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Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti, Introduzione allo studio della ceramica in archeologia. Siena 2007, 63-86 Conservazione e restauro della ceramica archeologica Fernanda Cavari Introduzione Non è il tipo o la cronologia ma il contesto di provenienza a definire la ceramica archeologica. Da uno scavo possono infatti provenire ceramiche di tutte le tipologie ed epoche, dal momento che «a partire dagli anni Sessanta lo stesso limite cronologico dell’applicazione delle metodologie archeologiche si è dilatato all’epoca della rivoluzione industriale, andando a costruire le basi per lo sviluppo di un’archeologia dell’età moderna e contemporanea…» (FRANCOVICH ET AL. 2000, VI). L’archeologia, al contrario di quello che succedeva una volta, ha per oggetto quindi tutti i materiali e le strutture rinvenute sottoterra, indipendentemente dalla loro antichità. La conservazione archeologica, che ha per oggetto un’ampia gamma di reperti, sia per funzione che composizione (suppellettili in ceramica, vetro, metallo e in materiali organici di varia natura, pitture, pavimenti, strutture murarie ecc.), si è sviluppata come una disciplina distinta proprio per le particolari condizioni di preservazione dei manufatti, conseguenti alla giacitura nel sottosuolo (per una sintetica storia della conservazione in campo archeologico vedi SEASE 1996). La ceramica archeologica presenta quindi problemi diversi da quelli delle ceramiche provenienti da ambienti subaerei (ad esempio bacini in maiolica murati negli edifici) o da collezioni storiche, pervenute per diretta e ininterrotta trasmissione. Si può dire che solo recentemente si è creata un’attenzione particolare anche per questi manufatti che nella maggioranza dei casi non hanno un valore di tipo artistico ma solo di documento storico. Fino agli anni Sessanta si sono spesso utilizzati per la ceramica metodi impensabili per altri manufatti (HODGES 1975, 37-38) «per un più tardivo riconoscimento della complessità e della dignità anche materica del reperto archeologico» (MELUCCO VACCARO, 1989, 285; per una sintesi sullo sviluppo del restauro della ceramica vedi BUYS ET AL. 1998, 63-73). In questa sede verrà affrontato solamente il tema della conservazione e del restauro della ceramica rinvenuta in scavi nel sottosuolo, tralasciando l’esame delle problematiche relative ai materiali provenienti da indagini e recuperi subacquei (per questo argomento rimandiamo a PEARSON 1987). Gli attuali principi su cui si basa un intervento di conservazione e restauro sono il frutto di una teorizzazione codificata nelle cosiddette Carte del restauro. La Carta del Restauro 1987 così definisce il termine restauro: “qualsiasi intervento che, nel rispetto dei principi della conservazione e sulla base di previe indagini conoscitive di ogni tipo, sia rivolto a restituire, nei limiti del possibile, la relativa leggibilità e, ove occorra, l’uso”. La definizione, che si applica a tutti gli oggetti che rivestano interesse artistico, storico e culturale, indica, con il preciso riferimento alla prassi della conservazione e delle indagini conoscitive, gli attuali indirizzi nel campo della preservazione e valorizzazione dei beni culturali. Il termine indica dunque l’insieme delle procedure che rendano possibile la comprensione dell’oggetto, unitamente alla sua valorizzazione, ottenuta spesso mediante il rifacimento di parti mancanti. Ne consegue quindi che non si tratta della ricerca di una “condizione originale” del manufatto, bensì della restituzione del suo significato che deve comunque rispettare quelle modifiche, tra l’altro difficilmente reversibili, che esso ha subito nel corso del tempo e che fanno così parte della sua storia. La Carta 1987 della Conservazione e del Restauro degli oggetti d’arte e cultura è stata redatta nell’ambito del convegno del 1985 sulla tutela, promosso dal CNR con il Ministero dei Beni Culturali, per integrare e aggiornare la Carta Italiana del Restauro 1972. Quest’ultima fu emanata dall’allora Ministero della Pubblica Istruzione per codificare le metodologie di intervento in ciascun settore dei beni culturali e la sua normativa si basa sui principi contenuti nella Teoria del restauro di C. Brandi pubblicata nel 1963. Precedenti internazionali dei due documenti citati furono la Carta di Atene del 1931 (seguita nel 1932 dalla Carta italiana del restauro, rielaborazione a uso interno della precedente) e la Carta del Restauro di Venezia del 1964, anche se al loro interno sono privilegiati gli aspetti del restauro architettonico.

Conservazione e restauro della ceramica archeologica2008-11-18 · Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti, Introduzione allo studio della ceramica in archeologia. Siena

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Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti, Introduzione allo studio della ceramica in archeologia. Siena 2007, 63-86

Conservazione e restauro della ceramica archeologica

Fernanda Cavari

Introduzione

Non è il tipo o la cronologia ma il contesto di provenienza a definire la ceramica archeologica. Da uno scavo possono infatti provenire ceramiche di tutte le tipologie ed epoche, dal momento che «a partire dagli anni Sessanta lo stesso limite cronologico dell’applicazione delle metodologie archeologiche si è dilatato all’epoca della rivoluzione industriale, andando a costruire le basi per lo sviluppo di un’archeologia dell’età moderna e contemporanea…» (FRANCOVICH ET AL. 2000, VI). L’archeologia, al contrario di quello che succedeva una volta, ha per oggetto quindi tutti i materiali e le strutture rinvenute sottoterra, indipendentemente dalla loro antichità. La conservazione archeologica, che ha per oggetto un’ampia gamma di reperti, sia per funzione che composizione (suppellettili in ceramica, vetro, metallo e in materiali organici di varia natura, pitture, pavimenti, strutture murarie ecc.), si è sviluppata come una disciplina distinta proprio per le particolari condizioni di preservazione dei manufatti, conseguenti alla giacitura nel sottosuolo (per una sintetica storia della conservazione in campo archeologico vedi SEASE 1996). La ceramica archeologica presenta quindi problemi diversi da quelli delle ceramiche provenienti da ambienti subaerei (ad esempio bacini in maiolica murati negli edifici) o da collezioni storiche, pervenute per diretta e ininterrotta trasmissione. Si può dire che solo recentemente si è creata un’attenzione particolare anche per questi manufatti che nella maggioranza dei casi non hanno un valore di tipo artistico ma solo di documento storico. Fino agli anni Sessanta si sono spesso utilizzati per la ceramica metodi impensabili per altri manufatti (HODGES 1975, 37-38) «per un più tardivo riconoscimento della complessità e della dignità anche materica del reperto archeologico» (MELUCCO VACCARO, 1989, 285; per una sintesi sullo sviluppo del restauro della ceramica vedi BUYS ET AL. 1998, 63-73). In questa sede verrà affrontato solamente il tema della conservazione e del restauro della ceramica rinvenuta in scavi nel sottosuolo, tralasciando l’esame delle problematiche relative ai materiali provenienti da indagini e recuperi subacquei (per questo argomento rimandiamo a PEARSON 1987). Gli attuali principi su cui si basa un intervento di conservazione e restauro sono il frutto di una teorizzazione codificata nelle cosiddette Carte del restauro. La Carta del Restauro 1987 così definisce il termine restauro: “qualsiasi intervento che, nel rispetto dei principi della conservazione e sulla base di previe indagini conoscitive di ogni tipo, sia rivolto a restituire, nei limiti del possibile, la relativa leggibilità e, ove occorra, l’uso”. La definizione, che si applica a tutti gli oggetti che rivestano interesse artistico, storico e culturale, indica, con il preciso riferimento alla prassi della conservazione e delle indagini conoscitive, gli attuali indirizzi nel campo della preservazione e valorizzazione dei beni culturali. Il termine indica dunque l’insieme delle procedure che rendano possibile la comprensione dell’oggetto, unitamente alla sua valorizzazione, ottenuta spesso mediante il rifacimento di parti mancanti. Ne consegue quindi che non si tratta della ricerca di una “condizione originale” del manufatto, bensì della restituzione del suo significato che deve comunque rispettare quelle modifiche, tra l’altro difficilmente reversibili, che esso ha subito nel corso del tempo e che fanno così parte della sua storia. La Carta 1987 della Conservazione e del Restauro degli oggetti d’arte e cultura è stata redatta nell’ambito del convegno del 1985 sulla tutela, promosso dal CNR con il Ministero dei Beni Culturali, per integrare e aggiornare la Carta Italiana del Restauro 1972. Quest’ultima fu emanata dall’allora Ministero della Pubblica Istruzione per codificare le metodologie di intervento in ciascun settore dei beni culturali e la sua normativa si basa sui principi contenuti nella Teoria del restauro di C. Brandi pubblicata nel 1963. Precedenti internazionali dei due documenti citati furono la Carta di Atene del 1931 (seguita nel 1932 dalla Carta italiana del restauro, rielaborazione a uso interno della precedente) e la Carta del Restauro di Venezia del 1964, anche se al loro interno sono privilegiati gli aspetti del restauro architettonico.

