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Capitolo I – Il problema del diritto romano Esperienza giuridica romana: quattordici secoli dall’8 a.C. al 6 d.C. Corpus Iuris Civilis : Il nostro codice civile è un complesso di enunciati, espressi in forma impersonale, astratta e autoritativa, premonizione diretta del legislatore, organizzati in modo intrinsecamente ordinato. Dietro ciò ci sono i condizionamenti del liberismo capitalistico in economia, e del liberalismo politico-istituzionale. Il Corpus è invece una raccolta non sistematica di precetti provenienti dai più svariati ambiti, il tutto influenzato da un economia chiusa e precapitalistica, con l'idea del potere universale fondato su un singolo. Il momento autoritativo con Giustiniano (482 – 565 d.C.) si inverava nelle costitutiones, ma da sole non bastavano, vennero dunque completate da quattro parti permeate dallo schema mentale del plenissimum nostrarum costitutionum robur accomodare (attribuire loro forza piena e assoluta delle nostre costituzioni): Institutiones: inizialmente era un trattato elementare in quattro libri, volto ad avviare i giovani allo studio del diritto, sotto forma di discorso diretto dell'imperatore, costruito su moduli tematici semplici e lineari secondo una tradizione didattica del II d.C. In seguito queste furono dotate di valore precettivo-normativo, con la costituzione giustinianea del 21 Novembre 533 (imperatoriam maiestatem); Digesta/Pandectae: dette anche Pandectae, perché proveniente da pan dexomai, raccogliere tutto. Con una costituzione del 15 Dicembre 530 (deo auctore) è raccolta in 50 libri con la tecnica del collage, di scritti dei giuristi romani del II/III d.C., allo scopo di attribuire valenza precettivo- autoritativa; Codex: autorizzato con la costituzione dl 16 Novembre 533 d.C., è la raccolta delle costituzioni dei precedenti imperatori, con valenza precettivo-normativa dunque a esse intrinseche, a differenza del Digesta. Novelle Costitutiones: atti normativi emanati da Giustiniano dopo l'ultimazione delle precedenti tre parti e della morte dell'imperatore, realizzata in tre collezioni, due da privati e una dall'amministrazione. Con tali atti, l’Italia divenne terra di diritto giustinianeo-bizantino: salvo essere stata assoggettata alla dominazione longobarda (569 – 774), causando la scomparsa del Corpus Iuris Civilis. La sua sopravvivenza è legata alla Chiesa attraverso sommari, riassunti o raccolte di pezzi con la quasi totale esclusione del Digesto soprattutto da parte dell’imperatore Leone il Filosofo. Il rientro del Corpus Iuris è stato agevolato da alcune circostanze legate alle organizzazioni cittadini e comunali, l’autore del recupero, Irnerio, propose un 1

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Capitolo I – Il problema del diritto romano

Esperienza giuridica romana: quattordici secoli dall’8 a.C. al 6 d.C.

Corpus Iuris Civilis: Il nostro codice civile è un complesso di enunciati, espressi in forma impersonale, astratta e autoritativa, premonizione diretta del legislatore, organizzati in modo intrinsecamente ordinato. Dietro ciò ci sono i condizionamenti del liberismo capitalistico in economia, e del liberalismo politico-istituzionale. Il Corpus è invece una raccolta non sistematica di precetti provenienti dai più svariati ambiti, il tutto influenzato da un economia chiusa e precapitalistica, con l'idea del potere universale fondato su un singolo. Il momento autoritativo con Giustiniano (482 – 565 d.C.) si inverava nelle costitutiones, ma da sole non bastavano, vennero dunque completate da quattro parti permeate dallo schema mentale del plenissimum nostrarum costitutionum robur accomodare (attribuire loro forza piena e assoluta delle nostre costituzioni):

Institutiones: inizialmente era un trattato elementare in quattro libri, volto ad avviare i giovani allo studio del diritto, sotto forma di discorso diretto dell'imperatore, costruito su moduli tematici semplici e lineari secondo una tradizione didattica del II d.C. In seguito queste furono dotate di valore precettivo-normativo, con la costituzione giustinianea del 21 Novembre 533 (imperatoriam maiestatem);

Digesta/Pandectae: dette anche Pandectae, perché proveniente da pan dexomai, raccogliere tutto. Con una costituzione del 15 Dicembre 530 (deo auctore) è raccolta in 50 libri con la tecnica del collage, di scritti dei giuristi romani del II/III d.C., allo scopo di attribuire valenza precettivo-autoritativa;

Codex: autorizzato con la costituzione dl 16 Novembre 533 d.C., è la raccolta delle costituzioni dei precedenti imperatori, con valenza precettivo-normativa dunque a esse intrinseche, a differenza del Digesta.

Novelle Costitutiones: atti normativi emanati da Giustiniano dopo l'ultimazione delle precedenti tre parti e della morte dell'imperatore, realizzata in tre collezioni, due da privati e una dall'amministrazione.

Con tali atti, l’Italia divenne terra di diritto giustinianeo-bizantino: salvo essere stata assoggettata alla dominazione longobarda (569 – 774), causando la scomparsa del Corpus Iuris Civilis. La sua sopravvivenza è legata alla Chiesa attraverso sommari, riassunti o raccolte di pezzi con la quasi totale esclusione del Digesto soprattutto da parte dell’imperatore Leone il Filosofo.

Il rientro del Corpus Iuris è stato agevolato da alcune circostanze legate alle organizzazioni cittadini e comunali, l’autore del recupero, Irnerio, propose un lavorìo interpretativo su Corpus Iuris, con l’elaborazione delle “glosse” volte a chiarirne la portata. Il compito dei glossatori era quello di chiarire il significato delle singole parole ed espressioni contenute nel singolo passo, ma anche quello di procedere all’analisi critica in relazione alle esigenze del mondo medievale. Il suo canto del cigno ci fu a Bologna ad opera di Accursio che fece una cernita di migliaia di glosse nella prima metà del 200 un’opera che prese il nome di Magna Glossa o Glossa ordinaria. Alla fine del 400 si propone uno studio ancora una volta “monopolizzante” del Corpus Iuris, ma incentrato sul commento. I commentatori non fecero altro che approfondire il solco tracciato dai glossatori con la differenza che il tutto venne pianificato e organizzato sul piano metodologico sottolineando come fosse ormai necessario ricercare nei singoli passi il significati più profondi, al fine di farne l’obiettivo della rinnovata riflessione dottrinale. Questo lavoro fece si che s’identificasse che il diritto rintracciabile nel Corpus Iuris come diritto comune, ovvero, come diritto contrassegnato da una universalità intrinseca e funzionale all’universalità politica dell’impero.

Si incominciò a parlare di mos italicus, ovvero, della consuetudine italiana nello studio della compilazione giustinianea e di mos gallicus di consuetudine francese di “leggere” il testo giustinianeo. Mentre la Francia si muoveva privilegiando la compilazione giustinianea al momento stesso che ne proponeva il recupero attraverso rinnovate critiche di “lettura” da parte dei giuristi, “l’area del Sacro Romano Impero”, invece riaffermava l’importanza del Corpus Iuris come atto formale emanato dall’alto.

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Capitolo II – I temi

La posizione di supremazia dello stato si identifica con l'emanazione di precetti vincolanti, le norme giuridiche che nel loro insieme formano il diritto oggettivo, che si divide in pubblico e privato. La gerarchia fra ordinamento e individuo si tecnicizza in un rapporto tra diritto oggettivo privato e soggetto di diritto, con un'ulteriore articolazione riguardante in secondo elemento in nesso concettuale fra: diritto oggettivo privato, soggetto di diritto, fatti e atti giuridici, situazioni giuridiche soggettive attive o passive.

Il Diritto oggettivo secondo Hans Kelsen e Santi Romano:Hans Kelsen (teoria normativa) applica il principio della sanzione nell’ipotesi di una inosservanza di norme giuridiche rapportate ad una norma fondamentale. Secondo Kelsen il “diritto oggettivo” è un complesso di giudizi ipotetici funzionali al momento sanzionatorio. Santi Romano (teoria istituzionale) considera il “diritto oggettivo” non tanto come un insieme di norme ma questo complesso di norme insieme all’organizzazione sociale che le produce con la conseguenza che la giuridicità e la “validità” delle norme stesse si basa sull’appartenenza ad un assetto sociale. Punto di contatto è nel desiderio di creare una dottrina pure del diritto, scientificamente oggettiva ed esatta, e nel riconoscere entrambi la posizione di privilegio dell'assetto organizzativo statale e la produzione al suo interno di norme generali e astratte a mo' di elementi strutturali del diritto oggettivo. Questo discorso apre la strada alla distinzione fra diritto pubblico e privato, ben definita da una frase del giurista Ulpiano del III d.C., il quale disse: "è diritto pubblico quello che interessa il modo d'essere dell'organizzazione giuridica romana, è privato viceversa quello che concerne l'utilità dei singoli.

Le norme nell'ambito del soggetto di diritto si distinguono in: norme di determinazione e norme di comportamento: le prime modellano la soggettività giuridica attraverso la capacità giuridica e la capacità d'agire, le seconde riguardano l'agire del soggetto di diritto, nella sfera del fatto e dell'atto giuridico, distinzione basata sulla presenza o meno della volontà nell'agire del soggetto. L'atto giuridico a sua volta si divide in lecito e illecito, a seconda che sia protetto o meno dall'ordinamento. L'atto lecito è dichiarazione di scienza quando è volto a far conoscere qualcosa, altrimenti è manifestazione di volontà. Tipico esempio del secondo caso è il negozio giuridico.

Il diritto soggettivo può consistere anche nella pretesa di un comportamento passivo: è il caso del “diritto assoluto”, il quale si divide in “diritto assoluto della persona” (diritto al nome), e “diritto assoluto reale”. quando fondamentale è il momento della patrimonialità. Diritti reali sono la proprietà, il godimento e la garanzia, e questi diritti possono essere sia “su cosa propria”, sia “su cosa altrui” (pegno e usufrutto, e sono diritti parziali).

Il diritto è invece relativo quando un terzo è obbligato a collaborare: diritto di credito e diritto potestativo si ha quando l’eventuale obbligo del terzo è di misura fondamentalmente irrilevante. Parleremo di 'dovere d'astensione' nel caso del diritto assoluto, di 'soggezione', nel diritto relativo, e di 'obbligazione' nel caso del diritto di credito.

Il termine status, è un termine moderno, inaugurato con il Principe di Machiavelli, con il significato di struttura organizzativa a carattere generale, nel mondo romano infatti il termine status era accompagnato da rei Romani, nel senso letterale 'essere cosa romana'. Economia romana legata al valore d'uso piuttosto che a quello di scambio, capitalistico.

È da queste premesse che si deve muovere per individuare le scansioni cronologiche delle forme ordina mentali romane e per delineare i riferimenti politico-istituzionali della nostra analisi. Si può parlare dei seguenti tipi d’organizzazione del potere:

Regnum arcaico : Il Regno arcaico, venuto meno sul finire del VI secolo a.C., era dominato dalla figura del rex, con l’assistenza di un organo oligarchico quale l’assemblea “senatoria” e assemblea popolare (comitia curiata) su base parentale territoriali senza funzioni deliberative.

Repubblica : La Repubblica, stabilizzatasi nel IV secolo ed entrata in crisi nell’ultimo secolo a.C., era legata al prevalere dei comizi centuriati, dotato di poteri attivi di deliberazione e d’elezione, alla figura dei due consoli, alla presenza di varie magistrature diarchica di durata annuale (consules) che sostituiva la figura del rex e al rafforzamento del

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potere dell’assemblea senatoria, le cui funzioni vennero ampliate con rilievo per una attività decisionali chiamata senatusconsulta e vi emerge ulteriori assemblee popolari con poteri attivi (concilia plebis – comitia tributa).

Principato : Il principato, inaugurato da Augusto, vide la figura del princeps come centro d’imputazione, compresa quella del Senato, che tuttavia vide i senatusconsulta divenire più vincolanti e precettivi che in passato.

Dominato : (Tetrarchia Diocleziana)Il dominato, apparso alla fine del III secolo d.C., vide la concezione assolutistica ed illimitata del potere dell’Imperatore (voluto da Dio), coadiuvato da una robusta burocrazia utilizzata come instrumentum regni.

Impero : L’impero bizantino con capitale a Bisanzio (Costantinopoli) e l’esasperazione del dominato. Termina con la morte di Giustiniano nel 565 che per alcuni decretò la fine dell’esperienza antica.

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Per quanto riguarda l’ambito economico vi furono tre fasi nella modalità di produzione:

1. Modo di produzione arcaico (8 a.C. – 4/3 a.C.)In tale segmento storico appare la prevalenza del valore d’uso. Il rapporto con la terra postula l’esistenza di gruppi parentali “gerarchizzati” al loro interno e la schiavitù costituisce ancora un fenomeno di massa infatti prevale la cd. “schiavitù domestica” in quanto l’attività produttiva era svolta dai servi, ma anche da altri appartenenti del gruppo.Qualche variazione si ebbe nel VI secolo a.C. epoca della cd. “monarchia etrusca” dove si parla di “secolo d’oro dei tarquini” con cui ci fu un maggiore dinamismo economico-commerciali e una maggiore propensione per lo scambio ed il commercio e con la conseguenza di un interesse maggiore riguardo al momento “patrimonialistico” dell’economia.Sul finire del VI secolo con il riaffermarsi delle esigenze e degli interessi economici legati alla tradizionale aristocrazia territoriale nasce l’aristocrazia patrizio-plebea.

2. Modo di produzione schiavistico (3/2 a.C. – 2/3 d.C.)Si dice schiavistico in quanto lo strumento servile assumeva il ruolo centrale. La causa va trovata nella progressione del suo dominio. È stata ridimensionata l’importanza del rapporto fra la terra come condizione naturale per la vita dei gruppi sociali e i gruppi sociali stessi, a vantaggio d’una riarticolazione del ruolo dei sottoposti con una prevalenza dello strumento servile.Una delle conseguenze delle guerre è stata quella di un contributo alla riarticolazione degli strati sociali dominanti, con l’emergere accanto all’aristocrazia di marca patrizio-plebea d’un nuovo ceto, il cd. ”ordine equestre”. L’agricoltura continuava ad essere il fondamento dell’intera economia e gli schiavi svolgeva il doppio ruolo sia di valore d’uso (agricoltura) sia di valore di scambio.

3. Modo di produzione tardo antica (2/3 d.C. – 6 d.C.)È stata annunziata da alcuni segni di crisi del III secolo dovuta ad una sostanziale inadeguatezza di Roma a permanere l’effettivo centro direttivo sul piano politico-economico e manifestatasi con il progressivo spopolamento delle città, la diminuzione di lavoratori per l’agricoltura. Questa fase ha visto l’estendersi del fenomeno latifondistico attraverso la coltivazione “frazionata” della grande proprietà terriera con lo sfruttamento diretto da parte del latifondista per una certa quota, attraverso l’attribuzione “parcellizzata” di fondi ai coloni liberi, a titolo d’affitto se non addirittura di corvées quali la prestazione d’un certo numero di giornate lavorative sulle terre dominiche. In questo periodo vi si forma l’ideologia del potere proprio del dominato e dell’impero con la cd. “burocratizzazione dell’economia” ovvero del controllo dall’alto della vita produttiva.

