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Convegno «GLOBALIZZAZIONE E IMMIGRAZIONE» 6 febbraio 1999 Città del Vaticano Le migrazioni nell’ambito della globalizzazione Relazione di S.E.R. Mons. Stephen Fumio Hamao, Presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i migranti e gli itineranti Relazione del sig. Ernesto Olivero, Presidente del SERMIG di Torino Relazione del prof. Sergio Zamagni, Direttore Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università degli Studi di Bologna (non corretto dall’autore) Relazione del dott. Roberto Mazzotta, Vice Presidente della Fondazione 327 9

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Convegno«GLOBALIZZAZIONE E IMMIGRAZIONE»

6 febbraio 1999Città del Vaticano

Le migrazioni nell’ambito della globalizzazioneRelazione di S.E.R. Mons. Stephen Fumio Hamao,Presidente del Pontificio Consiglio della Pastoraleper i migranti e gli itinerantiRelazione del sig. Ernesto Olivero, Presidentedel SERMIG di TorinoRelazione del prof. Sergio Zamagni, DirettoreDipartimento di Scienze Economiche dell’Universitàdegli Studi di Bologna (non corretto dall’autore)Relazione del dott. Roberto Mazzotta, Vice Presidentedella Fondazione

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Le migrazioni nell’ambio della globalizzazione

S.E.R. Mons. Stephen Fumio Hamao

Considero l’invito a parlare ai membri della Fon-dazione «Centesimus Annus» un privilegio che mionora e mi gratifica molto. Ne ringrazio il Presiden-te, il Conte Lorenzo Rossi di Montelera, che me l’harivolto. Porgo il mio saluto cordiale a S.E. Mons. Ago-stino Cacciavillan, Presidente dell’Amministrazionedel Patrimonio della Sede Apostolica (APSA), al Pre-sidente della Fondazione ed ai suoi collaboratori non-ché a tutti i partecipanti a questo incontro.

Svolgerò il tema assegnatomi: il migrante nell’am-bito della globalizzazione. Con questo ultimo termine,com’è noto, si indica un particolare modello di svi-luppo economico che ha avuto vasta applicazione, senon proprio nel mio paese, certo nella regione nellaquale il Giappone è inserito e che, assieme ad entu-siastiche approvazioni, ha suscitato anche molte egravi perplessità, specie per le incertezze con cui hareagito alle tempeste monetarie e finanziarie che sisono abbattute nella regione in questi ultimi tempi.

L’economia mondiale è al centro di una nuova fa-se di globalizzazione. La liberalizzazione del merca-to, l’accelerazione e l’intensificazione dei flussi di ca-pitale costituiscono la principale forza trainante diquesto processo. Esso si manifesta nell’aumento delcommercio internazionale dei beni e dei servizi, nel-la crescita del reddito e degli investimenti in paesiesteri, e di correnti finanziarie.

I progressi realizzati nel sistema di comunicazio-

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ne, accompagnati anche dalla contemporanea cadutadi costi del trasporto, hanno permesso una maggiorelibertà nella scelta della localizzazione delle attivitàeconomiche e una più accentuata integrazione dei di-versi fattori produttivi. Tale convergenza di opportu-nità ha fortemente ridotto le remore al movimentodei beni e del capitale, consentendo grandi spazi eampia libertà all’attività economica.

Inoltre lo sviluppo nella tecnologia della comuni-cazione ha messo in movimento un flusso di corren-ti di informazioni e di idee che avvolge ormai tutto ilmondo. Questo ha significato anche una più vasta dif-fusione della conoscenza del grande divario delle con-dizioni di vita tra i paesi ricchi e quelli poveri, por-tando la gente di questi ultimi a puntare la sua at-tenzione ed i suoi passi verso i primi.

Quale rapporto fra Migrazione e Globalizzazione?

Il problema specifico però che ora ci poniamo èquello di precisare se e in che misura la nuova glo-balizzazione incide sulla migrazione internazionale.Per molti si dà per scontato che la riduzione dellebarriere alla libertà di commercio e del movimentodel capitale, comporti automaticamente una corri-spondente crescita anche nell’emigrazione interna-zionale. In realtà è molto difficile stabilire una corre-lazione tra la globalizzazione e la migrazione inter-nazionale. Ancora più difficile è parlare di rapportodi causa ed effetto fra l’una e l’altra.

Parliamo di nuova globalizzazione, in quanto l’at-

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tuale fase di globalizzazione è stata preceduta da al-tri fenomeni analoghi. Una forma di globalizzazionesi è verificata nel periodo che va dal 1880 al 1914quando, ad un forte movimento di capitali si associòun altrettanto forte movimento di lavoro internazio-nale. Con riferimento alla migrazione, colpisce subi-to lo stridente contrasto tra globalizzazione di oggi equella di allora.

L’associazione fra migrazione del lavoro e movi-mento del capitale fu il segno caratteristico della glo-balizzazione del detto periodo. Nella fase di tale glo-balizzazione le cifre dei flussi migratori oscillavanonormalmente tra il due e il cinque per cento dellapopolazione iniziale (sia del paese di provenienzache di arrivo). Invece, tra il 1981 ed il 1995 l’entra-ta degli stranieri o immigranti oscillava intorno allo0,1 della popolazione totale in Francia, nel RegnoUnito e nel Giappone; negli Stati Uniti attorno allo0.25.

Anche questa modesta oscillazione oggi si è quasifermata perché nei paesi dell’OCSE (Organizzazioneper la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), pra-ticamente quelli sviluppati dall’odierna immigrazio-ne, dopo la crescita delle correnti immigratorie neglianni ‘80 e nei primi anni ‘90, si è verificata (con po-chissime eccezioni) una stabilizzazione nel numerodelle entrate dei lavoratori migranti.

Dalla recente migrazione si possono rilevare trecaratteristiche: il calo del numero di richieste di asi-lo (da 27 milioni sono passati a 21 milioni), i flussimigratori limitati alla riunificazione familiare e lacrescente proporzione di migranti altamente specia-

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lizzati e di lavoratori con contratto ad tempus.Il fenomeno si spiega con il fatto che, mentre da

una parte si assiste ad una caduta delle barriere perquanto riguarda il movimento di merci e di capitali,dall’altra si fanno sempre più restrittive le disposizio-ni contro l’ammissione dei migranti. E, a dispetto del-la conclamata inefficacia delle politiche restrittivepraticate dai governi nell’era della globalizzazione, sideve dire che esse stanno dando i risultati desiderati.

Tali restrizioni di fatto hanno neutralizzato quegliincentivi ad emigrare dai paesi poveri verso i paesiricchi che la globalizzazione aveva innescato. Alla ra-dice di queste restrizioni c’è il fatto che il modello diglobalizzazione oggi praticato non include le migra-zioni internazionali né come fattore necessario né co-me fattore di utilità. Anzi, le esclude positivamente.La libertà del commercio e del capitale è pensata eprogrammata come sostitutivo della libertà del movi-mento del lavoro internazionale. Tale progetto preve-de che la spinta all’emigrazione dai paesi in via di svi-luppo verso quelli sviluppati debba diminuire con lostesso ritmo con cui aumente rà la libertà del com-mercio e del movimento dei capitali. La filosofia sot-tostante a questa decisione è che il commercio e la li-beralizzazione degli investimenti, favoriti dal movi-mento di capitali, offriranno le necessarie opportu-nità per la crescita economica dei paesi in via svilup-po. Tale crescita condurrà, a sua volta, ad una ridu-zione della povertà e, quindi, della spinta ad emigra-re. Inoltre, a motivo dei salari più bassi praticati neipaesi in via di sviluppo, la loro crescita economicadovrebbe avvenire con un ritmo più intenso di quel-

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lo dei paesi sviluppati e quindi portare, in tempi re-lativamente brevi, a colmare il dislivello fra gli uni egli altri. Infine, il trasferimento di attività economi-che ad intensa occupazione di manodopera non spe-cializzata dai paesi ricchi a quelli poveri, incentivatodai più bassi salari praticati in questi ultimi, favoriràulteriormente l’impiego nei paesi in via di sviluppo e,di conseguenza, ridurrà ancora di più i motivi ademigrare.

Questo schema base di globalizzazione, mentre dauna parte asseconda gli interessi dei paesi in via disviluppo, dall’altra va incontro agli imperativi di po-litica interna che ai governi dei paesi sviluppati. In-fatti uno dei problemi che questi ultimi stanno in-contrando sul fronte dell’occupazione è il calo di ri-chiesta di manodopera non specializzata. Tale pro-blema produce non solo un allargamento dei diffe-renziali di guadagno fra lavoratori specializzati e la-voratori generici, ma anche un più alto tasso di di-soccupazione fra i questi ultimi.

