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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Nona Commissione Tirocinio e Formazione Professionale Incontro di studio sul tema Tutela della salute e reati in materia di alimenti. Il quadro normativo nazionale: la legge 30 aprile 1962 n.283 Relatore: dott. Antonio Lazzàro Presidente del Tribunale di Pordenone Roma 19 21 settembre 2002

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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Nona Commissione – Tirocinio e Formazione Professionale

Incontro di studio sul tema

Tutela della salute e reati in materia di alimenti.

Il quadro normativo nazionale: la legge 30 aprile 1962 n.283

Relatore:

dott. Antonio Lazzàro

Presidente del Tribunale di Pordenone

Roma 19 –21 settembre 2002

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1.- Introduzione. 2.- Il Regolamento (CE) n. 178/2002 del Parlamento Europeo e del Consiglio

del 28.1.2002. 3.- Scopo della legislazione alimentare. 4.- Oggetto materiale della tutela. 5.-

Definizioni. 6.- La figura del consumatore. 7.- Lo stato della giurisprudenza sulla responsabilità

dei produttori, dei rivenditori, dei commercianti e degli importatori. 8.- Le pene accessorie e la

sostituzione della pena ex art. 59 della legge 24 novembre 1981 n. 689 ed il patteggiamento. 9.-

Le analisi di laboratorio negli accertamenti delle condotte illecite. 10.- Le analisi dei prodotti

alimentari deteriorabili. 11.- Principio di specialità.

1.Introduzione.

Promulgata nel 1962 come modifica al T.U. delle Leggi Sanitarie (R.D. 27.7.1934 n.

1265), la legge 30 aprile 1962 n. 283 ha subito nel corso degli anni vari

aggiornamenti che ne hanno potenziato lo scopo primario di disciplina della

produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande. Nello stesso

tempo però, la frammentazione della legislazione in materia ha reso spesso

difficoltosa la realizzazione dello scopo per il quale essa ed il suo regolamento di

attuazione (dpr 26.3.1980 n.327) erano stati emanati: costituire il testo fondamentale

per la tutela degli alimenti e della salute dei consumatori. Il fine della sanità fisica

della generalità dei cittadini che è stato posto a suo fondamento però continua ad

essere pienamente attuale.

L’analisi della legge presuppone, per una sua corretta interpretazione, la conoscenza

di alcune indicazioni d’ordine generale che si sono affermate nel corso degli ultimi

anni, in seguito al processo di comunitarizzazione che caratterizza la legislazione

alimentare.

Poiché il sistema delineato dal trattato di Maastricht sull’Unione europea sembra

essere quello di un’unica entità diretta da principi e finalità identici ed univoci e

presenta un alto grado di incisività e di interferenza dei poteri delle istituzioni

comunitarie nelle prerogative degli Stati membri, è opportuno fare riferimento ai

principi ed alle normative comunitarie.

Del resto, lo sviluppo della normativa europea in campo alimentare, con il suo

articolarsi fra normativa orizzontale1 e normativa verticale2, l’emanazione del

Regolamento (CE) n. 178/2002 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 28

gennaio 2002, impongono una rivisitazione della legge 283/1962 ed una sua lettura

1 Alcuni esempi di normativa orizzontale: Decreto Minisan 27.2.1996 n.209, in tema di additivi, in attuazione delle

direttive n. 94/34/CE, n. 94/35/CE, n. 94/36/CEE, n. 95/2/CE e n. 95/31/CE; decreto leg.vo 25.1.1992 n. 107, attuazione

delle direttive 88/388/CEE e 91/71/CEE relative agli aromi destinati ad essere impiegati nei prodotti alimentari e ai

materiali di base per la loro preparazione; decreto leg.vo 27.1.1992 n.109, attuazione delle direttive concernenti

l’etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei prodotti alimentari; decreto Minsan 8.6.2001 concernenti i limiti

massimi di residui e sostanze attive dei prodotti fitosanitari tollerati nei cereali, nei prodotti di origine animale e nei

prodotti di origine vegetale, compresi gli ortofrutticoli; decreto leg.vo 26.5.1997 n.155, concernente l’igiene dei prodotti

alimentari; dpr 23.8.1982 n. 777 relativo ai materiali e agli oggetti destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari;

decreto leg.vo 12.4.2001 concernente l’impiego confinato di microrganismi geneticamente modificati; decreto leg.vo

27.1.1992 n. 118 e decreto leg.vo 4.8.1999 n. 336 in materia di ormoni e sostanze ad azione ormonica, tireostatica e

sostanze agonista; regolamento 91/2092/CEE e successive modificazioni in materia di produzione biologica; decreto

legislativo 30.1.2001 n. 94 concernente gli alimenti ed i loro ingredienti trattati con radiazioni ionizzanti; decreto leg.vo

3.3.1993 n. 123 relativo al controllo ufficiali dei prodotti alimentari; 2 fa riferimento alle varie categorie merceologiche;

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interpretativa aderente alle disposizioni comunitarie, sulla base delle seguenti

considerazioni:

- Il settore agro-alimentare è di grande importanza per l’economia europea nel suo

complesso. L’industria degli alimenti e delle bevande è uno dei principali settori

industriali nell’UE con una produzione annuale par a quasi 600 miliardi di euro, vale

a dire a circa il 15% dell’output manifatturiero complessivo. Da un raffronto

internazionale emerge che l’UE è il maggior produttore al mondo di prodotti

alimentari e bevande. L’industria degli alimenti e delle bevande è il terzo datore di

lavoro industriale dell’UE con più di 2,6 milioni di lavoratori, il 30% dei quali si

situano in piccole e medie imprese. D’altro canto il settore agricolo ha una

produzione annuale di circa 220 miliardi di euro e fornisce l’equivalente di 7,5

milioni di posti di lavoro a tempo pieno. L’esportazione di prodotti agricoli, di

prodotti alimentari e di bevande ammonta a circa 50 miliardi di euro all’anno.

L’importanza economica e l’onnipresenza dei prodotti alimentari nella nostra vita

fanno capire che vi deve essere un forte interesse per la sicurezza alimentare nella

società nel suo complesso e in particolare tra le autorità pubbliche e i produttori3.

- Ai consumatori, tutti gli Stati membri devono offrire un’ampia gamma di prodotti

sicuri e di alta qualità, per proteggere la loro salute, in considerazione degli enormi

sviluppi dei metodi di produzione e di lavorazione degli alimenti, che richiedono

controlli necessari per garantire uno standard elevato di sicurezza.

- L’UE tende ad individuare una serie di misure che garantiscano il prodotto

alimentare dai campi alla tavola: a) proponendo un quadro giuridico che copra tutta

la catena alimentare, compresa la produzione di mangimi per animali; b) stabilendo

un elevato livello di protezione della salute dei consumatori; c) attribuendo in modo

chiaro la responsabilità primaria di una produzione alimentare sicura alle industrie, ai

produttori e ai fornitori; d) consentendo la possibilità di rintracciare i prodotti lungo

tutta la catena alimentare; e) ricorrendo al principio di precauzione; f) prendendo

misure di salvaguardia rapide ed efficaci onde rispondere ad emergenze sanitarie che

si manifestino in qualsiasi punto della catena alimentare; g) assicurando che la

produzione dei mangimi, l’utilizzazione dei materiali che vengono a contatto con gli

alimenti, l’uso degli additivi e delle sostanze aromatizzanti siano sicuri; h) ottenendo

che le dichiarazioni relative alla salute poste sugli alimenti siano veritiere.

- Tutti i partecipanti alla catena alimentare (dai produttori di mangimi agli agricoltori,

dai produttori e dagli operatori del settore alimentare agli addetti al controllo

attraverso il metodo dell’HACCP) svolgono, nei confronti dei consumatori, una

funzione di garanzia e rivestono una responsabilità primaria in ordine alla sicurezza

degli alimenti. I loro compiti devono essere perciò chiaramente definiti.

- La normativa europea che affronta tutti gli aspetti della sicurezza alimentare deve

essere fatta efficacemente rispettare negli Stati membri, in linea con il principio di

sussidiarietà, rimanendo a carico degli Stati stessi l’obbligo di far applicare la

legislazione in materia alimentare.

3 Commissione delle Comunità Europee: Libro bianco sulla sicurezza alimentare; Bruxelles, 12.1.2000;

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2 .Il Regolamento (CE)n. 178/2002 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 28

gennaio 2002 (GUCE del 1.2.2002). Con questa normativa l’U.E., oltre ad istituire l’Autorità europea per la sicurezza

alimentare ed a fissare procedure nel campo della sicurezza alimentare stabilisce i

principi ed i requisiti generali della legislazione alimentare4.

E’ opportuno ricordare che all’art.189 (ora 249) del Trattato si legge “per

l’assolvimento dei loro compiti e alle condizioni contemplate nel presente Trattato il

Parlamento europeo congiuntamente con il Consiglio, il Consiglio e la Commissione

adottano regolamenti e direttive, prendono decisioni e formulano raccomandazioni o

pareri. Il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi

e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri”.

Il regolamento, quindi, è destinato ad operare nella sfera territoriale di tutti gli Stati

membri, in modo diretto, essendogli riconosciuta “forza e valore di legge”. Nello

stesso tempo, il sistema statuale si deve aprire alla normazione comunitaria,

lasciando che le regole in cui essa si concreta vigano nel territorio italiano, quali sono

scaturite dagli organi competenti a produrle.

Al giudice italiano, pertanto, spetta il potere di accertare se la normativa di fonte

comunitaria regoli il caso sottoposto al suo esame e di applicare il disposto con

esclusivo riferimento al sistema comunitario, non potendo rappresentare ostacolo a

tale applicazione le confliggenti statuizioni della legge interna5.

Riteniamo, pertanto, che i principi espressi nel Regolamento 178/2002 debbano

necessariamente esplicare la loro diretta ed immediata attuazione proprio nella

interpretazione della normativa della italiana6.

Come esattamente osserva il Capelli, la diretta efficacia della normativa comunitaria,

consiste in un particolare requisito che la norma possiede in quanto trovando

immediata applicazione senza essere sottoposta né al potere discrezionale delle

istituzioni comunitarie o degli Stati membri né a condizioni temporali o ad altre

condizioni, essa è in grado di far sorgere diritti (od obblighi) in capo ai singoli7.

Nel caso di specie, il Regolamento (CE) 178/2002, per quanto attiene al campo di

applicazione e ai principi generali della legislazione alimentare esplica già la sua

diretta efficacia.

4 La normativa comunitaria esplica efficacia diretta e presenta carattere di preminenza o di prevalenza. 5 Vedi: A. Lazzàro, Norme interne e regole comunitarie alla luce del diritto costituzionale italiano, in Diritto

comunitario e degli scambi internazionali, anno 1999, n.3. 6 All’articolo 1 del Regolamento si legge: il presente regolamento costituisce la base per garantire un elevato livello di

tutela della salute umana e degli interessi dei consumatori in relazione agli alimenti, tenendo conto in particolare della

diversità dell’offerta di alimenti compresi i prodotti tradizionali, garantendo al contempo l’efficacia funzione del

mercato interno. Esso stabilisce principi comuni e competenze, i mezzi per assicurare un solido fondamento scientifico,

procedure e meccanismi organizzativi efficienti a sostegno dell’attività decisionale nel campo della sicurezza degli

alimenti e dei mangimi.

2. Ai fini del paragrafo 1 il presente regolamento reca i principi generali da applicare nella Comunità e a livello

nazionale in materia di alimenti e mangimi in generale, e di sicurezza degli alimenti e dei mangimi in particolare. 7 F. Capelli, Distinzione tra entrata in vigore e diretta efficacia di una norma comunitaria; in Alimenta, 2002, 1, pag.10.

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3. Scopo della legislazione alimentare. Lo scopo che la legislazione alimentare8 deve raggiungere è quello di garantire la

sicurezza degli alimenti e la tutela degli interessi dei consumatori, attraverso una

elaborazione aperta e trasparente della legislazione stessa ed una adeguata

informazione degli stessi consumatori, in particolare quando vi siano ragionevoli

motivi per sospettare che un alimento comporti un rischio per la salute.

Il richiamo alla pubblica salute, oltre che alla protezione degli interessi dei

consumatori viene anche evidenziato nel Decreto legislativo 123/1993 , nella

Direttiva 89/397/CEE del 14 giugno 1989, relativa al controllo ufficiale dei prodotti

alimentari, e nella Direttiva 93/43/CEE del 14 giugno 1993, sull’igiene dei prodotti

alimentari9.

Se consideriamo che per salute si intende il benessere come equilibrio delle

componenti fisiche, mentali e sociali di una persona, è evidente che un suo

turbamento, determinato dall’ingestione di un alimento in cattivo stato di

conservazione o, addirittura, tossico o nocivo che possa aver causato una

tossinfezione alimentare, debba essere comunque evitato.

Il concetto di salute quale bene tutelato dalla legge penale, così inteso, è tale da far

considerare che la salute è compromessa anche quando non si manifesta una vera e

propria malattia.

Infatti, poiché la tutela normativa è rivolta alla salute pubblica, cioè a quella di tutti

indistintamente i consumatori, vanno presi in considerazione non solo quelli

psicofisicamente integri ma deve farsi riferimento alla media dei diversi stati di salute

individuale. In questo caso, nell’ambito della salute vengono ricomprese situazioni

più disparate che vanno dalla piena integrità psicofisica da un lato ai più gravi stati di

infermità dall’altro, ivi incluse quelle dei soggetti “a rischio”.

La protezione della salute, allora, deve attuarsi cercando “di evitare di sottoporre ad

insidie la quota dei casi patologici che rientrano nel disomogeneo agglomerato della

salute collettiva. Ciò vale in genere quando la collettività di riferimento è un insieme

casuale e veramente disomogeneo di soggetti sani ed ammalati, maschi e femmine,

gravide e no, più o meno giovani o più o meno vecchi: in altri termini se in seno alla

collettività le persone sane e robuste potrebbero teoricamente tollerare una

determinata insidia, ma i non integri non la tollerano, posto il bilancio fra i primi ed

i secondi, deve a nostro avviso prevalere la tutela di questi ultimi” (M.Toni,

D.Rodriguez, Università degli Studi di Padova).

Del resto la Suprema Corte ha più volte ribadito tale concetto quando ha individuato

la pubblica salute in quella di un numero indeterminato di persone, comprese quelle

più esposte al rischio per ragioni di età o di salute10. 8 Per “legislazione alimentare” si intende, ai sensi dell’art. 3 del Regolamento (CE) 178/2002 le leggi, i regolamenti e le

disposizioni amministrative riguardanti gli alimenti in generale e la sicurezza degli alimenti in particolare, sia nella

Comunità che a livello nazionale; sono incluse tutte le fasi della produzione, trasformazione e distribuzione degli

alimenti e anche dei mangimi prodotti per gli animali destinati alla produzione alimentare o ad essi somministrati. 9Il secondo considerando della direttiva 93/43/CEE recita testualmente: ”considerando che la tutela della salute umana

costituisce una preoccupazione fondamentale”. 10 Con la sentenza n.5240 del 23 aprile 1996, sez. 3^, la Cassazione ha affermato che è posto in pericolo in bene della

salute pubblica anche nel caso in cui gli alimenti siano destinati al consumo di soci-proprietari di una cooperativa,

perché trattasi sempre di commercio anche se in ambito circoscritto.

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Tale scopo si dovrà raggiungere realizzando la piena omogeneità dei concetti, dei

principi e delle procedure all’interno delle legislazioni dei singoli Stati per costituire

una base comune che si uniformi alle normative comunitarie.