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Capitolo III – I precetti

Il diritto può essere inteso sia, in modo normativistico, come un insieme di norme vincolanti, sia come prima di tutto una forma di aggregazione sociale, secondo l’istituzionalismo. Bisogna inoltre considerare che il diritto è di fatto vivo e che coloro che lo studiano e lo applicano contribuiscono al suo stesso funzionamento. Il concetto di esperienza giuridica si ha quando si hanno tre momenti:

- dato realtà: regole di condotta tratte dalla prassi, che si pongano in concreto (consuetudine).- dato statuizione normativa: regole di condotta desumibili dalla suddetta determinazione/ricognizione.- dato riflessione tecnico interpretativa: criteri di condotta ricavabili dall'intervento di razionalizzazione e

controllo ad opera di giuristi o persone aventi la qualificazione professionale.Possiamo dunque dire che lo studio di un'esperienza giuridica significa lo studio del modo di esistere di questi tre elementi, sia secondo linee di contemporaneità, sia secondo sincronia (un punto singolo dell'esperienza giuridica), sia diacronia (distendersi di tale esperienza nel tempo).

Età regia:In età regia buona parte del diritto si basava sulla consuetudine e sul formalismo, sul dato realtà dunque, a tal punto che esistevano formule ben precise da recitare nelle liti giudiziali e che pronunciare in modo scorretto solo una di tali parole poteva perfino causare la sconfitta nel processo. Al dato realtà si contrapponevano gli altri due: il dato statuizione normativa, (ebbe un ruolo secondario rispetto a quello realtà, di sua esplicazione o applicazione) consisteva in una serie di precetti emanati dal rex, alcuni dei quali concernenti casi particolari che potevano entrare a far parte della consuetudine per il loro applicarsi molteplici volte.

Era inoltre presente l'idea del ruolo sacerdotale del rex, che dava anche un significato di volontà divina ai suoi precetti furono tutti raccolti da Papirio inoltre il rex poteva svolgere attività di carattere precettivo articolati su molteplici livelli, da interventi su questioni particolari o di caratteri più ampio e articolare.Tutto ciò doveva avvenire attraverso la solita commistioni con il fattore religioso e quindi dalla circostanza che il suo legiferare postulasse una volizione divina favorevole ed entro questi limiti si può riconoscere un nucleo di verità alle “legis regiae”, fermo restando che tali “leggi” non si sostituissero integralmente alle regole consuetudinarie, ma che intervenissero in funzione ricognitiva, esplicativa o applicativa senza una pianificazione a livello di “politica di diritto”.

Uno dei connotati dell’esperienza giuridica romana è appunto il cd. “formalismo” che si manifestava come vincolo dell’impiego di gestualità predefinite, alla pronunzia di formule, alla ritualità di atti e azioni, pena l’irregolarità e l’illegittimità degli stessi e dei connessi effetti sul piano intersoggettivo. Un ulteriore conferma si una richiamava un affermazione delle Istituzioni di Gaio, là dove si racconta che si potessero perdere liti giudiziarie utilizzando nella formula una parola diversa da quella prevista.

Gaio scrive che nel secondo secolo d.C. esisteva un procedimento detto mancipatio, intesa come compravendita immaginaria e consisteva in un rituale da svolgersi davanti a 5 testimoni, cittadini romani puberi, e ad un'altra persona la quale tenesse in mano una bilancia (libripens). L’accipiente (mancipio accipiens) affermava la cosa e pronunciava la formula: “dico che questo servo è mio secondo il diritto dei romani e che esso venga acquistato in mio favore con questo bronzo e questa bilancia”. La mancipatio appare una decantazione del formalismo più antico . Il rilievo di quella volontà divina “immanente” alla realtà delle cose, che doveva essere interpellata per singoli atti o procedure, ma che in determinati casi assumeva come evidenza come dato interno, strutturale dello schema comportamentale.

Secondo Gaio, quando si discuteva circa la proprietà di certe cose, una di esser prendeva una festuca, afferrava la cosa contesa e la toccava con la festuca (bastoncino di legno rappresentativo della lancia quale contrassegno della giusta proprietà derivante dall’attività bellica) pronunziando la formula “dico questo servo è mio in base al diritto dei romani conformemente al suo stato giuridico”. Di fronte a questo atto chiamato “vindicatio” pronunziava una formula rivolta all’avversario: “chiedo se tu forse dica in base a quale motivo hai effettuato la tua vindicatio” domanda a cui rispondeva con ulteriore formula “ho agito legittimamente nell’esercitato l’atto di potere sullo schiavo” e l’altro insisteva “siccome hai esercitato l’atto di potere sullo schiavo in modo illegittimo ti sfido con la scommessa” e la controparte effettuava il medesimo invito a ciascuno si impegnava a versare la somma proposta all’erario (cd. cassa pubblica).

Gaio definisce con il termine “sacramentum” la scommessa. L’atto del sacramentum era un atto posto in essere da ambedue parti e volto a realizzare una consacrazione alla divinità attraverso un vero e proprio giuramento.

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Età repubblicana:In età repubblicana si ebbe la prima, grande conquista del mondo giuridico romano, ovvero le 12 Tavole: le norme, così, non avevano più origine dalla attualità e dalla consuetudine, ma da una fonte certa e quindi, ovviamente, non manipolabile. Anche se fu il risultato della lotta tra patrizi e plebei quel che sappiamo è che non fu una vera e propria “vittoria” per la plebe ed i ceti inferiori, che videro i propri diritti anzi messi relativamente in secondo piano: fu, probabilmente, una sorta di compromesso legato più alla statuizione scritta delle norme che ad un’effettiva equità del loro contenuto, tanto che molti istituti erano citati superficialmente dandone per scontato una regolamentazione consuetudinaria. Il collegio dei pontefici perse formalmente il suo ruolo interpretativo, ma in realtà continuò anche con l'interpretare le 12 tavole. A questi si sostituirono poi i giuristi di professione.

Quanto all’attività legislativa, essa s’identificò con la produzione di leges intese come prodotto di deliberazione collettiva, nella duplice versione si ebbero delle leges rogatae dalla rogatio (proposta del magistrato messe ai voti nelle assemblee popolari) e dei plebiscita ovvero delle determinazioni dei concilia plebis che acquisirono efficacia con un provvedimento del 287 a.C., la Lex Hortensia.

Accanto a questa attività legislativa popolare e della plebe e ai senatusconsulta bisogna inoltre considerare l’importanza del diritto pretorio, lo ius honorarium: il pretore, a differenza delle assemblee e del Senato, non emetteva giudizi volti a creare regole e precetti, ma concedeva o non concedeva tutela processuale a determinati rapporti intersoggettivi. Il processo nella fase in iure, dove si incardinava la controversia davanti al pretore che designava un giudice che tentava la risoluzione del conflitto. Il pretore, ascoltate le parti, redigeva una sorta di giudizio sulla controversia, che veniva poi inviato al giudice da lui designato e a cui il giudice doveva attenersi.

Il pretore, all’inizio della sua carica annuale, redigeva un edictum, ovvero un compendio di azioni e formule tipo che avrebbe usato durante la sua attività, che sarebbe poi consistita anche nel correggere ed innovare alcune previsioni normative. Uno dei maggiori esempi di intervento correttivo pretorile è l’actio publiciana, che consentiva al possessore di un bene, spogliato di questo da terzi, di rivendicarne il possesso. Era di fatto una variante della formula della rei vindicatio, con cui il proprietario non possessore poteva rivendicare la cosa attualmente in mano al possessore. L'agire del pretore poteva essere di tre tipi:

- strumentale, d’attuazione a livello processuale di quanto imposto in particolare dalle legge;- correttivo, d’aggiustamento, se non disapplicazione di fatto delle previsioni in esse rintracciabili;- innovativo, là dove queste previsioni mancavano.

INTERVENTI INNOVATIVI DEL PRETORE: La compravendita avveniva sempre secondo la mancipio, perché senza di questa il compratore avrebbe avuto il dominium della cosa solo dopo un anno, e avrebbe potuto perdere la cosa attraverso la rei vendicatio da parte del possessore, anche versando il prezzo concordato. Con il nuovo assetto dinamico aveva però preso sopravvento lo scambio informale. Ciò avvenne fino alla pubblicazione dell'Actio Publiciana (dal pretore che la configurò), una delle più evidenti ipotesi d'intervento correttivo pretorile. Con questa il possessore veniva ad acquisire i medesimi mezzi processuali del proprietario, in quanto il giudice decideva fingendo che l'anno del dominium fosse già trascorso.

Il pretore non era però legislatore, quindi non poteva porre in essere una lex abrogativa al pari delle assemblee popolari, ma intervenire solo attraverso meccanismi processuali. i suoi interventi potevano quindi essere:

- exceptio rei venditae et traditae: Intervento a favore del proprietario, facendosi forza sullo scambio avvenuto informalmente attraverso la traditio.

- escludere la concessione di un'azione: Ad esempio la Denegatio Actionis; l'acquirente entrava in possesso dello schiavo, lo liberava informalmente, ma poi ci ripensava e si rivolgeva al pretore: questi rifiutava la richiesta e istillava nella coscienza sociale l'idea di una libertà di questo tipo, nonostante non potesse riconoscerla formalmente.

- actio commodati: Restituzione della cosa prestata. Nonostante non ci fossero precetti, rafforzava nella coscienza sociale la necessità di un comportamento, per non essere colpiti sul piano processuale.

L' intervento pretorile era dunque visto come un contrapporsi tra ius civile e ius honorarium, come affermava il giurista Papiniano (III d.C.), per il quale il diritto pretorio aiutava, integrava e correggeva il diritto civile per un

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pubblico interesse.

RIFLESSIONE TECNICO-INTERPRETATIVA: Ci fu una laicizzazione dell'attività pontificale, i cui segni esteriori sarebbero offerti da alcuni eventi più o meno storici avvenuti nella prima repubblica e consistenti nella divulgazione sul finire del quarto secolo a.C. degli schemi procedurali/processuali conservati dai pontefici ad opera d’un certo Gneo Flavio e nella prassi di dare pareri pubblicamente.

Pomponio citò tre fonti:

1. il giurista Sesto Elio Peto Cato (inizio II a.C.) scrisse i Tripertita, contenente il testo delle XII tavole, la loro interpretazione, e una serie di schemi procedurali/processuali. Fu definito da Pomponio documento dell'inizio del diritto civile.

2. l’opera dei tre giuristi Giulio Bruto, Manio Manilo, Publio Mucio Scevola (metà II a.C.): che stando alla testimonianza sarebbero stati decisivi per la definitiva fondazione del diritto civile.

3. l’opera di due giuristi Quinto Mucio Scevola, Servio Sulpicio Rufo (II-I a.C.) il primo descrisse in 18 libri il diritto civile, il secondo privilegiò la consulenza con allievi.

Età del principato:Con Ottaviano Augusto ci fu uno svuotamento delle vecchie strutture ordinamentali repubblicane a favore del principe, che assoggettò il far diritto a un singolo, il quale intervenne con una produzione diretta di precetti e di regole a livello di dato statuizione normativa.Augusto distinse fra il potere (potestas) da lui formalmente avuto in relazione alle magistrature di tradizione repubblicana e l’autorevolezza effettiva, sostanziale (auctoritas) riconosciutagli indipendentemente da siffatte cariche, la sola sufficiente a giustificare la personale posizione di supremazia all’interno dell’ordinamento.

Inizialmente ci fu una continuazione delle assemblee popolari, poi Augusto fece approvare una serie di leggi, fino al 98 d.C. in cui si ha l'ultima legge comiziale. Grazie a un disegno politico ci fu esautoramento delle leges rogatae e dei plebiscita a favore del Senato, quale organo che poteva essere meglio controllato dal princeps, tanto che le deliberazioni senatorie vennero chiamate "oratio in senatu habita". Alla lex si sostituì dunque il senatoconsultum. Molti critici sostengono che questo ruolo iniziò a venir fuori già dagli ultimi anni della Repubblica, ma in realtà il senato non poteva ancora a quell'epoca produrre norme vincolanti, ma solo esercitare pressione psicologica ad adottare certe soluzioni, fermo restando il presupposto per il quale tali soluzioni dovessero far capo alle attività legislative delle assemblee e all'intervento pretorile sul piano edittale. Il senato con il principato oltre a produrre precetti e regole, poteva anche abrogare precedenti regole e precetti provenienti dall'attività legislativa comiziale.

Adriano ordinò al giurista Giuliano (prima metà II d.C.) la redazione definitiva dell'editto, edictum perpetuum, il quale avrebbe dovuto poi avere l'approvazione di un senatoconsulta, e che non sarebbe potuto più essere modificato, se non per ordine del principe. Guarino vide questo come un falso storico, senza però spiegare il perché. Ci fu uno spodestamento del pretore, non per l'edictum perpetuum, ma per il fatto che formalmente questo continuava ad essere attribuito al pretore, mentre subiva un controllo esterno, quindi non c'era più autonomia nell'agire.

L’analisi del dato statuizione normativa non sarebbe comunque completa, se dimenticassimo che il principe interveniva anche direttamente nella determinazione di regole e precetti. Il principe intervenne in molteplici direzioni con atti precettivi di cui le fonti offrono gli esempi più cospicui e che possiamo distinguere in:

edicta: ponevano precetti e regole d’efficacia generale, rivolti ai settori più disparati (cittadinanza, risorse idriche etc...)

mandata: istruzioni per i funzionari in generale, ma in particolare per gli amministratori provinciali. decreta: le sentenze emanate dal principe nell’esercizio diretto della giurisdizione, con il processo che si

sarebbe sempre più avvicinato a quello moderno, con l’abrogazione delle fasi in iure e apud iudicem, e l’intero svolgimento davanti a un solo organismo giudicante.

rescripta: regole giuridiche da applicare su istanza dei privati. epistulae: regole giuridiche da applicare su istanza di magistrati o funzionari pubblici.

I primi avevano portata generale e astratta, i secondi particolare e concreta. Ulpiano in particolare disse che le ultime tre non sarebbero potute essere utilizzate in futuro, a causa del carattere particolare, ma in realtà non è necessariamente così, in quanto pur non nascendo come atto generale poteva diventarlo se fosse stato in grado di porsi a modello nelle fattispecie simili future.

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Per quanto riguarda il discorso sul dato riflessione tecnico-interpretativa si ebbe una “riarticolazione” che avrebbe condotto a configurare dommaticamente il complesso degli atti normativi imperiali quale ius extraordinarium specie nei risvolti processualistici.

Grande fioritura ebbero i giuristi, seppur sotto il controllo del princeps, il quale riconobbe l'importanza dei questi, tentando però di associarli all'interno dell'apparato amministrativo imperiale. L'opera dei giuristi creò il cosiddetto ius controversum, in contrapposizione allo ius extraordinarium (diritto nuovo) del principe. L'ampio sviluppo della riflessione dottrinale portò al sorgere di contrasti di scuola e stabilizzati di quanto fosse avvenuto nell’età repubblica. Ora, la contrapposizione si pose fra i cd. Proculiani e i cd. Sabiniani, sulla base di un antagonismo personale di epoca Augustea, tra Labeone e Capitone. Fu una divisione che si protrasse per tutto il I e II secolo d.C. fino a sparire nel secondo principato, senza che per ciò stesso venissero meno le varietà d’opinioni connaturate ai meccanismi del ius controversum. Ciò ebbe l'approvazione dei principi, ad esempio Sabino ebbe da Tiberio la facoltà di svolgere il attività di consulenza tecnica, mentre un giurista dell'altra scuola, Cocceio Nerva, era molto amico di questo principe.

I contrasti da ius honorarium e ius civile portò all'elaborazione di commenti su: sui 18 libri ius civilis di Quinto Mucio Scevola sul diritto civile, e 3 di Sabino, sullo stesso argomento. su l'editto pretorio specie dopo il “consolidamento” adrianeo.

