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1 © INDIRE 2012 Controversie di lavoro: la difesa in giudizio a cura di Laura Paolucci Sommario 1. Difesa tecnica e organizzazione del contenzioso ................................................3 2. La fase del giudizio davanti al giudice ..............................................................7 3. L'introduzione della controversia: il ricorso e la notificazione del ricorso-decreto di comparizione ...................................................................................................9 4. La memoria difensiva e la costituzione del convenuto ...................................... 11 5. La contumacia ............................................................................................ 19 6. Questioni processuali e questioni di merito ..................................................... 21 6.1 Il mancato esperimento del tentativo di conciliazione .................................. 21 6.2 La giurisdizione ...................................................................................... 21 6.3 La competenza ...................................................................................... 22 6.4 Il litisconsorzio (necessario e facoltativo) ................................................... 23 6.5 La prescrizione ...................................................................................... 24 7. L'articolazione dei mezzi di prova ................................................................. 24 7.1 L'interrogatorio libero ............................................................................. 25 7.2 L'interrogatorio formale .......................................................................... 25 7.3 La prova testimoniale ............................................................................. 26 7.4 La consulenza tecnica ............................................................................. 26 7.4 Il giuramento (artt. 233 e ss. c.p.c.) ......................................................... 27 7.5 La prova documentale e l'ordine di esibizione ............................................. 27 7.5 L'accesso sul luogo di lavoro .................................................................... 29 7.6 La richiesta di informazioni alle organizzazioni sindacali ............................... 29 8. L'udienza ................................................................................................... 30 8.1 La verifica della regolarità degli atti .......................................................... 30 8.2 La modifica delle domande ...................................................................... 31 8.3 L'interrogatorio libero delle parti............................................................... 32 8.4 L'assunzione delle prove ......................................................................... 33 8.5 La lettura del dispositivo ......................................................................... 33 9. Questioni particolari ................................................................................... 34 9.1 La riunione delle cause ........................................................................... 34 9.2 La querela di falso (artt. 221-227 c.p.c.) ................................................... 34

Controversie di lavoro: la difesa in giudizio propria deroga alla già citata regola della difesa tecnica in giudizio di cui all ... dello stato giuridico ed economico di tale personale

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Controversie di lavoro: la difesa in giudizio

a cura di Laura Paolucci

Sommario

1. Difesa tecnica e organizzazione del contenzioso ................................................ 3

2. La fase del giudizio davanti al giudice .............................................................. 7

3. L'introduzione della controversia: il ricorso e la notificazione del ricorso-decreto di comparizione ................................................................................................... 9

4. La memoria difensiva e la costituzione del convenuto ...................................... 11

5. La contumacia ............................................................................................ 19

6. Questioni processuali e questioni di merito ..................................................... 21 6.1 Il mancato esperimento del tentativo di conciliazione .................................. 21 6.2 La giurisdizione ...................................................................................... 21 6.3 La competenza ...................................................................................... 22 6.4 Il litisconsorzio (necessario e facoltativo) ................................................... 23 6.5 La prescrizione ...................................................................................... 24

7. L'articolazione dei mezzi di prova ................................................................. 24 7.1 L'interrogatorio libero ............................................................................. 25 7.2 L'interrogatorio formale .......................................................................... 25 7.3 La prova testimoniale ............................................................................. 26 7.4 La consulenza tecnica ............................................................................. 26 7.4 Il giuramento (artt. 233 e ss. c.p.c.) ......................................................... 27 7.5 La prova documentale e l'ordine di esibizione ............................................. 27 7.5 L'accesso sul luogo di lavoro .................................................................... 29 7.6 La richiesta di informazioni alle organizzazioni sindacali ............................... 29

8. L'udienza ................................................................................................... 30 8.1 La verifica della regolarità degli atti .......................................................... 30 8.2 La modifica delle domande ...................................................................... 31 8.3 L'interrogatorio libero delle parti............................................................... 32 8.4 L'assunzione delle prove ......................................................................... 33 8.5 La lettura del dispositivo ......................................................................... 33

9. Questioni particolari ................................................................................... 34 9.1 La riunione delle cause ........................................................................... 34 9.2 La querela di falso (artt. 221-227 c.p.c.) ................................................... 34

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9.3 L'accertamento pregiudiziale sull'efficacia, la validità e l'interpretazione dei contratti collettivi ........................................................................................ 35 9.4 La sospensione, l'interruzione e l'estinzione del processo ............................. 36 9.5 La correzione dei provvedimenti ............................................................... 37

10. La sentenza .............................................................................................. 37

11. Le spese di lite ......................................................................................... 39

12. L'esecuzione della sentenza ........................................................................ 40 12.1 Le modalità di esecuzione della sentenza dinanzi al giudice ordinario .......... 40

13. Le modalità di esecuzione della sentenza dinanzi al giudice amministrativo ....... 44

14. La coazione indiretta derivante dal rischio di responsabilità (anche penale) del dirigente pubblico ........................................................................................... 44

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1. Difesa tecnica e organizzazione del contenzioso

La disciplina della difesa delle amministrazioni nelle controversie di lavoro rappresenta una deroga alla regola della difesa in giudizio che vuole, ai sensi dell'art. 82 c.p.c., l'assistenza del difensore abilitato. Regole particolari sono infatti dettate dalla legge in relazione alle controversie in materia di rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici di cui all'art. 409 c.p.c. (e a quelle assimilate). Il primo dato particolare attiene alla possibilità che, limitatamente al primo grado del giudizio, la difesa tecnica (rappresentanza e difesa in giudizio) dell'amministrazione possa essere assunta dal personale della stessa amministrazione. Dispone il primo comma dell'art. 417 bis c.p.c., nel testo novellato dall'art. 19 del D.Lgs. 387/1998, che: "Nelle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, limitatamente al giudizio di primo grado le amministrazioni stesse possono stare in giudizio avvalendosi direttamente di propri dipendenti". Una regola ulteriormente particolare viene dettata per il contenzioso del lavoro delle amministrazioni dello Stato o ad esse equiparate. Così prosegue infatti il secondo comma dello stesso art. 417 bis c.p.c.: "Per le amministrazioni statali o ad esse equiparate, ai fini della rappresentanza e difesa in giudizio, la disposizione di cui al comma precedente si applica salvo che l'Avvocatura dello Stato competente per territorio, ove vengano in rilievo questioni di massima o aventi notevoli riflessi economici, determini di assumere direttamente la trattazione della causa dandone immediata comunicazione ai competenti uffici dell'amministrazione interessata, nonché al Dipartimento della funzione pubblica, anche per l'eventuale emanazione di direttive agli uffici per la gestione del contenzioso del lavoro. In ogni altro caso l'Avvocatura dello Stato trasmette immediatamente, e comunque non oltre 7 giorni dalla notifica degli atti introduttivi, gli atti stessi ai competenti uffici dell'amministrazione interessata per gli adempimenti di cui al comma precedente". Coerentemente, l'ultimo comma dell'art. 415 c.p.c., nel testo aggiunto dall'art. 41 D.Lgs. 80/1998, mantiene inalterato il regime delle notificazioni, prescrivendo che: "Per le amministrazioni statali o ad esse equiparate, ai fini della rappresentanza e difesa in giudizio, si osservano le disposizioni delle leggi speciali che prescrivono la notificazione presso gli uffici dell'Avvocatura dello Stato competente per territorio". La disposizione di cui all'art. 417 bis c.p.c. differisce notevolmente da quella dell'art. 2 R.D. 1611/1933, incontrata in materia di controversie non di lavoro davanti al Giudice Ordinario. Si osserva infatti che:

- come nel caso della delega dell'art. 2 R.D. 1611/1933, anche in questo caso spetta all'Avvocatura la competenza decisionale in ordine all'applicazione della norma. Con una differenza sostanziale, che deriva dalla diversità di poteri chiamati in causa dall'417 bis c.p.c. e dall'assenza della "delega" come strumento giuridico di raccordo tra l'amministrazione e l'Avvocatura dello Stato). Ove l'Avvocatura dello Stato decida di avvalersi della disposizione in esame, l'individuazione dell'organo dell'amministrazione interessata al contenzioso verrà compiuta dall'Avvocatura sulla base dell'oggetto del giudizio e della sua (eventuale)

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conoscenza delle scelte organizzative circa la gestione del contenzioso che l'amministrazione coinvolta abbia o meno effettuato. Ne consegue, che, allorché l'organo individuato dall'Avvocatura dello Stato, non coincida con quello tenuto in base alle predette scelte organizzative all'attività di difesa in giudizio, l'organo interessato dall'Avvocatura ben potrà "trasferire" la questione al diverso organo tenuto (ovviamente, di ciò sarà data notizia all'Avvocatura dello Stato ai fini della successiva corrispondenza). - a differenza dell'art. 2 R.D. 1611/1933, l'art. 417 bis c.p.c. realizza una vera e propria deroga alla già citata regola della difesa tecnica in giudizio di cui all'art. 82 c.p.c.: il dipendente dell'amministrazione esercita nella pienezza i poteri procuratori e defensionali (vale a dire che egli è processualmente abilitato a predisporre e sottoscrivere gli atti difensivi ed a gestire integralmente la lite, oltre che ovviamente a compiere tutte le attività materiali connesse al giudizio). Può capitare che l'Avvocatura dello Stato, nel comunicare di avvalersi dell'art. 417 bis c.p.c. fornisca suggerimenti giuridici circa la strategia processuale ed indichi eccezioni da sollevare o argomentazioni difensive. Tale attività è espressione della funzione consultiva spettante (essa pure) all'Avvocatura dello Stato quale organo tecnico-legale. Ne consegue che, ove il dipendente non "sfrutti" i suggerimenti dell'Avvocatura, dovrà spiegarne il perché (ovviamente nei rapporti interni fra gli organi), secondo la regola generale che vuole la funzione consultiva di tipo non vincolante come non vincolante, appunto, l'amministrazione consigliata, ma vuole anche che per la legittimità della diversa azione posta in essere sia dato conto delle motivazioni. - a differenza dell'art. 2 R.D. 1611/1933, l'art. 417 bis c.p.c. consente che il dipendente stia in giudizio in forza e per effetto della stessa disposizione legislativa, senza necessità di esternare l'atto con il quale l'Avvocatura ha declinato il patrocinio difensivo e, tanto meno, senza necessità di delega alcuna da parte di questa. - a differenza dell'art. 2 R.D. 1611/1933, l'art. 417 bis c.p.c. non contiene limitazioni in ordine al "foro erariale" ed esso risulterà applicabile anche allorché la causa sia pendente innanzi al luogo ove ha sede l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato. Il tutto limitatamente, però, al primo grado di giudizio.

Con particolare riferimento al contenzioso del lavoro che può interessare le istituzioni scolastiche, si rileva che, poiché il personale della scuola continua comunque – come già visto - ad essere legato da rapporto di servizio con lo Stato, l'attività di gestione dello stato giuridico ed economico di tale personale è riferibile allo Stato stesso. In altre parole, allorché il dirigente scolastico gestisce i rapporti lavoro del personale dipendente assegnato all'istituzione scolastica, egli opera (continua ad operare) quale organo decentrato dello Stato (arg. ex art. 15, primo comma, D.P.R. 275/1999 e art. 1, comma 2, d.lgs. n. 165/2001, che conferma la qualificazione come "amministrazioni dello Stato" delle istituzioni scolastiche ai fini dell'applicazione del decreto stesso). Ne consegue che al contenzioso con il personale dipendente della scuola sarà applicabile la disposizione del secondo comma dell'art. 417 bis c.p.c.: a ciò consegue ulteriormente che la difesa tecnica dell'amministrazione scolastica in giudizio spetterà alternativamente – ed esclusivamente - al dipendente

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dell'amministrazione ovvero all'Avvocatura dello Stato, laddove la stessa si determini ad assumere direttamente la trattazione della causa. Queste (dipendente o Avvocatura dello Stato) sono le uniche due difese possibili per le amministrazioni statali o ad esse equiparate, in ossequio alla regola generale secondo cui è vietato alle amministrazioni dello Stato richiedere l'assistenza di avvocati del libero foro (art. 5 R.D. 1611/1933). La regola ora vista è applicabile indipendentemente dall'organo statale che abbia posto in essere il comportamento o l'atto di gestione del rapporto di lavoro oggetto della controversia giurisdizionale: la regola è applicabile, cioè, sia che il comportamento o l'atto provengano dall'organo periferico dell'amministrazione della pubblica istruzione competente alle funzioni in materia di personale relative ad ambito territoriale più ampio di quello di competenza della singola istituzione scolastica (ad es. trasferimenti e mobilità di competenza attualmente dell'Ufficio scolastico regionale) sia che il comportamento o l'atto provengano dal dirigente scolastico. Ci si domanda ora: nell'un caso e nell'altro quale deve ritenersi il "dipendente" dell'amministrazione tenuto alla difesa tecnica dell'amministrazione ai sensi dell'art. 417 bis c.p.c.? Al fine di disciplinare organicamente la materia dal punto di vista "interno", l'art. 12 bis del D.Lgs. n. 29 del 1993, introdotto con l'art. 7 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, ed ora confluito nell'art. 12 del D.Lgs. 165/2001, ha assegnato all'ordinamento interno di ciascuna amministrazione il compito di individuare i soggetti nelle cui mansioni far rientrare la difesa legale. Dispone tale norma che: "Le amministrazioni pubbliche provvedono, nell'ambito dei rispettivi ordinamenti, ad organizzare la gestione del contenzioso del lavoro, anche creando appositi uffici, in modo da assicurare l'efficace svolgimento di tutte le attività stragiudiziali e giudiziali inerenti alle controversie. Più amministrazioni omogenee o affini possono istituire, mediante convenzione che ne regoli le modalità di costituzione e di funzionamento, un unico ufficio per la gestione di tutto o parte del contenzioso comune". Se, in considerazione della natura statale del personale della scuola, l'azione di gestione dello stesso è riferibile allo Stato, è da ritenersi certamente consentito alla struttura amministrativa di quest'ultimo individuare, con apposito atto organizzativo, le modalità di assolvimento della funzione di difesa tecnica in giudizio. La riforma dell'organizzazione dell'amministrazione centrale e periferica della Pubblica Istruzione (in attuazione dell'art. 75 D.Lgs. 300/1999 e del D.P.R. 347/2000, dal D.P.R. 319/2003 fino al D.P.R. 17/2009) ha costituito occasione per la costituzione di appositi uffici dedicati alla gestione del contenzioso, localizzati presso gli Uffici Scolastici Regionali. In base a specifici atti di organizzazione del Dirigente generale preposto agli Uffici Scolastici Regionali gli Uffici del Contenzioso possono essere incaricati di prestare la propria opera tanto in relazione a giudizi dei quali siano oggetto sia atti e comportamenti posti in essere dagli organi dell'amministrazione territoriale dell'amministrazione (riguardanti certamente il personale "ministeriale", ma anche il personale della scuola) quanto in relazione a giudizi nei quali siano oggetto atti e comportamenti posti in essere dai dirigenti scolastici ed in generale degli organi dell'istituzione scolastica. In considerazione della riferibilità allo Stato della gestione del personale della scuola e

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quindi della riferibilità allo Stato dell'oggetto del giudizio, ben si giustificherebbe che tali uffici (periferici) prestassero attività di rappresentanza e difesa in giudizio dell'amministrazione, quale attività di supporto alle istituzioni scolastiche ex art. 6, terzo comma, D.P.R. 347/2000, poi art. 8 del D.P.R. 319/2003 e 8 D.P.R. 17/2009. La disposizione da ultimo citata, in particolare e per quanto qui interessa, ha espressamente previsto fra le funzioni dell'Ufficio scolastico regionale che esso "ha la legittimazione passiva in materia di contenzioso del personale della scuola". La norma assolve ad una duplice finalità:

la prima, a valenza "esterna" all'amministrazione, opera sul piano generale dell'ordinamento giuridico e costituisce conferma sul piano degli effetti processuali (il riferimento è alla "legittimazione" nelle controversie giurisdizionali) della statalità del rapporto di lavoro del personale della scuola e della riferibilità di tale rapporto all'organo con competenze di gestione che nell'organizzazione del MIUR ha il livello di ufficio dirigenziale generale (l'Ufficio scolastico regionale, appunto), in applicazione della disciplina dettata in generale per la struttura statale dall'art. 16 d.lgs. n. 165/2001.

La seconda, a valenza "interna" all'ambito organizzativo dell'amministrazione, disegna un perimetro all'interno del quale l'Ufficio scolastico regionale può articolare lo svolgimento della funzione di gestione delle controversie di lavoro del personale della scuola. La norma abilita infatti l'Ufficio scolastico regionale ad occuparsi direttamente della gestione delle controversie del personale della scuola, a prescindere dalla circostanza che l'atto o il comportamento contestato rientri nelle competenze rimaste all'amministrazione periferica (art. 15 D.P.R. n. 275/1999) ovvero nelle competenze trasferite alle istituzioni scolastiche (art. 14 D.P.R. citato).