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Si può dire che il termine restauro, pur essendo ancora oggi utilizzato in molte sedi con significato generico, rappresenta in realtà solo un momento della conservazione, concetto più generale che indica tutte le attività finalizzate alla preservazione del patrimonio culturale attraverso un intervento diretto sui manufatti e/o sull’ambiente circostante. Ormai in quasi tutti i paesi, si fa sempre più ricorso all’espressione “conservazione e restauro”, per indicare che le due fasi sono complementari e per superare i fraintendimenti che potrebbero sorgere utilizzando uno solo dei due termini. L’espressione inoltre sottolinea quell’ampiezza progettuale che oggi è diventata doverosa nel settore dei beni culturali: un intervento di restauro deve essere sempre affiancato da un progetto di conservazione, prevenzione e manutenzione. Quest’ultima prevede il controllo periodico delle condizioni dei manufatti su cui si è intervenuti, sia che si trovino esposti in museo che nei magazzini, della situazione climatica degli ambienti che li ospitano e la realizzazione, ove necessario, di interventi diretti o indiretti che assicurino l’efficienza delle procedure messe in atto precedentemente. È da tener presente infatti che un oggetto “restaurato” ha bisogno di un controlllo forse maggiore per la presenza di elementi estranei al materiale originario (come consolidanti, adesivi, integranti ecc.) che interagiscono con il manufatto e sono essi stessi soggetti a degrado in condizioni sfavorevoli, fino a perdere quelle caratteristiche positive per le quali erano stati utilizzati. Tutte le procedure e le sostanze utilizzate in un intervento di conservazione e restauro devono sempre rispondere all’obiettivo di salvaguardare l’integrità del manufatto (JEDRZEJEWSKA 1983). L’acquisizione del concetto che nessun trattamento è reversibile in senso stretto, unitamente alla riflessione sulla durata di ogni intervento di conservazione e restauro (alcuni interventi spesso non durano più di venti anni) e sui danni, riscontrati in diverse occasioni, derivanti dall’utilizzazione di prodotti e procedure non sufficientemente sperimentate in questo settore, hanno portato ad adottare metodi che riducano al minimo ogni apporto di materiale estraneo. La reversibilità, che è un altro dei principi fondamentali del “restauro” (BERDUCOU 1990, 10-13), consiste nel rendere possibile l’asportazione dei prodotti impiegati e quindi ulteriori trattamenti, in considerazione del fatto che l’intervento di conservazione e restauro non può essere considerato come definitivo e che in un futuro possano essere messi a punto sistemi di intervento più idonei. I materiali introdotti come collanti, consolidanti ecc. devono anche essere stabili e compatibili con la materia originale, avere cioè caratteristiche chimiche e fisiche analoghe, come i prodotti utilizzati per le integrazioni di parti mancanti, che devono inoltre essere sempre riconoscibili dall’originale. Un corretto prelievo dei manufatti sul cantiere di scavo e l’attuazione delle procedure di “pronto soccorso” sono le premesse indispensabili alle successive operazioni di conservazione e restauro in laboratorio, dal momento che il cambiamento delle condizioni ambientali costituisce per i reperti una fase estremamente rischiosa: si evitano in questo modo la perdita di molte informazioni, ulteriore deterioramento e un intervento più lungo e complesso. Le fasi successive al recupero prevedono dopo un approfondito esame del materiale, seguito eventualmente da indagini di laboratorio, la pulitura/stabilizzazione, il consolidamento, la ricomposizione, l’integrazione. Il percorso da seguire non ha sempre la stessa successione né tutte le fasi sono sempre da intraprendere. Ad esempio il consolidamento deve in alcuni casi precedere la pulitura oppure può non essere necessario. Non si può comunque mai pensare a procedure generalizzate: ogni oggetto presenta caratteristiche proprie che necessitano di un intervento specifico.

Il materiale costitutivo

Non si può intervenire su un manufatto ceramico se non se ne conoscono le caratteristiche della materia prima, le tecniche di fabbricazione relative alle varie tipologie, la composizione dei rivestimenti e i difetti di produzione. Bisogna ad esempio essere in grado di poter distinguere un fenomeno di degrado originatosi in giacitura da un difetto che si è prodotto in fase di lavorazione.

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Per la definizione del materiale, delle tecniche e dei difetti, che devono sempre essere registrati nella documentazione dell’intervento (vedi sotto la “scheda di conservazione e restauro”), si rimanda al documento Uni Normal 10739. Per gli aspetti relativi alla composizione del materiale e alle tecniche di esecuzione si veda il contributo in questa sede di E. Giannichedda e N. Volante. Accenneremo solo ad alcune caratteristiche che influenzano in modo significativo lo stato di conservazione. Come vedremo la porosità ha una grande importanza nei processi di deterioramento dal momento che condiziona la circolazione dell’acqua, che è il fattore principale di degrado sia fisico che chimico. La porosità può dipendere dalla presenza nell’argilla di sostanze organiche che in cottura bruciano lasciando spazi vuoti o dal non raggiungimento della temperatura di cottura ottimale per quel tipo di produzione. La durezza inoltre, che dipende dai minerali presenti, e la granulometria dell’impasto sono anch’essi fattori che giocano un ruolo importante nella preservazione della ceramica (RICE 1987, 347-369).

Fattori e fenomeni di degrado

Il degrado di una ceramica archeologica è il risultato dell’interazione tra le caratteristiche chimico-fisiche intrinseche del materiale costitutivo (composizione del corpo ceramico e dei rivestimenti, porosità, condizioni di cottura), l’uso che ne è stato fatto e l’ambiente di seppellimento. Quest’ultimo avrà un influenza diversa sugli oggetti ceramici a seconda delle sue proprietà fisico-chimiche che, conosciute anticipatamente, possono permettere di prevedere in termini generali lo stato di conservazione dei materiali (BERGERON ET AL. 1991, 7-14) La perdita di certe qualità originarie della ceramica, ovvero il degrado, può essere imputato a processi fisici e/o chimici (BUYS ET AL. 1998, 18-28; LEGA ET AL. 1997, 86-95). Il degrado biologico, cioé il deterioramento provocato da organismi viventi, può essere ricondotto parimenti a processi fisici e chimici (CANEVA ET AL. 1994)). Non bisogna comunque dimenticare che l’interro, se da un lato è la causa di certi tipi di deterioramento, dall’altro consente la sopravvivenza dei manufatti, soprattutto quando è profondo e perciò privo di fluttuazioni di umidità e temperatura (CRONYN 1990, 24-28). Il degrado che interessa maggiormente i manufatti ceramici è soprattutto di tipo fisico, dal momento che la ceramica tende a fratturarsi in conseguenza di sollecitazioni meccaniche e presenta invece una buona stabilità chimica, soprattutto rispetto ad altri materiali come quelli organici e metallici. Vedremo comunque che non è da sottovalutare anche l’aggressione chimica, in certi casi fortemente distruttiva. Il carico del deposito e le vibrazioni possono provocare deformazioni, fratturazioni (che possono dar origine ad altre deformazioni dal momento che viene meno la tensione prodotta dalla contrazione del materiale durante la cottura), fessurazioni e distacchi di rivestimenti. I rivestimenti tendono a fratturarsi e a scagliarsi anche se sottoposti a cambiamenti di temperatura, specialmente quando i coefficienti di dilatazione del rivestimento e del corpo ceramico sono diversi. L’acqua è il principale fattore di degrado fisico e, come vedremo, anche chimico. È responsabile di abrasioni se nel terreno il drenaggio è veloce: l’azione abrasiva dell’acqua originata dalla presenza di particelle in sospensione, provoca difatti una consunzione dei materiali. Le caratteristiche intrinseche del manufatto, come accennato, hanno una grande influenza sulla capacità di azione dei fattori di deterioramento e la porosità rende una ceramica particolarmente sensibile agli effetti dannosi dell’acqua. La cavillatura ad esempio, che si forma o è latente già durante la fase di raffreddamento dopo la cottura per l’eccessiva contrazione dello smalto rispetto al corpo ceramico, tende ad aumentare per l’espansione del corpo ceramico esposto all’umidità. In caso di gelate inoltre, se l’acqua è presente nei pori della ceramica, ne determina la fratturazione per il suo conseguente aumento di volume; ma soprattutto l’acqua è il veicolo dei sali solubili che quando cristallizzano esercitano anch’essi una pressione considerevole nei pori disgregando il materiale dalla superficie verso l’interno. I sali solubili provengono dall’ambiente di seppellimento nella forma più comune di cloruri ma anche di solfati e nitrati: i cloruri si trovano in prossimità del mare, i nitrati e i fosfati si formano invece dalla decomposizione di sostanze

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organiche (PATERAKIS 1987, 67-68). Rivelano subito la loro presenza quando gli oggetti, rimossi da un deposito umido, cominciano ad asciugarsi. I sali solubili se cristallizzano sotto il rivestimento provocano il suo distacco e creano scagliature o esfoliazioni nel corpo ceramico (fig. 27). Fra i processi chimici imputabili all’azione dell’acqua va ricordato il fenomeno di riargillificazione per assorbimento di acqua in materiali porosi e poco cotti, che li rende teneri e fragili e può portare alla loro deformazione. Le ceramiche preistoriche in particolare sono le più fragili e suscettibili di reidratazione per le loro modalità di cottura che non hanno permesso un’omogenea e irreversibile trasformazione chimica dell’argilla. Gli oggetti presentano in genere una sottile superficie esterna abbastanza resistente che copre un nucleo interno estremamente friabile. L’umidità del terreno in cui si vengono a trovare li ammobidisce, la pressione del deposito può generare deformazioni e in casi estremi si può arrivare alla loro disgregazione totale (SMITH 1998, 3-11). Questo fenomeno si può osservare anche in ceramiche ben cotte, quando l’acqua circolante nel terreno è di natura acida, per dissoluzione e asportazione delle inclusioni calcaree presenti o al contrario, se alcalina, per l’attacco della fase vetrosa (CRONYN 1990, 145). Altri effetti chimici sono l’opacità dei rivestimenti vetrosi, la ricarbonatazione, le incrostazioni, le macchie; la decoesione e polverulenza del corpo ceramico può essere imputata sia a cause fisiche che chimiche. L’iridescenza negli smalti può essere causata dalla dissoluzione dei componenti alcalini (che fanno parte della composizione dello smalto) da parte dell’acqua. Inoltre le soluzioni di minerali circolanti nel terreno provocano la formazione di depositi, il più frequente dei quali è quello calcareo, che si può presentare in vario aspetto e misto in genere a terra e grani silicei. Nello stesso modo si possono formare incrostazioni silicee e il ferro e il manganese presenti nel terreno possono migrare sulla superficie delle ceramiche lasciando delle caratteristiche macchie brune. Infine i fattori biologici sono rappresentati dalle radici delle piante che possono causare degrado fisico e da microrganismi che possono, con i loro processi metabolici, lasciare macchie sulla superficie o trasformare certi componenti; ad esempio vetrine al piombo possono diventare nere per l’azione di batteri, che riducono i solfati in solfuro di idrogeno, che a sua volta reagisce con il rivestimento piombifero per formare solfuro di piombo (LEGA ET AL. 1997).