Si ebbero quindi libri ad Quintum Macium e ad Sabinum ad integrare le loro analisi civilistiche, e libri ad edictum per approfondimenti sul diritto onorario.

Tali tipologie sono identificabili nella cd. “letteratura problematica” del principato formata da raccolte di opinioni e pareri sul diritto, chiamate Responsa, Quaestiones o Digesta (per indicare la parte di esso costruita sui materiali provenienti dalle opere dei giuristi romani). Si può distinguere facilmente il suo complesso dalle forme giuridico-letteriarie dell’epoca:

di manuali di uso didattico, in testa le Istitutiones gaiane; di contributi monografici su singoli temi giuridici o singole funzioni magistratuali di tradizione repubblicana,

singole competenze proprie dell’apparato amministrativo imperiale; di commenti a singoli momenti precettivi sul dato statuizione normativa: dalle 12 tavole, alla lex considerata

di rilievo, ai senatusconsultum imperiali e ai rescripta o ai decreta.

Augusto fu il primo a intervenire sul controllo dei giuristi, con l'intenzione di subordinare l'autorevolezza professionale del giurista a quella politico-istituzionale del princeps nella materia della consulenza ai privati attraverso una concessione ufficiale di rilasciare pareri (responsa) solo ad alcuni, in forza d’una concessione ufficiale del principe, il cd. ius respondendi ex auctoritate principis, anche gli altri potevano, ma non avevano lo stesso valore i loro responsa. In tutto ciò c'era l'idea di una dare-avere, fondato sull'attribuzione di una sorta di patente, in cambio dell'adesione ai disegno politici del principe. Quest'operazione si rafforzò con Tiberio, che iniziò con Masurio Sabino a concedere la ius respondendi, beneficio con lui su richiesta del giurista, con Adriano su concessione del principe. Questo meccanismo ebbe inizio anche a causa dell'uso nel processo di far depositare ai giuristi dei pareri, per fornire delucidazioni al giudice. Una testimonianza di Gaio poi ci informa che già dal II sec d.C. quest'ultimi non potessero disapplicare nella sentenza la regola giuridica di coloro in possesso dello ius respondendi, la quale assumeva anche forza di legge. Questo accadeva qualora tutti i pareri di colori abilitati a farlo erano concordi, altrimenti la decisione spettava al giudice; ciò era stato stabilito da Adriano. I giuristi quindi creavano diritto, ma solo se avevano il permesso del principe, questo creava un totale imbrigliamento.

Questo controllo andò a coinvolgere anche l'attività riflessiva dei giuristi, messa in atto attraverso una burocratizzazione del ceto dei giuristi all'interno del consiliume dell'apparato amministrativo, con la conseguente presa di potere sempre maggiore del princeps, fino alla drastica eliminazione di queste figure, nella metà nel III sec d.C., sostituiti da uno studio e un'applicazione di quanto fino ad allora emesso sul piano giuridico. Il principe diventò dunque unico regolatore dell'esperienza giuridica, attraverso un suo uso sempre più esclusivo e gerarchizzato del dato statuizione normativa.

L'età tardo-anticaLe costitutiones imperiali diventarono elemento portante per l'esperienza giuridica. Gli edicta crebbero d'importanza e presero il nome di leges generales, in contrapposizione ai rescripta o leges speciales. I decreta vennero meno per il ridursi degli interventi imperiali in materia, e i problemi prima risolti con i mandata furono affrontati con l'emanazione di leggi generali.

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Nel tempo lex aveva significato molte cose ad esempio la mancipio, per la risoluzione dei problemi fra privati, o la lex rogata e i plebiscita per la regolamentazione effettuata con la collaborazione fra assemblea popolare e magistrati). Per quanta riguarda le costituzioni imperiali, fino ad allora, secondo testimonianza gaiana, erano dette avere valore di legge, ma non che fossero esse stesse legge. Questa remora sparì nel tardo-antico, in cui le costituzioni erano la legge.

La tendenza a configurare l'edictum come lex generalis condusse a precisare meglio il senso e la portata dei rimanenti atti normativi imperiali, in particolare dei rescripta.

Così all'inizio del III d.C., il principe Macrino aveva stabilito che i trattamenti di favore non potessero essere generalizzati, con l'aggiunta poi di Costantino nel IV d.C., che questi non potessero andare contro il diritto vigente, e quindi sopravanzare le leges generales. Giustiniano infine disse che i rescripta dovessero valere solo per le persone nei confronti delle quali erano state emesse e per le eccezioni del principe. Questo processo per stabilire la legge era in realtà quello già del tardo principato, solo che ora ogni decisione veniva rimessa esclusivamente al principe.

Tutto ciò non significò una pianificata ed organica “politica del diritto” a favore dell’integrale sostituzione dei precetti del passato con quanto prodotto attraverso le costituzioni imperiali.

Nel tardo-antico continuava però a circolare il principio per il quale le regole provenienti dalla tradizione fossero ancora vigenti (con tutte le modifiche subite), a prescindere dall'epoca di provenienza. Quindi si poteva credere che le dodici tavole fossero in vigore come anche le regole desumibili dall’editto pretorile o da una lex del passato, da un senatusconsultum o da una constitutio del principato. E tanto avveniva:

- in relazione alla peculiare “storia interna” dei singoli referenti o complessi di referenti;- sulla base della convinzione che la “sopravvivenza” del traditum andasse individuata con le modifiche

temporali per le norme;- sul presupposto che l’intervento normativo imperiale fosse l’unico “legittimato” nel presente a stabilire

correzioni, modificazioni e anche conferme per precetti o regole proveniente dal mare magnum del passato.

Si trattava d’uno stato di cose che, nel momento stesso in cui affermava la supremazia dell’intervento imperiale riconosceva “realisticamente” l’impossibilità d’attribuire a tale intervento un ruolo “totalizzante”, quasi “taumaturgico”, in ordine alla produzione di regole e precetti. Così nacque un problema di rapporti fra le costituzioni imperiali e il tessuto precettivo preesistente, rappresentato nelle fonti e spiegato da studiosi “ipostatizzando” sulle orme di Savigny il contrappunto linguistico fra leges e iura.

Savigny in merito a questo tema ipotizzava che fin dal V d.C. in teoria gli antichi concetti fossero i plebisciti, i senatoconsulta, gli editti di magistrati romani, le costituzioni degli imperatori e gli usi non scritti, e che tutti questi referenti normativi fossero ricollegati alle 12 tavole come loro aggiunta o modificazione. In pratica però, a causa dell'assenza di riflessione dottrinale in quell'epoca, si ricorreva alle costituzioni e agli scritti dei giuristi del principato, senza alcun intervento innovativo. Di fondamentale importanza erano gli scritti dei giuristi romani, sia per le zone non toccate dalle costituzioni imperiali, sia per l'interpretazione di tutte le altre fonti.

Ciò trova riscontro nel fenomeno di effettuare raccolte delle opinioni dei giuristi del principato: Codex Gregorianus e Codex Hermogenianus: Fine III d.C., contenevano rescripta, il primo dal 291, il secondo dal

293 al 294 a integrazione dei rescritti dioclezianei. Codex Theodosianus, compilazione ufficiale voluta da Teodosio II (oriente) e Valentiniano III, dopo la divisione

dell'impero. Il programma era questo: nel 429 si volevano compilare due raccolte delle costituzioni di valore generale da Costantino in poi (una a fini di scuola che trattava delle costituzioni vigenti o meno, la seconda per fini pratici invece trattava l’integrazione delle costituzione di Gregoriano e Ermogeriano, diventate indirettamente ufficiali). Nel 435 ci fu un ridimensionamento ad una sola raccolta, la seconda, entrata in vigore nel 439, in 16 libri (prevalenza di costituzioni di valore generale).

Oltre a ciò le compilazioni ufficiali non fecero altro, e tutto rimase nelle mani dei privati che redigevano operette, contenenti collages di scritti dei giuristi, per scuole e tribunali. Le più importanti furono:

tra la fine III e l’inizio IV d.C., Pauli sententiae e i Tituli ex corpore Ulpiani:, costruite su opere di Paolo e Ulpiano, giuristi della fine del principato.

fra IV e V d.C. Fragmenta Augustodunensia: contenenti una interpretazione delle Istitutiones di Gaio, Fragmenta Vaticana: caratterizzati dalla compresenza d’una certa quantità di brani tratti da giuristi del principato e da costituzioni imperiali di Diocleziano, e la Lex Dei o Mosaicarum et Romanarum legum collatio: nella quale la commistione fra brani di giuristi e di costituzioni imperiali veniva precisata attraverso il

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richiamo a norme mosaiche al fine di dimostrare la presenza di certi principi giuridici romani; nel V d.C. Epitome Gai: altra parafrasi del testo gaiano, con adattamenti all’esperienza giuridica dell’epoca,

Scholia Sinaitica: consistenti in sintetici, ma importanti commenti ad una parte dei libri ad Sabinum d’Ulpiano, e Liber Syro-Romanus: conosciuto in versione araba, siriaca e armena, ma origini greche del V secolo, con la compresenza di opinioni di giuristi e costituzioni imperiali.

Si sono spiegati questi risultati ricorrendo al concetto di “volgarismo” in contrapposizione a quello di “classicismo”. La presenza nel tardo-antico d’una cultura giuridica volta a “metabolizzare” e “interpretare” quanto prodotto da giuristi anteriori trovava giustificazione nel suo essere funzionale ad una realtà storica diversa dalla precedente e sul piano politico-organizzatorio e sul piano socio-economico e non eliminava la questione degli indispensabili controlli dall’alto circa il tipo di “recupero” delle pregresse riflessioni dottrinali a completamento e integrazione di quanto previsto dalla dominante, ma pur sempre non autosufficiente, diretta produzione normativa imperiale.

Questo tipo di cultura volta a metabolizzare il passato trovava giustificazione nel suo essere funzionale alla realtà storica precedente profondamente diversa, ma comunque non andava ad eliminare la questione del controllo dall'alto del recupero delle pregresse riflessioni ad integrazione del diretto controllo normativo imperiale. Questa questione fu in parte risolta da Valentiniano III in una costituzione del 426 d.C. (riportata nel Codex Theodosianus), chiamata "legge delle citazioni", nella quale era precisato che erano da seguire solo Gaio, Papiniano, Paolo, Ulpiano e Modestino, in particolare l'opinione di Papiniano era la più rilevante nel momento non si trovava un accordo unanime.

Guardando alla legge delle citazioni non può non tornarci in mente l'uso della ius respondendi, la differenza principale però era che in quest'ultima il giurista aveva un ruolo attivo. Con questa legge l'imperatore cercava di cooptare all'interno del dato statuizione-normativa le regole desumibili dagli antichi scritti, fino al punto di far diventare il dato riflessione tecnico-interpretativo esso stesso dato statuizione normativa, punto di riferimento per tutto il tessuto precettivo. Fissaggio conclusivo di questo procedimento si ebbe con Giustiniano, che fece includere il Digesto nel Corpus, ordinando di considerarne il contenuto come se provenisse dalle costituzioni imperiali.

Capitolo IV – Le persone

I romani non hanno teorizzato la necessità di un corpo di precetti compatto, organico e sistematico sul cd. “soggetto di diritto”. In seguito alla Rivoluzione Francese la qualificazione giuridica si è profondamente modificata rispetto a quella romana, attraverso la massima divaricazione fra il modo di essere a livello giuridico e modo di essere a livello sociale. In precedenza invece il secondo doveva essere proiettato nel primo. In nome di questa divaricazione usiamo tre parametri:

- in termini unitari, identici per tutti gli individui interessati, grazie ai due parametri della “capacità giuridica” e della “capacità d'agire”);

- secondo criteri asettici, indipendenti dalle distinzioni sociali grazie al modellamento sui fattori biologici di nascita e maggior età)

- sulla base d’una determinazione autoritativa dello Stato nazionale, il quale tende a disciplinare la soggettività individuando sé come interlocutore privilegiato ed escludendo il rilievo di eventuali strutture organizzative intermedie: gruppi familiari, in particolare, fatte salve alcune limitate eccezioni.

Tutto ciò non riguardava i romani che invece usavano parametri opposti per la capacità giuridica che:- in termini non identici per tutti, mancando ancora i parametri unificanti della capacità giuridica e della

capacità d’agire ed emergendo invece una varietà di posizioni giuridiche personali costruite in linea di massima attraverso il riconoscimento e lo sfruttamento sul piano precettivo delle distinzioni sociali ed economiche;

- secondo criteri non asettici, dato che lo scarto fra queste ultime distinzioni e la disciplina giuridica era molto più attenuato e ridotto rispetto alle visioni attuali;

- attraverso il risalto anche, ed in casi di assoluta importanza, degli assetti sociali intermedi.

Di particolare importanza per la comprensione di ciò l'ebbero le Istitutiones di Gaio, che distinse:- gli uomini in forza del possesso o meno della libertà gli uomini fra liberi e schiavi, e i liberi a loro volta fra

ingenui e liberti o ex-schiavi in forza del possesso della libertà dalla nascita o successivamente, ma con il necessario richiamo anche, e di norma, alla cittadinanza intesa come riconducibilità del singolo interessato ad un assetto organizzativo superiore di tipo romano, latino o straniero;

- gli uomini all'interno dei gruppi familiari, fra persone sui iuris e alieni iuris, determinata in base alla funzione di dominanza (pater familia) o di subordinazione (moglie, figli e schiavi).

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Questa distinzione permase anche nelle Istitutiones giustinianee, nel VI d.C., con l'unica modifica livello di cittadinanza ormai per tutti romana, e la classificazione degli alieni iuris, dei soli figli e schiavi. Per i romani la qualificazione giuridica quindi si determinava attraverso il rapporto, in positivo e in negativo, fra la libertà, la cittadinanza e la famiglia. Tutte le possibili posizioni giuridiche che si venivano a creare erano ovviamente limitate da alcuni parametri, come ad esempio che per essere liberi si dovesse avere la cittadinanza.

LA FORMULAZIONE GAIANA Per quanto riguarda lo schiavo, la stessa denominazione schiavo, è già sufficiente di per sé per la connotazione giuridica, anche se intorno a questa figura ruotavano molteplici contraddizioni, come il fatto che potesse porre in essere atti giuridici imputabili al padrone, o che all'interno del gruppo familiare fosse accomunato al filiusfamilia.

Per quanto concerneva il problema della cittadinanza Gaio individuò la soluzione in quella già stabilizzatasi nella repubblica e il principato:

- di riconoscere l’esistenza di non identiche comunità politiche;- di configurare tali comunità in senso gerarchico, ponendo al vertice quella dominante (romana) e in

posizione subordinata le altre, da Roma incorporate controllate e raggruppate secondo vari modelli concettuali da quello della stessa “romanità” a quello della “latinità” a quello della “peregrinità”, dell’essere “straniero”;

- di qualificare le persone come romane, latine o peregrine in forza dell’appartenenza effettiva o artificiale;- di utilizzare il criterio delle ragioni etniche per i nati liberi e quello della determinazione autoritativa per i

liberti, ai fini della loro individuazione come romani, latini o peregrini;- di ammettere varianti a questa regola, nel senso che a determinate condizioni anche i nati liberi potessero

vedersi attribuita una cittadinanza piuttosto che un’altra ossia passare da una cittadinanza ad un’altra in forza d’una determinazione autoritativa dall’alto.