E' comunque la concreta decisione organizzativa adottata dagli Uffici Scolastici Regionali (il MIUR in proposito emana linee guida al fine di una tendenziale omogeneità sul territorio dei possibili modelli organizzativi) circa l'ambito delle competenze degli Uffici del Contenzioso a determinare l'intervento o meno di questo ufficio in ordine alle controversie di lavoro riguardanti il personale della scuola nei confronti di atti o comportamenti posti in essere dagli organi della scuola (art. 14 D.P.R. n. 275/1999). Laddove l'Ufficio del Contenzioso "regionale" non si facesse carico di tale competenza, il funzionario dell'amministrazione abilitato a difendere in giudizio l'amministrazione potrà certamente essere "attinto" fra il personale dell'istituzione scolastica (dirigente scolastico o direttore generale dei servizi generali e amministrativi). In tal caso, saranno ipotizzabili, in applicazione del secondo alinea del citato art. 12 D.Lgs. 165/2001

("Più amministrazioni omogenee o affini possono istituire, mediante convenzione che ne regoli le modalità di costituzione e di funzionamento, un unico ufficio per la gestione di tutto o parte del contenzioso comune") convenzioni fra istituzioni scolastiche dirette alla costituzione di un unico ufficio per la gestione del contenzioso. Fonte di tale convenzione è la norma ora richiamata, la quale potrà combinarsi con la più generica (con riferimento all'oggetto

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in questione) previsione contenuta nell'art. 7 del D.P.R. 275/1999 sugli accordi di rete.

Il ricorso ad una convenzione di collaborazione in materia non altera comunque la natura pubblicistica della funzione esercitata e la sua riferibilità alla istituzione scolastica coinvolta nella vicenda giurisdizionale. Ne consegue che il ricorso alla gestione in comune delle controversie avrà il valore, meramente strumentale ed interno, di ripartire fra le istituzioni scolastiche aderenti all'accordo le attività da porre in essere, le quali dovranno essere comunque poste in essere avvalendosi delle strutture e del personale esistente, senza possibilità di ricorso a personale esterno, ivi inclusi i legali del c.d "libero foro" (stante il vincolo derivante dal combinato disposto degli artt. 7, ultimo comma, D.Lgs. n. 165/2001, 417 bis c.p.c., 1 R.D. n. 1611/1933).

2. La fase del giudizio davanti al giudice

Esaurita la fase del tentativo di conciliazione, il dipendente ha facoltà (non è ovviamente un obbligo) di iniziare la controversia. A tale riguardo non esiste un termine che non sia quello della prescrizione del diritto che si intende far valere (e che sarà alternativamente di cinque o di dieci anni, a seconda del diritto: ad es., il diritto a prestazioni pecuniarie da corrispondere a periodi prefissati, si prescrive in cinque anni, ma in generale i diritti che nascono da contratto, così anche quello di lavoro, si prescrivono in dieci anni). La scelta se ricorrere al giudice o all'arbitro è compiuta dal ricorrente (nella quasi totalità dei casi, il dipendente, dunque). Se è prescelta la via arbitrale, come visto, è data facoltà all'amministrazione contestarla, con la conseguenza che al ricorrente non resterà che percorrere la via giurisdizionale. Se l'amministrazione invece non contesta la competenza arbitrale, si difenderà da sé (tramite il proprio funzionario, la cui individuazione dipenderà dalle concrete scelte organizzative operate) davanti all'arbitro, secondo le regole previste dal CCNQ 2001 più volte citato. Dell'attivazione della controversia davanti al giudice (scelta giurisdizionale del dipendente, che si appalesa attraverso la notifica del ricorso introduttivo) l'amministrazione ha notizia attraverso l'Avvocatura dello Stato, presso i cui uffici il ricorso introduttivo deve essere notificato a cura del ricorrente ai sensi del già visto art. 415, ultimo comma, c.p.c. e per conoscenza diretta poiché il ricorso deve essere notificato presso la sede dell'amministrazione. Come meglio si vedrà (infra "L'introduzione della controversia: il ricorso e la notificazione del ricorso-decreto di comparizione"), ove il ricorso non sia notificato presso l'Avvocatura dello Stato può sostenersi la nullità della notifica del ricorso. Come visto, la scelta successiva, relativa al soggetto che difenderà l'amministrazione in giudizio, spetta all'Avvocatura dello Stato, la quale, ai sensi del già visto art. 417 bis c.p.c. deciderà se, ricorrendo questioni di massima o aventi notevoli riflessi economici, espletare direttamente il patrocinio difensivo ovvero se incaricare di questo l'amministrazione. Di tale scelta, l'Avvocatura deve dare notizia all'amministrazione. Nel primo caso (patrocinio dell'Avvocatura), è onere dell'istituzione scolastica riferire

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all'Avvocatura dello Stato (nel termine che normalmente viene da questa indicato per l'incombente) circa i fatti della vicenda e l'andamento della fase di conciliazione. Della gestione processuale della causa in tal caso si fa carico sin dal primo grado l'Avvocatura dello Stato. Nel secondo caso, il tipo di attività da porre in essere da parte dell'amministrazione dipende dall'organizzazione della funzione effettuata dall'USR. Infatti, si è già visto, con riferimento all'ufficio dell'amministrazione titolato a svolgere la difesa in giudizio, come la sua individuazione dipenda dalle scelte organizzative in concreto effettuate in seno all'ufficio scolastico regionale ed ai compiti attribuiti all'ufficio del contenzioso ivi costituito ex art. 12 del D.Lgs. 165/2001. Premesso che, nell'ipotesi in cui l'Avvocatura declini il patrocinio difensivo, spetterà all'amministrazione difendersi in giudizio, tale attività (di natura processuale, consistente nella redazione della memoria difensiva e nella comparizione alle udienze) spetterà o all'ufficio del contenzioso dell'USR o a un "funzionario" appositamente designato (che potrebbe essere tanto un funzionario dell'amministrazione territoriale – MIUR o USR - quanto un funzionario dell'istituzione scolastica). Sempre in tale caso, allorché il giudice emani la sentenza a decisione della controversia e la comunichi all'amministrazione, questa dovrà farne sollecito invio all'Avvocatura dello Stato per le valutazioni di competenza in ordine all'eventuale impugnazione ed, eventualmente, l'impugnazione stessa.

Dal secondo grado di giudizio, infatti, riacquista rilievo la necessità della difesa tecnica da parte dell'Avvocatura dello Stato, secondo il combinato disposto degli artt. 82 c.p.c. e R.D. 1611/1933.

Attori di parte pubblica

1. istituzione scolastica (per le controversie coinvolgenti il personale della scuola)

2. USR (sia per le controversie coinvolgenti il personale della scuola che per le controversie coinvolgenti il personale "ministeriale")

3. Avvocatura dello Stato

Per l'ipotesi in cui l'Avvocatura dello Stato abbia comunicato all'amministrazione che, non ricorrendo questioni di massima o aventi notevoli riflessi economici, questa potrà difendersi ai sensi dell'art. 417 bis c.p.c., è necessario vedere in dettaglio come si svolga il processo e quali attività il funzionario debba porre in essere. Scomponiamo dunque i vari momenti in cui si articola il processo (del lavoro):

1. L'introduzione della controversia: il ricorso e la notificazione del ricorso-decreto di comparizione

2. La memoria difensiva e la costituzione del convenuto

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3. La contumacia 4. Questioni processuali e questioni di merito:

» il mancato esperimento del tentativo di conciliazione » la giurisdizione » la competenza » il litisconsorzio (necessario e facoltativo) » la prescrizione

5. L'articolazione dei mezzi di prova: » l'interrogatorio libero » l'interrogatorio formale » la prova testimoniale » la consulenza tecnica » il giuramento » la prova documentale e l'ordine di esibizione » l'accesso sul luogo di lavoro » la richiesta di informazioni alle organizzazioni sindacali

6. L'udienza: » la verifica della regolarità degli atti » la modifica delle domande » l'interrogatorio libero delle parti » l'assunzione delle prove » la lettura del dispositivo

7. Questioni particolari: » la riunione delle cause » la querela di falso » l'accertamento pregiudiziale sull'efficacia, la validità e l'interpretazione dei contratti collettivi » la sospensione, l'interruzione e l'estinzione del processo » la correzione dei provvedimenti

8. La sentenza 9. L'esecuzione della sentenza 10. Le spese di lite

3. L'introduzione della controversia: il ricorso e la notificazione del ricorso-decreto di comparizione

Nel rito del lavoro la domanda si propone con ricorso rivolto direttamente al giudice seguito dal decreto del giudice di fissazione dell'udienza di comparizione delle parti e quindi notificato alla parte convenuta e non, come nell'ordinario processo civile (art. 163 c.p.c.), con un atto di citazione notificato alla controparte e successivamente presentato al giudice. Diversamente a quanto accade nel processo ordinario dunque non spetta all'attore fissare l'udienza di comparizione. Il deposito del ricorso pone l'attore direttamente in contatto con il giudice; il giudice fissa con decreto la data dell'udienza. Mentre l'atto di citazione assolve alla duplice funzione di identificare la domanda e di

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chiamare in giudizio il convenuto, il ricorso introduttivo del processo del lavoro assolve soltanto alla prima funzione. La differenza si riflette sui requisiti che l'art. 414 c.p.c. prescrive per il contenuto del ricorso, che ricalcano quelli di cui all'art. 163 per la citazione, con alcune differenze che derivano proprio dall'eliminazione di ciò che nel contenuto dell'atto di citazione serve per la chiamata in giudizio della controparte. In particolare il ricorso deve contenere a pena di nullità:

• l'indicazione del giudice; - l'indicazione delle parti, e precisamente il nome, il cognome nonché la residenza o il domicilio o la dimora del convenuto. La mancata indicazione della residenza dell'attore o del convenuto comporta per la consolidata giurisprudenza la nullità dell'atto, solo se si traduce nell'impossibilità di identificare con certezza la parte. Nel caso in cui l'attore non indichi né la residenza né il domicilio eletto nel comune dove ha sede il giudice, trova applicazione l'art. 58 disp. att. c.p.c. che consente le notifiche presso la cancelleria. Se il ricorrente o il convenuto è una persona giuridica, un'associazione non riconosciuta o un comitato, il ricorso ne deve indicare la denominazione o ditta, nonché la sede. L'omessa indicazione della sede legalmente nota all'amministrazione pubblica convenuta non produce gli effetti di cui all'art. 58 disp. att. c.p.c. Non è richiesta l'indicazione dell'organo o ufficio che ha la rappresentanza in giudizio della persona giuridica; - l'oggetto della domanda, ossia il bene preteso (c.d. petitum mediato) è il contenuto del provvedimento richiesto (c.d. petitum immediato); - la causa petendi, ovvero l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con relative conclusioni. Si deve quindi ritenere nullo il ricorso in caso di omissione o di assoluta incertezza di questi requisiti, come quelli di cui ai nn. 1, 2, 3 dell'art. 58 disp. att. c.p.c. L'attore deve svolgere subito tutte le sue difese nell'atto introduttivo; ciò vale anche per il convenuto, al quale gli artt. 416 e 420 c.p.c. impongono, attraverso un rigido sistema di preclusioni e decadenze, di articolare interamente la propria linea difensiva nella memoria di costituzione in giudizio.

• Perché il ricorso sia nullo non basta l'omessa indicazione formale degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui si fonda la domanda, ma è necessario che attraverso l'esame complessivo dell'atto ne sia impossibile l'individuazione;

• i mezzi di prova dei quali il ricorrente intende avvalersi ed in particolare i capitoli della prova testimoniale con i relativi testi ed i documenti che si offrono in comunicazione. Manca nell'art. 414 c.p.c. un espresso riferimento alla decadenza dell'attore dalla prova indicata in ricorso, a differenza di quanto espressamente previsto per il convenuto dall'art. 416, comma 3, c.p.c. La Corte Costituzionale, tuttavia, con sentenza n. 13 del 1977, ha escluso che l'attore goda di un ingiustificabile privilegio, dato che anche nei suoi confronti l'identica preclusione è desumibile dal combinato disposto dell'art. 414, numero 5), e dell'art. 420, comma 5, c.p.c.

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L'attore si costituisce in giudizio depositando il ricorso nella cancelleria del giudice competente, insieme con i documenti in esso indicati (art. 415, comma 1, c.p.c.). Dopo che il giudice ha fissato con decreto la data dell'udienza, il ricorso viene portato a conoscenza della controparte attraverso notifica (la notifica riguarda congiuntamente il ricorso e il pedissequo decreto di fissazione dell'udienza). Tra il deposito del ricorso e l'udienza di discussione non devono intercorrere più di 60 giorni (ma il termine è meramente ordinatorio e, spesso, non rispettato). Il ricorso deve essere notificato al convenuto entro 10 giorni dalla data della pronuncia del decreto (ma in realtà l'unico termine da rispettare a pena di decadenza è quello che deve intercorrere tra la data di notifica del ricorso e l'udienza di discussione: almeno 30 giorni liberi). Ai sensi dell'art. 415 ultimo comma c.p.c. per le amministrazioni statali o quelle ad esse equiparate, ai fini della rappresentanza e difesa in giudizio, si osservano le disposizioni delle leggi speciali che prescrivono la notificazione presso gli uffici dell'Avvocatura dello Stato competente per territorio (art. 11 R.D. n. 1611/1933). La notificazione effettuata in violazione della predetta regola (ad esempio presso la sede legale dell'amministrazione convenuta o presso un ufficio periferico di questa) è nulla e tale nullità "contagia" tutti gli atti successivi del processo, compresa la sentenza. Tale nullità è rilevabile anche d'ufficio da parte del Giudice. Tuttavia se l'amministrazione si costituisce in giudizio, anche al solo fine di fare rilevare la nullità, la stessa è sanata. A fronte di una notifica nulla, pertanto, può risultare opportuna la non costituzione in giudizio (seguendo la causa dall'esterno e, cioè, presso la cancelleria) al fine di consentire in sede di appello avverso la sentenza eventualmente sfavorevole di fare valere il vizio, ciò che comporta l'annullamento della sentenza (si veda Corte d'Appello di Bologna - Sez. Lavoro - Sent. 08/11/2001 n. 403, Cassazione - Sez. Tributaria - Sent. 17/12/2001 n. 15927). Tale scelta va comunque opportunamente meditata, corrispondendo ad una valutazione di strategia processuale da effettuarsi caso per caso.