L’individuazione della causa del crescente divariofra le due categorie di lavoratori all’interno del paese,è oggetto di animati dibattiti. Al riguardo due sono leinterpretazioni prevalenti. Da una parte quella di co-loro che ne trovano la spiegazione nell’aumento del-le importazioni dai paesi dalle eco nomie a basso sa-lario e, dall’altra, quella di coloro che la trovano in-vece in un progresso tecnico basato sulla specializza-zione.

L’opinione pubblica popolare tende a vederne lacausa nei rapporti commerciali troppo intensi con ipaesi a basso reddito; tale tendenza ha portato i go-

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verni dei paesi sviluppati a favorire i partiti che pa-trocinano una diminuzione o addirittura un disimpe-gno nei confronti della globalizzazione. È chiaro chein questo contesto diventa sempre più difficile intro-durre il problema di una maggiore liberalizzazionedei movimenti migratori.

Altro elemento che concorre a determinare l’atteg-giamento dei paesi sviluppati nei confronti della mi-grazione è la convinzione che i limiti della loro capa-cità di assorbimento degli stranieri siano già stati su-perati da tempo. L’aumento delle tensioni etniche e irigurgiti di violenza xenofoba hanno suonato il cam-panello di allarme di molti paesi. Pur variando daluogo a luogo, tali manifestazioni presentano alcuneradici o elementi comuni. Eccone qualcuno: la per-cezione (spesso del tutto infondata) che gli immigra-ti sottraggano posti di lavoro agli operai locali; il so-spetto che gli immigrati, costringendo lo stato arafforzare e ad allargare la rete dei servizi sociali,mettano in diffficoltà il sistema dello stato sociale; lapaura che un ulteriore aumento degli immigrati pos-sa erodere l’egemonia politica della popolazione nati-va; l’idea che un’immigrazione eccessiva minaccia l’i-dentità del paese, elemento, questo, essenziale per lacoesione sociale e la solidarietà nazionale. Ancorauna volta: questo clima di diffidenza e di ostilità ren-de sempre più difficile promuovere la benché minimaforma di liberalizzazione del movimento migratorio.

Contro questo modello di globalizzazione è op-portuno ricor dare le parole rivolte dal Santo Padre il9 ottobre scorso ai partecipanti al IV Congresso Mon-diale della Pastorale per i Migranti e i Rifugiati, te-

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nutosi in Vaticano dal 5 al 10 ottobre 1998 per ini-ziativa del Pontificio Consiglio della Pastorale per iMigranti e gli Itineranti. «La chiusura delle frontierespesso non è motivata semplicemente da un diminuitobisogno dell’apporto della manodopera immigrata, madall’affermarsi di un sistema produttivo impostato sul-la logica dello sfruttamento del lavoro.

Fino a tempi recenti la ricchezza dei Paesi sviluppativeniva prodotta sul posto, con il contributo anche dinumerosi immigrati. Con la dislocazione del capitale edelle attività imprenditoriali tanta parte di quella ric-chezza viene prodotta nei Paesi in via di sviluppo, do-ve la manodopera è disponibile a basso prezzo. In que-sto modo i Paesi sviluppati hanno trovato il modo diusufruire dell’apporto di manodopera a basso prezzosenza dovere sopportare l’onere della presenza d’immi-grati. Così questi lavoratori corrono il rischio di essereridotti a nuovi servi della gleba, vincolati ad un capi-tale mobile che, tra le tante situazioni di povertà sele-ziona di volta in volta quelle in cui la manodopera è aminor prezzo. È chiaro che un simile sistema è inac-cettabile: in esso infatti la dimensione umana del lavo-ro è praticamente ignorata».

Tempo di verifiche

Sembra chiaro che la situazione, quale siamo ve-nuti delineando, può essere un buon indicatore di co-me potrà evolvere il movimento migratorio paralle-lamente al processo di globalizzazione. Un elementochiave della validità del sistema della globalizzazio-

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ne in questo contesto sarà la sua capacità a rallenta-re i motivi che sono all’origine della pressione mi-gratoria internazionale. Giudicando con realismo daifatti che fanno da sfondo alla situazione, allo statoattuale delle cose, sembra difficile che una tale even-tualità possa verificarsi. Non esistono molte prove,per ora, che la globalizzazione porterà ad un riequi-librio dei salari tra paesi sviluppati e sottosviluppati.Gli effetti positivi della globalizzazione nei paesi invia di sviluppo risultano piuttosto limitati. La mag-gior parte dei paesi dell’Africa subsahariana e quellimeno sviluppati di altre regioni hanno tratto, finora,pochi o zero vantaggi dal processo di globalizzazio-ne. Da aggiungere che i maggiori beneficiari dellaglobalizzazione, quali sono da considerare i paesidelle Nuove Economie Industriali dell’Asia orientalee sud orientale (le cosiddette Tigri), in questi ultimimesi, hanno subito una forte involuzione. La debo-lezza della valuta e le ricorrenti crisi finanziarie, ve-rificatesi in queste economie, hanno fatto perdereuna parte notevole dei risultati economici e socialiacquisiti. Le prospettive di una ripresa rimangono in-certe.

Questa realtà mette in evidenza i notevoli rischiconnessi con il processo di globalizzazione, special-mente per ciò che riguarda gli effetti di una rapidaglobalizzazione finanziaria. Rimane da vedere seun’attività di recupero, sia a livello nazionale che in-ternazionale, sarà in grado di ridurre il rischio del ri-petersi di simili crisi.

Altro importante test di misurazione della dimi-nuzione della futura pressione dall’emigrazione in-

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ternazionale sarà il risultato che la globalizzazione ot-terrà in fatto di ridistribuzione dei redditi all’internodi paesi in via di sviluppo. Se la globalizzazione con-duce ad alcuni risultati positivi, quali una diminu-zione della povertà, un miglioramento nelle opportu-nità e nella qualità dell’impiego, una maggiore prote-zione sociale, allora è probabile che i movimenti ver-so l’emigrazione internazionale si indeboliranno. Alcontrario, se la globalizzazione è accompagnata dauna crescente disuguaglianza, e se le prospettive del-l’occupazione, sia dal punto di vista quantitativo chequalitativo, peggioreranno, allora le pressioni migra-torie, anziché diminuire, cresceranno.

Allo stato attuale delle cose è difficile dire qualedei due scenari ipotizzati finirà per prevalere. Valu-tando la realtà sulla base della recente esperienza, sipuò dire che ci sono motivi di inquietudine. Tra que-sti vanno segnalati i seguenti:

– in tanti paesi in via di sviluppo la disuguaglian-za dei salari e dei redditi è cresciuta proprio duranteil processo di liberalizzazione dell’economia. Anchese non vi sono elementi sicuri per parlare di rappor-to causa-effetto tra i due fenomeni, tuttavia una talecoincidenza rimane motivo di grave perplessità;

– cresce la preoccupazione per un possibile peg-gioramento delle condizioni di lavoro a causa dell’i-nasprirsi della concorrenza internazionale, punto diforza delle imprese operanti in ambito della globaliz-zazione per la conquista dei mercati e per l’accapar-ramento degli investimenti esteri. Con allusione al de-terioramento in corso delle condizioni del lavoro,provocato dalla pressione di un’esacerbata competi-

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zione commerciale, alcuni osservatori hanno perfinoevocato lo spettro di «una corsa verso l’abisso»;

– recenti riscontri sulla situazione dell’occupazio-ne nei paesi in via di sviluppo indicano che, nellamaggior parte dei casi, il grado di crescita del lavoronei settori moderni continua a segnare il passo ri-spetto alla crescita della manodopera complessiva. Diconseguenza il sotto impiego è diventato un fatto en-demico e la proporzione dei lavoratori precari, occu-pati in attività scarsamente produttive o in settori in-sicuri e aleatori continua a crescere;

– troppo debole risulta il rafforzamento dei siste-mi di protezione sociale rispetto alle condizioni dicrescente vulnerabilità che il lavoro svolto in ambitodi globalizzazione comporta. Infatti una più forte in-tegrazione nell’economia mondiale espone maggior-mente il lavoro alle crisi finanziarie e ai contraccolpiesterni;

– la preoccupante crisi economica in atto nell’A-sia orientale ha gettato seri dubbi sulla reale consi-stenza degli effetti della globalizzazione. L’imprevistoinsorgere della crisi economica e la sua rapida pro-pagazione in paesi che erano stati ritenuti a lungocome esempi di globalizzazione riuscita, è stato unduro colpo alla fiducia con la quale quel modello disviluppo era stato seguito. Questi fatti hanno messoin rilievo la difficoltà e la complessità della gestionedell’economia nel mondo in via di globalizzazione e ipericoli insiti nel mercato finanziario attuato in unaforma così aleatoria. Quei fatti hanno dimostrato chei costi economici che tali crisi infliggono, sono ec-cessivamente alti per essere fronteggiati dagli attuali

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sistemi di protezione sociale.Da quanto qui accennato risulta scarsamente fon-

data un’eccessiva fiducia nella capacità del processodi globalizzazione in corso, di ridurre la pressione mi-gratoria.

