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1 febbraio 2016 6 EURO TARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N.46) ART.1 COMMA 1, DCB MENSILE DI RELIGIONI · POLITICA · SOCIETÀ feb 2016 Un mondo da difendere

Confronti febbraio 2016 (parziale)

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febbraio 2016

6 EUROTARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N.46) ART.1 COMMA 1, DCB

MENSILE DI RELIGIONI · POLITICA · SOCIETÀ

feb2016

“Un mondo da difendere”

ANNO XLIIINUMERO 2Confronti, mensile di religioni, politica, società, è proprietà della cooperativa di lettori Com Nuovi Tempi, rappresentata dal Consiglio di Amministrazione: Nicoletta Cocretoli, Ernesto Flavio Ghizzoni (presidente), Daniela Mazzarella, Piera Rella, Stefania Sarallo (vicepresidente).

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Claudio Paravati

CAPOREDATTORE Mostafa El Ayoubi

IN REDAZIONE

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COLLABORANO

A CONFRONTI

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Dafne Marzoli, Domenico Maselli, Cristina Mattiello, Lidia Menapace, Adnane Mokrani, Paolo Naso, Luca Maria Negro, Silvana Nitti, Enzo Nucci, Paolo Odello, Enzo Pace, Gianluca Polverari, Pier Giorgio Rauzi (direttore responsabile), Paolo Ricca, Carlo Rubini, Andrea Sabbadini, Brunetto Salvarani, Iacopo Scaramuzzi, Daniele Solvi, Francesca Spedicato, Valdo Spini, Patrizia Toss, Gianna Urizio, Roberto Vacca, Cristina Zanazzo, Luca Zevi.

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A QUESTO NUMERO

C. Bettega, C.M. Calamani, E.C. Del Re, José Luiz Del Roio, R. Di Segni, I.C. Ferrero, A. Fucecchi, M.P. Giuffrida, G. Giulietti, T. Isenburg, M. Mazzoli, U. Melchionda.

FOTO/CREDITI

Copertina - Adriano

Abreu (Ocupação

Carolina Maria de Jesus)

pag. 3 - Alexandre Maciel

(Ocupação Carolina

Maria de Jesus)

pag. 11 - Alexandre

Maciel - Ocupação

Carolina Maria de Jesus)

pag. 13 - Karen Cristina

(Ocupação Carolina

Maria de Jesus)

pag. 14 - Alexandre

Maciel (Ocupação

Carolina Maria de Jesus)

pag. 17 - Alexandre

Maciel

pag. 18/19 - Alexandre

Maciel

pag. 20 - Adriano Abreu

(Ocupação Carolina

Maria de Jesus)

pag. 24/25 - Alexandre

Maciel (Ato Contra o

Aumento das Passagens)

pag. 26/27 - Alexandre

Maciel

pag. 31 - Alexandre

Maciel (Ocupação

Carolina Maria de Jesus)

pag. 34 - Adriano Abreu

(Ocupação Carolina

Maria de Jesus)

pag. 39 - Samara

Takashiro (Ocupação

Carolina Maria de Jesus)

pag. 40 - Alexandre

Maciel (Ocupação

Carolina Maria de Jesus)

pag. 41 - Alexandre

Maciel (Ocupação

Carolina Maria de Jesus)

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febbraio 2016 le immaginifebbraio 2016

BRASILE

Il servizio fotografico di questo mese ritrae visi,

incontri e gesti di un Brasile

fatto di dialogo tra culture e differenti provenienze

sociali e geografiche.

Gli scatti portano in

scena momenti dell’occupazione “Carolina Maria de Jesus”, nome della scrittrice brasiliana, e

dell’occupazione “Terra Livre” (Terra libera).

Sono i volti di un paese in ascesa,

che vive di memoria storica,

di sviluppo ma anche di

contraddizioni, come descritto

nel servizio a pagina 12.