4. La memoria difensiva e la costituzione del convenuto

La costituzione in giudizio attraverso il dipendente dell'amministrazione presuppone risolto il "dialogo" con l'Avvocatura dello Stato previsto dall'art. 417 bis, co. 2, c.p.c., nel senso che l'Avvocatura abbia comunicato di non trattenere il patrocinio difensivo. Ai sensi dell'art.416 c.p.c. il convenuto (al quale è stato notificato il ricorso) deve costituirsi almeno 10 giorni prima dell'udienza (fissata nel decreto allegato al ricorso), dichiarando la residenza o eleggendo domicilio nel comune in cui ha sede il giudice adito. Con riferimento alla natura del termine di costituzione, si è discusso se i 10 giorni prima dell'udienza debbano intendersi come "liberi" oppure no. Secondo l'orientamento che risulta prevalente: "In tema di computo dei termini processuali, qualora la legge non preveda espressamente che si tratta di termine libero, con esclusione cioè dal computo stesso sia del giorno iniziale che di quello finale, opera il criterio generale di cui all'art. 155 c.p.c. secondo il quale non vanno conteggiati il giorno e l'ora iniziali, computandosi

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invece quelli finali: pertanto, in difetto della previsione suddetta, anche il termine di dieci giorni prima dell'udienza di discussione, previsto dall'art. 416 c.p.c, per la tempestiva costituzione del convenuto nelle controversie di lavoro va computato escludendo il "dies a quo", costituito dal giorno dell'udienza, ed includendo, come ultimo utile per il compimento dell'atto, il decimo giorno precedente l'udienza stessa" (Cass. Sez. Lav., sent. n. 526 del 21/01/1984; Cass. Sez. Lav., sent. n. 4034 del 02/04/1992; Cass. Sez. Lav., sent. n. 26 del 03/01/1995; in senso contrario Cass. Sez. III, sent. n. 2739 del 07/04/1988). Poiché il processo del lavoro è improntato al principio della concentrazione processuale, sul piano teorico, la legge ha previsto la costituzione del convenuto entro questo termine anteriore all'udienza per concedere al ricorrente il tempo necessario per preparare le repliche alla linea difensiva del convenuto. Se il convenuto potesse costituirsi all'udienza stessa, infatti, l'attore non potrebbe far altro che chiedere un rinvio per esaminare le difese del convenuto, e il processo subirebbe un rallentamento in contrasto con il predetto principio di concentrazione che regola il processo del lavoro. Con riferimento all'indicazione del difensore dell'amministrazione convenuta, nell'ipotesi di cui all'art. 417 bis c.p.c., si è già rilevato (si veda "Difesa tecnica e organizzazione del contenzioso") come l'art. 417 bis, primo comma, c.p.c. attribuisca al dipendente dell'amministrazione il potere di predisporre e sottoscrivere gli atti difensivi e di gestire integralmente la lite, oltre che ovviamente di compiere tutte le attività materiali connesse al giudizio. Al contrario di quanto avviene per i poteri di rappresentanza sostanziale della parte (che vengono in gioco ogniqualvolta si debba transigere la controversia) e, quindi, al contrario di quanto necessario per la conciliazione della lite, per l'esercizio del potere processuale in questione da parte del dipendente non è necessario alcun atto di delega da parte del dirigente dell'ufficio scolastico regionale. In particolare, la circostanza che il dipendente che in concreto eserciterà il patrocinio difensivo sia stato incaricato di tale compito dal dirigente generale o dal dirigente ha un rilievo esclusivamente interno, che non dovrà essere documentato in giudizio. Ai fini della costituzione, è sufficiente che il dipendente (del quale non è richiesta alcuna caratteristica particolare, data la definizione atecnica usata dalla norma che, tra l'altro, ha abbandonato significativamente la locuzione ad un tempo più specifica ed ambigua, di "funzionario") dopo essersi generalizzato, si qualifichi come dipendente dell'amministrazione convenuta. Ci si potrebbe domandare in quali termini il dipendente debba risultare "incardinato" nell'Amministrazione convenuta, se cioè vi debba essere corrispondenza fra l'organo eventualmente citato in giudizio e l'ufficio di appartenenza del dipendente. Al riguardo va premesso che la prassi dei ricorsi esistenti diverge spesso dalla regola giuridica secondo la quale la legittimazione processuale (rilevante ai fini della vocatio in ius del convenuto) è attribuita della persona giuridica e non dei suoi organi (che hanno una mera soggettività interna), con la conseguenza che nelle cause di lavoro del personale dell'amministrazione territoriale (Comparto Ministeri) andrebbe convenuto in giudizio il solo Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca e non anche, e separatamente (come fosse cosa diversa nei rapporti giuridici "esterni"), ovvero esclusivamente, l'Ufficio Scolastico Regionale o il Centro Servizi Amministrativi. Ad analoga conclusione deve giungersi con riferimento alle cause di lavoro proposte dal personale della scuola, in ordine alle quali spesso viene evocata in giudizio anche

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l'istituzione scolastica ove il dipendente presta servizio. Con riferimento a tale ultima ipotesi (domanda del personale della scuola verso l'istituzione scolastica e/o verso il MIUR o i suoi organi), alla questione processuale a cui ora stiamo cercando di dare una soluzione (chi possa costituirsi per l'amministrazione variamente evocata in giudizio) se ne aggiunge una ulteriore di natura sostanziale che attiene, come già abbiamo visto (si veda "Identificazione della parte in causa"), alla corretta identificazione del soggetto passivamente legittimato in ordine alla domanda proposta in giudizio, che potrà partorire, una volta stabilito chi eserciti il patrocinio difensivo, una eventuale eccezione di difetto di legittimazione passiva (in termini di legittimazione sostanziale e non processuale, legitimatio ad causam) dell'istituzione scolastica. Se quella descritta è dunque la situazione processuale che solitamente si presenta nei ricorsi indirizzati all'amministrazione scolastica, tenuto conto della regola giuridica sopra ricordata (e cioè della non rilevanza esterna degli organi - si veda Tribunale di Pisa, sent. 337/03) la difesa tecnica potrà essere svolta da un dipendente appartenente all'amministrazione scolastica intesa come Ministero, a prescindere dall'ufficio di appartenenza e dalla sua sede di servizio (che potrà rilevare semmai, come subito si vedrà, come luogo di domiciliazione). A fronte di un ricorso che evochi in giudizio il MIUR, l'Ufficio Scolastico Regionale ed il Centro Servizi Amministrativi, la costituzione in tal caso potrà avvenire da parte del dott. Xxxxx, quale difensore del convenuto Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca nonché dei suoi organi periferici. Allo stesso modo si potrà procedere ove venga evocata in giudizio l'istituzione scolastica. Diversa è l'ipotesi di ricorso che non evochi in giudizio il MIUR, in persona del suo Ministro pro tempore: in tal caso ci si potrà avvalere della disposizione dell'art. 4 della L. 260/1958, ove si prevede che l'errore di identificazione della persona alla quale l'atto introduttivo del giudizio ed ogni altro atto doveva essere notificato, deve essere eccepito dall'Avvocatura dello Stato nella prima udienza, con la contemporanea indicazione della persona alla quale l'atto doveva essere notificato. Oltre il predetto termine l'indicazione non è più eccepibile. Il giudice prescrive un termine entro il quale l'atto deve essere rinnovato. L'eccezione rimette in termini la parte. L'utilità di questa eccezione è marginale (perché allo stesso risultato si potrebbe giungere effettuando la costituzione per la "persona alla quale l'atto doveva essere notificato") e risulterà opportuna, trattandosi di eccezione da sollevare in limine litis (cioè prima e a prescindere da ogni ulteriore eccezione e difesa) allorché sia necessario acquisire tempo per una migliore difesa. In tal caso, nel costituirsi in giudizio per il soggetto intimato, il funzionario potrà limitarsi a sollevare l'eccezione nei termini predetti, riservando alla costituzione a seguito del rinnovo di notifica lo svolgimento di ogni altra difesa. Le implicazioni di diritto amministrativo sottese all'applicazione della disposizione in parola devono indurre a cautela nell'utilizzazione della stessa innanzi al giudice ordinario: se infatti il giudice non riconoscesse la sussistenza dei presupposti per l'applicazione della disposizione e non disponesse il rinnovo della notificazione al soggetto indicato, all'amministrazione non rimarrebbe altro spazio che una costituzione tardiva. Con riferimento alle amministrazioni statali, l'attribuzione della possibilità di difesa tecnica in capo ai dipendenti dell'amministrazione riverbera effetti circa la

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domiciliazione ai fini processuali dell'amministrazione stessa. Secondo il combinato disposto dell'art. 144, co. 1, c.p.c. e dell'art. 11 del R.D. 1611/1933, infatti, le amministrazioni dello Stato sono domiciliate ex lege presso gli uffici dell'Avvocatura dello Stato competente. Tuttavia, simile domiciliazione è intrinsecamente correlata all'esercizio del patrocinio difensivo, non avendo ragion d'essere la sopravvivenza della funzione di domiciliazione ex lege con riferimento agli atti successivi alla notifica del ricorso introduttivo, ove l'Avvocatura dello Stato abbia declinato il patrocinio difensivo e questo sia stato assunto dal dipendente dell'amministrazione ai sensi dell'art. 417 bis c.p.c.. In tali casi, pertanto, nel costituirsi in giudizio il funzionario eleggerà il domicilio indicando, per esempio, quello ove ha sede l'ufficio cui egli appartiene. Ciò che non è consigliabile comunque è omettere l'elezione di domicilio poiché, a fronte delle comunicazioni e delle notifiche da effettuarsi nel corso del processo tanto a cura della cancelleria quanto della controparte, si aprirebbe la questione della sopravvivenza o meno nel caso della regola speciale (come sembrerebbe invero confermato dall'art. 415 c.p.c.) sulla regola generale derivante dal combinato disposto degli artt. 144, secondo comma e 170 c.p.c. ed, in particolare, dall'art. 58 disp. att. c.p.c., il quale dispone che in mancanza di dichiarazione di residenza o di elezione di domicilio, alla parte, che non ha fatto dichiarazione di residenza o elezione di domicilio, le notificazioni e le comunicazioni durante il procedimento possono essere fatte presso la cancelleria, salvo contrarie disposizioni di legge: ciò che avrebbe l'effetto di "seminare" nel processo questioni processuali che è opportuno evitare. Il convenuto si costituisce mediante il deposito in cancelleria di una memoria difensiva nella quale, a pena di decadenza, devono essere proposte le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio, e le eventuali domande in via riconvenzionale. Si considerano eccezioni non rilevabili d'ufficio:

• l'eccezione di prescrizione e decadenza, • l'eccezione di incompetenza territoriale salvo che per i casi dell'art. 28 c.p.c., • l'eccezione di giudicato.

Si considerano eccezioni rilevabili d'ufficio:

• l'eccezione di difetto di giurisdizione, • l'eccezione di incompetenza per materia, • l'eccezione di incompetenza territoriale nei casi di competenza inderogabile di cui all'art. 28 c.p.c., • l'eccezione di difetto di legittimazione passiva.

Si ha domanda riconvenzionale allorché il convenuto non si limiti ad una difesa nell'ambito oggettivo determinato dal ricorrente, ma introduca in giudizio propri autonomi diritti di cui a sua volta chiede la tutela: tale ipotesi è rarissima per la pubblica amministrazione nelle controversie di lavoro. La decadenza dal potere di proporre tali eccezioni ha carattere assoluto ed inderogabile e dev'essere rilevata d'ufficio dal giudice, essendo in contrario irrilevante

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il silenzio serbato dall'attore (Cass. Sez. Lav., sent. n. 5380 del 02/09/1986; Cass. Sez. Lav., sent. n. 1574 del 13/02/1988; Cass. Sez. Lav., sent. n. 7512 del 06/07/1991; Cass. Sez. Lav., sent. n. 1335 del 07/02/1992). Nella stessa memoria il convenuto deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda (onere di specifica contestazione), proporre tutte le sue difese in fatto e in diritto ed indicare specificamente, a pena di decadenza, i mezzi di prova dei quali intende avvalersi ed in particolare i documenti che deve contestualmente depositare. Ove il convenuto violi tale norma con riferimento al dovere di prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda, tale condotta non può essere equiparata ad una confessione della fondatezza degli assunti di controparte, ma non esclude che il giudice, in applicazione dell'art. 116, co. 2, c.p.c. possa desumere da tale comportamento argomenti di prova (Cass. Sez. III, sent. n. 4438 del 27/03/2001; Cass. Sez. Lav., sent. n. 17664 del 11/12/2002). Circa l'ampiezza dell'onere di contestazione, la giurisprudenza è diversamente orientata. Con particolare riferimento del rilievo della contestazione da parte del convenuto dell'an debeatur, ma non anche del quantum della pretesa fatta valere dal ricorrente, si riscontrano soluzioni opposte: secondo un orientamento "l'onere di specifica contestazione gravante, a norma dell'art. 416 c.p.c. sul convenuto nelle controversie individuali di lavoro non trova applicazione con riferimento ai conteggi elaborati dall'attore, pur inseriti nel ricorso introduttivo della lite o ritualmente prodotti, nel caso in cui il convenuto contesti globalmente, quanto all'"an debeatur", il credito dedotto in giudizio. Comunque, la mancata contestazione specifica di tali conteggi non comporta di per sé il riconoscimento della loro affidabilità e precisione, pur potendo, a seconda delle circostanze, costituire elemento integratore del convincimento del giudice" (Cass. Sez. Lav., sent. n. 3758 del 29/03/1995). Secondo altro orientamento (più recente): "Nel rito del lavoro, caratterizzato da un sistema di preclusioni tendente a consentire all'attore di conseguire rapidamente il bene della vita reclamato e dall'obbligo del convenuto di prendere posizione precisa, non limitata ad una generica contestazione, sui fatti affermati dall'attore, diventano incontestabili tutte le situazioni di fatto in ordine alle quali non sussistono divergenze delle parti. Ne consegue che non possono essere sollevate nel giudizio d'appello contestazioni riguardo a conteggi che debbano ritenersi incontestati in primo grado in difetto di rilievi od obiezioni ad essi relativi; né ad esimere il convenuto dall'onere di contestare i conteggi è sufficiente la contestazione relativa all'"an" della pretesa della controparte, dato che una simile difesa è compatibile con una diversa valutazione in punto di quantificazione del credito" (Cass. Sez. Lav., sent. n. 4482 del 08/04/2000; Cass. Sez. Lav., sent. n. 7103 del 29/05/2000). E' pertanto consigliabile, nel costituirsi in giudizio, contestare la pretesa del ricorrente espressamente riferendo la contestazione tanto all'an debeatur quanto alla sua quantificazione come operata dallo stesso ricorrente. Nella memoria difensiva, il convenuto deve indicare specificamente i mezzi di prova dei quali intende avvalersi (si tratta delle istanze istruttorie) e deve in particolare indicare i documenti (si tratta di atti scritti su supporto cartaceo idonei a dimostrare fatti rilevanti) che deve contestualmente depositare.

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Tale onere è previsto a pena di decadenza. Per l'articolazione dei mezzi di prova, si rimanda alla trattazione contenuta nel materiale di studio corrispondente. Va qui rilevato che le decadenze e le nullità (ad es. istanze tardive, incapacità a testimoniare dei testi, ecc.) relative all'articolazione delle prove ed al deposito dei documenti non sono rilevabili d'ufficio e, pertanto, se non rilevate dall'altra parte all'udienza di discussione, esse non sono più utilmente deducibili. La costituzione attraverso la redazione ed il deposito di un atto difensivo (la memoria difensiva appunto) è attività necessaria non sostituibile altrimenti: la costituzione del convenuto presuppone infatti l'avvenuto deposito in cancelleria di uno scritto difensivo (comparsa di risposta, nel rito ordinario o memoria difensiva, in quello speciale), quale atto iniziale dell'esercizio del diritto di contraddire, con la conseguenza che il difetto di tale atto non è utilmente riparabile con il solo fatto della comparizione all'udienza, ma comporta che l'attività processuale dal convenuto stesso eventualmente spiegata, nel permanere di tale difetto, sia del tutto abnorme ed irrituale nonché inidonea ad impedire la contumacia (Cass. Sez. Lav., sent. n. 5555 del 30/10/1984). La mancata costituzione in giudizio del convenuto cagiona la sua contumacia (art. 291 c.p.c.) ed il giudice ne farà dichiarazione in apposita ordinanza. Il processo prosegue a questo punto senza il convenuto e la comunicazione degli atti si hanno per effettuate al convenuto contumace tramite il semplice deposito in cancelleria, con l'eccezione dell'ordinanza che ammette l'interrogatorio o il giuramento e delle comparse contenenti domande nuove o riconvenzionali, che devono essere notificate personalmente al contumace (art. 292 c.p.c.). La contumacia di per sé non comporta effetti sfavorevoli, nel senso che da essa il giudice non può trarre alcun elemento di convincimento. Tuttavia, essa non è priva di effetti sfavorevoli. Infatti, se il convenuto si costituisce tardivamente gli sono precluse tutte le attività che avrebbe dovuto compiere a pena di decadenza nel termine di costituzione o, comunque in un termine precedente la costituzione, quali - come sopra visto - le eccezioni che non siano rilevabili d'ufficio, la facoltà di formulare domanda riconvenzionali e la richiesta delle prove rimesse all'esclusiva disponibilità delle parti (quelle cioè diverse dalla consulenza tecnica d'ufficio e dall'ordine di esibizione). Sono poi sempre consentite (e cioè anche tardivamente) le mere difese e cioè le contestazioni dei fatti allegati dal ricorrente e le argomentazioni giuridiche relative all'infondatezza della domanda (Cass. Sez. Lav., sent. n. 4301 del 20/07/1985). In sintesi:

Modalità di costituzione: a) redazione della memoria difensiva

La memoria difensiva si scompone nelle seguenti parti:

Intestazione Contiene l'indicazione dell'Ufficio giudiziario, delle parti, dell'elezione di domicilio del convenuto

Fatto Contiene l'esposizione dei fatti secondo la ricostruzione del

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convenuto

Dichiarazione di costituzione Contiene la dichiarazione di costituzione del convenuto

Diritto Contiene la formulazione delle eccezioni del convenuto e delle eventuali domande riconvenzionali:

1. eccezioni (processuali o di merito) non rilevabili d'ufficio 2. eccezioni (processuali o di merito) rilevabili d'ufficio 3. contestazione delle circostanze di fatto allegate nel ricorso, allegando fatti estintivi, modificativi ed impeditivi del fatti allegati dal ricorrente

4. mere difese a contestazione dell'infondatezza giuridica della domanda del ricorrente

Conclusioni Contiene le domande che il convenuto rivolge al giudice, che sintetizzano le difese svolte

Istanze istruttorie Contiene l'indicazione delle istanze istruttorie del convenuto e l'indicazione dei documenti che contestualmente si depositano

Data e sottoscrizione Contiene l'indicazione della data e del luogo di redazione (e se diverso di quello dell'Ufficio giudiziario) della memoria

Può ulteriormente osservarsi che l'esame del ricorso avversario deve essere finalizzato, ai fini della redazione della memoria difensiva, alla identificazione delle possibili eccezioni che poi troveranno collocazione nella predetta memoria secondo un ordine logico-giuridico:

• prima le questioni pregiudiziali, ed in particolare prima le questioni processuali di rito (ad esempio quelle che attengono alla giurisdizione o alla competenza), • poi le questioni preliminari di merito (ad esempio quelle che attengono alla legittimazione attiva o passiva alla domanda), • infine le questioni di merito e, fra queste,

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• prima quelle attinenti all'an della domanda (esistenza del diritto) • e poi quelle attinenti al quantum della stessa.

