario e politico possono perseguire politiche fiscali, finanziarie e di produzione tali per cui i cittadini di quella comunità ne traggono beneficio anche a prescindere dagli effetti negativi che potrebbero derivare per altre comunità. D’altro canto, è frequente (più frequente e ben visibile anche in Italia) l’ipotesi che la realizzazione di investimenti e la produzione di servizi pubblici locali finanziati fiscalmente da un dato governo generino effetti positivi (spillovers) per comunità limitrofe le quali godono dei vantaggi di tali spese senza doverne pagare i costi in termini di carico tributario. È indispensabile che il governo centrale identifichi soluzioni volte a internalizzare gli effetti positivi o negativi generati su altre comunità come effetto delle decisioni assunte da governi locali. In sostanza, l’opzione federalista impone, come già ho osservato, la definizione di luoghi istituzionali (che in Italia, per ora, mancano) ove sia possibile definire le soluzioni atte a garantire un ordinato “stare insieme”. Siamo quindi arrivati a una delle questioni centrali poste dall’opzione federalista in campo fiscale: la perequazione. Anzitutto chiariamo che tutti i Paesi (federali e unitari) utilizzano i trasferimenti tra livelli di governo. Nel caso degli Stati federali i trasferimenti si usano per almeno due tipi di ragioni: internalizzare i benefici prodotti a vantaggio di altre comunità per favorire il raggiungimento di livelli di efficienza della produzione (gli spillovers richiamati in precedenza); per garantire l’equità, ovvero quando si muove dal principio che tutti i cittadini debbano godere di “pari trattamento” qualunque sia il territorio in cui sono si trovino a vivere. Per ragioni di tempo, non insisto sulla prima delle motivazioni e vado rapidamente alle questioni concernenti l’equità. Per favorire l’equità ci si può valere, quindi, di trasferimenti fra livelli di governo. Questi trasferimenti potrebbero servire a equalizzare le capacità fiscali rispetto a un livello di tassazione media (ci sono territori più ricchi e territori più poveri: è chiaro che, dove ci sono più reddito e più ingenti patrimoni, la ricchezza che può essere prelevata in termini fiscali è maggiore rispetto a territori dove ci sono pochi patrimoni e poco reddito –

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ipotizzando di avere neutralizzato l’evasione fiscale, naturalmente). Quindi i trasferimenti potrebbero servire a compensare, rispetto naturalmente un’aliquota standard, i territori fiscalmente meno fortunati rispetto a quelli più fortunati. I trasferimenti potrebbero servire a consentire la copertura del fabbisogno standard di servizi a costo standard. In tale ipotesi. si determina un fabbisogno standard di prestazioni (quantità e qualità dei servizi da rendere) facendo riferimento alla domanda di servizio che dovremmo soddisfare date le condizioni strutturali ed economiche di un territorio a un costo standard ovvero a un costo che rifletta condizioni di efficienza adeguate e raggiungibili. La perequazione può riguardare anche la copertura dei deficit infrastrutturali, con trasferimenti destinati non tanto alla fruizione dei beni, ma alla realizzazione di investimenti cioè di infrastrutture (ponti, strade, ferrovie, scuole, ospedali, etc.). Che succede in Italia? Il percorso è stato avviato con la già richiamata legge delega 5 maggio 2009, n. 42 (LD). È una legge molto complessa non priva di contraddizioni e che, come spesso accade nelle leggi delega, lasciava al Governo la strada aperta a più soluzioni legislative (forse per questa ragione la LD ricevette in Parlamento, oltre al voto favorevole della maggioranza di allora, anche l’astensione del Partito Democratico?). Sono già stati otto decreti attuativi a seguito della LD. Il punto dal quale muove la complessa costruzione del federalismo fiscale è il superamento del criterio della spesa storica per la quantificazione dei trasferimenti. Superare la spesa storica significa che le somme da trasferite dal governo centrale agli altri livelli di governo non dovranno più essere quantificate partendo da quanto è stato trasferito l’anno precedente. La spesa storica è il risultato di una sorta di stratificazione della quale non si riesce più a comprendere la motivazione economica. Si vuole superare questo criterio perché la spesa storica non ha alcun legame con la qualità e la quantità dei servizi forniti da chi è beneficiario di quei trasferimenti, dipende solo dalla capacità contrattuale che hanno avuto in passato i governi decentrati. La LD propone il criterio del costo standard e del fabbisogno standard. Data la sua centralità nel disegno del nuovo sistema fiscale, la perequazione è diventato il tema di maggiore interesse tanto per gli studiosi che per gli operatori. Quel che rende interessante il caso italiano è la sostanziale modifica delle finalità di questi fondi rispetto al regime attuale, la loro modalità di quantificazione e di riparto. L’articolo 13 della LD regola il funzionamento a regime (ovvero trascorso il periodo transitorio) dei fondi perequativi e definisce i principi in base ai quali quantificarne l’ammontare e definirne le modalità di riparto. In particolare, la LD istituisce una correlazione fra tipologie di spesa e modalità di copertura delle stesse come riportato sinteticamente nella tabella seguente.

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Tipologia di spesa4 Modalità di copertura Spese per funzioni fondamentali e livelli essenziali delle prestazioni eventualmente da esse implicate

Finanziamento integrale in base al fabbisogno standard, con tributi propri, da compartecipazioni al gettito di tributi erariali e regionali, da addizionali a tali tributi e dal fondo perequativo.

Spese per altre funzioni Gettito dei tributi propri, con compartecipazioni al gettito di tributi e con il fondo perequativo basato sulla capacità fiscale per abitante.

Per i Comuni, sono funzioni fondamentali: amministrazione, gestione e controllo per il 70 per cento delle spese come certificate dall'ultimo conto del bilancio disponibile alla data di entrata in vigore della LD; polizia locale; istruzione pubblica; viabilità e trasporti; gestione del territorio e dell’ambiente; settore sociale. Le funzioni sopra richiamate coincidono con quelle utilizzate per classificare le spese dei Comuni tanto nel bilancio di previsione che nel consuntivo. Ad ogni funzione, quindi, si riferiscono le spese necessarie per la produzione di più servizi pubblici locali. Ad esempio, alla Funzione Polizia Locale si riconducono le spese per servizi quali: servizi di polizia stradale, servizi di polizia amministrativa; attività di polizia giudiziaria, controlli commerciali e ambientali, ecc. Mentre la maggior parte dei servizi riconducibili alla funzione amministrazione, gestione e controllo sono indiretti (organi istituzionali, servizio personale, gestione finanziaria, segreteria generale, etc.), in tutte le altre funzioni fondamentali ricadono spese per i servizi pubblici locali diretti di maggiore significatività sociale. É proprio la rilevanza di questi servizi per il benessere e la prosperità delle comunità locali che rende importante comprendere come sarà determinato l'ammontare dei costi e dei fabbisogni standard delle funzioni fondamentali. D'altra parte, è la necessità di garantire il finanziamento integrale delle funzioni richiamate (prevista anche nella Costituzione) che ha reso necessario definire nella LD le regole per i fondi di perequazione: criteri per la quantificazione, regole per la ripartizione, collocazione nei bilanci. La LD stabilisce che per le funzioni fondamentali, l’entità della perequazione per ciascun livello di governo deve essere pari alla differenza tra il fabbisogno standard di spesa (corrente e in conto capitale) inerente all’esercizio delle medesime funzioni e il totale delle entrate standardizzate “di applicazione generale”, non includendo le imposte di scopo, quelle di soggiorno e di transito, e gli interventi speciali di cui all’articolo 119 della Costituzione. 4 La LD menziona anche le spese finanziate con i contributi speciali, con i finanziamenti dell'Unione europea

e con i cofinanziamenti nazionali di cui all'articolo 16 della LD medesima.

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Per i Comuni il Fondo perequativo dovrebbe essere dato dalla somma dei fabbisogni standard di spesa (corrente e in conto capitale), al netto delle entrate standardizzate relative ai seguenti tributi specifici: compartecipazione all’IVA, compartecipazione all’IRPEF, imposizione sugli immobili (IMU a regime). Si noti quindi che il calcolo dei costi e dei fabbisogni standard è il presupposto necessario ma non sufficiente per quantificare i fondi perequativi perché occorre calcolare anche le entrate standardizzate. La questione non è secondaria e va segnalata poiché la maggior parte degli sforzi e dell'attenzione sembrano concentrarsi esclusivamente su costi e fabbisogni standard mentre la quantificazione delle entrate tributarie standard comunali non occupa, a quanto mi risulta, una posizione di rilievo nell’agenda tecnica. Dovendo tenersi fermo il principio che non devono derivare nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato oltre a quelli stabiliti dalla legislazione vigente, è certo che il totale del Fondo sarà definito a livello di governo centrale - per singoli livelli di governo - tenendo conto dei vincoli complessivi di finanza pubblica. Ciò chiarito, qualora le risorse finanziarie provenienti dai tributi richiamati si rilevassero insufficienti a far fronte ai fabbisogni standard, ogni Comune potrebbe fare ricorso a una quota dello specifico fondo perequativo. In merito ai criteri di ripartizione del fondo perequativo tra i Comuni, la LD stabilisce che la ripartizione debba avvenire in base a: un indicatore di fabbisogno finanziario calcolato come differenza tra il valore standardizzato della spesa corrente al netto degli interessi e il valore standardizzato del gettito dei tributi ed entrate proprie di applicazione generale; indicatori di fabbisogno infrastrutturale in coerenza con la programmazione regionale di settore, per il finanziamento della spesa in conto capitale. Quanto ai profili di collocazione del fondo nei bilanci pubblici, è prevista l'istituzione nel bilancio delle Regioni di due fondi, uno a favore dei Comuni, l'altro a favore delle Province e delle Città metropolitane. Questi fondi, a loro volta, sono sostenuti da un fondo perequativo dello Stato alimentato dalla fiscalità generale con indicazione separata degli stanziamenti per le diverse tipologie di enti, a titolo di concorso per il finanziamento delle funzioni da loro svolte. Le disposizioni in materia di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard dei Comuni sono state definite nel Decreto Legislativo 26 novembre 2010, n. 216, uno dei decreti legislativi successivi alla LD. Il 2012 sarà l'anno di avvio della fase transitoria cioè quello dal quale si abbandona il criterio della spesa storica. Con un processo graduale i fabbisogni standard relativi alle sei funzioni fondamentali entreranno in vigore nei cinque anni successivi. La completa entrata a regime del “nuovo sistema” è prevista per il 2017.

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La determinazione dei costi e fabbisogni standard è affidata alla Società per gli studi di settore (Sose s.p.a.), società partecipata dal Ministero dell'Economia e delle Finanze (88%) e dalla Banca D'Italia (12%), che si avvale della collaborazione scientifica dell'Istituto per la finanza e per l'economia locale (IFEL), fondazione dell'Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (ANCI). Per stimare costi e fabbisogni standard delle funzioni fondamentali dei Comuni i soggetti individuati dal governo fanno ricorso a modelli statistici ed econometrici alimentati da informazioni che, sostanzialmente, derivano da tre fonti:

a) certificato di conto consuntivo dei Comuni; b) questionari relativi a ciascuna funzione fondamentale che ogni Comune deve

compilare; c) ulteriori informazioni desumibili da fonti statistiche ufficiali (ISTAT).

Si è scelto di coinvolgere tutti i Comuni nel processo di raccolta delle informazioni indispensabili alla quantificazione delle stime (approccio bottom-up) sollecitandoli a fornire, attraverso i questionari, un insieme di informazioni, contabili e non, molto dettagliate. IFEL supporta i Comuni attraverso un'ampia attività d’informazione divulgazione su tutto il territorio nazionale e fornendo assistenza capillare alla compilazione dei questionari attraverso call center. L'approccio scelto è mirato a rendere il processo di determinazione dei costi e fabbisogni standard quanto più trasparente e partecipato possibile in vista dei significativi effetti che la messa a punto del nuovo sistema potrebbe generare. Ciò ha comportato la rinuncia alla più “comoda” opzione di calcolare le stime soltanto sula base di informazioni (contabili e non) di tipo aggregato. Avendo scelto di determinare i fabbisogni di spesa delle funzioni fondamentali dei Comuni sulla base dei costi standard i dati contabili di dettaglio sono una fonte di informazione preziosa e irrinunciabile. Nonostante, come ricordato, ci sia una coincidenza fra le funzioni fondamentali richiamate nella LD e le funzioni come aggregato di spesa nei bilanci dei Comuni, non sempre il certificato di conto consuntivo si rivela essere una base informativa sufficiente a calcolare il costo standard per ogni singola funzione. Data la sua natura di documento ufficiale, il certificato certamente attesta un totale non alterabile della spesa sostenuta ogni anno da ciascun Comune, ma non sempre in quel documento le spese sono attribuite con adeguata precisione alle singole funzioni. Sostanzialmente, alcune tipologie di spese che dovrebbero essere attribuite a una funzione, sono contabilizzate in altre funzioni. Ciò accade sovente per spese quali: personale, utenze, postali, pulizie, manutenzione, ecc.). Ciò spiega una delle ragioni fondamentali per le quali è utilizzato il questionario ovvero per consentire ai singoli Comuni di ricostruire il dato di spesa analitico per ciascuna

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funzione qualora una parte delle spese a essa attribuibili siano state imputate ad una Funzione diversa. Ovviamente, al termine di queste riallocazione delle spese fra funzioni, il totale della spesa dovrà essere uguale a quello attestato dal certificato di conto consuntivo. Il questionario consente inoltre di acquisire altre informazioni, strutturali e di dettaglio, riguardo i servizi ricompresi in ogni singola funzione indagata e difficilmente reperibili da fonti statistiche ufficiali. Ad esempio, per la Funzione Polizia Locale, ai Comuni è stato chiesto di indicare: l’estensione delle aree pedonali; il numero di giornate annue di mercati; il numero degli impianti semaforici; la superficie dei locali adibiti a ufficio per la polizia locale; numero di sportelli per il pubblico; ecc. La necessità di ricostruzione ex post del dato analitico di spesa per ciascuna funzione è uno dei molti segnali della necessità di riformare la contabilità pubblica in vista della completa attuazione del federalismo fiscale. L'esigenza richiamata non è sfuggita al legislatore che ha definito i principi della riforma contabile nella LD. La materia è stata oggetto di successivi interventi normativi e già nel 2012 partirà un biennio di sperimentazione del nuovo sistema di contabilità e bilancio che riguarderà Regioni e Enti Locali. In ultimo, vorrei mettere in risalto che:

• le stime del fabbisogno standard si stanno eseguendo senza che siano stati definiti i livelli essenziali delle prestazioni o comunque degli “indicatori di bisogno” similari;

• nelle stime si sta tenendo conto in modo particolare dell’eterogeneità delle modalità di erogazione alternative del servizio (gestione in economia, esternalizzazione).