E’ evidente che la stessa libertà di circolazione delle merci (nella specie degli

alimenti) in ambito comunitario deve essere strettamente correlata alla loro sicurezza

e sanità e può realizzarsi solo attraverso l’uniformità dei requisiti di sicurezza degli

alimenti e dei mangimi all’interno della stessa Comunità11.

Il legislatore comunitario delinea un quadro in cui la filiera alimentare viene

raffigurata come un unico processo produttivo che ha inizio dalla produzione

primaria12 inclusa, passa attraverso la produzione dei mangimi fino alla vendita o

erogazione al consumatore e comprende le altre pratiche e mezzi di produzione

agricoli a livello di produzione primaria, quali gli omg o i prodotti da agricoltura

biologica.

All’interno del processo produttivo, così inteso, si pone normalmente, nella pratica

giudiziaria, la difficoltà di individuare il momento in cui il rischio alimentare sia

sorto e le eventuali responsabilità. L’impossibilità di ricostruire il percorso compiuto

da un alimento o da un mangime sono spesso alla base di numerose decisioni

assolutorie, pur in presenza di fatti costituenti reato. Se è pur vero che attraverso il

sistema HACCP, ogni anello della filiera alimentare deve garantirsi e garantire al

consumatore la sicurezza del prodotto impiegato, pur tuttavia la mancanza di

strumenti di individuazione certa dei prodotti utilizzati rende sovente impossibile

risalire al momento critico della produzione.

Per evitare il verificarsi di situazioni di carenza di attribuibilità dell’alimento, si pone

allora la necessità di predisporre un sistema generale per la rintracciabilità dei

prodotti che abbracci il settore dei mangimi e alimentare onde fornire precise

informazioni ai consumatori e consentire gli interventi dei pubblici funzionari addetti

ai controlli. Gli operatori del settore alimentare dovranno essere in grado, quanto

meno, di individuare l’azienda che ha loro fornito l’alimento, il mangime, la sostanza

o l’animale che può entrare a fare parte di un alimento.

Nel momento in cui tale rintracciabilità non possa essere attuata, il giudice dovrà

valutare il comportamento dell’operatore, ai fini dell’accertamento dell’elemento

psicologico, come gravemente colposo.

4. Oggetto materiale della tutela.

L’uso di termini diversi per stabilire l’oggetto materiale della normativa alimentare è

stato spesso fonte di diverse interpretazioni ed ha dato luogo a soluzioni discordanti.

11 E’ interessante notare come il Regolamento ponga sullo stesso piano la sicurezza degli alimenti e quella dei mangimi

riservati agli animali destinati alla produzione alimentare. In particolare, al Considerando n. 13, afferma che “occorre

prendere in prendere in considerazione la produzione, la trasformazione, il trasporto e la distribuzione dei mangimi con

i quali vengono nutriti gli animali destinati alla produzione alimentare, compresa la produzione di animali che

potrebbero essere utilizzati come mangimi negli allevamenti dei pesci, dato che contaminazioni accidentali o

intenzionali dei mangimi, adulterazioni o pratiche fraudolente o altre pratiche scorrette in relazione ad essi possono

avere un’incidenza diretta o indiretta sulla sicurezza degli alimenti”. 12 Per quanto attiene all’autocontrollo, il D.Lvo 155/1997 dispone invece che le norme generali di igiene dei prodotti

alimentari interessano le fasi successive alla produzione primaria, che include tra l’altro la raccolta, la macellazione e

la mungitura.

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L’art. 1 della legge 283/1962 stabilisce che sono soggette a vigilanza per la tutela

della pubblica salute la produzione ed il commercio delle sostanze destinate alla

alimentazione. L’art. 2 subordina ad autorizzazione sanitaria l’esercizio di

stabilimenti, laboratori di produzione, preparazione e confezionamento, nonché

deposito all’ingrosso di sostanze alimentari. L’art. 5 vieta l’impiego nella

preparazione di alimenti o bevande di sostanze alimentari…..

Come osserva il Correra: “è bene chiarire subito che purtroppo il legislatore ha fatto

un uso non sempre ortodosso e coerente di tale terminologia o nel senso di ritenere

equivalenti termini che corrispondono a nozioni diverse o nel senso di contrapporre

concetti che erano semplicemente in rapporto di genere a specie13.

I termini di sostanze destinate all’alimentazione, di alimenti e di sostanze alimentari

sono stati adoperati in modo indifferente, determinando spesso difficoltà

interpretative14.

La giurisprudenza è stata chiamata spesso a stabilire se siano soggetti

all’autorizzazione sanitaria di cui all’art. 2 della 283/1962 gli allevamenti di animali

destinati al consumo umano.

Nel caso di allevamento di polli, la Corte di Cassazione ha affermato che “dopo

iniziali incertezze (Cass. Sez. VI, 18 agosto 1970 n. 1002) dovute spesso alla

particolarità della fattispecie (si trattava di un modesto deposito di pollame ed altri

animali vivi), la giurisprudenza di questa Corte è stata concorde nel ritenere

necessaria detta autorizzazione pure per l’allevamento dei polli siano essi vivi o

macellati (Cass. Sez. VI, 1 dicembre 1989 n. 16834) poiché la loro destinazione

normale e finale è quella dell’uso alimentare, a nulla rilevando il diverso impiego che

possa farne il singolo acquirente.

Una simile esegesi è avvalorata da un’interpretazione storica relativa alla sostituzione

della pregressa normativa disciplinata dal T.U.LL.SS., teleologica, concernente la

ratio legis, e sistematica, giacché l’analitica elencazione dei requisiti dei locali e delle

attrezzature operata dagli artt. 28, 29, 30 e 31 del Regolamento è applicabile pure agli

allevamenti di polli vivi, destinati successivamente ad essere macellati, mentre gli

articoli 42 e seguenti del d.p.r. n. 327 del 1980, regolando in maniera minuziosa e

scrupolosa i requisiti igienico – sanitari dei mezzi di trasporto e di tutti gli ambienti in

cui la sostanza viene a trovarsi, sostanziano un’analisi ermeticamente lata”15.

Anche per sostanze, che nell’accezione comune non sembrano essere considerate

alimenti, quali le gomme da masticare, è intervenuta la Suprema Corte con una

interessante sentenza16 affermando che la gomma da masticare deve invece essere

qualificata come alimento perché parte del suo contenuto viene rilasciato nella bocca

e deglutito, andando quindi a concorrere con quelle sostanze che sostengono il 13 C.Correra, Prodotti alimentari. Sicurezza, igiene e qualità, Maggioli, 1998. 14 Il concetto di alimento assume un particolare rilevo perché viene preso quale presupposto di altre disposizioni

legislative quali, ad esempio, quella che attiene alla disciplina igienica degli imballaggi destinati a venire a contatto con

sostanze alimentari (DPR 23.8.1982 n.777) oppure quella sulla confondibilità di un prodotto non alimentare come

prodotto alimentare (D.Lvo 25 gennaio 1992 n. 73). 15 La sentenza della Corte di C

assazione, sez. III, del 15 ottobre 1999 n. 12487 era in accoglimento di un ricorso proposto dal Procuratore della

Repubblica presso la pretura circondariale di Pordenone. 16 Cass. sez. I, 13 maggio 1997 n. 3345, in Juris data.

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corpo. E se taluna di quelle sostanze presenta aspetti di pericolosità ne vengono

violate le norme che tutelano la salute e, comunque, la composizione dei prodotti

alimentari.

Il riferimento della Corte, ai fini definitori, è all’ingestione della sostanza ed al suo

assorbimento da parte del corpo umano, mentre è stato ritenuto irrilevante, ai fini di

una sua qualificazione come farmaco, che la gomma da masticare vantasse effetti

terapeutici nei confronti dell’insorgenza della carie17.

5. Definizioni.

Il legislatore comunitario, agli articoli 2 e 3 del Regolamento fornisce una serie di

definizioni, che costituiscono un esatto criterio interpretativo al quale la

giurisprudenza degli Stati membri dovrà attenersi, anche con riferimento alla

legislazione nazionale.

Assume notevole rilievo la definizione di alimento. Per esso, (o prodotto alimentare o

derrata alimentare) si intende qualsiasi sostanza o prodotto trasformato, parzialmente

trasformato o non trasformato, destinato ad essere ingerito, o di cui si prevede

ragionevolmente che possa essere ingerito, da esseri umani. Sono comprese le

bevande, le gomme da masticare e qualsiasi sostanza, compresa l’acqua,

intenzionalmente incorporata negli alimenti nel corso della loro produzione,

preparazione o trattamento. Esso include l’acqua nei punti in cui i valori devono

essere rispettati come stabilito all’articolo 6 della direttiva 98/93/CE e fatti salvi i

requisiti delle direttive 80/778/CEE e 98/83/CE.

Non sono compresi nel concetto gli animali vivi, a meno che siano preparati per

l’immissione sul mercato ai fini del consumo umano ed i vegetali prima della

raccolta.

Come si rileva, il legislatore comunitario è in armonia con i criteri definitori della

giurisprudenza italiana; ne ha ampliato l’ambito di applicazione. Ha esteso il concetto

di alimento non solo agli allevamenti ma a tutti gli animali vivi preparati per

l’immissione sul mercato, comprendendo anche sia le gomme da masticare sia

l’acqua incorporata nella produzione, preparazione o trattamento degli alimenti.

Restano esclusi dal concetto di alimento i vegetali prima della loro raccolta.

Secondo alcune recenti decisioni della Corte di Cassazione18 anche l’alcool etilico

rientra nel concetto di alimento, rectius di prodotto alimentare, e non in quello di

additivo chimico.

La Corte, nel prendere in esame un caso di impiego, nel confezionamento di

panettoni, di una soluzione ad altissima concentrazione di alcool etilico, immessa

nell’involucro previa nebulizzazione, in funzione antimicotica ed antimuffa per una

sua lunga conservazione del prodotto, ha stabilito che “l’art. 5 lett. g) della legge 30

aprile 1962 n. 283, vieta l’impiego non autorizzato degli additivi chimici. La

proibizione dell’uso di additivi chimici tende ad inibire le condotte con le quali

vengono aggiunte alle sostanze alimentari altre sostanze che alimentari non sono (sez. 17 Cass. sez.I, 28 aprile 2000 n. 7032, in Juris data. 18 Cass. sez. 3^, 29 maggio 1998 n. 10181 e Cassazione sezione 3^, 6 luglio 1999 n. 11405, in Juris data;

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3^, 15 gennaio 1997, Levis, m. 207.902). Ora costituisce fatto notorio, essendo

nozione di comune esperienza, che l’alcool non è un additivo chimico, ma un

prodotto o un integratore alimentare. Il suo impiego per la preparazione di alimenti o

bevande non può ritenersi preveduto come reato dall’art. 5 lett. g) della legge 30

aprile 1962 n. 283”, perché esso o è consumato come alimento o è considerato come

ingrediente caratteristico di prodotti alimentari.

Meritano di essere ricordate altre definizioni offerte dal Regolamento ed in

particolare quella di impresa alimentare (ogni soggetto pubblico o privato, con o

senza fini di lucro, che svolge una qualsiasi delle attività connesse ad una delle fasi di

produzione, trasformazione e distribuzione degli alimenti); di operatore del settore

alimentare, che è la persona fisica o giuridica responsabile di garantire il rispetto

delle disposizioni della legislazione alimentare nell’impresa alimentare posta sotto il

suo controllo; di commercio al dettaglio, che è la movimentazione e/o la

trasformazione degli alimenti e il loro stoccaggio nel punto di vendita o di consegna

al consumatore finale, compresi i terminali di distribuzione, gli esercizi di

ristorazione, le mense di aziende e istituzioni, i ristoranti e altre strutture di

ristorazione analoghe, i negozi, i centri di distribuzione per supermercati e i punti di

vendita all’ingrosso; di immissione sul mercato, che è la detenzione di alimenti o

mangimi a scopo di vendita, comprese l’offerte di vendita o ogni altra forma, gratuita

o a pagamento, di cessione nonché la vendita stessa, la distribuzione e le altre forme

di cessione propriamente detta; di pericolo o elemento di pericolo, che è l’agente

biologico, chimico o fisico contenuto in un alimento o mangime, o condizione in cui

un alimento o un mangime si trova, in grado di provocare un effetto nocivo sulla

salute19.

6. La figura del consumatore.

La normativa in esame, tuttavia, non restringe il suo campo ai soli comportamenti che

mettano in pericolo la salute del consumatore, ma si estende anche ai casi di frode

commerciale nei quali viene colpito il solo patrimonio dell’acquirente e non anche la

sua salute.

E’ la salvaguardia della buona fede del consumatore che viene presa in

considerazione, in quel particolare atteggiamento di fiducia verso il produttore o il

rivenditore. L’art. 13 della 283 punisce infatti la pubblicità dei prodotti alimentari tale

da sorprendere la buona fede o da indurre in errore gli acquirenti circa la natura,

sostanza, qualità o le proprietà nutritive delle sostanze alimentari stesse.

Il produttore ed il rivenditore non potranno, infatti, demandare la responsabilità di

errate scelte al consumatore perché, in riferimento ai danni che dall’ingestione o

dall’acquisto dell’alimento possono derivargli, egli, per la giurisprudenza, è

19 Le definizioni del Regolamento (CE) 178/2002 trovano riscontro anche in quelle previste dal D.Lvo 26 maggio 1997

n. 155 di attuazione delle Direttive 93/43/CEE e 96/3/CE concernenti l’igiene dei prodotti alimentari (autocontrollo).

Nel D.Lvo 155/1997 per industria alimentare si intende ogni soggetto pubblico o privato, con o senza fini di lucro, che

esercita una o più delle seguenti attività: la preparazione, la trasformazione, la fabbricazione, il confezionamento, il

deposito, il trasporto, la distribuzione, la manipolazione, la vendita o la fornitura, compresa la somministrazione, di

prodotti alimentari. Per responsabile dell’industria alimentare il titolare dell’industria ovvero il responsabile

specificamente delegato.

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considerato come una persona non dotata di specifica competenza, avvedutezza e di

particolari cognizioni merceologiche. E’ un acquirente di media accortezza,

appartenente alla generalità dei consumatori, i quali hanno minore attitudine a

rendersi conto delle manovre ingannevoli.

Oltre che nella giurisprudenza, la nozione di consumatore si rinviene in normative

soprannazionali, principalmente comunitarie e nelle leggi di attuazione.

Sin dalla “Carta europea di protezione del consumatore”, approvata dal Consiglio

d’Europa nel 1973, un criterio essenziale per definire il consumatore è lo scopo non

professionale.

Tale criterio risulta una regola costante nella legislazione europea.

Il decreto leg.vo 15 gennaio 1992 n. 50, di attuazione della direttiva n.85/577/CEE,

definisce all’art.2 come consumatore la persona fisica che, in relazione ai contratti o

alle proposte contrattuali disciplinati dal presente decreto (contratti negoziati fuori

dei locali commerciali), agisce per scopi che possono considerarsi estranei alla

propria attività professionale, ed allo stesso concetto si ispira la definizione

contenuta nell’articolo 1 del decreto leg.vo 22 maggio 1999 n.185 (attuazione della

direttiva 97/7/CEE relativa alla protezione dei consumatori in materia di contratti a

distanza), ove per consumatore si intende la persona fisica che, in relazione ai

contratti di cui alla lettera a), agisce per scopi non riferibili all’attività professionale

eventualmente svolta.