La prima delle questioni pregiudiziali attiene alla procura alle liti del ricorrente ed alla sua ritualità: fra le eccezioni che attengono alla procura, si può includere, ove il ricorrente abbia conferito il mandato ad un solo difensore e questi risulti essere un dipendente dell'amministrazione scolastica, quella relativa alla violazione del combinato disposto degli artt. 1, comma 56 bis, L. 662/1996 e 82, terzo comma e 156 c.p.c.. L'eccezione potrà essere sollevata tanto nell'ipotesi di dipendente "amministrativo" part-time ammesso all'esercizio della libera professione nei limiti temporali ancora transitoriamente consentiti dalla L. 25/11/2003, n. 339 (la legge ha escluso l'applicabilità delle disposizioni di cui all'art. 1, co. 56, 56-bis e 57, della l. n. 662/1996 agli albi degli avvocati, per i quali restano fermi i limiti ed i divieti derivanti dal r.d. n. 1578/1933 (art.3), con ciò in tal modo ricondotto al regime ordinario di incompatibilità il personale dipendente in possesso dei requisiti previsti per l'iscrizione all'albo degli avvocati, per il quale ritornano vietati l'iscrizione e l'esercizio di attività professionale, a prescindere dal regime di impegno lavorativo), quanto nell'ipotesi di personale docente ammesso all'esercizio della libera professione ex art. 508 D.Lgs. 297/1994 al di fuori del periodo transitorio di cui alla citata legge.

Modalità di costituzione: b) le attività da compiere

Una volta redatta la memoria difensiva, la stessa andrà inserita nel c.d. fascicolo di parte, unitamente ai documenti offerti in produzione. Dispone l'art. 74 disp. att. c.p.c. che gli atti e i documenti di causa sono inseriti in sezioni separate del fascicolo di parte. Sulla copertina del fascicolo debbono essere iscritte le indicazioni richieste per il fascicolo d'ufficio (Ufficio giudiziario, indicazione delle parti, n. di Ruolo Generale della causa, data dell'udienza di comparizione). La copia originale (e cioè quella sottoscritta in modo autografo) non va inserita nel fascicolo di parte (che potrà contenere una copia della stessa), poiché va inserita nel fascicolo d'ufficio. E' comunque buona regola sottoscrivere in modo autografo tutte le copie della memoria difensiva. Il fascicolo così formato va depositato presso la cancelleria del Tribunale ove pende la causa. Il cancelliere, dopo avere controllato la regolarità anche fiscale degli atti e dei documenti, sottoscrive l'indice del fascicolo ogni volta che viene inserito in esso un atto o un documento (si osserva con riferimento alla regolarità fiscale che gli atti del processo del lavoro godono di un regime di esenzione, di cui peraltro godono indipendentemente dal tipo di processo, le Amministrazioni dello Stato). Per la costituzione va formato un fascicolo, consistente in una carpetta contenente due parti, la prima dedicata agli atti difensivi e la seconda ai documenti offerti in produzione, entrambe munite di indice. La prima carpetta (fascicolo ATTI) conterrà una copia della memoria difensiva (l'originale della stessa con sottoscrizione autografa del difensore dell'amministrazione andrà tenuta fuori dal fascicolo di parte e consegnata alla cancelleria per l'inserimento nel fascicolo d'ufficio). In questa carpetta, nel corso del giudizio, troveranno

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collocazione gli eventuali ulteriori atti difensivi (ad es. memorie autorizzate) che il giudice ritenesse di dovere ammettere e comunque tutti gli altri atti di parte (ad es. gli atti di intimazione a testimoniare). La seconda carpetta (fascicolo DOCUMENTI) conterrà i documenti che l'amministrazione deciderà di depositare, offrendoli in produzione. Come detto, ciascun fascicolo avrà un indice che identifica gli atti in essi contenuti: ciò deve valere soprattutto per il fascicolo "documenti", il cui indice conterrà, con numerazione progressiva riportata anche su ciascun documento, l'indicazione di questi ultimi. La costituzione avverrà mediante deposito presso la cancelleria di entrambi i fascicoli sopra detti, unitamente ad un numero ulteriore di copie della memoria difensiva (che sono prudenzialmente da sottoscrivere anch'esse come l'originale) pari al numero delle parti (sarà sufficiente una sola copia anche in presenza di più parti ricorrenti se assistite da un unico difensore) oltre a quella costituente l'originale necessaria per la formazione del fascicolo d'ufficio. All'atto del deposito, la cancelleria appone un timbro con data sul fascicolo e sulla memoria difensiva, attestando in tal modo la circostanza ed il momento dell'avvenuta costituzione. Ove la costituzione non avvenga in tal modo, essa potrà essere effettuata in udienza (si tratterà ovviamente di costituzione tardiva): in tal caso la formazione del fascicolo avverrà nello stesso modo, ma della costituzione occorrerà fare dare atto a verbale: la dichiarazione potrà essere del seguente tenore: "Per l'amministrazione convenuta compare il dott. xxxx difensore della stessa ex art. 417 bis c.p.c. il quale si costituisce in giudizio mediante deposito di fascicolo di parte contenente memoria difensiva e documenti".

5. La contumacia

La partecipazione attiva al processo è – come abbiamo già visto (si veda la parte sulla costituzione del convenuto) - un onere e non un obbligo per la parte interessata e si sostanzia nell'atto di costituzione. L'atto di costituzione realizza, si può dire, il contraddittorio con il giudice, nel senso che attraverso di esso il giudice è messo a conoscenza dell'esistenza della domanda giudiziale. Si comprende in tal modo come anche per l'attore esista dunque un onere di costituzione. Nei giudizi che iniziano con atto di citazione, infatti, la costituzione segue la notificazione al convenuto dell'atto introduttivo del giudizio e l'attore ha l'onere di iscrivere a ruolo la causa. Se ciò non avviene, è il convenuto (che ha già notizia della domanda giudiziale proposta nei suoi confronti) che può attivarsi in tal senso. In tali giudizi è dunque applicabile la regola secondo la quale se nessuna delle parti si costituisce iscrivendo a ruolo la causa, il processo non ha ragione di proseguire e si attiva il meccanismo dell'estinzione; se entrambe le parti si costituiscono si verifica la "normale" situazione di partecipazione attiva di entrambe le parti al processo. Può accadere invece che si costituisca una sola parte e che l'altra, non costituita, previe le necessarie verifiche da parte del giudice circa la regolarità dell'instaurazione del contraddittorio, sia dichiarata contumace.

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La contumacia è pertanto la situazione di inattività unilaterale nell'ambito del principio della disponibilità della tutela, che deriva dal mancato esercizio del potere-onere di costituzione di una parte e che va dichiarata previa verifica dei suoi presupposti. Il processo contumaciale è disciplinato dagli artt. 290 e ss. c.p.c. La disciplina citata si applica anche al processo del lavoro salvi gli opportuni adattamenti dovuti alle particolari caratteristiche di tale processo. Diversamente da quanto accade nel processo ordinario infatti il processo del lavoro inizia con il deposito del ricorso in cancelleria, vale a dire con l'atto di costituzione del ricorrente, motivo per il quale nel rito lavoro non è configurabile la contumacia del ricorrente medesimo. Detto in altre parole, nel processo del lavoro il "contraddittorio" con il giudice precede quello - rituale - con il convenuto. Per quanto riguarda il convenuto invece, la sua costituzione - come si è già visto - deve avvenire almeno dieci giorni prima dell'udienza mediante il deposito della memoria difensiva nel caso in cui il medesimo intenda proporre eventuali domande riconvenzionali, eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio nonché indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi. In caso contrario il convenuto può costituirsi direttamente all'udienza. La mancata costituzione del convenuto fonda la dichiarazione della sua contumacia con la conseguente applicabilità della disciplina propria del processo contumaciale. In particolare la legge si preoccupa dell'eventualità che la mancata costituzione del convenuto sia dipesa da irregolarità della notifica e pertanto ove il giudice ne rilevi il vizio dispone la rinnovazione della notificazione entro un termine perentorio. Se il convenuto non si costituisce neppure in tale ulteriore termine il giudice lo dichiara contumace e ciò fa anche ove non rilevi in prima battuta alcun vizio nella notificazione. Dopo la dichiarazione di contumacia il processo si svolge secondo le regole normali con alcune particolari disposizioni dettate per il processo in contumacia. In particolare, vi sono alcuni atti che, vista la loro importanza, devono essere portati a conoscenza della parte anche se non costituita. L'art. 292 c.p.c. stabilisce che: "l'ordinanza che ammette l'interrogatorio o il giuramento e la comparsa contenenti domande nuove o riconvenzionali da chiunque proposte sono notificate personalmente al contumace nei termini che il giudice fissa con ordinanza". Il contumace può poi costituirsi tardivamente ma non può più compiere atti che risultano ormai preclusi alle parti, anche se in considerazione della particolare posizione del contumace la legge prevede alcune eccezioni che consistono nella possibilità di disconoscere le scritture private prodotte contro di lui e nella c.d. rimessione in termini prevista dall'art. 294. Tale istituto consiste in un provvedimento del giudice che consente al contumace di compiere attività che gli sarebbero ormai precluse, a condizione che il contumace medesimo dimostri di non aver potuto partecipare tempestivamente al processo per nullità della citazione o della notifica o per altra causa a lui non imputabile. Ovviamente, se il contumace che si costituisce tardivamente non chiede o non ottiene la rimessione in termini, non può far altro che accettare il processo nello stato in cui si trova con la conseguenza che non può compiere attività già precluse alle parti.

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6. Questioni processuali e questioni di merito

6.1 Il mancato esperimento del tentativo di conciliazione

Improcedibilità del ricorso per mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione

Ai sensi dell'art. 410 c.p.c. chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti dall'art. 409 c.p.c. e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti ed accordi collettivi deve promuovere il tentativo di conciliazione presso la commissione di conciliazione individuata secondo i criteri di cui al successivo art. 413. Analoga disposizione è – come visto - contenuta con riferimento al personale alle dipendenze della pubblica amministrazione nell'art. 65 del D. Lgs. 165/2001. Si è già visto come il procedimento di conciliazione relativo ai rapporti alle dipendenze della pubblica amministrazione sia disciplinato dall'art. 66 D.Lgs. 165/2001. La proposizione del tentativo di conciliazione costituisce condizione di procedibilità del giudizio. L'improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto nella memoria ex art. 416 e può essere rilevata dal giudice non oltre l'udienza ex art. 420 (art. 412 bis) c.p.c.. In tali casi il giudice sospende il giudizio fissando alle parti un termine di 60 giorni per la proposizione della richiesta; decorso inutilmente l'ulteriore termine di 60 giorni dalla proposizione, il processo può essere riassunto entro il termine perentorio di 180 giorni; in difetto il giudice ne dichiara d'ufficio l'estinzione.

6.2 La giurisdizione

Inammissibilità della domanda per violazione dei limiti esterni alla giurisdizione (difetto assoluto di giurisdizione) – Inammissibilità della domanda per difetto di giurisdizione dell'AGO Difetto di giurisdizione dell'AGO

L'art. 420 comma 4 c.p.c. prevede che ove sorgano questioni attinenti alla giurisdizione o alla competenza o ad altre pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio, il giudice invita le parti alla discussione e pronuncia sentenza anche non definitiva dando lettura del dispositivo. Per quanto riguarda la giurisdizione in particolare, l'art. 37 c.p.c. prevede che il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della P.A. o dei giudici speciali è rilevato anche d'ufficio dal giudice in qualunque stato e grado del processo. Tale questione deve poi essere risolta dal giudice in via preliminare dal momento che la giurisdizione è uno dei presupposti del processo. La decisione del giudice sulla giurisdizione può poi essere oggetto di impugnazione mediante appello ed eventualmente ricorso per Cassazione. Il legislatore ha tuttavia previsto e disciplinato un procedimento che consente di risolvere velocemente e definitivamente la questione: il c.d. regolamento preventivo di giurisdizione. Ai sensi dell'art. 41 c.p.c., ciascuna parte, finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado, può chiedere alle sezioni unite della Cassazione che risolvano le questioni di giurisdizione di cui all'art. 37 c.p.c. Si tratta di un procedimento che non è strutturato come mezzo di impugnazione, in quanto non presuppone una pronuncia, neppure sulla giurisdizione (pronuncia che

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anzi non deve essere stata emessa), ma solo una contestazione della giurisdizione. Il procedimento ha la funzione infatti, ove si ponga questione su quello che è il presupposto processuale della causa (e cioè la giurisdizione), di consentire una sollecita definizione della questione stessa, affinchè la causa possa poi proseguire davanti al "giusto" giudice. Per quanto riguarda le forme con le quali si svolge il giudizio la legge richiama le normali forme del giudizio davanti alla Corte di Cassazione. Ciò significa che, ove la difesa del convenuto (l'istanza formulata dal ricorrente è certamente improbabile, poiché ad esso si deve la scelta del giudice, anche se non sarebbe inammissibile) intenda proporre il regolamento di giurisdizione dovrà farne richiesta all'Avvocatura Generale dello Stato (il ricorso come visto si propone avanti alla Corte di Cassazione ed esso rientra dunque nella competenza dell'Avvocatura Generale dello Stato) "prima che la causa sia decisa nel merito". Si deve avvertire dell'orientamento molto restrittivo assunto dalla giurisprudenza in ordine a tale termine: si è affermato che qualsiasi decisione, anche solo processuale, emanata dal giudice presso il quale il processo è radicato ha efficacia preclusiva del regolamento preventivo di giurisdizione (Cass. SS.UU., sent. n. 137 del 07/12/2000). Nel caso in cui venga proposto il regolamento di giurisdizione il giudice davanti al quale pende la causa ne dispone la sospensione, solo se non ritiene tale istanza manifestatamene inammissibile o la contestazione sulla giurisdizione manifestatamene infondata (art. 367 c.p.c.): le modifiche apportate al processo civile dalla riforma del 1990 hanno eliminato nel caso ogni automatismo nella sospensione del giudizio. Proposto il ricorso per Cassazione, una copia dello stesso notificata alle altre parti deve essere depositata nella cancelleria del giudice ove pende la causa. Il mancato deposito non influisce sul giudizio innanzi alla Corte di Cassazione, riguardando tale incombente solo il giudizio di merito. Il giudice avanti al quale pende la causa di merito decide sulla sospensione con ordinanza non impugnabile. Il giudice conserva il potere, pur dopo l'eventuale sospensione, di compiere atti indifferibili (per analogia ex art. 48 c.p.c.)

6.3 La competenza

Incompetenza territoriale del giudice adito

Tra le questioni pregiudiziali il quarto comma dell'art. 420 c.p.c. cita espressamente quelle sulla competenza. Tali questioni possono riguardare la competenza per territorio e la competenza per materia. Quanto alla competenza per territorio, l'art. 428 c.p.c., prevede che quando una causa relativa ai rapporti di cui all'art. 409 (e, attualmente, deve aggiungersi, anche a quelli di cui all'art. 63 del D.Lgs 165/2001) sia stata proposta a giudice incompetente, l'incompetenza può essere eccepita dal convenuto soltanto nella memoria difensiva di cui all'art. 416 - depositata nei dieci giorni precedenti l'udienza - ovvero rilevata d'ufficio dal giudice non oltre l'udienza di cui all'art. 420. Ai sensi dell'art. 413, comma 2, c.p.c. quando l'incompetenza sia stata tempestivamente eccepita o rilevata d'ufficio, il giudice rimette la causa al giudice del lavoro territorialmente competente, fissando un termine perentorio non superiore a trenta giorni per la riassunzione con rito speciale. Contro tale provvedimento che ha la forma di sentenza, è possibile proporre regolamento necessario di competenza ex art.

