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CONVEGNO “IL CIRCOLO VIRTUOSO DELL’INNOVAZIONE: QUALITÀ DELLE RISORSE UMANE, SERVIZI E FINANZA” 20 gennaio 2005

CONVEGNO “IL CIRCOLO VIRTUOSO DELL’INNOVAZIONE: … · 2005. 12. 12. · per il 42% l’innovazione di processo, per il 39% la conquista di nuovi segmenti di mercato, ma solo

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CONVEGNO

“IL CIRCOLO VIRTUOSO DELL’INNOVAZIONE: QUALITÀ DELLE RISORSE UMANE, SERVIZI E

FINANZA”

20 gennaio 2005

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È consentito l’utilizzo, anche parziale, del contenuto degli interventi riportati, purché venga fatto riferimento alla fonte

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INDICE Benvenuto e introduzione ai lavori Federico TESSARI Presidente CCIAA Treviso

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Intervento del moderatore Enrico DONATI Amministratore Delegato Assist Consulting – Moderatore

pag. 7

Il circolo virtuoso dell’innovazione” Andrea BONACCORSI Prof. Ordinario di Economia e Gestione Aziendale dell’Università di Pisa

pag. 9

Dibattito

pag. 21 “L’innovazione tecnologica e il quadro degli interventi di Unioncamere” Manfredo GOLFIERI Direttore DINTEC

pag. 23

“Il ruolo dei venture capital e degli operatori finanziari” Amedeo LEVORATO Amministratore delegato di E-Venture.It – Padova

pag. 29

“Risorse umane e processi di innovazione nelle PMI” Enrico DONATI Amministratore delegato Assist Consulting

pag. 43

Dibattito

pag. 51 “Il fenomeno di Cambridge” John SNYDER Membro del Comitato East of England Development Agency

pag. 57

Dibattito

pag. 71 Conclusioni “La Camera di Commercio di Treviso nei programmi a sostegno

dell’innovazione nei distretti” Renato CHAHINIAN Segretario Generale Camera di Commercio di Treviso

pag. 81

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Benvenuto e introduzione ai lavori Federico TESSARI Presidente CCIAA Treviso Un cordiale saluto a tutti i partecipanti al Convegno ed un benvenuto agli illustri relatori che, con i loro qualificati interventi, conferiscono particolare interesse all’incontro. L’idea di un convengo sull’innovazione nasce da una domanda che, anche se può sembrare retorica, è sempre più diffusa nel trevigiano ed in Veneto. Ci si chiede se, dopo lo sviluppo basato soprattutto sull’innovazione di processo, cioè la flessibilità, possiamo mettere in campo un altro tipo d’innovazione che ci permetta di mantenere competitive le nostre aziende facendo riconquistare, a tutto il sistema economico e sociale, quella voglia di crescere e di creare opportunità che ha caratterizzato il nostro recente passato. L’innovazione ha bisogno soprattutto di Talenti, di Tecnologia e di Tolleranza. Lo abbiamo detto in altre occasioni ed oggi ci sembra sempre più evidente che al crescere dell’attività innovativa aumenta pure la possibilità che capitali umani e finanziari possano venire allocati in una delle attività più incerte e rischiose e cioè la ricerca per scoprire innovazioni di processo e prodotto. La Camera di Commercio di Treviso, assieme all’Azienda Speciale Treviso Tecnologia e a Tecnologia & Design, intende guidare questo percorso. Stiamo realizzando un rapporto sempre più stretto con lo IUAV di Venezia non solo per il corso di laurea in design industriale. Abbiamo costituito, con l’Università ed Assosport la società consortile mista “Centro Studi Sicurezza e Cultura della Montagna” con scopo mutualistico e non lucrativo. Si interesserà alla ricerca ma anche alla creazione, utilizzazione e disciplina di marchi e brevetti tutelando la proprietà industriale. E’ stato creato l’Osservatorio Internazionale sulla Moda e i Consumi per la Calzatura Sportiva; eroghiamo contributi economici alle imprese per investimenti in certificazione, sicurezza ambientale e commercio elettronico; abbiamo creato la comunità virtuale per il design e di market - place per i distretti produttivi specie del settore legno ed arredamento. A Treviso Tecnologia funziona il Centro PAT – LIB per la fornitura di consulenza e assistenza tecnica; e si sono realizzate le ricerche applicate in tema di rapid prototyping, tooling e manufacturing; funzionano i servizi di laboratorio e di certificazione di prodotto realizzati dal CERT; la formazione specialistica in materia di ICT; la creazione dei due portali Trevisosystem – On Line e Webdieci. Siamo in collegamento e collaboriamo con la Regione Veneto e l’Amministrazione Provinciale, le Università e i Centri di Ricerca, i Parchi scientifici, gli Istituti bancari e le Fondazioni, le Associazioni di categoria e i loro Consorzi Fidi, l’Unione nazionale e regionale delle Camere di

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Commercio. Credo utile ricordare, sempre in tema di innovazione, che Treviso si colloca al 9° posto in Italia per numero di brevetti e che nel settore manifatturiero, colonna del nostro sviluppo, si stanno implementando sempre più i processi di terziarizzazione. In questo settore il 63% delle imprese con più di 50 addetti investe in nuovi macchinari ed il 74% investe in ricerca e sviluppo. La distribuzione degli investimenti per tipologia d’innovazione, sempre nel manifatturiero, riguarda per il 74% i nuovi prodotti o il loro miglioramento, per il 42% l’innovazione di processo, per il 39% la conquista di nuovi segmenti di mercato, ma solo il 28,9% è dedicato alle innovazioni organizzative. Le imprese trevigiane attive nel settore ICT sono in linea con la percentuale italiana, ma ci sono 2 dati interessanti: dal 1998 al 2003 la crescita del settore apparecchiature di controllo dei processi industriali è quasi triplicato passando da 9 a 26 unità e le aziende di fornitura di software sono cresciute del 60%. Tutto queste iniziative ed i dati, però, devono essere visti in un’ottica di networking in modo da concentrare risorse anche finanziarie di tipo tradizionali, ma anche di venture capital e di private equity. Oggi, con l’organizzazione di questo Convegno, la Camera di Commercio di Treviso intende fornire ulteriori spunti di riflessione e stimoli efficaci ai sistema delle imprese. Magari si può pensare, assieme allo IUAV, ad un nuovo lavoro: il cacciatore di brevetti, che oltre a mettere in contatto accademici, legali, esperti di proprietà intellettuale e finanziatori, cerca di trasformare gli esiti della ricerca in prodotti commerciali. Un po’ come sta succedendo in Giappone che ha già una organica politica per promuovere la proprietà intellettuale e l’innovazione. In un’ottica di benchmarking, un particolare cenno va dedicato al “caso Cambridge”, che ci verrà presentato più tardi da Mister John Snyder. Si tratta di una delle sub – regioni più dinamiche a livello europeo, con un’elevatissima crescita annuale del PIL e la presenza di numerose imprese Hi – Tech, oltre al famosissimo polo universitario. Costituisce un “fenomeno” di successo particolarmente interessante anche per un territorio come il nostro, per aiutarci a capire meglio il modo di implementare un “cluster” tecnologico di classe mondiale. Grazie e buon lavoro.

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Enrico DONATI Amministratore Delegato Assist Consulting - Moderatore Grazie, Presidente. Credo che nelle parole del Presidente sia emerso uno degli argomenti più importanti di questo convegno. Ne analizzeremo le diverse dimensioni attraverso le relazioni e, spero, anche attraverso i vostri contributi. Ci piacerebbe, infatti, che questo convegno fosse interattivo, un momento di comunicazione tra voi che siete qui presenti e il tavolo dei relatori. Il tema, credo importante, è l’integrazione e la collaborazione tra queste varie dimensioni e i vari soggetti, perché l’innovazione non avviene a seguito di un’azione isolata, ma, come vedremo, è un processo che è generato e facilitato da una forte integrazione. Lascio la parola al professor Bonaccorsi che, oltre a essere Professore ordinario di economia e gestione aziendale all’Università di Pisa alla Facoltà di Ingegneria, è Direttore del Master per il management dell’innovazione: il primo master in Italia dedicato a questo tema specifico e finalizzato a costruire figure manageriali e professionali capaci di lavorare sul tema dell’innovazione. Al di là dei suoi interessi scientifici e accademici, riveste anche un ruolo operativo entrando in relazione diretta con imprese che investono nell’innovazione. Dalla sua relazione, pertanto, ci aspettiamo qualche illuminazione sia sul piano scientifico che sul piano dell’esperienza pratica. Prego, Professor Bonaccorsi.

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IL CIRCOLO VIRTUOSO DELL’INNOVAZIONE1 Andrea BONACCORSI Prof. Ordinario di Economia e Gestione Aziendale dell’Università di Pisa In realtà, io avevo immaginato di aprire in un modo che mi è stato confermato dall’intervento del Presidente. Avevo cioè pensato di dirvi che per me questo incontro è probabilmente più un’occasione di apprendimento. Un’opportunità per imparare da quello che il vostro sistema locale ha realizzato in questi anni ed è sulla strada di realizzare. Le parole del Presidente, la lucidità della visione d’insieme delle cose che già sono in campo, ha rafforzato questa idea. Mi metto, quindi, in una posizione di dialogo e di ascolto per capire una delle esperienze più avanzate nel sistema nazionale. Fatemi iniziare con una piccola citazione che vi dice lo spirito con cui vorrei ragionare, una frase che mio padre diceva sempre: “ci sono due categorie di persone, quelle che fanno il lavoro e quelle che si prendono il merito. Cerca di stare nel primo gruppo – diceva - che c’è meno gente, meno concorrenza”. Dico questo perché evidentemente in un momento in cui sul tema dell’innovazione c’è un allarme nazionale, è inevitabile che poi si chieda spesso un po’ di chiarezza. Ed allora tra gli accademici qualcuno fa il guru, qualcuno l’accademico semplice, ma in qualche modo ognuno tende a porsi nel secondo gruppo, vale a dire di chi cerca semmai di prendersi il merito dell’idea, non di chi la sperimenta e fa il lavoro. Io credo invece che su temi come questi bisogna, almeno un po’, fare il lavoro, cioè provare. Alcune cose che vi dirò sono anche il frutto delle esperienze dell’ultimo paio d’anni; soprattutto del momento in cui studiando e analizzando, come economisti, il tema del deficit di innovazione del Paese, ci si rende conto che c’è una grande necessità di sperimentare delle soluzioni, che non sono pronte e predefinite, ma vanno studiate e verificate. Allora, cosa vi posso dire? Prima di tutto, in veste di professore vorrei cercare di far capire perché il modello di innovazione delle piccole e medie imprese italiane è in difficoltà. Secondo, vorrei delineare quale potrebbe essere un nuovo modello, quali direzioni e prospettive potrebbe avere e cercherò di farlo con qualche esempio. Poi, proverò ad avanzare alcune proposte, basate su alcune esperienze che si stanno sviluppando nel Paese, che mi sembrano promettenti e che potrebbero rappresentare un interessante percorso anche per il vostro sistema. Tra queste la prima è la vostra, per cui fa parte del best practice a livello nazionale. 1 Testo non rivisto dall’autore.

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Quando oggi si parla di innovazione è quasi automatico dire che in Italia le piccole imprese, in quanto tali, non innovano. Questo è sbagliato concettualmente. Le piccole imprese innovano senza ricerca, non tutte evidentemente. Una parte soltanto di esse, ma quelle che innovano, tendenzialmente, tranne eccezioni, lo fanno con un modello in cui il driver fondamentale è quella che si chiama appunto innovazione basata non su ricerca e sviluppo, cioè innovazione di processo e di design. I nostri sistemi distrettuali hanno guadagnato la leadership mondiale, in molti casi, su queste due grandi leve e va detto chiaramente che su questo modello noi siamo stati e, per certi versi, ancora siamo leader mondiali, il mondo impara da noi. Il problema è che adesso dobbiamo fare un passaggio di modello, salvando il buono del precedente ma integrandolo fortemente. Sul nuovo modello, invece, non abbiamo una grande esperienza nazionale. Io interpreto questi anni di dibattiti e di autocoscienza collettiva su questo tema come un momento di transizione a un modello nuovo, del quale abbiamo poca esperienza; di qui i dubbi, i problemi, le contraddizioni, i passi falsi e le false partenze. Questo credo sia sostanzialmente il quadro in cui ci collochiamo. Perché? Qualche dato rapido. La Commissione Europea con l’ISTAT promuove da anni tornate di indagini sulla innovazione. Ci dicono, sostanzialmente, che la quota di impresa, che si dichiara innovativa, cresce con la dimensione. Pertanto lo specifico della piccola impresa crea maggiori difficoltà: l’impresa di dimensioni minute innova prevalentemente attraverso una spesa per macchinari e design; molto poco o quasi nulla attraverso ricerca e sviluppo. Diversamente, la quota di spesa che viene dedicata alla ricerca e allo sviluppo cresce con la dimensione dell’impresa. Le piccole imprese non hanno difficoltà ad acquisire l’innovazione attraverso i macchinari, lì non c’è un gap dimensionale. Gran parte dei distretti di successo italiani si sono basati, lo sappiamo da molte analisi, sulla capacità di interazione tra il produttore di beni finiti (il calzaturiero, il mobiliero e quello che fa il marmo) e il suo produttore di macchine in un dialogo che portava il produttore di macchine ad avere sempre la soluzione migliore e più avanzata a livello mondiale e il produttore ad avere la tecnologia vicina, “friendly” e molto avanzata. Qual è il problema che abbiamo di fronte? Questo vantaggio di vicinanza si è quasi azzerato perché le tecnologie di frontiera sono praticamente immediatamente disponibili ai Paesi concorrenti. Quello che si sta vedendo in questi mesi, osservando i dati, è che addirittura c’è un problema opposto. In alcuni settori, per esempio in quello tessile, quello che accade è che le ultimissime generazioni di macchine sono adottate dai Paesi esteri, innanzi tutto la Cina, ma non solo, prima che dalle imprese italiane. In un certo senso, c’è un problema economico legato al fatto che i Paesi nostri concorrenti competono con noi non più solo, come si dice soltanto un

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po’ banalmente, perché hanno il costo di lavoro più basso. La teoria economica ci direbbe che, entro certi limiti, un Paese con costi del lavoro più bassi ha convenienza a acquisire tecnologie, diciamo, ad alto contenuto di lavoro e a bassa intensità di capitale; invece i Paesi ricchi, a salari più alti, ma a maggiore dotazione tecnologica, possono competere con macchinari più avanzati con cui recuperare con maggiore produttività i salari. Questo è quello che la teoria ci ha detto poco tempo fa. Il vero problema è che i Paesi emergenti competono oggi su entrambi i fronti: hanno, ovviamente, salari incomparabili con i nostri e stanno investendo. Sono Paesi in cui la quota di investimento sul prodotto lordo è molto alta. I salari sono tenuti bassi anche per ragioni di regime politico che tiene sotto controllo le rivendicazioni e questo crea una grande quota di PIL disponibile per gli investimenti nelle tecnologie. Non è vero solo per il tessile. Sappiamo che anche nel settore delle automobili la Cina ha ormai degli impianti che sono più avanzati di quelli di Detroit. In un certo senso il problema che abbiamo di fronte è che questa leva di innovazione, che entra nelle piccole imprese attraverso l’ingresso di macchinari avanzati, potrà continuare, ma di per sé non è più sufficiente a reggere la competizione di Paesi che oltretutto hanno costi più bassi. Il design a sua volta, non solo viene più imitato, ma ormai in un mercato globale va comunque ripensato. In questo voi siete certamente in Italia tra le esperienze più avanzate. Non v’è dubbio infatti che la capacità delle piccole imprese di competere si è a lungo basata sulla capacità di fare il buon prodotto, cioè quella che in termini di marketing è la qualità intrinseca, venendo da tradizioni manifatturiere in cui l’orgoglio del prodotto è un dato importante della cultura delle aziende. Il problema è che, su mercati globali, questa qualità non è più sufficiente se non si associa o fa parte di una qualità percepita più complessa che acquista sempre più componenti simboliche. Basta studiare una serie di mercati internazionali per capire come la qualità intrinseca sia un presupposto fondamentale, ma non più sufficiente. D’altra parte, sulla qualità intrinseca i Paesi nostri concorrenti sono rapidamente cresciuti. Solo fino a qualche anno fa si poteva dire che in settori, per noi importanti, come il tessile o il calzaturiero c’era una differenza di qualità importante. Forse è ancora così per alcuni segmenti alti, ma per esempio per il segmento medio, in molti prodotti delle nostre filiere, non vi è un gap di qualità importante con i Paesi dell’est. Questo vuol dire che tutta la direzione di innovazione, che passa attraverso la capacità flessibile di modificare continuamente e incrementalmente i prodotti, va riqualificata. Cioè occorre in qualche modo un più forte investimento nella capacità di associare a questo altri elementi. Quali sono? Ve ne sono molti che possono essere identificati. Li riassumo in questo modo. Da un lato, innovazione di prodotto radicale. Abbiamo bisogno di più

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esperienze di successo, più imprese che si lancino nell’idea. Non è più possibile fare esclusivamente prodotti buoni qualitativamente, ma dobbiamo anche cambiarne le funzionalità; avere più coraggio nell’implementare materiali e filiere tecnologiche nuove, aumentando il gradiente di innovazione anche sul prodotto stesso. Vedremo fra un attimo che cosa questo può voler dire. In secondo luogo, c’è un grande filone su cui sarebbe interessante riflettere insieme, che chiamo “integrazione prodotti servizi”. Cosa vuol dire? Che in una crescita del terziario, che è più veloce di quella manifatturiera, probabilmente possiamo difendere meglio quote di valore aggiunto giocando su settori terziari che fanno riferimento a quell’insieme di elementi di unicità che il Paese ancora controlla su scala mondiale. Facciamo alcuni esempi. Non v’è dubbio che in una serie di beni di consumo, anche durevoli, la distribuzione diventa sempre più importante. Noi su questo fattore siamo molto deboli perché abbiamo poco integrato a valle dal punto di vista terziario, ad eccezione delle grandi griffe. Ma allora il tema di come si possa rapportare la manifattura a strategie sul lato “retail”, che sono sempre più sofisticate, diventa un tema di integrazione, non nuovo, ma importante da affrontare. Per quanto riguarda la logistica, voi siete su un territorio che presenta delle problematiche importanti, ma io vengo da una Regione che forse è anche più arretrata da questo punto di vista. Discutendo con un grande distretto, quello pratese, si scopre che alla fine, su certi cicli, quello che oggi serve per competere non è solo il “time to market”, su cui le imprese sono brave, perché comprimono i processi in maniera drammatica, ma la consegna. E su questo punto c’è una terribile carenza di investimento strategico e di tecnologia che dovrebbe garantire che, quello che tu riesci a fare in cicli brevi, poi non lo perdi per strada dal punto di vista dei trasporti, dei sistemi informatici integrati e così via. Pensiamo ai prodotti che possono essere legati a filiere simboliche, ai beni culturali, all’identità, alle filiere agroalimentari; un patrimonio italiano immenso, oggi soltanto in parte sfruttato. Ci sono grandi esperienze di successo, ma sono probabilmente il 5% di quello che si potrebbe fare se volessimo in qualche modo massimizzare il rendimento degli asset unici che ha il Paese, cercando di combinarli con tecnologia e manifattura per ricavarne ragioni di competitività. Questo è un tema affascinante su cui potremo anche tornare. L’ultimo elemento dell’innovazione è basata su ICT. Su questo le piccole imprese sono molto in ritardo. Usano internet nel modo più banale e c’è un grande terreno su cui si può ridisegnare completamente le proprie attività e le proprie integrazioni di prodotti e servizi con gradienti molto più forti. Credo che questi elementi siano relativamente nuovi per la generalità delle piccole e medie imprese. Vi sono esperienze di successo, ma ancora limitate. Come si può fare, per avvicinare modelli di questo tipo? C’è un passaggio

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cruciale, che non a caso è nel tema del vostro convegno, che è quello delle risorse umane. Su questo le evidenze scientifiche che abbiamo sono molto chiare e prendono il nome della capacità di assorbimento. Vale a dire che nessuna impresa riesce ad acquisire la conoscenza esterna se non ha al suo interno almeno un minimo di risorse umane altamente qualificate, cioè con livelli di studio più alti. In una ricerca, che abbiamo fatto alcuni anni fa per la Confindustria nazionale, mostravamo che le uniche piccole imprese che lavorano con le università, che ovviamente non sono l’unica fonte di innovazione, però possono essere importanti in molti casi, sono quelle che hanno al proprio interno, a volte basta una sola persona, personale che ha un titolo di studio adeguato. Nelle imprese in cui c’è ancora il fondatore e in cui il nucleo di vertice ha livelli di studio più bassi, come in gran parte delle nostre imprese, è essenziale che l’imprenditore si convinca dell’importanza di mettere in azienda persone, evidentemente anche più giovani, con livelli di istruzione più elevati. Deve finire questa sorta di timore che nelle imprese c’è di non sapere che cosa far fare ai laureati e, d’altra parte, abbiamo bisogno di laureati che non vengano nelle aziende con l’ambizione di fare l’amministratore delegato dopo due mesi. Devo dire che questa è una questione che va assolutamente presa di petto, perché se non si incrementa la capacità delle imprese di fare questo lavoro, tutto il resto diventa molto difficile. L’ISTAT ci dice con molta chiarezza che non solo una parte importante delle microimprese non si dichiara innovativa, ma anche tra quelle innovative che, in qualche modo, si relazionano all’università sono solo il 4% nazionale. Forse, qui da voi, la rilevazione avrebbe fornito una percentuale nettamente più alta, ma il dato nazionale è questo. Il primo punto, che mi pare necessario mettere in evidenza, è che un modello di innovazione deve prendere atto del fatto che i due pilastri precedenti sono sempre meno difendibili e progressivamente deve accettare la sfida di giocare gradienti di innovazione più forti. Queste azioni richiedono un minimo di investimento interno, cioè almeno una quota di risorse umane maggiormente qualificata. Propongo, in maniera se volete rischiosa, una sorta di mappa nella quale vado a mettere un po’ di esempi raccolti proprio negli ultimi tempi su che cosa significa l’innovazione anche per le imprese. Ragioniamo in questo modo: noi abbiamo quello che chiamo, in termine un po’ astratto, il dominio del problema, cioè qual è il problema che dobbiamo risolvere? Un problema tecnico, un problema di mercato, cioè che cosa vuole il cliente? Proviamo a pensare se stiamo nello stesso ambito in cui l’impresa si muove o in un ambito diverso, poi ragioniamo se vogliamo risolvere il problema con lo stesso repertorio, cioè con la scatola degli attrezzi, con quello che sappiamo fare, con quello che l’impresa sa già fare oppure andare

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verso repertori nuovi di attività. Dico che gran parte del modello attuale sta in questo quadrante: stiamo all’interno di domini di problemi simili e usiamo una scatola degli attrezzi che, grosso modo, è la stessa. Quindi da un lato abbiamo l’innovazione incrementale, che è fondamentale per tutte le piccole imprese, che è una fonte di competitività assolutamente importante. Però prendiamo atto che si tratta di un’innovazione che, in qualche modo, resta nello stesso quadrante; stesso problema e stesso repertorio di soluzioni, modifiche passo a passo fino al benchmarking con i concorrenti o la semplice imitazione. Ci sono esperienze che dicono che l’innovazione potrebbe prendere anche delle forme più impegnative, ma assolutamente accessibili alla – di nuovo cito il vostro Presidente – applicazione creativa, alla creatività applicata a problemi di innovazione. Ne ricostruisco tre: ricombinare, fare buone analogie e fare buone astrazioni. Ricombinare. L’idea che voglio sviluppare è che esistono incredibili opportunità di ricombinare tecnologie esistenti in modo creativo. Il digitale ci dà, da questo punto di vista, grandi vantaggi, va veramente vista come una grande opportunità. Non dobbiamo pensare all’innovazione come un problema nel quale tutti dobbiamo inventare sempre nuove tecnologie. Questo ovviamente è importante, ma in molti casi è importante combinare creativamente quello che c’è già e, come insegnava già Adam Smith, gli uomini di ingegno sono esattamente coloro che vedono cose disparate e capiscono che possono metterle insieme. Magari le cose sono già lì, ma nessuno le ha mai messe insieme. La ricombinazione creativa è un vettore di assoluta importanza. Vi faccio un piccolo caso che ho osservato: un’impresa piccola, che lavora nel settore della distribuzione delle bibite, ha un problema di software perché il riaprovvigionamento (pensate alle bibite e alle merendine negli uffici, negli ospedali, nelle aziende) è inefficiente, per quale ragione? Perché i prodotti vengono consumati con velocità e frequenze diverse: quando è più caldo si beve di più e si prendono meno merendine e così via. Chi installa la macchina ha una procedura di approvvigionamento, si tratta di una procedura logistica molto semplice ma molto costosa, perché il camioncino deve arrivare, trovare parcheggio. Deve farlo, evidentemente, ottimizzando il percorso, cercando di non fare giri a vuoto. Questa impresa aveva un problema: le si chiedeva di fare molti viaggi per tenere sempre le macchinette cariche, ma questo provocava costi aggiuntivi. Un problema se volete semplice e inizialmente questa impresa va da un fornitore con un’idea semplice, banale: fammi un softwerino. Il critico dice: aspetta, sediamoci un attimo, ragioniamo su qual è il tuo problema? Il tuo problema non è il camioncino, ma il fatto che non hai informazione sui cicli di uso dei prodotti, si tratta di un problema di informazione. Analizziamolo: scopriamo che ci sono dei cicli diversi a seconda del prodotto di consumo scopriamo che non c’è informazione su ciascuno di questi. Scopriamo inoltre