Questa visione del consumatore trova ampia conferma nella definizione offerta dalla

legge 30 luglio 1998 n. 281, disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, ove,

all’articolo 2 lettera a) si definiscono come “consumatori e utenti” le persone fisiche

che acquistino o utilizzino beni o servizi per scopi non riferibili all’attività

imprenditoriale e professionale eventualmente svolta.

Peraltro, la stessa legge considera i consumatori come la parte debole del rapporto

contrattuale, tanto da riconoscere loro come fondamentali i diritti: alla tutela della

salute, alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi, ad una adeguata

informazione e ad una corretta pubblicità, all’educazione al consumo, alla

correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi,

diritti che troviamo ampiamente disciplinati nel decreto leg.vo 22 maggio 1999 n.

185.

Il Regolamento (CE) 178/2002, infine, ribadisce che consumatore finale è “il

consumatore finale di un prodotto alimentare che non utilizzi tale prodotto

nell’ambito di un’operazione o attività di un’impresa del settore alimentare” (articolo

3 n. 18).

7. Lo stato della giurisprudenza sulla responsabilità dei produttori, dei rivenditori,

dei commercianti e degli importatori.

La ricerca dei principi regolatori della responsabilità dei produttori, induce a

considerare la posizione di garanzia che il produttore20 ricopre, dalla quale 20 Una definizione di produttore si rinviene all’articolo 2 del D.Lvo 17 marzo 1995 n. 115 (contenente attuazione della

direttiva 92/59/CEE relativa alla sicurezza generale dei prodotti) che dispone che, ai fini di quel decreto, per produttore

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discendono effetti giuridici non trasferibili ad altri soggetti, posizione che appare

ribadita dal dettato del decreto legislativo 26 maggio 1997 n.155, e che, peraltro, era

stata anticipata dalla Corte di Cassazione che, con riferimento all’autorizzazione

sanitaria di cui all’art. 2 della legge 30 aprile 1962 n. 283, aveva affermato che la

tutela penale, e quindi la correlata responsabilità, concerneva non solo gli alimenti in

sé, cioè il prodotto, ma ogni aspetto e modalità che avesse attinenza alla loro

produzione (Cass. sez. 6^, 24 maggio 1990 (ud. 13 gennaio 1990), n. 7264, in

C.E.D.).

In alcune circostanze, infatti, l’ordinamento riconosce a determinati beni una tutela

rafforzata stante l’incapacità, totale o parziale, dei loro rispettivi titolari a proteggerli

adeguatamente ed alcuni soggetti, diversi dai rispettivi titolari, assumono allora la

specifica posizione di garante dell’integrità dei beni che si ha interesse a

salvaguardare.

La posizione di debolezza di un contraente (nella specie il consumatore) che, nella

stragrande maggioranza dei casi, non è in condizione né di controllare né, in alcun

modo, di valutare la regolarità del prodotto alimentare in vendita, trasferisce sul

produttore o su altre persone che si frappongono sino al consumatore finale,

l’obbligo giuridico di attivarsi perché non venga realizzata una circolazione illecita

del bene.

La Corte di Cassazione ha in proposito ribadito che: “secondo la consolidata

giurisprudenza di questa Corte, devono considerarsi destinatari delle disposizioni

dell’art. 5 della legge 30 aprile 1962 n. 283, tutti coloro che concorrono

all’immissione sul mercato di prodotti destinati al consumo e non conformi alle

prescrizioni igienico sanitarie e quindi tanto i fabbricanti che i rivenditori”21.

Questa particolare posizione fa sì che nei procedimenti penali ed in quelli

amministrativi il legale rappresentante dell’attività produttiva o di vendita assuma

prima la veste di indagato e successivamente quella di destinatario della sanzione

principale e di quelle accessorie.

In tale ottica sembra porsi anche il decreto legislativo 30 dicembre 1999 n. 507, in

tema di depenalizzazione dei reati minori, nel prevedere alcune sanzioni

amministrative accessorie, quali la chiusura temporanea o definitiva dello

stabilimento e la sospensione o la revoca della licenza (art. 3 lett.a) e lett.b)),

collegandole alla reiterazione della violazione.

La reiterazione, con la conseguente applicazione della sanzione amministrativa

accessoria, può comportare che il produttore o il rivenditore vengano ad essere

destinatari di una sanzione, che può essere anche di particolare gravità, per il fatto del

proprio dipendente o preposto. Infatti, la reiterazione, come delineata dal legislatore,

si verifica quando, nei cinque anni successivi alla commissione di una violazione

amministrativa, accertata con provvedimento esecutivo, lo stesso soggetto commette

si intende: il fabbricante… e qualunque altra persona individuabile come tale mediante l’apposizione sul prodotto del

nome, del marchio o di altro segno distintivo…nonché 3) gli altri operatori professionali della catena di

commercializzazione, quando la loro attività può incidere sulle caratteristiche di sicurezza del prodotto. 21 Cass. sez. 3^, 13 novembre 1997 n. 12005, in Juris data.

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un’altra violazione della stessa indole.Come ha osservato il Pacileo22 “pur fondata su

una ragione ineccepibile, la restrizione della necessaria identità del trasgressore al

fine della ravvisabilità della reiterazione produce effetti distorsivi nel campo

alimentare, dove l’ente proprietario di un’industria alimentare non a conduzione

personale o familiare potrebbe arrestare la possibilità stessa della irrogazione delle

gravi sanzioni accessorie legate alla reiterazione degli illeciti, con il semplice

accorgimento di avvicendare il responsabile dello stabilimento, o comunque il

delegato, colpito dall’ordinanza - ingiunzione, sebbene normalmente questi non avrà

agito nel proprio interesse, ma nell’interesse dell’azienda. Per converso, proprio

perché la reiterazione segue, per così dire, il trasgressore, quella stessa proprietà

dovrà fare attenzione, nella scelta dei propri collaboratori, ai trascorsi del preposto

allo stabilimento per evitare di incorrere nelle sanzioni accessorie di cui si è detto”.

In sostanza, il produttore o il rivenditore possono vedersi irrogare una sanzione

amministrativa accessoria per culpa in eligendo o per non aver svolto indagini sui

“precedenti del proprio dipendente.

In tema di legislazione alimentare, la figura del produttore è individuata perciò come

la prima in ordine di responsabilità ed egli si troverà in difficoltà ad esserne mandato

esente.

Principio dominante la giurisprudenza è, infatti, che “al fine di escludere la

responsabilità nelle contravvenzioni per l’esistenza della buona fede, è necessario che

l’imputato provi di aver fatto quanto poteva per osservare la legge per cui nessun

rimprovero può essergli mosso neppure per negligenza o imprudenza.

La Corte, nella sentenza 24 novembre 1997 n. 590, ha precisato che non esiste alcuna

garanzia implicita a favore della genuinità della merce e che “la buona fede può

esimere da responsabilità penale soltanto quando l’imputato sia incorso nella

violazione di legge per cause indipendenti dalla sua volontà, nonostante la concreta

intenzione di uniformarsi alla legge stessa e l’interessamento spiegato al fine di

accertarsi che la propria attività non fosse in contrasto con le norme ad essa relative,

sicché la violazione della norma deve, in sintesi, apparire determinata da errore

inevitabile, da caso fortuito o forza maggiore e l’imputato deve avere dato prova di

avere eseguito, o fatto eseguire, i controlli possibili e d’avere posto in essere tutte le

precauzioni idonee ad evitare che i prodotti alimentari non conformi alla legge, e

pericolosi per la salute pubblica, vengano avviati al consumo”.

Ne consegue che risponde del reato di cui all’art.5 della legge 30 aprile 1962 n.283

(sulla disciplina delle sostanze alimentari) il produttore di insaccati che condisca i

propri prodotti con vino contenente metasolfito il cui uso è vietato per queste

operazioni ed abbia omesso di accertarsi se il vino stesso, che intende usare,

contenga o no degli additivi proibiti”23.

Del resto, anche “il conferimento ad un terzo del compito di preparare e confezionare

un prodotto alimentare, da parte di colui che appresta la materia prima, fa apporre sul

prodotto confezionato l’etichetta con il proprio nome o il proprio marchio di fabbrica

e infine detiene per la vendita e distribuisce per il consumo il prodotto medesimo, 22 V.Pacileo: La reiterazione amministrativa; in Alimenta, maggio 2000, pagg. 99 e segg.; 23Cass.sez.6^, 24 dicembre 1985 n.12459;

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non determina il trasferimento di responsabilità da quest’ultimo, che per legge

deve essere considerato il produttore, al primo, poiché questi svolge, anche se in

luoghi diversi, un’attività che di solito viene svolta nello stabilimento di produzione e

secondo le direttive e le indicazioni del produttore. Questi, pertanto, resta il

destinatario delle disposizioni legislative che disciplinano la vendita di sostanze

alimentari (art.5 legge 30 aprile 1962 n.283), della cui violazione risponde non a

titolo di responsabilità oggettiva, ma a titolo di colpa, perché su di lui incombe

comunque l’obbligo di controllo del prodotto posto in vendita” -fattispecie relativa a

confezionamento di salumi24.

Proprio a tale proposito, in tema di dicitura su confezioni di olive delle parole “senza

coloranti”, la Corte di Cassazione 25ha ritenuto responsabile del reato di cui all’art.13

della legge n.283/1962 (pubblicità ingannevole) il produttore che è tenuto a

garantire ai consumatori una consapevole e libera scelta di prodotti alimentari sulla

base di indicazioni fedeli e non ingannevoli e di evitare una disordinata concorrenza

fra i produttori con conseguenti effetti negativi per il commercio e la pubblica

economia.

La posizione di garanzia del produttore esce così rafforzata dalle decisioni della S.C.

che ha ritenuto irrilevanti, ai fini della responsabilità, le difficoltà di controllo del

prodotto che si possono frapporre allo stesso produttore.

“E’ responsabile della contravvenzione di cui al combinato disposto degli artt.5 lett.a)

legge 30 aprile 1962 n.283 e 6 legge 30 aprile 1962 n.283, modificato dall’art.4 della

legge 26 febbraio 1963 n.441, il produttore di formaggi e di prodotti caseari che non

rispetta l’obbligo di accertare che i prodotti messi in commercio siano conformi alle

prescrizioni di legge ed abbiano le qualità minime di sostanza di grasso stabilita. Per

assolvere a tale compito il produttore deve effettuare i controlli necessari per stabilire

che il latte dalla cui lavorazione estrae i prodotti abbia la quantità di sostanza grassa

indispensabile. L’eventuale difficoltà di controllo non fa venir meno l’obbligo

inderogabile dell’accertamento”26.

La stessa Corte ha anche affermato la responsabilità in capo al legale rappresentante

di una società cooperativa per aver detenuto, al fine di distribuirla per il consumo,

insalata contenente sostanze tossiche per l’uomo (clorzaconil), usate in agricoltura, in

misura superiore a quella consentita, qualificando come “colposa” la condotta del

legale rappresentante che non si era in alcun modo attivato per impedire ai soci della

cooperativa di usare prodotti nocivi per la salute dei consumatori27.

Conformemente a tale decisione la Corte ha precisato che: “in tema di alimenti, la

contravvenzione di cui agli artt. 5 e 6 della legge 30 aprile 1962 n. 283, accertata

nella forma dell’immissione nel circuito distributivo di prodotti naturali (nella specie

ribes) contenenti fitofarmaci in quantità superiore ai limiti massimi consentiti dalle

disposizioni ministeriali vigenti, è ascrivibile a titolo di colpa al legale rappresentante

di una cooperativa di frutticoltori, atteso che il produttore deve assicurare, mediante

24Cass.sez.6, 19 novembre 1986 n.12952, in C.E.D.; 25Cass.sez.6^, 12 ottobre 1985, n.9071, in C.E.D.; 26Cass.sez.6^, 23 febbraio 1985 n.1819, in C.E.D.; Cass. Sez. 3^, 4 marzo 1998 n. 4487, in Juris data; 27Cass.sez.3^, 13 maggio 1997, n. 4441, in U.S.I.;

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analisi dei prodotti, la conformità degli stessi alla legge, restando esente da colpa solo

attraverso l’acquisizione di certificazione attestante l’osservanza dei parametri

richiesti per la tutela della salute del consumatore, essendo irrilevante il fatto che i

singoli soci produttori della cooperativa si siano vincolati all’osservanza di un

protocollo di autodisciplina”28.

Responsabile è stato altresì ritenuto “il titolare di uno stabilimento che per contratto

o per disposizione interne abbia affidato ad altra persona il compito di controllare la

regolarità e la legittimità dell’installazione di un servizio di mensa aziendale in detto

stabilimento” perché egli “ha l’obbligo anche di controllare e di accertare che il

preposto abbia provveduto a richiedere il rilascio della prescritta autorizzazione

sanitaria”29, così come responsabile è stato ritenuto il titolare di un albergo per il

rinvenimento di carne in iniziale stato di putrefazione nel frigorifero della cucine. A

lui è stato infatti addebitato l’illecito, quanto meno a titolo di negligenza, consistente

nell’avere omesso il controllo sull’operato del capocuoco, e per “culpa in eligendo”,

rappresentata dall’avere preposto alle cucine un soggetto privo della necessaria

capacità professionale30.

Poiché, normalmente, il produttore si identifica in una società, la ricerca della

responsabilità si rivolge a chi è penalmente legittimato, individuato di solito nel

legale rappresentante di essa.

Tuttavia “l’amministratore e rappresentante di una società non può essere

automaticamente ritenuto responsabile penalmente per la carica rivestita, di ogni

infrazione commessa nella gestione dell’impresa. Ma perché detto esonero si

verifichi, è necessario che la società sia di ampie dimensioni e che l’amministratore

e legale rappresentante abbia in concreto preposto ai vari servizi soggetti qualificati

e idonei, forniti della necessaria autonomia e degli indispensabili poteri

discrezionali per la gestione completa degli affari”31.

Del resto, la stessa Corte di Cassazione aveva avuto modo di precisare che neanche la

preposizione di persona che agisca per conto del preponente è idonea ad escludere la

responsabilità di quest’ultimo, tanto che ”non determina il trasferimento della

responsabilità del titolare della licenza al preposto che agisca per conto del

preponente, perché è il primo e non il secondo il destinatario delle norme di legge

che disciplinano la produzione e la vendita delle sostanze alimentari. Pertanto, della

violazione di tale legge il titolare risponde non a titolo di responsabilità oggettiva ma

a titolo di colpa perché su di lui incombe l’onere del controllo delle merci per

accertarne la rispondenza alle prescrizioni legislative”32.

Ad analogo rigore sono improntate la legislazione e la giurisprudenza nei confronti

del venditore il quale per i prodotti sfusi (ormai non molto in vendita) ha

responsabilità diretta ed immediata, mentre per quelli confezionati dovrà svolgere un

28 Cass.sez. 3^, 2 marzo 2001 n. 20903, in Juris data; 29Cass.sez.6^, 1990, n.10010, in U.S.I.; 30Cass. sez. 3^, 24 novembre 1997, n.10671, in U.S.I.; 31Cass. sez.6^, 19 maggio 1983 n.4650, in C.E.D.; 32Cass. sez.6^, 3 marzo 1982 n.2186, in C.E.D.;

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controllo efficace rivolto a garantire che essi non presentino, neppure in via astratta,

la possibilità di una alterazione.