Recupero e primo intervento sullo scavo

Ogni materiale interrato dopo un iniziale rapido degrado raggiunge quello che viene definito uno “stato di equilibrio” con l’ambiente di seppellimento. Questa situazione di relativa stabilità chimica e fisica viene bruscamente turbata dalle azioni di messa in luce e recupero, cioè dallo scavo archeologico, in quanto le condizioni in cui viene a trovarsi l’oggetto sono estremamente diverse. Il manufatto sarà quindi sollecitato a ritrovare un nuovo equilibrio a spese spesso della sua integrità (DE GUICHEN 1986, 25-34). È importante quindi che già all’atto del rinvenimento si operi seguendo quelle procedure, nella maggior parte dei casi anche piuttosto semplici, che prevengano processi di sicuro effetto negativo sui manufatti (SEASE 1986, 35-44; SEASE 1988; WATKINSON 1987). Sarebbe auspicabile che nella programmazione di uno scavo fosse prevista sin dall’inizio la presenza del restauratore per ottimizzare i risultati della ricerca (FOLEY 1986, 22; CHAVIGNER 1993, 75-89; VON ELES 1992, 204-207). In mancanza dell’intervento diretto di addetti alla conservazione, è indispensabile avere un laboratorio di riferimento o un professionista che si renda disponibile in casi di urgenza e che comunque fornisca, prima dell’inizio dei lavori, tutte le indicazioni utili ad un corretto prelievo ed immagazzinamento, come era suggerito già nella Carta del restauro 1972. Durante la fase di individuazione e messa in luce di un manufatto ceramico bisogna porre grande attenzione alle variazioni termoigrometriche che si verificano nel manufatto e agli strumenti meccanici utilizzati per rimuovere la terra. Ad esempio l’uso dell’onnipresente trowel può causare, se utilizzata in prossimità dell’oggetto, abrasioni e rotture. Si consiglia quindi, via via che ci si

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avvicina all’oggetto, di utilizzare strumenti di legno, come palette abbassalingua e bastoncini a punta del tipo utilizzato in cucina (PEDELÌ ET AL. 2002, 36-39). Nello stesso tempo bisogna approntare sistemi che rallentino o blocchino le variazioni termoigrometriche: i manufatti in genere hanno un contenuto di umidità superiore a quello dell’ambiente in cui vengono trasferiti. La naturale essiccazione delle ceramiche estratte da depositi umidi può portare a un repentino peggioramento delle loro condizioni. L’essiccamento, nel caso di manufatti teneri, può avere però un effetto positivo dal momento che indurisce il corpo ceramico. Ceramiche con impasto grossolano e cotte a bassa temperatura possono sgretolarsi perché la tensione superficiale dell’acqua contenuta agisce da legante dell’impasto (CRONYN 1990, 150-151). Inoltre la presenza di sali solubili può portare alla loro cristallizzazione con il conseguente fenomeno delle esfoliazioni e dei distacchi di scaglie. Di conseguenza le ceramiche umide che presentano sali solubili non devono essere fatte asciugare prima della loro eliminazione. Al contrario ceramiche con sali da depositi secchi devono essere mantenute asciutte per prevenire la dissoluzione dei sali e il conseguente sgretolamento dal momento che i sali stessi possono fungere da elemento coesivo. Essiccandosi i depositi terrosi possono contrarsi, causando il sollevamento e il conseguente distacco di rivestimenti o pitture delicate a freddo; si può verificare anche un indurimento del materiale estraneo, come le incrostazioni carbonatiche, che risulterà più difficile da rimuovere successivamente. Durante le fasi di prelievo bisogna osservare alcune regole generali: i manufatti interi devono essere prelevati senza rimuovere la terra contenuta all’interno, approntando un idoneo supporto ed evitando di farli asciugare finché è presente il deposito interno (la contrazione della terra in seguito all’essicamento può danneggiarli). Nel caso di manufatti frammentati o incrinati che mantengano però la loro forma originaria è sempre sconsigliabile lo smontaggio e si preferisce il prelievo con supporto. Per la rimozione si può ricorrere all’uso di un supporto di tipo solo meccanico, oppure al consolidamento diretto del manufatto oppure all’applicazione di un materiale di rinforzo fatto aderire con adesivi. Finché è possibile è meglio evitare l’uso di consolidanti perché le tecniche di prelievo migliori sono quelle che assicurano la salvaguardia del manufatto senza pregiudicare i trattamenti successivi (CRONYN 1990, 43). Caso per caso dovrà essere valutato il sistema migliore, ricordando comunque che è sempre preferibile quello che interferisce meno con il manufatto. Quasi tutti i metodi di prelievo necessitano di un supporto orizzontale, in genere una tavola di legno; fogli sottili in metallo possono essere utili per tagliare la terra sotto il materiale da prelevare. Le tavole su sui vengono posti i materiali dovranno essere sempre rivestite di materiale ammortizzante, come plastica a bolle, fogli di schiuma di polietilene o carta non acida. Un metodo molto semplice di prelievo è la fasciatura con garze di cotone o elasticizzate di uso medico in modo da fermare tutti i frammenti e nel caso di oggetti fragili da impedirne lo sgretolamento (fig. 28). In questo caso un ruolo importante di sostegno è svolto dalla presenza di terra compatta all’interno del manufatto. Se la ceramica è tenera, tra le bende e l’oggetto si può interporre una pellicola di polietilene o di alluminio per evitare che possa rimanere l’impronta delle fibre. L’oggetto può quindi essere semplicemente rimosso con le mani o con il sostegno di una tavola rigida introdotta al di sotto del manufatto. Se manca il supporto della terra all’interno è necessario ricorrere ad un incollaggio diretto delle bende sul manufatto, utilizzando una resina prontamente reversibile e in alta percentuale, cosa che evita la sua penetrazione nel corpo ceramico. Questo sistema va usato solo quando non è possibile ricorrere ad altri perché il consolidante può comunque rimanere all’interno del manufatto anche dopo la rimozione delle garze e creare cambiamenti di colore. Nel caso di un oggetto particolarmente fragile e pesante si possono usare anche bende gessate del tipo usato in ortopedia dopo aver interposto un agente separante (alluminio o polietilene). Con questo sistema possono essere ad esempio prelevate più forme ceramiche sovrapposte e particolarmente fragili (fig. 29). L’uso del bendaggio in gesso consente di mantenere per il tempo necessario il materiale ancora umido in modo che in laboratorio l’intervento sia più agevole. In alternativa alle bende gessate possono essere usate bende imbevute di una resina che si indurisce esposta all’aria o, come supporto che incapsula