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che, in molti casi, come a tutti noi sarà capitato, la persona va al distributore, non ha la moneta e, a meno che non ci sia la macchina che cambia le banconote lì vicino, non consuma. Quindi c’è una perdita di revenues. Questi se ne vengono fuori con un’idea: mettiamo dentro la macchina che distribuisce bibite un sistema wireless, mettiamo un sistemino nel quale chi deve comprare la bibita non mette moneta, ma digita un codice. Digitando il codice si apre il distributore, dà la bibita, registra, fa il billing della spesa, con qualche forma di prepagato o cos’altro. Una volta che l’informazione è registrata, cosa accade? Ci deve essere una memoria dentro il distributore che dice non solo cosa vuole il cliente, ma, a quel punto, anche quanti pezzi ci sono dello stesso prodotto. Su questa memoria posso mettere un database. Lo interrogo a distanza per ottimizzare la logistica e mandare il camioncino a riapprovvigionare le macchinette. Si tratta di una innovazione recentissima e comincia a funzionare con un certo interesse. A questo punto l’azienda, oltre al precedente parco con 20 mila macchine, adesso ha un certo numero di macchine nuove che producono informazioni su differenti pattern di consumo di prodotti. Questa informazione può avere valore per chi fa marketing di massa, come Barilla o Ferrero. Si costruisce su questo un lavoro di estrazione di informazione realizzando dei report che vengono venduti ai grandi nomi commerciali di prodotto di marketing di massa. Piccolo esempio per dire che cosa? Che si parte con tecnologie esistenti. I singoli elementi c’erano già,ma il modo di combinarli insieme è creativo, è nuovo. Il modo di risolvere i problemi (uno dopo l’altro, perché l’innovazione non è mai qualcosa di intuitivo e improvviso) è sempre un processo di problem solving, di sequenze di problemi e può partire da questi effetti di ricombinazione. Quando uno li fa spesso non si rende conto di cosa ha generato, perché può suscitare anche effetti molto importanti. Analogia. Anche questo è un tema affascinante. Trovo che le piccole imprese italiane, quelle che si sono messe a fare innovazione, spesso usino questa grandissima capacità di fare analogia. Cosa significa? Vuol dire che ho due problemi che sono apparentemente diversi, quindi nessuno ha mai pensato che possano essere tra loro simili. In realtà, la struttura profonda del problema è la stessa o è simile. Allora io posso cercare delle soluzioni che si applicano al problema a) e vedere se per caso sono buone per il problema b). Vi faccio qualche esempio. Il primo esempio si riferisce ad un’impresa che non è piccola, ma l’esempio è utile per chiarire l’idea: è Nike che fa zaini. Diciamo che, per la vostra zona, l’abbigliamento sportivo è chiaramente un mercato con delle logiche molto sofisticate e molto complesse. Sugli zaini scolastici cosa fa Nike? Qual è il problema? Gli zaini sono importantissmi per i ragazzini, devono avere determinati requisiti di moda, colore, etc.. Qual è il problema sottostante allo zaino, detto in termini da ingegneri? Il problema funzionale? Che un buon zaino deve distribuire i pesi sulla massa

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muscolare e non creare delle zone di sofferenza, di concentrazione del peso sulle spalle o sulla schiena del ragazzino. Benissimo, questo è un problema importante, quindi si studiano un sacco di soluzioni. A un certo punto, Nike manda persone di questo dipartimento a studiare in un altro mondo. Questo mondo qual è? Come ci sono arrivati? Hanno pensato che il problema di avere la distribuzione dei pesi e dello stress sulla schiena è simile a un contesto assolutamente diverso, quello dei seggiolini iettabili degli aeroplani. In un seggiolino iettabile ci vuole un sistema per distribuire lo stress in maniera da non stirare i muscoli o non danneggiare la persona o il pilota che viene iettato. Allora Nike ha cominciato a studiare soluzioni dal punto di vista ergonomico, le ha modificate, le ha incorporate e adesso realizza linee molto avanzate, nelle quali utilizza tessuti estendibili presi dal contesto dei seggiolini. Per restare in Italia, cito un’impresa di Arezzo che fa prefabbricati per costruzioni, che negli ultimi anni ha acquisito una nobile griffe nel settore dei pavimenti di cotto. Qual è il problema del cotto? Che è un pavimento molto spesso e pesante da trasportare, delicato da installare, sono necessari accorgimenti e operai specializzati. In sostanza, il cotto si vende solo in Italia, spesso vicino al produttore. Si tratta quindi di un mercato abbastanza limitato. L’impresa ha cominciato a ragionare su come fare per ampliare i confini di tale mercato. Qualcuno ha pensato che l’analogia creativa interessante fosse la seguente: se uno avesse inventato il sistema di stendere il cotto in modo prefabbricato, per anticipare in fabbrica una parte del montaggio e poterlo trasportarlo premontato, avrebbe avuto un grande risparmio sui costi di installazione. Avrebbe potuto fare in progettazione quello che si fa a valle nel montaggio. Sarebbe stato anche possibile con dei supporti di materiali non naturali, evidentemente, anche ridurre lo spessore mantenendo le proprietà meccaniche del cotto e anche il pregio. Si tratta di un’analogia fantastica. Ovviamente desta resistenze enormi: immaginate di parlare di questa idea con gli amanti del cotto e con i produttori del cotto … Ad ogni modo il ragionamento è stato fatto. Un altro esempio. Un’impresa, anche in questo caso di piccola media dimensione, ha avuto l’idea che non necessariamente si dovesse stampare la pelle a partire da altri materiali e ha sviluppato invece delle tecnologie assolutamente nuove. C’è poi l’innovazione per astrazione? Cosa vuol dire. Vuol dire che un imprenditore si chiede, in maniera molto astratta, come deve essere realizzato un certo prodotto in generale per soddisfare certi bisogni. Faccio solo un esempio che è molto interessante: i fratelli Wrigth che sviluppano le tecniche del volo. Ci sono ricostruzioni che dicono che questi sono riusciti a fare quello che gli inventori allora non riuscivano perché hanno ragionato profondamente su che cosa doveva essere un aeroplano per poter volare,

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sulla propulsione, il controllo, il controllo della struttura. Uno dei casi su cui più spesso ragioniamo, approdato recentemente in borsa, è che l’idea della Geox sia sostanzialmente di questo tipo. L’idea nasce dall’ossessione di pensare come deve essere fatto un materiale per far passare l’aria, ma non l’acqua e come possa essere utilizzato nell’abbigliamento e nelle calzature. Spesso le nostre imprese, avendo poca capacità di assorbimento e poche persone dedicate, hanno una bassa capacità di astrazione. Cosa vuol dire? Che diventano sostanzialmente bravissime a fare quello che sanno fare e diventano via via sempre più incapaci di chiedersi se c’è un altro modo di fare quello che sanno fare. La storia dell’industria dei telai (noi siamo stati leader mondiali nella tessitura) dice che, negli ultimi anni, emerge una nuova tecnologia di telai ad acqua, invece che ad aria, tecnologia che è stata trascurata dalla nostra industria. Adesso sta emergendo prepotentemente e ci sta sottraendo quote di mercato. Tutto il tessile tecnico, che è un mercato in enorme espansione perché si applica non solo ai vestiti, è ora di competenza dei tedeschi e dei francesi perché noi abbiamo ritenuto che non fosse alla portata o nell’interesse della nostra industria. Cosa vuol dire? Che se noi vogliamo una capacità di innovazione continua non possiamo più soltanto basarci sulla intuitiva, fondamentale, geniale, capacità innovativa del fondatore. Dobbiamo fare in modo che questa continui nelle imprese, non duri solo il tempo di un prodotto, di una famiglia di prodotti, ma diventi un fatto continuo. Un calzaturificio importante, che ha fatto molto business su un prodotto, ci è venuto a dire: “io ho vissuto tutto il mio successo su una grande idea, che ho avuto io, in un particolare segmento di scarpe, utilizzando applicazioni di altri settori, militari, di protezione civile. Adesso mi manca l’idea successiva.” E’ a questo punto, quando ho esaurito la mia capacità intuitiva di innovazione, che mi ha dato successo negli ultimi 30 anni, che entra in gioco la capacità di assorbimento. Vado alle proposte. Questo processo è possibile anche nelle piccole e medie imprese, però è molto impegnativo. Anche quando si costituisce il capitale di assorbimento, la capacità di generare innovazione endogenamente, cioè internamente alle imprese, è una sfida. Allora io credo che abbiamo bisogno di sistemi che supportino questo percorso ed è molto importante il sistema esterno. Lo dico anche alle imprese che spesso hanno, in parte giustificato, un certo scetticismo, un senso di sfiducia in quello che il contesto esterno può fare, il sistema pubblico, le università, e così via. Propongo subito due linee di intervento, che già ci sono in nuce e che potrebbero trovare un grande sviluppo. La prima è l’idea del promotore dell’innovazione e la seconda è l’idea di lanciare finanza e fondi anche nei settori tradizionali. Promotore dell’innovazione. Ci sono esperienze in giro per l’Italia e devo dire che

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Treviso Tecnologia è stato uno dei pionieri. Mi riferisco al fatto che gran parte delle imprese non riescono a sviluppare progetti innovativi perché non riescono ancora a passare dalla fase in cui percepiscono il problema a quella in cui possono mettere in campo progetti e dedicare risorse per risolverlo. La fase che passa tra quello che ha il problema del distributore delle bibite e il momento in cui dice: okay, voglio una tecnologia wireless. Questo intervallo è per molte imprese difficile da colmare, molte imprese non riescono a declinare il problema fino al punto di capire che serve loro una certa soluzione o che possono introdurre una certa innovazione. Sono in corso esperienze molto interessanti in cui soggetti pubblici supportano dei progetti con dei team dedicati, fatti di persone di alto livello di competenza, tipicamente laureati, ma per quello che osservo io, addirittura persone con master o con dottorato. Treviso ha una bella esperienza e Vicenza ne ha un’altra molto bella. In una primissima fase dove c’è l’intervento pubblico, come dire le imprese non pagano l’intervento. Questi progetti stanno andando avanti nell’ultimo paio d’anni. Treviso ne ha fatto uno molto importante; il Centro Veneto ha alcune esperienze interessanti; il Parco di Trieste ha una grossa esperienza, oltre 2 mila imprese contattate in quattro o cinque anni. Firenze Tecnologia che è la gemella Toscana di Treviso, ha un progetto che è tuttora in corso molto faticoso, ma con primi risultati importanti, primi accordi già chiusi con imprese. Assist sta seguendo un progetto alla Camera di Commercio di Roma che impiega degli ingegneri con focus su assessment e ICT. E ancora un soggetto che viene dal mondo camerale di Lucca ha esperienze simili. Per quanto mi riguarda sia l’anno scorso che quest’anno, nell’ambito formativo post-laurea, lanciamo allievi di master a tirarsi su le maniche e a fare lavoro con le piccole imprese per supportarne processi innovativi. Si tratta di modelli misti pubblico–privato. In tutti questi progetti si impiegano persone ben formate, alle quali evidentemente va offerto non tanto uno stipendio elevato, ma un quadro di qualità. Si devono sentire dei professional che vanno a fare cose di qualità per soggetti pubblici credibili e con metodologie che hanno in qualche modo delle similarità. Questo è assolutamente importante. Credo che capitalizzare queste esperienze importanti potrebbe avere l’effetto non di far innovare di più le imprese, ma di avere un impatto più massiccio sul sistema. Potrebbe accorciare i tempi nei quali le imprese possono arrivare a concepire soluzioni innovative, a cercare solution provider, come ad es. altre imprese, fornitori e alle volte anche università. Per esempio, nell’esperienza di Firenze ci sono imprese di cinque addetti che stanno facendo dei bellissimi progetti con l’università in merito a certe tecnologie per l’innovazione del prodotto. Sta funzionando bene; serve loro qualcuno che li aiuti a dialogare.

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La seconda idea è un po’ una provocazione. L’idea è questa: può darsi che alcune innovazioni non siano accessibili alle piccole imprese, non perché queste non siano capaci, ma perché si tratta di innovazioni molto rischiose e molto difficili, in quanto hanno luogo in contesti di prodotto, di mercato, almeno in parte diversi. L’esempio del tessile tecnico è molto chiaro. Tecnotessile è una bella e importante società di tecnologia e ricerca, ha qualcosa come 70 a 80 progetti realizzati. Di questi una parte importante ha come oggetto tecnologie nell’ambito del tessile tecnico, funzionale, etc. Eppure le imprese tradizionali non investono in questi contesti, da un lato perché non vogliono rischiare troppo, e temono di mettere a repentaglio l’azienda di provenienza, dall’altro perché sono in parte tecnologie che non dominano, essendo necessarie competenze più elevate. La proposta un po’ paradossale che mi viene da fare è questa: dobbiamo creare dei sistemi in cui si possano sperimentare soluzioni a alto rischio, ma queste soluzioni non possono stare in laboratorio, in ricerca, in università, perché altrimenti non se ne prova il valore, devono scendere a valle. Un meccanismo potrebbe essere quello di costituire strutture finanziarie che abbiano l’obiettivo di lanciare dei progetti che siano imprese. A capo dovrebbe esserci un imprenditore e non un ricercatore, tanto per intenderci, qualcuno che abbia la capacità e anche la sana – lasciatemi dire – passione per i risultati, per il business e per i profitti, che quindi abbia il senso del tempo, il senso della pressione sui risultati. Qualcuno che possa accettare riscontri più alti e quindi possa avere forme di capitale di rischio diverse da quelle del sistema delle imprese tradizionali. Perché mi viene da dire che questo di per sé potrebbe essere possibile? Sto facendo dei ragionamenti riferiti, per esempio, al settore tessile per capire se potrebbe avere senso. Perché mi pare nei sistemi di imprese – ve lo dico con molto candore, ma credo sia mio dovere giocare a carte scoperte - accade che una parte importante della liquidità non viene reinvestita nei settori di provenienza. Imprenditori tessili non reinvestono più nel tessile perché il settore è saturo, le macchine hanno ancora dieci anni di vita i profitti vengono dirottati su altre attività di varia natura, prevalentemente immobiliari. La Toscana in questo è per certi versi un caso patologico di gonfiamento di alcuni mercati immobiliari perché lì si riversano liquidità che provengono dal settore industriale. Mi domando perché non trovare dei meccanismi in cui capitali e liquidità di questo tipo possono accettare, se volete, un grado di rischio più alto, certamente più alto di quello immobiliare. Indubbiamente si può sbagliare, ma attraverso forme, che possono essere fondi, private equity o varie soluzioni, è possibile esplorare una serie di innovazioni più radicali che le imprese oggi hanno ancora timore a incorporare in quanto troppo rischiose. Potrebbero essere sperimentate. Se volete è una provocazione.

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L’esperienza che però non ho tempo di raccontarvi, è quella dei fondi rotativi che a Pisa abbiamo fatto per le start-up high tech. Credo sia una sfida notevole quella di riuscire a trovare formule nuove perché l’innovazione da un lato sia fatta dentro le imprese con le cose che ho detto prima, ma da un altro lato possa essere anche tirata fuori attraverso il capitale, il capitale flessibile che prende dei rischi, mettendo imprenditori, figli di imprenditori, persone giovani su larga scala a esplorare. Se fallisce, pazienza. Certamente non è lì il problema. Chi ha fatto quel tentativo comunque impara e torna in azienda con delle esperienze straordinarie di innovazione. Il saldo è positivo comunque vada. Se poi, invece, va bene, i risultati positivi penso siano evidenti a tutti. Grazie.

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Enrico DONATI Amministratore Delegato Assist Consulting - Moderatore Grazie, a lei. Credo che il Professor Bonaccorsi non abbia tradito le nostre aspettative: ci ha dato un quadro concettuale molto stimolante e dei riferimenti concreti altrettanto provocatori. Se ci fossero delle domande, sarebbero gradite. Intervento Roberto BORTOLOTTO Credo che il professore abbia toccato uno dei temi fondamentali, in questo momento di crisi dell’attuale sistema produttivo, per il confronto con gli altri Paesi. Ha creato un continuo divenire di idee, di riflessioni, dando un contributo concreto per lo sviluppo del nostro sistema industriale che si trova a competere con i mercati esteri. Credo che, al di là della capacità di fronteggiare situazioni ipercompetitive nei mercati interni, ci sia in assoluto la necessità di confrontarsi, nel medio e nel lungo periodo, con altri paesi che hanno già definito sistemi competitivi a livello infrastrutturale e culturale. Questa più che una domanda, è una riflessione che mi permetto di fare. Credo che gli strumenti offerti debbano essere definiti in maniera approfondita e allargata, da una parte con un investimento a medio e lungo termine, dall’altra cercando di sfruttare le risorse presenti e disponibili. Innovazione significa capacità di diffondere in maniera capillare una cultura e un modo di essere dell’impresa. Significa, sicuramente, inserirsi in esperimenti e utilizzare determinati strumenti, ma anche cercare di diffondere la capacità di tutte le risorse umane di innovare e di riproporre, giorno per giorno, una ricerca continua di confronto con il mercato dell’impresa. Le competenze, da sole, non sono sufficienti. Hanno una loro validità nel momento in cui sono condivise da tutte le risorse umane presenti in azienda; devono essere un momento di nascita di nuove idee e di crescita dell’innovazione. E’ necessario, a mio avviso, intervenire nei processi per permettere a tutte le risorse di condividere l’apertura verso il mercato, verso i fornitori, verso il mondo competitivo. Scambiare idee permette di sviluppare l’innovazione in maniera costante. Probabilmente, anche il concetto di ICERT, di banda larga, le nuove tecnologie, insomma, interverranno per migliorare i processi innovativi. Non si tratta di introdurre della pura tecnologia, che poi finisce per non rispondere a un progetto di business immediato, ma di capire quali siano i nuovi mercati, anticipare le esigenze. Bisogna misurarsi, in maniera concreta, con mercati di altri paesi, e, di certo, a questo punto, la qualità non basta più, l’obiettivo deve essere l’eccellenza. Gli altri paesi riescono ormai

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a produrre con lo stesso livello di qualità; noi dobbiamo puntare sulla qualità delle risorse umane che deve essere più elevata. Credo che debba diventare una cultura diffusa in tutte le aziende, quella di utilizzare le risorse umane in maniera attiva, di modo che portino un contributo a tutta l’impresa. Enrico DONATI Amministratore Delegato Assist Consulting - Moderatore Grazie. Vi sono altre domande? Domanda Bruno MALAGUTTI Professore, come si trova l’equilibrio tra l’esigenza di risorse umane, di capacità del personale e la flessibilità che c’è tra il personale e le aziende che diventa sempre più veloce? Intervento Andrea BONACCORSI Prof. Ordinario di Economia e Gestione Aziendale dell’Università di Pisa Non è semplice. Io ho la sensazione che prevalga, ora, una reazione difensiva. Le imprese, cioè, usano gli strumenti, ormai normativamente disponibili, in una flessibilità di contenimento dei costi. Il che è comprensibile dato il momento che viviamo. Ho l’impressione che ci voglia una forte capacità di guida da parte dei manager, dei vertici, per poter coinvolgere le persone parlando loro con franchezza della comune situazione di precarietà e impegnandole nella crescita dell’impresa. Io ho paura che oggi, in molte situazioni, la cultura manageriale non riesca a fare questo. Spesso i giovani – ed io nel mio osservatorio ne vedo tanti che trovano occupazione in azienda - ne soffrono. Sono i più preparati ad accettare le regole della flessibilità, accettarle culturalmente giocandoci dentro, purchè ci sia il dialogo con le leve alte delle aziende. E' una domanda non facile. E' un bel problema aperto.

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L’INNOVAZIONE TECNOLOGICA E IL QUADRO DEGLI INTERVENTI DI UNIONCAMERE Manfredo GOLFIERI Direttore DINTEC Grazie, buongiorno a tutti. Ringrazio in particolare la Camera di Commercio di Treviso per questa opportunità. DINTEC è una società consortile partecipata attualmente da due soci, che sono l’Unione Italiana delle Camere di Commercio per il 51% e l’ENEA per il restante 49%. DINTEC svolge attività di supporto per le strutture del Sistema Camerale e si occupa di innovazione tecnologica, qualità e certificazione. Il Sistema Camerale si occupa di innovazione da molti anni. Ci sono alcune Camere di Commercio che si occupano da sempre di innovazione, quale ad esempio la Camera di Commercio di Milano che ha promosso e ha partecipato alla costituzione del Politecnico di Milano. La riforma Bassanini, con il trasferimento alle Camere di Commercio delle competenze sul brevetto italiano (articolo 50 comma 1 del Dlgs 112/98) ha rappresentato per il Sistema Camerale lo spunto per il potenziamento delle attività sui temi dell’innovazione e in particolare per l’adozione di un approccio sistematico su questo tema. A partire dalla riforma Bassanini, il Sistema Camerale, Unioncamere in testa, pensò, a complemento della funzione amministrativa delegatagli, di dover predisporre e fornire servizi alle imprese sul tema dei brevetti, mettendo a disposizione di tutti i soggetti economici gli strumenti, le potenzialità di sviluppo e i contenuti innovativi offerti dal sistema dei brevetti. Nacquero, quindi, e si svilupparono i Pat-Lib, uffici territoriali dell’Ufficio Europeo dei Brevetti (European Patent Office – EPO). Come sapete, nel Veneto operano due Pat-Lib importanti, storici per il sistema camerale: uno è quello di Vicenza attivo presso il Centro Produttività Veneto, l’altro è quello di Treviso attivo presso Treviso Tecnologia. Questi due Pat-Lib hanno fatto la cultura, insieme a quelli di Genova e di Torino, del Sistema Camerale per i servizi alle imprese, partendo dall’offerta di servizi “tradizionali” previsti dall’Ufficio europeo brevetti, e introducendo via via nuovi servizi avanzati. Non vi elenco quali sono i servizi dei Pat-Lib, perché sono noti. Quello che vorrei evidenziare in questa relazione è che il brevetto, sicuramente, è uno strumento importante, e vedremo che studi condotti da Dintec e Unioncamere ci forniscono una misura dell’impatto dell’attività di brevettazione sulle performance delle imprese brevettanti. Prima di procedere all’illustrazione dei risultati dello studio, vi fornisco una visione nazionale dei centri brevettuali attivi presso le strutture del Sistema

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Camerale. Si occupano di brevetto europeo cinquanta uffici territoriali attivi presso le Camere di Commercio. In Italia operano altri diciotto centri attivi presso strutture non camerali quali, Università, Confindustria e altre Associazioni di categoria. Il numero dei brevetti è un indicatore della capacità innovativa e del livello di innovazione di un sistema. Ogni anno in Italia si registrano presso l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM) circa 10.000 invenzioni (brevetto italiano), 45.000 marchi, 2.000 modelli ornamentali e 2.500 modelli di utilità. A tal proposito si ricorda che ultimamente è stato introdotto, anche attraverso il supporto determinante delle Camere di Commercio, la pratica telematica per l’acquisizione delle domande di brevetto. Il sistema Italia registra brevetti anche presso l’European Patent Office (brevetto europeo). In media si registrano ogni anno 2.600 brevetti. L’86% dei brevetti è registrato da imprese, il 13% da soggetti privati e il restante 1% dagli Enti Pubblici di Ricerca (EPR), dove per enti pubblici di ricerca intendiamo l’ENEA, il CNR, tutte le università italiane e gli altri istituti di ricerca, che sono circa un centinaio. Il contributo degli enti pubblici di ricerca è, dunque, veramente modesto. Il brevetto europeo, ovviamente, consente di proteggere l’invenzione non solo in Italia ma anche nei paesi europei, ed è per questo motivo che sono i soggetti che operano prevalentemente sul mercato europeo a registrare i brevetti presso l’EPO. I dati sui brevetti europei, inoltre, consentono di confrontare le performance del sistema Italia con quelle dei principali paesi competitori. Dal confronto emerge che negli ultimi tre anni, il sistema Italia ha registrato presso l’European Patent Office (EPO) soltanto il 3,1% del totale brevetti, a fronte del 39,7% degli Usa, il 22,6% della Germania e il 21,1% del Giappone. Il numero dei brevetti prodotti dal sistema Italia si riduce drasticamente se prendiamo in considerazione quelli registrati presso lo USA Patent and Trademark Office (USPTO). In media l’Italia registra presso lo USPTO 1.700 brevetti, che equivalgono all’1,2% del totale dei brevetti registrati. Utilizzando i dati relativi alle domande di brevetto pubblicate dall’EPO, Unioncamere e Dintec, nell’ambito della terza edizione dello studio condotto sulle medie imprese in collaborazione con Mediobanca, hanno approfondito l’attività di brevettazione delle medie imprese. L’attività di brevettazione interna alle medie imprese italiane è stata monitorata ed analizzata con l’obiettivo di rispondere alle seguenti domande: qual è la capacità brevettuale delle medie imprese; quali sono le performance economiche delle medie imprese brevettanti; in quali settori e che prodotti brevettano.