La copertina è di Adriano Abreu facebook.com/

Adriano AbreuFotos

OcupaCMJ: facebook.com/

OcupaCMJ

Terra Livre: facebook.com/

TerraLivre CampoCidade

il sommario

il sommarioGLI EDITORIALI

Un servizio poco pubblico e troppo politicoGiuseppe Giulietti6

Se l’Europa rottama SchengenUgo Melchionda7

Battere Daesh anche sul piano ideologicoEmanuela C. Del Re8

Se una farfalla batte le ali a PechinoMarco Mazzoli9

Il Vangelo, il ricordoe la libertàCristiano Bettega10

ISERVIZI

BRASILEIl compromesso possibile tra economia e societàJosé Luiz Del Roio12

Le chiese cristiane e la dittaturaTeresa Isenburg14

SCUOLALa funzione pubblica della scuola italianaGiuliano Ligabue16

Scuole paritarie: quale servizio pubblico?Cecilia M. Calamani18

È davvero una “buona scuola”?Antonella Fucecchi20

DIALOGOUn segnale di impegno per la pace(int. a) Riccardo Di Segni22

EUROPALa facile scorciatoia del razzismoGianna Urizio24

Colonia: la religione c’entra poco(int. a) Stefano Allievi26

NOSTRA AETATEQuando la Chiesa capì che c’è salvezza anche “fuori”Ottavio Di Grazia28

SOCIETÀLo scandalo dei bambini dietro le sbarreBruna Iacopino30

Reinserimento sociale e giustizia riparativa(int. a) Maria Pia Giuffrida32

LENOTIZIE

Informazione Rapporto di Reporters sans frontières35

Immigrazione Nel 2015 un milione di persone fuggite in Europa35

Pluralismo Anche in Veneto una legge “anti-moschee”?36

Chiese Record di download di moduli per lo sbattezzo36

Medio Oriente Netanyahu irritato dall’Accordo tra Santa Sede e Palestina36

Giubileo L’Anno santo in Georgia si apre con una porta in un prato37

Anglicani Scisma evitato o solo rimandato?38

LERUBRICHE

Diario africanoL’ottima salute del terrorismo in AfricaEnzo Nucci40

Note dal margineQuando una luce rompe la foschiaGiovanni Franzoni41

Salute e religioni Curarsi per cultura: islam e medicinaIlhamAllah Chiara Ferrero42

Spigolature d’Europa Polonia e Ungheria:due Paesi e due misure Adriano Gizzi43

ILIBRI

Un’India stretta fra spiritualità e violenza Maria Immacolata Macioti44

Segnalazioni 45

IMMAGINI

Un mondo da difendereAdriano Abreucopertina

BrasileAdriano AbreuKaren CristinaAlexandre Maciel da SilvaSamara Takashiro 3

febbraio 2016

febbraio 2016

Il dialogo che resiste Claudio Paravati

Non c’è che dire, viviamo una stagione rinnovata di dialogo ecumenico e interreligioso. Basti solo ripercorrere le visite di Bergoglio – quelle passate e