Voglio chiudere il mio intervento con una considerazione “meno tecnica”. Può sembrare pazzesco che nel bel mezzo di una crisi finanziaria tanto profonda da costringerci a un “governo tecnico” supportato da una maggioranza parlamentare politicamente assai improbabile, ci siano persone come me che si impegnano a approfondire questioni come quelle che vi ho rapidamente accennato. Personalmente invece sono dell’idea che questo sia il momento giusto, per assurdo, per accelerare questa riforma. In momenti di abbondanza finanziaria quest’esercizio sarebbe risultato meno responsabilizzante, naturalmente più facile da fare ma meno responsabilizzante. Penso che la crisi finanziaria, da questo punto di vista, possa diventare una straordinaria opportunità, perché proprio quando le condizioni finanziarie sono al limite è possibile fare comprendere la necessità di cambiamenti che impongono una maggiore responsabilizzazione per l’uso delle risorse finanziarie raccolte tramite prelievo fiscale. Questo, infatti, dovrebbe essere l’effetto ultimo del federalismo fiscale. Tutto ciò mi pare possibile e auspicabile, ma a una sola condizione e la condizione è che il federalismo fiscale non sia artificiosamente trasformato in egoismo particolaristico, in frammentazione territoriale, in negazione della solidarietà

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fra e nelle comunità. Se così fosse, non solo tradiremmo lo spirito più autentico del federalismo fiscale (coming together/holding together) ma favoriremmo una disgregazione civile, politica e economica che ci proietterebbe fuori dalla Storia. Vi ringrazio per l’attenzione.

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Marco Manneschi – Presidente della Prima Commissione consiliare “Affari istituzionali, programmazione e bilancio” del Consiglio regionale della Toscana Grazie e buongiorno a tutti. Ho ascoltato con molto interesse le relazioni introduttive che hanno trattato con grande accuratezza i temi assegnati e mi impongono di rivedere l’intervento che avevo preparato. Anzitutto dobbiamo dire che la nostra piccola grande regione vive un momento molto particolare, perché nel contesto della crisi finanziaria deve sostanzialmente ripensare le proprie politiche e il welfare. Il sistema regionale si fonda su una forte interazione con le autonomie locali e con il governo centrale, tanto che nel corso degli anni sono state destinate risorse consistenti per welfare sociale. Questo sistema va ripensato profondamente, perché le risorse degli anni passati non ci sono più, sicuramente non ci sono tutti i trasferimenti ai quali la Regione Toscana era abituata, e che consentivano di svolgere una serie di azioni di grande qualità e profondità nel tessuto sociale. Quando ogni anno il governatore Rossi annuncia i tagli della Finanziaria statale non dobbiamo pensare che ci sia solo un contenuto numerico, i tagli ai trasferimenti sulle azioni sociali affondano nella carne viva della qualità dei servizi che vengono offerti ai cittadini. Ciò richiederebbe un’impostazione nuova da parte della nostra regione che però al momento non intravedo. Il primo elemento che voglio sottolineare è che mancano ancora delle azioni di programmazione e la consapevolezza di quello che sta accadendo e che è già accaduto. Dico questo perché nel modesto osservatorio osservatorio rappresentato dalla Prima Commissione Consiliare, dove vedo transitare molte Leggi che interessano il livello regionale, noto che ancora oggi ci comportiamo come se non fosse arrivata la crisi finanziaria. Giusto ieri abbiamo licenziato una variazione alla legge di bilancio per il 2011, previsioni 2011/2013 e alla Finanziaria del 2011 che prevede l’erogazione di una cifra molto consistente (20 milioni di Euro) per le attività e le iniziative collaterali ai mondiali di ciclismo 2013. Cito quest’esempio per rendere l’idea, non per parlare di un argomento fuori tema. In realtà attraverso questi interventi – il mondiale di ciclismo è un elemento importante che richiede una dedizione e un’attenzione straordinaria – con questo finanziamento straordinario si provvede a effettuare interventi di rifacimento stradale di infrastrutture che non sempre sono pertinenti. Analizzando i piani finanziari vediamo che, per esempio, il Comune di Firenze è un percettore della stragrande maggioranza di queste risorse, quando sappiamo che i mondiali si svolgono in un’altra località: Firenze farà la sua parte, però il luogo dove si svolgono i mondiali è altrove. Faccio un altro esempio. L’anno scorso abbiamo salvato il Comune di Firenze dal dissesto finanziario – scusate se insisto, ma è un fatto oggettivo – perché abbiamo anticipato il pagamento di una somma, che effettivamente la Regione Toscana doveva in base ad atti giuridicamente vincolanti,

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per il riequilibrio di quote inerenti la Fortezza da Basso e altri immobili. Ora si dà il caso che la Regione poteva attendere, perché non era obbligata a farlo entro il 2010, l’abbiamo dovuto fare di corsa in Finanziaria perché qualcuno sapeva (io l’ho scoperto a cose fatte ma non importa) che il Comune di Firenze non avrebbe chiuso il bilancio. Altre amministrazioni si trovano in difficoltà, non è che interveniamo su tutte, alcune le lasciamo andare al loro triste destino, qualcuna negli anni prossimi dichiarerà il dissesto finanziario, qualcuna l’ha già dichiarato. Voglio dire, quello che sta accadendo – e mi riallaccio a quello che diceva il professor Mussari – è che le insorgenti difficoltà finanziarie determinano un atteggiamento completamente diverso. Il Sindaco Renzi è andato a trovare il Presidente Berlusconi quasi nottetempo, di nascosto, per cercare di strappare qualche beneficio per Firenze. Comprensibilmente: capisco il Sindaco della più importante città della Toscana, lo capisco benissimo, non lo approvo, però capisco che ognuno cerchi di darsi da fare come può, ma è proprio il “ si salvi chi può” delle Istituzioni che affonda tutti e allora torniamo al tema. Poiché le risorse sono minori è assolutamente necessario che i soggetti che collaborano alla definizione delle politiche di programmazione – e il Copas è uno di questi – pongano il problema della corretta distribuzione delle risorse. Costituisce un problema centrale se le risorse vengono impiegate e orientate in modo completamente nuovo, ripensandone il modello di erogazione, perché se continuiamo così produrremo una Toscana a tre velocità, dove ci saranno anzitutto le grandi città, i poli di attrazione, che hanno un forte potere contrattuale. In seconda fila quelle città e quelle comunità che possono rappresentare delle emergenze (penso ai problemi della montagna: è chiaro che se non si sta attenti alla montagna accade quello che è successo ad Aulla e via discorrendo), l’Italia è il Paese della cultura dell’emergenza (attraverso le emergenze, ad esempio, si saltano le procedure di gara, si hanno più risorse a disposizione). E poi la terza fascia è quella dei dimenticati e cominciano a crescere, questi dimenticati! Nella nostra regione possiamo affrontare questa problematica con simili soluzioni? Io credo che non sia possibile, penso che il silenzio ovattato che finora ha caratterizzato il dibattito pubblico intorno a questi temi cadrà molto presto, perché molte comunità non ci staranno a chiedere l’elemosina e chiederanno dei criteri oggettivi di ripartizione delle risorse. E qui viene la vera scommessa, che è la capacità di orientare la spesa premiando i comportamenti virtuosi, premiando la qualità degli interventi. Questo nuovo orientamento non si limita a valorizzare la redistribuzione, ma tende a premiare chi si impegna e riesce a raggiungere dei risultati. In questo contesto il ruolo delle autonomie sociali rispetto alla costruzione e al mantenimento di un livello accettabile di benessere diffuso, di benessere sociale, è ovviamente fondamentale: non solo, è lo strumento per consentire che la politica sociale non venga calata dall’alto, ma venga costruita in modo orizzontale, dal basso, attraverso coloro i quali sono le prime cellule di soccorso alle problematiche che il territorio presenta. Le autonomie sociali

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devono trovare il coraggio innanzitutto per denunciare le ingiustizie che perdurano: anche nella nostra regione, non è che funzioni tutto bene, affatto. Il vostro dovere è quello di tirare fuori i problemi, di fare pressione affrontando alcune priorità. Mi posso immaginare che ce ne siano alcune come le procedure di affidamento dei servizi, dove è chiaro che la crisi finanziaria induce le amministrazioni a basarsi sul prezzo, sull’offerta più bassa. Occorre invece esigere un altro criterio, perché l’offerta più bassa crea un dumping sociale tra gli stessi soggetti attori e tra l’altro, visto che il terzo settore è stato forse l’unico principale settore che ha creato occupazione in questi anni, diventa uno strumento micidiale per le infiltrazioni mafiose, camorristiche e ‘ndranghetistiche, perché è chiaro che possono nascere facilmente imprese e soggetti che operano nel terzo settore e che ricorrono a capitali illeciti. Non è semplice scovarli, questi fenomeni. La competizione al massimo ribasso agevola oggettivamente la presenza di capitali illeciti che hanno necessità di operare azioni di riciclaggio. Direte “ oddio, che cosa viene a dire il Presidente della Prima Commissione Consiliare?” Vengo a dire che bisogna aprire gli occhi, in Toscana siamo abituati a aprire gli occhi, non siamo gente che si chiude volentieri in casa e che sta volentieri zitta. La paura sociale determina dei fenomeni che sono difficilmente calcolabili sulle persone, sulla cultura delle persone, sull’approccio rispetto alle istituzioni, sulla paura di perdere il posto, di non trovare il posto, di non avere il figlio che può avere un lavoro. Determina uno stato di soggezione, di sudditanza che può diventare anche generale, quando poi le condizioni sono cambiate: ecco perché attualmente il terzo settore, che invece è un settore ricco, vivo, pieno anche di esperienze di volontariato, esperienze che sono fondamentali per garantirne un approccio etico corretto rispetto a queste problematiche, il terzo settore dicevo è un elemento fondante in questa azione per garantire che la Toscana sia un luogo dove la criminalità organizzata non avrà futuro. Occorre riconoscere che le mafie si sono inserite molto agevolmente in alcuni settori economici e in alcuni settori sono in grado di condizionare pesantemente le istituzioni. In questo quadro è chiaro che più i processi di spesa e di allocazione delle risorse sono facilmente controllabili e più si ha la possibilità per i cittadini di controllare e di contribuire a orientare le politiche pubbliche nella scelta dei servizi da difendere e da mantenere, ma anche da estendere. Questo richiede una mentalità nuova. Qualche giorno fa ho affrontato una discussione sulla bozza di documento sul piano sanitario e piano sociale integrato: negli anni prossimi assisteremo a una crescita della domanda e una contrazione di risorse. La crescita della domanda di prestazioni assistenziali e sanitarie deriva dal fatto che la popolazione toscana è tendenzialmente sempre più anziana. I flussi migratori compensano solo parzialmente questa crescita, comunque c’è un numero di anziani crescente e la contrazione di risorse è inevitabile, perché nonostante la dichiarazione permanente di mantenere le risorse per il sociale è evidente che questo è un proposito che si scontra con le necessità obiettive. È un’occasione per pulire i bilanci da spese talvolta inefficienti e

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inutili, ma alla fine la dinamica del costo standard porterà inevitabilmente a una contrazione di risorse. E allora credo che sia necessario affrontare la programmazione – ed anche qui il vostro ruolo è fondamentale – con delle proposte innovative sulla capacità di mettere in campo delle politiche attive in materia che riescano a far leva non solo su una migliore scelta delle spese pubbliche non solo sul ruolo riconquistabile da parte del soggetto principale nel settore sociale, che è la famiglia (su questo occorrerebbe aprire una riflessione più coraggiosa, perché cosa si intende per famiglia è oggetto di forte discussione. Occorre capire che oggi la famiglia non rientra più nel concetto tradizionale, ma occorre pensare alla famiglia di fatto, alla famiglia affettiva). Non ha senso escludere determinate prestazioni in favore delle famiglie di fatto, comunque siano composte, e poi pretendere che cresca il benessere sociale. È difficile chiedere e non offrire al tempo stesso una forma di riconoscimento e di incoraggiamento, è difficile pretendere anche dalle famiglie uno sforzo ulteriore, cosa non semplice nel momento in cui si va a chiedere un forte impegno nella cura di alcune fasi della vita (pensiamo alla cura degli anziani). Occorre pertanto una forte interazione fra l’attività professionale del terzo settore, l’attività istituzionale, che dovrebbe essere sempre più di prevenzione e di orientamento e l’attività del volontariato. Ritengo che questa sia la strada da percorrere come elemento della programmazione regionale, condiviso da tutto il sistema istituzionale toscano. Vi ringrazio, per aver ascoltato il mio contributo e vi auguro buon lavoro.

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Firenze 15 dicembre 2011

Welfare: territorio, sussidiarietà, partecipazione.

Il ruolo delle autonomie sociali

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Patrizio Petrucci - Presidente CESVOT Intanto grazie dell’invito e buongiorno a tutti. Vorrei partire proprio da quello che diceva Vincenzo alla fine del suo intervento. Il Cesvot ha sentito, soprattutto in questo ultimo periodo, l’esigenza di ripensare un po’ la sua attività. Così quest’anno abbiamo deciso di andare oltre il solito “Piano settori di attività”, con interventi a sostegno delle associazioni, come la formazione, ecc. Abbiamo cioè cominciato a pensare il Cesvot come ad uno strumento che aiuti a riflettere tutti insieme su quello che sta accadendo. A me sembra, infatti, che la velocità delle dinamiche che si sono messe in moto in questi ultimi mesi, in seguito alla crisi economica e finanziaria, richiedano una riflessione sempre più corale, a cui partecipino sempre più soggetti. L’iniziativa a cui accennava Vincenzo era il seminario che abbiamo organizzato a settembre a Montecatini, un seminario a cui avevamo invitato ovviamente il mondo del volontariato, ma anche il Forum del terzo settore e poi le Amministrazioni regionali, provinciali e comunali, così da discutere insieme sull’idea di un nuovo sistema di welfare. Da allora, devo dire che le preoccupazioni sono aumentate, non sono diminuite e cercherò di spiegare velocemente perché. A quell’appuntamento avevamo presentato lo studio sulla situazione del volontariato in Toscana che aveva fatto per noi l’Università di Pisa. Da quello studio emergeva - e schematizzo per non rubare tempo – che abbiamo sempre più grandi associazioni collegate al sistema degli interventi istituzionali, prevalentemente in ambito sociale e sanitario, e poi un vasto mondo che sta crescendo sul modello europeo di piccole e piccolissime associazioni che fanno cose importanti ma più legate alla propria specificità e che dialogano con difficoltà con gli altri soggetti e mondi che sentono lontanissimi, come le istituzioni. Questo mondo rappresenta già al 30% del volontariato toscano, quindi non una parte residuale ma una parte importante che, tra l’altro, è in crescita perché è una forma moderna di volontariato. Inoltre è un mondo molto dinamico e parte di questa dinamicità è prodotta dall’alta presenza femminile. Questo dato ci ha sollecitato ad indagare meglio la presenza femminile nelle attività di volontariato e a chiederci come le donne si posizionino all’interno dei quadri dirigenti del volontariato, così come in quelli della rappresentanza politica. Sono due mondi che noi cerchiamo di tenere insieme perché a me sembra che la complessità della sfida non ci permetta di perdere nessuno, di lasciare nessuno indietro. Ma perché le preoccupazione sono aumentate? Primo: questo Paese sta vivendo non solo una crisi economica ma una disgregazione sociale importante e gli episodi più eclatanti sono sotto gli occhi di tutti. Manca coesione sociale.