Da tenere presente che una parte notevole dellamigrazione internazionale dipende non da fattori eco-nomici ma di altro genere, quali gli scontri etnici, mi-litari e la repressione politica. Questi conflitti hannoprovocato in questi ultimi anni flussi di rifugiati digrande intensità. Si tratta di una componente che hacontribuito notevolmente a rafforzare la pressionedella migrazione internazionale.

Questi fatti di natura non economica che spingo-no a lasciare il proprio paese sono oggi diversamen-te valutati. Da una parte c’è chi sottolinea la tenden-za verso una svolta democratica in molti paesi di ori-gine. Se tale tendenza dovesse consolidarsi, dandoforma ad un sistema di governo duraturo, rispettosodei diritti umani, allora c’è da ritenere che il flussodei rifugiati politici si avvia all’esaurimento. Si trattaperò di un processo ancora fragile, soggetto a possi-bili inversioni. Da tenere comunque sempre presenteche le prospettive di rafforzamento della democraziain quei paesi sono legate, anche al grado di successonell’impegno di crescita economica e di giustizia so-ciale.

Ancora in questo contesto vale la pena di segnala-re un potenziale fattore negativo: il pericolo di subi-re il contagio della cultura asiatica, relativizzando ilprincipio dei diritti umani. Il rischio può annidarsinel fascino che quest’area esercita su tanti paesi in via

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di sviluppo per il modo esemplare con cui il sistemaglobalizzazione qui è stato realizzato. Nella misura incui gli argomenti portati a giustificazione delle limi-tazioni ai diritti umani da quella cultura, sono, di fat-to, una copertura dell’autoritarismo, tale accettazio-ne costituisce la rinuncia alla speranza di conseguireun miglioramento stabile nella situazione dei dirittiumani da cui solamente è lecito attendersi una verariduzione del flusso dei rifugiati politici.

L’uomo migrante

Finora l’attenzione è stata portata sull’intrecciarsidelle diverse componenti che determinano le migra-zioni internazionali in un contesto di globalizzazione.Tale aspetto, se da una parte è importante per una va-lutazione del ruolo potenziale che la migrazione puòavere nell’ambito dell’economia globale, dall’altra tra-scura un elemento concreto di fondamentale impor-tanza: la dimensione umana o, più specificatamente,la misura e le forme con cui lo sviluppo della migra-zione internazionale incide sulla condizione effettivadei singoli migranti.

Un aspetto chiave di questo problema è la situa-zione in cui i migranti, specie i nuovi arrivati, vengo-no a trovarsi nel paese di destinazione. Nei paesi svi-luppati le prospettive di miglioramento della loro at-tuale situazione non sono brillanti. Ci sono fondatimotivi per affermarlo. Prima di tutto l’inasprimentodelle politiche restrittive in atto contro l’immigrazio-ne, non favoriscono atteggiamenti di accoglienza nei

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confronti dei migranti. In questo contesto il rischio dirigurgiti razzisti si fanno sempre più incombenti. Insecondo luogo la caduta della domanda di manodo-pera non qualificata esaspererà, all’interno del mer-cato del lavoro nazionale, la concorrenza fra gli ope-rai generici locali e gli immigrati. Il risultato èun’aumentata dose di ostilità contro i migranti. In ter-zo luogo le riforme in atto dello stato sociale indebo-liranno ulteriormente la solidarietà. In questo conte-sto i titoli del migrante a partecipare allo stato socia-le diminuiranno ulteriormente. Infine le crescentipressioni verso una sempre più accentuata «deregu-lation» faranno sentire i loro effetti negativi soprat-tutto sui diritti e sulle condizioni di lavoro degli im-migranti. Un mercato di lavoro «flessibile» con sin-dacati indeboliti costituisce il contesto più favorevo-le allo sfruttamento ed all’abuso della vulnerabilitàdegli stranieri.

Per i migranti che finiscono in altri paesi in via disviluppo la situazione individuale si prospetta ancorapeggiore. Prima di tutto la maggior parte di tale mi-grazione si muove sulla base di contratti a termineche, generalmente, escludono il diritto ad una siste-mazione permanente in loco, all’acquisizione dellacittadinanza e al ricongiungimento familiare. Limiti,questi, che già in partenza pongono i migranti in unasituazione meno favorevole rispetto a quella previstaper gli immigranti nei paesi sviluppati. In secondoluogo, nei paesi in via di sviluppo i normali standardsdi lavoro e di rispetto dei diritti umani sono più bas-si che nei paesi sviluppati. La vulnerabilità allo sfrut-tamento e all’abuso è perciò più grande. In terzo luo-

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go, tenuto conto che nei paesi in via di sviluppo i si-stemi di protezione sociale sono di fatto piuttosto ap-prossimativi e rudimentali, è facile dedurre quale po-trà essere la condizione dei lavoratori stranieri colàimmigrati. Infine, i lavoratori immigranti nei paesi invia di sviluppo godranno di scarse garanzie di prote-zione, non solo a causa dei limitati diritti, ma ancheperché questi paesi sono più esposti a frequenti crisieconomiche. La crisi economica attuale dell’Asiaorientale ha dimostrato quanto siano vulnerabili i mi-granti: i primi ad essere licenziati e ad essere rimpa-triati in caso di recessione.

Le prospettive di miglioramento dei lavoratorinon specializzati immigrati nei paesi in via di svi-luppo sono peggiorate. La diminuita richiesta di ma-nodopera non specializzata significa anche drasticadiminuzione delle opportunità di emigrare. È facileche l’esclusione induca in tentazione a percorrere lavia dell’emigrazione clandestina. Per questa via il mi-grante si espone a crescenti e drammatiche difficoltà.Il rafforzamento dell’apparato di controllo nei paesisviluppati aumenta il rischio di cadere nelle retatedella polizia, di essere imprigionati e quindi rimpa-triati. Un ulteriore fattore aggravante è che il tenta-tivo di entrata illegale spinge a mettersi nelle manidelle organizzazioni criminali dedite al traffico di es-seri umani.

Valutazione generale e prospettive future

Un problema fondamentale è quello posto dalladomanda radicale: perché non liberalizzare il movi-

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mento del lavoro del migrante alla stregua di quantogià fatto per le merci e per i capitali? Dal punto di vi-sta teorico la risposta dovrebbe essere affermativa.Gli argomenti elaborati per sostenere questa tesi so-no numerosi e tutti di grande peso. Un argomento,derivante dal diritto e che, essendo la libertà di mo-vimento all’interno di un paese universalmente rico-nosciuta come un diritto umano basilare, non si ve-dono convincenti motivi che impediscano di esten-derlo a livello internazionale, specie se la spinta amuoversi è il miglioramento delle prospettive di vitaper sé e per la propria famiglia.

Altro argomento, basato sul principio della giusti-zia sociale, è che il controllo dell’immigrazione eser-citato da paesi ricchi, perpetua ed aggrava la disu-guaglianza delle condizioni sociali a livello interna-zionale. La libertà di movimento del lavoro immigra-to, da una parte correggerebbe questa ingiustizia, dal-l’altra migliorerebbe le condizioni dei migranti pro-venienti dai paesi poveri, ponendole in linea con leobbligazioni morali sentite a livello universale. Unasoluzione del genere costituirebbe la via per una giu-sta ridistribuzione della ricchezza.

Considerando però la realtà dal versante delle na-zioni che difendono il diritto di controllo delle mi-grazioni sembra difficile ignorare le ragioni su cuifondano la loro posizione. Una motivazione a favoredel controllo ha una base etica. Si tratta della difesadell’integrità della comunità e cioè della nazione, de-finita come un gruppo tenuto insieme dal riconosci-mento della comune cultura e dalla reciproca accet-tazione di obblighi comune. La nazione può esercita-

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re, a livello collettivo, l’equivalente dei diritti e dellelibertà che, a livello individuale, sono riconosciuti al-le persone singole, come espressione dell’autonomiadella persona. Questo diritto è afffine al diritto di au-todeterminazione.

A questo tipo di argomenti comunitari vanno ag-giunte le conseguenze «per absurdum», che vengonoevocate per mettere in risalto i vari effetti negativi chederiverebbero da un’illimitata ed incontrollata migra-zione. Per esempio, la minaccia alla pace sociale e ildanno economico cui essa porterebbe.