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Questi i primi risultati riferiti a 5 fra le regioni italiane con una maggior presenza di medie imprese (Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria e Lazio). Monitorando gli anni dal ‘99 al 2003, è emerso che la percentuale delle medie imprese manifatturiere brevettanti è del 15,5%, i brevetti depositati sono 998 e, in media ogni impresa, in quel periodo, ha depositato 2,8 brevetti. La definizione di medie imprese di questo studio è più ampia di quella comunitaria: sono state considerate infatti, le imprese che hanno anche fino a 499 dipendenti. Le medie imprese manifatturiere, così considerate, rappresentano sul totale delle imprese italiane lo 0,1%, producono il 3,3% del valore aggiunto e detengono il 14% dei brevetti presentati dalle imprese italiane all’ufficio europeo. Questi dati dimostrano che le medie imprese italiane hanno una propensione, un’attenzione alla brevettazione significativamente più sviluppata rispetto al resto delle imprese. I settori oggetto di brevetti sono quelli tradizionali della nostra economica: macchine e apparecchiature meccaniche (44,3% del brevetti), metallo e prodotti in metallo (14,8%), macchine elettriche e apparecchiature elettroniche e ottiche (8,1%), ecc. Ma ciò che mi preme sottolineare, sono le performance economiche delle medie imprese che brevettano rispetto alle medie imprese che non brevettano. Devo precisare che i dati che vi illustro oggi sono riferiti a circa il 60% delle medie imprese italiane. Oggi alla Camera di Commercio di Verona il dottor Claudio Gagliardi di Unioncamere, che avrebbe dovuto essere qui con noi, presenta uno studio specifico sulle medie imprese del Nord est. Tornando alle performance economiche delle brevettanti e non brevettanti, dallo studio condotto è emerso che chi brevetta si contraddistingue per un più elevato valore aggiunto (9.021 migliaia di euro le medie imprese brevettanti contro i 7.906 delle non brevettanti), per un maggiore fatturato proveniente da esportazioni e una maggior incidenza delle esportazioni sul fatturato (50,1% per le medie imprese brevettanti contro il 31,9% delle non brevettanti). Non solo, si tratta di imprese con un maggior numero di addetti (166 contro 145) e con una redditività maggiore (un ROI del 17,7% contro il 15,7% delle medie imprese non brevettanti). Lo studio, dunque, conferma che l’adozione di innovazione ha un impatto positivo sulle performance e sulla produttività delle imprese. Dopo aver monitorato e analizzato il ruolo e il contributo delle imprese relativo allo sviluppo e adozione di innovazione, passiamo ora a considerare le risorse finanziarie in Italia per la ricerca e il contributo degli EPR. Le spese in ricerca e sviluppo in Italia ammontano grosso modo all’1,1% del PIL. Circa il 60% di questo 1,1 del PIL, quindi 0,6% del PIL (corrispondente quindi alla manovra di riduzione dell’IRPEF recentemente varata) proviene

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dal bilancio pubblico. Quindi il 60% degli investimenti di ricerca in Italia vengono spesi negli Enti pubblici di ricerca: ENEA, CNR e Università, ecc. Le risorse pubbliche destinate alla ricerca in cosa si traducono? Gli EPR producono circa 30 mila pubblicazioni scientifiche l’anno di buona qualità (non sono considerate le materie letterarie ed economiche) e circa 160 brevetti l’anno, depositati non solo presso all’EPO. I brevetti non necessariamente vengono sfruttati, non sempre vengono ceduti al mondo economico per essere utilizzati, spesso restano nel cassetto e costituiscono esclusivamente un costo per il loro mantenimento. Questa situazione è sicuramente inaccettabile. Allora, se questo è il quadro, la tesi che vorrei esporre è la seguente: i brevetti contano, non possiamo dare credito alle teorie secondo le quali “non si brevetta più”. Non è così, gli americani, i giapponesi, i tedeschi brevettano, la Gran Bretagna brevetta. Noi dobbiamo utilizzare questa opportunità, questa modalità, per affermare, per proteggere l’innovazione. Il contributo che abbiamo da parte degli Enti pubblici di ricerca italiani, che consumano la maggior parte delle risorse, è assolutamente insignificante, questo è un problema per la soluzione del quale vorremmo, come Sistema Camerale, dare un contributo. Quindi è necessario cercare di avvicinare le esigenze del mondo economico al potenziale di ricerca italiana che c’è, ma non dialoga assolutamente con il mondo economico. Prima di passare ad esporre il quadro degli interventi di Unioncamere, mi soffermo velocemente su alcuni aspetti che ho già presentato prima dell’estate all’Assemblea Unioncamere del luglio 2004. Si tratta di dati che confermano l’alta produttività e qualità delle pubblicazioni scientifiche dei ricercatori italiani, che è assolutamente paragonabile a quella degli altri Paesi. In quella medesima assemblea presentai dei dati sul Fraunhofer, riferiti al numero di dipendenti, al budget, alle fonti finanziarie, alla loro provenienza, ai contratti con le imprese, commentandoli in rapporto agli Enti pubblici di ricerca italiani. Coincidenza, a pochi mesi di distanza, le Camere di Commercio di Treviso e di Vicenza stipulano una convenzione con il Fraunhofer per attività di trasferimento tecnologico a favore delle imprese. La ricerca di soluzioni fuori dall’Italia è quindi un dato di fatto, e questo ci deve portare a riflettere e a ripensare il ruolo e il contributo degli Enti pubblici di ricerca italiani. Il Presidente della Camera di Commercio, Federico Tessari, e il professor Andrea Bonaccorsi vi hanno parlato delle risorse umane, Enrico Donati ne parlerà ancora. Il Presidente della Camera ha inoltre parlato di tolleranza e tecnologia, allora vediamo qualche dato: in Gran Bretagna il 30% di quelli che fanno un dottorato di ricerca sono stranieri, in Italia sono il 2,3%. I flussi dei ricercatori per l’Italia sono tutti a perdere, verso gli USA (34%), verso la

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Gran Bretagna (26%) e Francia (11%). Quindi noi alleviamo, spendiamo, fino al conseguimento della laurea e poi mandiamo all’estero capitale umano qualificato e non importiamo assolutamente niente. Secondo me, nel tracciare un quadro sintetico ma esaustivo, non si può non tener conto di questi numeri per capire come muoverci. Ed è dalla consapevolezza di questo quadro che Unioncamere ha progettato e predisposto gli interventi in tema di innovazione tecnologica per il 2005. L’attività principale che Unioncamere, con l’ausilio delle Camere di Commercio, tra cui quelle di Treviso, Belluno e Vicenza, avvierà riguarda la realizzazione delle azioni dei progetti presentati da circa 60 Camere nell’ambito del Fondo di Perequazione 2003 – Linea “Innovazione e trasferimento tecnologico”. L’attività che verrà sperimentata è riferita alla rilevazione sistematica dei fabbisogni tecnologici delle imprese e traduzione in domanda aggregata da veicolare ai soggetti che offrono innovazione tecnologica. Unioncamere concerterà con le Camere i settori da approfondire in modo da assicurare una buona copertura dei vari ambiti tecnologici. Questo percorso potrà, in qualche modo, stimolare, attivare una competizione positiva anche tra gli Enti pubblici di ricerca italiani? E quindi migliorare l’efficienza e l’efficacia di quel 60% di risorse destinate alla ricerca pubblica? L’obiettivo finale è il raccordo fra la domanda e offerta di innovazione tecnologica e gli esiti attesi sono: - aggregazione e trasposizione dei fabbisogni delle imprese in una

domanda organizzata e sistematica che può essere espressa in termini “contrattualistici” agli EPR italiani e stranieri;

- aggregazione delle PMI e supporto per la partecipazione a programmi di ricerca finanziati nell’ambito del VI e VII Programma Quadro;

- facilitazione del trasferimento tecnologico dal mondo che genera e alimenta l’innovazione scientifica e tecnologica al mondo che la valorizza economicamente.

Infine, vi illustro le altre attività di Unioncamere per il 2005. Le altre attività che Unioncamere intende sicuramente approfondire riguardano il monitoraggio dell’attività di brevettazione per capire chi e cosa si brevetta. Inoltre, nel 2005 proseguirà un progetto, che originariamente partì da una idea scientifica del professor Bonaccorsi (è un approccio per studiare e rilevare le minacce e le opportunità di distretti o filiere), e che è stato successivamente svolto da Dintec in collaborazione con le Camere in riferimento ai settori cartario, calzaturiero, meccanico/stampaggi e nautica da diporto. Nel 2005 contiamo di avviare due ulteriori indagini che dovrebbero riguardare il settore dell’agroalimentare.

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Unioncamere, infine, ha predisposto azioni relative alla promozione della nascita di nuove imprese innovative, indirizzate a supportare le Camere di Commercio nella progettazione e realizzazione di appositi Fondi Rotativi per il Seed Capital. Grazie.

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IL RUOLO DEI VENTURE CAPITAL E DEGLI OPERATORI FINANZIARI Amedeo LEVORATO Amministratore delegato di E-Venture.It – Padova Grazie al dottor Donati, agli organizzatori di questa giornata e ai relatori che mi hanno preceduto. Ho trovato numerose assonanze con il contenuto dell’intervento che adesso cercherò di portare avanti con il vostro aiuto. Una breve introduzione su E-Venture. E-Venture è stata una società di venture capital dal ‘97 fino al 2002, oggi è un advisor nel settore del venture capital. Cosa sia il venture capital e l’attività di private equity è stato definito dalla associazione italiana del private equity e del venture capital. L’attività di private equity si caratterizza tipicamente come un’attività di investimento nel capitale di rischio di imprese non quotate, con l’obiettivo di valorizzare l’impresa oggetto dell’investimento, ai fini della dismissione della stessa entro un periodo di medio lungo termine. L’attività di venture capital è quella di investire in aziende con elevate probabilità di sviluppo per accelerare questo sviluppo. Una volta investito, dopo un certo periodo di tempo, l’investitore esce lasciando il posto ad altri, agli imprenditori che la ricomprano, oppure a una quotazione in borsa, oppure a un’altra azienda industriale. E-Venture è iscritta all’Aifi. Ha generato alcuni leader nella “new economy” e numerose “start-up”. Nel periodo dal ‘97 al 2002, sono state realizzate circa 20 operazioni. Facciamo alcuni esempi: Studenti Media Group s.p.a. di Roma, ITWG.com s.p.a. di Firenze, Edulife s.p.a. di Verona. E’ la fase dell’e–commerce e della new economy dell’internet. Studenti Media Group s.p.a. è un’azienda che è nata su un portale giovanile di comunità (www.studenti.it) ed è oggi una media agency nelle nuove tecnologie. ITWG.com s.p.a. è una società che opera nel settore del booking e reservation alberghiero con un giro di affari di circa 30 milioni di euro ed è collocata in Toscana. CD Flash Com s.p.a. è collocata a Roma e vende su internet articoli musicali. Edulife s.p.a. sta a Verona e si occupa di formazione a distanza. Queste sono solo alcune delle società fatte nascere da E-Venture. Noi abbiamo operato dieci uscite; sulle altre operazioni abbiamo fatto entrare ulteriori investitori e siamo ancora presenti come soci all’interno. Abbiamo partecipato a numerose iniziative anche qui in Veneto, come Infracom Serenissima, MultiLink, Nodalis Telecomunicazioni a Pisa. Abbiamo molti rapporti a Pisa con Andrea Bonaccorsi, che ha avviato diversi progetti. Inoltre posso ancora ricordare le iniziative Teleporto del Nord Est s.p.a., Energia 21, che è una società costituita con l’università di Padova per lo sviluppo di una tecnologia di batteria al magnesio. Poi nel

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2001 e 2002 c’è stata la crisi della New Economy e c’è stato un cambiamento strategico all’interno di E-Venture, che ha maturato nel 2003 due iniziative. Una nel settore immobiliare, la Est Capital SGR, che sta finendo in questi giorni di raccogliere un fondo di 60 milioni di euro per investimenti nel settore immobiliare. Un’altra nel settore del finanziamento e dell’innovazione che è la Galileo SGR S.p.A., società di gestione di risparmio, che sta raccogliendo un fondo di 25 milioni di euro, sulla quale mi soffermerò brevemente perché, com’è stato accennato negli interventi precedenti, esso costituisce uno strumento pensato per l'investimento nelle aziende innovative. Oggi E-Venture è un advisor nel campo della finanza d’azienda. E’ organizzata a rete ed è specializzata soprattutto nel settore della Information Technology e delle telecomunicazioni. Questa è la struttura attuale che si compone di una rete di società. Mate s.r.l. e Capital Life s.r.l. sono due società di consulenza, che svolgono attività nel settore dell’information tecnology e delle bioscienze. INNOVA Holding è una holding di partecipazioni ed è un incubatore virtuale che assiste le start-up, è di recente costituzione e si tratta praticamente di una società che investe in seed e start-up. Parlo brevemente della SGR Galileo in quanto qui è presente il direttore di Veneto Innovazione che è socio. La Società di gestione risparmio Galileo è stata un’idea che abbiamo avuto nel 2002. Le società di risparmio sono vigilate dalla Banca d’Italia. SGR Galileo è stata autorizzata dalla Banca d’Italia con il numero 167 nel 2003. Si tratta di società specifiche in quanto, avendo un capitale sociale al di sotto del milione di euro, che sarebbe quello stabilito dalla legge, sono costituite con la partecipazione di università e enti pubblici. Nel caso della Galileo, come vedete, i soci che abbiamo raccolto nell’arco di un anno circa di lavoro, sono 22, sono tutti i parchi del Veneto: Vega di Venezia, Galileo di Padova e il Parco Verona; le sei università di Trento, Verona, Padova, Venezia, Udine e Trieste; le associazioni industriali, tra cui anche l’Associazione industriali di Treviso; il sistema di garanzia collettiva fidi della Confindustria, Infracom, Imi San Paolo, la Banca Antonveneta e la Banca Popolare di Verona e Novara. La società attualmente ha 500 mila euro di capitale. Ha avuto a luglio l’autorizzazione del regolamento del fondo chiuso per 25 milioni di euro per investimenti in aziende innovative; 5 milioni per Seed Capital e 20 milioni per investimenti in aziende di media dimensione. Poi il 14 settembre ha ottenuto ancora l’accreditamento del Mediocredito Centrale ai sensi della legge 388/2000, che a valere sul fondo istituito con i denari provenienti dalla cessione delle licenze UMTS, garantisce il co-investimento fino al 50% e fino a 2 milioni 068 mila euro in questo tipo in aziende innovative.

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Abbiamo perciò messo in moto tutti i meccanismi necessari per poter esercitare attività di investimento su una massa complessiva di circa 50 milioni, perché 25 milioni sono assicurati dal “fund raising”, dal fondo, che però, attualmente, non è ancora completato, e 25 milioni invece sono garantiti dalle partecipazioni di Mediocredito Centrale. Per cui 100 miliardi potrebbero essere messi a disposizione nell’arco di pochi mesi per poter investire in aziende innovative nel nord est, con l’ausilio anche delle università e dei parchi scientifici. Il meccanismo moltiplicatore è tale che si verifica una attenuazione del rischio. Un milione di investimento fatto dai privati genera complessivamente circa 3,5 milioni di investimento totale. Nella visione di E-Venture, che è socio di maggioranza relativa di Galileo, la Galileo dovrebbe diventare l’organismo accreditato per l’investimento nel settore dell’alta tecnologia nel nord est. Il Presidente della SGR Galileo è il dottor Luigi Rossi Luciani, che è stato Presidente degli industriali veneti fino a qualche settimana fa. L’amministratore delegato è il dottor Molon, che è l’amministratore delegato della Banca Interconfidi nord est: il sistema di garanzia collettiva fidi della Confindustria. Poi, torneremo su questo tema. Volevo rapidamente fare un passaggio, anche se molte delle cose che dirò sono state dette. L’Italia, come è stato detto, soffre un pesante ritardo nella ricerca e nell’innovazione. La spesa in ricerca e sviluppo, come ricordava prima l’ingegnere, è l’1,11% contro l’1,98 della media dell’Unione Europea. L’intervento pubblico in Italia è il più alto d’Europa, il Governo finanzia il 50,8% della ricerca, anche malgrado il gap statistico che è stato rilevato più volte. Si dice: le piccole e medie imprese non hanno un proprio settore di ricerca e sviluppo, però svolgono un’attività di innovazione incrementale. Purtroppo le piccole e medie imprese non investono a sufficienza nella ricerca, ma non perché - e qui sono molto d’accordo con quello che diceva Bonaccorsi prima - non investono non avendo la disponibilità di risorse finanziarie, ma perché il capitalismo italiano è un neo capitalismo. Noi partiamo da una situazione di bassissima capitalizzazione delle imprese negli anni ‘70, soprattutto nelle aree non lombarde, non Piemontesi. Questo ha determinato, per così dire, una pulsione immediata degli imprenditori, che non appena accumulano il capitale si sottraggono la liquidità per acquistare gli immobili e adoperano l’immobile come l’asset principale patrimoniale delle aziende. Questo è un problema estremamente grave. Se da un lato l’immobile e il capannone garantisce, ai fini dell’eventuale Basilea 2 o della ricerca del credito bancario, un asset che può essere impiegato per cercare denaro, al tempo stesso c’è la necessità di pagarlo, mantenerlo e ampliarlo; sottrae insomma risorse alla liquidità d’azienda, impedendo alla stessa di avviare programmi di espansione, di allargamento sul piano delle risorse umane e sul

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piano della organizzazione soprattutto delle reti di vendita all’estero. Questo è uno, a mio avviso, dei più pesanti gap che abbiamo. Avevo cercato all’inizio dell’anno scorso di andare a risolvere il problema con questa costellazione, cioè creando la società di gestione del risparmio per gli immobili e la società di gestione del risparmio per l’innovazione. Voi tutti, che leggete il Sole 24 Ore, avrete visto che la gran parte delle grandi aziende hanno fatto lo spin-off delle attività immobiliari. E’ proprio il primo passo per una separazione tra la gestione vera e propria dell’azienda, quindi la capacità di destinare le risorse provenienti dall’utile, e il margine di contribuzione per reinvestire nell’attività aziendale, in modo da non destinare tutti gli utili al settore immobiliare. Purtroppo questo è un vizio dell’economia italiana contro il quale sarà difficile lottare, è una situazione che è incrostata nei comportamenti degli imprenditori. Sarà difficile superarlo a tal punto che dovremo subire nei prossimi anni alcuni shock relativamente al prezzo degli immobili perché l’eccesso di costruzione degli immobili probabilmente si risolverà in una riduzione delle rendite e anche in una riduzione dei prezzi. Allora a quel punto forse qualcuno comincerà a capire che bisognerà investire nell’azienda: l’immobile non si vende all’estero, non si esporta, non si può ricavarne un reddito consistente. Relativamente alle spese destinate alla ricerca, ma il relatore che mi ha preceduto è stato molto chiaro e quindi non mi soffermerei su questo: l’Italia 1,11%, la Francia 2,23%, la Germania 2,51%, l’Unione Europea è quasi al doppio come media dell’Italia. Per quanto riguarda il rapporto regionale, il nord ovest è il primo in assoluto nel settore privato, ha lo 0,9% del PIL. Il nord est ha meno della metà, circa quanto il centro perché il centro è molto riequilibrato dalla zona laziale dove vengono effettuati moltissimi investimenti nei settori dello spazio, dell’information tecnology, etc.. L’altro elemento, l’altro segnale è la componente “tecnologia delle esportazioni”. E’ stato detto prima che purtroppo le nostre piccole e medie imprese hanno una ridotta capacità di mettere sul mercato innovazioni vendibili. Producono innovazioni, lo ricordava prima Bonaccorsi, però, poi, in realtà, valorizzare una innovazione risulta difficile in un contesto di mercato nazionale, ed è diventato ancora più difficile nel contesto del mercato europeo, allargato ai 25 Paesi. L’azienda, a causa delle piccole dimensioni, non riesce in un mercato globale a mettere in atto un piano di investimento, ad avere una “market awareness”, cioè una conoscenza del contesto in cui opera. La carenza di finanza chiude il cerchio e impedisce che alcune importanti idee possano diventare delle applicazioni killer per fare il successo dell’azienda italiana nel mondo. Faccio una battuta per farvi capire, magari è una battuta fuori misura rispetto alle piccole e medie imprese. Qui è presente il relatore del pomeriggio, che è

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di Cambridge. L’80% di noi ha in tasca telefonini e PDA con dentro il processore ARM, che è stato sviluppato da un’azienda che si chiamava ACORN, che era di proprietà dell’Olivetti e che stava a Cambridge. La cosa assolutamente ridicola è che realtà tecnologiche nate e finanziate con capitali italiani e che sono nelle tasche di tutti i consumatori mondiali, pagano ROI alti non all’Olivetti, ma a chi ha comprato l’azienda ACORN quando Olivetti era in difficoltà. Vediamo la questione dei brevetti che benissimo ha ricordato l’ingegnere della DINTEC: 32 brevetti per 1 milione di abitanti, è un dato precedente al mio, però in linea di massima coincide, il dato del 2001 è di circa 2 mila brevetti, probabilmente il dato riferito dall’ingegnere era più recente, dava 2.500 brevetti annui in Italia 24 per abitante contro i 73,8 della media europea, 313 degli Stati Uniti e 250 del Giappone. Tra il ‘99 e il 2002 l’export di alta tecnologia sul totale delle esportazioni è aumentato dal 6 al 15% nei Paesi europei e solo dell’1,2% in Italia. Per quanto riguarda la meccanica noi abbiamo un fattore di forza che rischia però di trasformarsi in debolezza. Abbiamo un ottimo settore meccanico che incorpora innovazioni all’interno dei prodotti; circa il 25% delle nostre esportazioni, mi riferisco soprattutto al Veneto, sono di attrezzature nel settore meccanico. Incorporano innovazioni che non risultano poi nelle statistiche. Se questo settore non viene aiutato a evolversi sempre più rapidamente, perderà spazio. Come si ricordava, nei giorni scorsi, l’Italia è passata dal 4,5% delle esportazioni mondiali al 3% delle esportazioni mondiali. Abbiamo perso circa il 30% del nostro stock di commercio mondiale nell’arco di 5 anni. Per quanto riguarda l’esportazione dei prodotti per intensità di tecnologia nel 2001 l'Italia è all'11,8% contro la Germania 20,6% e gli Stati Uniti 37%. Gli Stati Uniti fanno un caso a parte in quanto, com’è noto, attraverso la Microsoft e la Boeing riescono a esportare quantità enormi di conoscenza incorporata nei prodotti, un concetto quello della conoscenza incorporata nel quale noi non abbiamo mai investito. Però siccome io sono specializzato nel settore dell’information tecnology mi piace ricordare questo fatto: chi ha investito in risorse umane per la produzione del software negli anni ‘70 e ‘80, negli anni ‘90 e negli anni 2000 raccoglie i risultati. I tedeschi che hanno investito con la Sap e adesso con Suse Linux , raccoglieranno i risultati fra 10 anni. Ma se noi non partiamo mai non raccoglieremo mai risultati. I tedeschi hanno scelto coscientemente di andare contro la linea di Microsoft e di Bill Gates, hanno scelto coscientemente di far applicare lo standard del Linux Open Source in Europa e si stanno giocando tutto il futuro del loro settore informatico su questo. Noi invece siamo ancora qui che aspettiamo di capire se potrà esistere un settore informatico nella economia italiana.

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Cause del ritardo. La necessità di creare infrastrutture per la ricerca e i centri di eccellenza è nota fin dal 1989. Nell’89 il Ministro Ruberti, aveva commissionato all’Ocse una ricerca condotta da alcune persone di altissimo livello e da quella ricerca sono nate alcune cose positive come la riforma dei cicli di formazione universitaria, il 3 più 2. Era stato sottolineato, ad esempio il problema della ricerca per la ricerca, che consiste nel produrre pubblicazioni senza produrre brevetti. E' ben chiaro da 20 anni a questa parte. Il ruolo delle università si è evoluto quasi ovunque. Possiamo discutere sulla capacità dell’università di produrre innovazione. Negli Stati Uniti, in maniera formale o informale, 200 università hanno incubatori tecnologici che hanno un ruolo che è ampiamente dimostrato nel far nascere nuove imprese. Le imprese di alta tecnologia possono nascere svilupparsi anche fuori dall’università, questo è indubbio, e dai centri di ricerca. Ma la compresenza degli incubatori nei centri di eccellenza accelera la crescita, questo va detto. Anche la Camera di Commercio di Treviso, quella di Vicenza, ma anche quella di Padova con il proprio incubatore hanno svolto questo tipo di attività. Basta ricordare che Padova ha una scuola di design, che qui c’è una scuola di tecnologia e design. Sono gli stessi argomenti che Bonaccorsi aveva citato, che pero’ si sviluppano in maniera del tutto autonoma e non con una direzione nazionale. Senza un indirizzo politico nazionale, ma in maniera del tutto autonoma, le Camere di Commercio e le realtà imprenditoriali locali hanno dato risposte a dei bisogni, questo è evidente. Tuttavia, nonostante tutto, dopo 10 o 15 anni che queste cose esistono, non c’è un riconoscimento oggettivo che siano valide, non le si aiuta a diventare un sistema e quindi queste realtà devono andare a fare alleanze con il Fraunhofer Institute. Ingegnere, mi faccia passare la battuta, non è che loro vanno a fare alleanza con il Fraunhofer Institute in Germania e potrebbero andare da qualche altra parte in Italia. Non c’è nessuno in Italia, a partire dal Ministero dell’Industria in giù, compresi gli enti di ricerca e i centri di ricerca che possono dare quello che offrono il Fraunhofer Instute in Germania o il Weizmann Institute in Israele. Se queste realtà sono realtà di eccellenza, è dovere del Governo centrale di trasformarle in realtà d’eccellenza per tutto il resto d’Italia. O a queste realtà vengono date risorse per diventare degli esempi in modo da trasmettere le cose che hanno sviluppato in tutto il resto d’Italia, oppure sono costrette, per mancanza di risorse, a andarsene in Germania, quindi in maniera del tutto eccentrica a cercare dei punti di appoggio in altri Paesi. Scusi, lei capirà, era solo una sottolineatura che però mi pareva importante fare. In Italia il numero degli incubatori per milioni di occupati è pari al 2,1 contro l’11,9 della Finlandia e si tratta di incubatori dislocati. La Germania ne ha

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8,2 per milione di occupati. Noi siamo all’ultimo posto, tra i Paesi che consideriamo avanzati. Vengo a parlare del contributo del venture capital. Per me innanzitutto è importante sottolineare una cosa: la finanza è un servizio. Non sono i venture capitalists, gli investitori privati che possono stimolare la nascita di nuove imprese. Possono aiutare lo sviluppo di alcune imprese innovative, quelle che sono destinate a diventare tali e non quelle che rimangono nane. Difficilmente favoriscono lo sviluppo di società nel settore dei servizi, preferiscono società del settore manifatturiero o dei servizi riproducibili e per poter diventare, per così dire, un sistema di supporto (com’è stato auspicato da qualcuno, mi riferisco all’ultima slide di entrambi gli interventi che trattava di seed e start-up) dovrebbero avere un ruolo istituzionale. Cosa significa lo vedremo. Intanto vi dico che io faccio parte della Commissione dell’alta tecnologia dell’Aifi, che ha prodotto un manifesto, a dicembre di quest’anno, per sostenere la nascita e lo sviluppo di nuove imprese dell’alta tecnologia. E’ reperibile sul sito dell’Aifi www.aifi.it e individua tutta una serie di settori che riguardano lo sviluppo. Sono pochi gli operatori iscritti all’Aifi, circa 100 sono quelli che sono riconosciuti come investitori istituzionali. L’Aifi aderisce anche all’European Venture Capital Association. Oltre la metà di questi operatori sono di emanazione bancaria e quindi l’Aifi associa anche tutti coloro che investono non solo nelle tecnologie, ma anche nelle aziende. Dal 2003 è stata introdotta in Italia la “participation exemption” o PEX, che tuttavia non è facile da valorizzare per il fatto che siamo in piena fase di declino degli investimenti. Quando gestisce i fondi propri, come si diceva prima, il venture capitalist opera con una holding di partecipazione gestita come fondo. Quando gestisce fondi altrui generalmente costituisce una società di gestione del risparmio con un fondo chiuso riservato agli investitori qualificati. Per qualificati si intendono quegli investitori che, nel momento in cui sottoscrivono quote del fondo che, per il resto, è analogo al fondo di investimento che il risparmiatore sottoscrive in banca, dichiarano di poter perdere tutto l’importo dell’investimento effettuato in quanto questo non incide o incide molto marginalmente sul proprio patrimonio personale. Gli operatori specializzati nell’alta tecnologia oggi in Italia, tengo a sottolinearlo, sono una decina e auspico che possano aumentare. Va precisato, però, che per gestire questo tipo di attività occorrono delle fortissime competenze professionali che non sono sempre presenti soprattutto nella periferia rispetto all’area milanese. Qui nel Veneto, per esempio, ci sono la Palladio Finanziaria e la Finanziaria Internazionale di Conegliano. Sono pochi i soggetti che fanno questo tipo di attività. Meno ancora sono quelli che operano nell’alta tecnologia .