“Il commerciante che pone in vendita prodotti alimentari sfusi è responsabile per la

non conformità di questi alle disposizioni di legge. La responsabilità potrà essere

esclusa solo dall’assoluta buona fede, quando cioè risulti che egli ha preso tutte le

precauzioni idonee ad evitare la immissione in commercio di prodotti non

regolamentari e l’errore sia perciò dovuto a forza maggiore o caso fortuito. Anche

quando si tratta di prodotti deperibili, la deperibilità non esonera il commerciante

dalle necessarie verifiche ed analisi tenendo conto che, specie quando questi disponga

di una struttura organizzata imponente e di una rete di distribuzione rilevante,

egli può esigere che l’assenza nel prodotto di sostanze non consentite sia effettuata ed

attestata dallo stesso produttore (fattispecie in caso di commercializzazione di lattuga

contenente residui chimici tossici per l’uomo)33.

Ancora in tema di commercio di frutta e verdura la Corte è intervenuta annullando

una sentenza con la quale il pretore di Torino, affermando l’assenza di colpa

nell’imputato, aveva assolto un commerciante all’ingrosso di frutta e verdura dal

reato di cui all’art. 5 lett. h) della 283/1962, al quale era stato contestato di aver posto

in vendita pesche non regolamentari per la presenza di residuo di metadelfene.

Il giudice di primo grado aveva ritenuto incolpevole il comportamento del grossista

perché “solo l’analisi chimica diretta alla ricerca dei fitofarmaci tossici comunemente

usati in agricoltura, avrebbe consentito l’accertamento dei fatti. E’ cosa nota che

simili analisi sono di complessa esecuzione e richiedono non solo strumenti che

pochissimi laboratori chimici possiedono, ma lunghi tempi di esecuzione (circa 10

giorni). Appare evidente che, data anche la natura particolarmente deperibile della

frutta in questione, non era esigibile dal prevenuto un accertamento chimico di tal

fatta sulla partita da lui acquistata, posto che comunque nessun elemento poteva

indurlo a sospettare la irregolarità accertata”.

L’errore del pretore era evidente, sia perché aveva ritenuto inesigibile un

comportamento del grossista che invece era dovuto per legge sia perché aveva

vanificato proprio quella funzione di garanzia che tutti gli operatori della filiera

devono svolgere.

La Corte, puntualmente, ha affermato34che le osservazioni del primo giudice “si

pongono in contrasto, innanzi tutto, con il principio secondo cui, in materia di

commercio di sostanze alimentari contenenti residui di prodotti usati in agricoltura

tossici per l’uomo, l’art. 5 lett. h) legge 283/1962, nello stabilire un divieto generale

per il venditore, ha inteso esigere, da un punto di vista generale, comportamenti che

non consistono in una rilevazione immediata, ma comportino oneri più impegnativi,

in funzione della tutela del bene primario che è la salute del consumatore;

conseguentemente, il venditore può addurre la buona fede soltanto se provi di avere

per suo conto, posto in essere ogni attività necessaria a garantire che il prodotto in

commercio sia conforme alle prescrizioni normative.

33Cass.sez.3^, 19 giugno 1997, n.5950, in U.S.I.; Cass. Sez. 3^, 24 novembre 1997, n. 590, in Juris data; 34Cass.sez.3^, 4 marzo 1998, n. 4487, in Juris data;

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Il grossista, anche in presenza di commercializzazione di prodotti sfusi, ha il dovere

di porre in vendita il prodotto conforme alle prescrizioni di legge ed in caso di

accertata difformità, risponde penalmente a titolo di colpa, per non aver fatto eseguire

i controlli e prese le precauzioni idonee ad evitare l’immissione in commercio di un

prodotto non regolamentare35. Infatti, “per andare esente da responsabilità in ordine al

reato di cui all’art. 5 lett. h), legge 30 aprile 1962 n. 283 il rivenditore all’ingrosso di

prodotti alimentari ortofrutticoli (nella specie zucchine contenenti un antiparassitario

in quantità superiore a quella consentita), se non può eseguire tutti i controlli analitici

del caso trattandosi di prodotti facilmente deperibili, è tenuto a richiedere al titolare

del processo produttivo idonee attestazioni sull’indennità dei medesimi dalle sostanze

nocive, non essendo sufficiente che si basi esclusivamente sul rapporto fiduciario col

produttore e sul fatto che non si siano mai verificati inconvenienti”36.

Ovviamente, nel caso di indicazioni mancanti o ingannevoli, anche i commercianti

sono responsabili dei reati che la circolazione di un prodotto irregolare comporta.

“I destinatari delle norme relative alle indicazioni da porre sui prodotti confezionati

sono tutti coloro che coscientemente concorrono alla immissione sul mercato di

prodotti alimentari non conformi alle prescrizioni stabilite dalle norme stesse e quindi

tanto i produttori quanto i commercianti.

Questi ultimi, infatti, sono esenti da responsabilità unicamente qualora la non

rispondenza alle prescrizioni della legge riguardi i requisiti intrinseci o la

composizione dei prodotti, le condizioni interne dei recipienti, e ciò ogni qualvolta il

rivenditore non abbia la possibilità di controllare la qualità e la condizione del

prodotto in vendita “37.

Egli, infatti, ne risponderà a titolo di colpa se non prova di aver eseguito o fatto

eseguire tutti i controlli o di aver posto in essere tutte le precauzioni possibili per

evitare che quel prodotto fosse concretamente avviato al consumo38.

In un tale contesto, anche l’importatore non sfugge a responsabilità nel caso in cui il

prodotto, confezionato all’estero, non sia conforme alla legge italiana, ciò perché

l’importatore - commerciante all’ingrosso o al dettaglio che operi sul territorio

nazionale, non può ritenersi legittimato a presumere l’adempimento, da parte del

produttore straniero, di obblighi giuridicamente inesistenti a carico di quest’ultimo 39.

35E’opportuno ricordare che, in attuazione del sistema dell’autocontrollo (d.lvo 155/1997), le imprese, devono

analizzare i rischi igienici, individuare i punti critici di controllo, individuare ed applicare procedure di monitoraggio

dei punti critici di controllo, definire le misure e le decisioni in relazione ai risultati del monitoraggio, riesaminare la

procedura di definizione ed assumere misure correttive se il monitoraggio indica che i criteri non vengono rispettati,

verificare se il sistema funziona come programmato.

E’ evidente che se il sistema HACCP funziona, si potranno contrastare efficacemente tutti i rischi di contaminazione

degli alimenti, ivi inclusi quelli di natura biologica, chimica e fisica, e si potrà spostare il controllo basato

esclusivamente sui prodotti, ad un controllo generale e preventivo. 36Cass. Sez. 3^, 8 marzo 2001, in Foro it., 2001, II, 506; 37Cass.sez.6^, 22 gennaio 1980 n.1017; 38Cass. sez.6^, 14 dicembre 1993 n.11390, in C.E.D.; 39”in tema di commercializzazione di prodotti alimentari, risponde a titolo di colpa del reato previsto dall’art.5 lett.d)

della legge 30 aprile 1962 n.283 l’importatore che abbia posto in commercio sostanze alimentari introdotte in Italia in

involucri sigillati e conservate dopo il controllo doganale in involucri non sigillati con reale possibilità di manipolazione

od alterazione e con possibilità di procedere al controllo della merce attraverso appropriate analisi, poiché il controllo

doganale del prodotto alimentare importato non esclude automaticamente la responsabilità del commerciante ove il

prodotto venga riscontrato “comunque nocivo” alla salute ex art.5, lettera d) legge 30 aprile 1962 n.283 e si presenti in

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La Corte di Cassazione ha più volte ribadito che “in tema di delitti contro

l’incolumità pubblica, nel caso di importazione nel territorio della Repubblica di

prodotti alimentari nocivi, deve ritenersi sussistente la responsabilità penale

dell’importatore, in relazione al reato di cui agli artt.444 e 452 cod. pen. (colposa

messa in commercio di sostanze alimentari nocive). Ed invero, l’art.12 della legge 30

aprile 1962 n.283 - stabilendo che “è vietata l’introduzione nel territorio della

Repubblica di qualsiasi sostanza destinata all’alimentazione non rispondente ai

requisiti prescritti dalla presente legge” - parifica gli obblighi, posti a carico degli

importatori, a quelli di coloro che producono prodotti alimentari nel territorio

nazionale. Siffatta responsabilità risulta precisata nel regolamento di esecuzione della

legge citata, che all’art.72 del d.p.r. 26 marzo 1980 n.327 (come sostituito dall’art.11

del d.p.r. 8 maggio 1985 n. 254) dispone che “gli importatori di sostanze alimentari

sono responsabili della natura, del tipo, della quantità, della omogeneità, dell’origine

dei prodotti presentati all’importazione nonché della rispondenza dei requisiti

igienico sanitari previsti dalle vigenti disposizioni in materia di sostanze alimentari”.

Deve quindi ritenersi che, a carico dell'importatore, sia posta una responsabilità molto

più specifica di quella del commerciante al dettaglio, dovendo egli accertare la

rispondenza della normativa sanitaria dei prodotti con controlli, non soltanto formali

ed esterni, ma tali da garantire la qualità del prodotto anche se importato in

confezioni originali”40. Egli, secondo la S.C., non può presumere l’osservanza da

parte del produttore straniero delle prescrizioni vigenti in materia al fine di prevenire

il pericolo di frodi o di danno alla salute dei consumatori e neppure opera a suo

favore l’esimente speciale prevista dall’art. 19 legge 283/1962 perché l’importatore è

tenuto a verificare direttamente, prima del compimento di qualsiasi atto di

commercio, la conformità del prodotto o dei componenti di esso ai requisiti stabiliti

dalla legge, nonché la corrispondenza delle indicazioni sulle etichette o sui

contenitori agli ingredienti di cui il prodotto risulta composto.

Tale interpretazione giurisprudenziale, ovviamente, mentre manterrà la sua efficacia

con riferimento ai prodotti che provengono da Stati non comunitari, deve essere

raccordata con la normativa europea e con la libertà di circolazione delle merci

nell’ambito comunitario, per non porsi in contrasto con l’art.30 del Trattato istitutivo.

Anche se la Corte di Cassazione41 in una recente sentenza ha ribadito la

responsabilità dell’importatore nel caso di omissione di controlli sui prodotti

“importati”, distinguendo fra il principio di libera circolazione delle merci e quello

della doverosità dei controlli anche in campo comunitario, riteniamo di dover

dissentire da una interpretazione che sembra ignorare gli effetti del diritto

comunitario su quello interno.

confezioni originali non sigillate”. (nel caso di specie la Cassazione ha ritenuto che fosse stata correttamente affermata

la responsabilità del grossista che aveva importato pesce congelato contenente mercurio con concentrazione superiore ai

limiti di legge conservandolo dopo il controllo doganale in confezioni non sigillate); (Cass.Sez.3^, 30 giugno 1995

n.1792, in C.E.D.). 40Cass.sez.1^, 15 febbraio 1997, n.1430, in U.S.I.; in senso conforme: Cass.sez.3^, 30 luglio 1997, n.7700, in U.S.I.;

Cass. sez.3^, 14 maggio 1998 n. 7214 e 26 marzo 1999 n. 6323; 41 Cass.sez.3^, 14 maggio 1998, n.7214 in Foro It. 1999, pag.178 e segg.;

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Del resto, proprio ad avvalorare il concetto della “inesistenza” di importazione in

ambito comunitario, basti leggere l’art.1, comma 4° del decreto legislativo 3 marzo

1993 n.123, sul controllo ufficiale dei prodotti alimentari, ove, nell’indicare i prodotti

nei cui confronti si applicano le attività di controllo, distingue quelli destinati: a) ad

essere commercializzati nel territorio nazionale; b) quelli destinati ad essere spediti in

altro Stato membro delle Comunità europee; c) quelli destinati ad essere esportati,

definendo perciò come esportazione solo quella diretta fuori dei confini dell’Unione.

Ne consegue che al commerciante, rivenditore o importatore che abbia immesso nel

circuito distributivo un prodotto alimentare comunitario non conforme ai dettami

legislativi si applicheranno le sanzioni di cui agli articoli 5 e 6 della 283/1962 e non

quelle di cui all’art. 12 della stessa legge.

8.Le pene accessorie e la sostituzione della pena ex art. 59 della legge 24 novembre

1989 n. 681 ed il patteggiamento.

Da queste indicazioni giurisprudenziali in ordine alla responsabilità per l’illecito può

discendere l’affermazione di colpevolezza a carico del produttore, del commerciante,

o del responsabile della circolazione del bene, e l’applicazione nei loro confronti

delle pene principali e di quelle accessorie (ovvero, nel caso di illeciti sanzionati

amministrativamente, l’applicazioni di sanzioni amministrative accessorie)42.

Sembra infatti opportuno ricordare che da una condanna per violazione della

legislazione alimentare deve o può conseguire a carico dell’autore dell’illecito

l’applicazione delle pene accessorie che, come è noto, svolgono non una funzione

afflittiva pura e semplice ma un compito di prevenzione speciale.

L’accertamento di un illecito ha, infatti, sempre comportato come sua conseguenza

naturale l’applicazione di una sanzione afflittiva alla quale spesso “accedono” come

corollario le pene accessorie, misure limitative di diritti e funzioni.

Esse infatti non impediscono la libertà fisica del soggetto, ma gli interdicono alcune

particolari condotte, allontanandolo da alcune posizioni che hanno una diretta

relazione con l’interesse offeso43, causandogli, ad esempio, l’interdizione o la

sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese o

l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione o la sospensione

dall’industria o dal commercio.

Dalle antiche forme della ignominia pretoria, che conseguiva ad un judicium

publicum e che comportava l’allontanamento da cariche e la privazione di determinati

diritti, a quelle del codice napoleonico della berlina, del bando e della degradazione

civica, sino alle pene accessorie del codice Rocco, alla novella del 24 novembre 1981

n.689, alla legge 7 agosto 1986 n.462 ed al decreto legislativo 30 dicembre 1999 n.

507, il legislatore, pur affermando il primato della pena detentiva, ha ritenuto di far

conseguire ad essa, di diritto, un restringimento della capacità giuridica o una

42 Ai sensi dell’art. 3 del Decreto legislativo 30 dicembre 1999 n. 507, le pene accessorie previste per le violazioni

depenalizzate indicate nell’articolo 1 sono trasformate in sanzioni amministrative. 43A.Lazzàro: Le sanzioni accessorie conseguenti all’accertamento di illeciti penali e amministrativi attribuibili ai

produttori e ai rivenditori; Roma 1995; in atti del convegno su “attuali prospettive del diritto penale alimentare”.

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diminuzione dell’immagine pubblica del soggetto, per es. attraverso la pubblicazione

o l’affissione della sentenza.

Il primato della pena afflittiva, nella sua classica bipartizione tra reclusione ed

arresto, non sembra essere stato scalfito di molto nel corso degli ultimi decenni anche

se non sempre esso appare efficace per conseguire il risultato di tutela che la sanzione

si propone.

La dottrina peraltro ha prospettato di contro, l’opportunità di una più ampia

utilizzazione delle pene e delle sanzioni amministrative accessorie, in un contesto

rivolto più ad esigenze di prevenzione che di repressione. A tale esigenza sembra

aver risposto il legislatore con la depenalizzazione del 1999.

Il nuovo sistema delle pene accessorie irrogabili in materia agro-alimentare mostra,

quale caratteristica comune l’abbandono di ogni automatismo nella loro applicazione

ed attribuisce al giudice un ampio potere discrezionale del quale egli dovrà dare conto

in motivazione44 al fine di consentite un adeguato controllo.