Circa il diritto dell’uomo ad emigrare ed il corri-spondente diritto ad entrare in un altro paese diver-so dal proprio, la Chiesa si è espressa in più occasio-ni. Tra i suoi documenti più recenti si possono ricor-dare, a titolo di esempio, la Costituzione ApostolicaExsul Familia, il Concilio Vaticano II, l’Enciclica Pa-cem in Terris, l’Enciclica Mater et magistra, l’Encicli-ca Laborem Exsercens, il Catechismo della Chiesa Cat-tolica, e, ancora, significativi documenti di Dicasteridella Santa Sede che hanno avuto occasione di inte-ressarsi di migranti, nonché i Messaggi Pontifici per laGiornata Mondiale del Migrante. Non essendo questala sede per la trattazione di un problema così impe-gnativo, ci limitiamo a riportare, con brevissimo com-mento, quanto a tal proposito afferma il documento«De Pastorali Migratorum Cura», l’Istruzione elabora-ta dalla Congregazione per i Vescovi per incarico diPaolo VI e pubblicata nel 1969. Essa contiene le lineedirettive dell’assistenza pastorale della Chiesa ai mi-granti, aggiornata alla luce della dottrina del Conci-lio Vaticano II.

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Al n. 7 di tale documento leggiamo: «Va affermatoil diritto naturale dell’uomo ad usare dei beni materia-li e spirituali ‘per conseguire più pienamente e rapida-mente la propria perfezione’. Quando invece uno Sta-to, per la scarsezza di mezzi ed il grande numero di cit-tadini, non può mettere a disposizione dei suoi abitan-ti tali beni o presenta condizioni che ledono l’umanadignità, l’uomo ha diritto ad emigrare, a scegliersi al-l’estero una nuova casa ed a procurarsi più degne con-dizioni di vita.

Tale diritto spetta pienamente non solo alle singolepersone, ma alle intere famiglie. E per questo ‘nell’ordi-namento delle migrazioni deve essere tutelata al massi-mo la convivenza domestica’, tenendo conto delle esi-genze familiari, soprattut to per quanto riguarda la ca-sa, l’educazione dei figli, le con dizioni di lavoro, la si-curezza sociale e gli oneri fiscali.

Le pubbliche autorità negherebbero ingiustamenteun diritto della persona umana, qualora si opponesse-ro all’emigrazione o all’immigrazione o le creasseroostacoli, salvo che ciò sia richiesto da gravi ed obietti-vamente fondate ragioni di bene comune».

Il diritto ad emigrare e ad immigrare è un dirittoumano nativo, sebbene derivato da quello più gene-rale di usare i beni necessari della terra (creati a di-sposizione di tutti) per il proprio perfezionamento.Non è però un diritto assoluto. Il suo esercizio è le-gato alla ricerca di quei beni ritenuti necessari a«conseguire più pienamente e rapidamente la propriaperfezione», (GS, 26) che però non esistono nel pro-prio paese.

Essendo un diritto inerente alla natura umana la

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comunità deve rispettarlo. Tuttavia rimane un dirittoriconosciuto per bene individuale; esso può essere so-speso da un prevalente bene comune della società; al-lo stesso modo, il bene di un gruppo particolare puòessere sospeso da un bene comune universale. È perquesto che le «autorità negherebbero ingiustamentetale diritto di persona umana… salvo che ciò sia ri-chiesto da gravi ed obiettivamente fondate ragioni dibene comune».

Obiettivi immediati

Dopo questa parentesi circa il diritto di emigra-zione e di immigrazione nei termini riconosciuti eproclamati dalla Chiesa, ritorniamo al nostro tema,osservando che l’ipotesi di un’immigrazione incon-trollata oggi non gode di una seria accettazione né èsostenuta da obblighi morali internazionali; né si in-travedono condizioni perché una tale accettazionepossa emergere per l’immediato futuro. Al contrario,da quanto detto, emerge che anche i tentativi intra-presi per un modesto alleggerimento delle politicherestrittive nei con fronti delle migrazioni, stentano atrovare sufficienti spazi di attenzione.

Al di là di questa pur importante questione, il va-sto campo delle migrazioni offre degli obiettivi im-mediati che la Chiesa, i Governi e la società civile do-vrebbero fare propri. Per esempio quello di rendere ilprocesso della migrazione internazionale il più possi-bile umano e flessibile. Un tale impegno dovrebbeesprimersi in due direzioni. La prima, verso un’atte-

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nuazione dei fattori che tendono ad accrescere laspinta delle migrazioni sia per motivi economici chedi ricerca d’asilo politico. La seconda verso l’elimina-zione degli abusi a danno dei migranti e la richiestadel pieno rispetto dei diritti.

Nella prima direzione dovrebbe avere la prioritàun’azione intrapresa ad ogni livello per la promozio-ne e l’affermazione della democrazia, e del rispettodei diritti umani. Il successo su questo fronte aiuteràa fare grandi passi avanti sulla via della riduzione delflusso dei rifugiati per motivi di repressione politicae d’abuso dei diritti umani. Tale azione rafforzerebbeanche le condizioni fondamentali per il raggiungi-mento di una maggiore equità nel processo di svilup-po. Questo, a sua volta, ridurrebbe le pressioni del-l’emigrazione causate dalla povertà e dalla disugua-glianza economica. Meglio, se questi sforzi potesseroessere accompagnati da un’azione volta a promuove-re politiche economiche e sociali in grado di ridurrela povertà e di assicurare più alti livelli di protezionesociale. Inoltre, il progresso nelle politiche della coo-perazione e dello sviluppo internazionale a favore deipaesi esclusi dai benefici della globalizzazione do-vrebbe con tribuire ad allentare ulteriormente la pres-sione sulla via della migrazione internazionale.

Analogamente, le iniziative intraprese per ridurrel’instabilità del sistema finanziario a livello mondia-le, limiterebbero i rischi di crisi economiche e dei lo-ro effetti negativi, i cui alti costi vengono a ricaderesoprattutto sulla condizione del migrante.

Nella seconda direzione è essenziale l’impegno nel-la promozione della piena osservanza degli standard

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internazionali del lavoro. Tale proposito va persegui-to non solo con riferimento alle specifiche conven-zioni sui diritti del migrante, ma anche con riferi-mento ai diritti base del lavoratore in quanto tale,quali, per esempio, la libertà di associazione e l’eli-minazione dello sfruttamento. Il ruolo dei gruppi ec-clesiali e civili nel patrocinio politico e nella mobili-tazione della pubblica opinione su questi temi, con ladenuncia delle pratiche abusive, con la ricerca di ri-parazione e con il sostegno alle vittime, è un’inesti-mabile componente di questo processo. Ugualmenteessenziale è un’azione parallela che metta in risalto leattività dei cartelli criminali nel traffico dei migrantiillegali. Come si vede il campo è vasto, le idee e i mez-zi non mancano. Occorre una maggiore fiducia nellacausa del migrante.

Il crollo dei muri materiali ha favorito il movi-mento del commercio e dei capitali, ma ha ristrettola libertà dei migranti, rendendone la situazione an-cora più precaria. Credo sia importante capire che lavalidità di un sistema economico si misura soprat-tutto dalla sua capacità di portare benessere non a chine ha già tanto, forse troppo, ma a chi ne ha poco evive a stenti. Prima di quelli materiali debbono cade-re i muri spirituali. I cieli nuovi e la terra nuova cuidaranno luogo gli eventi ultimi, saranno prima di tut-to il cuore degli uomini riuniti nel nome del Padrenostro che è nei cieli.

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Ernesto Olivero

Sono molto contento e commosso di essere quicon voi. Quando sono stato invitato, ho avvisato chenon avrei preparato nessuna relazione scritta, perchénon ne sono capace. Chi mi invita accetta dei rischi !Però arrivo avendo amato l’incontro, avendo pregatoper capire cosa il Signore vuole che io dica e avendoletto la relazione di S.E.R. Hamao. Quindi sono tran-quillo.

Come società oggi non stiamo facendo i conti conil futuro. Perché il futuro sono i giovani e i giovanisono come inesistenti. Abbiamo svolto un’inchiesta su300.000 giovani: il 98% non si fida delle istituzioni;un altro dato più drammatico ancora: l’85% ha pau-ra. In questi giorni ho letto il resoconto di un’asso-ciazione che opera in una città del Nord nel campodelle tossicodipendenze. In esso si presentava l’atti-vità svolta: in sei mesi hanno distribuito 157.000 si-ringhe, con la punta massima di 2.200 in un giorno.Se riferendoci a questi dati, facciamo un pò di conti,in Italia c’è un consumo di circa 100 milioni di sirin-ghe all’anno.