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Generalmente, ma non sempre, operano nel settore cosiddetto early stage, cioè la fase iniziale dell’azienda, che è composta dal Seed in cui di solito il venture capital non interviene ed è un’area specificamente riservata all’investimento pubblico. Esistono poi degli schemi, nati all’estero, e penso che anche il relatore nel pomeriggio possa illustrare alcune iniziative svolte in Gran Bretagna. Le società di start-up sono più tipicamente riservate a Venture capitalists fino al secondo round, fino cioè al rifinanziamento eventuale di un progetto avviato con la fase di start-up. A questo punto il venture capital cede la mano a investitori maggiormente istituzionali che fanno investimenti anche di maggiore dimensione. Anche se non si può generalizzare, in linea di massima il Seed può andare da 100 a 500 mila euro, lo start-up e il secondo round possono andare da 500 mila euro a 1, 2, 3, 5 milioni a seconda del fabbisogno che il piano finanziario dell’azienda richiede. Come esce il venture capital dagli investimenti? Esce a seguito dell’acquisizione da parte del managment o da parte di un socio dell’azienda che grazie alla leva finanziaria riacquista. Altre possibilità sono, in un secondo round, l’entrata di un altro investitore, una vendita a un sistema industriale oppure la famigerata IPO su una borsa, su un mercato regolamentato che permette l’uscita degli investitori istituzionali e magari un guadagno per l’imprenditore, com’è avvenuto per la Geox recentemente. Le modalità operative con cui opera il venture capital sono queste: acquisisce partecipazioni societarie prevalentemente di minoranza, quindi si tratta di un’operazione diversa da quella del fondo di grandi dimensioni di dipendenza bancaria che generalmente compra la maggioranza dell’azienda. L’intervento in aziende nuove, aventi quindi il potenziale per diventare attori economici significativi; e a crescita rapida. Il venture capital assiste le aziende partecipate nello sviluppo di nuovi prodotti e servizi; crea valore nelle aziende attraverso un coinvolgimento attivo, contribuendo con la propria esperienza, visione e senso pratico del business, acquisiti nel supporto di altre società con simili obiettivi di crescita. Questa è un’attività molto delicata, noi per esempio entriamo in tutti i Consigli di amministrazione nelle società in cui assumiamo partecipazioni. Assume elevati livelli di rischio a fronte di aspettative di elevati ritorni, ovvero la realizzazione di capital gain attraverso il disinvestimento delle iniziative partecipate. Diciamo che viene apprezzato un tasso prospettico di rendimento di circa il 40% annuo quando si attua un investimento. E' ovvio che per 10 investimenti generalmente 6 o 8 vanno male ed è un tasso molto elevato. Ha un orientamento di medio e lungo termine e qui sorrido perché un tempo di 3/5 anni può essere considerato anche un brevissimo termine per un imprenditore. Purtroppo in una economia globalizzata non è così. Come

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diceva Keynes, siamo tutti morti nel lungo periodo. Purtroppo, come vedete, questo è il dato relativo alle operazioni in Italia. Vedete che l’anno del 2000 è l’anno del picco: sono state fatte 339 operazioni di early stage financing per un ammontare di 540 milioni di euro. Poi il dato è crollato. Noi usciamo in questo momento da 3 anni orribili, soprattutto gli ultimi 2 hanno segnato un tasso di investimenti molto ridotto. Teniamo conto che questo è un dato che si riferisce agli investitori istituzionali. Ci sono anche tutta una serie di investitori informali o di non reported investment, cioè investimenti che non vengono riportati, che potrebbero modificare sensibilmente il dato. Comunque sia non lo modificano del doppio, quindi è bene essere chiari. Cioè il livello di investimenti di alta tecnologia da parte di società di venture capital private non tocca i 100 l’anno in questo momento, potrebbe toccare i 200 solo in determinate condizioni di aiuto. Il settore esce ora da una crisi triennale, che va dal 2001 al 2004. Diversi fondi sono in fase di raccolta, ma faticano a venire chiusi. La crescita delle imprese che vengono finanziate per grandi committenti è pericolosa perché purtroppo l’Italia ha una caratteristica in più: la concorrenza è molto scarsa. Le aziende in qualunque settore nascano, che sia quello meccanico, dei beni strumentali, che sia quello informatico o del software, rischiano sempre di essere acquisite per committenza. Succede che si cade sotto l’occhio di un grande committente che, avendo l’accesso al mercato, comincia a controllare il fatturato dell’azienda e alla fine questa è costretta a vendersi. Questo non accade in economie di grandi dimensioni come quella statunitense dove la concorrenza è molto ampia e dove c’è un veloce cambiamento dei soggetti in concorrenza. Purtroppo succede in economie ristrette come quelle europee, almeno finché l'Europa non sara’ effettivamente estesa come mercato effettivo. Il ridotto contesto imprenditoriale italiano impedisce “way out” interessanti al di fuori della borsa. Non ci sono cioè imprenditori che hanno la liquidità necessaria per comprare e pagare prezzi alti come dovrebbe essere nel caso di aziende fortemente innovative che hanno delle possibilità di crescita molto ampia. Le grandi aziende e i fondi preferiscono acquisire il 100% delle poche aziende di successo. L’esempio lampante è quello della Team System, un’azienda di software tra le migliori in Europa a livello di quella della Sap, per capirci. Team System è un’azienda di Rimini che doveva andare in borsa quest’anno. Improvvisamente sono state interrotte le procedure di quotazione in borsa ed è stata acquisita all’80% da parte di un fondo inglese, Palamon, che se l’è comprata perché evidentemente il tasso di rendimento di quella azienda è molto elevato. Non si va in borsa se il rendimento aziendale, in senso di margine di contribuzione, è molto elevato. La borsa impone operazioni a alto rendimento per gli investitori istituzionali, così le banche preferiscono portare in borsa aziende fortemente capitalizzate,

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che hanno buoni rendimenti, per poter vendere rapidamente le azioni e portare a casa i soldi che hanno rischiato. Dai 417 milioni di euro investiti nel 2000 si è passati a soli 46 milioni di euro nel 2003, mentre il numero delle operazioni è pari all’84,5, questa è una cosa che mi preme sottolineare. Noi siamo alla fine di una fase di crisi. Un forte investitore internazionale, la Advent, dichiara che gli investimenti fatti nel biennio precedente a una fase di ripresa economica rendono dai 5 alle 7 volte di più che quelli fatti nella fase finale del ciclo, per cui chi compra nel 2005 e 2006 avrà risultati straordinari entro 2010. Questo è un dato di fatto che è davanti agli occhi di tutti gli operatori, infatti stiamo accelerando i tempi anche per le chiusure dei fondi perché ci sono opportunità molto interessanti. L’Italia è adeguata dal punto di vista degli schemi di sostegno all’innovazione. Il problema vero pero’ è che i nostri schemi sono partiti in ritardo e si muovono con una burocrazia molto complessa. La legge 297/99 fino adesso ha finanziato solo 11 progetti. Questo impedisce di fatto che ci sia un raccordo tra la nascita delle nuove imprese a alta tecnologia, che hanno necessariamente bisogno di essere finanziate in tempi brevi, e il decollo di questi strumenti di aiuto finanziario. L’Italia ha bisogno di una struttura finanziaria moderna perché le banche maggiori sono impegnate attualmente nei processi di concentrazione, lo vedete tutti i giorni sui giornali. Sono abituate a denaro e basta e i loro gestori di fondi preferiscono operazioni sicure di buy out, di Mezzanino e di Pre-IPO per investire in capitale di rischio. Manca una chiarezza nelle strategie, di conseguenza le banche preferiscono non investire nelle aziende piccole. Quindi l’high tech viene cassato perché investimenti al di sotto dei 5 milioni di euro sono considerati investimenti troppo piccoli e troppo onerosi da parte dei fondi di emanazione bancaria, anche quelli chiusi, destinati ad aziende. E' ancora immaturo quel modello di fondi, in cui la locazione ottimale viene determinata in relazione al rischio. Nei paesi anglosassoni esiste un concetto in cui il fondo, anche il fondo pensione, per esempio, destina l’1% delle proprie disponibilità finanziarie a investire in fondi chiusi anche ad alta tecnologia. E’ rischioso, ma se va bene determina un rendimento altissimo nel lungo periodo che va a riequilibrare i rendimenti più bassi degli altri investimenti. In Italia questa cosa non si è ancora evoluta proprio per la mancanza di una struttura finanziaria moderna. Le Fondazioni delle Casse di risparmio perseguono una politica di investimento in ricerca e cultura, che spesso è dissipatore. Non è una parola negativa, si tratta di un investimento non cumulativo. Pagano la ricerca universitaria, le attività in maniera anche molto nobile, la cultura, ma non investono in maniera accumulativa sulle piccole aziende innovative e non

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hanno ancora abbracciato l’idea che le imprese tecnologiche siano creatrici di indotto, di nuova opportunità, come invece abbiamo detto. Le università, nonostante i nuovi regolamenti non hanno sviluppato una visione pragmatica e non pregiudiziale sulle start-up, che sono viste (purtroppo per i docenti che si sacrificano nel cercare di creare iniziative nuove) come affarismo. Spesso ai docenti, che si dedicano a questo tipo di attività, viene inibita la carriera universitaria, questa è ancora una prassi molto diffusa nella comunità scientifica. Le finanziarie regionali non investono nel capitale di rischio, o meglio non investono nelle PMI, casomai prendono dei prestiti partecipativi come fa la Friulia, prestiti destinati sostanzialmente a ritornare indietro. Se la borsa è l’aspettativa dei redditi futuri, il Nuovo Mercato l’ha affogata di redditi attesi. Le valutazioni sono talmente cresciute che i prezzi delle azioni riflettevano e riflettono tutt’oggi aspettative di utili per 25–30 anni, che non potranno mai essere soddisfatte. Da due anni a questa parte assistiamo a uno slittamento continuo dei prezzi delle azioni nel Nuovo Mercato, come accade per Tiscali per capire. Per sapere cosa ne pensano gli imprenditori, basta leggere un articolo del Sole 24 Ore dell’altro giorno. Si tratta di una ricerca del professor Bergami dell’Università di Bologna, che sostanzialmente giunge a queste conclusioni: gli imprenditori dichiarano di non essere informati sulle caratteristiche tecniche del private equity e del venture capital. Il mio parere è che, purtroppo, il private equity, il venture capital sono una risorsa scarsa; sono pochi gli operatori e quindi professionalmente vi è difficoltà a concludere operazioni. Affermano, inoltre, di non conoscere personalmente imprenditori soddisfatti di un’operazione di private equity, eppure non mancano; qui, in Provincia di Treviso, la Geox e la Permasteelisa, credo, possano essere soddisfatti di avere accolto degli investitori che poi li hanno portati in borsa. Sono poco intenzionati a cercare attivamente contatti con investitori istituzionali nel corso dei 12 mesi successivi all’intervista (oggi, in verità, è difficile trovarli specie per operazioni di minoranza) e sono prevalentemente convinti che l’esito finale di un’operazione di private equity sia il riacquisto della quota del fondo. Quest’ultima affermazione non può essere riportata come un parere, a mio avviso, perché è la realtà. Il venture capital specie se investe denaro altrui - pensate solo per un momento a essere quelli che hanno sottoscritto il fondo di investimento - deve necessariamente avere un exit, cioè la vendita delle quote con cui è entrato per finanziare il programma di sviluppo dell’azienda. Cosa si può dire a questo punto? Non c’è tempo, ma spero che nel dibattito se ne possa discutere. Se pensate un attimo alle obiezioni mosse si comprende come la separazione tra proprietà e gestione oggi sia il fattore critico essenziale. Purtroppo c’è

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una eccessiva identità tra quella che è la proprietà dell’imprenditore nei confronti della propria azienda e quella che è l’azienda. Non c’è la capacità di separare il concetto dell’azienda, che deve essere managerialmente sviluppata con una struttura organizzata e globalizzata, e la proprietà dell’immobile, dell’azienda, delle azioni, etc.. Questa mancanza di separazione impedisce anche di acquisire degli investitori dall’esterno. Nelle start-up si verifica lo stesso tipo di problema. Il venture capital è indispensabile, ma è importante capire quale venture capital, specialmente per le start-up tecnologiche. Bisogna cominciare dagli incubatori. Ho visto che anche oggi c’è una conferenza stampa per l’apertura di un incubatore a Asolo qui nella Camera di Commercio, quindi vuol dire che questo meccanismo sta filiando risultati. E’ necessario favorire la creazione di centri di eccellenza e meta-tecnologie. Ancora una volta Treviso, da tempo, con le varie attività che ha svolto è leader in Italia. Quando dico meta-tecnologie, intendo non una tecnologia specifica, ma la capacità di trasferire al sistema produttivo delle competenze trasversali. Per esempio a Padova il Parco Scientifico ha un proprio centro per i materiali nella meccanica, nella progettazione, nelle IT specifiche di settore, che possono essere quelle dell’imaging, quelle dell’e-book, quelle degli ERP per le aziende, nelle telecomunicazioni, come a Torino Wireless dove c’è un distretto per le tecnologie Wireless, nelle bioscienze e nelle nanotecnologie. Questo è un percorso che bisogna continuare a seguire. Le risorse dovrebbero essere convogliate direttamente a questo tipo di sistema traendo esempio dai centri di eccellenza che, fino a oggi, si sono sviluppati in modo del tutto spontaneo, ad es. Pisa. E’ necessario incoraggiare la formazione di imprenditori e professionisti; il commercialista, l’avvocato non dice che non sa fare un’operazione di investimento in un’azienda, però, nella maggior parte dei casi, è così, sono abituati a fare i contratti di locazione. Non per offendere i professionisti, però purtroppo, in periferia, non è facile trovare un professionista che sappia gestire operazioni di investimento in capitale di rischio in un’azienda, un patto parasociale, una governance sociale, capire un business plan, effettuare una valutazione d’azienda, etc.. Non sono competenze diffuse. Un altro tema è il management e i valori. Bisogna garantire il finanziamento delle attività di ricerca in tempi reali e non collegarlo all’inclinazione dei docenti validatori. Sto vivendo delle situazioni terribili, abbiamo da due, da tre anni la coda per prendere dei soldi e i docenti continuano a far riscrivere progetti, mi riferisco ai piani del fondo dell’innovazione tecnologica e del fondo per la ricerca applicata del Ministero. Sono necessari, infine, una nuova legislazione sul fallimento e un atteggiamento diverso da parte degli investitori istituzionali che sono le

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banche, perché l’investimento nella tecnologia vuol dire creare un indotto che fa la competitività italiana nel mondo. Scusate se mi sono dilungato, spero di essere stato chiaro.

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RISORSE UMANE E PROCESSI DI INNOVAZIONE NELLE PMI Enrico DONATI Amministratore delegato Assist Consulting Considerati i tempi, e avendo anche il duplice ruolo di coordinatore di questo incontro, cercherò di fare veramente un intervento molto breve. Chi mi ha preceduto ha già anticipato molti temi che riguardano il ruolo delle risorse umane nell’innovazione. Il punto di vista che vorrei sviluppare in questo intervento è quello dell’impresa. Ho tralasciato invece quello delle istituzioni che operano intorno all’impresa. Mi interessa focalizzare cosa può fare l’impresa per potenziare la propria capacità di innovazione, agendo sulla leva delle risorse umane e sui processi interni. Nella mia attività sperimento contemporaneamente tre ruoli: quello prevalente di consulente di managment e organizzazione; quello di manager della mia organizzazione – Assist Consulting-, che oggi conta un gruppo di 50 professionisti organizzati in quattro società, e quello di imprenditore. Negli ultimi 4 anni mi è capitata infatti anche l’occasione di fare il “business angel”, come viene oggi chiamato chi finanzia con risorse personali lo start up di nuove imprese. In questo ruolo ho investito in una start-up con un gruppo di giovani sviluppatori di software; quando abbiamo cominciato il più grande aveva 26 anni e il più giovane ne aveva 21. Abbiamo iniziato nell’aprile 2000. Stiamo sviluppando e vendendo tecnologie e soluzioni per la gestione di dati e file, sia su rete internet, che, soprattutto oggi, nel mondo mobile. Abbiamo clienti come la H3G, la Tim, Telecom Italia Media, Vodafone e anche alcune Camere di Commercio. Fortunatamente, dopo 3 anni di notevoli fatiche e qualche perdita, anche di persone che ritenevamo importanti, siamo riusciti a stabilizzare l’azienda che, già nel 2004, sta generando cash flow positivo e ha cominciato ad autofinanziarsi. Le riflessioni che vi propongo, raccolgono quindi anche un po’ della mia esperienza diretta come imprenditore e manager di una piccola impresa innovativa che si è buttata in un business dove c’è una competizione internazionale estremamente forte. Rapidamente, nell’introduzione vorrei proporre due idee. La prima: l’innovazione non è un optional per l’impresa, è una necessità per sopravvivere. Oggi è stato detto in tanti modi. Innovare non è un optional, ma è il cuore dell’impresa. Non esiste impresa, che dura nel lungo periodo, che non fa innovazione. Essa deve essere costantemente proiettata al miglioramento dei risultati economici e della propria capacità competitiva. La sfida dell’innovazione non è solo la sfida della ricerca scientifica, che ha un altro tipo di obiettivi. E' la sfida di acquisire e di intercettare le

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innovazioni che il mondo della ricerca scientifica o il mondo delle imprese stesse produce per trasformarle nel miglioramento continuo, più o meno radicale, dei prodotti e dei servizi. Questo miglioramento è tale solo quando il mercato dei clienti, dei consumatori, siano essi imprese o consumatori come noi, è disponibile ad apprezzarlo nei limiti di costo e di prestazioni effettive che vengono generate. L’innovazione si deve sempre confrontare con la capacità del mercato di rispondere positivamente alla nuova offerta. L’impresa si trova necessariamente a svolgere questo compito tutti i giorni. Quando andiamo nelle imprese, tuttavia, soprattutto quelle piccole e medie, spesso ci accorgiamo che, mentre sono ben strutturati numerosi altri processi, i processi di innovazione lo sono relativamente poco. Dato che il processo di innovazione è un processo critico, il problema della capacità di aver successo nell’impresa innovativa, è un problema che sta tutto nelle mani del managment o dell’imprenditore. E' bene analizzare i dati di scenario, di contorno che riguardano l’investimento complessivo nella ricerca e nello sviluppo, le strutture che facilitano queste innovazioni, gli incubatori, i rapporti con le università. Tuttavia come imprenditori o come manager delle imprese non ci si può dimenticare che, poi, il problema dell’innovazione, del processo di innovazione è nelle nostre mani e fa parte delle decisioni strategiche e operative che tutti i giorni dobbiamo assumere. Un secondo punto che è già stato ampiamente trattato, e che quindi supero rapidamente, riguarda il fatto che ci sono tanti modi di fare innovazione. Il professor Bonaccorsi ci ha dato un quadro concettuale e un modello completo e ricco di esempi su questo punto. Voglio solo richiamare una serie di casi che vengono definiti da Simon i “Campioni Nascosti”. Questo studioso tedesco, ha pubblicato una ricerca, qualche anno fa, nella quale afferma che in Europa esistono tante imprese relativamente piccole, diciamo pure PMI, con fatturati piuttosto limitati, che pur non essendo molto note, e senza comparire sui giornali o fare tanta pubblicità, hanno conquistato posizioni di leadership nei mercati europei o addirittura mondiali. In alcuni casi, come vedrete, queste imprese operano in settori anche tradizionali, nei quali spesso l’innovazione è del tipo di cui parlava il professor Bonaccorsi. Si tratta cioè di un’innovazione nella quale si trasferiscono tecnologie innovative da altri settori oppure si applicano tecnologie innovative ai prodotti e ai servizi offerti, senza che essa includa il fare tanta ricerca e sviluppo all’interno dell’impresa. Per inciso, ciò non significa negare che c’è un enorme bisogno di potenziare la ricerca e sviluppo. I Campioni Nascosti sono tutte imprese grandi innovatrici, anche se poco note. Spesso sono imprese familiari. Nonostante si sottolinei spesso la necessità di separare la gestione dall’imprenditore per favorire lo sviluppo dell’impresa, numerose di queste imprese si caratterizzano per un forte ruolo di controllo della proprietà, che non impedisce ma anzi consente all’impresa

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di affrontare con successo e continuità il processo di innovazione. Queste imprese hanno una elevata focalizzazione e operano in un mercato globale. Mercato globale e focalizzazione costringono queste aziende ad innovare continuamente per competere. Il loro mercato, dai confini locali o nazionali, è troppo piccolo, pertanto sono spinte dal business che hanno scelto ad andare all’estero. Questo insegna qualcosa anche alle imprese che non hanno questa opportunità o questa necessità. E’ chiaro che la competizione, su una scala più ampia, ti costringe a diventare più innovativo. Affacciarsi al mercato internazionale, anche quando c’è ancora spazio nel mercato locale, è una strategia per potenziare l’azienda e costringere tutta la struttura a orientarsi verso l’innovazione. Queste aziende che dominano i loro mercati, spesso con quote anche superiori al 50%, si concentrano sulla creazione di competenze interne. Queste aziende investono molto sulle loro persone e sul mantenimento delle competenze, perché è chiaro che un fattore chiave della competizione, della capacità di competere, sta proprio nel difendere, nel preservare le competenze interne che danno continuità all’innovazione. Sono aziende che hanno ridotto quasi a zero il turnover di personale, che riescono a trattenere le risorse qualificate, e a creare evidentemente un ambiente di lavoro che soddisfa profondamente le persone. Sono aziende di successo, ma non sono miracolose. Prima ne avevo citate alcune come la Yoox, piuttosto che la Guru, che in tre o quattro anni sono diventate imprese da 70, 80, 90 milioni di euro. La Guru è quell’azienda che ha inventato il brand con la Margherita e, facendo magliette, in quattro anni è diventata un’impresa da 90 milioni di euro di ricavi, che vende abbigliamento in tutto il mondo. La Yoox, nata nel 2000, sfruttando internet è riuscita in pochissimi anni a costruire un sistema di commercio elettronico dell’abbigliamento di moda, creando un nuovo modello di business in un settore abbastanza tradizionale. Quest’anno mi pare abbia un budget di 40–45 milioni di euro. Si tratta di aziende che, in pochissimi anni, sono diventate aziende di media dimensione. Alcuni altri nomi che compaiono in questo elenco sono: Allegri, leader mondiale per tecnologia e ricerca nella produzione di impermeabili; Ascol Vicenza, leader mondiale per la produzione di articoli tecnici e acquari; Colombo Filipetti; Garrol di Travagliato (Bs) che con un fatturato limitato a 10 milioni di euro (i dati si riferiscono al 2000 – 2001) è leader mondiale delle linee per la produzione di apparecchi sanitari e ceramici. Ce ne sono diverse altre come potete vedere nella lista, fino a arrivare alla Morellato, che, nella vostra zona, è un’azienda storica che sta mantenendo una leadership nei cinturini per orologio, e che negli ultimi anni, ha diversificato con altre linee di prodotto come la gioielleria. Fra esse c’è anche qualche marchio più noto: la Panini, la Solari di Udine, la Tecno Gym, etc..

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Sono tutte aziende che non hanno fatto salti mortali, che sono cresciute più o meno rapidamente, e che sono riuscite a mantenere un traiettoria molto lineare. Anche se hanno avuto nella loro storia momenti di difficoltà, hanno dimostrato una capacità di continuare a percorrere il processo dell’innovazione, che hanno puntato la rotta su questo obiettivo. Mi pare che molte PMI abbiano bisogno, come è già stato detto questa mattina, di fare il salto, cioè di passare dalla fase pionieristica in cui l’imprenditore ha l’idea attorno a cui sviluppa il business nei primi anni, a quella in cui il processo di innovazione diviene continuo e strutturale, così come succede per tutti gli altri processi aziendali. Quando visitate un’azienda il processo produttivo “si vede”, il processo commerciale pure si vede; nel senso che ci sono i venditori, ci sono delle persone, etc., e le aziende sanno che è importante. Il processo di innovazione spesso non è ben identificato, non “si vede”. Ci diceva prima il professor Bonaccorsi, se non ho letto male i dati, che due terzi delle piccole imprese non hanno un ufficio tecnico. Non hanno cioè una struttura con delle persone che seguono determinate metodologie e processi, come si fa in tutte le attività di impresa. Non c’è un processo atto a realizzare costantemente e continuativamente l’attività di innovazione, anche se tutti hanno chiaro che senza di essa possono competere sul mercato solo per un breve periodo. Come si fa a strutturare questi processi? Io credo che si possano fare diverse cose, ne cito alcune rapidamente. Mi pare ci siano tre assi importanti sui quali lavorare (cfr. figura). Un primo asse è quello del rapporto tra i prodotti e i servizi che richiedono di essere innovati e il sistema delle conoscenze. Il sistema delle conoscenze, abbiamo visto, è vario, ci sono le università, i centri di ricerca, i parchi tecnologici, le altre imprese. Le conoscenze utili all’impresa sono distribuite fra questi soggetti. Occorre strutturare un po’ di più e potenziare i processi e i ruoli che si occupano di progettare e, in alcuni, casi di fare ricerca e sviluppo. E’ necessario, per lo meno, fare progettazione, cioè pensare in modo nuovo prodotti e servizi.