Nel caso di pronuncia di condanna per uno dei reati previsti dagli articoli 5, 6 e 12, il

giudice, ai sensi dell’art. 12 bis della 283/1962, aggiunto dall’art. 6 del d.lvo 20

dicembre 1999 n. 507, se il fatto è di particolare gravità o da esso è derivato pericolo

per la salute, può disporre la chiusura definitiva dello stabilimento o dell’esercizio e

la revoca della licenza, dell’autorizzazione o dell’analogo provvedimento

amministrativo che consente l’esercizio dell’attività.

Le medesime pene accessorie possono essere applicate se il fatto è commesso da

persona già condannata, con sentenza irrevocabile, per reato commesso con

violazione delle norme in materia di produzione, commercio e igiene degli alimenti e

delle bevande.

Come esattamente sostenuto dal Benelli45: sono “profondamente eterogenei i

parametri cui il giudice penale dovrà riferirsi nell’applicazione e nella

commisurazione delle pene accessorie a seguito del gruppo di reati a cui esse si

riferiscono.

Invero, se si versa nell’ipotesi aggravata di cui all’art. 517 bis, il giudice dovrà

considerare la “particolare gravità del fatto” o la “recidiva specifica” del reo prima di

delibare sull’an della pena accessoria; se vengono in gioco le previsioni

contravvenzionali previste dagli artt.5, 6 e 12 della legge n. 283 del 1962 la

“particolare gravità del fatto” dovrà invece accompagnarsi al “pericolo per la salute”

(nel senso di pericolo per uno o più consumatori ben individuati e di numero ristretto)

ovvero la fattispecie dovrà essere realizzata “da persona già condannata, con sentenza

irrevocabile, per reato commesso con violazione delle norme in materia di

produzione, commercio e igiene degli alimenti e delle bevande” perché possa

irrogarsi in concreto la pena accessoria; se ricorrono, infine, le più gravi fattispecie

codicistiche a tutela della salute pubblica (artt. 439 e ss.), alle quali il delegato

44 L’art. 517 bis c.p., come introdotto dall’articolo 5 del d.lvo 507/1999 dispone che “negli stessi casi il, giudice, nel

pronunciare condanna, può disporre, se il fatto è di particolare gravità o in caso di recidiva specifica, la chiusura dello

stabilimento o dell’esercizio in cui il fatto è stato commesso da un minimo di cinque giorni ad un massimo di tre mesi,

ovvero la revoca della licenza, dell’autorizzazione o dell’analogo provvedimento amministrativo che consente lo

svolgimento dell’attività commerciale nello stabilimento o nell’esercizio stesso”. 45 C. Benelli: La riforma della disciplina sanzionatoria in materia agro-alimentare;

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opportunamente estende la previsione delle “nuove” pene accessorie (art. 6, ult.co.

del d.lgs. n. 507 del 1999), la loro irrogazione diverrà eccezionalmente obbligatoria”.

Il profilo della reiterazione specifica delle violazioni viene preso in considerazione

dal legislatore anche nell’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie e

trova la sua regolamentazione nell’art. 3 del d.lvo 507/199946, mentre la sua

definizione si rinviene all’art. 94 che ha inserito, nella legge 689 del 1981, l’art. 8 bis.

All’interprete, nel campo dell’applicazione delle pene accessorie, si pone il quesito se

il riferimento a sentenze di condanna di cui alle espressioni: se il fatto è commesso da

persona già condannata, con sentenza irrevocabile, per reato commesso con

violazione delle norme in materia di produzione, commercio e igiene degli alimenti e

delle bevande di cui all’art. 12 bis della legge 283/1962 o negli altri casi, il giudice,

nel pronunciare condanna, può disporre, se il fatto è di particolare gravità o in caso di

recidiva specifica di cui all’art. 517 bis c.p., ovvero la pena detentiva non può essere

sostituita nei confronti di coloro che sono stati condannati più di due volte per reati

della stessa indole di cui all’art. 59 della legge 24 novembre 1981 n. 689, possa

essere ritenuto efficace nel caso in cui la condanna precedente si riferisca a

procedimento definito con pena patteggiata.

La risposta fornita dalla giurisprudenza è pacificamente affermativa per tutte le

ipotesi prese in esame.

La Corte di Cassazione ha statuito che: “la sentenza di applicazione della pena su

richiesta delle parti e' equiparata ad una pronuncia di condanna, e tale

equiparazione rende possibili gli effetti concernenti la contestazione della recidiva,

e la valutazione della sentenza ex art. 444 c.p.p. ai fini dell'ammissione alla

sostituzione della pena detentiva, secondo quanto disposto dall'art. 59 della legge

24 novembre 1981 n. 689”47.

Con una più articolata e lunga motivazione, la stessa sezione della Corte ha precisato

la propria interpretazione sul tema48 dell’inapplicabilità dell’art. 59 della legge

689/1981 nel caso di due o più condanne per reati della stessa indole, emesse al

termine di procedimenti risolti con il rito del patteggiamento.

Dopo aver premesso che “il c.d. patteggiamento, ruota intorno a due poli relativi al

significato ed al peso da attribuire all’accordo delle parti ed ai poteri del giudice sulle

determinazioni consensuali e, seppure non costituisce un accertamento completo di

responsabilità, basato su una valutazione probatoria di analoga pregnanza rispetto a

quella svolta nel giudizio ordinario ed in altri riti alternativi, presenta i connotati

caratteristici di un vero e proprio giudizio, in cui i poteri del giudice, pur essendo

condizionati dall’accordo intervenuto tra le parti e circoscritti e indirizzati dallo

stesso, non sono notarili, ma impingono anche al merito giacché viene effettuato un

accertamento non soltanto negativo sulla congruità della pena e sulla sussistenza della

responsabilità in base agli atti esistenti.

46 Stabilire la reiterazione della violazione amministrativa è piuttosto difficoltoso, perché il legislatore non ha previsto la

costituzione di un “casellario generale delle violazioni amministrative” per l’eccessiva spesa che una sua costituzione

avrebbe comportato. 47 Cass.sez. 3^, 7 luglio 1998 (ud. 4 giugno 1998) n. 7939 in CED; 48 Cass. sez. 3^, 3 aprile 1998 n. 5750, in Juris data;

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Il punto di equilibrio tra queste divergenti esigenze, variamente condizionate,

nonostante l’accordo tra le parti costituisce il presupposto necessario ed

indispensabile per accedere al rito, è da rinvenire da un lato nell’interpretazione della

volontà delle stesse e dall’altro nei limiti normativi ai poteri del giudice, dovendosi

considerare le differenti connotazioni da attribuire al processo volitivo delle parti in

un rito accusatorio, senza dimenticare che, nel nuovo codice vi è soltanto una

tendenziale opzione per tale rito, già non marcata nella formulazione originaria e man

mano sbiadita in seguito alle varie novelle ed alle decisioni della Corte

Costituzionale.

Individuate le caratteristiche di questo rito e la natura della sentenza emessa, che è

equiparata a quella di condanna, è importante esaminare il tessuto normativo ed il

significato da attribuire all’espressione effetti penali che discendono dall’applicazione

della pena su richiesta delle parti alla luce del dettato legislativo ed in particolare

dell’art. 445 c.p.p. e di alcune pronunce di queste sezioni unite (Cass. Sez. un. 8

giugno 1994 n. 7; Cass. Sez. un. 14 luglio 1995 n. 23; Cass. Sez. un. 4 giugno 1996

n.11, 20 giugno 11997 n. 5, già citate).

Sarebbe al riguardo, sufficiente rilevare che, secondo parte consistente della dottrina,

gli effetti penali sono elencati espressamente nell’art. 445 ai commi primo e secondo

e che la sentenza emessa nel procedimento ex art.444 c.p.p. è equiparata ad una

sentenza di condanna, sicché, qualora non sia diversamente in maniera espressa

disposto, comporta gli effetti ad essa connaturati e tra questi non vi è la possibilità di

omettere la considerazione di queste pronunce ai fini dell’applicazione dell’art. 59

della legge n. 689 del 1981”.

Nel caso allora di reati della stessa indole49 commessi nel termine di due o di cinque

anni a seconda che si tratti di contravvenzione o delitto, rimangono le condizioni

ostative di cui all’art. 59 della legge 689/1981.

9. Le analisi di laboratorio negli accertamenti delle condotte illecite.

Il sistema delineato va raccordato, peraltro, con le disposizioni in materia di controllo

ufficiale dei prodotti alimentari (decreto leg.vo 3 marzo 1993 n. 123) ed, in

particolare, con il prelievo di campioni, e con l’analisi dei campioni prelevati (art.1,

49 “ai sensi dell'art.101 cod. pen. "reati della stessa indole" sono non soltanto quelli che violano una medesima

disposizione di legge, ma anche quelli che, pur essendo previsti da testi normativi diversi, per la natura dei fatti che

li costituiscono o dei motivi che li hanno determinati, presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni.

Alla stregua ditale criterio, più reati possono considerarsi omogenei per comunanza di caratteri fondamentali quando

siano simili le circostanze oggettive nelle quali si sono realizzati, quando le condizioni di ambiente e di persona nelle

quali sono state compiute le azioni presentino aspetti che rendano evidente l'inclinazione verso un'identica tipologia

criminosa, ovvero quando le modalità di esecuzione, gli espedienti adottati o le modalità di aggressione dell'altrui

diritti rivelino una propensione verso la medesima tecnica delittuosa. Per l'individuazione e per l'esclusione dei

caratteri anzidetti è necessaria una specifica indagine rimessa alla valutazione discrezionale del giudice e non

censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata”.

(La S.C. ha osservato che nella fattispecie in esame, invece - pur tenendosi conto che, in tema di patteggiamento,

l'obbligo generale di motivazione va correlato con il particolare tipo di sentenza previsto dall'art. 444 cod. proc. pen.

- non può non rilevarsi l'assoluta carenza di qualsiasi riferimento alla verifica circa la sussistenza delle condizioni

soggettive previste dall'art. 59 legge 24 novembre 1981, n. 689 per la sostituzione della pena detentiva).

(Cass. sez. 3^, 5 dicembre 1996 n. 3362, in CED) ;

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comma 3) che, ai fini della determinazione della responsabilità, possono assumere un

rilievo probatorio essenziale

La regolarità procedurale diviene, infatti, una linea guida imprescindibile per

l’operatore pubblico che procede al prelievo e per quello che svolge le analisi, e

l’attività dei laboratori assume un importante rilievo, sia amministrativo che

processual-penalistico.

La natura giuridica, sotto il profilo procedurale, sia per l’accertamento dei reati che

per quello degli illeciti amministrativi, può assumere diversa configurazione in

relazione al momento del loro operare ed ai rapporti con l’Autorità Giudiziaria.

Come è noto, in numerose fattispecie penali (specie per reati in materia alimentare, di

inquinamento o fiscale), una delle fonti di prova per l’accertamento dei reati è

costituita dalle analisi su di un campione, analisi da effettuarsi presso laboratori

specializzati.

In alcuni casi, però, la procedura delineata dall’art. 1 della legge 283/1962, quando

l’accertamento del reato non richiede analisi scientifiche dei campioni, non è

obbligatoria.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha costantemente affermato che “la

necessità di una indagine fisico chimica su un prodotto alimentare da parte dei

competenti laboratori (ai sensi dell’art. 1 legge 30 aprile 1962 n. 283) sorge

particolarmente quando ad un esame esterno e superficiale il prodotto non riveli

quelle difformità e quei difetti che costituiscono violazioni delle norme che

disciplinano la produzione ed il commercio del prodotto stesso. Quando la sostanza

alimentare posta in vendita riveli imponenti segni esteriori di non commestibilità

nonché di evidente pericolo per la salute pubblica (nella specie pesce in stato di

putrefazione) l’accertamento obbiettivo effettuato dalla competente autorità sanitaria

locale (nella specie veterinario consorziale comunale) rende del tutto superflua ogni

altra indagine50.

Nella fattispecie, la S.C. ha rigettato il ricorso avverso la sentenza con la quale la

Corte d’appello di Milano aveva a sua volta confermato quella del pretore di quella

stessa città, che aveva condannato per il reato di cui agli artt. 5 lett.b) e 6 della legge

283/1962 il legale rappresentante di una s.r.l. che aveva venduto frutti di mare in

cattivo stato di conservazione. La Corte, nella medesima sentenza, oltre ad enunciare

il principio della non obbligatorietà delle analisi, ha anche precisato che la polizia

giudiziaria, quando intende avvalersi di persone qualificate per compiere indagini che

richiedono particolari competenze tecniche (art. 348 c.p.p.), può operare la propria

scelta e la nomina dell’ausiliario senza alcuna formalità e tanto meno deve usare la

forma scritta, senza perciò incorrere né nella inutilizzabilità prevista dall’art. 191

c.p.p. né in alcuna nullità d’ordine generale prevista dall’art. 178 c.p.p..

Sotto l’impero del codice di procedura penale abrogato, la giurisprudenza aveva

costantemente affermato che i verbali di analisi eseguiti dai laboratori a richiesta

della polizia giudiziaria, erano da considerarsi, sotto ogni profilo, come atti di

ausiliari tecnici della polizia stessa, facevano parte del rapporto di denuncia e da essi

50 Cass. sez. 3^, 27 gennaio 1998 n. 3840, in Juris data.

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il giudice di merito poteva trarre le ragioni del suo convincimento in virtù del

principio della libera estimazione probatoria.

La Corte di Cassazione affermava che “i verbali delle analisi compiute dai pubblici

laboratori, anche se non possono considerarsi vere e proprie perizie (trattandosi di

accertamenti preliminari eseguiti senza l’osservanza della procedura e delle

garanzie stabilite per le indagini peritali), fanno tuttavia parte integrante del

rapporto di denuncia, sicché legittimamente il giudice può trarre elementi di prova

sui quali fondare il proprio convincimento” (fattispecie relativa ad analisi di alcool

denaturato effettuata dal laboratorio centrale delle dogane)51, precisando che “per il

loro espletamento non occorre l’osservanza delle garanzie difensive”52.

La stessa sezione ribadiva che “l’analisi dei campioni rientra nel novero degli atti

degli ausiliari tecnici della polizia giudiziaria, che fanno parte del rapporto di

denuncia; alla loro rinnovazione il giudice è tenuto in presenza di puntuali

argomentazioni idonee ad inficiare l’esito degli espletati accertamenti” (fattispecie

relativa ad accertamenti del laboratorio della dogana su idrocarburi per uso

agevolato)53.

Il concetto espresso dalla Suprema Corte era di riconoscimento del risultato delle

analisi, che venivano svolte in ambito extraprocessuale, tale che esso, una volta

recepito nel rapporto di denuncia assumeva valore probatorio ai fini della decisione.

Solo precise argomentazioni difensive potevano convincere il giudice a non

valorizzare il risultato delle analisi e a disporre una perizia nel corso del giudizio.

Questa impostazione giurisprudenziale ha subito una prima modifica con la decisione

della Corte Costituzionale che, in materia di tutela delle acque, dichiarava

l’incostituzionalità dell’art.15, settimo comma della legge 10 magio 1976 n.319, nella

parte in cui non consentiva la partecipazione dell’interessato allo svolgimento delle

analisi, previo tempestivo avviso. Ne conseguiva la inutilizzabilità dell’atto come

legittima fonte di prova, ancorché compiuto in ambito extraprocessuale e la sua

esclusiva valenza amministrativa.