Invece per i gruppi familiari non avevano tutti pari incidenza. La posizione al loro interno dell'individuo era fondamentale per la completezza della qualificazione giuridica dei cittadini romani. I rapporti interni al gruppo erano per i figli in base all'adgnatio (parentela civile, fondata sul momento potestativo), e non in base alla cognatio (parentela naturale, fondata sul vincolo di sangue). Anche la moglie era sottoposta alla manus del marito, equiparata a quella delle figlie (loco filie). C'era poi la familia communi iure, persone legate da vincoli familiari in quanto provenienti da un comune capostipite, e i mancipium, altri gruppi familiari entranti provvisoriamente nel gruppo per motivi economici.

Gli schiavi: Ci furono due fasi della schiavitù, legate all'assetto economico: una schiavitù domestica e una schiavitù come prigionia di guerra, più antica la prima più recente la seconda. Per il primo criterio si seguiva la regola per la quale chiunque nascesse da madre schiava, non sposata, fosse schiavo. Per quanto riguardava invece il secondo criterio, gli schiavi erano frutto di trapassi patrimoniali, in quanto era molto difficile un loro impossessamento bellico da parte di un privato: questo fatto valeva anche all’opposto ed il cittadino romano fatto prigioniero in guerra veniva considerato schiavo fino a quando non rimetteva piede sul suolo italico, secondo l’istituto del postliminium (post = dopo, limen = confine). Nel caso in cui questo cittadino fosse sui iuris e morisse, si creava il problema del testamento reso invalido dalla schiavitù, risolto dalla fictio legis Corneliae, del I a.C., con la quale si fingeva che la morte fosse avvenuta al momento della cattura, mantenendo così intatta la validità del contratto.

Lo schiavo era considerato poco più di un oggetto, tanto che nel periodo arcaico il padrone poteva godere dei benefici derivanti dall’azione di uno schiavo verso terzi, mentre non rispondeva in caso di effetti negativi. Successivamente, quando lo schiavo acquisì una notevole importanza nel sistema economico romano, si ammise che il padrone rispondesse anche degli eventuali effetti negativi dell’azione compiuta dallo schiavo. Nacquero infatti cinque tipi di azioni concesse ai terzi creditori nei confronti del padrone dello schiavo negligente, responsabile di atti leciti:

- l’actio exercitoria riguardava uno schiavo preposto alla gestione di un’azienda commerciale marittima; - l’actio institoria riguardava lo schiavo a capo di un’azienda commerciale terrestre; - l’actio quod iussu riguardava un’obbligazione contratta dallo schiavo su preciso ordine del padrone; - l’actio de peculio et in de rem verso riguardava un patrimonio concesso ad uno schiavo affinché lo

amministrasse, il momento speculativo era meno forte, a al momento del processo era concesso al padrone di sottrarre i debiti contratti al peculio affidato allo schiavo, affinché quello dichiarato fosse inferiore,

- l’actio tributoria era simile alla de peculio, ma coinvolgeva più marcatamente l’eventuale speculazione del padrone, condannandolo a risarcimenti più severi (non era possibile sottrarre i debiti).

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Le prime tre erano espressione di una diretta volontà del padrone, le ultime due di una invece indiretta. L'unione fra schiava e schiavo fu sempre considerata come contubernium, relazione di fatto. Per quanto riguarda le azioni illecite compiute dallo schiavo verso terzi, il padrone poteva pagare un indennizzo oppure abbandonare lo schiavo (noxae deditio).

Gli ingenui: I cittadini liberi si dividevano in due categorie: i liberti, ovvero gli schiavi liberati e coloro che nascevano liberi, gli ingenui. Il problema della libertà è però strettamente legato a quello della cittadinanza, specie considerando le conquiste di Roma nel corso dei secoli. Nel V secolo a.C. la cittadinanza dipendeva dall’appartenenza alla comunità e alla nascita da un romano sposato con una romana o con una non romana legittimata a tali nozze. Successivamente la cittadinanza romana fu concessa a comunità cittadine definite municipia e poi alle coloniae civium Romanorum. Infine nel 212 d.C., con Caracalla, la cittadinanza sarebbe stata concessa a tutti i cittadini dell’Impero. Per quanto riguarda le popolazioni latine, inizialmente Romani e Latini stipularono (493 a.C.) il Foedus Cassianum, con il quale si stabilì un rapporto di reciprocità. Successivamente alle guerre sannitiche, nel 338 a.C., Roma sciolse il trattato e lo ridisegnò da una posizione di forza. I Latini si divisero così in Latini prisci e coloniarii, dove questi ultimi erano gli abitanti di colonie non romane, cui veniva pertanto concessa fittiziamente cittadinanza latina. Solo dopo la guerra sociale nel I secolo a.C., sostanzialmente persa da Roma, tutti i Latini divennero cittadini romani. Il concetto della latinità fu però continuato ad usare per i territori extraitali (latini coloniarii), fino alla costituzione di Caracalla nel 212 d.C.

Per quanto riguarda gli stranieri, in Italia i rapporti fra Romani e peregrini, prima della guerra sociale, erano regolati da trattati unilateralmente stipulati dall’Urbe, che davano vita alle cosiddette civitates foederatae. Per i territori extraitalici si avevano invece distinzioni in civitates libere et foederatae, sine foedere liberae (entrambe autonome, con le prime che però avevano stipulato un trattato con Roma), autonome di fatto e non autonome, queste ultime in genere punite da Roma per la loro bellicosità. Gli stranieri finivano perciò per essere raggruppati nelle due grandi categorie di peregrini alicuius civitatis e Peregrini nullius civitatis a seconda che appartenessero a comunità autonome o non autonome, e dediticii, quelli appartenenti all'ultima tipologia di comunità elencate. Le controversie fra Romani e stranieri vennero regolate, dal 242 a.C., a Roma, da un pretore apposito, il praetor peregrinus, che decideva in base ad una sorta di diritto internazionale romano, lo ius gentium, mentre nei territori extraitalici queste venivano regolate dalla produzione edittale del governatore romano ad esso preposto, con l'edictum provinciale.

I liberti: Il liberto, lo schiavo liberato, assumeva la cittadinanza a seconda delle condizioni ossia poteva vedersi riconosciuta una data cittadinanza per motivazioni socio-politiche, anche se con alcuni aggravamenti dovuti alla sua condizione di ex servo o prendendo a prototipo le qualificazioni giuridiche dell’ingenuo romano o latino coloniario o peregrino dediticio o perseguendo l’obiettivo con una disciplina rigorosa degli atti giustificativi dell’acquisto della libertà e della cittadinanza da parte dello schiavo.

Dopo le dodici tavole si era stabilizzata una prima regolamentazione secondo certi capisaldi del ius civile:- necessità d’un atto di dismissione del potere del padrone con la cd. “manomissione”, compiuto in una delle tre

forme chiamate “manumissio testamento”, “vindicta” e “censu”;- conseguente acquisto della libertà e, in automatica connessione, della cittadinanza romana e solo della

cittadinanza romana;- determinazione concreta della posizione giuridica così conseguita secondo tratti che non eliminassero del

tutto il ricordo del precedente stato di subordinazione personale.

Nel Regnum arcaico la sola cittadinanza postulata era quella romana, perché la latina e la peregrina erano ancora in formazione. Lo schiavo poteva divenire liberto per manumissio testamento ovvero se il padrone lo liberava con atto mortis causa, per manumissio vindicta ovvero con un rituale formulare uguale alla mancipatio o per manumissio censu ovvero una registrazione nei registri romani come liberto a seguito dell’assenso del padrone.

Fu sufficiente arrivare però alla tarda repubblica per individuare un'attenuazione di questo formalismo, lo schiavo infatti poteva essere liberato sempre attraverso la manumissio vindicta, ma questa poteva essere svolta anche dal solo padrone davanti al pretore, senza il bisogno di ricorrere al tribunale. La manumissio censu decadde, anche in seguito al decadimento dei censori. La manumissio testamento rimase una dichiarazione formale, ma in relazione ad un diverso tipo di testamento nel quale la mancipatio era ormai una imaginaria venditio dei beni ereditari posta in essere solo per consentire al testatore di esprimere le ultime volontà, con effetti diretti alla di lui morte, senza più la macchinosa intermediazione del terzo proprietario fiduciario.

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In seguito la libertà iniziò ad essere concessa in modo informale, attraverso un discorso pronunciato dal padrone davanti a testimoni, cosa che in teoria avrebbe potuto comportare la revoca di questa in qualsiasi momento. In pratica questo non avveniva, perché al momento dell'appello davanti alla sua figura il pretore utilizzava il meccanismo tecnico-processuale della denegati cationi, negava cioè la richiesta.

La concessione della libertà dunque in modo formale o meno aprì il problema della qualificazione giuridica dei liberti, problema risolto attraverso l'attribuzione di cittadinanza romana a quelli liberati in modo formale, e cittadinanza latini agli altri con la legge Iunia Norbana del 19 d.C. I secondi però non si videro riconosciuto il connubium, e il commercium era valido solo fra vivi, questo implicava l'impossibilità di creare un testamento, così che alla morte del liberto, tutti i beni andavano al vecchio patrono.

La Iunia Norbana fu l’ultima d’un complesso di leggi che ritoccarono anche la disciplina in sé delle manomissioni di ius civile. Il controllo sociale sui passaggi allo stato di libertà si attuò, nel caso della manumissio testamento fissando con una Lex Fufia Caninia del 2 a.C., che limitava il numero di schiavi affrancabili. Quanto invece alle manumissio vindicta fissando con una Lex Aelia Sentia del 4 d.C., che stabiliva l’acquisizione della cittadinanza romana per il liberto ultratrentenne, della cittadinanza latina per quelli under30, e quella di peregrinus dediticius per coloro che si erano macchiati di reati gravi prima della liberazione. Solo Giustiniano intervenne a risolvere la questione di questa grande frantumazione della qualificazione giuridica che si era creata.

La persona sui iuris : La persona sui iuris era tale non perché fosse qualcosa d’altro genere rispetto alla persona libera o alla persona con cittadinanza romana, ma perché i parametri della libertà e della cittadinanza romana erano integrati per lì individuo di sesso maschile dalla possibilità d’essere almeno potenzialmente un paterfamilias, là dove per la donna valeva la non sottoposizione in sé ad un paterfamilias. Come riassumeva il giurista Ulpiano, la donna sui iuris non poteva essere altro che familiae suae et caput et finis. Prima del sorgere di Roma, nella pre-cittadina, le strutture familiari fossero una fondamentale forma d’aggregazione sociale. Nell’ambito di questa impostazione storiografica le varianti interpretative sono state e continuano ad essere molteplici, in forza anche della circostanza che le fonti antiche ricordano entità ulteriori, le cd. gentes, accanto alla familia communi iure e alla familia proprio iure.

Nelle ipotesi più plausibili, si muove dal presupposto che la formazione di Roma non sia avvenuta in un momento temporale unico, ma attraverso un processo lungo, di cui il dato della tradizione abbia costituito una tappa importante, ma pur sempre una tappa. Al tal proposito, quindi, si può parlare di “sinecismo (concentramento abitativo) secondario” corrispondente appunto alla “età romulea” come fase storica distinguibile dalla anteriore per la presenza degli elementi necessari a comporre la città, che sarebbero diventati però compiuti solo a Regnum inoltrato. E in questo quadro si può ipotizzare e aggiungere che:

le gentes fossero gruppi di alta risalenza, prodotti forse dalla disaggregazione di ancora più antiche comunità e caratterizzati dalla mancanza di un capostipite (per l’originario ricorso al cd. “matrimonio collettivo” fra gruppi di fratelli e gruppi di sorelle di diversa stirpe e per la presenza d’una parentela senza quei gradi riguardanti invece il “matrimonio monogamico” fra un uomo e una donna e la relativa discendenza);

le familiae fossero gruppi più recenti, nati dallo sfaldamento delle gentes e fondati sul “matrimonio monogamico” e sulla parentela per gradi;

le familiae soggiacessero a vicende storiche privilegianti dapprima l’articolazione di carattere patriarcale e solo in un secondo momento quella più ristretta e semplificata, “nucleare”, di cui testimonia Gaio con il contrappunto fra la persona sui iuris (capo del gruppo) e le persone alieni iuris (figli e nipoti);

l’emergere della distinzioni tra familia communi iure e familia proprio iure.

La familia proprio iure venne a porsi sul piano della “realtà effettiva”, à dove invece la familia communi iure riguardò la “realtà virtuale”. Si era filifamilias perché si era sottoposti concretamente alla potestas del pater, ma si era pronipoti perché ci si sarebbe trovati sotto la potestas d’un avo (il bisnonno), se questi non fosse già morto.

La persona sui iuris è sicuramente la più rilevante nell’ambito dell’esperienza giuridica romana. Per essa è costruito il grosso delle regole “privatistiche”. Il ius civile e lo stesso ius honorarium l’assumevano a destinatario privilegiato o a punto di riferimento primario della rispettiva disciplina, anche quando coinvolgesse altre persone sotto il profilo della libertà, della cittadinanza, della famiglia: l’acquisto della qualità di sui iuris da parte dei sottoposti all’epoca delle dodici tavole il principio fondamentale era ancora quello che tanto potesse avvenire con la morte del capo del gruppo.

Le dodici tavole crearono anche i presupposti per integrare i criteri in discussione. Il riferimento era alla facoltà di

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vendere mediante mancipatio a terzi un filius e si stabilì che tale facoltà potesse essere esercitata entro il limite massimo di tre volte, pena la perdita del potere sul sottoposto oggetto della mancipatio. Una lettura non rigida di questa norma portò ad ammettere che il filius potesse diventare sui iuris ancor prima della morte del pater. Provvide a tanto la riflessione tecnico-interpretativa dei pontefici sulle dodici tavole la quale andò oltre l’originaria ipotesi dell’esercizio “patologico” della potestas. Ne nacque un atto negoziale complesso chiamato emancipatio nel quale le vendite erano effettuate dal pater ad un terzo fiduciario, onde rispettare formalmente il precetto delle dodici tavole e giustificare la fine della potestas sul figlio.

Seguiva poi una seconda fase: davanti a chi amministrava la giustizia si presentava il pater che aveva dismesso la potestas, insieme a un terzo. Il terzo poi rivendicava l’avvenuta liberazione dell’emancipando dal potere del pater in forza delle tre vendite, quest’ultimo non contestava quanto affermato e chi presiedeva dichiarava lo stato di sui iuris dell’ex-filius.

Quanto ai criteri individuati per la perdita della qualità di sui iuris, il primo è la morte dell’interessato mentre il secondo è identificabile con una procedura complessa, chiamata adrogatio (arrogazione). Esso si caratterizzava per la trasformazione dell’interessato da persona sui iuris a persona alieni iuris d’un altro pater. La persona arrogata “regrediva” a filiusfamilias e i suoi figli divenivano nipoti d’un capo famiglia estraneo.

Pure l’adrogatio si spiega con il ruolo e le vicende dei gruppi familiari romani. Esso si delineò ben prima del V secolo, risultando già viva nell’esperienza regia. Il motivo principale era dato dall’esigenza di creare artificiosamente eredi al pater arrogante. Il connesso rituale si svolgeva davanti ai comitia curiata e chi ne aveva la presidenza svolgeva una preliminare attività istruttoria sull’idoneità delle due persone intenzionate a diventare filiusfamilias e pater. In caso di riscontri positivi convocava l’assemblea e l’invitava formalmente a pronunziarsi.

Dagli ultimi secolo a.C. in poi, quando i comitia curiata persero d’importanza il tutto si svolgeva a trenta “rappresentanti”, chiamati littori, delle “sezioni” dette curiae di detti comitia.