Allora, i giovani dove stanno andando? Come sipossono convertire? Sembra un’impresa quasi im-possibile. Il nostro piccolo gruppo, che sta cercandodi lavorare con Dio «dentro» e quindi tenta di vederela realtà vivendola, amandola, criticandola - chi amadeve criticare -, ha indetto per ottobre il primo «Mon-diale dei Giovani»: un incontro a cui vorremmo invi-tare 24 grandi statisti. Perché se i giovani non posso-

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no cambiare la società, sono i padri che devono far-lo. Altrimenti saranno dolori!

Da dove viene la nostra speranza? Dal fatto chestiamo tentando di vivere alla presenza di Dio in que-sto pezzo di storia. Noi, come Sermig, siamo nati 35anni fa con il progetto di essere un gruppo missiona-rio. Anche se piccoli, già allora eravamo decisi ad ave-re idee sproporzionate rispetto alle forze in gioco: vo-levamo combattere la fame nel mondo, eliminarla.Siamo partiti con i mezzi di 35 anni fa, con due oredi impegno alla settimana. Ma, evidentemente, i con-sigli di amici saggi, la parola di Dio, ci hanno fattocamminare e dopo 35 anni abbiamo realizzato quasi1400 progetti di sviluppo in tutto il mondo, senza ri-cevere contributi da enti pubblici e finanziari. Evi-dentemente la gente ha riconosciuto che quello chevolevamo lo volevamo sul serio e non ci ha mai fattomancare le risorse necessarie.

Altra realtà. Vent’anni fa siamo andati da PapaPaolo VI a chiedere ispirazione sul nostro futuro, inun momento storico molto difficile per l’umanità eper la Chiesa. Paolo VI ci ha detto che aspettava daTorino, terra di santi, una rivoluzione di amore. Ab-biamo creduto di poter essere parte di questa spe-ranza del Papa. Qualche anno dopo abbiamo scoper-to che a Torino c’era un Arsenale Militare. Abbiamoripensato all’invito del Papa e alle parole di La Pirache rilanciavano la profezia di Isaia «Forgeranno leloro spade in vomeri, le loro lance in falci». Ci siamodetti che, se fosse stata volontà di Dio, avremmo avu-to l’Arsenale e lo avremmo abitato come nostra casaper trasformarlo in un Arsenale di Pace.

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Cosa facevamo? Per anni abbiamo assediato l’Ar-senale con il rosario in mano, ci siamo rivolti con fi-ducia solo a Dio Padre, mentre accoglievamo le pro-messe di amministratori e politici che avevamo in-terpellati. Il 2 agosto del 1983 ci hanno assegnato unedificio dell’Arsenale. Da quel momento sono cam-biati la nostra storia e il nostro impegno. Mentre tra-sformavamo le antiche officine in luoghi di preghie-ra e in luoghi di vita comune, abbiamo aperto un’ac-coglienza notturna, una scuola, un centro medico,un’accoglienza di lunga durata, per accompagnare lepersone a riprendere il gusto della vita. Servizi rea-lizzati, pur senza grandi mezzi, per conferire dignità:ad esempio, arredando solo con materassi ignifughi,perché guai se qualcuno venendo da noi corresse i ri-schi di un possibile incendio. La nostra accoglienza,per noi, è la più bella del mondo perché è sovrainte-sa dalle donne, e le donne hanno lo spirito maternoe della bellezza. Ho visto certe accoglienze gestite dauomini, frati o laici, assolutamente non organizzateper dare dignità. Quando abbiamo incominciato l’ac-coglienza, gli amici immigrati (non diciamo extraco-munitari, a meno di non chiamare così anche gliamericani, gli svizzeri: se è così, il termine è giusto,altrimenti è dispregiativo) erano soprattutto magre-bini. Non ci capivamo. Non solo per una questione dilingua. Allora abbiamo chiesto alle comunità cristia-ne e alle comunità di buona volontà dei loro paesi co-me bisognava trattare con l’Islam. Tutti ci dicevanodrasticamente che in Europa eravamo impreparati.Avevano ragione. Perciò abbiamo capito che doveva-mo puntare sulla reciprocità di diritti e di doveri. In

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Italia si dice che abbiamo uno stato di diritto. Dob-biamo cambiare questo nome, dobbiamo chiamarlostato di diritti e di doveri per tutte le perso ne che viabitano, perché sono cittadini di questo paese.

La nostra speranza è forte, ma deve cambiarequalcosa, specialmente in Italia.

Siamo un paese che ha potuto raggiungere buonirisultati economici anche perché c’è stata una forteemigrazione all’estero che, a sua volta, ha favorito losviluppo di altre parti del mondo. D’altronde all’ini-zio del secolo l’Europa ha salvato la sua economia an-che perché sono emigrati 20 milioni di europei. Oggideve esserci una rivoluzione, un cambiamento, per-ché l’economia da sola non produce cambiamenti du-revoli. I miglioramenti possono essere spazzati via inun attimo e lo stiamo vedendo in Asia. Allora è giu-sto quello che affermava Mons. Charrier: l’uomo alcentro, l’economia che rincorre.

Ma bisogna fare un passo in più rivolto ai giova-ni. Essi non «ci sono» per dar vita a questo cambia-mento e, per riconqui starli, dobbiamo andare a loroda riconciliati. Noi ogni anno muoviamo centinaia dimigliaia di giovani, facciamo dei pellegrinaggi a pie-di che pochi conoscono, ma che, in questi anni, han-no coinvolto più di 500.000 giovani. Cercheremo dimeri tarci questo primo Mondiale dei Giovani, inti-tolato «Il futuro sei tu», con un lungo pellegrinaggioa piedi dal Tempio della Concordia di Agrigento finoa Torino, durante il quale tenteremo di coinvolgeremilioni di giovani non per dire basta, ma per dire cheè possibile cambiare.

È necessario riconciliarci, mettendo veramente la

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preghiera al primo posto: la preghiera ci apre la men-te e il cuore. Dio entra in noi. Con la sua mente, i suoiocchi e il suo cuore vediamo i problemi e capiamo co-me affrontarli in fretta e facendo bene.

Con questo spirito possiamo guardare con spe-ranza la gran quantità di situazioni talmente enormiintorno a noi che hanno bisogno di una risposta im-mediata.

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Stefano Zamagni*

Anch’io esprimo la mia gratitudine alla Fondazio-ne Centesimus Annus per questa occasione che anco-ra una volta mi è stata data di essere con voi. Mi scu-so se dovrò andarmene prima del previsto per un im-provviso contrattempo. Avrei desiderato fermarmi percontinuare a scambiare opinioni e conoscere ciascu-no di voi meglio di quanto finora abbia potuto fare.Detto questo, anch’io esprimo apprezzamento per larelazione di Mons. Hamao, una relazione molto den-sa che dovrebbe essere sviscerata in tutti i suoi aspet-ti. Mi limito, come si conviene in una tavola rotonda,a sottolineare alcuni punti e a chiosare alcune affer-mazioni che abbiamo ascoltato.

Prendo le mosse da due dati che servono per farpassare la tesi di fondo di questo mio breve interven-to. Le stime del 1996, quindi di due anni fa, dell’OIL,Organizzazione Internazionale del Lavoro, che è un’a-genzia delle Nazioni Unite che ha sede a Ginevra, cidicono che il numero dei rifugiati politici, o megliodei migranti per ragioni politiche, è stimato intornoall’ordine di 20 milioni a livello mondiale. D’altra par-te il numero dei migranti per ragioni occupazionali,economiche, è stato stimato, sempre nel ‘96, nell’or-dine di 100 milioni. Ma c’e un’altra categoria di mi-granti e cioè quella dei migranti o profughi per ra-gioni ambientali. La OIL ha stimato che si tratti di

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* Versione non rivista dall’autore.

una cifra enorme che va dai 100 milioni ai 500 mi-lioni. Questo vuol dire che da adesso in avanti dob-biamo aspettarci che il fattore principale di migra-zioni sia quello dovuto alle problematiche ambienta-li a livello globale. Per cogliere il significato di questodato, se esaminiamo i flussi migratori in entrata e inuscita, vediamo che ancora oggi i flussi principali so-no quelli Sud/Sud. Cioè i flussi di migrazioni da pae-si del Sud del mondo verso paesi del Sud del mondo.Ad esempio, a Sud del Sahara nel continente africa-no, si tratta di 35 milioni di soggetti che migrano daun paese all’altro della stessa area. Mentre il flussoSud/Nord, dove Sud sta a significare i paesi in via disviluppo e il Nord i paesi avanzati, è molto minore invalore assoluto ma con forte tendenza alla crescita.Questo vuol dire che il problema delle migrazioni staassumendo oggi connotati nuovi rispetto al recentepassato. Mentre declina la componente legata a mo-tivi politici per le ragioni che conosciamo, anche secontinua ad essere presente – noi italiani avvertiamoil fenomeno in modo particolare perché questa com-ponente è presente soprattutto da noi – sono invecein aumento le migrazioni legate a cause economichee soprattutto quelle legate a ragioni ambientali. An-cora un altro dato della United Nations EnvironmentProgram (U.N.E.P.), un dato del 1997. Oggi 350 mi-lioni di persone vivono in situazioni croniche di ca-renza d’acqua. Voi sapete che il problema dell’acquapotabile sta diventando drammatico. Una volta glieconomisti parlavano, facendo riferimento alle risor-se, di scarsità di carbone, di acciaio, ecc. Oggi non sene parla più perché quelle scarsità sono state ampia-

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mente superate. Oggi la vera scarsità è l’acqua. E at-tualmente la UNEP dice che 350 milioni di personevivono in situazioni croniche di carenza d’acqua. Èchiaro che queste persone devono migrare perchésenza acqua non si può vivere. Questo per dire che iltema della emigrazione oggi si colora di tinte nuoverispetto al passato. Ancora alcuni decenni fa il pro-blema ambientale, ecologico, non determinava flussimigratori.