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C’è un altro asse che mette in rapporto i prodotti e i servizi dell’impresa con il mercato; è l’asse lungo il quale si giocano i processi di marketing e vendite, i processi che vanno verso il cliente, ma anche il rapporto con i fornitori. I clienti sono un elemento importante dell’innovazione; le ricerche lo dicono e lo vediamo nella nostra stessa esperienza. Spesso sono i clienti che ci chiedono di innovare, così come talvolta sono i fornitori che ci aiutano a innovare, perché ci portano tecnologie, strumentazioni, componenti che includono elementi innovativi. I clienti, soprattutto, sia come singoli clienti committenti sia in generale come mercato, sono spesso la fonte dell’innovazione. Sono i soggetti che - se osservati, se analizzati, se conosciuti, se mantenuti in una relazione di ascolto con l’impresa - ci fanno capire quali sono le aspettative e quali sono le necessità o gli spazi di mercato che si possono aprire. Quasi tutte le imprese hanno una struttura di vendita e di marketing, non tutte strutturano bene i processi di monitoraggio, chiamiamolo così, di ascolto del mercato. L’ultimo asse, infine, è quello che si posiziona tra il mercato e il sistema delle conoscenze; è l’asse sul quale vanno strutturati i processi di gestione delle risorse umane. Molto spesso, nella piccola impresa, la gestione risorse umane è fatta in modo un po’ improvvisato o comunque poco strutturato. Non è vero che tutti possono fare gli innovatori, non è vero che tutti quelli che escono dalle università sono persone innovative, occorre cercare e selezionare i talenti; e fra questi talenti quelli che sono orientati all’innovazione. E cercare questi talenti non è una cosa semplice, occorre soprattutto diventare attrattivi per i talenti. Credo esistano molte metodologie. Ho visto, leggendo i casi della Morellato e di altre imprese, che la parte importante della sfida competitiva si è giocata sull’innovazione organizzativa, sul fare rete, sul fare lean organization, cioè su un’organizzazione snella ed efficiente, perché se non si fa efficienza non si generano risorse e spazi per dedicare intelligenza, tempo e risorse all’innovazione. Quindi non va trascurata, mentre spesso un po’ è sottovalutata, tutta la componente di metodologie, anche ingegneristiche - per esempio il concurrent engeering, il project managment, il lean production, etc.. Spesso i consulenti come me o come tanti altri cercano di proporre alle imprese, che intendono funzionare meglio, un'organizzazione che produca in modo più lineare, l’innovazione. L’altro punto importante è che dobbiamo attrarre, selezionare e trattenere risorse orientate all’innovazione. L’innovazione - anche se Levorato ci dà la finanza - non la facciamo solo con i soldi, ma con le persone e con le applicazioni; la strumentazione che con quei soldi siamo in grado di acquisire sono le persone che possono essere dedicate a innovare, a fare managment, a intrattenere rapporti e via dicendo.

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Cosa si può fare da questo punto di vista? Credo che il problema esista di più per la piccola impresa. L’impresa grande, con un brand importante ce l’ha un po’ di meno. Occorre innanzitutto diventare più attrattivi. Perché un laureato o un ragazzo che ha fatto il dottorato, o un ragazzo che ha fatto il master deve andare lavorare in una piccola impresa? Che cosa gli offriamo? Quali opportunità ci sono per lui/lei? Questo mi sembra un punto estremamente importante perché per fare innovazione e per essere competitivi dobbiamo avere la testa che gira a mille. Come sapete c’è una piramide: non tutti quelli che si qualificano con titoli buoni possiedono poi le energie e l’orientamento giusto. Organizzare stages, internship, incarichi a progetto, è per esempio un modo per creare situazioni nelle quali si costruiscono relazioni con questi studenti, o con laureati che sono in una fase di transizione. E’ un modo per l’impresa, relativamente a basso costo, di farsi conoscere e di far conoscere il proprio ambiente. Nell’impresa di cui parlavo prima, che si chiama Beeweeb, stiamo utilizzando molto gli stages, non come alcuni fanno per sfruttare il lavoro; si tratta stages brevi, normalmente coordinati con le università, in cui facciamo realizzare dei progetti concreti per tre mesi per conoscerci e per farci conoscere. A Roma, dov’è localizzata questa impresa, è più attrattivo andare a lavorare alla Tim, alla Telecom, piuttosto che alla EDS. Quindi facciamo molte di queste attività per aprire una relazione con questo mercato delle intelligenze, della capacità di innovare. Ci facciamo conoscere e cerchiamo di conoscere i giovani laureati. C’è bisogno di comunicare molto. I giovani di oggi, soprattutto quelli ambiziosi, vogliono capire il progetto, non vogliono solo sapere qual è il contratto e l’inquadramento, vogliono capire in quale contesto possono andare a collocare il loro progetto e come potranno realizzarsi. Noi stiamo parlando qui di attrarre giovani che hanno qualità, visione, interesse, orientamento al futuro e non soltanto di chi sta cercando, legittimamente, una buona occupazione. Anche questa dimensione non è spesso tipica della piccola e media impresa. Spesso il progetto imprenditoriale è tenuto non dico nascosto, ma un po’ fra le righe. Occorre mettersi in rete, cercare tutte le occasioni nelle quali persone dell’impresa, possano entrare in network. Fare network è una delle dimensioni che, per esempio nelle esperienze dei distretti, di cui ci parlerà oggi Snyder, è estremamente rilevante. Fare network vuole dire mettersi in relazione con altri sistemi, con altre organizzazioni con le quali si scambiano conoscenze, informazioni e soprattutto si conoscono persone e ci si fa conoscere. Occorre poi selezionare le persone. Io non sono un grande selezionatore, non è una mia competenza. Quando vedo i miei colleghi che si occupano di questo tema vedo che sanno selezionare meglio di me. Esistono tecniche, strumenti, tecnologie, sensibilità che si possono sviluppare. Vedo talvolta assunzioni,

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anche nella media e grande impresa, fatte per conoscenza, motivate da ragioni di vicinato, etc.. Non sempre le persone brillanti, capaci, importanti per noi e che hanno quel tipo di conoscenze che ci servono per fare un salto in avanti, abitano a quattro chilometri dall’impresa. Qualche volta stanno a 200 chilometri o stanno in un’altra Regione; prima di tutto bisogna porsi il problema di andarle a cercare, di trovarle e di portarle presso la propria impresa. E' importante inoltre riflettere su “ciò che sappiamo fare” e, ove necessario, introdurre nell’impresa metodologie di formazione, anche innovativa. Si fa pochissima formazione nella piccola e media impresa; bisogna farne di più, bisogna farla per tutti i livelli dell’impresa e bisogna farla migliore. Questo è un tema, se vogliamo, più dibattuto e quindi lo sfioro soltanto. Tuttavia è necessario riflettere su quello che occorre fare anche in campo formativo. Ma torniamo alle competenze. Mi pare che in molte imprese, al di là di quella che è la visione che ha il top manager o l’imprenditore, si conosce poco cosa sanno fare le persone e quali altre risorse esse potrebbero mettere a disposizione. Se è vero che l’innovazione viene anche dalla combinazione di conoscenze, noi dobbiamo combinare competenze esterne e interne, ma anche valorizzare quelle che abbiamo all’interno. Infine dobbiamo coinvolgere le persone nel progetto dell’impresa; certamente comunicando qual è il progetto dell’impresa e coinvolgendo le persone, ma anche studiando forme nuove di partecipazione dei talenti alla vita e, se necessario, alla struttura societaria dell’impresa. Se non vogliamo dargli le quote, come fanno spesso le start-up o le imprese innovative, troviamo altre formule; ma dobbiamo creare un sorta di alleanza tra l’impresa e le persone, perché se non c’è questa alleanza, cioè se non si condivide il progetto, la sfida e anche il rischio dell’impresa, è difficile che risorse di alta qualità presto o tardi non se ne vadano via. L’imprenditore, da questo punto di vista (io personalmente nella mia piccola esperienza l’ho fatto pesantemente) si deve un po’ “tassare”; deve rinunciare o a qualche pezzo della proprietà o a qualche altra risorsa per creare un legame che sia effettivamente coinvolgente. Torno a dire che i giovani e anche i meno giovani, che hanno capacità importanti nei processi di cui stiamo parlando, hanno molte opportunità, quindi nel progetto dell’impresa ci vogliono stare dentro fino in fondo. Non ci sono ovviamente, lo sappiamo, tantissime formule, però anche questo è un pezzo dell’innovazione. Dobbiamo innovare i modi con i quali gestiamo, ci relazioniamo, costruiamo legami con queste risorse umane, in quanto fanno parte della struttura dell’impresa, sono importanti almeno come i magazzini, i macchinari e gli investimenti finanziari, forse di più, perché sono la risorsa che ci permette di costruire tutte le altre dimensioni dell’impresa.

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Affronto ora brevemente il tema dei comportamenti e degli orientamenti. L’impresa che innova è un’impresa che si guarda intorno, fuori dal guscio, guarda fuori dall’ambiente provinciale. Crea un ambiente nel quale si lascia spazio alle nuove idee, si fanno circolare. E’ un’impresa in cui si può sbagliare; è una cosa importantissima. Non si tratta di favorire gli errori, ovviamente, ma di lasciare che si possa sbagliare e che gli errori si possano correggere, si possa imparare da essi. In un’impresa che innova le persone sono orientate continuamente a conoscere, a informarsi e a condividere con gli altri quel che sanno, a partecipare a progetti, a iniziative che stanno un po’ a cavallo tra il mondo interno all’impresa e il mondo esterno. Avevo preparato qualche idea, ma assolutamente insufficiente, anche su quello che possono fare le istituzioni, ma il tempo non ci permette di toccare questo argomento. Solo un’ultima idea a cui tengo molto. Credo che per fare innovazione ci sia bisogno di una grande fiducia e di una forte attività di cooperazione; occorre attivare forme strutturate di collaborazione tra i soggetti che sono sul territorio, le imprese e le persone che operano all’interno dell’impresa. Sembra banale, però tutti gli studi sui grandi distretti di successo e sulle imprese di successo, mostrano che, all’interno di questi contesti, pur nella competizione, c’è una grande attività collaborativa. L’innovazione non si fa stando chiusi in un ufficio, nascosti a inventare qualcosa di intelligente. Questo l’hanno fatto i grandi inventori della storia, ma oggi l’innovazione si fa stando in relazione con gli altri e soprattutto collaborando. Vi ringrazio. A questo punto, dopo questo fiume di informazioni, di idee che ci stiamo scambiati, è giunto il momento di dare spazio alle vostre domande e riflessioni.

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Domanda TOFFANIN Imprenditore Tutti i relatori sono portati a individuare nell’università il luogo di supporto dell’innovazione, radicale o incrementale. Tutti i relatori hanno messo in evidenza che l’università è portata alla pubblicazione, rifugge il pragmatismo, tant’è che il 60% delle risorse produce l’1% del brevetto. A questo punto, dopo aver ascoltato tutti gli interventi, mi sono posto un problema: non sarebbe necessario un momento di rottura? Diversamente tutto quello che è stato evidenziato dai relatori continuerà ad esistere. Il mondo, proprio perché si trova di fronte a questi ostacoli, ha inventato i parchi scientifici. Nel Veneto ne abbiamo tre, io ne aggiungo un quarto che è l’Agripolis: sono tutti e quattro fallimenti. Allora a questo punto chiedo: tutta l’attività precompetitiva, che è il momento base dell’innovazione, soprattutto per le piccole e medie aziende, che non hanno risorse per crearsi propri laboratori di ricerca, dove può essere trovata? Intervento Manfredo GOLFIERI Direttore DINTEC Certamente, se oggi noi, DINTEC con Unioncamere, abbiamo fatto alcune affermazioni, comunicandole e rendendole pubbliche, significa che vogliamo impegnarci; non per una rottura, perché non possiamo permetterci di buttare competenze che esistono, ma per mettere in atto programmi per invertire questo stato di cose. Concretamente ci abbiamo provato nel momento in cui è stato rifatto il codice unico della proprietà industriale. Non è stato un successo perché, ancora una volta, ha vinto la lobby dei ricercatori. La riforma del codice stabilisce che almeno il 50% del ritorno economico delle ricerche, realizzate negli enti pubblici, deve essere riconosciuto al ricercatore. Si crea, ancora una volta, una situazione abbastanza difforme da quella che c’è negli Stati Uniti. Come vogliamo fare? Unioncamere ne ha parlato, ha comunicato anche al Ministero delle università e della ricerca scientifica queste stesse considerazioni. Ci aspettiamo soluzioni a breve termine? Questo è più complicato, ma ci impegnamo in questo senso.

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Enrico DONATI Amministratore Delegato Assist Consulting – Moderatore Il dottor Toffanin ha fatto una domanda trabocchetto. Dal momento che è uno dei corresponsabili dei parchi scientifici, non posso accettare la sua affermazione, perché anch’io ho partecipato alla progettazione dei Parchi di Venezia e di Padova. Prima, quando parlavo di centri di trasferimento tecnologico, non intendevo quelli universitari. Non so se si è capito, ma personalmente, anche nella mia esperienza in Italia, non ho trovato grosse realtà universitarie capaci di fare spin-off, anzi non ne ho trovate per niente, forse a Pisa c’è qualcosa, forse al Politecnico di Milano e al Politecnico di Torino. Per il resto anche nel Veneto lo scenario non è molto edificante. Questo perché? Perché, in realtà, non si può cambiare un solo fattore pretendendo di cambiare l’intero sistema sociale. E’ possibile cambiare un settore, nel senso che si possono realizzare i parchi scientifici tecnologici, però poi bisogna creare le condizioni necessarie sufficienti per alimentare il processo virtuoso. In Italia, nel nord Italia e nel Veneto alcune realtà, che sono state adeguatamente supportate dal punto di vista finanziario, come ad es. il parco del San Raffaele o il Chilometro rosso a Bergamo, stanno avendo dei risultati. Alcune realtà non hanno avuto risorse finanziarie e sono state ignorate. Lo Stato infatti ha voluto fare questo volo pindarico che, per tutti gli anni ’90, ci siamo sorbiti: ha voluto mettere in pratica la teoria secondo la quale il sud dell’Italia poteva saltare la fase manifatturiera e passare direttamente da un’economia agricola a un’economia della conoscenza. Questa favola, questa bugia che ci hanno propinato e che ha diretto 1100 miliardi nei parchi scientifici del sud non producendo assolutamente nulla, purtroppo ha creato anche le condizioni per il fallimento delle realtà dei parchi scientifici del nord. Bisogna imparare anche dalla storia e la realtà di fatto è questa. Come dice il Consiglio europeo di Lisbona non esiste un realtà produttiva di società della conoscenza, se non esiste una esperienza imprenditoriale, una formazione di quadri tecnici industriali, se non c’è una base industriale, una base produttiva o manifatturiera o di servizi organizzati su base industriale che generi queste professionalità, e ancora, non esiste se non ci sono le risorse finanziarie. Questo vale anche per i parchi scientifici, se l’università italiana non si adegua al livello delle università dei paesi industrializzati. Questi sono i dati, non li ho forniti io, ma l’ingegnere quando dice che 50 mila ricercatori se ne sono andati. Guardate, lo dico sinceramente, sono tornato dagli Stati Uniti la settimana scorsa, stanno già andando via anche gli imprenditori. Adesso poi con il dollaro a 1,30, ci sono innumerevoli imprenditori veneti che stanno

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comprando aziende negli Stati Uniti. Il paradosso è che abbiamo degli imprenditori che delocalizzano in Romania e in Cina, ma ci sono numerose imprese (tanto per non fare nomi, la Carraro che è quotata in borsa) che stanno comprando aziende metalmeccaniche negli Stati Uniti. La realtà vera è che se esiste il background industriale, la formazione, la tecnologia, un sistema finanziario adeguato, ci sono le condizioni per sviluppare. Noi abbiamo perso 20 anni per sviluppare questo sistema. Intervento Andrea BONACCORSI Prof. Ordinario di Economia e Gestione Aziendale dell’Università di Pisa Mi piace scaldare la discussione. Fatemi essere netto su questo: le università devono pubblicare. Devono pubblicare su scala internazionale, devono fare ricerca e l’unico modo di fare ricerca seria è essere riconosciuti dagli altri ricercatori, dagli altri scienziati su base mondiale. Ripeto, l’unico modo per essere riconosciuti e collaborare nelle comunità scientifiche, è pubblicare su scala internazionale, punto. Mi dispiace anche per Manfredo Golfieri. Quando mi si dice che le università fanno male perché pubblicano mi arrabbio, perché è solo metà della verità. Il punto di partenza è che devono fare bene attività di ricerca internazionale. Il fatto che le università, oltre a fare ricerca e insegnare, debbano valorizzare questa ricerca, trasferirla e farne oggetto di sviluppo economico è una acquisizione più recente. La maturità di questa consapevolezza è recentissima. Le università nascono nel Medioevo, si sviluppano come sistemi nazionali. Nei diversi secoli insegnare voleva dire fare i clerici vaganti. Se viaggiare, nel Medioevo, è insegnare, si sa cosa vuol dire fare ricerca. E’ da poco che si sa anche che cosa vuol dire valorizzare la ricerca a fini industriali e economici. Gli Stati Uniti sono partiti molto prima perché hanno una tradizione industriale privata anche nelle università. L’Europa ha un modello diverso, pubblico, dove il ricercatore è un pubblic servant; un fonctionner nella tradizione francese, dove questo è più conflittuale. Ciò detto, non è vero che le università dovrebbero pubblicare meno e fare più brevetti, è vero esattamente l’opposto. Ho scritto un libro alcuni anni fa che è stato largamente utilizzato, nel quale, usando evidenze molto chiare, si vede che i dipartimenti che lavorano molto di più con l’industria, comprese Vicenza, Treviso, Belluno, sono dipartimenti universitari. Sono quelli che pubblicano di più a livello internazionale, perchè hanno le idee migliori, più brillanti e le competenze più forti.

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Non possiamo chiedere all’università di non pubblicare o di pubblicare meno per venire incontro al sistema produttivo. Questo genera una reazione violenta e inutile che blocca il problema. Dobbiamo capire le logiche interne al sistema e farle evolvere. L’altra cosa da tenere presente è che una parte importante del modo con cui il sistema pubblico di ricerca si rapporta all’industria è nel nostro sistema sommerso. Dico una cosa un po’ scandalosa, ma questa è la realtà. I brevetti degli enti pubblici di ricerca, di cui parla Manfredo Golfieri, sono la parte emersa, ufficiale. Un altro fenomeno è quello dei ricercatori pubblici, dei professori universitari che brevettano come inventori, come persone, ma non depositato il brevetto a nome dell’università. Noi, sempre in questo studio, con un lavoro fatto da una collega di Pavia e altri giovani brillanti economisti, abbiamo scoperto sostanzialmente che esistono in Italia circa mille inventori accademici, cioè mille professori che hanno brevetti propri. Di questi pochissimi sono brevettati a nome dell’università; il più delle volte sono brevettati come destinatario dei diritti economici per le imprese con le quali ci sono delle convenzioni o contratti. Per non parlare poi di forme meno nobili, nelle quali sono mogli o altri soggetti che compaiono come destinatari. Quest’ultima affermazione è per dare un po’ di colore, ma sta di fatto che si brevetta a nome delle imprese. L’incidenza di questi brevetti sul totale è in media del 4, 5%, non l’1%, ma il 5%, che è la stessa percentuale della Germania. Attenzione, non possiamo aspettarci che i brevetti vengano dalle università. I brevetti sono un fatto industriale, li fanno le imprese. Quando si afferma che il 60% delle risorse fa l’1% dei brevetti, io dico che è ovvio che sia così, nel senso che le risorse pubbliche dell’università servono a far laureare, salvo errori, credo, si laureino ingegneri, fisici, chimici, a far laureare, quindi a insegnare a persone e a pubblicare; dopodiché, ci stanno anche i brevetti. Detto questo c’è un altro aspetto: ci sono alcuni dati ISTAT ( e poi parliamo anche di dati perché c’è un aspetto interessante) relativi alla ricerca e allo sviluppo delle imprese italiane, che sappiamo essere il lato mancante. Se uno va a vedere che cosa accade nella ricerca e nello sviluppo e fa un’analisi dettagliata, scopre una cosa molto interessante: quando si studia la spesa in ricerca e sviluppo “extra moenia” cioè quella che le aziende danno non ai propri ricercatori o tecnici interni, ma all’esterno, si scopre che la quota, che viene data come commesse alle università è molto modesta, se non ricordo male è meno del 10% del totale. Cos’altro resta? Una parte importante di consulenza. Benissimo, le imprese quando vogliono fare progetti innovativi danno, giustamente, all’esterno pacchi di lavoro a consulenti. Andiamo a vedere che cosa vuol dire consulenza: quasi il 40% della consulenza è affidata a consulenti accademici. Allora, cosa significa? Che la parte più strutturata dei rapporti fra imprese e

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università, quelle che passano attraverso contratti, convenzioni, attraverso cose visibili e grosse è molto bassa; ma la parte informale, ad es. il professore del politecnico di Padova, di Pisa, o di Firenze, che poi collabora con le imprese è molto più ricca. Evidentemente si tratta di un piccola dimensione, è giocata su collaborazioni personali o di piccoli gruppi e quindi è meno visibile. Io sono tra coloro che si impegna anche per cambiare l’approccio delle università, quando è vero che questa terza missione è accettata da pochi e anche quando è accettata è molto difficile a essere implementata. Un caso che citavo prima è il progetto di tecnologia, nato a Firenze, che ha ottenuto una serie di successi. Eppure anche in questo caso collaborare con le università è faticosissimo perché ci sono incrostazioni, resistenze, molti professori non ne vogliono sentir parlare, molti pensano che c’è proprietà intellettuale che viene regalata. Esistono moltissimi problemi pratici e istituzionali che richiedono di essere affrontati. Detto questo, sui parchi non mi pronuncerei, però inviterei alla pazienza. Uscirà tra poco questo studio sui distretti tecnologici europei insieme a Assist in cui si vede che i processi generatori delle agglomerazioni territoriali dei distretti di alta tecnologia, a Grenoble, a Kalzerù in Svezia, richiedono del tempo e richiedono visione e management, richiedono insomma lucidità. Un parco che faccia troppe cose sbaglia. Lucidità nel definire pochi processi, ma chiari, per esempio incubazione, start-up di imprese, fino a portarli al venture capital. E’ un percorso abbastanza chiaro, si sa abbastanza bene che cosa bisogna fare. E’ possibile utilizzare le meta tecnologie di cui parlava Levorato o le PMI. Servono mestieri precisi, indicatori di risultato, manager capaci questo sì. Se per voi non è così, oggi pomeriggio potremmo discuterne. Realmente inviterei a prendere coscienza che si tratta di un mestiere nuovo. Dobbiamo, in qualche modo, essere molto severi e lo dico a una Regione che ha sprecato tante opportunità. Per il sud, in certe situazioni, si sono buttate via risorse perché non si aveva lucidità; bisogna distinguere quei casi in cui, invece, il disegno è lucido e bisogna accompagnarlo con l’opportuna pazienza. Credo che voi abbiate dei sistemi e mi stupirei di sentir dire che state buttando via i soldi. Credo sia importante avere la pressione sui risultati, ma anche sapere che il mestiere è difficile. Intervento Manfredo GOLFIERI Direttore DINTEC Questo è il punto di vista nostro: le giustificazioni scientifiche le università le debbano fare è ovvio e va benissimo; però il livello di attenzione che le

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università, i gruppi di ricerca pongono al ritorno economico è inadeguato e insufficiente. Noi veniamo da università che hanno 400 anni e quindi c’è un approccio, ci sono modalità diverse rispetto all’America dove le università sono nate con motivazioni diverse, ma questo è un altro discorso.

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IL FENOMENO DI CAMBRIDGE John SNYDER Membro del Comitato East of England Development Agency L’East of England è una parte dell’Inghilterra costituita attualmente da sei contee; io faccio parte di un’agenzia di governo che investe fondi per lo sviluppo di questa regione. C’è un luogo molto famoso che si chiama Cambridge e che si trova in questa regione. Ho studiato all’università di Cambridge: molti dei miei colleghi sono andati a Londra a lavorare nell’Industria o hanno continuato con un dottorato di ricerca. Vent’anni fa poche persone volevano fare l’imprenditore, non c’erano le infrastrutture né la possibilità di formazione adeguata per divenire imprenditore. Oggi le cose sono molto diverse, e tutto è cambiato molto a Cambridge. Io ho creato una delle prime aziende “incubatrici”, ho creato l’azienda, poi nell’arco di 5 anni l’ho venduta, ho guadagnato molto ed ho avuto un ottimo ritorno sul capitale investito. Ho lavorato negli USA e successivamente sono tornato a Cambridge a capo di Business creations, occupandomi della questione di come trasferire nuove idee dall’università alle imprese. Ho poi costituito una Library house della quale parlerò dopo ed ho fatto molti investimenti in loco. Ho pertanto un’esperienza molto variegata di cui parlare. Come dicevo la regione East of England è costituita da sei contee, la contea di Cambridge è molto particolare. Vi sono solo 600.000 abitanti e circa 300.000 posti di lavoro, non è una grandissima comunità. Il fenomeno è cominciato quando la popolazione era di sole 100.000 persone. E’ un luogo di piccole dimensioni, non è come Milano, è una cittadina di provincia con un piccolo mercato, è un po’ come Treviso. Riusciamo tuttavia a fare qualcosa di speciale e stiamo crescendo molto più velocemente di altre parti del Regno unito. Ogni anno si creano sempre più posti di lavoro. E’ difficilissimo trovare un alloggio da acquistare a Cambridge. Vi sono 3.500 aziende ad alta tecnologia in generale e 900 sono ad altissimo contenuto tecnologico. Diciamo che il numero di aziende che si trovano a 20 km di distanza da casa mia e che conducono studi clinici nel campo delle biotecnologie è più elevato di tutte le aziende simili in Germania. C’è un grossissimo distretto bio-tecnologico di altissimo livello e questo è avvenuto negli ultimi dieci anni. Vi sono 50.000 posti di lavoro nel settore delle alte tecnologie. Questo significa servizi, amministrazione, retail, che è effettivamente l’attività principale; l’alta tecnologia è una piccola percentuale, ma è assai importante. Il numero di posti di lavoro è molto più basso rispetto a Sylicon Valley: naturalmente il gettito fiscale è molto elevato, a beneficio del governo britannico. Esportiamo moltissimo.