Va precisato che la donna fu per largo tratto esclusa dalla fruizione dell’adrogatio. Perché potesse essere arrogata, si sarebbe dovuto attendere il II d.C. quando per i territori extraitalici sarebbe nata una nuova forma d’adrogatio autorizzata direttamente dal principe.

La persona alieni iuris : Le persona alieni iuris si dividono innanzitutto in filiifamilias e servii, sottoposti alla potestas; donne libere, sottoposte alla manus; sottoposti entrati per vendita nella famiglia, sottoposti a mancipium, come ricordava Gaio.

Esistono tre tipi di persone alieni iuris:

1. Le persone (alieni iuris) in potestate: Su figli e servi, anticamente, il paterfamilias aveva poteri quasi illimitati, fra cui il diritto di venderli ed anche il diritto di vita o di morte su di essi: come abbiamo già visto, tale potestà assoluta fu limata già a partire dalle dodici tavole, ma in ogni caso il potere si mantenne comunque piuttosto forte.

Per quanto riguarda i filifamilias è necessario introdurre un’analisi più attenta, analisi che privilegia due momenti essenziali:

1. le regole sul sorgere e il venir meno dello stato di filiusfamilias;2. le regole sul modo d’essere di tale qualificazione giuridica.

Quanto al primo aspetto si diveniva filifamilias con nozze legittime fra genitori romani o di diversa cittadinanza della madre e nell’ultimo caso vi dove essere tra di essi il conubium. In mancanza di tali circostanze, il figlio seguiva la condizione giuridica materna ed era detto vulgo quaesitus (figlio naturale) senza acquisire lo stato giuridico di persona alieni iuris in potestate, come filiusfamilias.

Quanto al secondo aspetto inizialmente la figura del filiusfamilias era molto simile a quella del servo. Per il filiusfamilias valesse il principio del servo appunto, circa l’idoneità ad essere portatore di situazioni giuridiche soggettive e a disporne con specifici atti giuridici.

Solo con il principato si riconobbe al filiusfamilia l'indipendente titolarità e disponibilità dei beni da lui accumulati in forza del servizio militare (peculium castrense) e il soggetto era parificato al servo per alcuni aspetti, ma per altri acquistò una certa autonomia.

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2. Le persone (alieni iuris) in manu: La donna entrava nella famiglia in tre modi:

con la confarreatio, ovvero un atto rituale compiuto offrendo a Giove un pane di farro; con la coëmptio, ovvero una sorta di auto vendita della donna all’uomo, era un atto negoziale diretto a

costituire il vincolo potestativo su di essa; con l’usus, ovvero la convivenza della donna con un uomo per un anno.

Tali tre modi comunque non sono stati sempre coesistenti ed almeno la confarreatio sparì col corso del tempo ed era un particolare tipo di mancipatio intercorrente fra l’uomo e la donna. L'usus invece venne visto come sussidio per ovviare alla mancata celebrazione delle prime due.

La storiografia dibatte su questi tre atti, domandandosi se essi servissero al solo acquisto potestativo, oppure se fossero essi stessi forme matrimoniali da cui far dipendere anche l'acquisto della manus: si parla pertanto di matrimonio sine manu, costruito sulla semplice volontà dei coniugi di sposarsi, e cum manu, cui si accompagnava il vincolo potestativo. L'ipotesi preferibile è la seconda, anche per una testimonianza di Gaio (uomini che potevano ricoprire cariche sacerdotali solo se nati da genitori fra i quali esistesse la conferratio), e solo in un secondo tempo si sarebbe arrivati scindere matrimonio e manus. Il matrimonio poteva essere fondato su una volontà iniziale e su una volontà continuata, che davano vita rispettivamente a una visione del matrimonio strutturale e funzionale.

Si tratta d’un matrimonio fondato sulla volontà degli interessati: un cenno generico perché la volontà in questione può intendersi in due modi diversi o come volontà iniziale, da cui derivi il rapporto matrimoniale, o come volontà continuata, dalla cui necessaria permanenza nel tempo il rapporto tragga linfa e vita. Potremmo dire che nell’un caso s’abbia una visione “strutturale” nel senso che assuma rilievo l’atto ossia il consenso fondativo del rapporto, mentre nell’altro entri in giuoco una visione “funzionale” nel senso che, senza negare il ruolo del momento genetico, abbia importanza il consenso connaturato al rapporto, in esso immanente e per ciò stesso durevole quanto il rapporto stesso.

È vero che attraverso certe manipolazioni del Corpus Iuris Civilis già i giuristi altomedievali arrivarono a delineare una visione “strutturale” del matrimonio identificandolo in un contratto ed innescando processi di cui si sarebbero impadroniti gli studiosi del diritto canonico secondo una prospettiva volta a coordinare sempre più fino al tempo moderno il carattere contrattualistico con l’atto sacramentale e religioso del vincolo matrimoniale.

La volontà continuata si basava sull'affectio maritalis, elemento importantissimo il cui venir meno avrebbe provocato la fine del matrimonio, cosa provocata anche dall'impedimento di un suo dispiegarsi a causa della riduzione in schiavitù, anche se con una successiva liberazione. Tutto ciò ovviamente condizionava la successiva condizione giuridica della donna, che, in caso di matrimonio sine manu, manteneva lo status che aveva nella propria famiglia. Per far cessare il vincolo si avevano rispettivamente la diffarreatio, la remancipatio ed il trinoctium, per il matrimonio cum manum, mentre poiché quello sine manu cessava con il cessare dell'affetto, bastava una dichiarazione scritta unilaterale detta repudium.

3. Le persone (alieni iuris) in mancipio: Come già detto, specialmente in età arcaica era d’uso comune la vendita del figlio ad un’altra famiglia: sul figlio venduto permaneva in realtà la potestas del genitore emancipante, ma essa concorreva logicamente con quella del genitore acquirente. Il problema che si veniva a porre era la necessità di fornire una qualificazione giuridica al figlio mancipato, risolto con la qualifica di loco servorum, che si riferiva nel tempi più antichi al fatto che la mancipatio si compiesse per fornire forza lavoro integrativa, mentre nei tempi più moderni per il fatto che pur essendo liberi e cittadini, i mancipati non potessero ad esempio ricavare vantaggi patrimoniali diretti dal titolare del potere, deceduto. La vendita quindi con l'idea di un'integrazione lavorativa cessò, venendo utilizzata solo per pratiche quale l'emancipatio e l'adoptio.

LA FORMULAZIONE GIUSTINIANEA

I cambiamenti apportati dopo Gaio alla disciplina fin qui esposta sulle persone e sulla loro qualificazione giuridica, cambiamenti giustificati dalle modificazioni socio-politiche ed economiche ma anche cambiamenti di cui un’espressione ultima dell’esperienza giuridica romana quale le Institutiones giustinianee.

Nel manuale giustinianeo infatti tutto si svolge all’insegna della “semplificazione”. La molteplicità delle posizioni

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giuridiche individuali, che abbiamo rintracciato in Gaio, è fortemente ridotta: se permane la distinzione fra liberi e schiavi, la classificazione degli ingenui è modellata su un unico tipo di cittadinanza, quella romana e altrettanto vale per gli ex-schiavi. Anche il gruppo familiare è assoggettato alla semplificazione: se la manus e il mancipium di Gaio erano poteri più virtuali che effettivi, adesso se ne prende atto in modo conclusivo e si afferma che il capo del gruppo ha solo la potestas e che essa riguarda unicamente i figli e gli schiavi.

Gli schiavi e i coloni: Per giustificare la schiavitù si faceva leva sul ius gentium, con la differenza che, in base anche allo ius naturale, si riconosceva la non naturalità della condizione dello schiavo, visione assente in precedenza. Posizioni giuridiche post-gaiane accusavano anche lo ius civile, come un complesso di regole che poiché costruito mediante aggiunte o detrazione dallo ius gentium e dallo ius naturale, non poteva ignorare la regola del secondo sulla libertà propria di tutti gli essere viventi, ricavando dal primo la distinzione fra liberi, schiavi e liberti.

Già Caracalla con l'editto del 212 d.C., aveva tentato di risolvere questi assetti giuridici, questione ripresa poi da Giustiniano. La realtà per gli schiavo in realtà di fatto cambiò poco, tutt’al più in caso di nascita da madre che non era stata schiava tutta la vita si ammetteva che il figlio potesse non nascere schiavo (addirittura l'intervento della chiesa andò a legittimare la posizione di schiavitù, vista come giusta punizione al peccato originale).

La concessione della libertà avveniva sempre secondo i criteri della manumissio vindicta (svuotata di ogni formalismo arcaico), della manumissio testamento (senza più gli impacci della lex Fufia Caninia), della libertates fideicommissae (preghiera testamentaria all'erede, ora legata a vincoli giuridici, punitivi se non rispettati), e della manumissiones in ecclesiis (attraverso la dichiarazione resa davanti alla comunità dei fedeli e all'autorità ecclesiastica).

Queste soluzioni si riferivano però a singoli casi, e non a una totale eliminazione della schiavitù. Vi furono poi una serie di nuovi provvedimenti in caso di actiones, nel caso dell'actio de peculio ad esempio il terzo creditore si poteva rivolgere direttamente allo schiavo, se questi non avesse avuto debiti con il proprio padrone. Vi fu infatti la ripresa di queste actiones, che furono per forza di cose concesse non soltanto verso gli schiavi, ma anche verso i coloni che lavoravano nei grandi latifondi, caratteristica come abbiamo già detto peculiare del periodo imperiale bizantino.

Gli schiavi, peraltro, nel periodo bizantino, cominciarono a scarseggiare di numero, perciò si rese quasi indispensabile la creazione della figura del colono coltivatore di terre a latifondo, anche in vista della coltivazione frazionata.

Il colono non era uno schiavo, poteva contrarre regolare matrimonio ed avere un proprio patrimonio, ma dal punto di vista del rapporto di lavoro era di fatto in una condizione paraservile. Si diventava coloni nascendo da madre colona o per iscrizione nei registri fiscali. La condizione di colono cessava invece attraverso la rinuncia del latifondista alla terra, o per assunzione del primo di dignità ecclesiastica, sempre dietro il consenso del padrone.

Gli ingenui e i liberti: Giustiniano operò una omogeneizzazione nella categoria dei liberi, sostituendo alla visione policentrica della cittadinanza, una monocentrica. Per quanto riguarda i cittadini liberi, Giustiniano riprese le vecchie regole di stampo romano, pur ovviamente adattandole alla nuova situazione politica e sociale dell’Impero (figlio vulgo quaesitus se nato da unione illegittima, attribuzione artificiale della cittadinanza, cambio di cittadinanza, e venir meno per i fattori noti, quali la riduzione in schiavitù, con l'implicazione del postliminium e della fictio legis Corneliae).

Furono comunque introdotte nuove norme per quanto riguarda l’autonomia patrimoniale del liberto, attraverso un attenuamento della norma che prevedeva l'attribuzione della metà del patrimonio dell'ex-schiavo morto con testamento e senza figli all'ex padrone, ora valevole solo per i liberti ricchi. In questo periodo però la possibilità di un liberto allo stato servile si ammetteva in modo più disteso.

La persona sui iuris: I vincoli della famiglia rimasero gli stessi dell’età romana, ma divennero meno rigidi, ad esempio attraverso la limitazione della potestà paterna a dare la morte al figlio o attraverso il parametro della cognatio che andava a prendere il sopravvento su quello dell’adgnatio.

I rituali di emancipatio ed adrogatio furono sostituiti da dichiarazioni fatte davanti all’autorità giudiziaria e da autorizzazioni dell’Imperatore (anche la donna poteva fare un’arrogatio, senza però reali conseguenze).

Le persone alieni iuris: In quanto all’acquisto della qualificazione di persona alieni iuris furono adottate modifiche simili a quelle relative per

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la persona sui iuris; furono cioè riprese le vecchie tradizioni, ma con cambiamenti formali, ad esempio l’adoptio si trasformò in una dichiarazione fatta davanti all’autorità pubblica, ma limitata ad un adottante che fosse un avo, con la potestas che rimaneva nelle mani del padre originario.

Rimasero invariate le responsabilità adiettizie, con una diretta responsabilità del filius nel caso di atti illeciti. Il figlio iniziò ad avere maggiore autonomia patrimoniale, grazie al peculium quasi castrense, riguardante i beni acquistati dal flilius per attività non militari.

Costantino e successori ridisciplinarono l’acquisto ereditario dei beni della madre o parenti nel senso:

a) di correggere le disposizioni d’un senatusconsultum Orphitianum del II d.C., che aveva ammesso l’acquisto a tutto svantaggio degli adgnati materni, ma non impedito che in forza della potestas il pater divenisse proprietario dei beni stessi;

b) di stabilire che su di essi in quanto bona materna spettasse al filius la proprietà, mentre al pater un limitato potere di godimento che sarebbe venuto meno con la sua morte.

Una regolamentazione che prese piede dopo che Giustiniano estese anche ai cd. bona adventicia ovvero a tutti i beni pervenuti al filius indipendentemente dal patrimonio paterno.

Non essendo più basati sulla mancipatio, l’emancipazione e l’adozione, sparì la necessità di dare qualificazione giuridica allo status del filiusfamilia che si veniva a creare, anche la manus vede la sua fine in epoca giustinianea. Il matrimonio iniziò ad essere basato sulla volontà iniziale, anziché sull’affectio maritalis, (tanto che la riduzione in schiavitù non faceva più cessare il connubio, e nacque il concubinato) e nonostante il peso delle dottrine cristiane, si continuava a concedere il divorzio.

Ulteriori tematiche:In età romana la dote era un complesso di beni trasferiti di norma dalla famiglia d’origine della donna al marito quale contributo per le esigenze coniugali. In caso di divorzio se il matrimonio avveniva cum manu la donna poteva riottenerla solo con l’eredità, altrimenti nel sine manu c’era la restituzione immediata (ciò in base alla diversa qualificazione giuridica della donna diversa a seconda del matrimonio contratto). Se la dote proveniva dalla famiglia di lei era detta dos profecticia, se proveniva dalla donna dos adventicia, se si fosse fatto promettere la restituzione dei beni da lui dati in dote dos recepticia.

In base alla struttura vi erano: la dotis dictio e la promissio dotis, strutture negoziali basate sulla pronuncia di parole da cui nasceva un’obbligazione, e la datio dotis, consistente nel trasferimento diretto della dote. La retentiones era invece la possibilità di trattenere una parte dei beni, per i figli nati (scomparsa sotto Giustiniano).

Quanto agli impedimenti della persona sui iuris, la tutela era divisa in tutela impuberum e cura dei minori di 25 anni, tutela mulierum, Cura dei pazzi e dei prodighi. Il termine tutela era legato a una maggior pregnanza nel controllo del patrimonio.

Gli impuberum si suddividevano in: infans, infantia maior e pubertati proximus (secondo aveva responsabilità degli atti solo se gli arrecavano vantaggi, a meno che non fosse l’assenso dell’auctoritas del tutore, il terzo di entrambi). La tutela impuberum riguardava i ragazzi non sottoposti a potestas e che ancora non fossero divenuti atti a procreare. La tutela variava a seconda dell’età del ragazza o della ragazza così come anche la loro capacità giuridica e si poteva avere un tutore testamentario, legittimo (secondo le dodici tavole la tutela era del parente agnatitio più prossimo) oppure il tutore “Atiliano” o dativo, che veniva concesso in mancanza dei primi due tutori, dal pretore e una commissione, o dai governatori nei territori extraitalici (lex Iulia e Titia). I primi due, a differenza del terzo, non potevano rifiutare il compito, ma potevano disinteressarsene.