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42 c.p.c.. Il termine per proporre il regolamento, come anche il termine per la riassunzione della causa davanti al giudice indicato come competente, decorre non già dal giorno della lettura del dispositivo, bensì da quello della comunicazione alla parte dell'avvenuto deposito della motivazione. Riassunto il processo davanti al giudice territorialmente competente, il giudizio prosegue con tutte le relative conseguenze in tema di preclusioni. Se, per esempio, il convenuto che non abbia tempestivamente eccepito la prescrizione in sede di costituzione davanti al Tribunale originariamente adito, non potrà più sollevarla innanzi al giudice della riassunzione. L'inosservanza del termine perentorio fissato dal giudice dichiaratosi incompetente per la riassunzione comporta l'estinzione del giudizio la quale, pur operando di diritto, deve essere eccepita dalla parte che ne abbia interesse prima di ogni altra difesa ai sensi dell'art. 307, ultimo comma, c.p.c., non potendo invece essere rilevata d'ufficio dal giudice innanzi al quale il processo sia stato tardivamente riassunto; conseguentemente, nel caso in cui l'estinzione non sia stata tempestivamente eccepita, l'irritualità della riassunzione resta priva di effetto ed il giudizio prosegue regolarmente. Con riguardo alla competenza per materia, l'art. 427 c.p.c. stabilisce che il giudice, quando rileva che una causa promossa nelle forme proprie del rito del lavoro riguarda un rapporto diverso da quelli devoluti alla sua competenza per materia, deve verificare se la causa rientri comunque nella propria competenza e, in caso affermativo, dispone solamente che gli atti siano messi in regola con le disposizioni tributarie; in caso negativo, la rimette con ordinanza al giudice competente, fissando un termine perentorio non superiore a trenta giorni per la riassunzione con il rito ordinario. L'altra ipotesi, vale a dire il caso in cui una controversia in materia di lavoro pubblico o privato sia promossa non davanti al Tribunale in funzione di giudice del lavoro e nelle forme disciplinate dal titolo IV del libro II c.p.c., bensì nelle forme del processo civile ordinario è regolata dall'art. 426 c.p.c. il quale dispone che il giudice fissa con ordinanza l'udienza di cui all'art. 420 ed il termine perentorio entro il quale le parti dovranno provvedere all'eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memoria e documenti in cancelleria. L'ordinanza non è reclamabile né altrimenti impugnabile (neppure con regolamento di competenza), ma - in applicazione della disciplina generale delle ordinanze e, in particolare, dell'art. 177 c.p.c. - revocabile. Peraltro nulla esclude che alcune decadenze possano essersi verificate anche nella fase ordinaria della causa ed a norma del rito ordinario. Se ciò dovesse accadere, stabilisce la giurisprudenza che le decadenze già maturatesi restano ferme. Ad esempio, l'eventuale integrazione degli atti introduttivi nei termini fissati nell'ordinanza di mutamento del rito non consente alle parti la proposizione di domande nuove già irrimediabilmente precluse in conseguenza della mancata accettazione espressa del contraddittorio in ordine ad esse nella fase ordinaria.

6.4 Il litisconsorzio (necessario e facoltativo)

Violazione dell'art. 102 c.p.c.

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Tra le verifiche che il giudice deve compiere all'udienza ex art. 420 c.p.c. rientrano anche quelle che riguardano la regolarità del contraddittorio. In particolare, l'art. 102 c.p.c. stabilisce che se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo (litisconsorzio necessario). La partecipazione di tutti i soggetti è necessaria nel senso che condiziona il potere del giudice di pronunciarsi sul merito; proprio per questo la legge prevede che in difetto di tale partecipazione congiunta il giudice debba ordinare l'integrazione del contraddittorio in un termine perentorio (si veda Cass. Sez. Lav., sent. 20/01/1992 n. 650, Cass. Sez. Lav., sent. 27/12/1991 n. 13953, Cass. Sez. Lav., sent. 16/07/1991 n. 7855, Cass. Sez. Lav., sent. 10/04/1990 n. 3038). Il litisconsorzio può anche essere facoltativo quando esistono ragioni di opportunità per la partecipazione congiunta di più soggetti al medesimo processo; in tal caso la legge consente che i soggetti agiscano o siano convenuti nella stessa causa. Ciò accade nei casi di connessione oggettiva, vale a dire nei casi in cui tra le cause che si propongono esiste connessione per l'oggetto (petitum) o per il titolo (causa petendi) o in quel caso che viene definito di connessione impropria (quando vi è necessità di risolvere identiche questioni). L'ordine del giudice di integrazione del contraddittorio ha per scopo l'attuazione successiva del litisconsorzio. L'attuazione successiva del contraddittorio può poi verificarsi anche indipendentemente da un ordine di integrazione da parte del giudice ed indipendentemente dalla necessarietà del litisconsorzio. E' possibile infatti che uno o più soggetti decidano di entrare spontaneamente o non spontaneamente (mediante una chiamata in causa) in un processo già instaurato. Tale fenomeno viene definito intervento, può essere volontario o coatto (su istanza di parte o del giudice) ed è previsto e disciplinato dagli artt. 105 e ss. e 267 e ss. c.p.c.

6.5 La prescrizione

Secondo quanto previsto dall'art. 2934 c.c. ogni diritto si estingue per prescrizione quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge. Il giudice peraltro non può rilevare d'ufficio la prescrizione non opposta (art. 2939 c.c.). L'eccezione di prescrizione rientra in quelle che il codice definisce questioni di merito aventi carattere preliminare vale a dire questioni che non riguardano il rito (come nelle questioni di giurisdizione, competenza, capacità o legittimazione processuale, condizioni dell'azione...) ma che investono il merito con carattere preliminare rispetto all'oggetto specifico della domanda. Nel caso della prescrizione infatti è evidente che l'eventuale accoglimento della relativa eccezione renderebbe superfluo il giudizio sul fatto costitutivo del diritto affermato dall'attore.

7. L'articolazione dei mezzi di prova

Il processo civile (e così quello del lavoro, che ne costituisce parte) è regolato dal principio dispositivo nella sua attivazione (è la parte interessata a decidere di iniziare la causa) e nel suo svolgimento. Tale principio risulta evidente anche nella disciplina delle prove, rimessa all'iniziativa delle parti con limitati poteri di acquisizione d'ufficio del giudice. Questi i mezzi di prova previsti nel processo del lavoro:

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l'interrogatorio libero, l'interrogatorio formale, la prova testimoniale, la consulenza tecnica, il giuramento, la prova documentale e l'ordine di esibizione, l'accesso sul luogo di lavoro, la richiesta di informazioni alle organizzazioni sindacali.

7.1 L'interrogatorio libero

L'interrogatorio libero consente alla parte di parlare liberamente dei fatti di causa e consente al giudice di informarsi liberamente su tali fatti a prescindere dalle allegazioni delle parti. L'art. 117 c.p.c. ne dispone l'ammissibilità anche d'ufficio mentre l'art. 116, comma 2, ne determina l'efficacia probatoria, stabilendo che da esso il giudice può trarre argomenti di prova e quindi elementi che integrano le risultanze di altre prove. Nel processo del lavoro l'interrogatorio libero delle parti è uno degli incombenti localizzati ai sensi dell'art. 420 c.p.c. nell'udienza di discussione (o, comunque, nella prima udienza fra le plurime nelle quali si snoda il più delle volte il processo) ed è funzionale al tentativo di conciliazione della lite che il giudice deve pure esperire nella stessa sede. La mancata comparizione della parte per rendere l'interrogatorio libero, pur potendo costituire elemento di valutazione ai sensi dll'art. 116, comma 2, c.p.c. come sopra detto, generalmente, nel processo del lavoro, non produce alcuna conseguenza di alcun tipo. Ove la parte pubblica voglia comparire per rendere l'interrogatorio libero, essa delegherà un funzionario che sia informato dei fatti di causa (è inopportuno che si tratti dello stesso soggetto che svolge la difesa). La delega (che è sostanziale, come quella – già vista - necessaria per il tentativo di conciliazione stragiudiziale) deve provenire dal legale rappresentante dell'amministrazione parte in causa, deve essere formalizzata in un atto (da depositare agli atti del giudizio) e la sottoscrizione del delegante deve essere autenticata dall'ufficiale rogante o da un notaio. La complessità di tali regole rende ragione della rarità dell'espletamento dell'incombente in questione da parte delle amministrazioni pubbliche ed in particolare da parte di quelle statali.

7.2 L'interrogatorio formale

L'interrogatorio formale è diretto a provocare la confessione e può solo nuocere alla parte interrogata. Tale procedimento probatorio può essere disposto soltanto ad istanza della parte contrapposta a quella che deve essere interrogata. Ai sensi dell'art. 230 c.p.c. l'interrogatorio deve essere dedotto per articoli separati e specifici e quindi con riferimento a specifiche circostanza di fatto. La parte interrogata deve rispondere personalmente (valgono al riguardo le regole sopra ricordate per l'interrogatorio libero). Se la parte cui è deferito l'interrogatorio non si presenta o rifiuta di rispondere senza giustificato motivo, il giudice, valutato ogni altro elemento di prova può ritenere come ammessi i fatti dedotti nell'interrogatorio (art. 232 c.p.c.).

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7.3 La prova testimoniale

La testimonianza è la narrazione di fatti della causa compiuta da soggetti che non sono parti nel processo. L'attendibilità di questi soggetti è garantita dalle sanzioni penali previste nei confronti di questi soggetti per il caso di falsa testimonianza ma soprattutto è garantita dalla loro imparzialità. La prova per testi è sottoposta ad una serie di limiti previsti dagli artt. 2725 e ss. c.c. e deve essere dedotta mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata (art. 244 c.p.c.). Il testimone ha il dovere di deporre; tale dovere risulta indirettamente dalle sanzioni penali previste per il rifiuto di deporre o per la deposizione falsa reticente o manchevole, ma anche direttamente dall'art. 255 c.p.c. che nel caso di mancata presentazione dal testimone regolarmente intimato prevede una nuova intimazione per una nuova udienza ma attribuisce anche al giudice il potere di disporne l'accompagnamento coattivo. Il dovere di deporre comporta il dovere di comparire, di indicare le proprie generalità, di prestare giuramento e dire la verità (artt. 251 e 252 c.p.c.). La legge prevede espressamente casi nei quali il testimone può non deporre (artt. 200 e ss. c.p.p. richiamati dall'art. 249 c.p.c.) e casi in cui non può deporre (art. 246 c.p.c.). I difensori non possono interrogare direttamente i testimoni; a ciò provvede solo ed esclusivamente il giudice. Durante l'escussione, le parti possono tuttavia richiedere al giudice di porre al teste questioni integrative e precisazioni. Ove vi siano divergenze tra le deposizioni di uno o più testimoni il giudice su istanza di parte o d'ufficio può disporre che siano messi a confronto (art. 254 c.p.c.); se poi uno dei testimoni si riferisce per la conoscenza dei fatti ad altre persone, il giudice può disporre d'ufficio che queste siano chiamate a deporre (art. 257 c.p.c.). Il teste non deve essere incapace di testimoniare. L'incapacità è la situazione descritta dall'art. 246 c.p.c. in base al quale non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio. Ove capiti che il ricorrente indichi nel ricorso introduttivo come testi persone il cui "interesse" in causa sia evidente sin dal ricorso, l'amministrazione dovrà formulare apposita eccezione sin dalla memoria difensiva; ove la situazione di "interesse" nella causa si manifesti nel corso dell'escussione (ad esempio in sede di risposta alle domande preliminari che il giudice pone al teste ai sensi dell'art. 252 c.p.c.), il difensore dell'amministrazione deve fare constare a verbale immediatamente la propria opposizione alla escussione del teste. Non è causa di incapacità la situazione di parentela, la quale determina comunque una minore attendibilità del teste.

7.4 La consulenza tecnica

La consulenza tecnica non è propriamente un mezzo di prova nel senso che non ha la funzione di determinare direttamente il convincimento del giudice ma consente di offrire all'attività del giudice l'ausilio di cognizioni tecniche che generalmente il medesimo non possiede. Sarà ovviamente il giudice a stabilire quando è necessario l'ausilio del consulente (anche se le parti solitamente sollecitano il giudice in tal senso).

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La nomina del consulente tecnico (CTU) è compiuta dal giudice con ordinanza con la quale fissa altresì l'udienza per la comparizione del consulente, il suo giuramento nonché la formulazione del quesito. Il CTU assiste alle udienze alle quali è invitato dal giudice e compie anche fuori dalla circoscrizione giudiziaria, le indagini di cui all'art. 62 c.p.c., da solo o con il giudice; può essere autorizzato a chiedere chiarimenti alle parti, ad assumere informazioni da terzi e ad eseguire piante, calchi e rilievi (art. 194 c.p.c.). Allo svolgimento delle attività del CTU possono assistere le parti personalmente o a mezzo dei loro difensori o dei consulenti tecnici di parte (CTP). Il cancelliere deve depositare, all'esito delle proprie operazioni, una relazione scritta quale inserisce anche le osservazioni delle parti o dei consulenti di parte.

7.4 Il giuramento (artt. 233 e ss. c.p.c.)

Il giuramento è una dichiarazione compiuta da una delle parti sulla verità dei fatti di causa ma, diversamente dalla confessione, proviene dalla parte alla quale i fatti non nuocciono ma giovano. Il giuramento decisorio è quello che una parte deferisce all'altra per farne dipendere in tutto o in parte la decisione della causa; il giuramento suppletorio è quello che è deferito d'ufficio dal giudice ad una delle parti al fine di decidere la causa quando la domanda e le eccezioni non sono pienamente provate ma non sono neppure del tutto sfornite di prova. Esiste anche una sottospecie di giuramento suppletorio definito giuramento estimatorio che viene deferito al fine di stabilire il valore della cosa domandata se non si può definire altrimenti. Il giuramento ha un'efficacia probatoria molto forte: dopo aver constatato che la parte ha giurato il giudice non può far altro che dichiarare vittoriosa tale parte e soccombente l'altra, senza che quest'ultima possa essere ammessa a provare il contrario. Anche il giuramento, come l'interrogatorio, deve essere reso dalla parte personalmente. Oggetto del giuramento possono essere solo fatti rilevanti in maniera decisiva per l'esito della pronuncia su diritti disponibili; il giuramento non è inoltre ammesso su fatti illeciti o su contratti per la validità dei quali sia richiesta la forma scritta ad substantiam (vale a dire per la validità dell'atto), né per negare un fatto che da un atto pubblico risulti avvenuto alla presenza di un pubblico ufficiale che ha formato l'atto stesso (art. 2729 c.c.). Oggetto del giuramento deve comunque essere un fatto proprio della parte a cui si riferisce (giuramento de veritate) o quanto meno la conoscenza che essa ha di un fatto altrui (giuramento de scientia o de notizia).

7.5 La prova documentale e l'ordine di esibizione

Documenti sono tutti quegli "oggetti materiali" che sono in qualsiasi maniera idonei a rappresentare e dare conoscenza di un fatto. L'efficacia probatoria del documento varia in base al tipo. L'atto pubblico è definito dall'art. 2699 c.c. come quel documento redatto, con le richieste formalità, da notaio o altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l'atto è formato; fa piena prova fino a querela di falso della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato nonché delle

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dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuto in sua presenza o da lui compiuti (art. 2700 c.c.). Tale norma peraltro limita l'efficacia dell'atto a quegli elementi che costituiscono il c.d. estrinseco. Per quanto riguarda l'intrinseco, vale a dire il contenuto dell'atto, esso è certamente al di fuori dell'efficacia di prova legale e rientra quindi nella libera valutazione da parte del giudice ex art. 116 c.p.c. La scrittura privata invece, ai sensi dell'art. 2702 c.c. fa piena prova fino a querela di falso della provenienza delle dichiarazioni da chi l'ha sottoscritta se colui contro il quale la scrittura è prodotta, non ne disconosce la sottoscrizione ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta. In caso di disconoscimento della autenticità della sottoscrizione, sarà esperibile secondo i principi generali il procedimento di verificazione della scrittura privata (art. 214 ss. c.p.c.). Analogamente, nessun problema di coordinamento con la disciplina speciale delle controversie di lavoro si pone neppure per l'istituto della querela di falso (art. 221 c.p.c. ss.) come si vedrà in seguito. Esistono anche altri documenti (ad esempio i telegrammi) la cui efficacia probatoria è disciplinata dagli artt. 2705 e ss. c.c. Non costituiscono in ogni caso "documenti" i precedenti giurisprudenziali che la parte giudichi utili alla decisione (e quindi il loro deposito in giudizio – che tecnicamente non costituisce produzione - non resta assoggettato al regime delle preclusioni probatorie che si è visto): in tal caso opera infatti il principio iura novit curia (il giudice conosce il diritto), che riguarda le leggi e l'interpretazione delle stesse data dalla giurisprudenza, che entrano nel bagaglio professionale del giudice e dunque non costituiscono "fatti" da provare. Non così invece ove la sentenza attenga al rapporto controverso in causa (ad es. sentenza fra le stesse parti che costituisca oggetto di un'eccezione di giudicato): in tal caso la sentenza costituisce documento in senso tecnico-giuridico e ad esso si applica l'onere di tempestiva produzione. Va ricordato che dal principio iura novit curia esulano altresì i contratti collettivi, il cui deposito in giudizio è dunque onere della parte che intenda avvalersene. Il principio è certamente coerente con la natura del contratto collettiva, ben diversa per procedimento di formazione e per efficacia da quella delle fonti legislative e regolamentari per le quali è altresì previsto un meccanismo di pubblicità specificamente normato. Con riferimento ai contratti collettivi previsti dal D.Lgs. 165/2001, va detto che la pubblicazione degli stessi sulla Gazzetta Ufficiale potrebbe far riconsiderare la conclusione. Tuttavia, risulta consigliabile ed opportuno per l'amministrazione convenuta provvedere al deposito del contratto collettivo (dello stralcio) nella parte invocata (ciò sarà necessario solo ove le disposizioni invocate siano diverse da quelle invocate dall'amminitrazione). Sempre sulla stessa linea, al contrario, ove il ricorrente fondi le sue pretese su disposizioni del contratto collettivo e non provveda al corrispondente deposito, l'amministrazione potrà eccepire la mancata prova di un fatto costitutivo della pretesa. Le prove documentali entrano nel processo attraverso la produzione ad opera delle parti. Può accadere tuttavia che la parte che intende produrre un documento non ne sia in possesso; in particolare può accadere che il documento che potrebbe giovare ad una parte sia in possesso dell'altra parte o di un terzo. Gli artt. 210 e 211 c.p.c. attribuiscono al giudice il potere di ordinare l'esibizione di un

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documento o di un'altra cosa che si trovi in possesso dell'altra parte o di un terzo e di cui ritenga necessaria l'acquisizione al processo. La mancata osservanza dell'ordine di esibizione costituisce un esempio di comportamento processuale dal quale il giudice può trarre argomenti di prova ex art. 116 comma 2 c.p.c. Anche al di fuori dei casi previsti dagli artt. 210 e 211 c.p.c. il giudice può richiedere d'ufficio alla P.A. le informazioni scritte relative ad atti e documenti dell'amministrazione stessa che è necessario acquisire al processo (art. 213 c.p.c.).