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Il relatore che mi ha preceduto ha detto bene, Olivetti ha fondato un’azienda chiamata Acorn che ha poi attraversato un periodo di crisi; alcuni dipendenti di Acorn hanno lasciato l’azienda ed hanno creato un loro spin-out, un’azienda chiamata Arm ed ora producono molti diversi tipi di chip e altri dispositivi, molti sono prodotti nell’Estremo Oriente. Una volta valevano due miliardi di dollari; ora l’azienda vale meno. Questo fenomeno è avvenuto molto di recente. Ccome dicevo, quando ero all’università 20 anni fa non esistevano le infrastrutture, quindi cos’è avvenuto? Come è stato possibile raggiungere questa crescita e creare nuove aziende nel nostro distretto? Diciamo che avevamo un’ottima università che è stata in grado di offrire un’ottima formazione alle persone, anche se non è stata l’università a creare il fenomeno Cambridge. In vent’anni solamente 20 aziende, fra le migliaia esistenti, sono una diretta emanazione dell’università; in pratica, una delle facoltà ha creato un piccolo parco scientifico. E’ stata costituita Cambridge consultants, una società di consulenza per fornire servizi alle imprese e consulenza sulla conduzione del business. Oggi vi sono molti consulenti che lavorano per Nokia, Shell ed altre grandi aziende: sono persone di 30-35 anni che hanno un’ottima formazione accademica e che lavorano nel settore del commercio e forniscono consulenza alle aziende internazionali sulla conduzione del business. Di recente altre grandi aziende, come Autonomy e Virata, hanno raggiunto il traguardo del milione di dollari. Poi c’è stata la bolla delle com , ed Element 14 è stata venduta per 600 milioni di dollari. Non avevano un prodotto: in pratica, nel giro di 5 mesi l’azienda è stata creata e venduta come emanazione di Acorn. Quindi, è vero che c’è l’università, ma sono i rapporti e le interazioni tra le aziende ad essere importanti. E’ importante capire di cosa hanno bisogno le aziende, come funzionano i mercati e soprattutto avere dei consulenti tecnologici molto validi. Non è solo l’università, non è questione di trasferimento di tecnologie dall’università alle imprese. A Cambridge si conducono attività di ricerca di ottimo livello. Siamo riusciti ad attrarre Microsoft da Seattle; essa ha costituito un laboratorio di ricerca a Cambridge; anche altre aziende, come Olivetti, ITT ed altre sono venute a condurre attività di ricerca e sviluppo ad alto livello a Cambridge. Ma sono i consulenti ad essere effettivamente in contatto con il mercato. Abbiamo dei parchi scientifici, forse alcuni sono più avanzati di quelli in Italia, ma sono piccoli. Ci sono luoghi meravigliosi ove costituire un’azienda. Ho avviato la mia prima impresa allo St. John Innovation Centre. Mi sono rivolto al direttore e ho chiesto se potevo avere dei locali a disposizione e mi è stato risposto che naturalmente avrei dovuto pagare un canone. Dissi che stavo avviando un’attività e non avevo altri soldi oltre al capitale d’avviamento. Mi rispose

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che non poteva concedermi dei locali. Allora gli dissi che non era in grado di svolgere la sua “mission”. Io ero un imprenditore che stava avviando una nuova azienda e lui non era in grado di aiutarmi. Infine mi concesse i locali a canone zero per i primi sei mesi per aiutarmi. Io subaffittai immediatamente i locali ad altri e guadagnai dei soldi. Così si avviano le aziende.E’ ciò che chiamiamo boot-strapping (inizializzazione), non è questione di capitale di rischio, si tratta del modo di pensare, è una cosa veramente importante di cui parleremo dopo. Una ricerca condotta presso l’università di Stanford ha dimostrato che ci sono 10 cose che contano per far funzionare un distretto: l’università è certo importante, servono i business angels, i seed fund, il capitale di rischio, servono grosse aziende che si impegnino nel distretto, ci vuole spazio per sviluppare le aziende. Tutto questo non esisteva a Cambridge 20 anni fa e tutt’ora in parte non esiste. Non ci sono buone infrastrutture, la rete stradale è insufficiente; posso pensare di assumere qualcuno che proviene da un’altra regione dell’Inghilterra e vuole lavorare nella mia azienda ma magari questa persona non riesce a trovare una casa perché gli alloggi costano troppo; in altre parole, un’infrastruttura fondamentale come gli alloggi non è in linea con il tasso di crescita dell’economia. Ho citato i centri di ricerca che sono diffusi ovunque nella zona orientale: ci sono grosse aziende farmaceutiche, come GlaxoSmithkline, che favoriscono lo sviluppo dei distretti bio-tecnologici. Ho elencato alcuni venture capitalists, ve ne sono undici a Cambridge con uffici a poca distanza. E’ molto importante avere facile accesso al capitale. Qual è il profilo di rischio? Il rischio è molto elevato all’inizio; per questo motivo ci vuole il capitale seed, è molto rischioso. Uno dei problemi del Regno Unito è che stiamo incoraggiando un numero sempre maggiore di università ad effettuare degli spin-out il che significa che esse investono 50 mila o un milione di euro nel business. Ma da dove proverranno i capitali in futuro? Attualmente molti fondi pensione britannici investono negli Stati Uniti. In America hanno una grande esperienza nel fare denaro: investono soldi nella Silicon Valley. I soldi delle nostre pensioni sono spesi negli USA. Gli americani dispongono di capitali, vengono nel Regno Unito, non si occupano di avviamento e seed capital, arrivano semplicemente quando l’azienda è pronta ad entrare nel mercato, investono molto e guadagnano molto grazie alle nostre aziende. Noi da imprenditori naturalmente guadagniamo poiché disponiamo del capitale azionario (equity), ma i nostri fondi pensione non sono sostenuti dal nostro successo economico. Sono i fondi americani che sono investiti qui da noi e producono profitti. Gli americani vogliono essere gli ultimi ad arrivare ed i primi ad andarsene per riuscire a cogliere il momento. Molto denaro dei nostri fondi pensione va a finire in operazioni di buy-out in Europa, ma non è utilizzato come capitale di rischio. Molto denaro è attratto dal mercato

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cinese ed indiano. Credo abbiamo un grosso problema: anche se incoraggiamo gli start-up dobbiamo chiederci da dove arriverà il “carburante”, da dove arriveranno i fondi dopo che sono stati investiti i capitali seed nell’avviamento delle aziende. Chi ne guadagnerà? La finanza è cambiata molto nel corso del tempo. Negli anni ’90, periodo in cui io ho costituito la mia prima azienda, il mio primo capitale di rischio era di circa 150.000 euro circa; ora ci vogliono circa 20 milioni di euro per far veramente funzionare un’azienda a livello internazionale. Poi c’è stato il momento delle com ed allora tutti hanno cominciato a pensare che ci vogliono molti più soldi per creare un’azienda. Naturalmente allora tutti i venture capitalists si sono attivati, hanno raccolto molti soldi, ma ora è per loro molto difficile guadagnare partendo da un investimento di 10 miliardi di sterline (50 milioni di euro) perché devono investire 15 milioni per guadagnarne 150 per un’azienda che magari vale mezzo milione e non ve ne sono molte oggi che hanno questo valore di mercato. Dove sono le strategie di uscita (exit)? In Europa non ci sono valide exit. Per questo motivo il Nasdaq è meglio di qualsiasi cosa abbiamo in Europa: questo è un altro fondamentale problema strutturale che abbiamo in Inghilterra e ancor di più in Italia. A Cambridge abbiamo studiato circa 900 aziende innovative e c’è un grande bisogno di fondi seed, ed il capitale di rischio – se mai esiste - ha la dimensione sbagliata. Nessuno vuole fare affari di poche centinaia di migliaia di euro. Ci sono però molte aziende che si accontenterebbero di simili importi e quindi è importante pensare alla dimensione del capitale, come lo si può investire e con quali risultati. Nel 2003 avevamo 900 aziende; anche nel 2004 avevamo 900 aziende. C’è un tasso di natalità e mortalità stabile e c’è un ecosistema stabile, che non cresce: è un habitat naturale stabile per così dire. E’ interessante notare che delle 43 nuove aziende solo 3 sono “collegate” all’università. Quindi l’università non è un fattore importante: ci sono persone che hanno dei “collegamenti” con l’università perché magari vi hanno studiato, sono ex-studenti, ma nella maggior parte dei casi si tratta di spin-out o di persone che hanno deciso di fare gli imprenditori. Questo fa parte di una cultura che è cambiata molto rapidamente negli ultimi 20 anni. Quando ero all’università, da studente pensavo che la parola “denaro” fosse una parola terribile. Nessuno desiderava rimanere a Cambridge, tutti volevano andare a Londra a lavorare per Goldman & Sachs o McKinsey ed altre grosse società di consulenza. Questo grafico è stupefacente. Indica che nel 2000 in Europa sono stati investiti 9 miliardi di sterline in capitale di rischio e sappiamo che questa cifra è drammaticamente scesa. La cifra è scesa anche nel Regno Unito, invece a Cambridge la situazione è piuttosto stabile. Adesso attiriamo circa il 10% di tutto il venture capital e ripeto venture, non buy-out, dall’Europa a Cambridge. Sta evidentemente avvenendo qualcosa per cui

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pare che la gente voglia investire a Cambridge e non necessariamente in altre parti d’Europa. Ho detto che la nostra storia è molto breve: 13 anni fa avevamo solo Scientific instruments, aziende che costruivano dispostivi per aiutare chi lavorava nei laboratori di ricerca e sviluppo ad effettuare delle misurazioni. Dai dispositivi siamo passati alle stampanti a getto d’inchiostro, poi ai computer: si è trattato di fasi strutturali completamente diverse dell’innovazione. E’ molto interessante cercare di capire cosa succederà in futuro, non saranno le ICT. Gli investitori non dedicano molto tempo oggi alle applicazioni software; vi sono delle opportunità nel campo della logistica, ma la cosa più interessante è l’interfaccia tra software e biotecnologie. Come può un software modificare il processo di scoperta di nuovi farmaci. Come può un chip interfacciarsi con la biologia (wet biology), a scopo diagnostico, nel punto di contatto tra medico e paziente. In altre parole stiamo assistendo alla convergenza tra bio-tecnologia ed ICT. Non si tratta di sole ICT: non è un percorso unilaterale. Ora a Cambridge vi sono molti distretti tecnologici per cui c’è un ampio spettro di tipologie molto diverse di business innovativo. Questo è qualcosa cui ogni distretto deve aspirare: non essere forte solo in punto, ma piuttosto puntare sulle diversità. La vera opportunità per il futuro è la tecnologia, ma non una tecnologia che migliora solo di poco, bensì una tecnologia che fa le cose, dieci volte meglio, ad un costo dieci volte inferiore e dieci volte più velocemente. Deve farlo in modo “devastante”: questo è il tipo di crescita cui dobbiamo aspirare grazie all’alta tecnologia. Si può innovare e rendere le cose più veloci e migliori su più vasta scala senza necessariamente utilizzare l’alta tecnologia. Magari è il processo di progettazione che conta. Forse Treviso può puntare su diverse abilità. A Cambridge, dopo 20 anni, abbiamo l’opportunità di far convergere molte discipline diverse ed essere veramente leader di mercato. C’è uno slogan in un sito web locale che parla di cambiare il mondo. Vi sono persone che escono dall’università o vedono quello che succede attorno a loro: non sono come gli americani, non vogliono fare soldi, vogliono invece cambiare il mondo con le loro idee. Si tratta di un driver culturale molto forte nelle nuove generazioni. Riepiloghiamo: negli anni ’60, quattro persone dell’università di Cambridge hanno deciso di creare una società di consulenza, poi hanno litigato tra di loro. In effetti la maggior parte degli spin-out negli anni 70 era dovuta a litigi. Ora gli spin-out avvengono per motivi più positivi e servono affinché gruppi diversi si occupino di cose diverse. C’è stato una sorta di “boom” perché le persone non andavano d’accordo in un piccolo gruppo e per questo furono creati i primi spin-out. Molte società di consulenza sono molto note oggi. Technology partnership, Scientific genercics and bionics sono tutte derivate da questo piccolo gruppo iniziale di consulenti. La sola

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Pubblica amministrazione impiega oggi 3500 persone in tutto il mondo e tutto è partito dalla semplice decisione di poche persone di staccarsi dall’università e di avviare un’attività commerciale. Essi stessi hanno generato 50 spin-out. In Cina conoscono sicuramente Xaar un’importante tipografia che adesso è quotata in borsa a Londra. La maggior parte degli abitanti di Cambridge non conosce Xaar. Le nostre aziende hanno generalmente un mercato internazionale e non operano molto nel mercato interno. Oggi ci sono molte aziende, cui forniamo consulenza, che sono internazionali sin dall’inizio e devono pensare in modo internazionale. Ho incontrato molti investitori americani che vengono in Europa o a Zurigo e dicono “Gli svizzeri sono così “locali”, pensano che sia sufficiente avere clienti a livello locale ma bisogna cominciare a pensare “internazionale”. Quali legami ad esempio ha Treviso con Silicon Valley? Quali legami state creando con la Cina? Siete in grado di comprendere l’impatto che la Cina avrà sulle vostre aziende? Capite effettivamente cosa sta succedendo e cosa succederà nei prossimi anni? Bisognerà lavorare duramente per raccogliere tutte queste informazioni. Molte persone vengono a Cambridge per cercare di capire come abbiamo sviluppato il nostro distretto. Forse abbiamo sopravvalutato Cambridge, credo di più di quanto effettivamente meriti, ma ce l’abbiamo fatta per dieci anni! Treviso ed ogni altro luogo in Europa deve impegnarsi in questa partita, magari con la Cina, ed avere un orizzonte internazionale. Un piccolo spin-out creato nel settore dell’editoria ha generato molte aziende tipografe che danno lavoro a 3.000 persone ed hanno un fatturato di 500 miliardi di sterline. Questi piccoli spin-out crescono come piccoli semi ed attirano altre persone che vengono qua a lavorare. Questa è una carta geografica di Cambridge: questi sono i codici postali esistenti e nello spazio di poche centinaia di metri ci sono centinaia di aziende. La maggior parte degli affari che riesco a concludere a Cambridge è stipulata vicino ad una fotocopiatrice o quando incontro persone in ascensore o faccio altri incontri casuali. Quando incontro un imprenditore mi posso complimentare con lui per quello che ha fatto poche ore prima. Qualcosa che è avvenuto in una stanza, in un ufficio dall’altra parte della città. Disponiamo ora di un sistema di informazione molto efficiente. Le persone si incontrano spessissimo e fanno networking. Mia moglie si lamenta perché esco 4 o 5 sere la settimana e tutti gli uomini d’affari sono fuori quasi ogni sera. S’incontrano, si parlano e condividono le loro idee. Questo è un aspetto molto importante del fenomeno Cambridge. Un esempio: ero a Londra con alcune persone che mi dissero “Tu sei uno di quelli di Cambridge, che credono di essere così speciali” ed io ho detto “Certo, non siete di Cambridge, ma è molto facile inserirsi nelle reti di Cambridge. Venite da noi una sera.” Il loro problema è che temono,

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uscendo la sera, di essere assillati da commercialisti ed avvocati che cercano di vendere i loro servizi agli imprenditori, ma vi sono luoghi ove la gente si incontra e si parla. Ho incontrato uno di questi imprenditori alcune settimane dopo ad una riunione molto ristretta a Cambridge. E gli ho detto: “Simon, come hai fatto ad arrivare sino a qui?”. Mi ha risposto: “Sono andato a Cambridge network ed ho incontrato Fred, e poi Jo, e poi Tracy…” e nel giro di sei settimane era lì che cercava il denaro degli investitori di Cambridge dipingendosi come un’azienda di Cambridge. Da allora ha raccolto 3 milioni di sterline a Cambridge e sembra un’azienda di Cambridge. Cambridge è molto ricettiva. Mi ricorda Silicon Valley, che era molto ricettiva nei confronti della popolazione indiana o di altri stranieri che volevano diventare esperti di Silicon Valley. Ora vi sono molte persone nel Regno Unito che ritengono sia positivo far parte del fenomeno Cambridge. Questo non ha nulla a che vedere con la presenza di infrastrutture speciali, è una questione di impressioni, di marketing, di vendita, di dare una certa impressione. Come potrà fare Treviso a “vendersi” bene? Perché si dovrebbe venire qua? Per la qualità di vita? Ho visto dall’aereo che le montagne sono vicine e c’è anche la bellissima città di Venezia, c’è un interessante panorama industriale, cosa sapete vendere per attirare le persone e quali sono i motivi per cui la gente dovrebbe venire qua ad investire e non andare in altre parti d’Italia, Francia o Germania. Un altro gruppo mi dice “Noi pensavamo che Cambridge network fosse pieno d’avvocati e non volevamo parlare con gli avvocati. Siamo imprenditori che vogliono parlare con altri imprenditori.” Il modo migliore per imparare è imparare da coloro che fanno le stesse cose; ho appreso dalle persone e dai loro errori come creare un consiglio di amministrazione o come assumere o licenziare le persone; come distinguere i prodotti che vendiamo oggi da quelli che vorremo sviluppare domani, come si gestiscono gli uffici tecnici. La cultura di chi innova è diversa da quella di chi produce o chi collauda i nuovi prodotti. Io parlo di tutto questo con i miei colleghi imprenditori. Magari alcuni di noi si incontrano al ristorante, parliamo un po’ di lavoro per due ore, alcuni prendono appunti e impariamo gli uni dall’esperienza degli altri. Non abbiamo coinvolto il settore pubblico, abbiamo deciso di metterci insieme con un bilancio comune ed una quota di 200 sterline all’anno, abbiamo auto-finanziato questo piccolo gruppo di lavoro. Magari a Treviso potreste disporre di fondi pubblici per costituire questo network. Un esempio importante è quello del settore tessile: le persone potrebbero parlarsi e condividere l’esperienza di quello che sta avvenendo in Cina, di cosa avviene con i fornitori. La cosa importante è condividere le idee e gli errori che si sono fatti nello svolgimento del

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proprio lavoro. Ci sono molte reti ora a Cambridge, forse un ventina; sono piccoli gruppi che si riuniscono e si scambiano idee. Ritengo che a Cambridge ci sia un’atmosfera di informalità: un imprenditore incontra per caso un investitore nel corso di incontri informali. Ho deciso di lavorare con le persone per costruire una Library house. L’idea era quella di creare una documentazione su tutte le aziende innovative nel distretto. Perché? All’epoca il capitale aveva la possibilità di incontrare delle opportunità. Non sarebbe stato meglio elencare nero su bianco tutte le aziende innovative esistenti nell’area? In tal modo, se arrivava un investitore dall’America o da Londra sarebbe semplicemente arrivato in stazione e non avrebbe dovuto trascorrere lungo tempo in taxi per recarsi presso tre diverse aziende; avrebbe invece avuto una certa struttura a disposizione, magari affittando la sala riunioni ed invitando gli esponenti delle stesse tre aziende per un incontro. Ancor meglio, organizziamo degli eventi in cui tutti gli imprenditori delle aziende bio-tecnologiche si riuniscono in una sala ed incontrano gli investitori. In questo modo si migliora la trasparenza e la visibilità. Si sa cosa stanno facendo gli altri e questo naturalmente migliora anche il mercato, di conseguenza l’imprenditore ha un prezzo migliore perché c’è più capitale in competizione per essere investito a Cambridge dai gruppi di Cambridge. Si tratta di un business che è un po’ come un centro di ricerca, come Bloomberg o Reuter, ma a vantaggio di coloro che vogliono avviare delle aziende. Noi diamo loro intelligence e suite e uffici VIP così la gente può disporne. Come business angel privato anch’io ho il mio ufficio in quella sede, per cui praticamente devo solo uscire per bere un caffè alla macchinetta e posso incontrare gli investitori ai quali magari voglio vendere la mia azienda. Questo non è che un esempio di ecosistema, di business angel e di come si potrebbero attirare i capitali a Treviso. Che si tratti di qualcosa di formale o meno io credo che molte persone del settore pubblico sottostimino l’importanza e la qualità di questo tipo di rapporti, che invece molte aziende hanno già con le figure chiave in tutto il mondo. Come sostenere questo, come riciclare questa intelligence? La mia risposta è non costruite edifici, non date troppi fondi all’università, ma piuttosto incontratevi al ristorante, prendete un buon bicchiere di vino o un caffè, invitate bravi oratori e trarrete vantaggio dalle “reti” che si formeranno grazie a questo. Il problema è che il settore pubblico può indicare un edificio o una struttura e dire “L’abbiamo costruita noi” oppure può citare i vari interventi effettuati ad esempio, “Abbiamo dato tre milioni di euro all’università o quest’altro gruppo”. Credo che il migliore investimento sia nell’intangibile, ciò che non si può toccare, il modo in cui le persone interagiscono attraverso reti “forzate” prima di imparare come agire da soli.

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Library house è stata sviluppata come un business e vi sono circa 100 venture capitalist in tutto il mondo che pagano una quota di iscrizione. Dalla semplice esigenza di documentare quello che stava accadendo a Cambridge abbiamo creato un business. Il fenomeno Cambridge attira molte aziende. Molte sono sparite, ma molte persone passano da un’azienda all'altra, quindi i talenti vengono “riciclati” e poiché si tratta di una città universitaria. Io stesso sono un imprenditore e lì ho creato la mia azienda, ma per due anni non ho guadagnato nulla, mia moglie aveva un buon lavoro, io no. In pratica un distretto è un luogo a bassissimo rischio per avviare attività ad alto rischio. Se uno è sposato, un partner può essere l’economia “formale”, mentre l’altro può fare degli esperimenti imprenditoriali. Il fatto che ora vi siano molte aziende che “riciclano” i talenti significa che è sempre meno rischioso essere imprenditore e questo dà un senso di tranquillità alle persone. E l’università? Essa rappresenta un “marchio” molto famoso; se guardiamo al passato vedremo che molte aziende si chiamavano “Cambridge qualcosa” perché è un grande marchio ma l’università ha avuto ben poco impatto sul fenomeno. Oxford non può vantare molti premi Nobel, mentre Cambridge è eccellente da questo punto di vista. Ho incontrato una persona l’altro giorno che ha quattro premi Nobel in famiglia - incredibile - ma di spin-out, fino al 2002, ve ne sono stati solo 20 in 20 anni. Penso che l’Italia possa senz’altro fare di meglio. Quindi non posso dire che tutto sia avvenuto grazie all’università. Ho collaborato con l’università nel 2001 per cogliere le opportunità che lì si offrivano. All’epoca avevamo un piccolo challenge fund, avevamo capitali seed, un ufficio per il trasferimento delle tecnologie che si occupava di concessioni e brevetti per le grandi aziende. Abbiamo organizzato dei concorsi sui business plan con gli studenti, offrendo premi di qualche migliaio di sterline; li abbiamo coinvolti nella definizione dei business plan. Forse la cosa migliore che abbiamo creato è il “centro imprenditorialità”; io era a capo di Business creations, ogni anno ricevevo almeno 120 diverse persone che venivano a presentarmi le loro grandi idee. Come potevo “filtrarle”? Davo forse consigli commerciali? No. Volevo che le consulenze venissero fornite da persone che conoscono molto bene il mercato. Quindi ho coinvolto un centinaio di mentori, persone occupate nell’industria, nelle vendite, nello sviluppo del business, CEO, etc. Volevamo offrire qualcosa alla comunità. Queste persone non erano pagate, ma dedicavano il loro tempo lavorando con gli imprenditori. Io “eliminavo” quelli pessimi, di tanto in tanto, ed alla fine ho individuato quattro aziende esemplari. Esemplari non perché le ho scelte io o perché ho trascorso varie ore con loro parlando della mia esperienza di imprenditore, ma piuttosto perché li ho seguiti con buoni mentori, qualcuno con cui potevano scambiare le idee. Questo ha aiutato a