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l’oggetto, la schiuma di poliuretano, che ha il vantaggio di essere molto leggera e facile da rimuovere (NEWEY ET AL. 1987, 33-36). Nel caso invece che si presentino localizzazioni di frammenti fragili e di dimensioni ridotta può essere utile un prelievo con pane di terra. I frammenti vengono cioè isolati su una piattaforma di terra che viene rimossa dopo averla resa solidale o con intelaiatura lignea costruita intorno o tramite bende gessate; in ambedue i casi è comunque indispensabile inserire, prima del prelievo, una tavola al di sotto. Nel caso di oggetti fragili si può anche consolidare direttamente l’oggetto ma, come già detto, è preferibile ricorrere a questo metodo solo se gli altri non sono possibili; in condizioni di umidità devono essere usate resine in soluzione acquosa, dal momento che le resine sciolte in solvente in presenza di umidità perdono il loro potere adesivo. Si usano a questo scopo emulsioni di acetato di polivinle (es. Mowilith DMC2) o dispersioni acriliche (Primal AC33 o WS 24) (BERGERON ET AL. 1991, 83-97). Riguardo alla pulitura è bene seguire alcune regole generali. Se l’indurimento dei depositi in conseguenza dell’essicazione giustifica la pulitura già durante il cantiere di scavo, bisogna tener conto però che non si può procedere a un lavaggio indiscriminato di tutta la ceramica. Non bisogna mai rimuovere la terra da superfici dipinte o che si scagliano e se i manufatti sono umidi mantenerli tali. Prima di decidere il lavaggio della ceramica è necessario un attento esame per individuare i frammenti con fenomeni di decoesione. Ceramiche resistenti possono essere pulite sul sito avendo cura di utilizzare sempre acqua pulita, che altrimenti risulterebbe abrasiva, evitando di lasciare in immersione i frammenti. All’uso di spazzolini è preferibile quello di spugne e pennelli di varia morbidezza. Le incrostazioni possono essere rimosse meccanicamente con un bisturi prima che induriscano, se non c’è la possibilità di mantenere umidi gli oggetti. Questa operazione deve essere fatte con estrema cautela per la facilità di danneggiamento di una ceramica umida. Una volta terminato il lavaggio di quelle ceramiche che possono sopportarlo, l’asciugatura deve essere fatta all’aria, evitando i raggi diretti del sole o fonti di calore artificiali. A questo scopo si rivela utile l’uso di un supporto a più ripiani impilabili, costituiti da una rete plastica a maglie serrate, inserita in un telaio di legno. Se gli oggetti devono essere siglati, per evitare che la siglatura diventi indelebile, si stende, prima di scrivere con china o pennarello indelebile, uno strato di resina sciolta in solvente, applicandone successivamente un altro strato sulla sigla ben asciutta. I reperti dovranno poi essere imballati in modo adeguato al loro grado di resistenza e alla loro forma, in vista del trasporto alla sede provvisoria o definitiva, oppure ricevere una sistemazione idonea negli eventuali magazzini predisposti sul sito. In ogni caso è necessario utilizzare contenitori e imballi idonei, resistenti e inerti come fogli di plastica a bolle, lastre di polietilene espanso, cassette e contenitori sempre in polietilene (BERGERON ET AL. 1991, 119-142): frammenti resistenti, ben asciutti, possono essere collocati in buste di polietilene, evitando però di fare sacchetti troppo grandi e troppo pesanti, frammenti fragili possono essere collocati a strati separati da fogli di plastica a bolle in contenitori di polietilene. Forme intere saranno poste entro contenitori adeguati con un materiale tampone che assicuri la loro immobilità, come polistirolo o schiuma di polietilene. Per una corretta procedura è necessario conoscere le esigenze conservative dei vari manufatti e le proprietà dei materiali che si utilizzeranno per il trasporto o per l’immagazzinamento (PEDELÌ ET AL. 2002, 99-107). È inoltre fondamentale che il deposito temporaneo del cantiere di scavo risponda a una serie di requisiti di tipo climatico e sia provvisto di adeguate infrastrutture (SCICHILONE 1986, 63-72).

Esami diagnostici

L’esame diagnostico, che può andare da un semplice esame a occhio nudo ad analisi con strumentazioni complesse (BUYS ET AL. 1998, 40-52), comprende l’analisi della struttura, della composizione del manufatto e dei procedimenti tecnici utizzati per la sua fabbricazione nonché l’identificazione del tipo di degrado presente, le sue cause e la sua estensione.

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L’esame autoptico preliminare può dare numerose indicazioni riguardo alla tecnica di esecuzione (tipo di argilla, cottura, rivestimento) e al tipo di degrado, per poter stabilire il tipo di azioni da intraprendere: pulitura stabilizzazione, consolidamento ecc. È chiaro che questo esame presuppone da parte dell’operatore una conoscenza approfondita della ceramica in tutti i suoi aspetti tecnologici, conservativi, storici e storico-artistici. L’esame con microscopio binoculare è indispensabile per distinguere depositi estranei, microfratturazioni, alveolizzazioni della superficie. Semplici indagini chimiche possono rivelare la natura dei depositi estranei: per distinguere un deposito calcareo da un deposito siliceo ad esempio si utilizza l’acido cloridrico, che in presenza di carbonato di calcio genera una forte effervescenza. L’esame radiologico invece può essere utile per indagare una superficie coperta da uno spesso strato di incrostazione o l’interno di un vaso utilizzato come contenitore funerario oppure per esaminare manufatti restaurati in precedenza per l’individuazione di eventuali perni. È stata impiegata con esito soddisfacente anche la tomografia assiale computerizzata (TAC) per esaminare prelievi con pane di terra contenenti vasi cinerari; l’indagine ha permesso di localizzare prima dell’intervento la presenza e l’ubicazione dei frammenti ceramici ed escludere la presenza di materiale osteologico (DAL RÌ ET AL. 1994, 87-91). L’analisi a luce ultravioletta può individuare restauri moderni invisibili oppure tracce di decorazioni non distinguibili con una normale illuminazione. Esistono attualmente numerose analisi più complesse, che indagano soprattutto aspetti relativi alle tecniche di esecuzione e alla provenienza delle materie prime. Sono di tipo mineralogico petrografico come le analisi al microscopio mineralogico su sezioni sottili e l’analisi per diffrazione a raggi X, e di tipo chimico eseguite mediante le moderne tecniche strumentali come la spettrometria in emissione di fiamma, di assorbimento atomico, di fluorescenza a raggi X e le analisi per attivazione neutronica. Sono però analisi distruttive perché necessitano del prelievo di un campione; solo le analisi per fluorescenza a raggi X e per attivazione neutronica possono essere eseguite direttamente su reperti di piccole dimensioni (CUOMO DI CAPRIO 1985, 189). Per la descrizione delle varie tecniche di analisi e campi di applicazione si rimanda a CUOMO DI CAPRIO 1985;, DIANA ET AL. 1988; FERRETTI 1993.

Le fasi della documentazione

Fasi fondamentali che devono precedere e seguire parallelamente qualsiasi intervento di conservazione e restauro sono quelle relative alla documentazione. La documentazione è la registrazione dei fenomeni osservati e di tutte le procedure utilizzate durante l’intervento per mezzo di schede analitiche, rilievi grafici e fotografici ecc. (BUYS ET AL. 1998, 52-59). L’informatica propone a questo riguardo molte applicazioni interessanti e offre inoltre la possibilità di realizzare ipotesi ricostruttive diversificate, per poter valutare la soluzione migliore. La documentazione deve iniziare sullo scavo dove devono essere registrate tutte quelle informazioni che possono risultare utili ai procedimenti successivi: le condizioni di giacitura, la composizione del terreno e gli eventuali trattamenti (pulitura, consolidamento ecc.). Questa prima fase di documentazione dovrebbe essere registrata su una scheda di scavo da consegnare al laboratorio insieme al manufatto. In laboratorio, prima di procedere all’intervento di conservazione e restauro, progettato sulla base dell’esame diagnostico e delle finalità, dovranno essere registrate su un’apposita scheda tutte le informazioni utili alla connotazione dell’oggetto e dell’intervento. Un’accurata documentazione fotografica, e in alcuni casi anche grafica, registrerà lo stato di conservazione prima, durante e dopo l’intervento. La compilazione della scheda seguirà passo passo l’esecuzione dell’intervento. Si propone qui un modello di scheda elaborata espressamente per la ceramica proveniente da scavo (fig. 30). La scheda è divisa in quattro sezioni: la prima contiene i dati anagrafici (provenienza, numero di inventario, riferimenti grafici e fotografici), la seconda riguarda invece la caratterizzazione tecnica, la terza lo stato di conservazione, la quarta infine gli interventi eseguiti e i materiali utilizzati per le operazioni di conservazione e restauro. Anche successivamente, durante la sua permanenza in ambienti espositivi o magazzino, l’oggetto dovrebbe avere un’ulteriore scheda di riferimento, che vada a

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integrare quella dell’intervento di conservazione e restauro, in cui, secondo il programma di manutenzione adottato, possano essere registrati i controlli effettuati, gli esiti e le eventuali procedure adottate.

Pulitura/stabilizzazione

La pulitura consiste nell’individuazione della superfie che definiva il contorno e la forma del manufatto al momento del suo abbandono, attraverso l’eliminazione dei depositi estranei e di certi prodotti di alterazione. Il termine stabilizzazione indica invece un intervento finalizzato a rimuovere inquinanti chimici presenti all’interno del manufatto, causa in genere di un deterioramento ciclico, e a prevenire così ulteriore degrado (CRONYN 1990, 150-151). Nella ceramica questo procedimento è utilizzato soprattuto in presenza di sali solubili (solfati, nitrati, cloruri ecc.), che possono causare lo sgretolamento del materiale in conseguenza della loro cristallizzazione/dissoluzione/ricristallizzazione. Il procedimento può comunque rientrare in quello che si definisce pulitura, dal momento che, operativamente, è una fase collegata a essa e implica comunque la rimozione di materiale estraneo. Si procede all’estrazione mediante bagni con acqua deionizzata: per ottenere buoni risultati sono necessarie immersioni prolungate e cambi giornalieri di acqua. Ogni 24 ore inoltre bisogna misurare la conduttività dell’acqua per capire quando è arrivato il momento di cessare la desalinizzazione (PATERAKIS 1987, 67-72; UNRUH 2001, 81-92). Il processo è piuttosto lungo e macchinoso per i continui cambiamenti di acqua. Si è proposto recentemente l’uso di una semplice apparecchiatura che ricicla l’acqua per pompaggio attraverso una colonna di deionizzazione (KOOB ET AL. 2000, 265-273). Ceramiche che possono sgretolarsi se immerse direttamente in acqua devono essere trattate altrimenti: può essere necessario infatti un preconsolidamento che permetta ugualmente la rimozione dei sali solubili e ricorrere all’estrazione mediante impacchi di polpa di cellulosa e acqua deionizzata. L’immersione in acqua provocherebbe infatti il distacco delle parti superficiali, tenute insieme solo dai cristalli dei sali. La pulitura è la fase più delicata dell’intervento, perché è un’azione irreversibile: bisogna quindi valutare attentamente quello che è materiale estraneo (depositi, incrostazioni, macchie), prodotti di alterazione chimica dannosi e che impediscono la comprensione dell’oggetto e quello che invece fa parte della sua storia (difetti e tracce di lavorazione, tracce d’uso, riparazioni). Si utilizzano sistemi di pulitura fisici e chimici, anche se generalmente vengono preferiti i primi per la minor interferenza con il materiale: sono più controllabili e non introducono prodotti chimici. Vari sono i sistemi adottati a seconda del tipo di manufatto e di deposito presente (BUYS ET AL. 1998, 84-98; PEDELÌ ET AL. 1998). I sistemi fisici possono essere semplici strumenti manuali come strumenti di legno, pennelli dai più morbidi ai più duri in setola, bisturi, specilli dentistici e metodi più complessi, azionati elettricamente, come microsabbiatrici, ablatori e vasche a ultrasuoni e recententemente anche strumenti laser. Spesse e dure incrostazioni carbonatiche possono essere rimosse meccanicamente con l’aiuto di un bisturi, dal momento che la pulitura meccanica è il metodo più controllabile e non vi è apporto di prodotti chimici estranei, che potrebbe creare interferenze con il substrato; talvolta però il corpo ceramico è più tenero delle incrostazioni tenacemente ancorate al substrato e la rimozione meccanica potrebbe danneggiare il manufatto. Bisogna ricorre allora a una pulitura con reagenti chimici opportuni come soluzioni acquose di detergenti non ionici, di complessanti, resine a scambio ionico ecc. Questo tipo di intervento è difficile da controllare perché gli agenti chimici penetrano attraverso le microfessure all’interno del corpo ceramico. La tecnica meno dannosa è una pulitura con sola acqua, servendosi di metodiche diverse a seconda dello stato di conservazione dell’oggetto. Solventi organici come l’alcol possono essere usati invece dell’acqua su superfici delicate: è consigliabile una soluzione di acqua deionizzata e alcol (50:50) per ceramiche fragili, cotte a bassa temperatura, perché si ha un minore effetto di ammobidimento del corpo ceramico in quanto l’abbassamento della tensione superficiale dell’acqua corrisponde a una scarsa penetrazione e diffusione capillare (CREMONESI 2001; MATTEINI ET AL. 1989, 104-108). Nella pulitura chimica, all’immersione è