La cura dei minori di 25 anni era collegata alla tutela impuberum e finì per esserle equiparata nel corso dei secoli, a cominciare da quando nel II a.C. fu promulgata la Lex Laetoria de circumscriptione adulescentium (secondo cui il contraente che approfittava dell’inesperienza del minore per arrecargli un danno dovesse essere sanzionato) fino ad arrivare all’equiparazione del curatore al tutore. Ci fu questa nomina perché già con la lex si andava a prevedere per il minore l’instaurazione di rapporti giuridici. La tutela mulierum era come la cura dei minori di 25 anni, con la differenza che durava per tutta la vita della donna, anche se già in età repubblicana tale istituto entrò in crisi.

La differenza per quanto riguarda pazzi e prodighi i primi erano sorvegliati più attentamente dai curatori rispetto ai secondi. Anche i Romani, infine, pur non giungendo mai alla nostra distinzione netta, conobbero l’operatività delle persone giuridiche, fra cui possiamo citare il fiscus, ma vi erano anche altre organizzazioni definite collegia e

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sodalitates; i Romani, in ogni caso, non conobbero mai le fondazioni.Capitolo V - I fatti e gli atti giuridici

Per Fatto giuridico si intendono quei accadimenti non dipendenti dal soggetto di diritto o al limite non strutturati immediatamente sul suo contegno.

Per Atto giuridico si intendono quei accadimenti identificati con l’agire del soggetto di diritto.

Gli storici avrebbero dibattuto a lungo prima di arrivare a questa definizione, moderna. Di particolare importanza per la determinazione dell’atto giuridico è stato i concetto di negozio giuridico:

Il Negozio giuridico consiste nella manifestazione di volontà del privato, diretta alla produzione di effetti giuridici, sono espressione dell’autonomia del privato.

Nel corso del ‘900 si sarebbe scisso in due diverse tipologie: negozio giuridico dichiarativo (la compravendita) e non dichiarativo (la caccia). Ulteriore distinzione venne operata facendo riferimento al primo negozio, in base al numero delle manifestazioni di volontà coinvolte in esso, che dunque si veniva a classificare come “unilaterale” e “bi/plurilaterale”, chiaro esempio del secondo è il contratto. A sua volta anche il contratto può essere distinto in unilaterale e bi/plurilaterale a seconda che ne derivino obbligazioni per una sola o per entrambe le parti interessate all’accordo, cioè a secondo che ricorra o meno la reciprocità dei vincoli obbligatori.

Fra i contratti: L’idea Gaiana dei contratti era quella pluralistica secondo cui i contratti potessero essere: consensuali, reali, verbali e letterali. Questa quadripartizione viene ripresa anche da Giustiniano. Questi inoltre rispondevano alla tipicità, cioè c’erano dei modelli standard da seguire, al contrario di oggi, dove c’è autonomia negoziale. Quanto al concetto della volontà, sempre secondo Gaio, essa aveva ruolo primario solo nel primo tipo contratti, mentre nei restanti era secondaria, compensata dalle qualità delle parole e della scrittura.

1. Contratti reali

Definiti così perché la trasmissione di beni da una parte negoziale all’altra era necessaria per far sorgere l’effetto giuridico, cioè l’obbligo di restituzione di quanto ricevuto, e questi erano:

il mutuo, quando v’era trasferimento di proprietà fungibili (denaro, grano etc…), perché l’interessato ne disponesse e consumasse liberamente dietro vincolo a restituire una pari quantità e genera con il cd. prestito di consumo.

il comodato, quando il trasferimento comportava disponibilità di fatto (la cd. detenzione) gratuita di un bene infungibile (un cavallo) o fungibile per un tempo determinato, perché il destinatario se ne servisse gratuitamente e alla scadenza lo restituisse con il cd. prestito d’uso.

il deposito, vale gli stessi principi del comodato ma il trasferimento era a fini di custodia e non di uso. il pegno, riguarda il trasferimento momentaneo di una cosa a titolo di garanzia per un eventuale mancato

soddisfacimento di un interesse patrimoniale.

2. Contratti verbali

Si caratterizzavano per il necessario ricorso a pronunzie orali per produrre l’effetto giuridico, il più importante era la sponsio/stipulatio che consisteva in un’interrogazione e una risposta dell’obbligato. Questo verbo era riservato solo ai romani.

3. Contratti letterali

Essi postulavano l’’impiego della scrittura come essenziale per giustificare le conseguenze giuridiche. La caratteristica si rintracciava nei nomina transcripticia, cioè crediti risultanti da una registrazione scritta o expensilationes, da annotare nei registri contabili, riservati solo ai romani e occasionalmente ai peregrini.

4. Contratti consensuali

Era necessario solo il consenso per realizzare effetti obbligatori sinallagmatici.

Oggi diremmo che si trattava di contratti bi/plurilaterali perché ne nascevano vincoli fra le parti. La reciprocità piena si aveva:

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nella compravendita, che vedeva sorgere dall’accordo l’obbligo di trasferire la cosa a fini di proprietà, dietro pagamento di un prezzo.

nella locazione che era di tre tipi: la locatio rei (l’affitto) con l’obbligo di concedere il godimento di una cosa dietro pagamento di un canone, la locatio operarum (contratto di lavoro) con l’obbligo di mettere a disposizione le proprie forze lavorative dietro di dare la mercede, la locatio operis (contratto d’appalto), con l’obbligo di svolgere un’attività su cose messe a disposizione dalla controparte e del vincolo dietro pagamento di un corrispettivo.

nella società, con obblighi a svolgere attività al fine di ripartirne i ricavati.

Reciprocità debole era invece quella del mandato, in cui una parte svolgeva un’attività per conto di un’altra, l’obbligo era della prima, a terminare l’incarico, della seconda a rimborsare spese e eventuali danni.

Il processo di formazione e assestamento fu lento, all’epoca del modo di produzione arcaico il contratto non esisteva, erano presenti solo la sponsio, il mutuo (beni commestibili), e la mancipatio come compravendita effettiva. Nella parte centrale della storia romana invece, con il modo di produzione schiavistico, la quadripartizione gaiana si delineo completamente.

Con la stabilizzazione della moneta coniata dopo il IV a.C., il mutuo si definì come prestito di denaro. La sponsio assunse un ruolo fondamentale, si trasformò in stipulatio, e l’atto venne costruito secondo formulazioni verbali asettiche che non richiamavano direttamente gli scopi perseguiti, cosa che ha portato i moderni a definirla ‘astratta’ in questo caso, mentre ‘causale’ quando rinviava ad un documento (testatio), o c’era specificazione nell’interrogatorio. In questo lasso di tempo poi la mancipatio si trasformò in compravendita immaginaria, tanto da diventare mero atto di trasferimento/modo d’acquisto, a favore del contratto che divenne l’atto vincolante.

Nelle istituzioni giustinianee invece troviamo i contratti reali, la perdita di incidenza dei nomina trascripticia a vantaggio di negozi avvicinabili ai vecchi contratti letterali dei peregrini, la riduzione della stipulatio alla necessaria presenza delle parti per la redazione di un documento (istrumentum) che spiegasse interessi e obblighi. I contratti consensuali rimasero invariati. Giustiniano d’innovativo introdusse la vendita con effetti reali, cioè il negozio scritto con cui subito si acquisiva la proprietà, e la vendita arrale (con la caparra). La mancipatio scomparve del tutto. L’importanza che assunse la forma scritta sottolineò la volontà di questi di difendere gli equilibri socio economici.

Tema importante è quello della tipicità contrattuale romana. La quadripartizione non venne mai superata poiché risultato dell’integrazione di tutte le figure negoziali esistite fino ad allora, venne semmai integrata. Un esempio di ciò è quello della permutatio, cioè dare in cambio di un oggetto un altro oggetto anziché denaro, come previsto nel contratto consensuale di compravendita. Questa pratica fece molto discutere i giuristi, che si divisero in due fronti, con il risultato però che venne affiancata alla compravendita, come contratto tipico, grazie anche all’inserimento nell’edictum perpetuum giulianeo, di un rimedio processuale in caso di inadempimento di essa. Ciò non fu possibile per i rapporti negoziali atipici (schiavo in cambio di toghe da un sarto). Il carattere camaleontico della stipulatio ad esempio, voleva proprio salvare la tipicità, attraverso l’uso di formule asettiche, che permettessero di ovviare a ogni tipo di inconveniente.

Altro fenomeno tecnico importante è quello del diverso modo di porsi della volontà, nei contratti consensuali e nei restanti tre. Per quanto riguardava i contratti reali, l’aspetto secondario della volontà era da classificarsi come necessaria aggiunta all’elemento dello scambio. Per quanto riguardava invece quelli verbali, con particolare riferimento alla stipulatio era da ricollegare alla vacuità degli interessi che si potevano dedurre dall’asetticità del linguaggio, a questo interveniva l’attività innovativa del pretore. Invece la volontà nei contratti letterali era necessaria per giustificare l’effettività del nomen trascripticium. Tutto ciò avrebbe influito anche nell’età tardo antica.

I contratti al microscopio: esperienze giuridiche moderneIl contratto ha precisa struttura; è costituito dagli elementi (essenziali, accidentali e naturali, questi ultimi quando interviene il diritto oggettivo nelle conseguenze alla conclusione del negozio), di cui l’accordo è il fondamentale, in quanto attorno a esso ruotano tutti gli altri componenti.

Gli elementi essenziali sono: la volontà, i soggetti o le parti negoziali, la causa, la forma, l’oggetto.

Volontà: si articola a livello interiore (processo di formazione) e esteriore (manifestazione).

Soggetti: il contratto non può prescindere dalla sussistenza in loro dalla capacità d’agire, cioè attitudine a

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produrre e terminare situazioni giuridiche, e dalla legittimazione all’atto, cioè poter produrre atti per requisiti legali posseduti, come l’essere proprietario della cosa in oggetto.

Causa: è stata soggetta a molteplici interpretazioni degli storici, oggi interpretata come ‘funzione svolta dal contratto dal punto di vista sociale’. Essa si suddivide il contratto causale (vendita, mutuo o mandato), e contratto astratto.

Forma: deve essere sempre presente nel contratto, perché questo è un negozio dichiarativo fondato sull'esternazione della volontà attraverso la parola orale (contratto a forma libera, in cui la scrittura è usata con funzione probatoria, cioè di memoria) o scritta (contratto a forma vincolata). È necessario tener presente inoltre che per l’ipotesi del contratto orale la scrittura può essere usata a futura memoria dell’accordo e delle relativa concreta disciplina fra le parti e qui si dice che la scrittura abbia una funzione probatoria (la cd. forma ad probationem), differentemente se essa costituisce un elemento essenziale (la cd. forma ad substantiam)

Oggetto: esso presenta contorni non chiari, e permane il problema dei suoi rapporti con il cd. contenuto dell’atto negoziale, arrivando però a definire questo con l'assetto d'interessi dell'atto, mentre l'oggetto con le prestazioni dedotte nel contratto o con le situazioni soggettive attive (diritti soggettivi) o passive (obbligazioni) coinvolte.

Gli elementi accidentali sono: la condizione, il termine, il modo o onere.

Condizione: consiste in un avvenimento futuro incerto, dal cui avverarsi o non le parti facciano dipendere l'inizio e la fine degli effetti dell'atto giuridico. Nell'ipotesi dell'inizio si parla di condizione sospensiva, mentre è condizione risolutiva quando si fa dipendere la fine di degli effetti nati dall'avvenire o meno dell'avvenimento ipotizzato.

Termine: consiste in un avvenimento futuro e certo, con la caratteristica che sia sospensivo o risolutivo degli effetti del'atto.

Modo o Onere: è un avvenimento futuro e incerto che determina una particolare maniera di realizzazione degli atti. Entrano in gioco quando è presente l'elemento della gratuità, come nella donazione o nel comodato, in cui la condizione di comodatario e donatario si realizza dietro il soddisfacimento dell'onere garantito all'altra parte.

Lo schematismo moderno non poteva sussistere nell'esperienza giuridica romana per l'incombenza della quadripartizione. Per prima cosa differente è il ruolo moderno della volontà e quello allora primario o secondario a seconda del tipo di contratto, rispettivamente nei contratti consensuali, e in quelli verbali, letterali, reali. Erano però presenti alcuni degli elementi negoziali moderni:

Causa: Ne esisteva di due tipi: efficiente quando l’evento dante origine a qualcosa, poteva indicare una circostanza reale giustificativa di un atto negoziale e finale quando il fine perseguito con un comportamento, indica la concezione moderna.

A prevalere fu la seconda, tanto che fu la qualificazione di causa in senso finalistico ad agevolare i raggruppamenti interni alla quadripartizione, che dunque apparivano: univocamente causali i contratti reali e consensuali, non univocamente causali fra quelli verbali la stipulatio, (per il suo ondeggiare tra causalità e astrazione), e non univocamente causali quelli letterali, nel senso che a differenza dei nomina transcripticia quelli peregrini potevano essere anche astratti.

I contratti potevano apparire: univocamente causali tutti i contratti reali e consensuali; non univocamente causale, fra i contratti verbali, e la stipulatio; non univocamente causali i contratti letterali: nel senso che, mentre i nomina transcripticia obbedivano al

criterio della “causalità”, gli altri identificabili nelle scritture negoziali peregrine (singrafi e chirografi) non presentavano tale caratterizzazione, potendo essere modulati in termini astratti.

Forma e Formalismo: Per formalismo si intende il 'ricorso esasperato al momento formale', presente nel regno arcaico, sempre più secondario con il trascorrere dei secoli. Per i romani inoltre la parola 'forma', aveva molteplici significati (bellezza, perimetro etc...), quindi non si dovrebbe intenderlo meccanicamente come nella trascrizione italiana, ma come modalità espressiva concernente l'atto negoziale'.

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Inoltre per noi la forma vincolata, quella ad substantiam, è necessariamente legata alla scrittura, per i romani invece anche con l'oralità, a seconda del negozio, stesso discorso per la forma ad probationem, legata per entrambi alla scrittura, ma per noi laddove non fosse obbligatoria l'altra forma, mentre per i romani anche dove fosse necessaria una forma ad substantiam, ma orale. Nel modo di produzione arcaico poiché mancava ancora la quadripartizione, non si andava oltre una configurazione orale della forma ad substantiam.

Con il modo di produzione schiavistico, e la quadripartizione si continuò con l'oralità per i contratti verbali, a cui si aggiunse la scrittura per i contratti letterali, ed emerse la forma ad probationem ovunque apparisse necessaria la scrittura a memoria futura (per esempio i contratti reali o consensuali). Nel tardo-antico infine ci fu la prevalenza sempre maggiore della scrittura a svantaggio dell'oralità, tanto che ad esempio anche per la stipulatio si iniziò ad usare la forma ad probationem.

Le motivazioni per le quali la scrittura abbia preso piede solo nel tardo antico sono da ricollegare a presupposti socio-economici e politici. Seguendo la storia interna della stipulatio si può capire. Nel 212 d.C. l'editto di Caracalla estendendo a tutti la cittadinanza romana, impose anche di usare le regole giuridiche romane, comprese quelle sulla forma negoziale, il problema che venne a sussistere riguardava il fatto che i peregrini privilegiassero la forma scritta, chirografi e singrafi (dichiarazioni unilaterali e bilaterali rispettivamente), così anche le singrafi come la stipulatio potevano essere astratte, attraverso la formulazione documentale e concorde del debito, nella convinzione che la reale giustificazione di esso fosse al di là del prestito fittizio).