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preparare le persone prima che esse facessero un investimento di 50.000 euro. Praticamente questo li preparava a ciò che succede nel mondo esterno ed all’attuazione delle loro idee. Vi invito a riflettere: dove possono essere questi mentori? Sono esponenti della comunità degli imprenditori. Ci sono sicuramente delle persone a Treviso che hanno un’ottima esperienza di lavoro negli Stati uniti o a Milano e magari vi possono insegnare qualcosa. Come può la Camera di Commercio raggiungere queste persone, magari mettendole in contatto con altre persone giovani che non hanno un’esperienza commerciale. Le capacità ci sono, non è necessario rivolgersi all’università o andare ad una conferenza; bisogna piuttosto avvalersi delle persone che hanno esperienza commerciale a livello mondiale. Noi organizziamo conferenze. Perché Cambridge è così famosa? Perché da dieci anni organizziamo conferenze. Abbiamo la Cambridge enterprise conference. Io ne sono stato presidente ed ho voluto garantire la presenza di relatori internazionali. Ho anche organizzato un “deal day” (giornata degli affari), abbiamo allestito degli stand, invitato gli imprenditori a definire dei business plan. Si sono presentati i migliori 100 ed li abbiamo avvisati che non avrebbero avuto a disposizione dei lap top né materiale promozionale, ma abbiamo detto loro“Vogliamo “spremervi” così tanto da farvi stare male”. Hanno dovuto parlare veramente con tutti ed hanno in effetti dovuto “contrattare”, un po’ come avveniva sulle banchine dei porti in India 200 anni fa, la gente contrattava. In Europa non amiamo parlare molto, non siamo come gli americani, a volte dobbiamo quasi obbligare le persone ad abbandonare la comodità di powerpoint e mettersi a parlare, raccontare ed imparare. Abbiamo in tale contesto dato la possibilità agli imprenditori di incontrare gli investitori. Magari non otterranno il denaro, ma potranno meglio comprendere cosa desiderano veramente gli investitori; essi desiderano cose molto diverse dagli imprenditori. Allo stesso modo dobbiamo coinvolgere i politici ed i decisori. Per esempio, in una Fiera agricola, a Treviso, una volta all’anno, magari gli agricoltori vi si recano per vedere i macchinari e gli animali e si tirano le fila di tutto. Abbiamo fatto lo stesso per le imprese: abbiamo riunito i politici, i decisori, gli imprenditori, gli avvocati tutti insieme e li abbiamo fatti partecipare ad un evento interessante, com’è una manifestazione fieristica. Lo abbiamo fatto su piccola scala alcuni anni fa e quella manifestazione è cresciuta di anno in anno. Questa è la cosa migliore: insegnare. Se la gente studia fisica possiamo insegnare loro come fare networking, mettersi in rete. Abbiamo tenuto conferenze nelle facoltà di fisica sul networking: abbiamo parlato degli elementi fondamentali che servono per avviare un’impresa; la maggior parte di loro non diventerà imprenditore ma magari possiamo cambiare il loro modo di pensare anche quando andranno a lavorare per Goldman & Sachs o

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per l’Industria. Imprenditorialità significa essere imprenditori in un’ampia gamma di aziende ed è importante come il capitale per lo start-up. E’ possibile influire sulla cultura con programmi per i business plan. Gestiamo un boot-camp di una settimana in cui la gente parte con un’idea, la sviluppa e la costruisce per tutta la settimana. C’è molta tecnologia a Cambridge, ma abbiamo un pessimo marketing. Non abbiamo ancora le persone che sanno come fare marketing o sviluppare le aziende come fanno negli USA. C’è una forte carenza di capitale umano, come probabilmente pensate anche voi della vostra zona. Dobbiamo svegliarci e renderci conto che dobbiamo sviluppare forti competenze di marketing. Mi chiedo se i designer italiani siano all’altezza della loro reputazione, se effettivamente abbiano l’abilità di capire i mercati e le esigenze dei consumatori. A Cambridge questo non esiste. Pensate al mercato, non all’innovazione con alte tecnologie o la scienza. La cosa più importante è la capacità di comprendere i mercati, proporre, comunicare, distribuire, vendere, e capirete effettivamente dove possono stare gli affari. La mia principale attività presso l’università era individuare i modelli di business. Le persone si presentavano da noi sempre con la tecnologia, ma bisogna pensare diversamente: dove sta andando il mercato oggi? Quali sono le esigenze cui dobbiamo rispondere. Sono timori? E’ deregulation? E’ avidità di guadagnare di più? O è semplice bisogno? Un’altra cosa è il capitale umano. La maggior parte dei “tecnologi” non ama condividere le proprie idee, le considerano una loro “creatura”. Vent’anni fa gli accademici non volevano condividere nulla. Volevano mantenere la proprietà intellettuale e non sapevano come costituire una “squadra”. Ora tutti gli imprenditori con cui lavoriamo sanno che saranno i fondatori, poi dovranno assumere un CEO e la squadra di dirigenti diverrà sempre più numerosa. E’ necessario concentrarsi sulla leadership e sulle qualità umane che servono ad un team ben equilibrato, il team dei dirigenti e del consiglio di amministrazione. Come far rendere tutto questo, come farne un’impresa? Esiste il cosiddetto acceleratore di impresa. Abbiano preso tutto ciò che avevo fatto all’università e ne abbiamo fatto un business. Abbiamo collaborato con altre università e piccoli investitori e abbiamo detto loro “Ci occupiamo noi del lavoro duro! Coinvolgeremo gli imprenditori, li facciamo partecipare ad un programma di lavoro. Abbiamo sviluppato una serie di strumenti didattici, non si tratta di un corso di economia e finanza che si segue all’università, ma piuttosto come essere imprenditore. Ci piace sottoporre le persone a dei test, ma non su come definire un business plan od utilizzare powerpoint. Si tratta di cultura aziendale: come sarà la vostra azienda fra cinque anni? Qual è il rapporto tra supporto pre/post vendita, marketing, sviluppo del business, vendite. Molti non comprendono la differenza tra marketing e vendite o

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sviluppo aziendale. Noi conduciamo queste esercitazioni per insegnare alla gente tutto questo. Non diciamo loro cosa fare, vediamo come pensano e poi diamo loro nuove informazioni per vedere se imparano. Un imprenditore è una persona che sa risolvere i problemi molto bene, attingendo alle risorse a sua disposizione, cerchiamo di concentrarci su come pensa la gente e cerchiamo di influire su questo. Questa è l’attività di impresa. La fase iniziale è difficile, è pieno di “squali”, è come tentare di far decollare un elicottero. E’ così che ci si sente all’inizio. Per l’investitore è molto difficile, per l’imprenditore non ci sono profitti da esibire, tutto è poco interessante per i clienti. Non avevo clienti all’inizio, avevo la proprietà intellettuale ma non potevo far registrare i brevetti perché non avevo sufficiente denaro, il mio team era piccolo. Tutto è molto rischioso. Qui dovete trovare il modo di far fronte a quel rischio ed allontanare gli “squali”. Passiamo ad altro argomento: spesso parliamo di distretti come se fossero solo un’entità geografica. Presso le agenzie di sviluppo - ed io sono membro del CdA di una di esse - parliamo di edifici, incubatrici, università come strumento di trasferimento delle conoscenze, ma in realtà si tratta di persone, bisogna cercare di capire come lavorano le persone. Questo abbiamo imparato dal fenomeno Cambridge: il distretto tecnologico non è il modo giusto di valutare il fenomeno. Ci sono molte PMI tecnologiche, ma volevamo capire effettivamente cosa stava accadendo loro. Per acquisire conoscenze, diamo molti fondi alle università e diamo per scontato, a torto, che l’università trasformerà i risultati della ricerca in un prodotto vendibile sul mercato. L’esperienza inglese degli ultimi due anni dimostra che vi sono stati molti spin-out, però, con il senno di poi, sono stati tutti un grosso insuccesso. Perché le università dovrebbero essere un buon punto di partenza per gli spin-out? Qual è il problema? Gli accademici vogliono essere grandi studiosi; alcuni presentano richiesta di brevetto, che a mio avviso equivale ad una specie di pubblicazione rivolta a tutti, ma quello che desiderano è “pubblicare” il brevetto, magari prima di presentarlo nel corso di una conferenza. Poi hanno un anno di tempo per completare l’iter burocratico, quindi un brevetto è una “pubblicazione”. Il punto è che le università non sono il migliore canale per sviluppare le aziende. Il 98% di queste aziende ha meno di 5 dipendenti, la maggior parte sono aziende a conduzione familiare. Questo è il driver economico da raggiungere. Cos’è l’imprenditorialità? Come si “riciclano” i talenti? Come si insegna ad essere imprenditori? Come ci si attiva? Attraverso le reti, con i boot-camp presso le università dove si può cambiare la cultura delle nuove generazioni. Come possiamo rendere divertenti e piacevoli le cose in modo che non si tratti solo di imparare, ma si possa imparare divertendosi, non come ad una lezione, ma con qualcosa di più interattivo. Abbiamo organizzato questi corsi a Cambridge con test ed esercitazioni. La cosa importante è invitare

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dei relatori molto noti, per esempio, Hermann Hauser, che ha creato Acorn, con il sostegno di Olivetti. Queste persone sono invitate e possono parlare della loro esperienza. Queste persone vogliono “riciclare” le loro conoscenze. Quante persone di Treviso girano il mondo e non hanno modo di condividere con altri quanto appreso. Abbiamo un capitale umano sulla soglia di casa e bisogna sfruttarlo e trovare il modo che le persone sentano il bisogno di incontrare i giovani, partecipare ad eventi e serate e condividere con gioia con altri ciò che si è imparato. E’ una questione di cultura. Considerando gli spin-out dell’università di Cambridge, una persona, Hermann Hauser, ha creato molte diverse aziende, una sola persona ha fatto questo. Ci sono moltissime aziende di cui parlare. Questo è successo in cinque, dieci anni. Persone come Hermann Hauser, da sole, hanno creato almeno 30 aziende. Una sola persona, come David Cleevely, ha creato Cambridge network ed Analysis, un’azienda di telecomunicazioni. Una sola persona, Andy Hopper, ha creato molte aziende. E’ interessante notare che Hermann non è inglese, come non lo è Andy. Sono studenti stranieri venuti a studiare a Cambridge anni fa, che per qualche motivo lì si sono fermati ed hanno contribuito a creare un grande benessere economico per gli abitanti di Cambridge. Naturalmente io stesso ho creato molte aziende. In effetti, il fenomeno Cambridge è dovuto a pochissime persone, non a centinaia, ma solo a Hermann e pochi colleghi, 20 anni fa. Cos’è avvenuto? Nell’arco di una generazione Hermann ha investito nella mia azienda, io ho guadagnato ed ho fatto come lui. Ho reinvestito il denaro in altre aziende, ho fornito consulenze. Come è possibile stimolare i trevigiani a condividere la loro esperienza, a “riciclare” i propri capitali, le proprie conoscenze e i contatti di mercato. Il fenomeno di Cambridge è proprio dovuto a poche persone che ci hanno creduto. La percentuale di aziende di cui almeno un dirigente riveste più incarichi in diverse aziende è pari al 97%. Siamo pochissimi e quindi facciamo tutti parte dei CdA di altre aziende. Questo ci consente di far funzionare le cose. Prendiamo un’azienda, la “combiniamo” con quest’altra azienda, creiamo qualcosa di nuovo, l’intelligence gira. Così stanno le cose. Tutti desideriamo che le cose funzionino e condividiamo l’intelligence fra le varie aziende. Possiamo individuare le persone più importanti e vedremo che tutti sono dappertutto. Tutto questo è avvenuto in meno di un decennio. Per cui se consideriamo Hermann, è arrivata Olivetti, ha acquistato Acorn, poi ha perso molto denaro, così ci sono stati gli spin-out con Arm e sono stati fatti molti soldi. E lo stesso è avvenuto con Andy Hopper, per dare l’idea. Qual è l’ecosistema? Non è la hard-science delle università, non è il marchio Cambridge di per sé. Fondamentalmente si tratta di una rete molto forte di persone, che sembrano conoscersi tutte e rispetto a venti anni fa ora disponiamo anche di buoni servizi alle imprese, lavoriamo presso le università ed all’esterno. I centri di ricerca ora dialogano con gli investitori

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privati. Tutti sembrano conoscere tutti a Cambridge. Noi lo abbiamo creato in un breve arco di tempo. La cosa interessante è che ci sono molto studenti e non abbiamo ancora capito come indurli a restare a Cambridge dopo la laurea. Molti studenti cinesi vengono in Inghilterra, ricevono un’eccellente istruzione ed il paradosso è che le nostre università non hanno molti soldi ed offrono un buon “prodotto” a coloro che saranno i nostri concorrenti di domani. Giacché non abbiamo soldi oggi formiamo i cinesi che saranno i nostri concorrenti di domani:è un eccellente modello di business se vogliamo che la Cina sia vincente. Dobbiamo attirare queste persone, perché studino nelle nostre università, ma dobbiamo anche farle rimanere da noi. Per il momento la popolazione studentesca sta aumentando. Sono stato ad una cena l’altra sera a Cambridge e la ragazza, che era seduta accanto a me, mi ha detto: “Non so cosa succede qui a Cambridge, mi sono iscritta all’università ma non ho ancora capito come funzionano le cose qui. Vorrei andare a lavorare per Goldman & Sachs”. Tutti i buoni talenti lasciano la zona. L’East of England è forse un po’ come Treviso. Dal punto di vista dell’agenzia di governo vogliamo creare una base di conoscenze di ottima qualità, vogliamo incoraggiare la creatività delle imprese ed un’ottima qualità di vita per la nostra gente. Forniamo finanziamenti pari a 120 milioni all’anno per incoraggiare lo sviluppo economico, probabilmente come la Camera di commercio di Treviso. Abbiamo i fondi e dobbiamo chiederci come è possibile migliorare l’economia locale. Ci stiamo ponendo quindi le stesse domande. Ci siamo concentrati su otto cose, siamo un’economia rurale, la banda larga è di scarsa qualità, ci sono imprese che non sanno nemmeno cosa significa la banda larga, non sanno che possono collegarsi ai fornitori ed ai clienti, pensano che sia poco sicura e facilmente attaccabile. Ci sono persone che non capiscono e devono essere formate, bisogna competere sulla qualità della conoscenza. Non è una questione di prezzo, altri competono sul prezzo, noi dobbiamo investire nel capitale umano. A Cambridge, nelle Development agencies, abbiamo fatto un passo aventi cercando di capire come sia stata possibile la formazione di un piccolo gruppo di persone, che condivideva il sogno di avviare delle imprese a Cambridge e che ha fatto funzionare l’economia senza i soldi pubblici e senza il sostegno dell’università. Ora l’università vuole intervenire e migliorare ulteriormente le cose. Anche il settore pubblico desidera intervenire. In realtà si è trattato semplicemente di un piccolo gruppo di persone che ha detto “Vogliamo fare questo, facciamolo!” Vi consiglio di cercare di capire, a livello locale, come sia possibile mobilitare alcune figure chiave che comincino a pensare in questo modo, persone che dispongono delle strutture, che hanno i programmi universitari La cosa più importante è incoraggiare il networking ed il lavoro quotidiano insieme. Grazie della vostra attenzione.

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Enrico DONATI Amministratore Delegato Assist Consulting – Moderatore Ringraziamo John Snyder per questa stimolante, ricca relazione. Credo che ci siano tante domande da porre, soprattutto in relazione alle cose che John proponeva di fare sui nostri territori. Sono interventi che, in fondo, non richiedono grandi investimenti finanziari o grandi strutture, ma soprattutto networking in collaborazione e soprattutto capacità imprenditoriale che nei nostri territori, compreso questo, non mancano. Apriamo ora il dibattito tra i relatori e i rappresentanti delle diverse organizzazioni e agenzie che, come nel distretto di Cambridge, operano sul territorio di Treviso per promuovere l’innovazione nelle imprese che esistono e lo sviluppo di nuove imprese. Credo sia un’occasione per mettere a confronto realtà diverse quella di Cambridge e quella locale. Nell’area del Veneto in particolare sono moltissime le iniziative che si sono sviluppate negli ultimi 10 anni per offrire servizi. Lasciamo spazio ai relatori. Chiedo loro di spiegare quali siano i servizi che le loro organizzazioni offrono e che tipo di rapporto abbiano con le imprese esistenti, con l’aspirante imprenditore, con chi, giovane o meno giovane, vuole avvicinarsi al business con un’idea. Vi presento i partecipanti. Abbiamo Roberto Santolamazza di Treviso Tecnologia; Enzo Moi di Veneto Innovazione e Marco Franchin del Parco scientifico e tecnologico di Padova Galileo Galilei. Intervento Roberto SANTOLAMAZZA Direttore Treviso Tecnologia Io sono il direttore dell’azienda speciale della Camera di Commercio per l’innovazione tecnologica che è Treviso Tecnologia. E' una realtà che esiste da oltre 15 anni, ma è cresciuta molto soprattutto negli ultimi 5–6 anni e si occupa di iniziative a supporto dell’innovazione in generale. La nostra visione è quella di occupare quello spazio di cerniera tra il mondo delle imprese, il mondo delle università e il mondo di tutti gli altri soggetti che si occupano di innovazione o comunque di evoluzione del business, delle competenze, dell’economia in generale. Siamo un’espressione diretta dalla volontà della Camera di Commercio. Confrontando anche mie esperienze personali precedenti, siamo sicuramente inseriti in uno dei network più importanti a livello, se non altro, nazionale, che è quello del mondo delle

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Camere di Commercio e delle aziende cioè delle agenzie specializzate in tematiche specifiche. Ci occupiamo fondamentalmente, in termini di servizi offerti alle imprese, dello sviluppo delle competenze. Il nostro nucleo iniziale si è sempre occupato di formazione, alta formazione professionale, su temi tecnici, ma non solo, anche su temi innovativi. Treviso Tecnologia partecipa a progetti di natura europea o nazionale finanziati, vendendo servizi di formazione, proponendo un catalogo di formazione e facendo anche formazione su commessa per aziende o gruppi di aziende che lo chiedono, cercando sempre di avere contenuti innovativi e mirando ad essere propositivi verso temi nuovi. Alla formazione, nel tempo, abbiamo aggiunto una serie di altri servizi, come ad es. i servizi hardware. Abbiamo una sede dedicata in cui sono stati sviluppati dei laboratori per il test, la certificazione di alcuni prodotti relativi a diversi settori industriali, sono nati in risposta alle particolari esigenze di questo territorio. Domanda Vista la rappresentanza qualificata nell’ambito di questo convegno vorrei fare una domanda. Mi permetto di tornare a un filo conduttore riferito alla presentazione che John ha appena fatto. Parliamo di due strade: una strada reale e una strada virtuale. Una strada reale sulla quale si affacciano centinaia di aziende e una strada virtuale, una strada a banda larga sulla quale devono operare tutte le aziende. Questa è la spina dorsale sostanzialmente dell’innovazione e della tecnologia. Parliamo di supply chain, di procurement, di decision support system, di business intelligence, e parliamo sostanzialmente di capacità di gestire anche la logistica a distanza, il project e così via. Vorrei sostanzialmente affrontare il tema della gestione dell’esistente. Riferendoci all’impresa vediamo che, al di là dell’aspetto apparente, l’investimento di questo Paese è estremamente basso, non rapportato tanto agli Stati Uniti, quanto a Paesi come la Francia e come la Germania. Investimento di information communication technology intendo. Fanno eccezione le grandi imprese che, sicuramente, viaggiano su canoni diversi di investimento, di innovazione e dove, comunque, esiste la possibilità, anche in termini economici, di accedere a questo tipo di soluzioni. Mi riferisco, ovviamente, al tessuto locale dove le piccole e medie imprese però, se non in una chiave di aggregazione, potrebbero dotarsi di sistemi informatici in grado di fornire quei tipi di servizi che danno competitività.

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La domanda a voi, che avete una sensazione di mercato molto più vicina e molto più alta di quello che possiamo avere noi, è questa: perché l’investimento è così basso? Forse è una questione di formazione, è una questione di percezione di quanto le tecnologie, le innovazioni tecnologiche possono dare in termini di valore aggiunto alla competitività e alla permanenza sui mercati. Che cosa si può fare, una soluzione, da chi ha magari più polso del mercato? Cosa potremmo fare in termini propositivi? Non credo, francamente ,che voi abbiate una soluzione, chiedo semplicemente qualche vostra sensazione per dare un contributo a quello che ritengo un convegno, ma anche una specie di work shop. Grazie. Intervento Roberto BORTOLOTTO Per rispondere alla domanda, espongo la mia percezione che credo sia confermata dai fatti e da qualche numero. Una recente ricerca, riferita all’area del nord est, vede poco più del 30% delle imprese in possesso di un sistema gestionale integrato o abbastanza integrato. Sappiamo tutti che lo strumento gestionale più diffuso nelle nostre imprese è Microsoft Excel, e quindi la cosa non ci turba. Il problema grosso che è stato accennato anche questa mattina, è che purtroppo per molte imprese, soprattutto piccole e medie imprese esiste ancora una suddivisione che trovo un po’ manichea tra prodotto e servizi. Nel senso che l’informazione legata al prodotto ormai è parte integrante del prodotto. Qualcuno prima diceva: “che senso ha sviluppare in tempi rapidissimi un prodotto, quando poi il “delivery” dell’oggetto, o la “supply chain”, legata all’oggetto, al sistema distributivo sono i più arretrati d’Europa.” Sicuramente molti imprenditori vedono – per usare una parola molto utilizzata al giorno d’oggi – la governance dei sistemi informativi dell’azienda, se esistono, o la visione dei sistemi informativi come un adempimento che devono fare, ma che spesso preferiscono demandare. Sono frequentissimi i casi di aziende che non dominano minimamente i loro sistemi. Nel senso che c’è qualche soggetto esterno che gestisce completamente i sistemi informativi. D’altra parte manca la visione manageriale che dietro al sistema informativo ci deve essere un modello organizzativo adeguato. Purtroppo guardando alla storia degli ultimi 10 anni ci sono state, oltre che delle barriere culturali, delle grosse barriere anche di costo. Lei suggeriva le aggregazioni di impresa, una sorta di licenze distrettuali, diciamo così.

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Io credo che oggi i tempi ormai siano maturi anche per una nuova opportunità. Credo che i linguaggi e le soluzioni open source o del free offer possano essere una grande occasione, se ben condotte e non chiaramente lasciate in mano di altri, per un avvicinamento ai sistemi informativi, alla logica dell’Information Communication Technology, che non ha più quelle barriere di costo, certo non è gratuita, perché anche questo è un falso mito, ma è modulabile, diversamente da prima. Tra l’altro, come Treviso Tecnologia e Camera di Commercio abbiamo presentato, a valere sulla nuova legge regionale dei distretti, un progetto di realizzazione per una sorta di market place, di servizi avanzati, non tanto sulla “procurement”, quanto sulla “collaboration” nell’ambito di un distretto. Il distretto è quello del legno e arredo, il fine è quello di creare un sistema di integrazione e scambio dati di impresa in una logica distrettuale, che credo sia uno dei progetti più sfidanti che abbiamo davanti, che è stato appena varato e che va proprio in questa direzione. Una componente importante del progetto è una diffusione rispetto a queste opportunità e comunque a questa visione dei sistemi o delle opportunità dell’Information Communication Technology verso il business. Intervento Sarò breve perché Roberto ha già detto molte cose che condivido. Tra l’altro i dati mi fanno essere ancora più pessimista. E’ uscita recentemente una ricerca della Commissione europea che si chiama “Innovation Scoreboard”. Classifica i vari Paesi europei secondo tutta una serie di indicatori di innovazione e uno di questi indicatori è proprio la spesa aziendale ICT pro capite. In Europa noi siamo al ventiquattresimo posto su 25, secondo questo dato del 2004. Il dato riferito all’Italia è di pochi giorni fa e mi ha impressionato veramente. Come al solito, la statistica, nasconde delle situazioni eccellenti al suo interno, poche, purtroppo, con tante situazioni negative. Il motivo, credo, fondamentalmente sia da ricondurre - in parte condivido quello che diceva Roberto - alla incapacità di operare una corretta distinzione fra prodotto e servizio, che è fondamentalmente un fattore di psicologia e cultura. Le nostre sono aziende ancora in larghissima parte, oltre che di piccole dimensioni, di gestione imprenditoriale. Molto spesso non hanno un management e l’imprenditore ha spesso attenzione per le tecnologie che riesce a dominare. Ora, l’ICT non è nel codice genetico dei nostri imprenditori, pertanto su questo tipo di attività e di investimento c’è scarsa attenzione. Questa situazione mi viene confermata da parecchie società di ICT con cui siamo in rapporto; parecchi amici, che lavorano in questo settore, mi dicono che è sempre molto difficile convincere la piccola

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impresa a verificare delle soluzioni pensate su misura a livello di sistemi gestionali integrati, perché è una cosa di cui ancora non si coglie appieno l’utilità. Del resto facciamo un attimo mente locale a quante aziende non fanno un budget, a quante aziende non fanno pianificazione strategica, è naturale che poi il risultato sia questo. Intervento John SNYDER Membro del Comitato East of England Development Agency Tutte le mie conoscenze in ambito informatico le ho acquisiste parlando con altri imprenditori. Alcuni mi hanno fatto vedere salesforce.com. Non acquisto software né mi occupo di installazione, mi avvalgo semplicemente di un sito web per la gestione dei miei contatti. Ed ovunque nel mondo posso leggere dei miei 10.000 contatti o scaricare la mia mail e pago 60 euro all’anno che è una cifra irrisoria. Ogni uomo d’affari impazzisce se, al proprio risveglio, non può usare Internet per risparmiare costi, non acquistare software ma utilizzare i servizi a distanza. Con il settore pubblico, si è fatto un grosso bando per la banda larga dicendo che avremmo dato 5 milioni di euro alla comunità perché si dotasse della banda larga. Non abbiamo speso un solo euro. British telecom ed altri provider hanno capito che facevano bene a svegliarsi ed a collegare l’intera comunità prima che altri fornitori si accaparrassero i fondi del bando. E’ un ottimo esempio di settore pubblico che finge di spendere del denaro per mobilitare il mercato e stimolarlo a reagire. Abbiamo collegato il 99% della comunità senza spendere un euro perché BT è venuta a conoscenza del bando. Altro esempio: 10 università dispongono di un servizio dati che contiene informazioni su tutti gli esperti operanti nelle università, così tutte le università possono conoscere i nominativi di altri esperti che lavorano nelle altre strutture e soprattutto consentono all’industria, che magari desidera avvalersi di un esperto d’automazione a Padova o Cambridge, di conoscere il nome della persona che cercano. E’ importante rendere trasparenti le informazioni, metterle sul web così tutti le possono individuare. Quest’uso della banda larga ha consentito al settore pubblico di migliorare il mercato.