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Il volontariato moderno si sviluppa in Italia negli anni ‘75–‘80 perché era collegato a una idea di società civile che affermava una società nuova che andava oltre il primato della economia. Questa era l’idea che aveva mosso il mondo del volontariato e il concetto di ‘servizio’ in quest’ottica ideale era anche uno strumento per creare coesione sociale. Come ci insegnava il mondo cattolico, “ripartire dagli ultimi per costruire la società” o come dicevano i laici quando parlavano di “giustizia sociale”, di affermazione dei diritti. Insomma avevamo davanti un grande orizzonte ideale… Poi piano, piano - anche per colpa del volontariato - abbiamo perso questa tensione ideale, che è a poco a poco è finita sullo sfondo. Altrimenti non si capisce perché, pur avendo milioni di volontari, la coesione sociale sia così disgregata. Significa che qualcosa non ha funzionato e quindi dobbiamo ripartire da qui per capire…. Faccio da sempre parte del mondo del volontariato e quindi so che anche noi abbiamo commesso errori: penso ad esempio alle grandi organizzazioni che stanno andando in crisi finanziaria, in crisi organizzativa. Alcune hanno aperto vertenze con il personale dipendente, altre stanno passando all’impresa sociale. Il nostro primo problema è come affrontiamo questa crisi ‘ideale’ che non è solo nostra perché fa parte di una più grande e profonda crisi ‘morale’, come spesso ci ricorda il presidente Napolitano. Il secondo problema è la crisi economico-finanziaria, perché contribuisce a sgretolare i legami sociali e taglia le gambe a tanta attività del volontariato. I tagli agli enti locali, alle regioni, alle politiche nazionali portano una drastica riduzione di risorse al mondo del volontariato, soprattutto a quello che è impegnato in servizi fondamentali, come il trasporto sanitario. Alcuni enti locali hanno anche iniziato ad utilizzare il volontariato per sostituire il personale dipendente quando hanno finito il budget degli straordinari. Alcuni Comuni dicono “il volontariato non costa, utilizziamo il volontariato”. Allora io credo che il volontariato debba riflettere, ma anche gli enti locali devono riflettere, perché tutti dobbiamo chiederci dove ci porterà questo meccanismo. Se il mondo del volontariato scende su questo piano, quando la crisi sarà superata - come tutte le crisi cicliche - il volontariato si ritroverà senza identità, senza ruolo, senza specificità... A Montecatini il prof. Matteo Villa ci invitava a superare queste concezioni, ovvero a pensare che si possa continuare a fare le stesse cose con minori risorse. Il problema, infatti, non è tanto la crisi in sé ma come affrontiamo i suoi effetti, come reagiamo. Io credo che proprio adesso ci sia bisogno di innovazione ed è per questo che dobbiamo riflettere su che tipo di welfare vogliamo andare a ricostruire. Quella che viviamo oggi, infatti, è una lunga fase di transizione che necessità di un confronto serrato tra

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istituzioni e mondo del terzo settore, di una seria e approfondita riflessione su quali modelli vogliamo tenere, ripensare o buttare. Inoltre dobbiamo capire che accanto alla crisi economica c’è quella finanziaria e ciò significa che presto al mondo del volontariato mancheranno anche le risorse delle fondazioni bancarie. Le fondazioni, infatti, vogliono rivedere l’accordo nazionale che come centri di servizio avevamo raggiunto. Non dico nulla che non sia sotto gli occhi di tutti… Il Monte dei Paschi, che è la seconda fondazione in Italia, ha difficoltà evidenti, difficoltà che si ripercuotono sulle risorse destinate ai centri servizio e al volontariato. Tutte le fondazioni dicono per 4-5 anni non potranno destinare risorse al territorio… E poi ci sono settori che ne risentono più di altri. Penso ai beni culturali, al mondo della cultura e al volontariato ad essa connesso. Qui i finanziamenti sono stati completamente cancellati perché si tende a privilegiare quello che è considerato essenziale come il sociale e il sanitario. Ci sono dei settori di intervento del volontariato e del terzo settore che rischiano di scomparire. Insomma una situazione complessa alla quale voglio aggiungere un’altra considerazione. Non so se in sala c’è qualcuno dell’Auser, perché da tempo mi chiedo dove ci porterà questo discorso dell’innalzamento della età pensionabile, non ora ma tra 5 anni. Cosa comporterà per il mondo del volontariato che molto si fonda sull’impegno di chi è in pensione? E come facciamo a coinvolgere i giovani quando sono tutti impegnati a cercare lavoro o a lavorare in situazioni di grande disagio e precarietà? Anche lo scenario ‘demografico’ sta cambiando e non possiamo stare qui a guardare ma dobbiamo capire e muoverci di conseguenza, trovare risposte a nuove domande... Una possibile risposta che è emersa a Montecatini e che credo qui possa trovare nuova forza è la necessità di stringere nuove alleanze con le istituzioni. Perché da sole nemmeno le istituzioni ce la possono fare. Soprattutto in Toscana dove il volontariato gioca un ruolo importante nella società e nel sistema di welfare. Voglio chiudere riprendendo quello che diceva Monaci. Guardando anche a quello che sta avvenendo nelle Società della salute, non possiamo accettare che al volontariato si chiedano interventi e attività già decise in altre sedi. Dobbiamo cioè chiedere di essere coinvolti in modo reale e concreto. Dobbiamo chiedere percorsi di partecipazione reale alla costruzione dei piani. Non possiamo arrivare all’ultimo giorno e davanti ad un piano di 452 pagine ci viene detto: “questo è il piano, cosa ne pensi?”. Questo non va più bene… In una vera ‘alleanza’, si costruisce insieme, ognuno con le proprie specificità e competenze ma insieme. Anche come Cesvot abbiamo cominciato. Dopo il seminario di Montecatini ho voluto aprire al nostro interno un percorso di partecipazione a tutti i livelli. So di non aver portato molto ottimismo, ma questa è la realtà. Proprio due giorni fa ero ad una riunione con il Coge, l’organismo che controlla il Cesvot, a cui partecipavano

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anche rappresentanti delle banche toscane e tutti concordavano nel dire che questa non sarà una crisi di breve durata. Dobbiamo prepararci a sostenere una crisi che non si chiuderà domani e nemmeno tra un anno o due anni.

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Rodolfo Lewanski - Autorità regionale per la partecipazione della Toscana Ringrazio dell’invito; io sono un po’ un outsider nel senso che non mi occupo di welfare né di sussidiarietà. Peraltro COPAS e ARP sono in un certo senso organismi ‘cugini’ nel senso che entrambi dipendono dal Consiglio Regionale, e sono stati istituiti più o meno nello stesso anno, mi pare, ovvero nel 2007. L’ARP però rappresenta un fenomeno ‘particolare’ nell’ordinamento toscano perché è un organo monocratico. Il compito dell’ARP consiste nel dare attuazione a una specifica legge regionale, ovvero la legge 69/2007. Forse alcuni dei presenti la conoscono essendo stati in qualche modo coinvolti nei processi partecipativi ‘innescati’ dalla legge in questione. Spero che ciò che dirò sia di interesse per chi non conosce ancora questa legge, molto innovativa e originale. Parto da un assunto e cioè che la democrazia rappresentativa oggi è in difficoltà; non si tratta solo dell’Italia; la considerazione si applica a molte paesi con regimi politici democratici: dal Giappone, all’India, agli Stati Uniti, a gran parte d’Europa c’è uno scollamento nei rapporti di fiducia tra cittadini e sistema politico. Il problema riguarda anche la Toscana, una regione storicamente ricca di ‘capitale sociale’, come mostrano le analisi di Robert Putnam e di Roberto Cartocci; tale capitale tuttavia è in via di erosione: alle ultime elezioni regionali è andato a votare poco più del 60% dei cittadini toscani; si tratta del turnout elettorale più basso d’Italia dopo la Campania; mi pare già di per sé un segnale preoccupante su cui vale la pena di soffermarsi a riflettere. E ci sono altri indicatori, come quelli che emergono dal sondaggio di cui dirò tra poco. Se non lo capiamo corriamo seri rischi; Marcel Gauchet, noto studioso francese, afferma che il modello democratico nato nel dopo guerra, oggi è in crisi e, se vuole sopravvivere, la democrazia deve sapersi reinventare. Io credo che la legge 69/2007 della Toscana costituisca un tentativo molto onesto, molto interessante e molto innovativo in questa direzione; sia chiaro: non ho assolutamente la pretesa che questa sia la risposta alla crisi della democrazia rappresentativa, ma può essere un pezzo, un segmento di una strategia di risposta più complessiva. Naturalmente, a questa crisi politica strisciante che va accumulandosi da decenni, negli ultimi anni si è aggiunta la crisi economica. In questi giorni abbiamo assistito a qualcosa di molto serio, ovvero lo spostamento del potere politico decisionale in capo a soggetti che non hanno alcuna legittimazione democratica; quando sono le agenzie di rating ad assumere le decisioni economiche e i conseguenti sacrifici che dovranno essere sopportati

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da milioni di persone, evidentemente siamo usciti dall’ambito democratico. Io personalmente non so, e mi pare nessuno di noi sappia, quale sia la soluzione a questo problema, però intanto partiamo dal prenderne atto, e con preoccupazione. E naturalmente la crisi economica produce tensioni gravissime (e mi associo a quello che è stato detto prima sui recenti episodi di violenza di Torino e di Firenze). A questo proposito vorrei fare un accenno, anche un po’ polemico: in base alla legge 69/07 è stato finanziato con un contributo di 75.000 euro un processo partecipativo che riguarda la realizzazione di una moschea a Firenze; il sostegno regionale è stato richiesto da cittadini di diverse fedi e confessioni che hanno raccolto le firme, su iniziativa della comunità. L’altro giorno un quotidiano ha lanciato la notizia: al processo hanno partecipato solo 300 persone, dunque il processo è costato 250 euro a testa: uno scandalo, uno spreco di denaro pubblico. In realtà si è trattato solo della prima fase del processo, ovvero di un giro di ascolto nei 5 quartieri per raccogliere temi, sensibilità, quesiti, che saranno poi riportati nell’evento partecipativo vero e proprio (cui parteciperanno solo un centinaio di persone: ma si tratta di campione della popolazione fiorentina). Purtroppo i fatti di questi giorni dimostrano che proprio la crisi accentua le tensioni, i conflitti tra gruppi, etnie, religioni etc. Ora mi domando: è più saggio aspettare episodi come questo o è meglio prevenirli creando cultura collettiva e scelte condivise? Quindi questo processo che riguarda la realizzazione di una moschea lo valuteremo in base agli effetti che produrrà nel tempo sotto il profilo della tolleranza e dell’integrazione; i media purtroppo sembrano più interessati al sensazionalismo che a un’analisi seria. Cito questo caso anche perché vi dà un’idea di quello che facciamo, e anche di quello che costa la partecipazione, perché facciamo una partecipazione di qualità con certi requisiti che vorrei brevemente illustrare e che credo che possono interessare anche il mondo dell’associazionismo al suo interno e nei suoi rapporti con i suoi utenti. Abbiamo davanti due diversi modelli di democrazia; questo termine viene usato e spesso abusato. Secondo il primo modello (teorizzato da J. Schumpeter, ad esempio) i cittadini vanno a votare periodicamente, e poi se ne tornano a casa fino alle prossima tornata elettorale; democrazia in questa accezione significa quindi solo scegliere le élites che di volta in volta governano, e questo esaurisce il ruolo del popolo. Ho l’impressione che molti oggi pensino che solo in questo consista la democrazia, anche se magari non hanno il coraggio di dirlo così apertamente. Per di più abbiamo altri gruppi che stanno accumulando potere politico, decisionale, cioè gli esperti, sempre più influenti in un mondo tecnologico, e i gruppi di interesse, per non parlare del ruolo dei media.

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C’è però anche un altro modo di leggere la democrazia: democrazia significa, molto semplicemente, potere del popolo; è quasi rivoluzionario oggi ricordarlo, quasi blasfemo, ma questo significa demos kratos dai tempi di Atene, che ha inventato questa forma di governo 2500 anni fa. Peraltro, coinvolgere attivamente i cittadini nelle scelte pubbliche non è affatto antagonisco rispetto alla democrazia rappresentativa; al contrario: serve a rivitalizzare la democrazia rappresentativa, significa dare stabilità alle istituzioni, efficacia alle politiche pubbliche e vitalità alla sfera pubblica di cui proprio questa Regione che, secondo molte analisi, era tradizionalmente assai ricca. La partecipazione politica é certamente esercitare il diritto di voto; ma vogliamo limitarci solo a questo? Vorrei ricordare l’esempio del Brasile di Lula. Il Brasile ha una tradizione dagli anni ‘40 di conferenze nazionali su temi sociali e sanitari. Durante la presidenza di Lula questi processi si sono moltiplicati riguardando anche nuovi temi, dai diritti delle minoranze (i gay, gli indios), la condizione femminile, le questioni ambientali. Sono processi che partono dal livello locale poi vanno al livello degli stati e infine arrivano al livello nazionale; l’esito di questi processi partecipativi va al Parlamento brasiliano che ne tiene conto nella produzione legislativa. Questi processi hanno coinvolto finora qualcosa come 5 milioni di brasiliani. Fatta questa premessa generale, quello che sto cercando di fare come Autorità per la partecipazione è di declinare la partecipazione in un modo un po’ particolare, secondo un approccio che va sotto il nome di democrazia deliberativa. La cosa interessante è che ci sono una molteplicità di riflessioni, di esperienze che vengono in parte dal Sud America, in parte dal mondo anglosassone, in parte dal nord Europa e che si stanno ibridando producendo non solo una riflessione teorica, ma anche innovative esperienze concrete. Quando parlo di partecipazione, mi riferisco in particolare alla partecipazione di ‘cittadini semplici’ (come quello raffigurato in questo quadro di Norman Rockwell dipinto durante la seconda guerra mondiale; il Presidente Roosevelt aveva chiesto agli artisti americani di celebrare i valori della democrazia in antitesi ai regimi totalitari; qui è raffigurato un cittadino che interviene in un Town Meeting, un’istituzione nata negli stati del New England nel ‘600). Sottolineo il fatto che mi riferisco al cittadino che prende parte alla vita politica a titolo personale (non in rappresentanza di altri; quando noi andiamo a votare, lo facciamo a titolo personale, individuale); l’assunto fondamentale qui è che sono i singoli ad essere i soggetti portatori dei diritti politici.