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preferibile l’uso di impacchi di materiali assorbenti come polpa di cellulosa o argille, che vengono applicati preferibilmente su uno strato di carta giapponese. Per la rimozione dei depositi calcarei che sono assai comuni sulle ceramiche archeologiche, è da evitare l’uso di acidi che oltre ad attaccare anche la componente calcarea dell’impasto ceramico, causano una disgregazione dell’argilla per la violenta effervescenza prodotta dalla reazione chimica, che crea microfessurazioni nel corpo ceramico e nei rivestimenti (HODGES 1987, 146-147), oltre a causare la formazione di sali solubili. Efflorescenze di sali solubili, originate dalla trasformazione dei depositi carbonatici o addirittura della tempera calcarea presente nell’argilla stessa della ceramica, sono state riscontrate in manufatti puliti con acido cloridrico neutralizzato poi con ammoniaca (WHEELER ET AL. 1993, 55-62). Questo metodo di pulitura continua comunque a essere usato in alcuni laboratori per depositi molto tenaci, mediante applicazioni locali (FABBRI ET AL. 1993, 183). Si utilizzano generalmente agenti chelanti come l’EDTA (acido etilendiamminotetracetico), che rimuove carbonati e ossidi di ferro, nella forma di sale bisodico o tetrasodico (CREMONESI 2001, 36-39) che necessitano successivamente di un accurato risciacquo per allontanare i prodotti di risulta delle reazioni. Bisogna ricordare comunque che i depositi calcarei non rappresentano un pericolo per i manufatti ceramici e, se non oscurano dettagli importanti della decorazione possono anche non essere rimossi (BRACHERT 1990, 158). Per rimuovere le incrostazioni vengono utilizzati anche impacchi di acqua distillata e Desogen in polpa di cellulosa (FABBRI ET AL. 1993, 171). Questo prodotto ha proprietà soprattutto battericida in quanto contiene sali di benzalconio, ma può avere anche un’azione detergente se utilizzato in opportuna concetrazione (CREMONESI 2001, 43). Per le macchie di colorazione scura causata dalla presenza di composti del ferro e del manganese o da resti organici si possono utilizzare solo sistemi di pulitura chimica; per le cosiddette “macchie nere”, costituite da ossidi e idrossidi di manganese, ad esempio si può utilizzare un prodotto a base di idrazina idrossido e idrossilammonio cloruro, di pronta efficacia e che non produce effetti dannosi sui materiali (BANDINI ET AL. 1988).

Consolidamento

Il consolidamento, che ha lo scopo di rendere più resistente un manufatto fragile e decoeso, viene intrapreso solo in casi di assoluta necessità e mai come prassi generalizzata, perché oltre a interferire spesso con l’aspetto del manufatto, può presentare problemi di completa reversibilità. Il consolidamento di un materiale, che ha perduto la propria coesione microstrutturale, consiste nella sua impregnazione con una sostanza ausiliaria liquida che una volta penetrata possa passare allo stato solido e riempire quindi i vuoti che sono alla base della fragilità del manufatto (MATTEINI ET AL. 1989, 217-228). A questo scopo si utilizzano soluzioni o emulsioni di resine organiche o prodotti inorganici (LAZZARINI ET AL. 1986, 184-231). Se l’immersione, dopo aver imbibito l’oggetto con il solvente per rimuovere l’aria dai pori, è il sistema più idoneo per ottenere una completa impregnazione, le ceramiche particolarmente fragili non possono sopportare questo metodo e devono essere consolidate mediante imbibizioni a pennello o a percolazione. Gli oggetti sono in genere consolidati da asciutti; nel caso in cui la loro asciugatura implichi il loro sgretolamento si rende necessario l’uso di un’emulsione (resina sospesa in acqua), che può presentare però lo svantaggio di diventare con il tempo meno solubile e degradarsi per la presenza di additivi che la stabilizzano. Fra i consolidanti organici uno dei più utilizzati è il Paraloid B72, un copolimero di acrilato di metile e metacrilato di etile, perché è una delle migliori resine dal punto di vista della stabilità. Si utilizza in genere una soluzione di Paraloid B 72 in alcol e acetone (50:50); la scelta del solvente è importante per assicurare una buona penetrazione della resina, dal momento che ognuno presenta gradi diversi di volatilità e miscibilità. Per avere una impregnazione profonda e omogenea bisogna utilizzare solventi poco volatili e rallentare l’evaporazione. È utilizzato anche il il Paraloid B67, che rispetto al 72 è solubile solo in alcol o essenza di petrolio e perciò assicura una migliore penetrazione per la lenta evaporazione del solvente, e il Mowital B 30 H, una resina polivinilbutirralica, che cambia impercettibilmente il colore della ceramica senza produrre brillantezza (con il tempo però può ingiallire e perdere

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reversibilità) (SMITH 1998, 8) In caso di distacco di smalto è sufficiente un trattamento localizzato anche perché l’immersione può provocare la caduta del rivestimento. Fra i consolidanti inorganici viene utilizzato il silicato di etile che, pur essendo irreversibile, presenta maggiore compatibilità con il materiale ceramico, rispetto alle resine organiche; non si è notato peraltro né lucentezza né scurimenti della superficie (MUSILE ET AL. 1997, 60-619); dal momento che non modifica in modo sensibile la porosità del materiale, può essere utilizzato per consolidare un manufatto che debba essere sottoposto alla rimozione dei sali solubili, anche se esso mostra una compatibilità variabile con gli adesivi che devono essere usati poi per la ricomposizione (BERDUCOU 1990, 110).