7.5 L'accesso sul luogo di lavoro

Secondo quanto previsto dal terzo comma dell'art. 421 c.p.c. il giudice, su istanza di parte, dispone l'accesso sul luogo di lavoro se necessario al fine dell'accertamento dei fatti di causa. Tale mezzo di prova rappresenta un tipo particolare di ispezione giudiziale ex art. 118 c.p.c. La disciplina dell'art. 421 si distingue tuttavia da quella generale per la necessità dell'istanza di parte: il giudice del lavoro non può infatti disporre l'accesso sul luogo di lavoro a propria discrezione (come previsto dall'art. 118) ma può farlo solo se sia stata proposta apposita richiesta di una delle parti. La semplice istanza della parte non obbliga invece il giudice a disporre tale mezzo istruttorio; egli, anzi, può ammetterlo solamente se esso sia necessario al fine dell'accertamento dei fatti. Il procedimento è disciplinato dagli artt. 258-262 c.p.c. L'ispezione di persone o di cose diverse dal luogo di lavoro continua ad essere integralmente disciplinata dall'art. 118.

7.6 La richiesta di informazioni alle organizzazioni sindacali

Gli artt. 421, co. 2, e 425 c.p.c. prevedono la possibilità di chiedere informazioni e osservazioni alle organizzazioni sindacali. L'art. 421 in particolare consente al giudice di richiedere d'ufficio informazioni ed osservazioni, sia scritte che orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti; l'art. 425 stabilisce invece che, su istanza di parte, l'associazione sindacale indicata dalla stessa ha la facoltà di rendere in giudizio (anche sul luogo di lavoro ove sia stato disposto l'accesso: v. il secondo comma dell'articolo in esame), tramite un suo rappresentante, informazioni orali e scritte. La parte interessata deve formulare specifica istanza (art. 425, co. 1) o, comunque, indicare al giudice l'associazione sindacale alla quale vanno richieste le informazioni: il giudice non può rivolgere la richiesta ad associazioni diverse da quelle indicate dalle parti. La parte è tenuta ad indicare specificamente i quesiti cui debbono riferirsi le informazioni ed osservazioni, cosicché il giudice possa valutare la rilevanza o meno dell'oggetto delle medesime e, conseguentemente, disporre l'accoglimento o il rigetto dell'istanza. La scelta di colui che deve rendere le informazioni e le osservazioni è riservata all'organizzazione sindacale. L'organizzazione non è obbligata a rispondere alla richiesta del giudice o della parte; se rende oralmente le informazioni e le osservazioni in udienza è necessario che la persona incaricata sia munita di titolo giustificativo del potere di rappresentanza

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dell'organizzazione, restando esclusa la possibilità di verbalizzare notizie offerte da persone estranee alle associazioni e non espressamente indicate come legittimate a renderle. Le risposte dei sindacati sono prive di portata vincolante; si tratta di semplici dati informativi che il giudice valuta in assoluta libertà.

8. L'udienza

Secondo quanto previsto dal legislatore del 1973, il processo del lavoro dovrebbe esaurirsi in un'unica udienza che l'art. 420 c.p.c. chiama "udienza di discussione della causa". Nella prassi ciò si verifica raramente; in ogni caso, nonostante la tendenziale unità dell'udienza, è possibile distinguere al suo interno:

• una fase preliminare (che comprende la verifica della regolarità degli atti, della costituzione delle parti e dell'integrità del contraddittorio, l'interrogatorio libero delle parti, il tentativo giudiziale di conciliazione, l'ammissione delle prove);

• una fase istruttoria (dedicata all'assunzione delle prove);

• una fase decisoria (che comprende la discussione orale della causa e la sua decisione).

Con riguardo alla disciplina prevista dal codice per il processo ordinario si ritiene applicabile anche alle controversie di lavoro, il disposto dell'art. 84, co. 1, disp. att. c.p.c., secondo cui le udienze del giudice istruttore non sono pubbliche. Solamente il momento della discussione orale in senso stretto è pubblico (peraltro a pena di nullità: v. art. 128 c.p.c.): ne consegue che, fino all'apertura della discussione orale, ciascuna parte può legittimamente opporsi a che siano presenti nell'aula di udienza persone estranee alla causa (si veda AA.VV. a cura di V. Tenore, Le controversie sul pubblico impiego privatizzato e gli uffici del contenzioso, cit.). Oltre alle regole dettate dagli artt. 84 disp. att. e 128 c.p.c., all'udienza davanti al giudice del lavoro si applicano ovviamente anche le altre regole dettate dagli artt. 129 e 130 c.p.c.. in tema, rispettivamente, di doveri di chi interviene o assiste all'udienza e di redazione del processo verbale.

8.1 La verifica della regolarità degli atti

In primo luogo il giudice controlla la regolarità della costituzione delle parti. Se rileva eventuali difetti di rappresentanza, assistenza o autorizzazione, assegna un termine per la regolarizzazione. Ciò in base a quanto disposto dall'art. 182 c.p.c. che deve ritenersi richiamato, per il processo del lavoro, dall'art. 421, co. 1, a norma del quale "il giudice indica alle parti in ogni momento le irregolarità degli atti e dei documenti che possono essere sanate assegnando un termine per provvedervi, salvo gli eventuali diritti quesiti". Per quanto riguarda, in particolare, la difesa in giudizio delle Pubbliche Amministrazioni nelle controversie di pubblico impiego, dopo la modifica apportata dall'art. 19 D.Lgs. 387/1998 all'art. 417 bis, co. 1, c.p.c., non essendo più necessaria

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una delega al dipendente investito della difesa, l'accertamento della regolarità della costituzione dell'Amministrazione si ridurrà alla semplice esibizione, da parte del dipendente-difensore, di idonea documentazione del suo status di dipendente della Pubblica Amministrazione convenuta (ad esempio, attraverso l'esibizione del tesserino di riconoscimento). La norma processuale non impone alcuna qualifica particolare (ad esempio quella dirigenziale, come invece avviene nel caso del giudizio sul diritto di accesso agli atti amministrativi): è pertanto una questione tutta "interna" all'amministrazione l'identificazione del funzionario incaricato della funzione in questione. Il giudice accerta poi che tutte le parti necessarie del giudizio siano presenti nel giudizio medesimo. Se, per esempio, oggetto del giudizio è la collocazione in graduatoria di un dipendente e questi lamenti di essere stato pretermesso nell'affidamento di un contratto di lavoro chiedendo che il giudice ordini all'amministrazione di provvedere alla sua assunzione nel posto assegnato ad altro dipendente (a prescindere da ogni questione sulla giurisdizione dell'AGO), il giudice potrebbe/dovrebbe ritenere che entrambi i dipendenti siano presenti nel giudizio (si veda Questioni processuali e questioni di merito). Se il giudice riscontra l'incompletezza del contraddittorio, dispone l'integrazione nei confronti delle parti rimaste estranee, fissando una nuova udienza e disponendo che, entro il termine (da ritenere ordinatorio) di cinque giorni, siano notificati al terzo il suo provvedimento, il ricorso introduttivo e l'atto di costituzione del convenuto (art. 420, co. 9, c.p.c.). A tutte le notifiche provvede lo stesso ufficio. Il terzo chiamato in causa deve costituirsi non meno di dieci giorni prima della nuova udienza, depositando la propria memoria a norma dell'art. 416. Vigono pertanto anche per la costituzione del terzo chiamato in causa le stesse preclusioni che gravano sul convenuto.

8.2 La modifica delle domande

L'art. 420, co. 1, ultimo periodo c.p.c. prevede la possibilità per le parti di modificare, a determinate condizioni, le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate. In primo luogo ciò può avvenire solamente previa autorizzazione del giudice. In secondo luogo, si deve trattare di "modificazioni" (c.d. emendatio libelli) e non di vere e proprie "mutazioni" (c.d. mutatio libelli) delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni. Non sono quindi ammissibili domande nuove, vale a dire fondate su presupposti e fatti diversi da quelli esposti nell'atto introduttivo. E' per esempio una domanda nuova e come tale inammissibile la richiesta di accertamento della nullità del licenziamento per inosservanza della procedura di cui all'art. 7 L. 300/1970 rispetto alla domanda originaria tendente alla declaratoria di inefficacia per mancata comunicazione dei motivi ai sensi dell'art. 2 L. 604/1966. Al contrario è una mera modificazione della domanda e quindi è ammissibile l'ampliamento quantitativo della somma originariamente richiesta sempreché non comporti immutazione dei fatti posti a fondamento della pretesa e non introduca un tema di indagine nuovo. Ulteriore requisito richiesto dalla norma per l'autorizzazione alla modifica è l'esistenza di "gravi motivi". Questi non consistono solamente nell'impossibilità, per così dire "oggettiva", nel senso che non sono ravvisabili solamente quando la modifica della

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domanda discenda dalle novità di oggetto o di fatti introdotte nella causa dal convenuto, ma anche nell'impossibilità "soggettiva", vale a dire dovuta a condizioni proprie della stessa parte che chiede l'autorizzazione alla modifica, di apprestare un'adeguata difesa.

8.3 L'interrogatorio libero delle parti

Dopo aver verificato la regolarità della costituzione, il giudice procede all'interrogatorio libero delle parti che hanno l'obbligo di comparire alla prima udienza di trattazione della causa (art. 415, co. 2, c.p.c.). In particolare interroga le parti sui fatti di causa al fine di acquisire i chiarimenti e gli approfondimenti che ritiene opportuni sulle allegazioni contenute negli scritti difensivi. In questa maniera la causa si precisa meglio nel suo oggetto e nelle sue questioni e ragioni ed è possibile esperire con maggiore consapevolezza il tentativo di conciliazione, impostare la discussione circa la eventuale modifica delle domande e delle eccezioni già formulate, assumere le decisioni in ordine alle richieste istruttorie delle parti. Nel caso in cui, tuttavia, dovesse omettersi tale adempimento, nessuna conseguenza negativa è ipotizzabile sulla decisione finale della controversia. Infatti la giurisprudenza, pur riconoscendo che l'interrogatorio libero delle parti costituisce un adempimento doveroso per il giudice, nega che esso sia prescritto a pena di nullità. L'interrogatorio libero può essere reso anche dalla parte non costituitasi e dichiarata contumace e da quella costituitasi tardivamente. Stabilisce il secondo comma dell'art. 420 che le parti possono farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale che deve essere a conoscenza dei fatti della causa; la procura deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve attribuire al procuratore il potere di conciliare o transigere al controversia. Per quanto riguarda, in particolare, le Pubbliche Amministrazioni, è legittimato a partecipare all'udienza nella sua veste di parte il titolare del potere di rappresentanza dell'ente. Ad esso si aggiungono i dirigenti di uffici dirigenziali generali che, a norma dell'art. 16, co. 1, lett. f, D.Lgs. 165/2001, "promuovono e resistono alle liti ed hanno il potere di conciliare e transigere". Questi ultimi, a loro volta, potranno rilasciare procure generali o speciali a favore di altri dipendenti affinché intervengano alla prima udienza davanti al pretore al fine di rendere l'interrogatorio libero. Per quanto riguarda la forma di tali atti, si dovrebbe escludere la necessità dell'autenticazione della firma del dirigente delegante, considerato che essi hanno natura di atti pubblici e dunque fanno fede fino a querela di falso (così AA.VV. a cura di V. Tenore, Le controversie sul pubblico impiego privatizzato e gli uffici del contenzioso, cit.). Ovviamente, anche nel caso della Pubblica Amministrazione la delega deve contenere il conferimento del potere di conciliare e transigere la controversia. L'ultima parte del secondo comma dell'art. 420 c.p.c. dispone che la mancata conoscenza, senza gravi ragioni, dei fatti della causa da parte del procuratore è valutata dal giudice ai fini della decisone. Identica conseguenza è stabilita in caso di mancata comparizione della parte (primo comma, secondo periodo). Simili comportamenti non potranno giustificare di per sé soli la decisione del giudice in senso sfavorevole alla parte che li abbia posti in essere ma - con altri elementi - potranno concorrere alla formazione del convincimento del giudice. Analogamente a quanto previsto per la parte, il procuratore speciale di questa, pur

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dovendo rispettare l'obbligo di lealtà e probità stabilito dall'art. 88 c.p.c., non ha però quello (proprio dei testimoni) di dire la verità. Si ammette generalmente che la procura a rispondere all'interrogatorio libero possa essere rilasciata anche a favore del difensore tecnico (quindi, nel caso delle controversie di pubblico impiego, anche al dipendente investito dell'ufficio di difensore ex art. 417-bis c.p.c. che, in tal caso, avrà necessità di esibire un'idonea procura conferitagli dal dirigente). La persona che ha reso l'interrogatorio libero come procuratore può successivamente essere assunto come testimone. Quale efficacia probatoria hanno le dichiarazioni rese dalla parte in sede di interrogatorio libero? Dal punto di vista strettamente giuridico, l'art. 116, co. 2, c.p.c., dispone che il giudice possa desumere dalle risposte della parte solamente "argomenti di prova". Vale a dire che tali risposte non possono essere di per sé sufficienti a sorreggere la decisione sui fatti oggetto delle risposte, ma valgono quali strumenti logico-critici per valutare le prove tipiche (e quindi per confermarle o per disattenderle). Capita sovente, tuttavia, che le risposte rese dalla parte in sede di interrogatorio libero vengono spesso utilizzate, anche da sole, per fondare, in tutto o in parte, la decisione della causa. In particolare, la Suprema Corte ha stabilito che da tali risposte il giudice possa trarre elementi di convincimento su cui basare la decisione, ove non contraddetti da elementi probatori in senso contrario.

8.4 L'assunzione delle prove

L'art. 420 al comma 5 c.p.c. stabilisce che il giudice, nella stessa udienza, se li ritiene rilevanti, ammette i mezzi di prova già proposti dalle parti e quelli che le parti non hanno potuto proporre prima disponendo la loro immediata assunzione. Ove ciò non sia possibile fissa altra udienza non oltre dieci giorni dalla prima per l'assunzione dei medesimi. Nel processo del lavoro il giudice gode di poteri istruttori più ampi rispetto a quelli del processo ordinario: il giudice può disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova anche fuori dai limiti del codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio, nonché la richiesta di informazioni sia scritte che orali alle associazioni sindacali indicate dalle parti (art. 421 c.p.c.). Per l'analisi dei singoli mezzi di prova e della loro assunzione, si veda supra "articolazione dei mezzi di prova".

8.5 La lettura del dispositivo

Esaurita la fase istruttoria, il giudice invita le parti, nella stessa udienza, a discutere oralmente la causa e quindi pronuncia la sentenza. Se lo ritiene necessario, su richiesta delle parti, concede un termine non superiore a dieci giorni per il deposito di note difensive rinviando per la discussione all'udienza immediatamente successiva alla scadenza dei dieci giorni. Dopo la discussione orale il giudice decide la causa dando lettura del dispositivo in udienza. La sentenza deve poi essere depositata in cancelleria entro quindici giorni dalla pronuncia.