Anche in materia di tutela degli alimenti, la Corte Costituzionale interveniva con la

sent. n. 434 del 10 ottobre 1990, dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 1 della legge

30 aprile 1962 n. 283 (che rappresenta il testo di legge più organico in materia di

tutela degli alimenti) “nella parte in cui non prevede che, per i casi di analisi su

campioni prelevate da sostanze alimentari deteriorabili, il laboratorio provinciale di

igiene e profilassi, od altro laboratorio ad uopo autorizzato, dia avviso dell’inizio

delle operazioni alle persone interessate, affinché queste possano presenziare,

eventualmente con l’assistenza di un consulente tecnico, all’esecuzione delle

operazioni stesse”.

51Cass. sez.3^, 22 ottobre 1979 n.8736 (ud.14.5.1979), in C.E.D. 52Cass. sez.3^,10 settembre 1985 n.7908 (ud.28 maggio 1985), in C.E.D. 53Cass. sez.3^9 maggio 1983 n.4602 (ud.15.3.1983), in C.E.D.

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Questa decisione della Corte Costituzionale va collocata nel quadro delle garanzie

che il nuovo processo penale ha predisposto, con particolare riferimento alle

disposizioni di cui all’art. 223 delle norme di attuazione54.

E’ importante notare come l’art. 223 delle norme di attuazione faccia riferimento ad

analisi di campioni di qualunque sostanza, e non solo di quelle alimentari, per le

quali non è prevista la revisione, svolte in base ad attività ispettive o di vigilanza

previste da leggi o decreti, anticipando la disciplina delle garanzie difensive e del

contraddittorio sia nel caso di analisi non ripetibili sia per quelle suscettibili di

revisione.

In particolare, il nuovo codice, che ha introdotto, sia pure in grandi linee il principio

della formazione della prova in dibattimento, attribuisce valenza probatoria

unicamente a quelle analisi che siano state effettuate con il rispetto delle garanzie

difensive, consentendone il suo inserimento nel fascicolo del dibattimento.

Sarebbe opportuno approfondire il concetto di sostanza per la quale non è prevista la

revisione. Possiamo solo accennarvi, considerando in essa ricompresi, oltre le ipotesi

espressamente previste dalle leggi che disciplinano l’attività ispettiva e di vigilanza,

anche tutti quei casi in cui, con il passare del tempo, il prodotto subisca modificazioni

fisico-chimiche che ne variano l’originaria composizione.

Come sostiene il Correra55, le ipotesi di “non previsione” comprendono anche quelle

di “non praticabilità” delle analisi di revisione nel caso in cui essa non dipenda dalla

deperibilità56 della sostanza alimentare, ma da altre valutazioni tecniche o da

circostanze del tutto fortuite. “A tali ultime, ad esempio si può condurre l’ipotesi in

cui le analisi di revisione risultano impraticabile per il semplice motivo

dell’inadeguatezza quantitativa del prodotto alimentare da analizzare ovvero perché

non è disponibile un quantitativo tale da consentire la formazione delle aliquote dei

campioni destinati alle analisi di revisione”.

“Oppure può trattarsi di sostanza alimentare non particolarmente deteriorabile e,

comunque, ancora ben lontana dall’epoca della sua presumibile deteriorabilità,

oppure il decorso del tempo falserebbe ugualmente gli esiti analitici: tale il caso, per

esempio, della ricerca di E 239 (il conservante “esametilentstramina” da ricercare

nella condizione di formaldeide) nel formaggio a denominazione tipica di provolone,

54L’art.223 stabilisce che “qualora nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti si debbano

eseguire analisi su campioni per le quali non è prevista la revisione, a cura dell’organo procedente è dato, anche

oralmente, avviso all’interessato del giorno, dell’ora e del luogo ove le analisi verranno effettuate. L’interessato o

persona di sua fiducia appositamente designata possono presenziare alle analisi, eventualmente con l’assistenza di un

consulente tecnico. A tali persone spettano i poteri previsti dall’art.230 del codice.

Se leggi o decreti prevedono la revisione delle analisi e questa sia richiesta dall’interessato, a cura dell’organo della

revisione, almeno tre giorni prima, deve essere dato avviso del giorno, dell’ora e del luogo ove la medesima verrà

effettuata all’interessato ed al difensore eventualmente nominato. Alle operazioni di revisione l’interessato ed il

difensore hanno diritto di assistere personalmente, con l’assistenza eventuale di un consulente tecnico. A tali persone

spettano i poteri previsti dall’art.230 del codice.

I verbali di analisi non ripetibili e i verbali di revisione di analisi sono raccolti nel fascicolo per il dibattimento, sempre

che siano state osservate le disposizioni dei commi 1 e 2. 55C. Correra, Analisi microbiologiche sui prodotti alimentari e garanzie difensive. 56Il Decreto Ministeriale 16 dicembre 1993 ha individuato, sia pure al fine dell’applicazione del regime di controlli

microbiologici ufficiali, le sostanze alimentari deteriorabili.

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ricerca che per il fenomeno di metabolizzazione dell’additivo in questione di sicuro è

destinata a dare risultati diversi tra le analisi di primo e quello di secondo grado.

Ai fini della nostra disamina, è allora necessario ricordare che assumerà valenza

processuale il risultato delle analisi effettuate dal laboratorio pubblico, se saranno

state rispettate le garanzie previste dall’art. 223 richiamato.

Se, con riferimento a frodi di natura qualitativa, consideriamo che l’elemento di

prova più importante, se non esclusivo, è spesso il solo esito delle analisi di

laboratorio, non possiamo prescindere dal fornire, alla persona che assume la veste di

indagato, le garanzie difensive, uniche a rendere utilizzabile l’attività del laboratorio,

sin dal momento dello svolgimento delle analisi.

Né diversa posizione si assume nei casi in cui la frode sia sanzionata

amministrativamente perché la valenza processuale delle analisi, sia pure nel corso di

un giudizio di opposizione all’ordinanza - ingiunzione, si atteggia allo stesso modo.

Come dovrà allora comportarsi il laboratorio, ad esempio, nel caso in cui sarà

richiesto, di effettuare analisi su bevande od alimenti?

10. Le analisi dei prodotti alimentari deteriorabili. Appare opportuno richiamare la normativa sui controlli ufficiali dei prodotti

alimentari57, perché, oltre ad essere richiamata dal decreto leg.vo 155/1997 in materia

di autocontrollo, essa deve essere raccordata con l’art. 1 della l. 283/1962.

Il decreto legislativo 3 marzo 1993 n.123, dà attuazione alla direttiva 89/397/CEE

relativa al controllo ufficiale dei prodotti alimentari.

La normativa si preoccupa di individuare le attività sulle quali articolare il controllo

ufficiale e di stabilire che le finalità del controllo sono quelle di assicurare la

conformità dei prodotti alimentari (intesi come sostanze alimentari) alle disposizioni

dirette a prevenire i rischi per la pubblica salute, a proteggere gli interessi dei

consumatori, tra i quali quelli inerenti la corretta informazione e la lealtà delle

transazioni commerciali.

A tal fine, il controllo si articola su una o più operazioni, alcune tradizionali quali

l’ispezione, il prelievo dei campioni e l’analisi dei campioni prelevati, altre, quali

l’esame del materiale scritto e dei documenti di vario genere e l’esame dei sistemi di

verifica eventualmente installati dall’impresa e dei relativi risultati, che assumono

invece il significato di una più penetrante investigazione dell’organo di controllo.

L’incisività del controllo è tale da estendersi a tutti i prodotti destinati al consumo in

qualunque territorio (nazionale, comunitario, extracomunitario) ed a tutti i prodotti

“comunque distribuiti al consumo”, anche quindi a titolo gratuito, e non

necessariamente nell’ambito di uno scambio commerciale. Esso riguarda tutte le fasi

della produzione, della fabbricazione, della lavorazione, del magazzinaggio, del

trasporto, della distribuzione, del commercio e dell’importazione.

Il controllo, perciò, si svolge non solo sul prodotto finale o finito ma anche sulla

semplice materia prima.

57Decreto legislativo 3 marzo 1993 n.123, che ha dato attuazione alla Direttiva 89/739/CEE (G.U. n.97 del 27 aprile

1993.

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Il decreto legislativo definisce gli ambiti ed i contenuti della prima fase di controllo

individuata nelle ispezioni ordinarie, stabilendo che esse riguardano lo stato, le

condizioni igieniche ed i relativi impieghi degli impianti, delle attrezzature, degli

utensili, dei locali e delle strutture, ecc., le materie prime, gli ingredienti, i

coadiuvanti tecnologici e gli altri prodotti utilizzati per la preparazione e la

produzione dei prodotti alimentari; i prodotti semilavorati; i prodotti finiti; i materiali

e gli oggetti destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari, con gli additivi

alimentari, le vitamine, i sali minerali di cui all’art.1 lettere a) e b); i procedimenti di

disinfezione, di pulizia, di manutenzione ed i relativi presidi chimici ed i detergenti

nonché gli antiparassitari impiegati per la disinfestazione; i processi tecnologici per

produrre o lavorare i prodotti alimentari; i mezzi e le modalità di conservazione (vedi

art.2).

Per quanto concerne i materiali e gli oggetti destinati a venire a contatto con la

sostanza alimentare, la normativa deve raccordarsi con il D.P.R. 23 agosto 1982

n.777 e con il D.lvo 25 gennaio 1992 n.108, e vuole consentire la possibilità di

verificare l’idoneità dei materiali e degli oggetti prima che vengano a trovarsi a

contatto con il prodotto alimentare o mentre sono semplicemente detenuti nei luoghi

in cui il contatto può realizzarsi.

Il controllo, allora, potrà effettuarsi anche nelle aziende di fabbricazione e di

commercializzazione degli oggetti e dei materiali, senza attendere che essi vengano a

contatto con le sostanze alimentari.

Nell’ambito dell’attività ispettiva si potrà procedere ad ispezioni integrate, che

consistono nell’audizione del personale, nel rilevamento dei valori registrati dagli

strumenti di misurazione dell’impresa, dalla verifica degli stessi valori, dalla

valutazione delle procedure adottate dall’impresa per assicurare la qualità igienica

degli alimenti e delle bevande.

Gli organi di controllo procedono a far effettuare accertamenti analitici dai laboratori

delle unità sanitarie locali, degli istituti zooprofilattici, dall'Ispettorato centrale

repressione frodi e da altri laboratori pubblici, prelevando campioni dei prodotti di

cui al comma 1 lettere b), c), d), e), ed f) (materie prime, ecc.).

“L’oggetto delle indagini analitiche è costituto in primo luogo dalla sostanza

alimentare colta in ogni momento della sua vita: da quello di materia prima od

ingrediente del prodotto alimentare ancora a quello di suo semplice coadiuvante

tecnologico, sino a quello di “altro prodotto” utilizzato per la produzione od anche

per la semplice preparazione del prodotto alimentare (Correra) ed anche dai materiali

e dagli oggetti destinati a venire a contatto con i prodotti”.

I controlli possono essere di due tipi: quello regolare, inserito in una attività

sistematica, e quello straordinario, relativo ai casi sospetti (motivato, mirato,

proporzionato), e si devono, di regola, svolgere senza preavviso.

Un tipo particolare di controllo è quello previsto dall’art.4 ed è fondato su analisi di

campioni alimentari prelevati e rivolte:

. alla ricerca microbiologica sui campioni;

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27

. a realizzare peculiari tipologie di analisi in relazione a categorie di alimenti

specificamente individuate con decreti congiuntamente emanati dal Ministro della

sanità e da quello delle risorse agricole, alimentari e forestali.

Come abbiamo già ricordato:

-L’art. 1 della legge 30 aprile 1962 n.283 è stato dichiarato costituzionalmente

illegittimo nella parte in cui non prevede le garanzie del contraddittorio in sede di

prime analisi su campioni di prodotti alimentari tanto deperibili da veder preclusa la

possibilità di utili analisi di revisione (sent. n.434 del 1990). Trattasi di analisi su

sostanze la cui deperibilità rende impossibili o inattendibili le analisi di revisione.

-L’art.223 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale stabilisce

che i verbali di analisi non ripetibili sono raccolti nel fascicolo del dibattimento

sempre che siano osservate le disposizioni di cui al primo comma.

L’art.223 considera l’ipotesi di analisi per le quali non è prevista la revisione (la

legge o i decreti considerano insuscettibile di revisione l’analisi), ma nulla dice nel

caso in cui le analisi dovessero divenire irripetibili per fatti diversi, quali ad es. quelli

determinati dalla quantità del campione.

Riteniamo che tale norma trovi applicazione sia nei procedimenti penali che in quelli

amministrativi.

E’ necessario evidenziare che le analisi svolte senza seguire la procedura dell’art.223

non sono nulle ma che l’inosservanza del comma 1 comporta la semplice loro non

ammissibilità (immediata) nel fascicolo del dibattimento. Esse però possono essere

utilizzate per lo svolgimento delle indagini del P.M. e costituire, in dibattimento

indizio od elemento di prova da sviluppare.

Con una interessante decisione (sentenza n. 1803/99, Sez. III, in Alimenta, febbraio

2000), la Corte di Cassazione ha precisato la portata giuridica dell’art. 223 disp.

attuaz. c.p.p. in relazione al decreto legislativo 123/1993 ed al D.M. Sanità del 16

dicembre 1993.

Il processo si riferiva alla vendita di mitili in stato di alterazione o comunque nocivi

per presenza di colon fecali in misura non consentita che erano stati sottoposti

unicamente ad una prima analisi, che ne aveva accertato la non conformità, senza che

alla stessa fosse seguita un’altra limitata ai parametri risultati non conformi.

In particolare, il ricorrente sosteneva che la prima analisi, di carattere amministrativo,

non potesse avere alcuna utilizzabilità processuale, anche se effettuata con le garanzie

di legge, perché non era stata seguita da un’altra con le medesime garanzie

defensionali.

La Corte di Cassazione ha precisato che: ”la disciplina generale prevista dalla legge

n. 283/1962, com’è noto, contempla genericamente, e cioè per tutti i prodotti

alimentari prelevati: un primo accertamento, di natura tecnico-amministrativa, ad

opera dei laboratori all’uopo autorizzati, che si svolge quindi al di fuori dell’ambito

processuale; la comunicazione all’interessato dei risultati delle analisi, se a lui

sfavorevoli, sì da consentirgli di richiedere la revisione delle stesse; solo

successivamente, in caso di mancata richiesta dell’interessato o di conferma - in sede

di revisione - dei primi risultati, la denuncia all’Autorità giudiziaria.

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L’intervento della Corte Costituzionale ha, poi, assoggettato le operazioni di

revisione di analisi alle garanzie defensionali, opportunamente rilevando che se

l’Autorità amministrativa, con la prima analisi, accerta un illecito penale, ogni

successiva indagine deve avere carattere giurisdizionale, con le ovvie conseguenze

sotto il profilo procedurale.

Il legislatore del 1989, con il menzionato articolo 223 disp. att. c.p.p., ha introdotto

una determinante distinzione, a secondo che i campioni prelevati ai fini dell’analisi

possano o meno essere oggetto di revisione; nel primo caso (comma 2), rinviando il

rispetto dei diritti della difesa alla eventuale fase della revisione, nel secondo caso

(comma 1), anticipando tale tutela al momento della prima analisi. Addirittura ovvia

la ratio: assicurare il concreto diritto della difesa a chi, altrimenti, potrebbe vedersi

condannato sulla base esclusivamente del risultato di analisi, svoltesi in un contesto

extraprocessuale, e dunque da lui in alcun modo controllabili e contestabili.