Ricomposizione

La ricomposizione prevede attraverso l’uso di resine sintetiche, chimicamente stabili e reversibili, l’assemblaggio dei frammenti pertinenti a un dato oggetto. È preceduta da un’accurata selezione del materiale proveniente dai vari strati del deposito archeologico. Dopo una prima divisione tipologica, per ricondurre i frammenti alle varie forme bisogna considerare una serie di indicatori come la struttura e la colorazione dell’impasto, le tracce di lavorazione (ad es. linee del tornio che in ogni oggetto hanno un particolare andamento), lo stato di conservazione, eventuali difetti di produzione, macchie ecc. Frammenti dello stesso oggetto possono talvolta avere un aspetto diverso per depositi estranei o stadi diversi di conservazione, causato da giacitura in microambienti differenziati. È bene eseguire la ricerca dopo una prima sommaria pulitura perché i depositi estranei, come detto, possono aiutare nell’attribuzione dei frammenti a un dato esemplare: la pulitura definitiva può essere eseguita infatti dopo aver identificato le varie forme ricostruibili. Questa operazione è ovviamente tanto più facile quanto più l’operatore conosce dal punto di vista tipologico e tecnologico le ceramiche. La ricomposizione si attua per mezzo di sostanze adesive, costituite oggi, come accennato, da resine sintetiche (MILLS ET AL. 1987, 111-120) che, sotto forma di films, sono capaci di creare forze attrattive tra due superfici in contatto (MATTEINI ET AL. 1989, 197-209). La presa degli adesivi può essere dovuta a processi chimici (adesivi termoindurenti) o per evaporazione del solvente (adesivi termoplastivi in soluzione o in emulsione) (MATTEINI ET AL. 198-201). Nella ricomposizione bisogna sempre verificare la solidità del corpo ceramico e ricordare che l’adesivo non deve essere più forte del materiale da ricomporre; nella scelta dell’adesivo si deve tener conto delle caratteristiche strutturali e di tessitura della ceramica e delle proprietà dei vari adesivi presenti oggi sul mercato (CASTRO ET AL. 1999, 114-131). Per i materiali porosi con superici scabre sono preferibili gli adesivi termoplastici; su corpi duri e superfici lisce, come le porcellane, materiali non porosi e cotti ad alta temperatura, il solvente ha problemi a evaporare ed è preferibile l’uso di adesivi termoindurenti (AGNINI ET AL. 1999, 27-289; NUNES DA SILVA 1999, 132-137) che, pur considerati irreversibili perché dopo la catalizzazione non sono più solubili, possono comunque essere ammorbiti con il calore (50° C) o rigonfiati con l’uso di un solvente appropriato, come il cloruro di metilene. Un adesivo epossidico è infatti troppo forte e rigido per una terracotta porosa e con il tempo si può verificare il cedimento del giunto per il distacco del materiale ceramico o una nuova rottura della ceramica in una zona vicina alla vecchia giunzione. Anche l’uso di un adesivo che si contrae troppo durante la presa (ad es. resine poliesteri) o successivamente, può provocare gli stessi problemi. Inoltre le resine termoindurenti penetrano all’interno dei materiali porosi rendendone impossibile in futuro la rimozione. Quando si debbano usare su terrecotte, si può assicurare comunque una pronta reversibilità applicando una resina in soluzione (Paraloid B 72 in acetone) sulle fratture come strato di intervento (primer). Gli adesivi termoplastici più utilizzati per ceramiche porose sono adesivi a base di nitrato di cellulosa (es. HMG, UHU hart, Arsonite), adesivi a base di acetato di polivinile (es. UHU), acrilici (es.Paraloid B 72), polivinil-butirralici (es. Mowital B60H). Gli adesivi nitrocellulosici, prodotti a base di nitrato di cellulosa e altri componenti come plasticizzanti e inibitori di luce ultravioletta, prontamente solubili in molti solventi, sono stati utilizzati in campo conservativo per il loro buon potere adesivo su ceramiche porose e non, e di

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dimensioni considerevoli, dove è necessario un adesivo con forte potere coesivo che altre resine termoplastiche non hanno (SHASHOUA ET AL. 1992, 114); possono avere però problemi di instabilità se esposti a radiazioni di ultravioletti, elevata umidità e temperatura; si producono cambiamenti di colore e ritiro e le proprietà meccaniche peggiorano notevolmente (KOOB 1982, 31-34). Studi condotti presso il British Museum sottoponendo i campioni a prove di invecchiamento artificiale hanno dimostrato che almeno il tipo commerciale utilizzato nel museo da almeno 40 anni (H.M.G., H. Marcel Guest Ltd.), in condizioni di temperatura e umidità non estreme, tipiche di un ambiente museale, ha una stabilità dai 50 ai 100 anni (SHASHOUA ET AL. 1992, 118). È usato anche per le ceramiche cotte a bassa temperatura perché ritenuto da taluni meno forte del Paraloid (SMITH 1998, 9). In ambiente non controllato è però sconsigliabile l’uso perché effettivamente si sono verificati ingiallimenti, ritiro e perdita di adesione. Fra le resine acriliche il Paraloid B-72, resina generalmente usata per il consolidamento e ben conosciuta per la sua grande stabilità, trasparenza, resistenza meccanica e reversibilità, può trovere impiego anche come adesivo di ceramiche porose. Come adesivo il solvente da utilizzare è l’acetone (1:1 resina/solvente) che offre un’ottima lavorabilità e velocità di presa (KOOB 1986, 7-14). Nel caso di impasti polverulenti o fragili con tendenza a sgretolarsi, l’applicazione di un adesivo può provocare il distacco della zona superficiale delle fratture; è necessario quindi un preventivo consolidamento generale dell’oggetto. Agli adesivi termoindurenti appartiene la categoria delle resine epossidiche (ad es. Araldite, Ablebond, Plastogen EP ecc.), delle resine poliesteri (ad es. Sintolit) e i cianocrilati; questi ultimi hanno la caratteristica di fare presa rapidamente senza creare spessore. Le resine epossidiche hanno una contrazione minima, quando fanno presa, ma hanno la tendenza a ingiallire con il tempo. Bisogna quindi utilizzare solo quei prodotti che sono stati testati e sono risultati stabili in ambiente museale (DOWN 1984, 63-76; DOWN 1986, 159-170). Quando si applica l’adesivo, le fratture devono risultare prive di terra e di incrostazioni; perché un incollaggio sia resistente è necessario che le due parti siano perfettamente in contatto, che il film sia omogeneo e che i due frammenti siano serrati con forza perché non rimangano bolle d’aria tra le superfici e allineati senza che si producano “scalini” (il controllo deve essere d tipo tattile, passando il polpastrello sul giunto). Dal momento che l’adesivo per fare presa, sia che si tratti di adesivi termoplastici che termoindurenti, ha bisogno di un certo lasso di tempo, i frammenti devono essere tenuti insieme dal nastro adesivo, fissato in posizione ortogonale rispetto alla frattura (cerotto micropore da chirugo che non lascia impronte e non intacca le superfici), il cui uso però è interdetto nel caso di superfici fragili o consolidate, rivestimenti (vernici o smalti) sensibili, dorature, pitture a freddo. Il nastro comunque deve essere sempre rimosso con l’aiuto del solvente e mai solo meccanicamente. In alternativa si può utilizzare un contenitore con sabbia dove mantenere l’oggetto nella giusta posizione fino a completa presa dell’adesivo. Nel caso di molti frammenti deve essere fatta una ricomposizione provvisoria per poter stabilire l’ordine di assemblaggio; si inizia dalla base del manufatto o, in mancanza di essa, dall’orlo aggiungendo un frammento alla volta, evitando di ricomporre separatamente gruppi da riunire in seguito. È importante ricordare che il nastro adesivo, sia nel caso di ricomposizioni provvisorie sia nel caso di ricomposizione definitive, non deve essere lasciato per molto tempo sul corpo ceramico, perché può provocare, rilasciando il collante, macchie difficilmente rimovibili. In caso di errori l’adesivo può essere rimosso con il solvente opportuno stando attenti a non far penetrare l’adesivo in soluzione nel corpo ceramico perché può anch’esso provocare macchie.

Integrazione

Si ricorre all’integrazione per esigenze statiche/strutturali e di leggibilità/valorizzazione dell’oggetto. L’integrazione deve essere sempre distinguibile dalle parti originali, qualunque sia il tipo di ricostruzione giudicata idonea, che può andare da un’integrazione minima di tipo statico al completamento sia formale che pittorico del manufatto (CASADIO 1993, 49). Se la finalità dell’intervento è limitata alla conservazione e allo studio del manufatto, sarà sufficiente un’integrazione che ne assicuri la stabilità. La mancanza di integrazione in un oggetto lacunoso

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può rivelarsi addirittura dannosa per l’impossibilità da parte del solo adesivo di sostenere parti incomplete; anche se al momento può sembrare una ricomposizione solida, con il tempo si può verificare il collasso di una o più parti, che può provocare il distacco di materiale lungo la frattura o creare addirittura nuove rotture. In certi casi si può comunque decidere di smontare il manufatto ricomposto precedentemente, dopo averlo accuratamente documentato; questo metodo assicura infatti una preservazione senz’altro migliore. Se la finalità è invece di tipo espositivo si può valutare la possibilità del completamento formale e in certi casi anche pittorico. Un oggetto molto lacunoso però, generalmente non viene integrato in tutte le sue parti mancanti, anche nel caso esistano elementi sicuri e sufficienti alla sua ricostruzione, in quanto il rifacimento prevarrebbe sulla parte originale. Non mancano comunque casi in cui, per valorizzare al massimo un manufatto e restituirgli l’integrità artistica (questi interventi in genere hanno interessato ceramiche greche con figurazioni complesse e di grande livello pittorico), si è proceduto al rifacimento di una replica del vaso con prodotti epossidici in cui sono stati poi inseriti i frammenti originali (BAROV 1988, 165-177; ELSTON 1990, 69-80). L’integrante deve rispondere a una serie di requisiti come inerzia chimico-fisica e biologica, resistenza all’invecchiamento, reversibilità, facile lavorabilità, resistenza meccanica appropriata, aspetto finale in accordo con l’originale ecc. (PRUNAS ET AL. 1989, 17-34). Al momento attuale non esiste un prodotto che soddisfi pienamente tutti questi requisiti e tra gli addetti al settore vi sono discordanze di giudizio sui vari materiali da integrazione. Si usano prodotti come gessi tradizionali, gessi dentistici, polyfille, impasti a base di cera, resine poliesteri ed epossidiche (PEDELÌ ET AL. 1994, 131-170). Il gesso è ancora il materiale integrante più utilizzato, dal momento che presenta un densità simile a quella della terracotta e ha un coefficiente di espansione termica più vicino se comparato ad altri tipi di materiali (BAROV ET AL. 1984, 1-4). Trovano impiego diffuso anche altri prodotti commerciali a base di solfato di calcio come la Polyfilla o l’Hydrocal. Ad esempio, rispetto al gesso la Polyfilla (solfato di calcio e etere di cellulosa) ha il vantaggio di poter essere modellata plasticamente e non solamente colata, non ritira e ha un tempo di lavorazione più lunga (un’ora circa); inoltre, utilizzato da molti anni, ha dimostrato notevole prova di inerzia (LARSON 1980, 44-45). Le integrazioni in gesso o polyfilla vengono poi impregnate con una resina per operare un leggero consolidamento e per impedire eventuali attacchi microbiologici. La presenza di una resina cellulosica nella polyfilla non sembra costituire una fonte di nutrimento per microrganismi, come ha evidenziato uno studio condotto con prove sperimentali (NUGARI 1989, 34-38) Tutti i materiali a base di gesso sono inoltre facilmente reversibili con l’uso di acqua e mezzi meccanici. Il materiale a base di cera, gesso e altri componenti, denominato I 76 e messo a punto dal Centro di Restauro di Firenze (DEL FRANCIA 1991, 157-164) non ha dato invece buoni risultati nel tempo, pur avendo indubbie doti di facile lavorabilità e reversibilità. Sono state quindi apportate modifiche nella composizione dell’impasto che attualmente è commercializzato già pronto per l’uso (MICCIO 1998, 131-133). Vengono utilizzate anche resine epossidiche che, rispetto ai materiali citati precedentemente, presentano una maggiore resistenza meccanica: sono utilizzate soprattutto per maioliche resistenti (GROSSI ET AL. 1994, 126-130) e porcellane (JORDAN 1999, 138-145) o per rifare, come già detto, forme complete su cui inserire i frammenti (ELSTON 1990; BAROV 1988). I materiali a base di solfato di calcio sono infatti abbastanza fragili e inclini a rottura in conseguenza di sollecitazioni meccaniche. Nello stesso tempo però, essendo meno resistenti della ceramica, in caso di urto si rompono preferenzialmente; bisogna valutare inoltre che in molti casi è la sinergia tra la ricomposizione, il consolidamento e l’integrazione ad assicurare la stabilità del manufatto e non tanto le proprietà meccaniche dell’integrante. Inoltre, soprattutto la Polyfilla è facilmente lavorabile dopo la presa, il che consente di evitare accidentali abrasioni della ceramica durante le operazioni di finitura della superficie. Le resine invece sono molto dure dopo la presa e perciò difficili da lavorare. Si è utilizzato recentemente, per ceramiche preistoriche, un integrante costituito da Paraloid B 72, disciolto in alcol e acetone (50:50), mescolato a microsfere di vetro. Questo materiale può essere velocemente rimosso con acetone e lisciato con acetone o alcol,