quelle in calendario – per rendersene conto. Nel giro di un anno e mezzo papa Francesco ha incontrato il pastore evangelico Traettino a Caserta (28 luglio 2014), la chiesa valdese a Torino (22 giugno 2015), la Sinagoga di Roma (17 gennaio scorso); ha in programma la visita alla Grande Moschea, sempre a Roma, e fa sapere, in un comunicato stampa del 25 gennaio, che «ha in animo di prendere parte ad una cerimonia congiunta fra la Chiesa cattolica e la Federazione luterana mondiale, per commemorare il cinquecentesimo anniversario della Riforma, in programma a Lund, Svezia, il 31 ottobre 2016». Una chiara politica all’insegna dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso, sostenuta anche il 17 gennaio scorso – giornata del dialogo ebraico-cristiano – quando Francesco al Tempio Maggiore di Roma ha detto: «La violenza dell’uomo sull’uomo è in contraddizione con ogni religione degna di questo nome, e in particolare con le tre grandi religioni monoteistiche». Questo dialogo fatto di incontri, simboli importanti e momenti storici (non dimentichiamo che Bergoglio è il primo papa della storia a essere entrato in una chiesa valdese), è un fatto del nostro presente da salutare con interesse e da seguire con attenzione. Ma si scontra con l’acutizzarsi delle tensioni interreligiose, spesso frutto di fantasmi e mistificazioni identitarie, in giro per l’Europa. E questo è preoccupante. Il ministro francese dell’Interno, Bernard Cazeneuve, ha dichiarato che in Francia nel 2015 gli atti antisemiti sono aumentati, e quelli antimusulmani sono addirittura triplicati, rispetto all’anno precedente. Brutti segnali di tensioni guidate dalla logica del “nemico” da allontanare e attaccare. Il pretesto è l’appartenenza religiosa, con le sue abitudini, i suoi luoghi di culto e i suoi simboli. Gli scricchiolii già si odono in giro per un’Europa che chiude le frontiere, e desta viva preoccupazione che le discriminazioni, ancora una volta, trovino proprio nel fattore religioso un terreno adatto per creare violenza tra gruppi ben identificabili: amici da una parte (i miei), nemici dall’altra (gli altri). Il giurista Carl Schmitt ha fatto notare: «Non c’è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo, o esteticamente brutto... Egli è semplicemente l’altro, lo straniero» [corsivo nostro]. E aggiunge che «contrasti religiosi, morali e di altro tipo si trasformano in contrasti politici... ma se si giunge a ciò, allora il contrasto decisivo non è più quello religioso, morale o economico, bensì quello politico». L’analisi è dunque da approfondire: oggi assistiamo a una confusione generalizzata di tensioni che ricercano, ognuna secondo la propria logica, il proprio “nemico” da cui difendersi; finendo per discriminare, in un sol colpo, migliaia, milioni di persone: per provenienza geografica, culturale, religiosa, etnica e politica. Se la logica del contrasto è innanzitutto politica, siamo allora di fronte a una profonda crisi politica dell’Europa, i cui sintomi, questi sì, emergono drammaticamente negli atti discriminatori, compresi quelli a sfondo religioso. Un campanello d’allarme a cui non si può non rivolgere attenzione e orecchio, vegliando affinché nessuna motivazione pretenda di valere per discriminare e permettere violenze di sorta: sia essa religiosa, morale, giuridica o economica.

invito alla lettura

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febbraio 2016 gli editoriali

Un servizio poco pubblicoe troppo politico Giuseppe Giulietti

La nuova legge sulla Rai, nonostante gli impegni assunti da Renzi, ha

nuovamente consegnato al governo e ai partiti il potere di nomina del presidente, del consiglio di amministrazione e dell’amministratore delegato. Quest’ultimo riassumerà in sé una quantità enorme di potere decisionale e sarà comunque espresso dall’esecutivo di turno, anche se dovrà poi essere ratificato con il voto di una larga e qualificata maggioranza parlamentare; per questo appare assolutamente improprio ogni paragone con le situazioni di Ungheria e Polonia.I sostenitori della nuova legge ritengono questa la vera rivoluzione destinata a cambiare la Rai. Ci auguriamo che questo possa accadere e sicuramente Antonio Campo Dall’Orto, scelto come amministratore delegato, ha le qualità e le sensibilità culturali per riuscire nell’impresa, ma il quadro complessivo presenta non poche contraddizioni.Tanto per cominciare, le sentenze della Corte costituzionale hanno sempre indicato nell’autonomia dai governi uno dei tratti distintivi del servizio pubblico. La soluzione prevista dalla legge va in questa direzione o rafforza

la subordinazione agli esecutivi di oggi e di domani? La Corte non avrà nulla da dire? La nuova legge, per usare le parole di Renzi, allontana

davvero la Rai dal controllo politico? Il nuovo modello costituzionale marcia nella direzione del rafforzamento del ruolo dell’esecutivo, la nuova legge Rai sembra andare nella stessa direzione e cioè verso un accentramento del potere ed una riduzione della dialettica. Non sarebbe stato meglio procedere prima ad una ridefinizione del ruolo e della funzione dei poteri di controllo? Dal momento che il consiglio di amministrazione ed il

gruppo dirigente saranno comunque espressi, quasi interamente, dai governi e dalla politica, che senso ha mantenere in vita una commissione parlamentare di vigilanza che rischia di essere un luogo di controllo più che di indirizzo e di progettazione? A meno che non sia stato uno scambio con le opposizioni che, per