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Inoltre, partecipazione, in questo contesto, si riferisce a processi attraverso cui i cittadini concorrono alle scelte, alle decisioni attraverso processi discorsivi, strutturati in un modo da favorire un effettivo dialogo. La legge della Toscana è una legge che istituzionalizza e sperimenta la partecipazione nelle decisioni locali in un modo che risulta innovativo per una varietà di ragioni. E’ la prima legge al mondo, almeno a livello regionale, che cerca di promuovere pro-attivamente il coinvolgimento dei cittadini. L’esempio toscano è stato in qualche seguito poi dall’Emilia Romagna con la lr 3/10; altre Regioni italiane (Puglia, Lazio) sono state attive in questo campo, ma senza leggi ad hoc. Anche diverse Regioni di altri paesi UE (Germania, Francia, Austria, Spagna, Danimarca) si stanno muovendo su questo tema. In secondo luogo, la legge stessa è stata approvata attraverso un processo partecipativo, che è culminato con un Town Meeting a Carrara con 500 cittadini toscani, cui era presente lo stesso Presidente C. Martini. Terzo aspetto peculiare: l’attuazione della legge è affidata a un soggetto neutro, imparziale: un’autorità indipendente, che è stato nominato dal Consiglio, maggioranza e minoranza congiuntamente; questa figura quindi non dipende dalla Giunta, dalla maggioranza politica (cosa che forse dà un po’ fastidio…); si tratta quindi di una figura ‘tecnica’ nel senso che è stata selezionata ed opera in base a criteri professionali, non politici. L’intento alla base di questa scelta è di creare fiducia intorno ai processi partecipativi, nei cui confronti molti cittadini nutrono dubbi e scetticismo (un recente sondaggio commissionato dalla Giunta mostra come la metà dei toscani ritenga che i processi partecipativi siano in realtà operazioni manipolatorie, di ratifica di decisioni già prese). Quarto, é una legge a termine, nel senso che questa legge scade automaticamente alla fine del 2012; a meno che, e questo è il passaggio interessante, nei primi tre mesi del 2012 Giunta e Consiglio non valutino gli effetti di questa legge, anche attraverso un processo partecipativo come prevede la legge stessa. Anche questa è una caratteristica unica nell’ordinamento italiano, un esempio di innovazione, di risposta alla crisi, alla mancanza di fiducia dei cittadini. Credo che questo aspetto interessi direttamente le autonomie sociali che dovrebbero richiedere che questa valutazione partecipata si faccia, e in modo serio, analogamente a quanto fu fatto nel 2006 -nel processo di formulazione della legge stessa- per evitare che la valutazione della legge venga fatto solo con criteri di carattere politico-ideologico.

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Quinto, la lr 69/07 ha trovato un punto di equilibrio molto ben calibrato tra partecipazione e democrazia rappresentativa: gli enti locali, nel richiedere il sostegno finanziario a un percorso partecipativo, firmano un atto in cui si impegnano a rispettare, a recepire quello che emerge dal processo, a metterlo in atto o, se non lo ritengono opportuno, a motivarne pubblicamente le ragioni e quindi assumersene la responsabilità politica. Infine, ma non meno importante: la lr 69/07 è una normativa ispirata alla teoria dialogico-deliberativa, ovvero un modo specifico di declinare il coinvolgimento dei cittadini secondo parametri di qualità, assenti invece nella partecipazione tradizionale di tipo assembleare (che è a mio avviso assai poco democratica). La partecipazione, secondo la lr 69/07, si basa sul principio di inclusione: l’obbiettivo non è di far sentire fare l’opinione di tutte le persone (che non è possibile), ma tutte le ‘voci’ coinvolte o rilevanti rispetto a una specifica questione in discussione, in un contesto che le ponga sullo stesso piano. Si noti che non parliamo tanto di stakeholders; sono molto dubbioso sul fatto che a questi processi debbano prender parte i soggetti organizzati. A mio avviso la sfida, come accennavo prima, è riportare il cittadino al centro dei processi, il cittadino che oggi è disaffezionato e diffidente, e non pensa di essere capace neanche di parlare di politica e di questioni pubbliche. Quando però il ‘cittadino/a semplice’ viene coinvolto con modalità appropriate, si vede che diventa perfettamente capace di discutere e ragionare di questioni che riguardano la collettività; naturalmente occorre creare le condizioni che favoriscano un vero dialogo, e per questo si usano appositi ‘metodi’. Dialogo significa ascolto reciproco, rispetto e tolleranza per la diversità di opinioni (cosa che nelle assemblee non avviene). Occorre inoltre mettere a disposizione dei partecipanti informazione adeguata e bilanciata, in un linguaggio comprensibile. Dialogo e informazione favoriscono a loro volta la ‘deliberazione’, che non significa solo decidere; il termine infatti viene dal latino libra, bilancia; questi processi mirano a favorire dunque la considerazione attenta delle diverse opzioni e delle relative implicazioni prima di decidere (questo è il significato che deliberative ha in inglese: soppesare prima di assumere una decisione). Infine, questi processi mirano a produrre scelte, a influenzare effettivamente le decisioni (empowerment); se vogliamo che i cittadini tornino alla politica, abbiano interesse per la cosa pubblica e investano il loro tempo e le loro energie, allora bisogna che sappiano che la loro opinione conta, che saranno ascoltati davvero. Non si vuole quindi solo una mera informazione o consultazione, magari quando tutto è stato ormai deciso. La legge toscana è dunque un esempio di innovazione (in un paese che nel complesso non brilla per la sua capacità di innovazione politico-amministrativa), di cui la Toscana a mio avviso dovrebbe anche essere un po’ orgogliosa.

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Dopo aver illustrato i tratti che contraddistinguono questa normativa, vediamo un aspetto più specifico: chi può chiedere il sostegno finanziario della Regione? Gli enti locali, che sinora rappresentano oltre l’80% dei richiedenti e dei processi finanziati, ma anche i cittadini che raccolgono le firme richieste dalla legge (come nel caso della moschea di cui vi dicevo prima), istituti scolastici e imprese. La legge non prevede che possano fare richiesta direttamente le associazioni (a differenza ad esempio dalla sopra citata analoga legge emiliana) e questa fu una scelta esplicitamente voluta dal legislatore, tuttavia le associazioni possono promuovere la raccolta di firme tra i cittadini e possono appoggiare le richieste avanzate da altri soggetti. Poiché ora inizia una fase di revisione della legge, questo può essere un aspetto su cui riflettere, e forse da cambiare. Sulla scorta dell’esperienza di questi anni posso dire che in pratica le firme dei cittadini vengono raccolte in genere o da associazioni che già esistono, oppure nel caso di comitati spontanei, questi si trasformano in associazioni anche per semplici ragioni operative (ad esempio l’apertura di un conto bancario per gestire il contributo regionale). Finora la legge n. 69/07 ha avuto un notevole successo; nel periodo 2008-2010 l’ARP ha ricevuto circa 160 richieste, ne sono state finanziate circa la metà. I processi riguardano una grande varietà di temi, alcuni di questi vi riguardano: politiche e servizi sociali e sanitari, promossi dalle Società della salute per esempio (sul sito www.consiglio.regione.toscana.it/partecipazione si trovano i Rapporti annuale dell’ARP dove i dati sono presentati e analizzati). In questo quadro, qual è il ruolo dell’associazionismo? Qui lancio una provocazione che spero serva da stimolo alla discussione; come già detto, io insisto sul fatto che in una vera democrazia i diritti politici appartengono agli individui, non alle ‘corporazioni’; in questo sta una delle ragioni della crisi, della perdita di fiducia dei cittadini nella cosa pubblica dovuta anche alla poca trasparenza delle decisioni: i cittadini non sanno chi è che decide, e spesso hanno l’impressione che decisori pubblici prestino eccessivo ascolto ai gruppi organizzati: interessi economici in primis, ma anche di altra natura. Altro aspetto è invece la partecipazione all’interno dell’associazionismo, e cioè come coinvolgere sia i membri delle associazioni, sia gli utenti-referenti esterni su una quantità di aspetti: l’organizzazione, le attività, le strategie, i servizi svolti, le priorità. Molte aziende avvedute già usano meccanismi di questo tipo per aumentare la propria efficacia, i propri profitti; lo scopo dell’associazionismo è diverso ovviamente, ma perché non pensare di usare queste stesse forme per riflettere sul proprio funzionamento, la propria

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organizzazione, i propri servizi? C’è un potenziale beneficio in questo investimento: cresce il senso di appartenenza, la condivisione delle scelte, il livello di motivazione. Questa è la scommessa. Di fronte alla crisi economica, ai tagli ai bilanci pubblici la priorità che sto dando in questo momento nella scelta dei progetti cui dare sostegno va ai processi di bilancio partecipato; il BP ha una lunga storia che risale dagli anni ‘80, a Porto Alegre in Brasile; oggi questo tipo di processo partecipativo si è diffuso ormai in tutto il mondo, anche in Italia. In Toscana ne abbiamo già fatti alcuni negli anni passati; mi pare che in un momento di crisi e di tagli sia ancora più importante coinvolgere i cittadini per fare le scelte difficili che saranno in parte inevitabili, ma anche per dare un contributo di idee e di soluzioni innovative. Mi pare che la Società della salute Firenze Nord Ovest sia un bell’esempio di come questi processi possano coinvolgere gli utenti nel pensare meglio i servizi, decidere le priorità e forse anche trovare modalità innovative di produzione dei servizi.

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Alessandro Petretto - Professore di economia pubblica all’Università degli Studi di Firenze

Spesa sociale e organizzazione del welfare in Toscana

Sarò rapido per lasciare più spazio alla discussione, anche se gli argomenti posti in risalto dagli interventi precedenti sono significativi e meriterebbero di essere approfonditi. Partirei dall’ultima slide di chi mi ha preceduto, in cui sostanzialmente si poneva il problema delle difficoltà oggi incontrate dal volontariato e dall’autonomie sociali, di fronte a una situazione in cui le risorse finanziarie dedicate agli strumenti di welfare sono in riduzione. Non solo, direi anche che queste difficoltà sono indotte dal fato che il welfare state, soprattutto quello assistenziale, è anche sotto attacco da parte di una serie di valutazioni e considerazioni che non posano solo su motivi finanziari, ma adducono elementi di incompatibilità con la crescita economica nelle economie occidentali in presenza di globalizzazione. Si sostiene, al riguardo, che le sue dimensioni distolgono risorse crescenti che potrebbe essere destinate a rafforzare i fattori di crescita. Inoltre, l’investimento in welfare assistenziale non solo è costoso, per l’evoluzione demografica e delle tecnologie moderne, ma può anche costituire un freno alla crescita economica per una serie di motivi legati a disincentivi alla attività economica e al tasso di risparmio. In altre parole se la crescita dipende dall’accumulazione di capitale fisico e umano, la spesa in assistenza è in qualche modo sostituta di questa nel lungo periodo. Quindi il problema che noi abbiamo di fronte è di rispondere a queste indicazioni critiche, con la consapevolezza però che le cose devono radicalmente cambiare, affinché l’assistenza diventi in qualche complementare alla crescita. Noi abbiamo una situazione a livello nazionale che dal punto di vista della elaborazione di riforma è ferma al 1997 - 98, quando la discussione profonda derivata dagli esiti della commissione Onofri, fu lasciata colpevolmente cadere nel nostro paese. Il primo governo Prodi è stato l’unico governo, l’ultimo governo, secondo me, che si è posto problemi di natura strutturale nel campo del welfare. Oltretutto, ha operato tre anni dopo la riforma del sistema pensionistico che ero rimasta a metà sull’applicazione del meccanismo di computo contributivo, e ha tentato di fornire indicazione di soluzione per i problemi sul tappeto. Cosa abbiamo davanti noi oggi? Le situazioni critiche che erano presenti allora e cioè un sistema fortemente squilibrato a danno dell’assistenza rispetto a altre componenti, fortemente squilibrato anche nell’ambito della componente assistenziale dove prevale la logica semplicemente monetaria dell’assistenza, cioè gli assegni che danno ai cittadini, moneta perché superino le posizioni di esclusione e di povertà, mentre è carente dal lato della produzione e fornitura di servizi specifici alla persona, così detti di prossimità. Cioè prevale un modello inverso rispetto a quello delle grandi socialdemocrazie del nord Europa dove la componente di servizio è molto più rilevante della componente di trasferimento

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monetario. Questa caratterizzazione ha implicazioni di ordine culturale, oltre economiche e si è dimostrata nel tempo meno efficace, cioè meno target efficient. Questa matassa la dobbiamo riprendere in mano, dopo che si spera questa tempesta finanziaria ed economica sarà passata, e la nostra economia riprenderà un trend di crescita si spera superiore a quello sperimentato fino alla grande depressione ciclica. Dobbiamo dare a questa struttura una configurazione moderna e adatta ai tempi che, nel frattempo, saranno ulteriormente mutati. Abbiamo di fronte un problema di ordine quantitativo, di dimensione finanziario, e uno di tipo organizzativo e industriale. Il termine potrà scandalizzare qualcuno ma cioè che dobbiamo sviluppare è una vera e propria “moderna industria del welfare” in cui le unità di produzione sono variegate e non strettamente limitate alla pubblica amministrazione. Sotto il profilo quantitativo lo squilibrio a danno della componente assistenziale emerge se si considera che questa in senso stretto, quindi quella che non è rivolta alla sanità, per quanto la distinzione spesso non è così agevole, vale nel nostro paese complessivamente il 4% del prodotto interno lordo. Nella a sua dimensione più estesa, vale circa una sessantina di miliardi, di cui circa un terzo era previsto nella manovra di quest’estate che dovesse essere ridotta (20 miliardi, di cui 4 nel 2012 e 16 nel 2013) con una profonda operazione di ricomposizione e riorganizzazione. Quest’ultima è senz’altro necessaria perché si tratta di istituti decrepiti, vecchi, mal distribuiti, con tutta una serie di sfilacciature nella individuazione dei beneficiari. quindi l’intervento è opportuno, ma pensare di ottenere una riduzione di un terzo è una cosa devastante, come si può immaginare. Opportunamente il decreto Salva Italia del governo Monti ha previsto di mitigare la portata quantitativa dell’intervento, con il soccorso di un incremento di IVA. Monti, in particolare, ha risolto per il 2012 il problema segnalando che l’aumento IVA coprirà i 4 miliardi che dovevano essere secondo Tremonti già nel 2012 ottenuti abbattendo le detrazioni e le deduzioni per carichi di famiglia. Di questo 4% del PIL di spesa assistenziale, l’1% (circa 16 miliardi) è finalizzato a strumenti di contrasto alla povertà, quando questo fenomeno è venuto di molto accentuandosi negli ultimi anni a causa della crisi finanziaria ed economica. Un altro 1% del PIL è destinato a finanziare gli istituti per la non autosufficienza e l’handicap. Al riguardo un dato interessante è questo: a fronte di una spesa pubblica nazionale di circa 16 miliardi a livello di spesa pubblica, si stima che la spesa delle famiglie sia di 9 miliardi e mezzo, quindi è lo 0, 6 del PIL. Il contributo privato è quindi notevole da questo punto di vista, nettamente superiore ai nostri partner europei con welfare evoluti. L’offerta di servizi locali, cioè quelli che poi come vedremo vengono svolti a livello con la sussidiarietà verticale sono lo 0, 6% del PIL. Il rimanente 1,4% della spesa per l’assistenza consiste in una serie di indennità, di assegni che sono probabilmente sovradimensionati rispetto a quello che dovrebbe essere fatto. Una riduzione di un terzo di tutta questa spesa è