La soluzione al contrasto fu di dichiarare nella singrafe di aver compiuto precedentemente la stipulatio, come fonte dell'obbligazione. Tutto ciò non fermo il progressivo indebolimento dell'oralità, che ricevette il colpo di gr azia da Giustiniano, il quale qualificò la stipulatio come contratto verbale, ponendo però rimedi processuali a tutela della parte debitrice della singrafe, la quale entro due anni poteva richiamare la stipulatio come fonte dell'obbligazione e i suddetti rimedi processuali, altrimenti passato il termine temporale l'obbligazione trovava legittima fonte nella scrittura.

Persisteva dunque la stipulatio come contratto verbale, ma con meccanismi di contenzioso processuale cedeva il passo a quello a forma scritta. L'imperato ridusse l'oralità alla presenza delle parti durante la stipulazione del contratto. Le problematiche legate alla certezza della scrittura sono da ricollegare anche alla preminenza del valore di scambio moderno, rispetto a quello d'uso antico.

Possono però sorgere anche delle patologie contrattuali, cioè che il negozio sia invalido o inefficace a causa di difetti:

Invalidità: è legata ai profili strutturali, si verifica quando mancano elementi essenziali (volontà), o quando ad essere presente è un vizio della volontà. Con il primo caso si ha la nullità, con il secondo l'annullabilità.

Nullità: per comprenderla si pone a confronto con il concetto di inesistenza, la quale si configura con la mancanza di concreti comportamenti delle parti, della fattualità del negozio, mentre la nullità ha la fattualità, ma con annessi problemi di regolarità. Determinante è l'elemento volitivo per la classificazione: 'violenza fisica o assoluta', imposizione forzata del negozio, e 'simulazione assoluta' , finzione di porre in essere il negozio, per evadere il fisco ad esempio. In entrambi casi manca il formarsi della volontà interiore, che contrastando con la dichiarazione esterna provoca la nullità del negozio fin dalla nascita.

Annullabilità: si basa sulla non concordanza della volontà interiore e volontà esteriore, o sul formarsi scorretto della prima, si parla quindi di: 'errore ostativo', quando per distrazione una parte dichiari una cosa pensandone un'altra, 'errore-vizio' quando il compratore incorra in una falsa rappresentazione della realtà (convincendosi che una cosa sia oro invece che ottone), con l'altra parte in buona fede, 'dolo-vizio' come la precedente, ma con l'inganno del venditore, 'violenza morale o relativa' quando un ricatto psicologico impedisca il libero formarsi della volontà del compratore (ricatto). La differenza dalla nullità dunque sta nella presenza della volontà.

Inefficacia: è legata ai profili funzionali dell'atto, è la mancata produzione in sé degli effetti, c'è dunque una parziale sovrapposizione con l'invalidità che porta a definire inefficacia in senso ampio quest'ultima, mentre in senso stretto l'inefficacia, perché la causa è determinata da circostanze esterne (norma che blocca effetti del contratto).

I romani non utilizzavano il termine invalidus, ma nullum esse o inutile esse, nel senso dell'assenza degli effetti del negozio, facendo rientrare nella categoria anche quei casi che per noi sarebbero solo annullabili. Questo perché la volontà non occupava per loro il nostro ruolo primario, tanto che c'erano due diversi modi d'agire a seconda che si trattasse di un contratto consensuale, o verbale: in caso di errore nel contratto, lo ius civile ne stabiliva l'invalidità

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(anche i nostri casi di errore ostativo e violenza), dimostrando autosufficienza normativa, decisione di cui il pretore prendeva atto rilasciando una formula per la quale il giudice dovesse solo verificare la correttezza delle parti.

Nei contratti verbali, nella stipulatio dunque, invece lo ius civile non poté estendere la suddetta autosufficienza normativa, in quando essa dipendeva non dalla volontà, ma dalle parole usate, ad intervenire fu dunque lo ius honorarium, il pretore introdusse: l'exceptio doli (eccezione di dolo) e l'exceptio metus causa (eccezione per violenza) da un lato e l'actio de dolo (azione attinente al dolo) e l'actio quod metus causa (azione giustificata da motivi di violenza) dall'altro. Tutti erano mezzi della parte coinvolta negativamente dal dolo, solo che i primi due servivano per contestare l'altra parte la pretesa di vederla condannata in base ai criteri della stipulatio, mentre i restanti per chiamare la controparte in giudizio. L' ultima inoltre poteva essere usata anche quando l'interessato poteva ricorrere alla seconda, diversamente per le altre due. La violenza era punita più severamente del dolo.

Con il venir meno della dialettica fra lo ius honorarium e lo ius civile, e lo stabilizzarsi del nuovo tipo di processo, l'interesse del soggetto a dolo e violenza divenne qualcosa di legittimato anteriormente al processo sul piano precettivo.

Per quanto riguarda la condizione/condicio, essi ne ammettevano la condizione sospensiva, ma a fatica la risolutiva, che acquisì importanza solo grazie alle clausole negoziali della lex commissoria, cioè il pagamento del prezzo e obbligo dell'altra parte a trasferire la cosa, del pactum displicentiae, cioè possibilità di recesso del contratto da parte dell'acquirente entro una certa data, qualora l'acquisto non fosse di suo gradimento e del in diem addictio, cioè se nel frattempo al venditore veniva fatta un'offerta miglio del primo compratore) ovviamente tutte entro una determinata data. Fino al principato queste erano condizioni sospensive, diventando poi risolutive per fare fronte alle nuove strutture mercantili e al libero scambio commerciale.

Per quanto riguardava invece il termine/dies, il termine finale non era omogeneo per tutti i contratti consensuali, entrava infatti in gioco nei casi di contratti durevoli, come ad esempio quello di locazione, e certamente non nella compravendita, il termine iniziale invece non escludeva il vantaggio dell'immediato sorgere dell'aspettativa del creditore di poter adempiere all'obbligazione della controparte subito, fermo restando che l'aspettativa non si sarebbe potuta far valere per vie processuali prima della scadenza prefissata per l'adempimento.

Per i romani infine il modus non era un elemento accidentale, ne si spinsero a teorizzarlo, semplicemente lo ammettevano e utilizzavano specialmente per il testamento.

Capitolo VI - Le forme d’appartenenza

La proprietà civilisticaLa proprietà civilistica fu vista come l’appartenenza per eccellenza, in termini dapprima di meum esse e poi, di proprietas, se non più saldamente dominium. S’è trattato della forma d’appartenenza propria dei cittadini romani, se non anche di quanti godessero del commercium prima di divenire tali.

Già durante il Regnum arcaico la presenza delle strutture familiari di tipo “patriarcale” e, poi, “nucleare” non fosse un serio ostacolo al sorgere almeno d’una prima concettualizzazione della proprietà in parola, soprattutto immobiliare. In pieno V secolo a.C., quando la famiglia “nucleare” aveva ormai preso il sopravvento, le XII tavole dessero testimonianza d’una maggiore attenzione tecnica alla regolamentazione del potere dominico del paterfamilias sulle cose. La norma sull’acquisto di questo potere anche attraverso la disponibilità fattuale del bene per un tempo determinato, un anno per le cose mobili e due per gli immobili.

L’estensione all’Italia dell’appartenenza proprietaria civilistica nacque da ulteriori scelte politiche, economiche e, quindi tecnico-giuridiche. Nel caso dell’attribuzione della cittadinanza romana a ordinamenti italici preesistenti, lo stratagemma d’una loro qualificazione come municipia permise che l’appartenenza dei privati fino ad allora sottoposta alle regole interne della singola comunità venisse rimodellata su quella civilistica. Un assetto simile si ammise per le coloniae civium Romanorum.

Dove però le scelte politiche presentarono talora aspetti traumatici, ma contribuirono paradossalmente alla estensione in Italia di tale forma d’appartenenza con sviluppi nuovi a livello tecnico-giuridico, fu a proposito del cd. ager publicus. Porzioni inoltre di ager publicus furono date in affitto a privati, di regola non oltre i cinque anni, per ricavarne reddito. Gran parte dell’ager publicus s’identifico per largo tratto temporale nel cd. ager occupatorius: tale perché lasciato al libero utilizzo privato, dapprima dei ceti sociali più elevati e poi anche, dal IV secolo a.C., dei rimanenti ceti.

Con la lex Sempronia agraria si affermò la necessità di limitare a quantità prefissate l’estensione di ager occupatorius sfruttabile da ogni paterfamilias. Fu poi la prevedibile opposizione della nobilitas a complicare molto le cose. Si andò

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infatti dalla sua “rivitalizzazione” ad opera di Caio Sempronio Gracco alle sue revisioni attraverso una lex Thoria volta a bloccare intorno al 119/118 future assegnazioni di lotti, una posteriore lex agraria che escluse l’imposizione fondiaria per le occupazioni già avvenute, una ancora successiva lex Livia agraria ripristinante nel 91 le riforme dei fratelli Gracchi, con rinnovate assegnazioni ai poveri. Il tutto non produsse effettivi impedimenti per l’ampliarsi della proprietà civilistica a svantaggio dell’uso privato dell’ager occupatorius.

Dietro l’espressione moderna si nasconde l’idea che l’insaturazione dell’appartenenza dipenda dal rilievo negativo o positivo attribuibile al trapasso patrimoniale da un individuo ad un altro. Di modo che si avrebbe acquisto “a titolo originario” nel caso di fatti o atti giuridici funzionali al sorgere del nesso proprietario con la cosa senza immediata rilevanza per il momento dell’intersoggettività. È viceversa, di norma, per l’acquisto “a titolo derivativo”.

Quanto alla visione romana, la tendenza a razionalizzare l’argomento si manifestò privilegiando piuttosto la fonte che apparisse legittimare il fatto o l’atto costitutivo dell’apparenza. Anche se in modo non del tutto originale e innovativo, fu il Gaio delle Istituzioni a ricondurre sotto il ius gentium, prodotto dall’ordine naturale molte fattispecie oggi considerate modi d’acquisto a titolo originario e fu lo stesso Gaio a ripartire tra la sfera della naturalis ratio / ius gentium e la sfera del ius civile gli atti bilaterali non contrattuali fondanti l’appartenenza in esame. Così la traditio fu attribuita alla sfera normativa della naturalità, pur essendo nata a suo tempo nell’ambito del diritto civile. Viceversa la mancipatio e la in iure cessio furono confermate come proprie del diritto civile. L’articolazione servì a distinguere le fattispecie d’acquisizione riguardanti precipuamente i cittadini romani e quelle reputate idonee a coinvolgere non più soltanto i romani, ma anche i non romani mancanti di commercium.

Sempre Gaio avrebbe ribadito tutto ciò in un’opera, le Res cottidianae, meglio sfruttando l’identificazione del momento naturale con il ius gentium. E Giustiniano a sua volta avrebbe registrato e ripreso nel Digesto la proposta, con differenti sfumature concettuali rese necessarie, per un verso, dall’ormai completa estensione della cittadinanza romana alle persone libere dell’impero.

Le fattispecie d’occupazioneL’occupatio è considerata fra i più risalenti atti giuridici produttivi del meum esse/dominium, come attesta Gaio con l’argomento, secondo cui sarebbe stato addirittura il così importante diritto delle genti creato con lo stesso genere umano a stabilire che la cosa di nessuno è attribuita per ragione naturale a chi la occupi, se ne appropri.

Parlando, infatti, del processo, Gaio ricorda che in caso di controversia circa il meum esse d’uno schiavo le parti contendenti instaurassero il contraddittorio secondo certe modalità. Fra l’altro vi era l’imposizione sulla testa dello schiavo di una festuca quale strumento per la conquista della proprietà.

Se queste notizie gaiane sull’antichità dell’occupatio, sono facilmente spiegabili alla luce delle strutture socio-economiche del “modo di produzione arcaico”, è del pari spiegabile il definitivo modellamento dell’occupatio come appropriazione privata di beni non aventi proprietario all’epoca delle grandi conquiste territoriali caratterizzanti il “modo di produzione schiavistico” e a svantaggio ormai della vecchia convinzione che contasse precipuamente l’apprensione delle cose sottratte ai nemici.

Il problema nasceva dal permanere della distinzione fra le res mancipi e le res nec mancipi. La categoria delle res mancipi era stata considerata la più significativa perché ricomprendente i fondi, gli schiavi, gli animali da tiro o da soma: quanto fosse essenziale dunque allo sfruttamento agrario. Res nec mancipi erano rimaste invece tutte le altre, per la loro minore importanza economica.

I Sabiniani difesero una disciplina unitaria: al venir meno del dominium del precedente proprietario con la derelictio poteva subentrare un legittimo nuovo dominium del terzo a seguito dell’occupatio della cosa, fosse essa mancipi o nec mancipi. I Proculiani invocarono la necessità di precisare, basandosi sulla circostanza che il rapporto fra derelictio e occupatio potesse concepirsi come un trasferimento informale del bene, la citata traditio, seppure a favore d’una persona non conosciuta.

Essa doveva porre maggiore attenzione alla sicurezza dell’appartenenza: insistendo sull’opportunità che la “vacanza” del dominium fra la derelictio e l’occupatio (ammessa dai Sabiniani) fosse in qualche modo eliminata per risolvere problemi molto concreti, dalla valutazione commerciale della cosa all’incidenza sul patrimonio dominico degli eventuali rapporti obbligatori con terzi dello schiavo abbandonato e non ancora sottoposto ad occupazione e così via.

Tutto ciò naturalmente accadeva prima che il venir meno durante il “modo di produzione tardo antico” della distinzione fra res mancipi e res nec mancipi semplificasse i contrasti dottrinali con preferenza ora per l’altra distinzione fra cose mobili e cose immobili e, quindi per un modello concettuale della traditio in incertam personam “revisionato” ed “adattato” rispetto alle visioni anteriori. Da ricordare il maggiore interesse per la ripartizione fra res derelictae a domino (cose abbandonate) e res derelictae non a dominio (cose non abbandonate).

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Sul ruolo dell’elemento volitivo negli atti giuridici fin qui discussi, individuabile non solo per l’ovvio estraneità al “panvolontarismo” delle visioni contrattuali moderne, ma anche per le profonde differenze rispetto al trattamento della volontà nella medesima “contrattualità” romana. A metà del principato Pomponio evocava direttamente l’ipotesi già ricordata del lancio munifico di monete al popolo e l’altra ancora del provocato allontanamento delle api tenute sul proprio fondo per ribadire che tali derelizioni comportassero la volontà di attribuire la proprietà delle cose ad altri, sebbene sconosciuti. Nemmeno Giustiniano si sarebbe discostato molto da questo modo di ragionare: la volontà del padrone trasferisce la proprietà della cosa, come dunque quanti lanciano monete o altri donativi al popolo ignorano chi se ne approprierà.

Le fattispecie d’accessioneSotto il termine accessione si raggruppano varie ipotesi in cui cose non appartenenti allo stesso proprietario vengano unite fra loro, a causa di un evento naturale o d’un atto giuridico di tipo fattuale e con l’effetto di far sorgere la proprietà sulla nuova cosa così formatasi in capo al titolare d’una delle precedenti. Il corrispondente termine latino accessio non fu regolarmente usato e i casi coinvolti si determinarono per associazione concettuale e in modo molto prammatico, prima che l’età medievale avviasse le sistemazioni oggi seguite.

Si possono raggruppare così le fattispecie nelle quali le cose oggetto dell’unione fossero mobili: la tinctura e la textura (utilizzo di colori o fili di pregio altrui per tingere o ricamare un tessuto proprio); la scriptura (vergare parole con inchiostro proprio su carta o pergamena altrui); la pictura (dipingere con colori propri su una tavola altrui); forme di mixtura, tipo l’impiego di tavolame altrui per sostituire parte del fasciame d’una nave propria; l’adplumbatio e la ferruminatio (saldatura fra un bene di metallo proprio con altro di terzi realizzata).