Seconda osservazione: nella relazione di Mons.Hamao abbiamo visto in un’angolatura particolare iltema della globalizzazione e opportunamente Sua Ec-cellenza ha messo in evidenza che la globalizzazioneè diversa dalla internazionalizzazione. Vorrei chiosa-re su questo punto da un’angolatura diversa. Molti,anche tra gli stessi economisti, confondono l’interna-zionalizzazione con la globalizzazione, o meglio ri-tengono che la globalizzazione sia una semplice ma-gnificazione della internazionalizzazione. E poichél’internazionalizzazione dei rapporti economici èsempre esistita, almeno da Marco Polo in avanti, ocomunque da quando esiste una economia di merca-to di tipo capitalistico, molti dicono: ma dopo tuttoche differenza c’e ? Gli scambi internazionali ci sonosempre stati. E invece no. C’è un elemento di rotturache differenzia la globalizzazione di oggi dalla inter-nazionalizzazione del passato. Tanto è vero che seguardiamo i dati degli scambi di merci e servizi nelperiodo che va dal 1880 alla prima guerra mondialein valore assoluto sono superiori a quelli di oggi.Quindi non è nell’ammontare, come certe statisticheci dicono, che sta la specificità della globalizzazione

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rispetto al più antico fenomeno della internazionaliz-zazione.

La specificità sta in questo, e cioè che la globaliz-zazione oggi avviene al di fuori di un contesto guida-to dagli stati nazionali. Chi per primo capì queste co-se con la lucidità che gli era propria fu Ricardo, ilgrande economista inglese, il quale già agli inizi del1800 diceva: devono essere oggetto di tran sazione lemerci (allora i servizi erano pochi), ma i capitali e lepersone devono rimanere in patria.

I lavoratori inglesi devono rimanere in Inghilterra,i capitali inglesi devono rimanere nella City. C’era unanaturale riluttanza dei capitalisti inglesi a portarefuori dell’Inghilterra i propri capitali e una naturaleriluttanza degli imprenditori dell’epoca a portare fuo-ri i propri lavoratori. Quindi il punto che voglio sot-tolineare è questo: la internazionalizzazione ha sem-pre riguardato lo scambio delle merci e dei servizi enon dei capitali. E inoltre l’internazionalizzazionedell’economia veniva guidata dal potere degli statinazionali. Erano gli stati nazione con i loro poteri fi-nanziario, commerciale e via dicendo, che guidavanola danza. Ebbene la novità di oggi, che caratterizza laglobalizzazione, sta esattamente nella eliminazione diqueste due caratteristiche. Oggi sono oggetto di tran-sazione non solo gli outputs, come dicono gli econo-misti, cioè i prodotti, ma anche gli inputs, anzi so-prattutto questi ultimi, perché la globalizzazione del-l’economia sta a significare che è soprattutto il fatto-re mobile per eccellenza, il capitale, a essere oggettodi transazione. E lo è anche il lavoro. Dal 1989 ad og-gi, cioè dalla caduta del Muro di Berlino, l’O.I.L. ha

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stimato che il mercato globale del lavoro ha vistol’immissione di circa un miliardo di lavoratori a li-vello mondiale.

Per quanto riguarda la seconda caratteristica, og-gi i governi nazionali non sono più in grado di gui-dare la danza. Anzi, sta avvenendo il contrario. Cioèsono le relazioni economiche internazionali che de-terminano le politiche dei governi nazionali, cometutti sappiamo. Basta leggere le cronache che quoti-dianamente ci vengono offerte. Per dirlo in terminipiù accademici, la novità della globalizzazione è quel-la di essere passati dal liberalismo, «embedded» al li-beralismo «disembedded». Ciò sta a significare che fi-no a qualche tempo fà il liberalismo era inserito, in-castonato in un assetto istituzionale – dove istituzio-nale vuol dire istituzioni economiche, legali, ecc. – te-nuto a freno dai governi nazionali. Oggi viviamo inepoca di liberalismo «disembedded», cioè non più le-gato alle specificità dei confini nazionali. Questo èquello che pone il problema. Tutto il resto ne è la con-seguenza.

Noi possiamo descrivere la globalizzazione in die-cimila modi diversi, però se non capiamo qual è l’e-lemento discriminante, non riusciremo mai ad af-frontare il problema a livello di terapia o di politicheper gli obiettivi che vogliamo raggiungere. In altre pa-role, non possiamo più pensare di correggere le con-seguenze negative che la globalizzazione come ognialtro processo storico sta ponendo – ne ha parlato stamattina Mons. Hamao – se non comprendiamo che èpia illusione cercare di trovare la soluzione in unrafforzamento dei poteri degli stati nazionali. Questo

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andava bene ieri, all’epoca della internazionalizzazio-ne. Oggi queste armi sono spuntate, anzi tendono aprodurre degli effetti che i sociologi chiamano per-versi, cioè contrari agli obiettivi che si intendeva rag-giungere.

Per finire vorrei sottolineare un terzo punto. Laglobalizzazione non può essere vista nelle due formeestreme che spesso ci vengono presentate dai media.Cioè da una parte coloro che ritengono che la globa-lizzazione sia la panacea di tutti i mali, dall’altra co-loro che la demoliscono. L’atteggiamento del creden-te, secondo me, di fronte al fenomeno della globaliz-zazione è quello di armarsi di saggezza, basata su unalettura fedele. Perché la globalizzazione è un eventodi portata epocale che può essere gravido di conse-guenze ma anche foriero di notevoli passi avanti. Nondimentichiamo che la globalizzazione sta riducendola differenza tra paesi, mentre sta aumentando le dif-ferenza all’interno dei vari paesi. Questo è un puntoche viene poco sottolineato. Si dice: con la globaliz-zazione aumentano le ineguaglianze. Non è vero.

Quello che è vero è che con la globalizzazione au-mentano le ineguaglianze fra gruppi sociali all’inter-no dei paesi e del Nord e del Sud del mondo. Ne sap-piamo qualcosa noi in Italia e in Europa. Le inegua-glianze sociali sono aumentate nel corso degli ultimiventi-venticinque anni. Ma non è vero che aumenta ildivario fra il Nord e il Sud del mondo. Quindi la glo-balizzazione di per sé può essere usata come un fat-tore notevole di avanzamento, di progresso. Certo, co-me tutte le evoluzioni, non può essere a costo zero.Non può avvenire senza il prezzo di un’accorta e at-

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tenta conduzione. E allora la domanda diventa: comefare? qual è la strategia da seguire per valorizzare gliaspetti positivi della globalizzazione nei confronti del-la immigrazione e di altri problemi ? Direi che ci so-no tre strategie possibili. La prima è quella propostadal politologo americano O’Nalley molto famoso peril libro recentemente tradotto anche in italiano chequalcuno chiama la via del fondamentalismo liberi-sta. Dice O’Nalley: se vogliamo lucrare i vantaggi del-la globalizzazione dobbiamo accelerare il più possi-bile i meccanismi anonimi e impersonali del merca-to perché in questa maniera affrettiamo i tempi perarrivare alla situazione in cui i vari paesi si sarannopiù o meno equilibrati. Quindi lasciamo spazio aimeccanismi, anonimi e impersonali, del mercato. Laversione opposta invece è quella che si può chiamaredel neostatalismo secondo la quale bisogna ridare piùpotere agli stati nazionali per controbilanciare gli ef-fetti nefasti della globalizzazione. È una via questache predica il ritorno più o meno velato a forme dimercantilismo, a forme di protezionismo. Non quel-lo becero e grezzo dei vecchi tempi; ci sono oggi mo-di molto raffinati per occultare il volto del protezio-nismo.