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comunque impensabile, anche con riferimento ai raffronti internazionali che ci vede molto indietro in questo comparto del welfare. Cosa succederà per i 16 miliardi da trovare nel 2013 non lo sa nessuno. Alcuni numeri per quanto riguarda la spesa pubblica per l’assistenza in Toscana. La Toscana è una regione attiva da questo punto di vista, se si somma tutta la spesa per assistenza con la spesa sanitaria che ha in Toscana una componente socio - sanitaria molto forte, quindi è una distinzione non completamente fattibile, noi abbiamo 8 miliardi e 300 milioni nel 2009, quindi una cifra consistente di cui una componente significativa, circa 160 milioni è sotto forma di trasferimento dei comuni. Quindi la Regione Toscana segue per l’assistenza il principio della devoluzione ai comuni con una logica di sussidiarietà verticale. I comuni toscani sono molto attivi nell’assistenza, svolgendo le funzioni di asilo, di servizio alla infanzia, minori, servizi di prevenzione e riabilitazione, strutture residenziali, ricoveri per anziani, assistenza e beneficenza con una cifra che si aggira sui 500 milioni. Se prendiamo il consolidato, quindi se facciamo la somma tra la Regione Toscana, i comuni della Toscana e eliminiamo le interrelazioni, trasferimenti tra di loro, abbiamo la cifra complessiva che viene dedicata in Toscana alle attività di assistenza e è sui 600 milioni. E’una cifra che vuol dire il 7, 5% nella distribuzione regionale in tutta l’Italia, circa il 6% del prodotto interno lordo, un dato superiore a gran parte delle regioni d’Italia, circa 162 euro a persona. L’amministrazione pubblica in Toscana è dunque molto attiva nell’ assistenza, ma le risorse sono in riduzione dato che i trasferimenti statali tendono a calare. Pertanto i costi crescono con l’evoluzione demografica, quindi una struttura produttiva altamente costosa si confronta con una riduzione dei trasferimenti. Da qui l’insostenibilità finanziaria del settore a livello regionale e la necessità di riorganizzarlo. Dal mio punto di vista, la Toscana dovrebbe passare, come è avvenuto peraltro in grandi realtà del nord Europa, da un modello prevalentemente integrato, di produzione e offerta di servizi socio-assistenziali, a un modello più de-integrato, cioè più segmentato per sviluppare appieno la sussidiarietà orizzontale. La Toscana storicamente non è appassionata alla idea di decomporre il suo settore pubblico, nel senso di renderlo meno compatto e unitario affidato in toto alla pubblica Amministrazione in senso netto. Questo secondo me a lungo andare diverrà un errore strategico col mutare della domanda sociale. D’altra parte l’intervento pubblico, in un sistema con un’offerta più articolata e segmentata, non perderebbe la sua funzione di indirizzo programmatico e territoriale, vedrebbe ridursi solo il ruolo di produttore. La Toscana ha sempre considerato il terzo settore come un elemento residuale, come possibile integrazione del filone pubblico dominante. Ora si tratta invece di costruire un modello in cui il terzo settore, le cooperative, il volontariato, le associazioni di vario tipo, e

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anche i privati, diventano dei veri e propri co-produttori di welfare, cioè non l’anello di copertura debole ma una quota cruciale della fase della produzione. Quindi si dovrebbe realizzare, mantenendo il finanziamento sempre in capo al pubblico, lo sviluppo di una sorta di secondo mercato, un mercato che all’interno di una logica di regolazione pubblica, sia in grado di intercettare e soddisfare la domanda sociale e di organizzazione l’offerta di quote crescenti della produzione di servizi di prossimità in sostituzione dell’intervento pubblico diretto delle A.S.L. e delle altre istituzioni pubbliche. Può funzionare questo modello? In vari paesi funziona benissimo. In Olanda, la Svezia, la Germania, addirittura la sanità è organizzata integralmente con questi sistemi. Da noi può funzionare solo a tre condizioni. La prima riguarda la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni. Questa definizione segna certamente un momento fondamentale nell’assunzione della responsabilità collettiva in un sistema di welfare, tuttavia, impone, per l’evoluzione demografica e della tecnologia medica e assistenziale, costi sempre più elevati. La società divenendo più ricca e anziana considera un numero sempre maggiore e una qualità sempre più elevata di interventi sociali come essenziali e quindi indispensabili, “a prescindere”, cioè svicolando il diritto dalla responsabilità finanziaria. L’integrale finanziamento di queste prestazioni con la fiscalità generale può trovare ben presto limiti nel livello della pressione fiscale. Se il sistema dei livelli essenziali di prestazioni diviene dinamico, ogni qualvolta si presentano esigenze che derivano dalla demografia, dalla tecnologica, dalle innovazioni che tendono sempre di più a aumentare la qualità della produzione di questi servizi, diviene sempre più difficile coprire con il finanziamento pubblico e con la produzione pubblica tutte queste novità. Una quota non meramente residuale di prestazioni extra-LEA dovrebbe quindi essere lasciata al settore non-profit e ai produttori privati, se pur in un ambito di regolamentazione pubblica. La seconda condizione è l’organizzazione di un meccanismo di selezione ex ante e di controllo ex-post di coloro che sono chiamati a svolgere queste funzioni di co-produttori di welfare. La selezione ex ante significa accreditamento, significa un processo attraverso il quale io non delego questa attività di produzione a chiunque mi si presenta e mi dice che lo sa fare meglio di quanto non lo faccia il settore pubblico, ma sia una istituzione che ha una serie di requisiti accertati, ex ante e verificati ex post. In Olanda, tanto per fare un esempio, la cancellazione dei contratti di affidamento di attività produzione dei servizi è molto frequente, perché non appena i provider sgarrano è tolta loro immediatamente la delega. All’interno di questo secondo mercato del welfare si può attribuire ai beneficiari un’adeguata libertà di scelta degli utenti, dei cosiddetti provider preferiti. Ciò si può conseguire anche attraverso un sistema voucher a destinazione vincolata, cioè utilizzabili solo per i servizi che sono stati individuati. Sono contrario alla visione che intende

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scaricare tutta o quasi la componente assistenziale nella detassazione per cui i beneficiari si acquistano liberamente i servizi di prossimità. Credo viceversa al modello scandivano dove prevale fornitura gratuita di servizi e il voucher a destinazione vincolata è in questo senso un utile strumento, in quanto può favorire una offerta più eterogenea, con caratteristiche differenziate. L’ultima condizione è chi si ammetta di innalzare la quota contributiva individuale al pagamento dei servizi. La pressione fiscale non potrà essere lo strumento esclusivo per il finanziamento dei servizi di prossimità. La contribuzione o compartecipazione al costo si candida come strumento di finanziamento importante e ha due vantaggi: il primo è che può essere regolato sulla base delle capacità finanziarie e di ricchezza dell’individuo, tramite strumenti come l’Isee; il secondo è l’accountability, la responsabilizzazione dei politici locali. Pagando anche parzialmente una retta, una mensa si ha la possibilità di confrontare direttamente il costo della riduzione del potere d’acquisti col beneficio del servizio e quindi controllare i politici e punire elettoralmente i politici che forniscono servizi scadenti.

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Rita Biancheri - Professore di sociologia della famiglia e dell’educazione all’Università degli Studi di Pisa

Un nuovo paradigma di welfare

Anch’ io ringrazio dell’invito, oltre a sottolineare come l’ interdisciplinarietà data a questo dibattito sia molto proficua per i temi che dobbiamo trattare. Le relazioni che mi hanno preceduto sono servite da stimolo per un’ ulteriore riflessione rispetto agli argomenti specifici che intendevo trattare; facendomi anche ripercorrere la mia storia accademica e le ricerche iniziali fatte sull’associazionismo e i sistemi di welfare (Biancheri 2000). Uno dei primi studi riguardava proprio la partecipazione alla quale avevamo unito, nel titolo del volume pubblicato, la parola negata. Erano gli anni ’80 ma i principali risultati di quell’analisi comparativa, con altri paesi europei, mi sembrano essere ancora presenti oggi per cui, a più di trent’anni, la lentezza dei cambiamenti e i numerosi ostacoli che si erano evidenziati sono tuttora presenti (Biancheri 2010) ed emergono con chiarezza nelle parole del Prof. Lewanski garante della legge sulla partecipazione della nostra Regione. Per quanto riguarda il Terzo settore molte delle questioni qui indicate si sono intrecciate nei diversi apporti, sia teorici che empirici, che hanno avuto per oggetto di studio le organizzazioni non profit e ancora restano tra i principali nodi da sciogliere. In particolare, occupandomi di associazionismo femminile ricordo che nei primi rapporti mancava totalmente una lettura di genere e i dati statistici, spesso, erano incompleti. E’ stato necessario un lavoro di sensibilizzazione per arrivare ad una lettura non neutra del fenomeno. Inoltre, vorrei sottolineare come anche in quest’ambito - ora come allora - permane una scarsa rappresentanza delle donne ai vertici delle organizzazioni, mentre molto attive sono nella presenza “sul campo”. Una discrasia che può introdurci direttamente al tema che più specificamente vorrei trattare e cioè i cambiamenti che si dovrebbero attuare nei sistemi di protezione, rimasti ancorati a modelli di organizzazione sociale che si sono invece profondamente modificati, a partire dalla struttura e dalla funzione della famiglia basati tradizionalmente sulla divisione dei ruoli. In altri termini si può sostenere che il rinnovamento è lento, rispetto all’accelerazione delle trasformazioni in corso; oltre al fatto che mancano servizi e il modo in cui vengono allocate le risorse non risponde alle necessità e ai bisogni dell’attuale modello a doppio reddito. Mentre sulla brochure il titolo del mio intervento era un nuovo paradigma di welfare senza punto interrogativo, ho invece aggiunto qui nelle slide il punto interrogativo perché credo che sia importante riflettere su quanto è stato fatto dall’approvazione della legge 328/2000, per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, e dalla 53/2000 meglio nota come norma a favore della conciliazione dei tempi di vita.

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Credo che due dati siano indicatori delle difficoltà che incontrano oggi le famiglie, e in particolare le donne e cioè il tasso di fecondità fermo a 1,3% e quello di occupazione femminile che, seppur con forti diversità regionali, oscilla sempre al di sotto di alcuni punti al 50%, distanziandoci in modo preoccupante dalla media europea. Sempre rispetto al mercato del lavoro persistono differenziali salariali con un’accentuata segregazione verticale e orizzontale, difficoltà di reinserimento lavorativo, se si lascia la propria occupazione per motivi di cura, e una più lunga permanenza con contratti precari e part time (Biancheri 2008). Un quadro sconfortante (Biancheri 2012) in quanto ancora la partecipazione femminile alla sfera produttiva rimane legata all’organizzazione nella sfera privata e tale correlazione è diversa tra i paesi mediterranei e quelli scandinavi. Allora dobbiamo domandarci perché l’autonomia economica e il capitale culturale che abbiamo conquistato, negli ultimi cinquant’anni, non hanno eliminato molte delle discriminazioni che storicamente hanno costruito il destino sociale delle donne. Partendo dalla situazione della famiglia ci sono state delle trasformazioni sia nella struttura che nelle funzioni. Assistiamo a meno matrimoni e più coppie di fatto; aumentano separazioni e divorzi oltre a preferire una vita da single con legami liquidi. Le analisi sull’uso del tempo, fortemente asimmetrico, hanno dimostrato che più la coppia sceglie modalità di convivenza meno tradizionali, e più c’è una maggiore libertà nella divisione dei carichi domestici e di cura, legata anche al potere di negoziazione acquisito dalla donna. Seppur con diverse percentuali, in quasi tutti i paesi si è registrata una notevole resistenza che ha fatto parlare di adattamento rallentato, ma certamente in Italia permangono svantaggi e modelli convenzionali, che sono sicuramente rilevanti rispetto al nord-europa. Una discrasia che si accentua soprattutto tra i redditi più bassi e i livelli di istruzione inferiori. Molteplici sono i fattori e attualmente l’attenzione è stata portata sia ai sistemi di welfare che ai modelli organizzativi del lavoro e il posto occupato in questi dalle funzioni attribuite alla famiglia. Infatti, se noi andiamo a vedere l’allocazione delle risorse nella spesa sociale è facilmente riscontrabile come il nostro sistema sia ancora fortemente sbilanciato sul malebreadwinner. Tale redistribuzione asimmetrica produce, come abbiamo evidenziato all’inizio, effetti di scoraggiamento sull’occupazione ma anche sulle scelte generative. La sfida, non solo in termini di equità di genere ma anche di crescita economica, è dunque quella di sostenere la famiglia, nelle sue molteplici forme, e contrastare l’invecchiamento della popolazione attraverso risposte che sostengano la genitorialità, come hanno fatto molti paesi europei che hanno invertito la tendenza alla decrescita con strumenti e misure di conciliazione flessibili e servizi diffusi sul territorio. Pertanto un sistema residuale, scarsi incentivi per l’aumento dei congedi di paternità, un

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attribuzione del lavoro di cura alla solidarietà intergenerazionale e misure poco rivolte alla sensibilizzazione per migliorare la condivisione all’interno della sfera privata (Biancheri 2009) bloccano, come da più parti è stato dimostrato, la crescita economica; chiudendo il nostro paese, e quelli che mantengono lo stesso tipo di welfare ”mediterraneo”, in una spirale dove il rischio è quello di rimanerne imprigionati. Ricordando a questo proposito il paradosso di Keynes che dice: “se sposassi la mia governante il reddito nazionale diminuirebbe”, molti studi ci ricordano che la crescita dell’occupazione femminile porterebbe ad un aumento del prodotto interno lordo, a produttività invariata, del 7%. Di conseguenza, è necessario definire un nuovo paradigma che cambi la prospettiva con cui finora si sono affrontati i diritti di cittadinanza e, in particolare, guardare alle disuguaglianze in funzione di un miglioramento complessivo della “qualità della vita”. .Dobbiamo quindi, attraverso una maggiore organicità delle riforme che finora è mancata, proporre strumenti differenti aumentando così la possibilità di scelta delle famiglie, affinché il lavoro di cura non ricada, attraverso obbligatorietà più o meno espresse, sulle spalle delle donne. Di fronte, come diceva giustamente il prof. Petretto alla scarsità delle risorse, un welfare assistenziale, passivo, incentrato sul nucleo familiare, deve essere sostituito da un welfare delle capacità, basato sul concetto di empowerment e sulle opportunità di scelta, come più volte è stato ricordato questa mattina. Tale approccio, che si riferisce ai contributi di Amartya Sen e Martha Nussbaum, intende rispondere alla complessità delle aspirazioni delle persone e, quindi, i contributi che provengono dagli studi di genere sono fondamentali per ridisegnare l’intero sistema e comprendere la svalutazione che è stata fatta del lavoro delle donne. Il raggiungimento della libertà sostanziale non può che derivare dall’eliminazione delle discriminazioni in essere per favorire l’autonomia e la giustizia sociale. Su questa strada il ruolo del terzo settore è fondamentale.