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Intervento Gianni SIMONATO Sono amministratore delegato di una società che si occupa di investimenti, partecipazioni in imprese tradizionali dove poter creare valore e quindi mettere innovazione. Una considerazione: oggi abbiamo parlato di nuove aziende che partono e quindi probabilmente è facile, che chi inizia, possa farlo con le biotecnologie, con le nanotecnologie, con qualcosa di innovativo, però, gran parte del business è ancora ancorato a imprese tradizionali. Noi abbiamo una partecipata che si occupa di componenti per elettrodomestici, volevo sentire il dottor Snyder a tal proposito: sono stato invitato da uno dei nostri clienti americani, i quali ci hanno detto che saremo valutati sotto tre profili come fornitori. Il primo è sicuramente la riduzione dei costi: i prodotti via via dovranno avere costi inferiori; li chiamano “total cost productivity”, ogni anno bisogna migliorare del 5–7%. La seconda cosa è la qualità che è un dato scontato. Il prodotto deve essere perfetto, a prova di qualsiasi tipo di controllo, ma sicuramente ha dei costi, che non vanno d’accordo con la diminuzione del “total cost”, almeno nel pensiero comune. Il terzo punto, sul quale saremo valutati, è il discorso dell’innovazione che, secondo loro, dobbiamo studiare insieme perché sicuramente è un qualche cosa che, in questo momento, non esiste. Penso al modello che è stato proposto dal professor Bonaccorsi e che apprezzo, quello cioè di creare un sistema e metterci delle persone. La mia obiezione è questa: se faccio innovazione e impiego delle persone, anche stagisti o comunque personale interno, ci saranno sicuramente dei costi; faccio dei calcoli prettamente imprenditoriali. Secondo punto, i prezzi devono diminuire per il discorso del total cost productivity. Terzo, la qualità: diciamo pure che non costa, che siamo bravi, ma sicuramente almeno i primi due elementi sono in contraddizione e mi mettono in condizione probabilmente di non essere così competitivo. Non ho difficoltà a capire dunque come mai questa cultura dell’innovazione, se poi non è premiante più di tanto, faccia un po’ di difficoltà ad attecchire. Come venire fuori da questa spirale?

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Intervento John SNYDER Membro del Comitato East of England Development Agency Poiché lavoro presso un’agenzia governativa, nella mia regione ho l’opportunità di vedere molte diverse aziende manifatturiere. Mi ricordo di una persona con un’azienda in Cina, che riusciva a produrre delle spine elettriche ad un costo inferiore dei cinesi. Era riuscito ad innovare, evitando di utilizzare ottone sui perni della spina, utilizzando semplicemente del metallo di costo inferiore con un rivestimento molto sottile. Quest’idea innovativa era nata in un’università locale e gli consentì di produrre spine a costo inferiore. Ora produce 20 milioni di spine l’anno in Inghilterra e non in Cina. Supponiamo quindi che l’università sia una buona fonte d’idee innovative, ma non di sviluppo aziendale. E’ necessario collegare le università alle aziende che desiderano ridurre i costi ed utilizzare l’innovazione per essere maggiormente competitive e produttive. Bisogna far sì che gli studenti rimangano nelle università. Andrea BONACCORSI Prof. Ordinario di Economia e Gestione Aziendale dell’Università di Pisa Niente da aggiungere, salvo che all’inizio bisogna crederci e rischiare. Intervento L’altra cosa da considerare è l’alternativa. L’azienda che non innova è che, prima o dopo, esce dal mercato, è destinata a scomparire. Non è una soluzione, neppure non innovare perché trovo nel mercato globale dei nuovi competitor molto aggressivi e capaci di fare un prodotto migliore del mio a costi più bassi.

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Enrico DONATI Amministratore Delegato Assist Consulting – Moderatore Io mi ricordo uno study tour, che facemmo negli Stati Uniti nel 1990 o ‘91, con quello che, allora, prometteva di essere il più grosso gruppo informatico italiano, che era la “Finsiel”, che ahimè non ha realizzato il progetto che tutti si attendevano. Lo slogan tipico di quegli anni, parlo di 13–14 anni fa, almeno nella costa californiana, era “better, cheap e fast”. Queste tre cose bisognava farle contemporaneamente, non c’erano alternative. Credo che il problema sia di agire su tante leve diverse. Si può essere più competitivi nel costo, se si innova nei processi produttivi e nelle metodologie di produzione, e magari innovativi nel prodotto con la possibilità che l’innovazione di prodotti generi possibilità di produzioni a costi più contenuti facendo altre cose. Credo che le strategie in un unico colpo, in questo momento, probabilmente non valgano in nessun business. Non c’è una risposta facile alla sua domanda, credo ci sia da ricercare la soluzione nell’azione basata su tante leve. Una è quella di collaborare per esempio con chi può fornire innovazione, come i centri di ricerca sui materiali e le università. Allo stesso tempo, all’interno, è necessario fare tutte quelle azioni di miglioramento e ottimizzazione che permettono a quasi tutte le imprese di migliorare la propria produttività un poco ogni anno. Intervento Filippo MAZZARIOL Unioncamere Veneto Non mi soffermerò su quello che fa Unioncamere Veneto per il sistema delle imprese per quanto riguarda la ricerca, in quanto mi ha già preceduto il collega di Unioncamere nazionale, il direttore di Treviso Tecnologia. Avevo una domanda per il professor Snyder, ma anche per gli altri interlocutori. Un argomento che si è toccato solo di striscio, ma che credo sia importante. Oggi le risorse umane nelle aziende sono viste come un investimento o piuttosto come un costo perché credo che la cosa fondamentale, oggi, sia anche capire che l’innovazione di processo, di prodotto tecnologico o non tecnologico, venga dalle persone. Volevo capire il diverso approccio che può esserci in una Regione come Cambridge o in una Regione come la nostra. Credo sia fondamentale per il futuro.

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Intervento John SNYDER Membro del Comitato East of England Development Agency Quando gestivo la mia azienda non accoglievo studenti perché avrei dovuto dedicare loro del tempo, non potevo frequentare i corsi organizzati dallo Stato perché ero impegnato a gestire la mia azienda. La soluzione di successo è stata quella dell’Incubatore per gestire corsi di marketing tra le 18 e le 20, recarsi agli eventi di networking e devo dire che la maggior parte delle cose si apprendono grazie ad altri imprenditori. Poi, con il mio personale, ho voluto formare i colleghi della Pubblica amministrazione affinché potessero frequentare un corso ed imparare. E così la responsabile Risorse umane ha acquisito nuove conoscenze contestualmente al crescere della mia azienda. La mia esperienza con il settore pubblico inglese è molto negativa, è una questione di orario, gli imprenditori hanno bisogno delle consegne just-in-time, anche dopo l’orario di lavoro e penso, in ogni caso, che essi desiderino imparare da altri che hanno la stessa esperienza. Quante persone nella vostra azienda sono veramente orientate al business e possono dire di avercela fatta. Com’è possibile trasmettere questa cultura a coloro che si occupano di consulenza in modo che le persone desiderino avvalersi di voi e delle vostre reti. E’ una domanda difficile, ma credo che sia fondamentale investire nelle persone ed è questo il messaggio che volevo lanciare durante il mio intervento.

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CONCLUSIONI “LA CAMERA DI COMMERCIO DI TREVISO NEI PROGRAMMI A SOSTEGNO DELL’INNOVAZIONE NEI DISTRETTI” Renato CHAHINIAN Segretario Generale Camera di Commercio di Treviso 1. Premessa Questa mia relazione finale è solo per fornire qualche ulteriore spunto a quanto è già stato approfondito. La nostra esperienza è quella della Camera di Commercio, ma è anche di Treviso Tecnologia, di Tecnologia e Design e delle associazioni imprenditoriali che sono collegate con l’Ente camerale. Tutta questa serie di esperienze è partita nel 1989, con la nascita di Treviso Tecnologia, per diffondere l’innovazione nel tessuto produttivo e per dare delle indicazioni certe sulle tendenze e sulle strategie da assumere. Poi, una cosa è riuscire a far maturare le idee giuste, mentre altra cosa è riuscire a realizzarle. Inizio con un breve prospetto di inquadramento (prospetto I). Lo sviluppo economico locale rappresenta lo scopo previsto dalla legge 580 per tutte le Camere di Commercio. Da questo deriva la missione dell’Ente, che è quella di promuovere lo sviluppo economico locale nella provincia di Treviso. La politica dell’innovazione, ovviamente, è un fattore essenziale per tale sviluppo. L’innovazione può essere tecnologica, organizzativa e commerciale. La Camera di Commercio ha fatto qualcosa e continua a farlo un po’ su tutti tre i fronti. Ora, per brevità e anche per focalizzare meglio l’argomento, ci interessiamo soltanto dell’innovazione tecnologica. E' da tener presente che, comunque, quella organizzativa è basata su interventi di miglioramento aziendale e gestionale, ma anche su interventi di miglioramento di sistema. Soprattutto le filiere e i distretti sono stati prima studiati e poi anche promozionati dalla Camera di Commercio, in un percorso di sviluppo dal 1998 ad oggi. 2. La politica camerale di sviluppo tecnologico. Per rimanere nel campo dell’innovazione tecnologica, questa è stata avviata nel 1989 con la creazione della nostra azienda speciale. La politica camerale

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di sviluppo tecnologico (prospetto II) è stata attuata con il supporto di Treviso Tecnologia che è la nostra azienda speciale, poi abbiamo creato anche una società consortile a responsabilità limitata chiamata “Tecnologia e Design”, che è una società a partecipazione camerale di maggioranza, comprendente pure associazioni imprenditoriali e Veneto Innovazione, la società strumentale della Regione Veneto in questo settore. Il supporto, per quanto riguarda l’aspetto organizzativo, di diffusione delle informazioni e delle tecnologie e di sensibilizzazione, è rappresentato dalla collaborazione delle associazioni imprenditoriali competenti, sia quelle industriali che artigianali. I settori interessati possono essere tecnologicamente avanzati, ma possono essere anche tradizionali. Certamente la via maestra è quella di fare tecnologia, di incrementare cioè i settori tecnologicamente avanzati e quindi di fornire uno stimolo camerale alla nascita di nuove imprese innovative. Ma abbiamo trovato abbastanza difficoltà in questo campo, abbiamo sperimentato alcune soluzioni anche per nascita di nuove imprese, non attraverso il meccanismo indicato dal professor Bonaccorsi, ma attraverso delle garanzie date ai consorzi fidi, i quali a loro volta hanno garantito in questo caso non capitale di rischio, ma capitale di credito a medio termine. Tutto sommato, però, devo dire che le richieste sono state limitate e abbiamo avuto qualche difficoltà. Indipendentemente dal finanziamento, devo dire che è difficile creare imprese innovative, perché sebbene ogni giorno nascano nuove imprese, sono pochissime quelle tecnologicamente avanzate. Tutte le altre sono imprese tradizionali, di settori tradizionali. Allora il nostro obiettivo è quello di sviluppare le tecnologie nelle imprese tradizionali. In questo campo abbiamo iniziato un percorso, lo stiamo proseguendo, e soprattutto in questo modo cerchiamo di aiutare proprio i settori tradizionali ad essere più competitivi attraverso le tecnologie. Ovviamente il campo d’intervento è molto vasto. I destinatari dello sviluppo tecnologico possono essere imprese grandi, medie o anche piccole, ma avanzate (prospetto III). In questi casi però il nostro intervento è puramente informativo; queste imprese infatti sono già autosufficienti e sono più in grado di noi di trovarsi le tecnologie giuste, perché chiaramente operando in settori e con mezzi specializzati riescono meglio di noi a individuarle. Per queste imprese, semmai, il problema è dato dal fatto che, operando in settori che sono già tecnologicamente avanzati, anche la loro concorrenza è tecnologicamente avanzata e, di conseguenza, è più difficile che riescano ad essere competitive. Il nostro fondamentale campo di indagine e di intervento riguarda, invece, le imprese piccole e micro, cioè quelle al di sotto dei 10 addetti, per intendersi, che per lo più sono non avanzate. In questo caso, allora, come fare per

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stimolarle? In provincia di Treviso abbiamo 92 mila imprese e, per fare in maniera che il nostro intervento possa essere, in qualche maniera, significativo, la scelta è stata quella di intervenire sul distretto oppure sul settore. In questo caso noi riduciamo il nostro sforzo e, d’altra parte, lo rendiamo più efficace, perché in questo modo ci riferiamo a fabbisogni tecnologici comuni. Poi, ad esempio, vedremo il settore della calzatura sportiva: sono circa 500 le imprese del distretto di Montebelluna. Più o meno le principali tecnologie sono comuni; poi è chiaro che qualcuna si specializzerà nelle calzature da bambino, qualche altra nelle attrezzature da dopo sci, ma ci sono dei filoni produttivi che sono comuni. L’altro aspetto riguarda la massa critica sufficiente per sostenere i costi della ricerca e la sperimentazione. Solo se comprendiamo dei filoni di ricerca comuni, si può avere una massa critica sufficiente che giustifica il costo della ricerca, perché questo va a vantaggio di parecchie imprese. I servizi possibili, in questo campo, sono moltissimi e quindi mi limiterò ad accennare solo a quelli più direttamente innovativi, cioè a quelli basati sul trasferimento tecnologico. Sia Treviso Tecnologia che Tecnologia e Design forniscono numerosi altri servizi avanzati sia informativi, sia di consulenza, etc… Però, qui mi soffermerò su quelle iniziative che stiamo cercando di portare avanti e che potenzialmente producono un’innovazione vera e propria al settore beneficiario. 3. Il trasferimento tecnologico di distretto/settore. I campi di intervento sono questi che poi specificherò meglio (prospetto IV) : il rapid prototyping e il rapid manufacturing, i nuovi materiali, le tecnologie e le integrazioni di filiera estesa, l’information and communication tecnology (ICT). La natura di questi interventi è basata su sperimentazioni applicative di ricerche di base già note. Dalla conoscenza teorica di certe metodologie e scoperte scientifiche, si possono trovare una o più applicazioni pratiche valevoli non tanto per singole aziende ma per l’intero settore. I principali settori ove concentriamo le applicazioni sono quelli più diffusi in provincia di Treviso e precisamente: il tessile e abbigliamento, le calzature sportive, il legno arredo, la lavorazione dell’acciaio inox e la metalmeccanica in generale. Veniamo al primo campo d’intervento, al rapid prototyping and manufacturing (prospettoV). Sia per la prototipazione rapida che per la produzione rapida, i vantaggi per le imprese sono: l’abbattimento dei normali tempi di produzione, quindi la possibilità di passare dall’idea del prodotto al mercato con prototipi oppure anche con piccoli lotti, piccole

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serie. Per i piccoli imprenditori che devono pure tenere ampi assortimenti, si può ottenere direttamente (attraverso l’uso di macchinari avanzati) una produzione finita e questa è una produzione rapida (rapid manufacturing) vale a dire la fabbricazione di prodotti finiti senza passare per tutte le fasi tradizionali della prototipazione, dello stampaggio e della messa in produzione. Ciò permette anche la riduzione dei costi di produzione, perché chiaramente, saltando delle fasi oppure diminuendo il tempo di alcuni passaggi, è possibile risparmiare notevolmente. E’ possibile così pure una risposta tempestiva ai mutamenti di mercato; infatti bisogna adattarsi tempestivamente ai cambiamenti della moda o di altre tendenze di mercato. Inoltre, si può meglio sfruttare il vantaggio competitivo dell’innovazione e del design. Se ho in mente un modello nuovo e riesco a introdurlo subito nel mercato, prima che altri lo vedano e lo copino (per cui è necessario del tempo) intanto acquisisco tutti i vantaggi competitivi di un consolidamento sul mercato stesso ben prima degli altri. Queste tecniche sono state applicate all’occhialeria ed ora è in fase di studio (è terminata una prima fase e ne stiamo realizzando una seconda) l’applicazione per la calzatura sportiva. L’altro filone di ricerca riguarda i nuovi materiali (prospettoVI) ed è in fase d’avvio. Anche qui lo scopo è l’innovazione del prodotto, cioè di un prodotto tradizionale realizzato con un nuovo materiale, prodotto che diventa diverso perché presenta delle altre caratteristiche. Di conseguenza si può ottenere un miglioramento nel mercato esistente oppure la creazione di un nuovo mercato. In questo caso stiamo lavorando per la metalmeccanica ed eventualmente estenderemo queste sperimentazioni anche al tessile e ad altri settori. La competitività nel mercato sarà data da un miglioramento del rapporto prezzo–qualità. Chiaramente il nuovo materiale potrà essere migliore per durata, per prestazione, oppure possedere una maggiore funzionalità o un aspetto estetico più attraente e così via. Un altro filone di ricerca riguarda le tecnologie e le integrazioni di filiera (prospetto VII), cioè il miglioramento della filiera produttiva attraverso opportune ristrutturazioni e riconversioni. Ciò può favorire un’innovazione di prodotto perché posso ottenere prodotti esistenti o nuovi con maggiore tecnologia o migliore design. Il vantaggio può anche riguardare la tecnologia di produzione e quindi realizzare un miglioramento nei processi oppure nella filiera vera e propria, attraverso un connubio di macchine più sofisticate e conoscenze più approfondite. In quest’ultimo caso la filiera può essere allungata o resa più corta, oppure ristrutturata; è possibile inoltre integrare filiere diverse al fine di ottenere un maggiore valore aggiunto complessivo. Sono in corso delle sperimentazioni nell’ambito del settore della calzatura sportiva (anche in questo caso siamo in collaborazione con Veneto Innovazione). I risultati potranno essere messi a disposizione di tutto il distretto. Alcune imprese pilota sperimenteranno nella pratica queste nuove

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tecnologie di filiera estesa e poi altre imprese potranno adottare gli stessi sistemi. Il quarto filone riguarda l’information and comunication tecnology (ICT) (prospetto VIII). Dall’anno 2000 abbiamo cominciato un lungo percorso ed abbiamo realizzato tante iniziative insieme a Treviso Tecnologia, anche con la collaborazione delle associazioni di categoria. Siamo partiti facendo una promozione per diffondere queste tecnologie a livello aziendale, dando informazioni e facendo formazione proprio per creare dei nuovi tecnici nelle professionalità emergenti in questa materia. Abbiamo offerto consulenza e assistenza alle aziende, abbiamo dato anche delle agevolazioni finanziarie, basate su contributi in conto capitale ad imprese che avessero adottato investimenti in strumenti ICT. Abbiamo anche realizzato investimenti a livello distrettuale. Con Treviso Tecnologia abbiamo realizzato una comunità virtuale, per il momento nel distretto della calzatura sportiva in materia di design industriale, ma in seguito potremo estenderla anche ad altri distretti ed ad altre materie. I diversi interessati delle varie imprese partecipano a questa comunità che rappresenta un importante centro di aggregazione per scambi di esperienze ed approfondimenti comuni. La comunità si avvale inoltre della guida dell’Università, in particolare al corso di laurea in design industriale, che ha il compito, sotto l’aspetto scientifico, di guidare quelle attività e quelle idee che si vogliono approfondire. L’altra iniziativa in materia di ICT distrettuale è quella del “market - place” di cui ha accennato già l’ingegner Santolamazza. Si tratta di un intervento di due tipi: quello di filiera, che può introdurre miglioramenti all’interno, attraverso l’automazione delle informazioni e delle comunicazioni dei diversi ordinativi nei passaggi della filiera produttiva; l’altro, che è un vero e proprio mercato virtuale di distretto del legno - arredo, per le imprese che, anziché partecipare ad una filiera, vogliono tentare il mercato. Si possono quindi mettere in linea semilavorati, o materie prime, o prodotti finiti, per ricercare la contropartita nel mercato, realizzando contrattazioni infradistrettuali, ma anche con il resto del mondo. Le fasi del trasferimento tecnologico si possono così riassumere (prospetto IX). Si parte da uno studio delle innovazioni da individuare e da trasferire. Si tratta di una ricerca applicata: si guarda cioè a quanto la scienza ha già prodotto, in maniera teorica, e lo si sperimenta nella pratica di un determinato settore o distretto. Si predispone quindi una pubblicazione per la diffusione dei risultati e si offre la consulenza e l’assistenza tecnica alle imprese interessate che vogliono utilizzare l’applicazione sperimentata. Poi eventualmente si continua lo studio per applicarlo in altri processi o in altri settori.

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4.Valutazioni finali. Nell’ambito dei fattori fondamentali dello sviluppo tecnologico, che riguardano l’oggetto del nostro convegno, questo nostro sforzo ha interessato principalmente l’apprendimento delle risorse umane (prospetto X), in quanto puntiamo essenzialmente su di esse attraverso un accrescimento delle conoscenze di contesto, cioè delle conoscenze innovative di distretto o di settore. Si realizza inoltre un abbattimento delle barriere, create dalla scarsa conoscenza scientifica e applicativa, che le singole imprese piccole e microimprese attualmente hanno. Questo abbattimento è possibile perché, anche qualora, per qualche motivo, le imprese non volessero poi aderire al nostro servizio, comunque possiederebbero una maggiore conoscenza delle applicazioni pratiche derivanti dalle varie conoscenze scientifiche. In secondo luogo si introducono servizi di assistenza e consulenza che servono inizialmente per sensibilizzare la domanda a queste innovazioni. Come abbiamo più volte affermato, l’impresa di piccole dimensioni da sola, se non è tecnologicamente molto evoluta, non ha nemmeno la percezione di cosa le può servire. Mi spiego: se questa ha un certo fabbisogno tecnologico ed è cosciente di averlo perché vede che il suo processo produttivo o il suo prodotto non è abbastanza competitivo, non è però in grado di individuare la ricerca scientifica che dà la soluzione al suo problema e, una volta trovata, non è in grado di applicarla alla propria azienda. D’altra parte si crea anche un incremento e miglioramento dell’offerta più specializzata. L’offerta, ovviamente, deve essere sempre più specializzata, ma attualmente le tecnologie sono molto diverse, di conseguenza non sempre un’impresa produttrice di tecnologie è in grado di applicare le numerose tecnologie generali ai diversi settori produttivi nella maniera più efficace e specializzata. Infine con questi interventi abbattiamo le risorse finanziarie, nel senso che il costo della ricerca e della sperimentazione lo accolliamo a noi, come capitale pubblico. Di conseguenza l’impresa ha la possibilità, se la sperimentazione riesce, di utilizzare il vantaggio pagando soltanto il costo della consulenza o dell’assistenza e quello della messa in opera dell’innovazione. Queste sono le condizioni favorevoli, ma ci sono anche alcune difficoltà per il fatto che i fabbisogni tecnologici di un sistema produttivo molto diversificato, come è il nostro, sono moltissimi, quindi, anche soffermandoci sui settori di punta, cioè sui settori produttivi più importanti, c’è fin troppo da fare. Soltanto per dare un’idea quantitativa, se consideriamo che i quattro o cinque settori di punta della nostra economia abbisognano ciascuno di un aiuto consistente, cioè almeno di quattro o cinque innovazioni tecnologiche tra quelle che abbiamo trattato, risulta un bisogno teorico di circa venti, venticinque interventi di un certo rilievo, il cui costo può essere stimato in

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circa 350/400 mila euro ad intervento. Di conseguenza abbiamo un fabbisogno totale di 8/10 milioni di euro che, se il capitale deve essere esclusivamente pubblico, è difficile da reperire e quindi servono necessariamente tempi lunghi. Però intanto la tecnologia migliora ed allora dovremmo rincorrere nuovamente altre innovazioni.

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Questa pubblicazione è edita nella collana: Profili economici della Camera di Commercio di Treviso. Le precedenti pubblicazioni sono:

1- I problemi finanziari delle PMI trevigiane: aspetti critici e strategie di

intervento (1997) 2- Riforma fiscale e ricapitalizzazione delle imprese (1998 3- Le nuove sfide per i distretti industriali: sistemi cognitivi e reti

transnazionali (1998) 4- La “rivoluzione” Euro: quali implicazioni per il finanziamento delle

P.M.I.? (1998) 5- Un progetto di marketing territoriale per il distretto di Montebelluna

— Offerta del territorio, contesti competitivi e possibili strategie di rilancio — (1998)

6- Immigrati: problema o risorsa? - L’immigrazione di extracomunitari nei territori evoluti con particolare riguardo alla provincia di Treviso — (1999)

7- Le opportunità dell’Euro Nouveau Marchè per le imprese ad alto potenziale di crescita (1999)

8- Guida “Crea la tua impresa a Treviso” (2000). 9- Convegno “E– commerce frontiera del nuovo sviluppo”

Tavola rotonda “Marketplace comunità e distretti virtuali. E-uforia o reali opportunità strategiche di sviluppo”(2000).

10- IL PROGRAMMA “JEV” - Agevolazioni alle imprese che intendono investire in Europa (2001).

11- Le politiche commerciali e di Marketing nel settore dell’arredamento – Ricerca sui distretti industriali del Livenza e del Quartier del Piave

12- Problematiche di internazionalizzazione dei distretti industriali della provincia di Treviso

13- La qualità nella Pubblica Amministrazione – Alcune esperienze negli enti locali

14- Analisi dell’organizzazione logistica del distretto industriale di Montebelluna

15- L’UEM, l’Euro e l’Ampliamento dell’Unione Europea 16- I Servizi integrati a tutela della Proprietà Industriale 17- Qualità e certificazione nella Pubblica Amministrazione esperienze a

confronto 18- Guida “Crea la tua impresa a Treviso”. (2004)

Page 96: CONVEGNO “IL CIRCOLO VIRTUOSO DELL’INNOVAZIONE: … · 2005. 12. 12. · per il 42% l’innovazione di processo, per il 39% la conquista di nuovi segmenti di mercato, ma solo

19- Atti “Giornata dell’economia” (17 Novembre 2003) 20- Premio Tesi di Laurea sull’Economia Trevigiana (6^ edizione – 2003) 21- Nuove opportunità di finanziamento per le PMI – Dalla finanza

innovativa al mercato expandi – (2 Aprile 2004) 22- Atti del ciclo di incontri informativi - “La normativa sulla sicurezza e

conformità dei prodotti” – Gennaio Dicembre 2003 23- Studio preliminare sui potenziali nuovi Mercati di sbocco per lo Sport

System Montebellunese – Settembre 2004 24- Atti del convegno “Lean Organization per lo sviluppo dell’eccellenza

e della competitività 25- “Pogettiamo il nostro futuro” Il Piano di Marketing territoriale per lo

sviluppo di Roncade – Relazioni del Convegno (30 ottobre 2004) 26- Atti convegno – “Le performance economiche delle imprese trevigiane

attraverso l’analisi aggregata dei bilanci” – 15 Novembre 2004

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Redazione Ufficio Industria della Camera di Commercio di Treviso

Impaginato a cura del Centro stampa della Camera di Commercio di Treviso - Settembre 2005