la verità, non si sono certo segnalate per la durezza delle loro prese di posizione.Il modello di legge votato dal Parlamento è più vicino alla vecchia legge Gasparri (quella che Renzi non voleva neppure sentir nominare) che non agli impegni assunti all’inizio del percorso della riforma. In quella occasione il Pd e il governo avevano indicato con chiarezza la loro preferenza per un modello fondato sulla separazione radicale tra gli indirizzi e la gestione, ispirato all’esperienza della Bbc, capace di includere nella gestione dell’azienda anche professionalità maturate nelle Università, nella ricerca, nella società civile. Del resto questi progetti

avevano trovato una traduzione legislativa, per restare al solo partito di maggioranza, anche nelle proposte a suo tempo presentate dal ministro Gentiloni e da Veltroni.Quella strada, senza una comprensibile spiegazione politica, è stata poi abbandonata; i progetti di radicale riforma sono stati riposti nei cassetti.Da qui perplessità e preoccupazione di chi, come noi, condivideva il percorso annunciato e poi abbandonato.Si aggiunga a questo quadro la scelta di non accompagnare la nomina del nuovo gruppo dirigente con una chiara indicazione sul perimetro delle risorse e sul mandato editoriale.La mancata definizione delle risorse potrebbe innescare un meccanismo di trattativa annuale tra azienda e governo, esaltando le possibilità di interferenza indebita, come ha giustamente sottolineato anche la mozione votata dall’ultimo congresso dell’Usigrai. Naturalmente ci auguriamo di sbagliare e che la buona volontà delle donne e degli uomini che oggi governano la Rai possa sanare queste ferite ed invertire la rotta, anche se da norme vecchie ed inique difficilmente derivano innovazione ed autonomia, industriale ed editoriale.Ci auguriamo di sbagliare perché l’Italia ha bisogno di un servizio pubblico capace di contrastare l’industria della paura, di diffondere i valori della coesione sociale, della solidarietà, dell’unità nazionale nel quadro dell’unità europea, del pluralismo politico, culturale e religioso: principi spesso trascurati e umiliati.

GIUSEPPE GIULIETTIpresidente della Federazione nazionale della stampa italiana, già portavoce di Articolo 21.

“La nuova legge Rai, in linea con il nuovo modello costituzionale,

sembra andare in

direzione di un rafforzamento

del ruolo dell’esecutivo„

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febbraio 2016 gli editoriali

Se l’Europa rottama Schengen Ugo Melchionda

Che ne è dell’accordo di Schengen, uno dei cardini della Costituzione

dell’Unione europea, che prevede(va) la libera circolazione dei cittadini europei dal suo punto più a nord (Nuorgam, Finlandia) al suo punto più a sud (Akrotiri, Cipro) e dal suo punto più a ovest (Fajã Grande, Azzorre, Portogallo) al suo punto più a est (Ayia Napa, Cipro)?

Negli ultimi mesi abbiamo assistito e stiamo ancora assistendo ad un effetto domino che sembra inarrestabile: la Svezia ha ripristinato i controlli alla frontiera con la Danimarca, che a sua volta ha reintrodotto i controlli ai confini con la Germania; questa ha introdotto controlli ai confini con l’Austria, che ha chiuso le frontiere e sospeso i treni di migranti provenienti da Ungheria; quest’ultima ha costruito un muro al confine con la Slovenia; la quale, riportano i media, sta valutando l’idea di munirsi di barriere protettive sul confine con la Croazia; paese con il quale l’Italia è allertata (da zelanti giornalisti) a chiudere le frontiere, mentre la Francia, che aveva già temporaneamente ripristinato più volte i controlli alla frontiera con l’Italia sembra pronta a rifarlo al minimo cenno di crisi. Per non parlare della Gran Bretagna.