Bibliografia di riferimento Biancheri (2000), Il pubblico delle donne. Associazionismo e partecipazione femminile,Pisa, Ets. Biancheri R. (2003), Donne nel sindacato. Rappresentanza e pari opportunità, Roma, Edup Biancheri R. (a cura di)(2008), La dimensione di genere nel lavoro. Scelte o vincoli nel quotidiano femminile, Pisa, Plus University Press Biancheri R.(a cura di) (2009), Tempi di vita e welfare. Verso un sistema territoriale della conciliazione, Pisa, Plus University Press

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Biancheri (a cura di) (2010 ) Il genere della partecipazione. Come promuovere la cittadinanza attiva delle donne, Pisa, Plus University Press

Biancheri R. (a cura di) (2012 a), La rivoluzione organizzativa. Differenze di genere nella gestione delle risorse umane, Pisa, Plus University press. Biancheri R. (a cura di) (2012 b), Siamo ancora in viaggio verso la parità, Pisa, Plus University press.

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Renato Boni - AUSER Toscana

La partecipazione delle associazioni del Terzo settore nella Società della Salute della zona fiorentina Nord-Ovest

La partecipazione nelle SDS si esprime attraverso i due organismi della Consulta del Terzo Settore e il Comitato di Partecipazione; nella SdS nord ovest la Consulta è composta da 49 Associazioni e il Comitato da 11. La partecipazione delle associazioni alla vita della SDS è determinante, sia per il portato di conoscenze dei bisogni vecchi e nuovi della popolazione, sia per il contributo che sono in grado di dare nella formulazione delle proposte e dei programmi a cui la SDS è preposta. Non mancano criticità che in larga misura sono da ascriversi ad una carente normativa che separa marcatamente i due organismi citati ed i limiti di ruolo e funzioni previsti per le Consulte che spesso sono considerate dalle istituzioni un’insieme di associazioni che erogano servizi senza esaltarne la possibile funzione politica. Fortunatamente nella SDS nord ovest molti di questi limiti sono superati sia per la sensibilità e capacità di governo dimostrata da chi è preposto a dirigere la stessa, sia –mi sia concesso di affermare - dalla serietà e caparbietà dimostrata dalla Consulta. Pertanto, seppur pragmaticamente, agli organismi di partecipazione è riconosciuto uno spazio importante di partecipazione, di rappresentanza dei bisogni presenti nel territorio e di coinvolgimento nelle iniziative e nei percorsi programmatori della SDS. Prima di porre in evidenza alcune pratiche partecipative effettuate ed in corso di sperimentazione, credo giusto rilevare almeno tre passaggi decisionali assunti concordemente tra Consulta e SDS, che hanno segnato positivamente il percorso della partecipazione. Tali passaggi sono riferiti:

1)- alla elaborazione del tutto autonoma del regolamento di funzionamento della Consulta ed anche del Comitato, che ha comportato un forte impegno e responsabilizzazione dei componenti delle stesse associazioni; così pure è stato per l’elezione (non nomina da parte del Presidente o del Direttore) degli Organismi esecutivi e dei Presidenti che debbono rispondere del loro operato, in primo luogo, alla assemblea che gli hanno eletti.

2)- alla sottoscrizione da parte della SDS e delle Associazioni facenti parte degli organismi di partecipazione, un “Patto Territoriale” che delinea le reciproche responsabilità, impegni e forme di sussidiarietà circolare, che rappresenta una ottima precondizione sia per un rapporto più trasparente con il Terzo Settore sia per un welfare territoriale condiviso.

3)- alla costituzione, come richiesto dalla Consulta e dal Comitato, di un sito web per incentivare e migliorare le interazioni tra le associazioni, pubblicizzare le iniziative, ecc.,

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con l’intento anche di attivare un’informazione e partecipazione circolare, nella quale possano intervenire anche i cittadini. Per la verità tale sito non è molto usato. Esperienze di partecipazione Per correggere il paradigma concettuale per cui il volontariato e le cooperative sociali sono da considerare mere associazioni che erogano servizi, si sono promosse una molteplicità di iniziative per dibattere e condividere il progetto politico che colloca le SDS entro un’idea di salute e di cittadinanza, così pure abbiamo fatto per il PSSIR in fase di elaborazione, sul quale abbiamo formulato anche alcune proposizioni. A suo tempo è stato dibattuto ed emesso un comunicato di sostegno e validazione delle SDS a seguito della sentenza della Corte che nega la costituzione di Consorzi tra Comuni. Più volte sono stati emessi comunicati ed ordini del giorno, di preoccupazione e dura condanna per i tagli effettuati a più riprese dal Governo Berlusconi contro gli Enti Locali, in primis i Comuni, sui fondi sociali nazionali e nella sanità, rilevando i gravi danni che si determinano al sistema dei diritti e delle protezioni sociali fondamentali. Per tutti questi temi abbiamo pubblicizzato l’impegno delle associazioni a partecipare alle varie iniziative e mobilitazioni promosse nel territorio. Inoltre la Consulta e il Comitato, unitamente ad altri organismi analoghi di altre SDS dell’Area Fiorentina, nel mese di marzo 2011, hanno sottoscritto un documento costitutivo di un coordinamento di tutte le Consulte e Comitati delle SDS dell’Area Vasta Fiorentina per il sostegno e la valorizzazione delle SDS nel quadro di uno sviluppo della partecipazione e delle politiche socio sanitarie territoriali. Le pratiche partecipative effettuate entro la SDS nord ovest prendono le mosse dalla costituzione nella Consulta dei gruppi di lavoro tematici e dalle indicazioni presenti nel “Patto Territoriale” sottoscritto. Le dimostrazioni:

1)- Sulla base delle Delibere della Regione Toscana (la 106 del 2010 e la 236 del 2011) sono stati elaborati 7 importanti progetti (minori, disabili, marginalità, prevenzione, stili di vita, salute mentale, malattie rare) elaborati in co-progettazione dalle associazioni della Consulta e con la partecipazione del personale della SDS che, inspiegabilmente non sappiamo che fine abbiano fatto. A ben vedere questa modalità partecipativa è quella ideale per mettere in rete le competenze, impegni e risorse, presenti nelle associazioni e nella SDS, superando frammentazioni e separatezze presenti nel variegato mondo associazionistico e cooperativo.

2)- Trasporto sociale: è costituito un apposito gruppo di lavoro formato da associazioni di volontariato che attuano questa importante attività, il Direttore della SDS, coadiuvato da

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personale competente per approfondire la questione e per trovare a questa una soluzione ottimale. Possiamo affermare che questo impegno sta per concludersi positivamente ed in modo condiviso.

3)- Disabilità e non autosufficienza: sono costituiti gruppi tematici della Consulta, alle riunioni di lavoro partecipa anche il personale dedicato dei servizi professionali della SDS e la Fondazione Polis “dopo di noi”. Anche questa è una forma di partecipazione particolarmente vitale, il cui lavoro è partito da una ricognizione dei servizi attivati, da un esame dei bisogni e delle domande presenti nel territorio e dall’impegno comunemente assunto di effettuare ulteriori approfondimenti per superare, ovviamente con le risorse disponibili, le criticità rilevate. Questi due gruppi si riuniranno nuovamente mercoledì 21 e 28 dicembre.

4)- Diversabilità e percorsi di vita autonoma: Tale progetto riconosciuto dalla Autorità Regionale per la partecipazione si è snodato in diversi incontri con la cittadinanza di Campi Bisenzio, Scandicci, Fiesole, Calenzano e Sesto Fiorentino e infine un’incontro conclusivo presso l’Auditorium del ASL in Via Righi a Sesto Fiorentino che ha messo assieme le proposte scaturite dalla partecipazione e gli impegni conseguenti della SDS che dovranno trovare corrispondenza nel PIS ( Piano Integrato di Salute). La partecipazione è stata molto alta, 160 i cittadini che hanno preso parte fattivamente alla discussione articolata su più tavoli per ogni incontro citato, e con la nomina, nell’incontro conclusivo, di quattro cittadini con l’ incarico di verificare la corretta applicazione degli impegni assunti. Con questo progetto si sono fatti esprimere i cittadini su un tema di grande importanza per le politiche socio assistenziali territoriali che troveranno risposta nel PIS. La Consulta ed il Comitato sono stati coinvolti e impegnati sin dalla fase di elaborazione del progetto, al suo puntuale svolgimento, nei rapporti con Comuni e con la Regione Toscana.

5)- Chronic care model : progetto della Regione Toscana sulla Sanità di iniziativa per le patologie croniche . Per dare maggiore efficacia all’intervento sanitario nei confronti delle persone interessate, si è approfondito l’argomento tra i nostri organismi di partecipazione, i medici ed infermieri professionali coinvolti nella realizzazione del progetto e si è convenuto, in via sperimentale, di integrare l’intervento sanitario (su segnalazione del medico) con un apporto di natura sociale, ad esempio compagnia, attività motoria, passeggiate e altre forme possibili di socialità.

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Concludo questo intervento con l’affermazione (magari ovvia) che la partecipazione è la forma più ottimale di democrazia, proprio quella prevista dalla nostra Carta Costituzionale, e gli organismi di partecipazione delle SDS rappresentano seppur in embrione, una modalità partecipativa importante che può contribuire a migliorare il sistema socio sanitario, evitandone l’autoreferenzialità, ed a renderlo più condiviso dalla popolazione e per le associazioni che vi partecipano il nobile riconoscimento di svolgere di una funzione pubblica.

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Gianluca Mengozzi - Presidente ARCI Toscana (*)

L’Italia sono anch’io. Dall’integrazione alla partecipazione

Grazie anche di questa introduzione che mi permette di entrare subito nel tema e di essere anche più breve nella esposizione che attraversa trasversalmente l’incontro di stamani, cioè i territori, la sussidiarietà, la partecipazione, il ruolo di un ente, di una rete di enti come quella che io rappresento come entità collettiva, cioè l’Arci, e nello specifico, invece, le reti di entità diverse, sia pubbliche che private, che animano la campagna “L’Italia sono anche io”. Una campagna che è animata da persone come Luca Menesini per il suo ruolo che ricopre dell’Anci che è qui presente con noi, che ha una ambizione di fondo che è quella che veniva ricordata da Amalfitano prima, cioè di riuscire a correggere una situazione che è sbagliata per il fatto che non ci siano delle cose su dispositivi di legge fondamentali che riconoscono stati di fatto già in essere e, quindi, contrariamente a quanto succede spesso anche al legislatore toscano che spesso è stato previdente, il legislatore nazionale in questo caso ha una arretratezza molto grave che va vinta con queste proposte che, da una parte, vengono portate avanti da questa iniziativa popolare, di raccolta di firme per queste leggi e, dall’altra parte, va ricordato, perché è importante, che la Regione Toscana si è fatta da questa estate promotrice di una iniziativa di proposta di legge. Come sapete è possibile che alcune regioni collettivamente si mettano insieme per fare delle proposte di legge, cosa che viene fatta molto poco spesso, purtroppo, a fronte del fatto che questa procedura è prevista da circa un quarantina di anni. Mi sembra che stia andando avanti su un binario parallelo, diverso evidentemente con competenze che riguardano da una parte un’alta istituzione come la Regione Toscana e da quell’altra parte una aggregazione di società civile e di locali e istituzione come la rete de “L’Italia sono anche io”. Una rete che ha il compito prima di tutto - questo è anche il tema della giornata di oggi – di mobilitare, fare partecipare, di fare comprendere, comunicare ai cittadini toscani una questione che, in realtà, spesso non è capita fino in fondo. I tragicissimi fatti che sono avvenuti anche nella nostra bella e civile Toscana solo qualche ore fa, gli altrettanto terribili fatti di Torino di pochi giorni fa, ci indicano che in realtà, se si vuole parlare con una forzatura, la dialettica su questi temi così importanti è occupata troppo spesso da messaggi che oltre a essere, per quanto ci riguarda, distorti nei fatti e controproducenti nell’obiettivo di creare la coesione sociale che è necessità per affrontare anche una intemperie di crisi come quella che ci si presenta, una congiuntura finanziaria molto, molto grave, allontanano anche dal conseguimento di quello che deve essere un obiettivo evidentemente delle società civili organizzate e delle reti collettive e, cioè, quello di creare e di immaginarci una società nuova, una società del futuro e di contribuire al disegno, alla interpretazione di un mondo che è quello che ci aspetta, che necessariamente sarà diverso -

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già ora lo è - a dispetto dei ritardi legislativi rispetto a quello che ci ha preceduto: quindi fare comunicazione, fare aggregazione, aiutare le istituzioni, gli enti pubblici e, per questo, sussidiarietà nel mobilitare collettivamente. Io sono un po’ turbato perché non è la prima volta che lo sento dalle parole di Lawanskii quando parla della comunicazione diretta con il singolo e del fatto che a volte le associazioni assumono ruoli lobbistici. Francamente in questa rappresentazione mi ci trovo con imbarazzo; mi sarebbe piaciuto che fosse rimasto anche per approfondirla questa visione che io non so quanto, peraltro, sia aderante alla maniera con cui l’associazionismo popolare toscano si pone, e qui c’è stato un gruppo di persone che ha parlato a nome dell’associazionismo popolare in modo molto distante da quello che viene interpretato anche come lobby. La mia, per esempio, è una associazione popolare di 250 mila persone, povera, fatta di circoli e case del popolo in difficoltà; niente di più distante da stakeholder o portatori di interesse che incidono. Mi sembra una associazione che soprattutto fa promozione sociale, fa crescita della cittadinanza e, francamente, a volte la rappresentazione che si dà di questo mondo la trovo parossistica. Ma sto andando fuori tema e soprattutto non ho l’interlocutore con cui polemizzare, perché si parla di partecipazione ma, poi, si va via per cui l’ascolto diventa più difficile, se si parla di ascolto. Sottolineo questa cosa perché la comunicazione, la inclusione, la partecipazione sono veramente importanti per noi e non parlo solo a nome di una associazione come la mia ma della rete che, in questo momento, rappresento parlando de “L’Italia sono anche io”. Non è solo importante il conseguimento dell’obiettivo di sanare tramite queste due disposizioni di legge il fatto che Amalfitano ricordava: che i ragazzini, i bimbi e le bimbe che nascono in Italia da genitori stranieri regolari siano a tutti gli effetti italiani e possano crescere nel nostro paese con i diritti uguali a quelli dei loro coetanei, a prescindere da quella che è l’origine e lo stato legale di presenza sul territorio nazionale dei loro genitori: quindi cittadini a tutti gli effetti, non per origine, per stirpe, proprio per il fatto che si nasce nel nostro paese, e che si dia a persone, che contribuiscono in maniera determinante alla economia, al welfare, ai nostri sistemi, l’opportunità di partecipare alle decisioni tramite la possibilità di votare alle elezioni amministrative. E’ il meno che si possa fare; si tratta di sanare un ritardo non di pensare a una cosa bella nel futuro. Il nostro Presidente Rossi ci ricordava, qualche giorno fa, che già ora, nel 2010, nascono in Toscana 33 mila bimbi e bimbe e, di questi, 8 mila sono figli di genitori di origine straniera, il che significa che sono il 25%. Se non si sana questa cosa, ci si prepara fra poco a una società che sarà divisa fra cittadini di serie “A” con i diritti, e cittadini di serie “B”, “non cittadini”, creando una situazione castale come quella dell’India di 60 anni fa dove c’è gente che non ha nessun diritto e c’è gente che invece fa una vita normale. E’ possibile che si possa indugiare ancora in una situazione di questo genere? E’ possibile che non si possa mettere mano in maniera veloce alla riforma di un sistema di questo genere? E’