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9. Questioni particolari

La riunione delle cause

La querela di falso

L'accertamento pregiudiziale sull'efficacia, la validità e l'interpretazione dei contratti collettivi

La sospensione, l'interruzione e l'estinzione del processo

La correzione dei provvedimenti

9.1 La riunione delle cause

L'art. 273 c.p.c. prevede l'ipotesi in cui relativamente alla stessa causa siano proposti diversi procedimenti davanti allo stesso giudice (inteso nel senso di ufficio giudiziario); in tal caso il giudice ordina, anche d'ufficio la riunione dei procedimenti. Se i due procedimenti pendono innanzi al medesimo giudice istruttore il provvedimento verrà pronunciato da quest'ultimo, se invece i procedimenti pendono innanzi a due o più giudici diversi la riunione verrà disposta dal presidente. La riunione è poi possibile anche nel caso in cui invece vengano proposte davanti allo stesso giudice due o più cause tra loro connesse (art. 274); in tal caso il giudice può disporre anche d'ufficio la riunione. La differenza rispetto all'ipotesi di procedimenti relativi alla stessa causa è data del fatto che la connessione dà luogo solo ad un'eventuale opportunità di trattazione congiunta. L'art. 151 disp. att. c.p.c. prevede poi che la riunione ex art. 274 dei procedimenti relativi a controversie in materia di lavoro e di previdenza connesse anche solo per identità di questioni dalla cui risoluzione dipende, totalmente o parzialmente, la loro decisione deve essere sempre disposta dal giudice ad eccezione del caso in cui renda troppo gravoso o ritardi eccessivamente il processo.

9.2 La querela di falso (artt. 221-227 c.p.c.)

La querela di falso è l'unico strumento con il quale è possibile contestare le risultanze estrinseche dell'atto pubblico, della scrittura privata riconosciuta, autenticata o verificata, vale a dire quelle risultanze alle quali la legge attribuisce efficacia di prova legale. Rispetto al giudizio di verificazione della scrittura privata (di cui si è già trattato nell'ambito della sezione riguardante le prove documentali) la querela di falso ha un oggetto più ampio: con tale procedura infatti si possono far valere anche le falsità ideologiche che riguardano l'estrinseco (es: notaio che attesta falsamente una dichiarazione compiuta davanti a lui); la querela inoltre riguarda sia l'atto pubblico che la scrittura privata e non solo quella autenticata o riconosciuta ma anche quella sulla quale si sia già svolto il giudizio di verificazione. La querela di falso può proporsi sia in via principale che in corso di causa in qualunque stato e grado del giudizio finché la verità del documento non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato. La legge, in considerazione della gravità di tale giudizio e delle sue conseguenze, lo riserva alla competenza esclusiva del Tribunale; l'art. 221 stabilisce che la querela va

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proposta personalmente e che è obbligatorio l'intervento del Pubblico Ministero. Sulla querela di falso pronuncia sempre il collegio con sentenza.

9.3 L'accertamento pregiudiziale sull'efficacia, la validità e l'interpretazione dei contratti collettivi

L'art. 63 del D.Lgs. 165/2001 sancisce che "sono devolute al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni", con l'eccezione delle controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, che restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo. Sono devolute alla competenza del giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro anche tutte le controversie relative al comportamento antisindacale delle pubbliche amministrazioni, ai sensi dell'art. 28 della L. 300/1970, e tutte le controversie relative alla contrattazione collettiva. Il giudice può adottare nei confronti delle pubbliche amministrazioni tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi o di condanna richiesti dalla natura dei diritti tutelati. L'art. 64 del D.Lgs. 165/2001 stabilisce che quando in "una controversia individuale di cui all'art. 63 è necessario risolvere in via pregiudiziale una questione concernente l'efficacia, la validità o l'interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale sottoscritto dall'Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni - ARAN - ai sensi dell'art. 40 e ss.", il giudice investito dalla controversia non può decidere la questione, ma deve rimetterla alle stesse parti stipulanti affinché verifichino, entro un breve lasso di tempo (90 giorni), la possibilità di raggiungere un accordo "sull'interpretazione autentica del contratto o accordo collettivo, ovvero sulla modifica della clausola controversa". A tal fine, il giudice, con ordinanza non impugnabile, determina la questione da risolvere, fissa una nuova udienza di discussione non prima di 120 giorni e dispone che copia dell'ordinanza, del ricorso introduttivo e della memoria difensiva vengano comunicate all'ARAN a cura della cancelleria. Se l'accordo in sede sindacale non viene raggiunto, o sia decorso inutilmente il termine di 90 giorni, il giudice deve pronunciare sentenza parziale sulla sola questione pregiudiziale relativa al contratto collettivo. Tale sentenza è "impugnabile soltanto con ricorso immediato per Cassazione proposto nel termine di 60 giorni dalla comunicazione dell'avviso di deposito della sentenza". Il termine è molto stringato e la comunicazione dell'avvenuto deposito che avviene con biglietto di cancelleria è un atto così poco solenne da poter passare inosservato: è dunque necessario che l'amministrazione presti molta attenzione, nell'ipotesi di sentenza a sé sfavorevole, ad essere molto sollecita nell'informare della questione direttamente l'Avvocatura Generale dello Stato (organo competente alle valutazioni circa l'opportunità di proporre ricorso per Cassazione ed alla eventuale proposizione del ricorso stesso), trasmettendo ad essa copia autenticata della sentenza unitamente a tutti gli atti del giudizio. Il ricorso, oltre che per i motivi previsti dall'art. 360 c.p.c., può essere proposto, secondo quanto dispone l'art. 63 comma 5, "anche per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di cui all'art. 40". L'impugnazione può essere proposta anche dall'ARAN e dalle organizzazioni sindacali

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firmatarie, che siano intervenute nel giudizio (art. 63 comma 5), e determina, dal momento di deposito in cancelleria di una copia del ricorso notificato alle altre parti, la sospensione necessaria del processo di merito (che va poi riassunto entro il termine perentorio di 60 giorni dalla comunicazione della sentenza di Cassazione). La disposizione in questione è stata dichiarata costituzionalmente legittima con sentenza della Corte Costituzionale (sent. n. 199 del 23/05/2003) che ha individuato come necessari e sufficienti all'attivazione del procedimento in questione, i seguenti elementi:

1) la rilevanza della questione ai fini della decisione (la norma del contratto collettivo è applicabile al caso sub iudice); 2) la serietà della questione interpretativa (la questione oggetto del giudizio eccede la controversia pendente e, dunque, questa è "l'occasione per pervenire ad una definitiva, purché potenzialmente definitiva soluzione della questione e, quindi, alla rimozione erga omnes della situazione di incertezza posta in evidenzia dalla controversia", così testualmente la sent. cit.); 3) assenza di questioni di rito o di merito che impongano la definizione in altro modo (diverso dalla decisione di merito) della controversia.

9.4 La sospensione, l'interruzione e l'estinzione del processo

La disciplina del processo del lavoro lascia in vigore quella del procedimento ordinario di cognizione per tutti quegli aspetti e quelle disposizioni che non sono esplicitamente o implicitamente derogate. In particolare si applicano le disposizioni previste per il processo ordinario in materia di nullità, di termini e relative decadenze, ed anche per la sospensione, l'interruzione e l'estinzione del processo, con gli opportuni adattamenti dovuti alle particolari caratteristiche del rito lavoro. Per quanto riguarda la sospensione, essa consiste in un arresto dell'iter processuale dovuto ad un evento determinato. In particolare la sospensione è disposta dal giudice a seguito di istanza concorde delle parti (art. 296) o nel caso in cui sussista un rapporto di pregiudizialità per il quale la decisione della causa in corso dipenda dalla soluzione di altra controversia da decidersi dallo stesso o da altro giudice (art. 295). Nel caso di istanza di parte la sospensione è detta volontaria e può essere disposta dal giudice istruttore per un periodo non superiore a quattro mesi. Nel secondo caso invece la sospensione è necessaria. Durante la sospensione non possono essere compiuti gli atti del procedimento; la sospensione interrompe i termini i quali ricominciano a decorrere dalla nuova udienza. Dopo la sospensione il processo riprende il suo corso; ove il provvedimento che l'ha disposta non abbia indicato la nuova udienza le parti devono chiedere la fissazione della medesima entro il termine perentorio di sei mesi che, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 34 del 1970 non decorre dalla cessazione della causa di sospensione ma dal momento della conoscenza che la parte ha avuto di tale cessazione. Anche l'interruzione consiste in una stasi del processo come la sospensione ma sono diversi gli eventi che la causano. Tali eventi sono elencati agli artt. 299 e ss. c.p.c. La prosecuzione del processo si attua attraverso la costituzione spontanea (art. 302 c.p.c.) o la citazione in riassunzione di coloro ai quali spetta di proseguire il processo (art. 303 c.p.c.) e deve avvenire nel termine di sei mesi altrimenti il processo si estingue.

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L'estinzione infine avviene per rinuncia agli atti del giudizio (art. 306) ovvero per inattività delle parti (art. 307 c.p.c.). Ai sensi dell'art. 310 c.p.c. l'estinzione del processo non estingue l'azione; è quindi possibile che l'azione per far valere quello stesso diritto sia riproposta con l'introduzione di un altro processo. L'estinzione rende inoltre inefficaci gli atti compiuti ma non le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo. L'art. 310 fa salva anche l'efficacia delle sentenze che regolano la competenza vale a dire quelle sentenze pronunciate in sede di regolamento di competenza dalla Cassazione alle quali si ritengono assimilate quelle della Cassazione in sede ordinaria ma non quelle dei giudici di merito in materia di competenza o giurisdizione. Quanto alle prove assunte nel corso del processo estinto, esse sono valutate dal giudice a norma dell'art. 116, comma 2 e quindi come argomenti di prova.

9.5 La correzione dei provvedimenti

Qualora il giudice sia incorso in omissioni o errori materiali o di calcolo le parti possono richiedere la correzione delle sentenze contro le quali non sia stato proposta appello (art. 287 c.p.c.). Ove la correzione sia richiesta da tutte le parti il procedimento è molto semplice ed è previsto dall'art. 288, primo comma c.p.c.; nel caso in cui l'istanza sia proposta da una sola delle parti l'art. 288, comma 2, prevede che il giudice con decreto in calce al ricorso fissi una udienza di comparizione; ricorso e decreto vengono poi notificati all'altra parte. All'udienza il giudice provvede con ordinanza che va annotata sull'originale del provvedimento. Il procedimento di correzione può essere utilizzato anche per le ordinanze e i decreti purché non revocabili (ad esempio il decreto ingiuntivo).

10. La sentenza

Nei quindici giorni successivi alla lettura del dispositivo, il giudice deve depositare in Cancelleria la sentenza, completa di motivazione. Ai sensi dell'art. 282 c.p.c.le sentenze pronunciate dal giudice del lavoro, favorevoli o meno al lavoratore, sono ormai tutte provvisoriamente esecutive. Tuttavia le sentenze contemplate nel co. 1 dell'art. 431 c.p.c., vale a dire quelle di condanna emesse a favore del lavoratore e riguardanti crediti derivanti dal rapporto di lavoro, comunque si distinguono dalle altre in quanto solo a quelle si applica il disposto del secondo comma dello stesso art. 431 secondo il quale all'esecuzione si può procedere con la copia del dispositivo, in pendenza del termine per il deposito della sentenza. Tale privilegio si applica anche ai dipendenti pubblici in caso di condanna della Pubblica Amministrazione al pagamento di somme di denaro. La P.A. potrà solo chiedere al giudice di appello la sospensione dell'esecuzione dimostrando che da tale esecuzione potrebbe derivarle un "gravissimo danno" (art. 431, co. 3 c.p.c.). Del deposito della sentenza in cancelleria vene dato avviso alla parte nel domicilio eletto. Se la sentenza è favorevole all'amministrazione, l'eventuale impugnazione da parte del dipendente, dovendo essere notificata presso l'Avvocatura dello Stato secondo le regole speciali che riacquistano integrale applicazione, verrà conosciuta dall'Avvocatura dello Stato, la quale provvederà a richiedere la documentazione di cui

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sopra necessaria per la difesa nel giudizio di appello. Se, in ipotesi, l'appello dovesse essere notificato presso gli uffici dell'amministrazione, questa provvederà comunque a trasmettere all'Avvocatura dello Stato la stessa documentazione. La giurisprudenza (Cass. lav. 24281/2008, 4690/2008) si è orientata a considerare che, nel caso di patrocinio ex art. 417 bis c.p.c., ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione la sentenza debba essere notificata nel domicilio eletto dal dipendente nel primo grado di giudizio e non presso l’Avvocatura dello Stato.

Se, al contrario, la sentenza è sfavorevole (in tutto o in parte) all'amministrazione, è questo il momento in cui l'Avvocatura dello Stato si deve interessare nuovamente della questione: l'amministrazione dovrà infatti provvedere a trasmettere all'Avvocatura tutto ciò che serve perché questa possa formulare il parere di competenza in ordine all'eventuale impugnazione delle sentenza. Ciò che serve è, in sostanza:

• la sentenza in copia autenticata dalla cancelleria (nel giudizio di appello, l'appellante deve depositare la sentenza in questa forma);

• gli atti difensivi dell'amministrazione (memoria difensiva, eventuali note o memorie autorizzate dal giudice nel corso del giudizio) e quelli del ricorrente (ivi incluso, nuovamente, il ricorso introduttivo);

• i documenti eventualmente prodotti in giudizio (sia da parte dell'amministrazione che da parte del ricorrente);

• la copia integrale del verbale del giudizio;

• la valutazione dell'amministrazione circa l'eventuale seguito processuale della vertenza.

Tutto ciò deve pervenire all'Avvocatura dello Stato in tempo utile per l'eventuale proposizione dell'appello, che è di un anno solare (e cioè senza l'inclusione nel computo della sospensione feriale dei termini che va dal 1 agosto al 15 settembre) decorrente dalla data del deposito della sentenza (data che compare in calce alla sentenza e che viene riportata nel biglietto di cancelleria con cui viene dato l'avviso di avvenuto deposito della sentenza) o di trenta giorni dalla notificazione della sentenza ad istanza della controparte vittoriosa (art. 434 c.p.c.)

Un'ipotesi particolare è costituita dalla sentenza parziale o non definitiva. E' possibile infatti (art. 279 c.p.c.) che il giudice nel corso del giudizio decida con sentenza, senza definire integralmente la materia del contendere e dunque il giudizio,

1) la questione di giurisdizione o di competenza (che siano state sollevate dalle parti o, come accade per la giurisdizione, che il giudice rilevi d'ufficio), o

2) altre questioni pregiudiziali (ad esempio quella di difetto di rappresentanza della parte), o

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3) questioni preliminari di merito (ad esempio quelle afferenti alla legittimazione), o ancora

4) alcune (ma non tutte) questioni di merito (ad esempio il giudice ritiene di potere accertare l'esistenza del diritto fatto valere, ritiene cioè di potere decidere sull'an, sul "se" del diritto, ma di non potere ancora decidere ad esempio sul quantum, sulla quantificazione del diritto: ad esempio, nell'ipotesi di causa avente ad oggetto il diritto ad una somma di denaro, il giudice può ritenere dovuta la somma, ma può ritenere ancora incerta la sua quantificazione).

In tali casi, il giudice emana una sentenza parziale (generalmente, nella sentenza tale funzione è esplicitata dalla formulazione letterale: ad es. "il giudice, decidendo parzialmente la controversia, così dispone…") e, con distinto provvedimento (ordinanza) dispone circa la prosecuzione del giudizio (ad esempio, nell'ipotesi sub 4), il giudice emanerà una sentenza in cui accerta l'esistenza del diritto fatto valere e con separata ordinanza, disporrà per il seguito del giudizio, ad esempio ammettendo o disponendo l'acquisizione di una consulenza tecnica d'ufficio per la determinazione del quantum). In tali casi, la sentenza è una sentenza, con la conseguenza che se non impugnata nei termini di cui sopra, non sarà più possibile farne oggetto di impugnazione successivamente, allorché il giudice emani la (seconda) sentenza che definisce il giudizio. La legge (art. 340 c.p.c.) acconsente che contro le sentenze parziali o non definitive sia possibile differire l'appello alla definizione del giudizio (e cioè impugnando la sentenza parziale insieme a quella definitiva). Per potersi garantire tale possibilità, tuttavia, è necessario che la parte soccombente (in ordine alla sentenza parziale) faccia riserva di appello a pena di decadenza entro il termine per appellare e, in ogni caso, non oltre la prima udienza dinanzi al giudice successiva alla comunicazione della sentenza stessa. Tale atto (la riserva di appello) e la sua tempestività sono fondamentali per garantire alla parte soccombente la possibilità di impugnare la sentenza parziale, altrimenti la stessa passerà in giudicato. Con riferimento al termine, si osserva che ove questo scadesse prima dell'udienza fissata dal giudice per la prosecuzione del giudizio (ad esempio, ove la parte vittoriosa abbia notificato tale sentenza), sarà necessario provvedere a formulare la riserva di impugnazione con atto da notificare alla controparte. Se la sentenza (parziale o definitiva) non viene impugnata nel termine di cui sopra, la stessa passa in giudicato (art. 324 c.p.c.), vale a dire diviene irrevocabile ed irretrattabile (salvo il caso della revocazione di cui all'art. 395 c.p.c.).