Insomma: l’accordo di Schengen che rappresentava uno dei simboli del

sogno europeo, insieme al Parlamento europeo e alla moneta unica, e

molte volte era stato uno dei motori principali per attrarre verso l’Unione europea i governi dei paesi del continente europeo, che aveva fatto sentire, più di altri simboli, i giovani dei 28 paesi membri cittadini europei, prima e più che cittadini nazionali, sembra oggi carta straccia, di fronte ai nuovi fatti.Da un lato, in misura minore, di fronte al timore suscitato dal terrorismo e alle misure di sicurezza che i singoli stati membri hanno preso per contrastare tale minaccia. Dall’altro, in misura maggiore, a fronte dell’impossibilità di gestire la crisi umanitaria, che ha portato un milione di profughi in Europa nel corso del 2015, con gli strumenti offerti dal vigente accordo di Dublino, che stabilisce che ogni profugo deve fare la richiesta di asilo nel primo paese europeo di cui ha varcato la frontiera.

Il dilemma che ci troviamo di fronte è quello di scegliere tra l’accordo di Schengen e il regolamento di Dublino, perché non possono essere entrambi in vigore nello stesso tempo, e la mobilità interna dei cittadini europei non è compatibile con la costrizione dei richiedenti asilo a chiedere asilo nel primo paese raggiunto. E il problema non è tecnico o giuridico, la questione non è come modificare l’accordo di Schengen o il regolamento di Dublino in modo da renderli compatibili l’un con l’altro, ma è etico e politico: non possiamo permetterci di avere

un’Unione europea che promuove mobilità e libera circolazione per i propri cittadini e immobilità e residenza forzata per i profughi e richiedenti asilo che essa ha accolto, dando loro protezione internazionale.

La domanda «Che succederebbe se cediamo su Schengen, se rinunciamo alla libera circolazione in Europa?» rassomiglia un po’ alla domanda «Che succederebbe se gli immigrati lasciassero l’Italia?». Come sarebbe inimmaginabile un’Italia senza immigrati, sarebbe altrettanto inimmaginabile un’Europa senza libera circolazione per i giovani e per gli imprenditori dei 28 paesi che si muovono liberamente tra Parigi, Roma, Londra e tutti gli altri splendidi posti dell’Europa. Se rinunciamo a Schengen, in nome

della sicurezza, della realpolitik, l’Europa che 500 milioni di cittadini hanno sognato sarà perduta.

Ma Schengen dobbiamo salvarlo per tutti, anche per coloro che accogliamo come profughi e richiedenti asilo, che riconosciamo come rifugiati. Se salviamo

la libera circolazione per i cittadini europei e la neghiamo ai profughi che accogliamo, finiremmo per creare un sistema di apartheid in cui il regolamento di Dublino rappresenta la linea gialla che ai profughi non è permesso varcare. E di tale soluzione non abbiamo davvero bisogno.

“L’accordo di Schengen,

che rappresentava uno dei simboli

del sogno europeo,

viene ridotto a carta straccia„

UGO MELCHIONDApresidente del Centro studi e ricerche Idos.

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febbraio 2016

EMANUELA DEL REdocente di Sociologia politica e presidente dell’agenzia Epos, che opera in zone di conflitto.

Battere Daeshanche sul piano ideologico Emanuela C. Del Re

Lo scenario mediorientale su cui si è aperto il 2016 sta tutto

nell’immagine antica e nuova dei migranti in fuga verso l’Europa: visti a torto come un’invasione, loro malgrado hanno dato impulso all’urgenza di risolvere i conflitti che ne causano l’esodo. Gli eventi significativi con cui si è chiuso il 2015 sono molti: Daesh (Stato Islamico) ha creato più fronti con gli attacchi terroristici in Francia, Tunisia, Libano; la Russia è intervenuta militarmente in Siria; si è inasprito il conflitto in Yemen; in Libia si è cominciato a formare un governo di unità; è stato firmato lo storico accordo sul nucleare con l’Iran; è scoppiata una crisi tra Iran e Arabia Saudita. Tutto questo come si evolverà? La crisi Iran-Arabia Saudita è preoccupante. Per l’Arabia Saudita l’esecuzione del popolare sceicco sciita Nimr al-Nimr, che ha scatenato le ire dell’Iran, ha una logica: 46 dei 47 giustiziati (tra cui al-Nimr) erano jihadisti, molti legati ad Al Qaeda. Per l’Iran – roccaforte degli Sciiti – l’uccisione dello sceicco è una provocazione. Riyad ha agito a vantaggio interno, per unire la popolazione contro un nemico comune, l’Iran, ma la questione è più profonda. Non è solo una

disputa teologica sciiti-sunniti, ma riguarda differenze socio-politiche e identitarie, con effetti su tutta la regione.