In questo panorama viene a collocarsi il decreto legislativo n. 123/1993, che - è

opportuno evidenziarlo - si riferisce soltanto ai controlli microbiologici sui prodotti

alimentari deteriorabili, individuati dal successivo D.M. sanità 16 dicembre 1993, e

non abroga espressamente nessuna delle norme precedenti”.

L’art. 3 di tale decreto prescrive - per i prodotti alimentari deteriorabili, e quindi non

assoggettabili a revisione di analisi - un accertamento preliminare, in sede

amministrativa, su un’aliquota del campione e, in caso di accertata “non conformità”

dello stesso, prima della denuncia all’Autorità giudiziaria, una verifica della

difformità, mediante ripetizione dell’analisi limitata ai parametri risultati non

conformi, osservando stavolta i diritti della difesa, secondo le prescrizioni dell’art.

223 disp. att. c.p.p.; in altri termini, quello che v’è di nuovo, rispetto alla disciplina

stabilita da quest’ultima norma, è semplicemente la previsione di una c.d. preanalisi

del prodotto “ad ampio raggio”, in sede amministrativa, e la ripetizione mirata di

essa, cioè limitata ai parametri in contestazione, con tutte le garanzie della difesa.

Ciò premesso, ritiene il Collegio che la ratio della norma in esame non sia quella di

imporre una doppia constatazione di “non conformità” del prodotto alimentare

deteriorabile, prima della denuncia penale, ma semplicemente di esigere che un

accertamento di “non conformità”, per essere utilizzabile ai fini del giudizio, sia

effettuato, almeno una volta, nel potenziale contraddittorio delle parti.

Ne discende che nessuna violazione processuale può ravvisarsi quando - come nel

caso in esame - l’interessato abbia ricevuto copia del verbale di prelevamento e

rituale avviso della data di inizio delle operazioni di analisi, che rivelarono la non

conformità del prodotto, pur in carenza della c.d. preanalisi, in via esclusivamente

amministrativa, finalizzata evidentemente ad evitare inutili incombenze processuali

nel caso che non fosse evidenziata alcuna irregolarità del prodotto.

In altra recente decisione, La Corte di Cassazione58 ha preso in esame il rapporto tra

le analisi di cui all’art. 1 della l. 283/1962 e quelle previste dal decreto legislativo 3

marzo 1993 n. 123.

58Cass. Sez. 3^, 28 giugno 2000 n.10237, in Juris data;

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Osserva la Corte che l’art. 1 della l. 283/1962 prevede che, quando dall’analisi risulti

che la sostanza non risponde ai requisiti prescritti, debba darsi avviso del risultato

all’esercente presso cui è stato effettuato il prelievo, nonché all’autorità che l’ha

disposto e che, in tal caso gli interessati possono presentare istanza di revisione delle

analisi, la quale dovrà essere eseguita presso l’Istituto superiore di sanità entro il

termine massimo di due mesi59. Nel caso in cui l’analisi di revisione eseguita a

distanza di tempo sia priva di attendibilità scientifica a causa della deteriorabilità

della sostanza analizzata ed il controllo esercitabile dall’interessato si rivelerebbe

inutile, il laboratorio procedente deve dare avviso agli interessati dell’inizio delle

operazioni di prima istanza.

La disciplina garantistica risultante dopo l’intervento della Corte costituzionale è

stata sostanzialmente confermata con l’entrata in vigore del nuovo codice di rito, il

quale, come abbiamo visto, ha disposto, all’art. 223 delle disp. di coordinamento ,

l’obbligo di dare avviso urgente, anche orale, all’interessato dell’inizio delle

operazioni d’analisi quando la normativa specifica non preveda la revisione (primo

comma) ovvero l’obbligo di un preavviso più lungo quando sia prevista la revisione

di analisi e questa sia stata chiesta dall’interessato (secondo comma).

Nel caso, invece, del controllo microbiologico dei prodotti alimentari deteriorabili, le

procedure fissate dal decreto legislativo 123/1993 comportano una ripetizione

dell’analisi, che non è altro che un’ulteriore analisi compiuta a breve distanza di

tempo su una seconda quota del campione di sostanza prelevato, quando l’analisi

sulla prima quota del campione abbia dato risultati non conformi. La ripetizione

dell’analisi è prevista per le sostanze alimentari deteriorabili, proprio al fine

garantista di consentire all’interessato e ai suoi consulenti la partecipazione alle

operazioni.

Continuando brevemente l’esame del decreto legislativo 123/1993, osserviamo che

l’art.4 estende la sua efficacia sia in sede penale che in sede amministrativa, anche se

il comma secondo richiama l‘art.223 delle dispos.di attuazione del codice di

procedura penale. Esso fornisce garanzia:

- per i controlli microbiologici dei prodotti alimentari deteriorabili, individuati con il

D.M. 16 dicembre 1993,

- per le altre categorie di alimenti da individuare con D.M. congiunto e con le relative

tipologie di analisi.

Si estendono così i meccanismi di garanzia anche ad altre ipotesi di deteriorabilità o

di irripetibilità delle analisi, legate a circostanze diverse dalla particolare deperibilità

della sostanza alimentare.

In particolare, il responsabile del laboratorio, dopo la prima analisi (o preanalisi)

effettuata senza la garanzia difensiva, in caso di non conformità provvede a dare

tempestivo avviso all’interessato, specificando il parametro difforme e la metodica di

59Il termine di due mesi è un termine che la giurisprudenza ha sempre ritenuto ordinatorio, con la conseguenza che

l’inosservanza del termine non è causa di nullità o inutilizzabilità delle analisi, a meno che il ritardo non abbia influito

sull’esito delle analisi, rendendolo inattendibile (Cass. Sez. 3^, 26 marzo 1998 n. 5872). Nello stesso modo non

costituisce causa di nullità o di inutilizzabilità la circostanza che, nel caso in cui, pur trattandosi di sostanza

deteriorabile, la seconda analisi sia stata effettuata dall’Istituto superiore di sanità e non dal laboratorio di zona che

aveva effettuata la prima analisi.

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analisi e comunicando il luogo, il giorno e l’ora in cui le analisi saranno ripetute,

limitatamente ai parametri risultati non conformi (in ogni caso un’aliquota rimane a

disposizione dell’A.G.).

Tempestività dell’avviso sta ad indicare la massima sollecitudine, consentendo così

all’interessato di poter assistere alle operazioni di analisi.

Potrebbe essere necessario procedere subito all’analisi garantita se il quantitativo non

consente una nuova analisi o se il P.M. ritiene di procedere ex art.360 c.p.p. ovvero

se, come affermato dalla Corte di Cassazione, si ritiene comunque di far effettuare la

prima analisi in forma garantita.

La individuazione dell’interessato può dar luogo a qualche difficoltà.

Nel caso di prelievo effettuato presso i luoghi di produzione, esso è sicuramente il

produttore. Nel caso di prelievo presso il rivenditore, dovrà farsi riferimento al caso

in cui la sostanza da analizzare sia preconfezionata (in tal caso l’interessato è sempre

il produttore) ovvero al caso in cui la sostanza sia allo stato sfuso (rivenditore ed

eventualmente il produttore). Se il prelievo riguarda categorie di alimenti diverse,

l’interessato sarà ricercato con riferimento ad esse.

Interessato può essere, oltre all’imputato, anche la p.o. ovvero il danneggiato,

intendendosi così per interessato la parte processuale.

Il D.M. 16 dicembre 1993 ha individuato i prodotti che, agli effetti dell’art.4 del d.lvo

123/93, debbono essere considerati deteriorabili ed essi sono, per categorie: art. 1

lett. a) - i prodotti alimentari preconfezionati, destinati come tali al consumatore, il

cui periodo di vita commerciale, inferiore a 90 giorni, risulti dalla data di scadenza

indicata in etichetta, con la dicitura “da consumarsi entro...” ai sensi dell’art. 10,

comma 2, del decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 109; art. 1 lett. b) - i prodotti a

base di carne che non abbiano subito un trattamento completo e presentino alcune

particolari caratteristiche fisico-chimiche(omissis); art. 1 lett. c) - i prodotti

alimentari sfusi e quelli posti in involucro protettivo destinati alla vendita previo

frazionamento ai sensi dell’articolo 1, comma 3, del decreto legislativo 27 gennaio

1992, n. 109, non sottoposti a congelazione o a trattamenti atti a determinare la

conservazione allo stato sfuso per periodi superiori a tre mesi (quali sterilizzazione,

disidratazione, affumicatura, aggiunta di soluti e/o conservanti antimicrobici, altri

trattamenti di pari effetto) costituiti in tutto o in parte da latte, derivate del latte, carni

fresche, prodotti della pesca freschi, prodotti d’uovo, ecc..

Nei casi dubbi, non si ritiene deteriorabile un prodotto quando si tratti di alimenti non

preconfezionati né sottoposti a trattamento conservativo idoneo a garantire una

conservazione per un periodo di tempo superiore a tre mesi.

Lo stesso D.M detta i criteri e le modalità di prelevamento, trasporto, conservazione

dei campioni.

In particolare, all’art. 2 precisa che: “per i prodotti alimentari deteriorabili di cui

all’art. 1, comma 1, non essendo possibile effettuare l’analisi di revisione secondo le

modalità di cui all’art.1 della legge 30 aprile 1962 n. 283, il campione prelevato ai

fini del controllo microbiologico va ripartito dalla persona incaricata in quattro

aliquote, ciascuna delle quali in quantità congrua per l’espletamento delle analisi da

effettuare. Una delle quattro aliquote, conservate con le prescrizioni previste

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dall’articolo 1, comma 3 (cioè vanno mantenuti dal momento del prelievo al

momento in cui viene iniziata l’analisi ad una temperatura, ove non diversamente

previsto da normative vigenti, non superiore a + 4 °C e non inferiore a - 15 °C e

quelli surgelati a -18 °C),viene consegnata dal prelevatore al detentore del prodotto

alimentare unitamente al verbale di prelevamento, mentre le altre tre aliquote

vengono consegnate ai laboratori competenti per l’effettuazione, su una prima

aliquota, degli accertamenti analitici e per la ripetizione, su una seconda aliquota,

delle analisi limitatamente ai parametri eventualmente risultanti non conformi.

L’ultima aliquota, infine, resta di riserva presso il laboratorio per un’eventuale

perizia ordinata dall’autorità giudiziaria.

Analogamente si procede per i prodotti alimentari di cui all’articolo 1, per i quali

l’accertamento della deteriorabilità viene effettuato in laboratorio e per i quali, in

caso di conferma del carattere di deteriorabilità, non sarebbe possibile effettuare

l'analisi di revisione, secondo le modalità di cui all’articolo 1 della legge 283/1962,

formando cinque aliquote, l’ultima delle quali rimane a disposizione dell’autorità

giudiziaria per una eventuale perizia.

L’art. 5 del d.lvo 123/93 puntualizza gli obblighi gravanti sia sui controllati che

quelli facenti capo agli organi pubblici di controllo.

L’operatore privato, che peraltro può essere anche un ente pubblico (si pensi ad una

mensa ospedaliera), ha l’obbligo di disponibilità e di collaborazione per rendere

agevole l’espletamento dell’attività di controllo (anche l’art.4 della legge 30 aprile

1962 n.283 prevede un analogo obbligo, peraltro penalmente sanzionato, e l’art.3 del

d.lvo 26 maggio 1997 n.155 dispone che il responsabile dell’industria fornisca tutte

le informazioni), mentre il personale incaricato del controllo è tenuto al segreto

professionale (art.326 c.p.).

Il d.lvo in esame pone, all’art.6, la disciplina del meccanismo operativo di controllo,

in relazione ad episodi di particolare allarme sanitario.

Si delinea un protocollo di intervento, uniforme su tutto il territorio dello Stato,

affidando all’Unità sanitaria locale compiti ben precisi in occasione di episodi

epidemici di infezione e di intossicazione alimentare, che si rivolgono sia verso

l’autorità amministrativa che verso l’A.G., potendosi infatti ravvisarsi varie ipotesi di

reato (art.444 c.p., art,452 c.p., articoli 5, lett.d) e 6 legge 283/1962).

Infine, nel caso di frode tossica, di prodotti alimentari nocivi e di prodotti pericolosi

per la salute pubblica60, legati, ma non necessariamente, agli episodi di infezione e

intossicazione alimentari, scatterà il sistema di allerta (art.11).

60Per sostanze alimentari comunque nocive ai sensi dell’art. 5 lett. d) della legge 30 aprile 1962 n. 283, debbono

intendersi quelle che possono arrecare concreto pericolo alla salute dei consumatori. Siffatta pericolosità, quindi, non è

data dall’ipotetica ed astratta possibilità di nocumento della sostanza alimentare, ma dall’attitudine concreta di essa di

provocare danno alla salute pubblica.

Sulla base di tale principio, la S.C., con la sentenza n. 4743 del 7 marzo 2000, sez. 3^ ha ritenuto che pesce spada

contenente mercurio in concentrazione superiore ai limiti di legge sia da considerarsi nocivo perché e noto che tale

sostanza velenosa è di difficile eliminazione dall’organismo umano e che accumulandosi è destinata ad arrecare agli

assuntori di essa danni irreparabili..

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La frode tossica si caratterizza come una intossicazione alimentare accompagnata da

una condotta sleale del produttore o del distributore al consumo del prodotto (è

prevista anche dall’art.1 della legge 283/1962).

Il sistema di allerta scatterà anche in presenza di un prodotto nocivo che sia immesso

in commercio, anche se per colpa ed in presenza di prodotti pericolosi per la salute

pubblica (che rappresentano una categoria meno grave di quelle precedenti).

11. Principio di specialità.

L’articolo 6 della 283/1962 dispone che “salvo che il fatto costituisce più grave

reato, i contravventori alle disposizioni del presente articolo e dell’articolo

precedente sono puniti...”.

Si devono allora esaminare tutte quelle fattispecie, previste nel codice penale ovvero

in norme speciali emanate o emanande per individuare quale norma vada applicata.

La giurisprudenza, in relazione alle norme codicistiche, ha avuto modo di soffermarsi

sulle disposizioni contenute negli articoli 439, 440, 442, 444, 515 e 516 c.p. per

stabilire i limiti di applicazione.

L’articolo 439 c.p. (avvelenamento di acque o di sostanze alimentari) tutela, sulla

base di una presunzione assoluta di lesività, l’incolumità pubblica per il pericolo alla

salute pubblica derivante dall’avvelenamento di acque o di sostanze destinate

all’alimentazione. L’articolo 440 c.p. (adulterazione o contraffazione di sostanze

alimentari) ha come oggetto giuridico la salute pubblica intesa sia come assenza di

malattia, e quindi come necessità di preservarla da tutte quelle cause che hanno

attitudine concreta a provocarla, sia come un fatto positivo, cioè come effettivo

benessere fisico e mentale. L’articolo 442 c.p. (commercio di sostanze alimentari

contraffatte o adulterate) costituisce una norma di complemento, la cui applicazione

è espressamente subordinata all’assenza di una delle ipotesi criminose previste dai tre

articoli precedenti ed ha per oggetto specifico di tutela il bene dell’incolumità

pubblica sotto il profilo della pubblica salute.