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possibile che questa cosa qui non venga percepita collettivamente e a diffusione ampia come un problema che riguarda tutti, dato che tutti i figli di persone, che hanno anche la mia età, sono in classe con ragazzetti e ragazzette che non godono degli stessi diritti dei propri figli? Questa è una cosa su cui bisogna ragionare, anche facendo una animazione che è, evidentemente, sussidiaria all’impegno che le istituzioni devono fare e devono fare ancora di più e penso anche alle aggregazioni, all’Upi, all’Anci, alla Regione Toscana che in Toscana su questo fanno molto: questo va detto in maniera chiara. Termino con questa considerazione: perché il terzo settore, l’associazionismo di promozione sociale, le onlus, il volontariato si devono impegnare su queste cose? Non solo per conseguire questi risultati, ma per fare crescere all’interno dei propri settori sociali, per cui io rivendico ancora una volta alla alterità rispetto alle riflessioni - mi tocca banalizzare - che faceva il professore bolognese prima: fare proprio una crescita di consapevolezza da parte delle basi sociali nostre e penso alla associazione di promozione sociale, penso al sindacato. Si ragionava proprio ieri a Livorno, in una di queste necessarie riunioni che si sono fatte per capire meglio e approfondire le conseguenze per i cittadini di origine africana e senegalese, in particolare, di quello che è successo con alcuni rappresentanti della C.G.I.L. che, con la sincerità necessaria per cose di questo genere, hanno detto che, in uno studio che hanno fatto del proprio corpo sociale, almeno il 10% dei tesserati della C.G.I.L., anche nella nostra Toscana, sono ostili alla presenza delle persone di origine straniera. Io penso che nella mia associazione siano anche di più; ve lo dico sinceramente perché non penso che i circoli e le case del popolo siano immuni, siano accademie di Careggi, dove c’è Marsilio e in cui disputano; penso che siano rappresentazioni trasversali delle contraddizioni che attraversano la nostra società, quindi c’è dentro anche questo. Ma proprio per questo noi dobbiamo avere questi strumenti di mobilitazione e le campagne come queste sono una occasione in più per poter incidere su queste persone, per poter dare un messaggio che è altro rispetto a quelli che in maniera, per quanto mi riguarda, criminale perché è un crimine usare la terminologia che, a volte, i responsabili politici di alcuni partiti usano parlando di questioni che riguardano le nuove cittadinanze, dando messaggi positivi e soprattutto evidenziando le contraddizioni e evidenziando le occasioni che, invece, ci sono positive di crescita nella nostra società nell’accoglienza degli immigrati e nella mediazione culturale. Il che non ci evita un altro sforzo necessario che, di questa operazione di comunicazione, è conseguenza perché, se noi ci limitassimo - parlo come dirigente di una associazione di promozione sociale - a fare la comunicazione e la denuncia, mancheremmo a una proposta necessaria che da noi deve venire: cioè noi dobbiamo chiedere alle istituzioni, agli enti locali, alla regione un maggiore sforzo, anche finanziario, in operazioni che sono di necessaria, fondamentale importanza. Purtroppo nella manovra, a fronte del fatto che tutti

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abbiamo, credo, considerato positivamente il fatto che ci sia un Ministro alla coesione sociale, alla integrazione, lo sforzo finanziario sulla mediazione culturale nelle scuole, lo sforzo finanziario nella mediazione affidato, ovviamente, alle associazioni, a quelli che poi sul territorio ci stanno e che sanno misurare in maniera chiara le contraddizioni e si guardano per primi dentro, analizzando queste contraddizioni, è uno sforzo finanziario che va aumentato e che, evidentemente, non può essere ridotto o annullato in seguito alle tragiche conseguenze che le manovre già da questa estate hanno sui conti degli enti locali. Allo stesso tempo bisogna anche rafforzare un approccio e per questo, secondo me, è importante parlare di sussidiarietà e del ruolo delle autonomie sociali, di mediazione del conflitto sociale, fra nuovi e vecchi cittadini, anche a piccole scale, non avendo paura di misurarsi con le piccole scale, perché i problemi sono spesso a livelli di condominio e, badate, non banalizzo per niente, i conflitti sociali sono anche a livello di isolato, non solo di quartiere, di isolato. La mediazione è una spesa che noi poi ci ritroviamo sempre in capitale sociale, in coesione, in abbattimento delle problematicità a scala cittadina, in crescita umana e partecipazione e tutta una serie di conseguenze positive di un investimento che noi non possiamo non fare. E quindi ci vuole la lucidità per pensare che anche mobilitazioni come queste sono un’occasione e, quindi, è importante che ci si ritrovi con i sindacati, le istituzioni, gli enti locali intorno alla campagna “L’Italia sono anche io” per discutere del disegno che vogliamo fare di una società diversa, nuova, plurale che, peraltro, è una necessità. Non è che siamo ganzi noi che si pensa di doverla fare perché è una cosa imposta da un mondo che sta cambiando: nostro malgrado per chi gli dispiace e in maniera neutra per chi, come me, vede che questa è una cosa che è sempre successa, che succede ora e che, anzi, pensa che sia una occasione - come pensa la mia associazione - di crescita anche collettiva. Però su questo ci vuole un investimento più chiaro e una chiamata a responsabilità anche delle autonomie sociali per capire che, evidentemente, l’intervento su temi di questo genere ha bisogno di uno sforzo collettivo più forte che non può essere lasciato alla semplice denuncia o alla semplice comunicazione. Vi ringrazio. (*) Testo non rivisto dall’autore

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Jacopo Ceramelli Papiani – Fondazione Istituto Andrea Devoto

L’esperienza degli operatori per ripensare ad un nuovo modello di welfare

La Fondazione nasce nel 1994 per onorare la memoria di Andrea Devoto, psichiatra e psicoterapeuta fiorentino, che ha sviluppato la sua attività umana e professionale su due direttrici principali: da un lato lo studio e la ricerca sulla condizione umana in situazioni estreme, con particolare riferimento all’universo dai campi di concentramento nazisti, e dall’altro la promozione a livello nazionale della metodologia dell’auto aiuto, quale strumento di riappropriazione della delega da parte del cittadino rispetto al proprio benessere ed alla propria salute. Andrea Devoto, con il suo lavoro e le sue pubblicazioni, ci ha proposto alcuni assunti che sono diventati fondamentali per il lavoro che in questi 17 anni abbiamo cercato di sviluppare e di tradurre in prassi operative sempre più concrete e soprattutto attente ai mutamenti della realtà sociale dei nostri contesti di riferimento. In particolare mi sembra opportuno ricordarne due: la necessità di attivare reti e la necessità di riconoscere la valenza positiva e potenzialmente illimitata del concetto di cambiamento. Credo di poter dire che, su questi principi, la Fondazione Devoto in questi anni ha costruito la sua filosofia e la sua operatività. Abbiamo promosso reti sociali a tutti i livelli, sviluppando e sostenendo ogni occasione di coordinamento, dal coordinamento toscano dell’auto-aiuto, al coordinamento regionale dei centri diurni psichiatrici, al tavolo toscano per l’inclusione sociale, mettendo a disposizione di pubblico e privato la nostra visione politica, la nostra esperienza sul campo, la nostra disponibilità a rappresentare uno spazio ed un tempo deputati all’attivazione delle sinergie necessarie per riflettere congiuntamente sui mutamenti in atto e per progettare insieme le strategie per entrare in relazione con quei mutamenti. Per questo anche, e questa è storia recente, quale conclusione di un lungo e complesso percorso di avvicinamento, la Fondazione Devoto ha recentemente modificato il proprio statuto, diventando “FONDAZIONE DI PARTECIPAZIONE”. Ciò ha segnato un passaggio decisivo nell’evoluzione della sua storia, concretamente rappresentato dall’ingresso nei quadri societari di soggetti diversi, istituzionali e non. Il significato profondo di questa trasformazione, ben al di là delle formule ufficiali, crediamo debba risiedere nella possibilità di riunire all’interno di uno stesso contenitore, know-how diversi, che nel rispetto delle specificità proprie a ciascuno, permettano di affrontare le diverse situazioni che rappresentano i campi di intervento comuni, con una maggiore visibilità, ma soprattutto con il contributo di idee e di risorse che la nuova sinergia si trova nell’occasione di governare. L’accento si sposta dal termine “fondazione” al termine “partecipazione”, vista come possibilità, opportunità, capacità, volontà di

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condividere i pensieri, le prassi, le visioni, che hanno caratterizzato la storia di ciascuno degli aderenti, finalizzando questa condivisione all’incremento delle opportunità di essere incisivi nel panorama della ricerca e dello studio di strategie di intervento sociale. Non è infatti casuale che i “partecipanti” alla Fondazione Devoto oggi rappresentano un universo ampio e variegato, certamente non esaustivo, ma altrettanto certamente molto rappresentativo delle forze sociali che quotidianamente sono impegnate in favore della promozione della salute e del benessere della comunità: dalle Società della Salute di Firenze, all’Associazione Regionale delle Cooperative, dall’ANPAS, all’Università degli Studi, alla UISP… In questi anni la Fondazione Devoto ha inoltre cercato di promuovere anche la diffusione delle proprie buone prassi attraverso una costante attività editoriale: la pubblicazione di una rivista quadrimestrale con l’obiettivo di costituire un punto di riferimento per gli addetti ai lavori, per la riflessione e l’approfondimento sulle diverse tematiche che rappresentano i focus intorno ai quali la Fondazione Devoto ha costantemente concentrato la propria attenzione. Ed è in particolare partendo dalla riflessione sull’uso e sulla diffusione di questo strumento che si è sviluppato il pensiero che rappresenta il nucleo centrale del nostro intervento di oggi. Infatti, se da una parte la situazione culturale, economica, politica e sociale in cui ci troviamo tutti ad agire è ben lontana dall’essersi posizionata su parametri di comprensione stabili, dall’altra è possibile affermare che se esistono sempre meno certezze, una di queste poche certezze riguarda la crisi profonda del sistema di welfare a cui siamo abituati a pensare ed all’interno del quale siamo abituati a muoverci. Una vera e propria emergenza del welfare. Una emergenza per affrontare la quale, citando Don Ciotti, ci siamo abituati a offrire risposte altrettanto emergenziali, perdendo così completamente di vista la visione d’insieme, una visione prospettica del nostro possibile orizzonte ed in fondo perdendo di vista anche un modello in cui credere ed a cui fare riferimento. In estrema sintesi, l’emergenza che oggi attraversa il welfare si caratterizza attraverso le peculiarità dei suoi aspetti:

a) un'emergenza sociale, dovuta alla crescita dei bisogni e alla comparsa di nuove problematiche;

b) un'emergenza economica, dovuta alla contrazione delle risorse pubbliche investite nel settore;

c) un'emergenza culturale, dovuta all'affermazione di una concezione "residuale" di welfare e al ritorno ai principi della beneficenza e della carità.

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Se è possibile sintetizzare così il quadro di riferimento, noi crediamo che di fronte a questa immagine sia necessario costruire innanzitutto le occasioni per condividere questa analisi, mettendo a disposizione di tutti gli interessati l’opportunità di confrontarsi, ciascuno con le proprie competenze e capacità, finalizzando il confronto alla verifica di modalità e strumenti necessari per proporre delle alternative di visione, per proporre in concreto e dal basso un nuovo modello di welfare che rappresenti una prospettiva su cui da un lato sia possibile dimostrarne l’opportunità e la fattibilità, dall’altro sia possibile invitare ad ulteriori confronti chi è chiamato a fare scelte e a prendere decisioni. Partendo da questa ottica e dall’opportunità offerta dal nostro essere FONDAZIONE DI

PARTECIPAZIONE, secondo i principi già declinati, la proposta della Fondazione Devoto si è concretizzata con un invito a partecipare a questa riflessione, rivolto al mondo delle amministrazioni pubbliche, della cooperazione sociale, dell’associazionismo e dell’università, secondo modalità e tempi che dovranno essere concordati. Ciascuna di queste realtà, attraverso il lavoro e l’impegno del proprio personale ad ogni livello, rappresenta spazi e tempi privilegiati e al contempo impegnati in operatività, studio di strategie, ricerche e analisi rispetto alla nostra realtà sociale in continua e frenetica mutazione. Riteniamo che sia solo attraverso la costruzione di concrete sinergie progettuali con queste realtà che sia possibile identificare contemporaneamente i bisogni e le risorse, che risultano indispensabili per tutti quelli che fanno del benessere comunitario la mission del proprio impegno personale e professionale. Si tratta di individuare in tempi brevi i modi ed i tempi necessari per avviare un processo che abbia quali obiettivi specifici:

• l’attivazione del confronto tra i protagonisti del welfare locale, finalizzato a verificare la possibilità di mettere in comune saperi, esperienze e strumenti per affrontare il tema dell’emergenza che sta trasformando i principi fondanti dello stato sociale e modificando in maniera sostanziale il lavoro degli operatori sul territorio;

• lo studio della possibilità di individuare nuove strategie e nuovi strumenti che, partendo proprio dalla loro condivisione, permettano di affrontare l’emergenza e impedire che, in nome di questa, diventi di fatto impossibile riflettere sul proprio mandato e pianificare le azioni future;

• la condivisione dell’uso e la trasformazione degli strumenti operativi in possesso di ciascuno per rendere concretamente realizzabile il rilancio di un welfare che sia sostenibile in tempi di emergenza e che al contempo non veda stravolte le proprie funzioni di supporto, di sviluppo e di giustizia sociale.

Fermo restando che qualunque decisione relativa alle strategie operative per il perseguimento degli obiettivi, sarà il frutto del confronto che questo invito promuove, ciascuno dei partecipanti a questa fase di avvio, è invitato a portare il proprio contributo di

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idee: in termini di analisi delle necessità della propria struttura di appartenenza, dell’utilità dei possibili strumenti e delle ipotesi riguardo ai contenuti e di strategie per la loro concretizzazione e diffusione.

Gli strumenti per realizzare gli obiettivi suddetti potranno essere ulteriormente approfonditi e concordati congiuntamente, ma ci sembra in ogni caso importante proporne almeno due quali possibili punti di partenza:

• l’attivazione di un tavolo di lavoro fra i protagonisti del welfare ai massimi livelli possibili (amministratori pubblici, dirigenti delle cooperazione sociale e dell’associazionismo, docenti e ricercatori dell’università), all’interno del quale promuovere il processo di riflessione e di analisi sul tema del welfare nel tempo dell’emergenza;

• la promozione di un’indagine conoscitiva (da valutare congiuntamente sotto quale forma: questionario, intervista, ecc.) presso i protagonisti per un’approfondita analisi del sistema welfare, dal punto di vista di chi opera quotidianamente nell’emergenza.

Infine una prima traccia rispetto alle possibili tematiche da affrontare. Siamo consapevoli che questo aspetto è probabilmente quello meno cogente, ma riteniamo in ogni caso opportuno farvi un accenno, se non altro per aiutare la comprensione della portata e del taglio di questa proposta. Abbiamo individuato preliminarmente quattro aree tematiche e per ciascuna di esse abbiamo provato a farci delle domande che ovviamente non consideriamo in nessun modo esaustive, ma che possono fare da introduzione alla riflessione comune: La prima inevitabilmente è sintetizzabile nella parole EMERGENZA:

• Dal punto di vista delle amministrazioni pubbliche e del mondo terzo settore, è possibile concordare su un’analisi dell’attuale sistema di welfare nella quale il tema dell’emergenza è il quello predominante?