Pur avendo convissuto per secoli, sunniti e sciiti sono diversi nell’interpretazione dell’islam, e i loro leader insistono spesso su queste differenze per ottenere consenso popolare. Le tensioni sono maggiori da quanto Daesh ha conquistato il territorio sunnita in Iraq, con l’ambizione di creare il Califfato, perché l’Arabia Saudita è accusata di sostenerlo. La crisi Riyad-Teheran è seria, ma pur restando la tensione alta, l’Iran dovrebbe mantenere i nervi saldi perché è in un momento storico importante per il suo futuro.Intanto Daesh sta perdendo territorio e finanze, e così anche combattenti, che non accettano di vedersi ridotto lo stipendio della metà. È il momento di agire contro Daesh perché è sotto pressione e quindi più debole, ma potrebbe per questo intensificare il terrorismo.Per la Siria il 2016 si apre con una speranza, perché il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato la risoluzione 2254 che definisce una road map (percorso) che comincia a gennaio con i primi incontri tra governo e opposizione facilitati dalle Nazioni Unite. Difficili le questioni sul tavolo del negoziato: cosa farà Assad? Come attuare il cessate-il-fuoco? Come gestire gruppi come Al-Nusra – gruppo terrorista secondo gli Usa, ma fazione potente in Siria? Il ruolo dei russi in Siria è diventato fondamentale nel negoziato. I russi sono tornati sulla scena come

nemici di Daesh, alleati di Assad, interlocutori per tutti nel processo di pace. Gli Usa restano sospettosi su Mosca perché non si è coordinata con la coalizione di Washington; per ora i comuni obiettivi e interessi, pur declinati in modi diversi, tengono le due potenze in equilibrio. La Turchia è centrale per il suo ruolo in Siria, per il rapporto con i russi, con gli americani e con gli stati della regione. Le critiche che

giungono a Erdogan per la gestione degli affari interni – in particolare la questione dei curdi – sono controbilanciate dal fatto che la Turchia è la porta dei flussi di rifugiati verso l’Europa, restando quindi uno snodo politico delicato per l’Ue.Il costo umano della guerra in Siria – milioni di rifugiati sparsi nella regione – sembra essere

diventato più chiaro solo quando centinaia di migliaia di persone si sono affacciate alle porte dell’Europa. L’Occidente si è bruscamente risvegliato dal suo torpore e, sebbene risponda confusamente all’emergenza, sta cominciando ad agire più concretamente sul piano politico per porre termine alla guerra. Finalmente si muove il Medio Oriente, che sta attraversando un periodo di introspezione, con una società civile che si rafforza e non perde la speranza nonostante tutto: dobbiamo aiutarla ad esprimersi per permetterci di capire dove trovare pace e giustizia.

“È il momento di agire

contro Daesh perché è sotto

pressione e quindi

più debole, ma potrebbe per questo

intensificare il terrorismo„

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febbraio 2016 gli editoriali