L’articolo 444 c.p. (commercio di sostanze alimentari nocive) mira a tutelare

l’incolumità pubblica e precisamente la salute pubblica da condotte che possono

risultare per essa concretamente pericolose. Configura un reato di pericolo, per la

sussistenza del quale è necessario che le sostanze di cui si vuol fare commercio

abbiano attitudine ad arrecare nocumento alla salute pubblica. Tale attitudine non può

consistere in un pericolo meramente ipotetico, occorrendo invece un pericolo

concreto, i cui estremi, specificamente individuati, debbano dare ragione

dell’affermazione di responsabilità. Non occorre il verificarsi di un danno, essendo

sufficiente l’attitudine concreta al suo verificarsi, cioè la probabilità che la sostanza

risulti dannosa.

L’articolo 515 c.p. (frode nell’esercizio del commercio) tutela non solo l’interesse del

singolo acquirente verso atti di slealtà perpetrati dall’esercente, ma l’interesse

collettivo alla lealtà e correttezza degli scambi commerciali.

L’articolo 516 c.p. (vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine)

risponde all’esigenza di tutela della buona fede e della correttezza commerciale. Il

bene giuridico protetto è quindi esclusivamente il commercio e, in funzione di esso,

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l’ordine economico. Nessuna tutela alla incolumità pubblica viene offerta dalla

fattispecie codicistica, non essendo richiesto il requisito della pericolosità per la

salute pubblica delle sostanze alimentari non genuine, come invece nelle ipotesi

criminose di cui agli articoli 442 e 444 c.p.61

Considerando, in particolare, gli articoli 444, 515 e 516 c.p. si pone il quesito se le

ipotesi contravvenzionali di cui agli articoli 5 e 6 della legge 283/1962 siano assorbite

dalle disposizioni del codice penale ovvero se esse debbano applicarsi

simultaneamente, anche alla luce del dettato dell’art. 18 della stessa legge che

stabilisce che “le disposizioni di cui agli artt. 5, 9, 10, 11, 12, 17 si applicano quando

i fatti ivi contemplati non costituiscono reato più grave ai sensi di altre disposizioni”.

La dottrina62, si è espressa in senso favorevole alla simultanea applicazione dell’art.

444 c.p. e degli artt. 5 e 6 della 283/1962.

Sostiene l’Autore che: “quanto alle fattispecie di reato delineate dal codice penale si

deve rilevare come in nessuno dei suoi molteplici gruppi di istituti venne preso in

diretta considerazione il bene giuridico della sanità ed igienicità delle sostanze

alimentari e, quindi, quello della salute del loro consumatore. Una parziale

considerazione al riguardo può forse ravvisarsi solo nelle previsioni delittuose di cui

al Capo II del Titolo IV del Libro secondo del codice: esso, infatti, nel più ampio

quadro della tutela della pubblica incolumità, individua una serie di comportamenti

nocivi od insidiosi per la salute pubblica collocandoli come delitti di comune pericolo

mediante frode. A prescindere dalle riserve che è doveroso porre sull'esattezza del

richiamo a quest’ultimo elemento, resta comunque la difficoltà tecnico - sistematica

di ritenere coincidente il bene giuridico della “pubblica incolumità” (alla base delle

previsioni codificate) con quello della salute pubblica (cui espressamente si riferisce

la legge n. 283). Peraltro si deve considerare che, ove non si ritenga di seguire la tesi

da noi sostenuta circa la simultanea configurabilità autonoma delle infrazioni agli

artt. 5 e 6 della legge n. 283 ed all’art. 444 c.p., si rischia di pervenire a soluzioni

applicative quantomai discutibili per la loro iniquità sostanziale.

In particolare, qualora ricorra ipotesi di distribuzione al consumo di alimento “in stato

di alterazione...o comunque nocivo” considerato dall’art. 5 lett. d), in virtù del

principio di “specialità” non è all’ipotesi di reato di cui all’art. 444 .p. che si dovrà

far ricorso, in quanto quest’ultimo si fonda su qualcosa “in meno” - la pericolosità,

sia pure concreta - rispetto al reato contravvenzionale che vanta un elemento

specifico in più: la “nocività”, appunto, intesa come certezza del danno temuto a

fronte della semplice sua probabilità di cui si appaga l’ipotesi delittuosa dell’art. 444

del codice63. A porre le due fattispecie in rapporto di specialità ovvero di alternativa,

61 La nozione di genuinità è stata pacificamente delineata dalla giurisprudenza, distinguendo fra genuinità naturale e

genuinità formale. La prima attiene a quelle sostanze alimentari che abbiano subito un’artificiosa alterazione nella loro

essenza e nella loro composizione normale mediante commistione di sostanze estranee o sottrazione di principi nutritivi

caratteristici e la seconda concernente quelle che, dovendo contenere determinate sostanze o ben precisati quantitativi di

esse, non le contengono nella misura richiesta oppure siano confezionate con additivi non consentiti (Cass. sez. 3^, 27

maggio 1998 n. 7843). Nel caso in cui manchino parametri legislativamente stabiliti (si pensi ad esempio alla “pizza”)

si dovrà far ricorso ai canoni che appaiono prevalere nella tradizione o nel costume alimentare della zona. 62 C. Correra, op.cit. pag. 294; 63 Secondo il Correra i concetti di pericolosità e di nocività non sono affatto equivalenti e, specie sul piano giuridico, la

loro distinzione deve essere rigorosamente mantenuta. Nel concetto di pericoloso è insita un’idea di possibilità

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si arriverebbe all’assurdo di ravvisare solo il meno gravemente sanzionato reato

contravvenzionale nel caso in cui l’alimento è nocivo o dannoso ovvero comporta la

certezza del danno alla salute del consumatore; laddove la semplice sua pericolosità

ovvero la semplice probabilità di quel danno farebbe scattare le ben più gravi

conseguenze previste per il delitto delineato dall’art. 444 del codice.

A tali soluzioni irrazionali si sfugge se si adotta la linea interpretativa della

simultanea configurabilità dei due illeciti in virtù della diversità del bene giuridico

tutelato: la pubblica incolumità nel caso dell’art. 444, l’intrinseca qualità della

salubrità ed igienicità (senza considerare i riflessi sulla salute del consumatore) del

prodotto alimentare nel caso delle disposizioni della legge n. 283. Il che peraltro

rende anche accettabile la parificazione in punto sanzioni prevista dagli artt. 5 e 6 tra

questa ipotesi di illecito ed altre che dichiaratamente nocive non potranno mai

essere”.

In senso contrario si è pronunciata la Corte di Cassazione64, (pur escludendo in via

del tutto teorica un rapporto di specialità) nel caso di un processo che vedeva imputati

i legali rappresentanti di alcune società produttrici e distributrici di gomme da

masticare le quali contenevano fluoruro di sodio e acido usnico, additivi chimici in

quantità eccessiva (il primo) o non consentita (il secondo) e che si dovevano ritenere

nocive e pericolose per la salute pubblica, nonché in contrasto con le norme sui

medicinali.

Agli imputati erano stati contestati a) il reato di cui agli artt. 110 e 81 c.p. e 5 lett. d)

e lett.g) della legge 30 aprile 1962 n. 283; b) il reato di cui agli artt. 110 e 81 c.p. e 23

d.lvo 178/1991; c) il reato di cui agli artt. 110 e 81 c.p. e 444 c.p.

Il Pretore di Milano aveva assolto gli imputati dal reato sub b) perché il fatto non

sussiste mentre li aveva condannati per il reato sub c) ritenendo assorbite nel delitto

le ipotesi contravvenzionali dell’art. 5 della legge 283.

La Corte d’Appello aveva confermato la sentenza, contro la quale era ricorso il P.G..

Nel ricorso si assumeva che erroneamente i reati di cui all’art. 5 lett. d) e g) erano

stati ritenuti assorbiti dal delitto di cui all’art. 444 c.p. e che la gomma da masticare

avrebbe dovuto essere qualificata come farmaco, e quindi soggetto alla specifica

disciplina, perché venduta esclusivamente in farmacia e propagandata come prodotto

avente effetti terapeutici.

La Corte, nel respingere il ricorso, ha così argomentato: “questa Suprema Corte ha

avuto occasione di affermare che le norme (che individuano altrettante ipotesi

contravvenzionali) di cui alle lettere d) e g) dell’art. 5 della legge 283/1962, sono

dirette alla tutela della salute dei consumatori e che, rispetto alla sua obbiettività

giuridica, le contravvenzioni in questione si configurano come reati di pericolo

accentuata, e quindi di probabilità, che si verifichi un evento temuto. Quello di nocività presuppone un’idea di certezza:

la certezza cioè che qualcosa sia dannoso. La pericolosità di un alimento non deve necessariamente coincidere con la

sua nocività. Infatti, mentre quest’ultima richiede un danno sicuro, più o meno grave, a chi ne consuma anche una sola e

modica dose; l’altra nozione, quella della pericolosità si accontenta della probabilità che subito, o anche in futuro, con

una sola dose o con un ripetuto consumo di quella sostanza alimentare, si pervenga ad un danno per la salute del

consumatore. 64 Cass. sez. 1^, 28 aprile 2000 n. 7032, in Juris data;

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presunto. Trattasi di una sorta di tutela anticipata del bene giuridico che il legislatore

intende proteggere.

Questo bene giuridico può essere anche individuato sotto profili diversi e con diverse

sfaccettature; ed è per questo che il P.G. ricorrente ha creduto di poter affermare che

le norme di cui alla legge speciale tutelano, anche, l’interesse alla genuinità del

prodotto alimentare; e tale interesse sarebbe diverso ed autonomo rispetto a quello

relativo alla salute.

Sennonché, se si guarda alle specifiche, concrete, contestazioni che sono state

formulate a carico degli attuali imputati, si deve concludere che, nella specie, unico

ed unitario è il potenziale pericolo realizzato dalla specifica condotta che si ascrive

agli imputati; e tale potenziale pericolo si concretizza nella distribuzione per il

consumo umano di un prodotto alimentare (gomma da masticare) genericamente

nocivo”. Infatti con riferimento alla lettera d) del citato art. 5 della legge 283/1962, è

stata contestata la distribuzione per il consumo di gomma da masticare comunque

nociva; mentre con riferimento alla lettera g) del medesimo articolo, è stata contestata

la distribuzione per il consumo della stessa gomma da masticare con additivi chimici

non consentiti o in eccesso. Ora: l’uso irregolare di tali additivi non incide,

all’evidenza, sulla genuinità della gomma da masticare, bensì, ancora una volta, sulla

potenziale nocività del prodotto.

Nel caso in esame, gli imputati, pur realizzando una condotta che aveva tutti i

connotati dei reati contravvenzionali sopra ricordati, hanno posto concretamente in

pericolo la salute pubblica, (e sul punto non è più consentita discussione), così

realizzando tutti gli elementi della fattispecie delittuosa di cui agli artt.444-452 c.p.

Ma tale delitto comporta la lesione (sotto il profilo del pericolo concreto) di un bene

giuridico di maggior spessore, che contiene in sé tutto il disvalore (e lo assorbe) delle

pur formalmente realizzate contravvenzioni. (E del resto questa Corte ha già avuto

occasione di affermare il principio secondo cui l’applicabilità degli articoli 5 e 6 della

legge 283/1962 va esclusa per assorbimento quando sussistano gli estremi della

pericolosità per la salute pubblica).

Ci si trova quindi di fronte ad un caso di concorso apparente di norme incriminatrici

sotto il profilo della cosiddetta specialità rispetto al caso concreto (non esiste infatti

un rapporto di specialità tra le fattispecie criminose in esame, astrattamente

considerate), ovvero sotto il profilo della cosiddetta consunzione”.

Conseguentemente è applicabile la sola norma che prevede il trattamento penale più

severo e la cui violazione assorbe tutto il disvalore delle violazioni di cui alle norme

che prevedono un trattamento penale meno severo".

Non sorge invece alcun contrasto in ordine al concorso di norme applicabili nel caso

degli articoli 515 e 516 c.p. stante la diversità del bene tutelato.

Nel caso di contestata violazione all’art. 5 lett. a) delle 283/1962 ed agli artt. 515 e

516 c.p., La Corte di Cassazione65 ha affermato “quanto al presunto assorbimento del

delitto nella contravvenzione, è appena il caso di precisare che i due reati si pongono

in relazione di specialità reciproca. Il delitto viene commesso da chi pone in vendita

65 Cass. sez. 3^, 22 aprile 1999 n. 8507, in Juris data;

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sostanze alimentari non genuine come genuine, ovvero di qualità o quantità diverse

da quella dichiarata o pattuita. La contravvenzione è commessa da chi impiega nella

preparazione del prodotto sostanze private in parte dei propri elementi naturali o

mescolate a sostanze di qualità inferiore o comunque trattate in modo da variarne la

composizione naturale. Nel delitto è determinante la consegna all’acquirente o la

messa in commercio. Nella contravvenzione si ha riguardo al fatto intrinseco della

preparazione o della distribuzione per il consumo. Il delitto ha come oggetto la tutela

giuridica della correttezza del commercio, la contravvenzione ha come oggetto la

tutela della salute”.

Inoltre, come evidenzia la stessa Corte in altra decisione66, in delitto di vendita di

sostanze alimentari non genuine come genuine rappresenta una forma di tutela

avanzata rispetto al reato di frode in commercio, in quanto relativo ad una fase

preliminare e comunque autonoma riguardo alla relazione commerciale vera e propria

tra i due soggetti e presenta un ambito più vasto, sotto un certo profilo, rispetto al

delitto previsto dall’art. 515 c.p., relativo, però, a qualsiasi cosa mobile, perché l’art.

516 c.p. ha specifico riferimento alle sole sostanze alimentari ed il delitto si consuma

con la messa in commercio delle cose non genuine, configurando un reato di pericolo.

Nell’ambito del principio di specialità è opportuno ricordare che l’art. 9 comma 3,

della legge 24 novembre 1981 n. 689, come sostituito dall’art. 95 del d.lvo 30

dicembre 1999 n. 507, prevede che ai fatti puniti dagli artt. 5, 6 e 12 della legge

283/1962 si applicano soltanto le sanzioni penali, anche quando i fatti stessi sono

puniti con sanzioni amministrative previste da disposizioni speciali in materia di

produzione, commercio ed igiene degli alimenti e delle bevande.

Peraltro, come precisato dalla Corte di Cassazione67 il principio di specialità non

scatta allorché illecito amministrativo ed illecito penale si riferiscano a due momenti

distinti del comportamento del trasgressore e tra di essi intercorra un rapporto, non di

identità, ma soltanto di connessione teleologica.

Non opera quindi la vis attractiva a favore del giudice penale quando l’illecito

amministrativo non costituisce parte integrante sia sotto il profilo oggettivo che sotto

quello soggettivo del reato.

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto sussistere il concorso tra la condotta di

somministrazione a vitelli di allevamento di sostanze ad azione ormonale - sanzionata

a titolo di illecito amministrativo dall’art. 3 del d.lvo 27 gennaio 1992 n. 118- e il

reato di detenzione per la vendita di carni bovine trattate in modo da variarne la

composizione naturale mediante la somministrazione di dette sostanze, punito a titolo

di contravvenzione dall’art. 5 lett.a) della legge 283/1962. La Corte ha anche

precisato che le norme penali si applicano “in ogni caso”, non solo quando

concorrono con norme originariamente sanzionate in via amministrativa, ma anche

quando concorrono con norme depenalizzate successivamente.

66 Cass. sez 3^, 27 maggio 1998 n.7843, in Juris data, 67 Cass. Civile, sez. 1^, 25 maggio 2001 n. 7112, Chiabotto c. Asl n.15 di Cuneo;

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