Io ritengo che queste due vie per motivi diversinon possano essere accettate, o meglio non conduca-no ai risultati che tutti noi auspichiamo. Né la via delfondamentalismo liberista che dice lasciamo fare aimeccanismi – e sottolineo la parola meccanismi per-ché evoca qualcosa di meccanico che prescinde com-pletamente dalla persona – né la via del neostatali-smo, sia pure in versione aggiornata, sono valide per

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ché aggraverebbero la situazione e soprattutto deter-minerebbero veramente un innalzamento della po-vertà. Qual è allora la strategia da seguire ? Una stra-tegia che io personalmente trovo molto interessante,alla quale bisogna lavorare, è quella della società ci-vile transnazionale. È una via che ha il vantaggio dimettere al lavoro la società civile intesa come societàcivile organizzata. Si tratta di prendere sul serio ilprincipio di sussidiarietà e di trovare il modo di ap-plicarlo a livello internazionale. Finora abbiamo sem-pre parlato di sussidiarietà a livello nazionale e re-centemente, è il caso dell’Unione Europea, a livelloeuropeo. Va benissimo, ma non basta. Bisogna che ilprincipio di sussidiarietà, come tutti i principi fon-dativi di un ordine sociale, sia declinato a livello glo-bale altrimenti non può reggere. Non può reggere lasussidiarietà in un paese e non in un altro. La via cheho chiamato della società civile transnazionale ha co-me suo perno l’applicazione del principio di sussidia-rietà a livello globale. La seconda strategia è quella diutilizzare le varie espressioni dei cosiddetti corpi in-termedi a livello internazionale dando loro un poterespecifico che non è solo quello della denuncia dei ma-li, come finora è avvenuto, ma un potere specifico diintervento. In una recente intervista James Wolfeson,Presidente della Banca Mondiale, ha dichiarato: senon abbiamo la capacità di affrontare le emergenzesociali, se non disponiamo di piani di lungo periodoper creare istituzioni solide, se non puntiamo a unamaggiore giustizia sociale, non ci sarà stabilita poli-tica e senza questa nessuna somma di denaro chemetteremo nei nostri piani di salvataggio riuscirà a

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darci la stabilità finanziaria. Interessante che questolo dica il Presidente della Banca Mondiale. Il punto èquesto, che troppi soldi, troppe politiche del cosidet-to aiuto, sono andati a finire in malo modo perchéhanno seguito la via di affidarsi agli stati nazionali.Noi dobbiamo trovare una strategia che, evitando idue corni del dilemma, possa essere implementata. Eritengo che per un compito di questo genere la Chie-sa, non solo come Chiesa istituzionale ma come co-munità di credenti, possa fare molto. Molto di più diquanto coloro i quali vi operano forse credono rite-nendo di essere ancora nella situazione della interna-zionalizzazione quando cioè tutti i poteri dove vanopassare attraverso lo Stato. Oggi dobbiamo aggiorna-re questa riflessione per renderla più plausibile e per-ché essa possa fare più presa sulla realtà.

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Roberto Mazzotta

Da parte mia qualche considerazione aggiuntiva.Innanzi tutto non possiamo mai non considerare unelemento che qualche volta sfugge e cioè l’andamen-to della demografia. Questo per evitare di ritenere chel’esplosione di alcuni problemi possa avere una natu-ra limitata nel tempo e non essere il frutto inevitabi-le di fatti che ormai sono decisivi per la determina-zione dello sviluppo e delle fortune del mondo. Negliultimi quarant’anni la popolazione mondiale si è qua-si raddoppiata, praticamente ogni anno vi è un in-cremento di quasi 80 milioni di persone, e la con-centrazione di questo incremento e, per circa il 90%,nei paesi sottosviluppati. Quindi assistiamo a un fe-nomeno epocale non reversibile: un incremento dellapopolazione di questa entità – forse nei prossimiquattro decenni ci sarà una relativa riduzione rispet-to all’andamento dei passati quattro decenni perché itassi di natalità si stanno modificando al ribasso – èun fenomeno enorme. La popolazione del mondo cre-sce e si concentra tutta nei paesi sottosviluppati. Ipaesi sviluppati stanno diventando tutti paesi vecchi.Il caso italiano è addirittura al vertice tra tutti, conun tasso di fertilità dell’1,20 per donna, ma il feno-meno esiste in tutta l’Europa e il Nord America, valeper tutta la grande fascia del mondo ricco, delle areesociali opulente. Al di là delle considerazioni che ab-biamo ascoltato volevo sottolineare questo aspetto, inmodo da non commettere l’errore di ritenere che i fe-nomeni di cui trattiamo possano essere ribaltabili nel

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tempo. Sono fenomeni destinati piuttosto a cresceree obiettivamente non eliminabili. Conosciamo poi tut-ti benissimo i problemi del lavoro e del l’occupazio-ne nelle nostre società. Tassi di disoccupazione alti inalcune parti del mondo sviluppato, non alti in altre,per ragioni che è inutile discutere in questa sede, equindi man canza di possibilità di coprire determi-nate funzioni di lavoro con la popolazione propria.Questo sarà un elemento assolutamente crescente: inostri giovani, sempre in numero minore purtroppo,saranno sempre meno disposti a coprire quelle fun-zioni del mondo della produzione di beni e di serviziche invece saranno sempre più necessarie stante l’in-vecchiamento della popolazione residua e quindi ine-vitabilmente ci saranno dei vuoti formidabili nel rap-porto domanda/offerta di lavoro.

Mi pare che nelle riflessioni di stamane abbiamoraccolto alcuni dati che vorrei riassumere. Il primo:il mondo è cambiato nelle sue relazioni strutturalieconomico-sociali. Tutto quello che è capitato – la tra-sformazione della tecnologia, le comunicazioni, la ri-voluzione dei trasporti, la rivoluzione del sistema del-le conoscenze e delle modalità di organizzazione – haintegrato sempre di più il mondo; inoltre fortunata-mente il mondo non è più spaccato in aree politichenon comunicanti. Secondo, è superata la fase nellaquale le politiche economiche e sociali erano decise econtrollate dagli stati nazionali ma non si è ancorasostituito un quadro istituzionale universale. Quindiil mondo si trova in una situazione nella quale, men-tre gli studiosi e i teorici disputano tra il modello delfondamentalismo liberista e quello neostatalista, la

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mancanza di un quadro istituzionale in grado di re-golare i fenomeni rende assolutamente inevitabile laprevalenza del fondamentalismo liberista dal punto divista di fatto e non della scelta o della opzione. Noivediamo quindi crescere un enorme problema che in-cide sulla vita delle nostre collettività ma stiamo an-cora cercando di capire quali siano le possibilità pra-tiche di regolarlo e quale debba essere da un puntodi vista morale ed etico il comportamento di singolie comunità nei suoi confronti.

Passo a qualche altra considerazione. È indubbioche pensare di poter disciplinare questi fenomeni sol-tanto con lo strumento della moltiplicazione dei di-vieti da parte dei diversi paesi rischia di offrire unasoluzione per un periodo molto breve di tempo ma dicreare poi una serie inenarrabile di contraddizioni edi violenze. Guardando all’Italia, pensiamo a cosapuò capitare in una prospettiva di qualche decennioin un paese come il nostro che è profondamente in-serito come base territoriale terminale di un conti-nente estremamente sviluppato e prospero in un’areamediterranea che invece è in preda a contraddizioniesplosive. Pensare che la risposta a questi problemipossa essere soltanto negli strumenti di proibizione ècomprensibile e demagogicamente molto forte macertamente insoddisfacente. Una riflessione banalema necessaria: è chiaro che i problemi sociali creatidal fenomeno crescente dello scambio e delle comu-nicazioni fra le popolazioni, che tutti gli elementi in-dicano come sempre più pressanti nel prossimo fu-turo, toccano quelle categorie sociali che negli ultimidecenni in tutti i paesi sviluppati hanno raggiunto li-

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velli di reddito, di sicurezza sociale, di tranquillità so-ciale che prima non avevano. Quindi certamente intutti i paesi sviluppati il problema viene visto comeguerra tra i poveri. È indubbio quindi che questo fe-nomeno sociale abbia una caratteristica del tutto di-versa da quella che siamo stati abituati a conoscere,non riguarda più all’interno delle società tradizionaliun elemento di divisione, di conflitto all’interno dellecategorie, delle opinioni, degli interessi – che è quello che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi de-cenni – ma in qualche maniera può essere capovolto.Di fronte al problema che emerge, che vediamo nellenostre città, il fenomeno riguarda sempre di meno lecategorie sicure a reddito elevato che possono risol-vere questo problema in mille modi, ma gli altri chevedono la sicurezza del posto di lavoro messa a re-pentaglio, che vedono le garanzie e le conquiste dellavoro messe in discussione, che quando sentono par-lare di flessibilità del lavoro pensano che ciò sia pos-sibile proprio perché esiste un’offerta di lavoro alter-nativa alla loro. È un problema sociale molto grossoche richiede urgente attenzione. Quindi un comples-so di situazioni all’interno delle quali non è facilemuoversi, e intorno alle quali anche questo inizio didiscussione da parte della nostra Fondazione vuolecercare di richiamare alcuni punti e alcuni elementiper poter prima migliorare la nostra capacità di com-prensione e poi arrivare a formulare un indirizzo euna linea possibile.