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evitando quindi i pericoli di abrasione del manufatto; la superficie inoltre, opportunamente dipinta con colori acrilici, si accorda bene con l’originale (SMITH 1998, 9-10). Qualunque sia il materiale prescelto per l’integrazione, esso viene applicato su una controforma che può essere costituita da sottili fogli di piombo, fogli di cera da dentista, argilla o gomma al silicone a seconda della complessità della zona da riprodurre. In genere si prende l’impronta sulla parte esistente e la si trasferisce nella parte da integrare. Se si usa il silicone bisogna sempre testare il tipo prescelto e utilizzarlo in associazione a un agente barriera, perché può lasciare macchie residue che scuriscono la superficie e che possono essere rimosse solo dopo ripetute applicazioni di un solvente idoneo (MAISH 1994, 250-256). In caso di grande lacunosità e/o di scarse zone di contatto si deve ricorrere alla foggiatura in argilla di una controforma, su cui poi sistemare i frammenti e procedere alla stesura dell’integrante (WILLIAMS 1980, 34-37; BERDUCOU 1990, 116-117). Si può anche procedere, nel caso di forme chiuse, all’esecuzione di una sagoma interna di polistirolo (MIBACH 1975, 56-57). Durante la lavorazione dell’integrante è facile produrrre in ceramiche porose sbiancamenti o macchie nelle zone adiacenti; è consigliabile quindi proteggere le aree intorno alle lacune con pellicole poi facilmente reversibili che proteggono l’oggetto durante tutte le fasi della lavorazione, dall’applicazione dell’integrante alla sua abrasione finale. Può essere utilizzato il lattice di gomma, steso a pennello nelle zone circostanti le lacune che però, nel caso di ceramiche estremamente porose, può lasciare un alone, rimovibile comunque con un solvente opportuno. Come alternativa si può applicare su tutto l’oggetto una soluzione acquosa di alcol polivinilico che può essere rimosso facilmente con acqua (BAROV 1988, 166). Quando possibile, è preferibile utilizzare il sistema delle integrazioni staccabili che permettono una lavorazione a parte senza coinvolgere il manufatto (KOOB 1987, 63-66). Riguardo all’aspetto da conferire alle integrazioni ceramiche, alla scelta di una integrazione a tinta neutra, basata sul colore dell’impasto e con superficie ribassata, adottata per la prima volta nel 1954 dall’ICR sulla collezione di ceramica greca del conte C. Faina di Orvieto (VLAD BORRELLI 1955), si va sostituendo un criterio di discrezionalità in considerazione delle specifiche esigenze delle varie classi ceramiche (MELUCCO VACCARO 1989, 8-16). In generale l’integrazione non dovrebbe emergere dall’unità generale di un oggetto e il tipo di accordo con l’originale dovrebbe dipendere di volta in volta dalle caratteristiche del manufatto. Per le ceramiche senza rivestimento la metodologia dell’ICR è indubbiamente ancora valida: si esegue l’integrazione con un impasto precolorato e accordato con il colore interno del manufatto fig. 31-32). La ceramica greca a figure nere o rosse per anni è stata integrata con il colore del corpo ceramico, senza valutare il contrasto con il fondo nero dipinto e la rilevanza dell’elemento figurativo; restauri di questo tipo (in cui inoltre anche le fratture sono stuccate su fondo nero con il colore interno rosato formando un motivo a ragnatela) fanno rimpiangere paradossalmente i vecchi interventi ottocenteschi, che perlomeno permettevano una lettura delle scene figurate, che queste integrazioni rendono invece quasi incomprensibili (CAPOLAVORI E RESTAURI 1986, 226, fig. 379). Un’integrazione che riproponga il colore della superficie, nel rispetto del principio della riconoscibilità dell’integrazione, assicura una migliore leggibilità e nello stesso tempo valorizza l’oggetto (BAROV 1988, 165-177). Per i motivi figurati, secondo i principi attuali, non è possibile procedere all’integrazione pittorica ma, nel caso di piccole lacune o di motivi ripetitivi, si può procede alla ricostruzione pittorica, sempre secondo il criterio di riconoscibilità dell’intervento (PRUNAS ET AL. 1989, 17-34). Per le ceramiche postclassiche con rivestimento in smalto policromo si sono adottati criteri integrativi diversificati, fino a ripristinare, nel rispetto della differenziazione tra originale e parte integrata e quando vi siano elementi sufficienti per una ricostruzione, la decorazione completa della superficie. La tecnica che attualmente sembra rispondere meglio alle esigenze di una superficie che si accordi e nello stesso tempo si differenzi dall’originale è quello del puntinato suggerito in recenti pubblicazioni italiane (BANDINI 1992, 223-230; BONETTI ET AL. 2000, 48-75) e riproposta e adottata anche all’estero (GIBOTEAU 1996, 15) (fig. 33a-c, 34a-c) Questa tecnica può essere estesa con ottimi risultati anche ad altri tipi di ceramica come le ceramiche classiche a “vernice nera” e “vernice rossa” e anche su ceramiche senza rivestimento,

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nel caso ad esempio di colorazioni differenti nello stesso esemplare, dovute a fenomeni di cottura. In questo caso infatti, un colore unico dell’integrazione inserita in una zona di colore variabile può provocare degli stridenti contrasti; questa tecnica permette invece di assecondare in modo eccellente le varie sfumature di colore consentendo una visione unitaria del manufatto, pur restando perfettamente distinguibile dall’originale. Si usano generalmente colori acrilici opachi, che presentano la giusta densità necessaria a creare punti che abbiano corpo e nitidezza e uniformità di colore in asciugatura. Accanto a questa tendenza non mancano comunque casi in cui si impone un rigoroso intervento minimo, soprattutto per evitare integrazioni arbitrarie (BANDINI 1990, 102, fig. 87), per mezzo di supporti in materiale trasparente o proposte di rinuncia alla ricomposizione dei frammenti (VIDALE-LEONARDI 1994, 96-99) e di adozione di tecniche grafiche e videofotografiche per la ricostruzione della forma e del decoro (MELUCCO VACCARO 1989, 11).

Conservazione a lungo termine: immagazzinamento ed esposizione

La ceramica, dopo essere stata sottoposta a un intervento di conservazione e restauro, come del resto ogni manufatto, deve comunque essere periodicamente controllata, qualunque sia la sua destinazione definitiva (magazzino o esposizione in museo); bisogna inoltre dotare l’edificio che la ospita di quei correttivi che assicurino idonei parametri di conservazione e strumenti di controllo (THOMSON 1986, DE GUICHEN 1984). Anche se rispetto ad altri materiali presenta una maggiore inerzia rispetto a fattori come la temperatura e l’umidità, è comunque importante assicurare un ambiente in cui questi fattori siano stabili e l’umidità relativa non superi il 65% (BODDI 1999, 10-35, CHILD 1999, 36-87). La presenza di materiali come adesivi, consolidanti e integranti impone un’attenzione maggiore nei confronti di queste indicazioni di massima, dal momento che dovranno essere tenuti sotto controllo fattori che non avrebbero una grande influenza sul materiale ceramico di per sé (BERDUCOU 1990, 119). Bisogna inoltre evitare un’erronea manipolazione che è spesso causa di nuove rotture (un oggetto restaurato rimane comunque fragile) e l’accumulo di polvere sulla superficie. Si raccomanda quindi di manipolare l’oggetto sempre con due mani, evitando la presa per le anse per gli orli e comunque una presa non equilibrata ecc. (come invece purtroppo si vede fare a chi studia, disegna o fotografa i manufatti) e di conservare gli oggetti in vetrine possibilmente ermetiche, nel caso di esposizione museale, oppure in contenitori o sacchetti di polietilene, nel caso di conservazione in magazzino. È comunque doveroso pianificare interventi di controllo e manutenzione ordinaria, qualunque sia la destinazione definitiva: a scadenze regolari dovranno essere controllati gli oggetti e le condizioni generali dei contenitori, siano essi museali o di deposito.