Se una farfalla batte le ali a Pechino Marco Mazzoli

Il 2016 si è aperto in un clima di inquietudine, tra emergenze

umanitarie, conflitti sempre più drammatici (non più solo nel martoriato Medio Oriente) e preoccupazioni di carattere economico, legate al crollo della borsa cinese: un fatto molto rilevante per l’economia globale, dato che il Pil cinese rappresenta oltre il 13% del Pil mondiale. Nel 2016 i fattori geopolitici potrebbero influire sull’economia mondiale molto più di quanto sia avvenuto in tempi recenti. Partiamo dalla Cina. Il crollo della borsa è stato preceduto, nei mesi passati, da numerosi segnali di rallentamento della crescita cinese: il nuovo dato della Bank of China, che ha rivisto la sua previsione di crescita per il 2016 al 6,8%, è in calo sia rispetto alla precedente previsione (6,9%) che rispetto ai dati dell’inizio del 2015, attestati intorno al 7%. Dopo che nel luglio 2015 si era registrato un rallentamento delle esportazioni, in agosto le autorità monetarie cinesi hanno svalutato lo yuan. Ovviamente, lo scopo era quello di sostenere le esportazioni e, di conseguenza, la crescita del Pil. Tuttavia è importante osservare le modalità inusuali con cui tale misura è stata messa in atto: se, in generale, questo tipo di decisioni sono implementate dalle autorità in modo rapido e drastico, nell’arco di poche ore, la svalutazione dell’agosto 2015 è stata effettuata a diverse riprese, nell’arco di più giorni. Una svalutazione messa in atto a più riprese genera una volatilità più prolungata sulle borse internazionali, fa parlare

di più i media e, forse, nelle intenzioni delle autorità cinesi, poteva far percepire agli occidentali il costo di una “svalutazione competitiva” (ossia, decisa con l’intento di rendere le proprie esportazioni meno costose, di “invadere” i mercati esteri). Dunque, se la svalutazione in sé era una misura “oggettiva” per sostenere le esportazioni e la crescita del Pil cinese, la modalità con cui è stata attuata (foriera di volatilità finanziaria) potrebbe essere un “segnale” per indurre ad un atteggiamento più accomodante gli Usa in vari scacchieri di conflitto tra i due Paesi, da quelli commerciali a quelli geopolitici (come l’obiettivo statunitense di mantenere e consolidare la propria influenza nel Pacifico Occidentale o il crescente nervosismo statunitense seguito al miglioramento dei rapporti tra Russia e Cina e ai loro accordi in materia di forniture energetiche). Anche il caso dell’Arabia Saudita costituisce un esempio emblematico di legame tra economia e fattori geopolitici. Se, apparentemente, il basso prezzo del petrolio sembrerebbe penalizzare l’economia saudita (dove l’attività legata all’estrazione del petrolio determina oltre il 90% del Pil e delle entrate fiscali dello Stato), non bisogna dimenticare che il mercato petrolifero è oligopolistico: sono i produttori a “decidere” i prezzi e la causa dell’attuale livello dei prezzi è l’intensissima attività di estrazione e commercializzazione del petrolio

dei sauditi in questi ultimi due anni. L’Arabia Saudita è il secondo Paese produttore di petrolio dopo gli Stati Uniti e subito prima della Russia. La possibilità di manovrare il prezzo del greggio sui mercati internazionali dà alla leadership politica saudita una

formidabile leva di pressione politica internazionale: finché i sauditi non decideranno di ridurre la produzione petrolifera i prezzi del greggio rimarranno molto bassi (purtroppo non i prezzi della benzina, su cui agisce il potere oligopolistico delle grandi multinazionali che raffinano e distribuiscono il carburante) e le risorse

finanziarie accumulate dall’Arabia Saudita nei decenni passati consentiranno loro di sostenere molto a lungo una politica di alta produzione e prezzi bassi che, nel breve periodo, danneggia la crescita del Pil saudita. I motivi geopolitici di questa scelta sono molteplici, ma i sauditi sono chiaramente irritati dal miglioramento dei rapporti tra Usa ed Iran e dal sostegno russo alla Siria di al-Assad. Non a caso, i Paesi più danneggiati dal basso prezzo del petrolio sono proprio Russia ed Iran, mentre anche gli Usa (anch’essi danneggiati, sia pure in misura minore, dai prezzi bassi del petrolio) avvertiranno una certa pressione (essenzialmente economica) a “non migliorare troppo” i loro rapporti con l’Iran.

“Cina e Arabia Saudita:

il legame tra lo scenario economico

internazionale, con le sue

interconnessioni, e i fattori

geopolitici„

MARCO MAZZOLI professore di Politica economica all’Università di Genova.