Ritorno a questi elementi per cercare di arrivare auna conclusione. Un primo punto: se non è possibiletornare a pensare politiche regolatrici a livello nazio-

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nale capire come questa fase di un mondo globale,che è più nelle mani di gran dissimi gruppi di im-prese e grandi gruppi finanziari che di regole diffuse,possa trovare elementi di contemperamento e di mo-derazione. Personalmente sono convinto che il cosid-detto sistema globale è certamente il risultato di fat-ti che appartengono allo sviluppo del mondo, ma chedobbiamo mettere sotto attenta osservazione criticail fatto che un unico grande sistema economico, quel-lo Nord-Americano, è oggi in grado di essere l’ele-mento regolatore delle decisioni principali che pos-sono riguardare l’intera realtà mondiale. Credo cheuna realtà come quella dell’Europa che si sta inte-grando con fatica, non possa non porsi il problema dicome concorrere in maniera leale e cooperativa conl’altra grande realtà organizzata operante nel mondosviluppato per fare in modo che un sistema di istitu-zioni internazionali possa darci gradualmente criteridi regole meno incerte e meno casuali di quelle chehanno caratterizzato l’evoluzione di questi probleminegli ultimi anni. Mons. Hamao ha ricordato quale èstato il grande disagio della crisi finanziaria interna-zionale che ha colpito un pezzo di mondo che era cre-sciuto in modo così vistoso ed accelerato negli ultimitempi. Non possiamo non pensare come questo siastato determinato anche da uno sviluppo non con-trollato di variabili finanziarie che probabilmente de-rivano da questo: non avere ancora un sistema di re-gole che sostituisca quelle che le economie nazionaliuna volta avevano e che si sono perdute. Non esistepiù alcun sistema di contenimento e si crea quindiquesto fenomeno periodico di bolle finanziarie. Se-

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conda considerazione: è indispensabile orientare lepolitiche sociali nel senso di favorire in tutti i modipossibili le linee di sviluppo e di crescita dei paesi an-cora in condizioni di arretratezza allo scopo di crea-re in quelle aree la risposta ai problemi esplosivi chedeterminano migrazioni che oggi sono ancora all’in-terno dei continenti ma domani possono andare al dilà di questi limiti territoriali. L’indicazione che è sta-ta data di individuare corpi sociali, organizzazioni in-termedie, non soltanto a livelli istituzionali naziona-li, ai quali far riferimento e di grande rilievo e trat-tandosi di iniziative che sono all’interno del grandemondo della Chiesa una Fondazione come la nostranon potrà non trarne elementi di riflessione e di ap-profondimento indicativo. Terzo e ultimo punto: nel-le realtà nazionali in cui viviamo comprendere comequesto fenomeno sia un fenomeno destinato a travol-gerci se non avrà un quadro culturale e dei valori eti-ci di risposta. Due sono gli elementi ai quali ispirar-ci. Il primo: fenomeni di questo genere non possonoavere risposte esclusivamente repressive e limitative.Quando vedo in molte nostre città il non governo e lanon gestione di questi problemi, che hanno preso al-l’improvviso molti responsabili e vengono affrontaticon la creazione di aree di coercizione e di nuovi la-ger urbani, io credo che dobbiamo guardare alla co-sa con estrema preoccupazione perché queste inizia-tive sono destinate a creare una reazione di violenzatale da cambiare la natura pacifica della nostra so-cietà. Quindi non è pensabile di risolvere questi pro-blemi se non rendendo le nostre realtà capaci di or-ganizzare l’accoglienza, che non è sinonimo di un

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aperturismo disinvolto e incapace. In secondo luogo,capire che la stessa organizzazione dell’accoglienzanelle nostre società rischia di essere disarmata se nonè accompagnata da un approfondimento e da unasottolineatura della nostra identità etica e culturale,perché l’accoglienza di nuove culture, di nuove popo-lazioni è efficace solo se si stabilisce dialogo e questonon può avvenire se la cultura, fede religiosa, tradi-zione del paese ospitante non conosce se stessa. Perdialogare bisogna essere. In sostanza io credo che aquesti fenomeni non si possa rispondere solo con di-vieti. È un errore assoluto. Non possono essere nem-meno risolti da un atteggiamento illusorio di apertu-rismo incondizionato perché l’accoglienza richiedeorganizzazione e capacità di gestirla e risorse per far-lo. Anche l’accoglienza non può essere che un rap-porto rispettoso tra culture, ma culture che esistono.Io non credo che potremo impedire la creazione dimoschee, ma sono convinto che dovremo sempre da-re maggiore ragione e contenuto alle nostre chieseperché tra queste entità diverse ci possa essere unrapporto di rispetto.

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S.E.R. Mons. Charrier

Ringrazio dell’invito fattomi che a dire la verità misuona un po’ a rimprovero. Ho seguito i lavori dellaFondazione ma un po’ dall’esterno interpellando per-sone che qui conosco per capire l’itinerario che si fa-ceva. Perché noi condividiamo, come Chiesa italianae come pastorale sociale del lavoro, il fondamentaleimpegno di far conoscere e far vivere la dottrina so-ciale della Chiesa. Abbiamo molte iniziative: la pa-storale sociale lo fa per parte sua; lo fanno altre pa-storali che sono preposte alla realizzazione di unacultura nuova; c’è un progetto culturale della Chiesaitaliana, ci sono le Settimane Sociali, c’è il Giubileoche vogliamo mettere in piedi dando il nostro appor-to alla Santa Sede.

Su questo piano quindi ci sentiamo pienamente acasa nostra e direi invogliati a lavorare con voi. Sen-tendo la relazione di Mons. Hamao mi veniva in men-te uno slogan: sarà il capitale che corre dietro all’uo-mo e non l’uomo dietro al capitale.

Voi mi direte che è troppo semplicistica la cosa.Certo, un economista come il Prof. Zamagni mi di-rebbe di non andare avanti così a tagli netti. Però senoi poniamo l’uomo al centro di tutto, dell’economiae della finanza, probabilmente i capitali potranno an-che essere spostati là dove gli uomini vivono e pos-sono vivere nella loro cultura e nella loro realtà. L’uo-mo è al centro di tutto, l’uomo è il signore delle coseanche dell’economia e della finanza, cosi l’ha volutoDio. E allora noi lavoriamo perché questo diventi cul-

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tura, mentalità, condizioni, e poi gli esperti ci diran-no quale è la strada da intraprendere.

Senza prendere scorciatoie perché non sono pos-sibili nella realtà di oggi.

Una seconda cosa mi è venuta in mente. In realtàil Santo Padre ci ha dato una formuletta in due pa-role che mi pare interessante: globalizzazione deimercati, delle economie, delle finanze, certamente.Ma perché no anche la globalizzazione della solida-rietà? Come può essere tradotto questo sul piano eco-nomico? Per altro verso, tutti coloro che operano, cipossono dare una risposta. Forse ci danno la speran-za che è possibile camminare su questa strada, met-tendo mattone su mattone perché sappiamo che lasocietà è una costruzione dove ciascuno dà il suo ap-porto e lo fa progressivamente.

Siamo sicuri di non poter creare qui il ParadisoTerrestre, perché non sarà mai possibile, ma certa-mente di poter migliorare le cose. Credo che nostroSignore forse aggiungerebbe anche qualcosa alla pa-rabola del Buon Samaritano: ci chiederebbe di aiuta-re quei poveretti che sono incappati in una immigra-zione per cause politiche, economiche, ecc., ma ci di-rebbe anche di fare in modo che ci siano meno la-droni possibili lungo la strada. Quindi andare allecause del problema.

Io credo che in realtà tutto questo sia nel nostrocuore. Ce l’ha messo lo spirito di Dio. E se è nel no-stro cuore, pensiamo a quella frase di Papa Paolo VI:«se la pace è possibile, è dunque doverosa». Se la cen-tralità dell’uomo nella realtà economica e politicamondiale è possibile allora diventa doverosa.

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Vi ringrazio di avermi voluto rendere partecipedelle vostre iniziative che si richiamano alla mia atti-vità come responsabile dell’impegno sociale dellaChiesa italiana. D’ora in avanti sarò più presente epiù attento per imparare da voi.

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