• Come si esplicita l’emergenza nel lavoro quotidiano delle strutture pubbliche e private?

• In che modo il tema dell’emergenza influenza la scelta delle strategie di intervento a medio-lungo respiro?

• Quali ipotesi si possono fare per uscire dall’emergenza?

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La seconda fa riferimento al tema della PARTECIPAZIONE:

• La partecipazione dei destinatari finali degli interventi sociali (i cittadini) è considerata davvero un valore aggiunto, in quanto produttrice di incremento del capitale sociale comunitario?

• Come si esplicita e si sostanzia la partecipazione oggi nel lavoro quotidiano? • Quanto e con quali strumenti operativi le strutture (pubbliche e private) sono aperte

alla partecipazione dei cittadini? • Quanto le reti che insistono intorno alle strutture contribuiscono ad alimentare la

partecipazione? • Quali opportunità e strumenti devono essere potenziati o inventati per contribuire a

potenziare il processo di partecipazione? La terza affronta il tema della QUALITÀ DELLA VITA:

• La qualità della vita degli addetti (pubblici e privati) è ancora considerata un valore

aggiunto per la qualità del loro intervento professionale? • In che modo le strutture (pubbliche e private) investono sulla qualità della vita dei

propri addetti? • In che misura ed in che termini la scarsità delle risorse disponibili incide sulla qualità

della vita degli addetti? • Si ritiene possibile affrontare il tema della qualità della vita degli addetti, secondo

paradigmi che non tengano conto esclusivamente della variabile economica? E la quarta riguarda il tema della FORMAZIONE:

• C’è ancora spazio per la formazione degli operatori nelle strutture deputate al welfare? • Esistono all’interno delle strutture strumenti standardizzati di indagine rispetto ai

bisogni formativi degli addetti? • Quali sono la misura e la qualità del bisogno formativo espresso dagli addetti? • Quali strumenti vengono utilizzati oggi per rispondere a questi bisogni? • Quali bisogni rimangono invece inespressi? • Lo scambio di esperienze e di buone prassi all’interno delle reti di collaborazione

consolidate è ritenuto uno strumento di formazione degli addetti?

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Obiettivo generale di questa iniziativa è la verifica di una possibilità. La possibilità di contribuire alla costruzione di un nuovo modello di welfare, che non prescinda dal contributo di chi si interroga quotidianamente sul proprio mandato professionale, ma che anzi da questo contributo ricavi la traccia privilegiata per produrre una nuova visione di società civile, in cui sia possibile dare le risposte giuste soprattutto perché siamo stati capaci di far emergere le domande, anche attraverso la costruzione condivisa di strumenti agili e integrati di informazione, aggiornamento, formazione, scambio di esperienze e visibilità di buone prassi: in una parola gli strumenti per una nuova cultura di welfare. Riteniamo che questa proposta operativa, a cui hanno già dato la disponibilità a partecipare l’Università di Firenze, una parte significativa del mondo della Cooperazione Sociale e l’ANCI della Toscana, debba e possa avere il massimo della risonanza e della partecipazione possibili, e che possa contribuire ad affrontare il tema dell’emergenza partendo da una prospettiva concretamente comunitaria di superamento della parcellizzazione degli interventi. Per questo ringrazio ancora dell’occasione che questa giornata rappresenta per la presentazione di queste idee e tutti voi dell’attenzione.

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Vincenzo Striano - Vicepresidente Conferenza permanente delle autonomie sociali Nell’affrontare il ruolo del terzo settore bisogna aver coscienza dalla crisi che attraversa il paese per evitare di fare ragionamenti retorici o astratti. Si tratta della crisi più difficile che la maggioranza dei cittadini abbia mai affrontato. Crisi economica e finanziaria prima di tutto ma anche di valori e di sistemi di relazione. In pochi anni il mondo intorno a noi si è modificato radicalmente e ancora continua a cambiare. La crisi morde, fa male, logora, sembra non avere mai fine. Si sente continuamente dire che il peggio deve ancora arrivare. E’ indubbio che dobbiamo abituarci a navigare in una situazione faticosissima, fatta di contraddizioni e paradossi, con poche certezze. Eppure, senza perdere una sorta di realismo pessimista, bisogna non farsi prendere da attacchi di panico perchè questo è il tempo e la società in cui viviamo, questi sono i problemi che abbiamo di fronte e affrontarli è l’unica cosa che possiamo fare.

In questa situazione il terzo settore può essere una risorsa straordinaria per le nostre comunità, anzi mai come oggi la società ha bisogno di esso, a patto di capirne potenzialità e limiti e avendo coscienza che molto deve cambiare l’universo del non profit per essere all’altezza del compito.

E’ sempre più diffusa l’idea che tutto dipenda dalle risorse finanziarie e che senza di esse non si possa fare nulla. A negare questo concetto si rischia di passare da ingenui. E’ la crisi stessa che rafforza questa idea. Preciso subito che non voglio sottovalutare gli aspetti finanziari ma bisogna pur provare a sfuggire a questo apparente realismo, che diventa subalternità, secondo il quale è la logica dei mercati che determina quali sono i valori di riferimento, i comportamenti virtuosi, cosa fare e non fare, relegando a ruoli marginali temi come la giustizia sociale, il rispetto dell’ambiente, la partecipazione, la difesa dei “beni comuni”. Nella realtà al centro della nostra vita stanno prima di tutto: il benessere psicofisico, le nostra capacità di avere (o non avere) rapporti, affetti, amore, la buona qualità (o il degrado) del territorio in cui viviamo, le opportunità sociali e culturali a cui possiamo (o non) accedere. Inoltre è difficile immaginare di poter affrontare la crisi senza avere buoni sistemi di relazione, valori condivisi, forme di solidarietà e partecipazione. Naturalmente molte di queste cose appartengono alla sfera privata, di cui ognuno è a buon diritto geloso, ma è vero che senza volontariato, associazionismo, impresa sociale è impossibile pensare che una qualche forma di welfare si mantenga. E’ indubbio che le istituzioni pubbliche non ce la fanno più a garantire da sole servizi e qualità della vita. Tutti i giorni verifichiamo il fallimento dei due modelli che si sono contrapposti per tanti anni, il mercato da una parte e lo statalismo dall’altra. Quella discussione per come l’abbiamo conosciuta è datata, superata dall’emergere di altre difficoltà. Va trovato un approccio nuovo. Se non si vuole lasciare i singoli in balia delle speculazioni dei mercati vanno trovate forme per cui lo

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spazio pubblico torni al centro dell’attenzione di tutti. Uno spazio pubblico che va rinnovato e allargato, comprendendo e valorizzando “i corpi intermedi”, le forme di autorganizzazione e partecipazione dei cittadini.

Questo non significa mortificare il ruolo delle istituzioni pubbliche che mantengono funzioni fondamentali e importanti, dov’è possibile anche in relazione alla gestione diretta, ma soprattutto in riferimento al governo e al controllo. Se anzi qualcosa è mancato, e lo dico con preoccupazione e non con senso polemico, è che su alcune questioni fondamentali della nostra società la politica tradizionale e le istituzioni sembrano aver rinunciato a governare.

L’esempio più clamoroso di questi anni in relazione al welfare è sicuramente quello delle “badanti”. Una parte significativa di stato sociale, concreta e delicata, che riguarda l’assistenza a familiari e soggetti deboli è stato lasciato alla più completa deregulation, fatta di mercato nero, assenza di regole, situazioni di ricatto e paura (si pensi alla condizione delle immigrate “non regolarizzate”). Questo è potuto avvenire anche per una sorta di complicità collettiva in cui si sono intrecciate tutte le contraddizioni della modernità, dalle istituzioni pubbliche che non hanno più risorse per i servizi al bisogno delle famiglie che, saltato lo schema tradizionale di organizzazione, hanno avuto bisogno di trovare collaboratori a bassissimo costo. Questo bisogno è tanto più forte tra la popolazione con reddito modesto. Sia chiaro non sono cose che hanno soluzioni semplici. Ma la crisi della politica è anche non essere riuscita a governare questi fenomeni che rischiano di produrre guerra tra poveri, nuove forme di sfruttamento, disgregazione sociale.

Se diventa indispensabile e positivo coinvolgere il terzo settore nella gestione del welfare, da evitare è che ciò avvenga nella maniera peggiore e cioè in maniera completamente deregolamenta.

Detto questo va segnalato che il terzo settore è anche un contenitore potenziale di tante e nuove occupazioni che spesso riescono ad intrecciare realizzazione di sé e motivazione lavorativa. Non va sottovalutato che molti trovano gratificante svolgere occupazioni socialmente utili e sono disposti a percepire redditi più contenuti se accompagnati da gratificazione personale e ruolo sociale.

Con la crisi emerge una altra utile funzione del terzo quella di straordinaria riserva di valori di coesione. La tenuta sociale che prevede una cultura di comunità con sentimenti positivi e condivisi diviene un fattore ancora più importante quando si deve affrontare un periodo difficile. Purtroppo la crisi moltiplica la disgregazione, gli egoismi sociali, le paure. “L’altro”, con le sue differenze, non è più una risorsa con cui confrontarsi e con cui condividiamo un destino e un territorio, ma un concorrente pericoloso da cui difendersi. La paura spinge al sospetto e all’isolamento ma è pura illusione che l’egoismo sociale, con l’invenzione e la difesa di piccole patrie, permetta ad una parte di salvarsi a scapito di altre. Il moltiplicarsi di tensioni e marginalità ha costi altissimi in tutti i campi. Inoltra se chi

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rischia maggiormente sono i soggetti più deboli, non bisogna sottovalutare che nel mondo veloce in cui viviamo, dove affrontiamo cambiamenti che in passato avrebbero coinvolto generazioni distanti tra loro, nessuno può essere sicuro di mantenere per sempre un ruolo egemone. Chi oggi è forte può velocemente diventare il soggetto debole e bisognoso Questo vale per gli individui come per gli stati. In realtà la costruzione di un sistema solidale e condiviso di relazioni, diritti e buone regole conviene a tutti.

Il terzo settore può svolgere un ruolo fondamentale in relazione a questi temi. Esso è portatore naturale di socialità e di valori solidali. Unisce la teoria allo svolgimento concreto di buone pratiche. Tende ad essere presente in tutti i settori (sanitario, sociale, cultura, ambiente, sport) e in tutti i territori. In Toscana poi ha sempre espresso un sistema di eccellenza per quantità e qualità.

In questo contesto è anche importante sottolineare che, come dimostrano tutti gli studi su questo, c’è simpatia e interesse verso il terzo settore da parte dei giovani e dei cittadini in genere, una fiducia che altre sfere dello spazio pubblico, in particolare la mondo della politica non hanno più.

Dire che il terzo settore è una risorsa indispensabile non significa ignorare le difficoltà e le contraddizioni che lo attraversano.

Il paradosso è che la stessa crisi che rende fondamentale il ruolo del terzo settore rischia di strangolarlo. Questo vale per tutti i soggetti del non profit (volontariato, associazionismo, sistema di cooperazione e impresa sociale). La mancanza di una cultura del profitto nel terzo settore può renderlo paradossalmente impreparato in fasi di speculazione finanziaria. Anche per questo sono essenziali il sostegno e il contributo pubblico. Ci vorrebbe un patto di percorso, finalizzato all’interesse collettivo, tra istituzioni pubbliche e privato sociale. Ma il mondo politico pare oscillare tra l’esaltazione retorica del ruolo dl volontariato e una sottovalutazione cronica delle funzioni che esso può svolgere.

Non sono mancati tentativi di innovare. Concetti come “sussidiarietà orizzontale”, partecipazione, welfare mix (con ruolo intrecciato di pubblico e privato sociale) sono stati presenti nella recente discussione politica ma paiono perdersi nelle difficoltà della crisi attuale.

Anche un concetto importante come “il federalismo fiscale”, portatore di concetti innovativi anche se ancora da sperimentare, è scomparso dall’agenda politica in pochissimo tempo. Eppure proprio la mancanza di risorse porterebbe alla necessità di riflettere su modalità di raccolta fondi diversificate e gestite localmente.

Ma ci sono anche le autocritiche da fare. E’ evidente che limiti sono spesso presenti nell’interno del terzo settore Aggiungo, ed è il motivo per cui abbiamo voluto questo percorso, che c’è anche la necessità di autoriforma all’interno del terzo settore: Spesso i primi a sottostimare il terzo settore sono proprio le associazioni che lo compongono che

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paiono fare fatica ad aver coscienza di sé, del ruolo che possono svolgere, e puntano ad un ruolo di attori secondari.

Inoltre le associazioni sono per loro natura abbastanza individualiste e fanno spesso difficoltà a organizzarsi in rete che però è diventata una delle condizioni indispensabili per reggere nella crisi. Resisterà chi saprà fare alleanze e innovazione. Il percorso che stiamo provando a fare come COPAS, non avendo uno specifico da difendere, è quello di aiutare una crescita collettiva del mondo del terzo settore.

In uno dei nostri incontri un relatore ha detto: “alla fine la crisi è anche un’occasione di assunzione di responsabilità, a patto di governare i fenomeni”, condivido questo tipo di affermazione. Dobbiamo ragionare così perché purtroppo raramente in situazioni di prosperità si si sente il bisogno di cambiare, è un po’ triste dirlo, però le riforme si fanno spesso spinti dalle necessità e contraddizioni.

Un tema su tutti. Non è che si possa pensare solo di produrre sviluppo all’infinito, facendo finta che questo sia possibile, e ignorare che la nostra crescita si basava anche sullo sfruttamento di risorse naturali non infinite e sulla povertà e lo sfruttamento di miliardi di donne e uomini che vivono in altre zone del pianeta. Molti di quei paesi sono oggi in disordinata ma tumultuosa crescita. Sono zone cariche di contraddizioni, quasi sempre caratterizzate da sfruttamento duro e da una iniqua distribuzione del reddito. E’ fondamentale che in queste aree si diffondano diritti, da quelli civili a quelli sul lavoro, e un senso di rispetto dell’ambiente. Ma è difficile pretendere che le popolazioni di quei paesi si accontentino all’infinito di livelli materiali di vita molto inferiori ai nostri. Non parlo di decrescita felice ma il tema del riequilibrio tra tutte le zone del mondo è un tema corretto. Bisogna aver coscienza che va messo nel conto un abbassamento delle nostre potenzialità materiali e dunque se non aumentiamo quelle relazionali il futuro è veramente triste. C’è anche un’alternativa che si chiama scommessa comune dell’umanità, fatta di regole condivise e attuate ovunque, di valorizzazione delle comunità locali, di rispetto delle differenze, di amore per l’ambiente. Sembrano ingenuità ma a me appaiono riflessioni in cui c’è più realismo di quelle che ci propongono di puntare sulle virtù taumaturgiche dei mercati finanziari e sul darwinismo sociale.

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