11. Le spese di lite

Ciascuna delle parti provvede alle spese degli atti che compie e di quelli che chiede anticipandone il relativo onere. L'art. 91 c.p.c. prevede poi che il giudice con la sentenza che chiude il processo condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa. Il giudice può ridurre la ripetizione di spese ritenute eccessive o superflue e può sanzionare il comportamento in violazione dei doveri di cui all'art. 88 c.p.c.

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indipendentemente dalla soccombenza. Può altresì compensare parzialmente o integralmente le spese sia nei casi di soccombenza reciproca sia se ritiene sussistenti giusti motivi. L'art. 96 c.p.c. disciplina invece la responsabilità aggravata vale a dire il caso in cui la parte abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, ponendola a fondamento di un autentico risarcimento dei danni. La giurisprudenza è oscillante circa il riconoscimento all'amministrazione che si difenda ex art. 417 bis c.p.c. il diritto alla liquidazione delle spese di lite.

12. L'esecuzione della sentenza

Dispone l'art. 431 c.p.c. che le sentenze che pronunciano condanna a favore del lavoratore per crediti di lavoro sono provvisoriamente esecutive (primo comma) e che all'esecuzione si può procedere con la sola copia del dispositivo in pendenza del termine per il deposito della sentenza (secondo comma). Poiché a seguito dell'entrata in vigore della legge 26/11/1990, n. 353 tutte le sentenze civili sono state rese provvisoriamente esecutive (art. 282 c.p.c. nel testo novellato), la disposizione sopra richiamata ha perso molta parte della sua specialità. La possibilità per il lavoratore di procedere all'esecuzione in base al dispositivo presuppone che questo riconosca un credito oltre che certo ed esigibile anche liquido e cioè di ammontare determinato o determinabile mediante un calcolo matematico i cui elementi risultino già dal dispositivo. Molto si è discusso e si discute circa le modalità di esecuzione delle sentenze del giudice del lavoro contro la pubblica amministrazione, nel silenzio sul punto del legislatore che ha contrattualizzato il rapporto di lavoro pubblico. I problemi sul tappeto attengono a due aspetti:

da un lato, alla sopravvivenza di limiti alle ordinarie forme di esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali derivanti dalla natura pubblica del soggetto obbligato;

dall'altro lato, alla possibilità di una tutela del lavoratore pubblico, "aggiuntiva" rispetto a quella ordinaria, derivante dall'attivazione del giudizio di ottemperanza davanti al giudice amministrativo.

(Si veda ALBENZIO L'esecuzione delle sentenze del giudice del lavoro nei confronti della pubblica amministrazione e IARIA L'ambito oggettivo della giurisdizione del giudice del lavoro e del giudice amministrativo dopo i decreti legislativi n. 80 e n. 387 del 1998)

12.1 Le modalità di esecuzione della sentenza dinanzi al giudice ordinario

La sentenza emessa nei confronti della pubblica amministrazione datore di lavoro, ove questa non vi dia esecuzione spontaneamente, può avvenire nelle forme dell'esecuzione forzata previste dal codice di procedura civile. E' bene ricordare che le sentenze, con riferimento al contenuto, possono distinguersi in:

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sentenze di mero accertamento, sentenze di condanna al pagamento di una somma di denaro, sentenze di condanna a fare o non fare, sentenze costitutive

In relazione ai diversi tipi di sentenza, il codice di procedura civile prevede diversi tipi di processi di esecuzione. Ogni forma di esecuzione, comunque, presuppone avvenuta:

la notificazione del titolo esecutivo (e cioè, nel caso di processo del lavoro, del dispositivo o della sentenza), nonché la notificazione dell'atto di precetto.

Ad essi segue:

il pignoramento, ed ancora a seguire, gli altri atti esecutivi.

Tali atti assumono forme diverse a seconda del tipo di esecuzione. Alcuni aspetti dell'esecuzione si sono già affrontati a proposito del verbale di conciliazione e degli effetti esecutivi ad esso riconosciuti. Occorre qui ricordare che il titolo esecutivo giudiziale, nelle controversie di lavoro, può essere costituito tanto, come visto, dal dispositivo della sentenza quanto dalla sentenza, in base alla regola generale che vuole la sentenza come il primo fra i titoli esecutivi (art. 474 c.p.c.). Il titolo astrattamente idoneo a costituire titolo esecutivo deve essere "spedito in forma esecutiva", deve cioè essere munito della formula esecutiva (art. 475 c.p.c.). Ai fini dell'esecuzione forzata, l'esistenza del titolo esecutivo non è sufficiente: esso deve essere notificato al debitore: la notifica del titolo esecutivo va effettuata alla parte personalmente (art. 479 c.p.c.), ma se il titolo è costituito da sentenza la notificazione entro l'anno dalla sua pubblicazione può essere fatta a norma dell'art. 170 c.p.c. (e cioè al procuratore costituto). Con riferimento all'amministrazione dello Stato che si sia difesa in giudizio ex art. 417 bis c.p.c. eleggendo domicilio in luogo diverso dall'ufficio dell'Avvocatura dello Stato, la notificazione del titolo effettuata nei termini di cui all'art. 479 c.p.c. presso tale diverso luogo sarà a fortiori da considerare rituale ai fini dell'eventuale instaurazione del processo esecutivo. Una precisazione è d'obbligo, a proposito della notificazione dei titoli esecutivi in questione. La notificazione in forma esecutiva del dispositivo (vale a dire, del dispositivo a cui è stata apposta la formula esecutiva) costituisce atto necessario e prodromico all'esecuzione forzata, ma non ha anche ulteriori effetti circa il termine per l'impugnazione della sentenza. Tali effetti sono invece connessi e conseguenti alla notificazione della sentenza in forma esecutiva: quest'ultima, oltre che essere anch'essa atto necessario e prodromico all'esecuzione forzata, ha anche l'effetto di fare decorrere il termine breve per l'impugnazione della sentenza stessa e, dunque, contribuisce ad accelerare il termine per il suo passaggio in giudicato. Si è già detto che a tali fini, il luogo di notificazione rituale della sentenza dovrebbe essere rappresentato dagli uffici dell'Avvocatura dello Stato territorialmente

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competente (dovendo ritenersi che riacquistino rilievo le disposizioni sul patrocinio obbligatorio del difensore erariale, a cominciare dal domicilio legale presso gli uffici di quest'ultimo), ma che è comunque opportuno, ove la notificazione della sentenza sia effettuata presso gli uffici dell'amministrazione, darne comunicazione immediata all'Avvocatura dello Stato al fine della valutazione circa l'eventuale prosecuzione del giudizio in appello. L'esecuzione presuppone inoltre l'atto di precetto e la sua notificazione. Il precetto consiste nella formale intimazione al debitore di adempiere l'obbligo portato dal titolo esecutivo entro un termine "non minore di dieci giorni" (art. 480 c.p.c.). Il precetto va notificato alla parte personalmente. La parte esecutata può proporre opposizione all'esecuzione nei casi e nelle forme di cui all'art. 615 c.p.c. ed opposizione agli atti esecutivi nei casi, nelle forme e nei termini di cui all'art. 617 c.p.c. Tali opposizioni, con l'eccezione dell'opposizione al precetto proposta prima del pignoramento, dovrebbero esulare dalla competenza del giudice del lavoro. Ne consegue che a stretto rigore interpretativo a tali giudizi non può ritenersi applicabile l'art. 417 bis c.p.c. e dunque la possibilità di patrocinio difensivo ad opera del funzionario dell'amministrazione, bensì la regola generale del patrocinio erariale. Pertanto, ove l'amministrazione intenda proporre opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi nei termini predetti sarà necessario avvertire l'Avvocatura dello Stato alla quale spetterà formulare le valutazioni di propria competenza in ordine all'azione in questione.

Sentenze di accertamento

Le sentenze di accertamento si limitano ad affermare il diritto fatto valere con la domanda giudiziale (ad es. il diritto al compenso per lavoro straordinario; il diritto ad una qualifica; ecc.) oppure ad affermare l'inesistenza del diritto (nel caso, si tratta di sentenze di rigetto). Intesa in tal senso, la sentenza di accertamento non ha bisogno di esecuzione forzata, essendo sufficiente l'accertamento contenuto nella sentenza a realizzare la soddisfazione dell'interesse del ricorrente ad ottenere il bene della vita sotteso alla domanda giudiziale. Nella quasi totalità dei casi, la domanda di accertamento di un diritto si accompagna ad una domanda di condanna (al pagamento di una somma di denaro) o di ordine al convenuto di (fare o non fare) una determinata azione, essendo in detti casi l'accertamento del diritto strumentale e presupposto alla ulteriore pronuncia richiesta al giudice.

Sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro

Per il pagamento delle somme di denaro da parte della P.A. vale la regola posta dall'art. 14 del D.L. 31/12/1996 n. 669 convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 28 febbraio 1997, n. 30 come modificato dall'art. 147, L. 23 dicembre 2000, n. 388 e dal comma 3 dell'art. 44, D.L. 30 settembre 2003, n. 269, come modificato dalla relativa legge di conversione, che dispone: "Le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non economici completano le procedure per l'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l'obbligo di pagamento di somme di danaro entro il termine di centoventi giorni dalla notificazione

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del titolo esecutivo. Prima di tale termine il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né alla notifica di atto di precetto ... Nell'ambito delle amministrazioni dello Stato, nei casi previsti dal comma 1, il dirigente responsabile della spesa, in assenza di disponibilità finanziarie nel pertinente capitolo, dispone il pagamento mediante emissione di uno speciale ordine di pagamento rivolto all'istituto tesoriere, da regolare in conto sospeso". La norma in questione prevede dunque un termine dilatorio per l'inizio dell'esecuzione forzata nei confronti dell'amministrazione pubblica. Per i problemi connessi al coordinamento del termine di cui alla citata legge con il termine ordinario di efficacia dell'atto di precetto ai sensi dell'art. 481 c.p.c. (novanta giorni dalla sua notificazione), si veda il parere dell'Avvocatura Generale dello Stato prot. n. 79788 del 01/08/2002. Le forme più tipiche di esecuzione in relazione alla condanna dell'amministrazione al pagamento di somme di denaro dovute al lavoratore sono quelle dell'esecuzione mobiliare presso l'amministrazione ai sensi degli artt. 513 e ss. c.p.c. ovvero quelle dell'esecuzione presso terzi (generalmente la Banca d'Italia) ai sensi degli artt. 547 e ss. c.p.c. Nell'uno e nell'altro caso, il pignoramento incontra il limite dell'indisponibilità delle somme assoggettate ad esecuzione derivante da specifiche norme di legge o da specifici atti di impegno e di destinazione delle stesse somme, non essendo invece rilevante una aspecifica e generica destinazione delle somme al fine pubblico.

Sentenze di condanna a fare o a non fare

La forma di esecuzione generalmente praticata (o tentata) dal lavoratore che abbia avuto una pronuncia costitutiva a proprio favore (sentenza di reintegrazione nel posto di lavoro; sentenza di condanna alla adibizione a determinate mansioni lavorative, ecc.) è quella prevista dall'art. 612 c.p.c. Va preliminarmente ricordato come questa forma di esecuzione presupponga quale titolo esecutivo una sentenza (di condanna), a cui la Corte Costituzionale n. 336 del 12/07/2002 ha equiparato il verbale di conciliazione giudiziale ex art. 420 c.p.c.. Quand'anche fondata su sentenza, la percorribilità di simile azione nei casi esemplificati (reintegrazione nel posto di lavoro, assegnazione delle mansioni) può astrattamente essere posta in dubbio, allorché si consideri che la stessa non possa avere ad oggetto azioni o comportamenti del datore di lavoro di contenuto incoercibile. La giurisprudenza di legittimità ha infatti già da tempo risalente escluso la legittimità del ricorso all'esecuzione ex art. 612 c.p.c. ove la realizzazione dell'interesse del creditore comporti un indispensabile ed insostituibile comportamento attivo del datore di lavoro di carattere organizzativo-funzionale, consistente, ad esempio, nell'impartire al dipendente le opportune direttive, nell'ambito di una relazione di reciproca ed infungibile collaborazione. Il limite descritto che enfatizza l'infungibilità di alcune prestazioni del datore di lavoro poggia sul principio, costituzionalmente tutelato, della libertà dell'organizzazione d'impresa derivante dall'art. 41 Cost. La dottrina che ha vagliato il problema in questione in relazione al datore di lavoro pubblico ha ritenuto di potere enucleare un ambito di infungibilità del comportamento di quest'ultimo come fondato e tutelato non dall'art. 41 Cost., bensì dall'art. 97 Cost., ammettendo dunque la percorribilità dell'esecuzione ex art. 612 c.p.c. solo nei limiti in

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cui la prestazione del datore di lavoro, necessaria a dare concreta soddisfazione al creditore, possa ritenersi fungibile e coercibile (si veda ALBENZIO L'esecuzione delle sentenze del giudice del lavoro nei confronti della pubblica amministrazione e IARIA L'ambito oggettivo della giurisdizione del giudice del lavoro e del giudice amministrativo dopo i decreti legislativi n. 80 e n. 387 del 1998). La giurisprudenza di merito, pretoriamente, tende ad andare oltre tali confini, provvedendo in via esecutiva a "sostituire" (anche attraverso la nomina di un commissario ad acta, quale ausiliario del giudice) il datore di lavoro nel comportamento strumentale alla soddisfazione del creditore. Al di là delle dispute teoriche, ove simile situazione si realizzi, è opportuno un coinvolgimento dell'Avvocatura dello Stato al fine di valutare la posizione dell'amministrazione rispetto al concreto ordine giurisdizionale contenuto nel titolo da eseguire.

13. Le modalità di esecuzione della sentenza dinanzi al giudice amministrativo

Il giudice amministrativo provvede all'ottemperanza delle proprie sentenze (art. 27, comma 1, n. 4 R.D. 26 giugno 1926, n. 1054 e art. 7, comma 1, L. 6 dicembre 1971, n. 1034 ). L'esperibilità della procedura in questione è stata estesa da tempo risalente alla sentenze di ogni organo giudicante e quindi anche del giudice ordinario. Inoltre, l'esperibilità della procedura in questione, originariamente condizionata all'esistenza di un giudicato, è stata ammessa anche nei confronti delle sentenze del TAR (che sono esecutive) appellate, ma non sospese dal Consiglio di Stato (art. 33 L. 1034/1971, come modificato dall'art. 10, co. 1, L. 21 luglio 2000, n. 205). Nel silenzio del legislatore del pubblico impiego, la dottrina ha ammesso l'esperibilità del ricorso per l'ottemperanza nei confronti di sentenze del giudice del lavoro, quale strumento concorrente per l'esecuzione delle stesse, nei limiti ovviamente dell'accertamento giurisdizionale e cioè quando si tratti di intervenire su atti amministrativi disapplicati dal giudice ordinario (si veda IARIA L'ambito oggettivo della giurisdizione del giudice del lavoro e del giudice amministrativo dopo i decreti legislativi n. 80 e n. 387 del 1998).

14. La coazione indiretta derivante dal rischio di responsabilità (anche penale) del dirigente pubblico

L'art. 97 Cost. pone, fra gli altri, il principio di legalità dell'azione amministrativa: l'amministrazione pubblica, anche quando agisce con i poteri del privato datore di lavoro, non perde la sua "pubblicità" soggettiva e rimane, pertanto, obbligata al rispetto della legge, fra cui l'adempimento dei precetti del giudice. La coazione derivante da tale obbligo astratto si profila con maggiore nettezza ove si consideri che, dopo l'applicazione della riforma dell'organizzazione operata dal D.Lgs. 29/1993 (e quindi del D.Lgs. 165/2001), risulta semplificata (anche nei confronti degli "esterni" e dunque del lavoratore) l'individuazione del soggetto responsabile dell'adempimento al precetto giurisdizionale: la rinnovata (ed applicata) distinzione fra organi pubblici d'indirizzo e organi di gestione, la riforma della dirigenza pubblica (e segnatamente di quella statale), la riformulazione della responsabilità di risultati del dirigente, la previsione di obiettivi (e controlli) di efficienza dell'azione amministrativa

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rendono certamente più fluido il momento esecutivo della sentenza, sia dal punto di vista oggettivo (gli atti di gestione del rapporto di lavoro privatizzato sono atti di diritto privato) sia dal punto di vista soggettivo (il dirigente competente all'esecuzione è facilmente identificabile). Se così è, l'esecuzione del precetto fissato dal giudice risulterà corroborato dagli effetti di coazione (indiretta) sul dirigente derivanti dal sistema delle responsabilità:

• gestionali,

• disciplinari,

• (anche) penali,

sullo stesso gravanti in quanto dirigente pubblico.