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febbraio 2016 gli editoriali

Il Vangelo, il ricordoe la libertà Cristiano Bettega

Quanto fu lungimirante quel fatto storico del 1848, quando il 17

febbraio si inaugurò una stagione di riconoscimento dei diritti civili ai valdesi e agli ebrei, nell’allora Regno Sabaudo, tramite le leggi patenti di re Carlo Alberto! Un momento frutto di una lunga preparazione; e da un passato fatto di sofferenze per le discriminazioni e le persecuzioni subite.Oggi questa data ci ricorda delle libertà come un importante risultato storico ottenuto, e delle discriminazioni a sfondo religioso, che si ripresentano, purtroppo, anche ai nostri giorni.

In questo senso, far memoria per come lo vogliamo proporre qui significa saper guardare la storia, con attenzione, chiedendosi: a che punto siamo oggi per quel che riguarda la libertà religiosa? La viviamo realmente? E la desideriamo, la riconosciamo come un fattore imprescindibile anche da una testimonianza cristiana nella società?Questo saper fare memoria significa di più del semplice brindare insieme per un anniversario. Si tratta semmai della faticosa elaborazione del momento ricordato in un’attualizzazione per la vita di oggi: un vero e proprio “memoriale”, concetto ebraico prima e cristiano poi. E che riguarda proprio la capacità che un fatto storico diventi

vivo e abbia significato nel presente. Cosa significa dunque quel fatto? Quali passi ci sono richiesti

oggi? A quali attese dobbiamo saper tendere l’orecchio nel nostro Paese? Queste le domande che non possono mancare facendo memoria della libertà ottenuta.

La paura che aleggia per l’Italia e l’Europa non fa che attaccare pericolosamente quelle libertà, poiché essa parla alla pancia attraverso parole d’ordine quali “accerchiamento”, “invasione”; con una certa responsabilità di chi ha il dovere di fare comunicazione. La paura ha l’unico risultato di far arroccare nella propria (presunta) identità, che diviene un fantasma composto dalla “propria” lingua, i “propri” valori, la “propria” bandiera e la “propria” religione. Si presuppone che l’altro, chiunque esso sia, non possa che essere sospetto, se non addirittura dannoso per sé e la propria comunità.

Si può comprendere la paura, ma non condividerla: parlare oggi di libertà civile e religiosa significa nient’altro che saper riconoscere l’altro, che sta di fronte a me, come un soggetto alla pari, in dignità, diritti e doveri. E non come un soggetto discriminato, fosse per etnia, per religione o altro; e da confinare ai margini e nei bassifondi. Non come

un soggetto obbligato a vivere nel “nascondimento” per vivere.La cristianità uscì dal nascondimento quando nel 313 Costantino col suo editto liberò i cristiani dalle catacombe, per diventare – ed è questo il passaggio fondamentale – cittadini romani, e che quindi dovettero assumersi delle responsabilità civili e sociali; ed è così che anche oggi si è chiamati nella coscienza a rendere conto sì di

essere cristiani, musulmani, ebrei o altro, ma prima di tutto di essere cittadini, indubbiamente col valore aggiunto della fede: tutt’altro che secondario, ma assolutamente non autorizzato a diventare fattore di discriminazione.Per chi si riconosce nella fede cristiana, credo che sia il Vangelo stesso a chiamare a libertà. Gesù non chiude le porte nei confronti degli altri, chiunque sia stato l’altro che ha incontrato, a cui è andato incontro, o che ha accolto. Le parole, i discorsi, i miracoli e gli incontri di Gesù sono aperture, e mai chiusure. Attualizzando il Vangelo oggi, credo che esso chieda,

e si aspetti da me, un atteggiamento di libertà nei confronti degli altri. Questa è la sfida che mi appassiona: scoprire cosa voglia dire oggi per un cristiano, per un discepolo del Cristo, essere coerente col Vangelo; oggi, in Italia nel 2016. Tra ricordo, memoria e libertà.

DON CRISTIANO BETTEGA, direttore dell’Ufficio Cei per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso.

“Per chi si riconosce nella fede cristiana, credo che sia il Vangelo stesso a chiamare a

libertà. Gesù non chiude le porte nei confronti

degli altri, chiunque sia

stato l’altro che ha incontrato, a cui è andato incontro, o che ha accolto. Le

parole, i discorsi, i miracoli e gli

incontri di Gesù sono aperture, e mai chiusure„