Interventi del passato

Fin dall’antichità abbiamo testimonianze di interventi di “restauro” soprattutto per ripristinare la funzione d’uso del manufatto. Già a partire dal VII sec. a.C. si praticava il sistema di ricomposizione con fori e graffe di bronzo o di piombo (BRACHERT 1990), ma la tecnica è ancora più antica, come testimoniano ad esempio una ciotola rinvenuta a Tell Hassan in Mesopotamia, in cui l’assenza di tracce metalliche può indicare che la connessione era assicurata da materiali organici deperibili (FABBRI ET AL. 1993, 2) e un vaso in pietra cicladico presso il Museo Archeologico di Naxos. Fori e graffe di piombo sono state rinvenute in ceramiche greche e romane (ZANELLI 1997, 53-54); in un recente scavo di una statio romana a Bomarzo è stato rinvenuto ed è ancora in situ un grande dolio riparato con graffe in piombo (fig. 35), mentre al Museo Archeologico di Colle Val d’Elsa (sala 8) è esposta una ceramica attica che presenta i fori della puntatura. Successivamente la tecnica della puntatura è stata utilizzata in tutte le epoche fino ai nostri giorni. Per il Medioevo abbiamo testimonianze in esemplari di maiolica arcaica, ad esempio in un catino proveniente da un pozzo di butto rinvenuto a Siena nella Contrada della Civetta, nei cui fori rimangono i carbonati di rame che testimoniano l’utilizzo di un filo di questo materiale (fig. 36). Abbiamo testimonianze di riparazioni coeve al materiale eseguite anche con

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altri metodi; interessante a questo proposito la foderatura con argilla a scopo di consolidamento di un contenitore, in origine estremamente friabile, in una sepoltura dell’età del Bronzo (SMITH 1998, 5) e un’integrazione eseguita con pece in un’urna cineraria dell’VIII secolo (ZANELLI 1997, 53). L’importanza di tali testimonianze storiche impone ovviamente la loro conservazione (BRACHERT 1990, 162) che deve verificarsi sempre quando ci troviamo di fronte a restauri coevi e deve indurre a una riflessione nel caso di interventi successivi, che fanno sempre comunque parte della storia del manufatto e costituiscono un documento materiale di un modo diverso di intendere il restauro. Quando ci si trova di fronte a vecchi restauri inoltre, bisogna sempre valutare se la loro rimozione può causare ulteriore deterioramento del materiale originale, dal momento che spesso i prodotti o il tipo di intervento sono difficilmente reversibili. Nel caso quindi che il vecchio restauro non costituisca una fonte di degrado per il manufatto e non ne impedisca la leggibilità è preferibile non intervenire e limitarsi alla sua manutenzione. Le prime fonti scritte su sistemi di riparazione utilizzati per le ceramiche risalgono al Rinascimento, ma i primi trattati specifici sul tema sono della seconda metà dell’Ottocento (FABBRI ET AL.1993, 13-25). Nel 1868 in Francia venne pubblicato un manuale sul restauro della ceramica di Thiaucourt, L’Art de restaure les faiences et les porcelaines, seguito nel 1876 da L’Art de restaurer soi-memes les faiences, porcelaines, cristaux….. di O.E. Ris-Paquot. Del resto lo sviluppo nel XVIII e XIX secolo del collezionismo ceramico e del conseguente mercato antiquario dettero impulso a interventi di restauro inteso come rifacimento mimetico e falsificatorio (BERTINI 1998, 149-161), mediante i quali si arrivava addirittura a ricomporre forme intere con frammenti provenienti da esemplari diversi della stessa tipologia (FABBRI ET AL. 1993). Tali metodi sono testimoniati in molti esemplari provenienti da collezioni pubbliche e private; talvolta sono stati evidenziati solo in occasione di nuovi restauri, dal momento che il fine dell’intervento era restituire completezza all’oggetto senza che fosse possibile distinguere il rifacimento; il restauro cioè era tanto più apprezzato quanto più risultava invisibile (ZANELLI 1997, 54-55). Riguardo agli interventi eseguiti negli ultimi due secoli abbiamo una numerosa casistica di danneggiamenti prodotti durante gli interventi: rivestimenti e impasti danneggiati per l’uso di prodotti chimici impropri, abrasione dei bordi dei frammenti per uno scorretto ordine di ricomposizione, abrasione da levigature effettuate nelle zone a contatto con le integrazioni, incisioni praticate sul corpo ceramico per far meglio aderire le stuccature del rivestimento (FABBRI ET AL. 1993, 154-159). Esistono anche casi di integrazioni con altri materiali come cotto, legno, metallo che, utilizzati a fini strutturali, non sono risultati dannosi per gli oggetti (FABBRI ET AL. 1993, 21-38) oppure casi in cui i frammenti mancanti erano stati riprodotti fedelmente in ceramica imitando con grande perizia anche smalto e decoro (KOOB 1999, 156-166). Nel Ris-Paquot si descrive la pratica della puntatura, tecnica come abbiamo visto ben più antica, che consisteva nel praticare dei fori con un trapano ad archetto su ciascun lato del frammento nei quali veniva poi inserito un filo di ottone. Le indicazioni di Ris-Paquot trovano riscontro pratico in tanti esemplari in cui si è intervenuti nell’Ottocento ed anche in tempi molto più recenti, soprattutto in ambito privato. Invece del filo si potevano utilizzare graffe di ferro inserite dopo aver applicato nei fori gesso, gommalacca o mastici di varia composizione per ancorare meglio il raccordo metallico all’oggetto. Queste riparazioni, come accennato, possono porre di fronte a una scelta di tipo etico: conservare il restauro come testimonianza storica o sostituirlo con gli attuali metodi e materiali? Nel caso delle graffe di ferro che, spesso ossidate, causano pressioni meccaniche con il loro conseguente aumento di volume, sono lo stato di conservazione generale del manufatto e una valutazione di tipo estetico a guidare nella scelta dell’intervento: si può procedere quindi o alla loro stabilizzazione con inibitori della corrosione oppure alla loro rimozione. Questo intervento è abbastanza rischioso perché possono verificarsi scagliature o rotture del materiale. Al Musée National de Céramique a Sèvres viene utilizzato un metodo elettrolitico che permette l’estrazione delle graffe senza alcun danno; successivamente le ceramiche sono ricomposte e stuccate secondo i metodi in uso attualmente e le graffe stabilizzate e conservate come testimonianza del precedente restauro (LACOUDRE ET AL.1988, 23-28). Riguardo alle integrazioni invece, il Ris-

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Paquot propone uno stucco a base di gesso e colla forte da applicare su un’armatura di fili metallici, metodo anch’esso documentato in molti esemplari. Del resto ancora oggi questo sistema viene usato da “restauratori” del mercato antiquario, come è ancora considerato un sistema da utilizzare il cosiddetto “inchiavardaggio”, che consiste nell’inserire dei perni dopo aver praticato dei fori nelle parti da unire (SCOTTI 1992, 66-67). Il Thiaucourt consiglia invece gomma arabica e bianco di Spagna o polvere di alabastro; per l’incollaggio suggerisce la gomma lacca sciolta in alcol e riscaldata sul fuoco, metodo utilizzato in certi ambienti fino a non molti anni fa. È chiaro che prima dell’avvento delle resine sintetiche si avevano a disposizione solo resine naturali o collanti animali, che venivano utilizzati anche mescolati agli integranti, che erano quasi sempre a base di gesso. L’incollaggio poteva essere rafforzato anche con bende di stoffa; ad esempio grosse bende di tela robusta aderivano mediante un collante al retro di una coppa rinascimentale (FABBRI ET AL. 1993, 11).

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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA

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Fig. 27a-d – Effetti della cristallizzazione dei sali solubili in una ceramica invetriata.

Fig. 28a-d – Prelievo di una forma ceramica mediante fasciatura con garze di cotone di uso medico.

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Fig. 29a-d – Recupero di tre forme ceramiche sovrapposte mediante bende gessate del tipo usato in ortopedia.

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Fig. 30 – Modello di scheda elaborata per il Dipartimento di Archeologia di Siena (elaborazione F. Cavari).

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Fig. 31 – Integrazione delle lacune in alcuni grandi contenitori di ceramica acroma.

Fig. 32 – Integrazione delle lacune in un boccale Fig. 33a-b – Ricomposizione e integrazione pittorica delle lacune di un boccale di maiolica di maiolica arcaica con materiale che si accorda arcaica con il metodo “puntinato”.. al colore dell’impasto ceramico.

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Fig. 34a-c – Fasi dell’integrazione formale e pittorica a “puntinato” di un piatto in maiolica.

Fig. 35 – Restauro coevo di dolio romano con graffe in piombo.

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Fig. 36 –Restauro coevo di un catino di maiolica arcaica con il sistema della puntatura.

Fig. 37 – Sistema di restauro ancora in uso sul mercato antiquario mediante armatura di fili metallici.