Nella tinctura, nella textura e nella scriptura diveniva proprietario della nuova cosa il titolare del tessuto e del materiale cartaceo sui quali era intervenuta la manipolazione. Per riguarda l’adplumbatio e la ferruminatio il giurista Paolo credeva che la ferruminatio avviene unendo direttamente due parti di identica struttura metallica, tanto da realizzare una fusione di esse, mentre nell’adplumbatio ciò non avviene in quanto pur saldate fra loro, le parti mantengono la loro individualità. Il caso della pictura su una tabula altrui, il caso non è risolto con una soluzione pacifica già a proposito dell’individuazione della cosa principale in attesa che Giustiniano intervenisse a favore di privilegiare la pictura.

Si possono raggruppare così le fattispecie le cui cose coinvolte sono l’una mobile e l’altra immobile, e la seconda di esse sempre principale, con tutte le conseguenze intuibili circa l’appartenenza della nuova entità nata dalla congiunzione:

la satio (immissione sul proprio terreno di semi altrui, il prodotto dei quali, fin dal germogliare, si considerava appartenere al titolare del fondo, con molte somiglianze rispetto alla corrispondente fattispecie odierna);

la coalitio (attecchimento stabile di alberi altrui già trapiantati sulla propria terra, dal quale si credeva derivasse un’unione organica a vantaggio del titolare del fondo perché la singola pianta risultava ormai alio terrae alimento alia facta);

la inaedificatio (utilizzazione di materiale edilizio di terzi per costruire su un fondo, con l’acquisto del costruito da parte del titolare del fondo stesso).

Si possono raggruppare così le fattispecie relative l’unione tra cose immobili prodotta da eventi naturali: l’adluvio (progressivo deposito di terra melmosa lungo gli argini del fiume a causa del fluire delle acque); la crusta lapsa o advulsio (congiungimento stabile ad un fondo d’un’intera porzione di terreno distaccatasi da

un fondo altrui per la medesima causa); l’insula in flumine nata (emersione di un’isola all’interno del fiume per riduzione del volume delle acque, se

non a seguito d’innalzamento del letto fluviale per motivi geologici); l’alveus derelicus (mutamento del percorso del fiume per creazione naturale d’un nuovo letto).

Nella prime due fattispecie l’unione comportava l’acquisto in proprietà del terreno aggiunto in capo al titolare del fondo avvantaggiato dall’evento. Nella terza l’unione avveniva in modo meno semplice. Si tracciava idealmente una linea mediana nel letto del fiume per tutta la lunghezza dell’isola e ai singoli proprietari dei fondi rivieraschi posti a destra e a sinistra si attribuiva una porzione del terreno insulare così suddiviso, in corrispondenza e relazione alla lunghezza naturale di ciascun fondo sulle sponde del fiume.

Le fattispecie di specificazioneIl termine specificatio non era romano, essendo apparto qualche secolo dopo Giustiniano, il relativo concetto risaliva già al “modo di produzione schiavistico”, quando Gaio per esempio sviluppò nelle Res cottidianae i suoi precedenti

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cenni delle Institutiones. La differenziazione così individuata fra materia e species postulò un’evidente autonomia del concetto in discussione da quello coinvolto nel precedente. Il problema era di congiunzione ed unione della cosa accessoria ad una principale per far sorgere la cosa nuova, qui entrava in gioco viceversa la creazione della nuova entità attraverso un intervento incisivo su una preesistente entità.

Secondo i Sabiniani l’appartenenza della statua o del vaso prezioso doveva esser concessa al proprietario della “materia prima”, in quanto essa sarebbe stata indispensabile per avere la nuova entità. Secondo i Proculiani invece doveva prevalere la soluzione opposta, perché la nuova entità sarebbe stata un cosa autonoma concettualmente, mai appartenuta prima a qualcuno e quindi attribuibile in proprietà solo a chi l’avesse creata.

La fattispecie della mancipatio La mancipatio è un atto bilaterale il quale se n’è parlato a proposito della sua struttura più risalente e della successiva trasformazione registrata da Gaio, del suo rilievo civilistico per i trapassi intersoggettivi le res mancipi in relazione anche agli aggiustamenti in materia del ius honorarium, della sua utilizzazione come compravendita effettiva funzionale allo scambio d’un’entità rilevante patrimonialmente con un prezzo e come compravendita immaginaria funzionale ad obiettivi molteplici e, quindi, di tipo “astratto”.

Vi è stata un’ipotesi recentemente proposta da Corbino, secondo cui la mancipatio sarebbe stata fin dalla remota antichità una imaginaria venditio, senza mai aver avuto una configurazione originaria come compravendita effettiva, reale. Criteri caratterizzati dalla presenza della bilancia senza un suo effettivo uso, del pezzo di bronzo con cui percuoterla senza pesature…: quasi spie e indizi tardivi della “conquista” ab origine d’una pure forma negoziale sfruttabile non solo per lo scambio contro prezzo, ma anche per scopi ulteriori. Nel caso d’un testamento, la pura forma mancipatio sarebbe stata ugualmente utilizzata da un certo momento in poi, formulando però nel modo che segue la parte introduttiva della dichiarazione resa da chi apparisse accipiente dell’entità patrimoniale.

L’insistenza delle fonti sul legame nel contesto temporale fra la mancipatio e le solo res mancipi dimostra che la mancipatio sia stata una soluzione tecnica per consentire innanzi tutto le compravendite reali di queste ultime res.

La circostanza che le res così coinvolte sarebbero state ancora chiamate mancipi dai giuristi del “modo di produzione schiavistico”: sono tutti elementi che inducono a ribadire che per le res mancipi fosse possibile acquisire l’appartenenza civilistica ricorrendo al rito mancipatorio costruito ancora come reale scambio contro prezzo e tale da prevedere la presenza del libripens con la bilancia per la necessità di pesare materialmente la quantità di bronzo prestabilita dalle parti come corrispettivo della vendita.

La rigidità rituale legata alla funzione primaria di realizzare lo scambio della res mancipi contro una quantità di bronzo pesato concretamente non escludeva a priori eventuali aperture a fattispecie riconducibili pur sempre all’idea della compravendita reale, ma non del tutto e meccanicamente identiche a quella canonica per la presenza di obiettivi coinvolgenti anche la sfera personale, ma con implicazioni sempre patrimoniali.

La mutata configurazione della mancipatio come pura forma, come rito evocante una compravendita esistente soltanto sul piano della virtualità concettuale e non più della concretezza del reale, non potesse non incidere sulla struttura dell’atto. E con varianti: per un verso, la mera e normale percussione della bilancia con un pezzo grezzo di bronzo e, per altro verso, l’impiego stabilizzato della generica espressione hoc aere aeneaque libra introdotta nella dichiarazione formale in luogo del precedente richiamo al bronzo effettivamente pesato.

La raggiunta identificazione mancipatio/pura forma giustificava questa novità: tanto più che il momento della scambio contro prezzo veniva a connotare ormai un più recente atto di grande rilevanza commerciale, il contratto consensuale di compravendita, di norma usato a mo’ di presupposto per il ricorso strumentale alla mancipatio nella sua mutata caratterizzazione.

Le fattispecie d’ in iure cessio Questo ulteriore atto giustificativo della proprietà civilistica sembrerebbe emerso dopo la mancipatio. Prima di sparire definitivamente nel tardo antico a tutto vantaggio della traditio e per motivazioni non distanti da quelle concernenti la mancipatio. La in iure cessio è stata sfruttata sia per le res mancipi, sia per le res nec mancipi, sebbene tale sua maggiore forza d’impiego abbia riguardato soprattutto le res nec mancipi.

Come la mancipatio, l’in iure cessio affondava le radici nel formalismo arcaico. Solo che la sua era da sempre una ritualità costruita in modo più evidente e netto su un’altra ritualità: quella rintracciabile nella fase iniziale del processo romano più antico, quando esso riguardasse un contenzioso sull’appartenenza d’un bene. Da tali modalità processuali fu forse ricavato per la mancipatio l’attacco della dichiarazione resa dal ricevente la cosa.

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Quanto alla in iure cessio, invece, fu ricavata la completa sua struttura come attività svolta in tribunale, ma finalizzata a soddisfare esigenze negoziali, al di fuori d’una effettiva controversia giudiziale. Un indizio in tal senso è già nel significato di in iure cessio (rinunzia in tribunale). Ma la prova testuale è nella descrizione del relativo rituale. La in iure cessio avviene davanti ad un magistrato del popolo romano, come il pretore, colui al quale la cosa è trasferita in tribunale, tenendola con la mano, dice “affermo che questa cosa è mia secondo il diritto dei Romani”, quindi, effettuata la rivendicazione, il pretore interroga il cedente se intenda contro rivendicare e, negando o tacendo quest’ultimo, aggiudica la cosa a colui il quale ha già fatto la rivendicazione. Tanto può esser svolto anche nei territori provinciali, davanti ai loro governatori romani. L’in iure cessio s’è venuta delineando e stabilizzando come una lite giudiziaria fittizia, immaginaria. E in tale veste, non confondibile ovviamente con quella della stessa mancipatio come imaginaria venditio, ha assolto anch’essa il compito di realizzare l’acquisizione della proprietà civilistica.

Le fattispecie di traditio La traditio è forse il banco di prova più interessante in materia d’atti diretti all’acquisto della proprietà civilistica. Impiegata limitatamente alle res nec mancipi nell’età arcaica, le sue caratteristiche strutturali le permisero di stabilizzarsi nella parte centrale dell’esperienza romana anche come mezzo per acquisizioni patrimoniali al di là del ius civile, perlomeno fino all’editto di Caracalla del 212 d.C.

Con maggiore precisione, la traditio nacque come traslazione materiale, da mano a mano, date le limitate esigenze di scambio proprie del “modo di produzione arcaico” e nel presupposto che essa potesse bastare solo per le cose di minor valore economico. Nel tempo un’esigenza di maggior rigore formale si fu avvertita anche per i trapassi delle res nec mancipi di particolare pregio e che essa fosse soddisfatta grazie all’introduzione dell’in iure cessio subito prima delle dodici tavole. Si assestò la possibilità di sostituire la traditio con l’in iure cessio, ove reputato necessario per la qualità e l’importanza della res nec mancipi da trasferire. Cambiarono le modalità d’impiego della traditio nelle fattispecie più influenzate dalle esigenze del mercato e del commercio.

S’affermo infatti la consuetudine di servirsene anche per le res mancipi mobili, come gli schiavi comperati al mercato. Consuetudine che creò problemi di validità dell’atto a livello di ius civile per il mancato ricorso, nel caso, alla mancipatio o all’in iure cessio, obbligando così il pretore a intervenire con specifici rimedi processuali sul piano del ius honorarium. Non fu considerato scandaloso sfruttare la traditio addirittura per le res mancipi immobili, come i fondi. Si giunse ad identificare una traditio non solo quando l’acquirente entrasse nella disponibilità materiale del bene su autorizzazione del venditore, ma anche quando il trapasso si realizzasse secondo criteri più rarefatti e smaterializzati.

Secondo una terminologia fissatasi in età medievale, venne così alla luce:- la cd. traditio longa manu, consistente nell’indicazione che da un luogo elevato di proprietà dell’acquirente il

venditore facesse del fondo alienato;- la cd. traditio brevi manu, riguardante il caso dell’acquirente che avesse già una disponibilità debole e

temporalmente limitata del bene e non avesse bisogno d’un nuovo trasferimento materiale di esso da controparte onde ottenerne la disponibilità piena ai fini dell’acquisizione proprietaria;

- il cd. constitutum possessorium, ricorrente nell’ipotesi opposta del trasferente che trattenesse la cosa per un periodo più o meno limitato a titolo di locazione od altro, di modo che alla scadenza del termine previsto la controparte acquirente si trovasse automaticamente nella disponibilità piena del bene ai fini dell’appartenenza proprietaria.

La iusta causa traditionis rimane tuttora al centro dell’attenzione con rinnovate continue ricerche. Molto è dipeso dal ricorso in talune fonti all’espressione iusta causa praecedere o al sostantivo iusta causa accompagnato dalla preposizione ex. Il giurista Paolo, vissuto alla fine del principato, disse che: la nuda traditio non trasferisce mai la proprietà, a meno che sia preesistita una vendita o qualche iusta causa, a cagione della quale segua la traditio. Il giurista Gaio disse che: se avrò trasferito a te mediante traditio una veste o una cosa d’ora o d’argento per causa di vendita o di donazione o per qualsiasi altra causa, il bene in questione diviene tuo, purché io ne sia proprietario. Nell’esperienza romana, la iusta causa veniva a coinvolgere i presupposti e l’obiettivo della traditio. Della traditio essa era la ragione giustificativa fondata su una preesistente attività giuridica, ma della traditio sostanziava e legittimava anche l’impiego sotto il profilo dello scopo conseguentemente e concretamente voluto e perseguito delle parti.

L’ usucapio L’usucapio coinvolgeva l’acquisizione della proprietà civilistica sotto angolazioni diverse. Al comportamento fattuale man mano riadattato e manipolato nel corso dei secoli e tipico della traditio subentrava, nel caso un comportamento parimenti intriso di fattualità, ma con l’assenza di grandi varianti diacroniche nella caratterizzazione strutturale. Usucapio era composto da usus (uso, sfruttamento) e capere (prendere, appropriarsi). Una fenomeno che s’è delineato nella parte centrale dell’esperienza romana. Si può identificare l’usucapione come acquisto della proprietà civilistica mediante la disponibilità materiale (possessio) prolungata nel tempo d’un bene altrui.

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È plausibile che siano stati concepiti taluni indispensabili parametri per consentire all’usucapio di svolgere la sua peculiare funzione. È possibile individuarli nel complesso attraverso un elenco:

- res habilis, ovvero idonea ad essere usucapita;- titulus, ovvero nel senso di iusta causa;- fides, ovvero nel senso bona fides;- possessio, con la disponibilità materiale della cosa;- tempus, ovvero la durata necessario del possesso per raggiungere l’usucapione.

Il concetto di res habilis postulava il principio, secondo cui potessero essere usucapiti tutti i beni, tranne quelli sottoposti a divieto. La legge delle XII tavole aveva proibito l’usucapione delle res furtivae, fu una successiva lex Atinia collocabile nella tarda repubblica, a ribadire la regola con la probabile integrazione che il divieto d’usucapione cessasse con il ritorno della cosa nella disponibilità materiale del padrone con il cd. reversio ad dominum. La Plautia e la Iulia de vi estesero l’inusucapibilità alle res vi possessae e cioè le cose possedute con la violenza, e una Lex Scribonia escluse anche delle servitù.

Il tempus per usucapire coincideva con il decorso del biennio o dell’anno previsto fin dalla regola delle XII tavole. La nozione di possessio è venuta decantando soprattutto ad opera dei giuristi del principato. Il possesso, scriveva Labeone, è stato così chiamato in base alla collocazione concreta, quasi posizione assunta rispetto al bene, essendo tenuto da chi lo sovrasti e lo controlli materialmente.

Le parole di Paolo vanno interpretate pensando non solo al dato oggettivo della disponibilità materiale del bene, bensì pure al dato soggettivo, psicologico, inteso come intenzione del possessore di trattenere presso di sé la cosa in modo stabile. Esso scriveva che possono essere possedute le cose che sono corporali e acquistiamo il possesso attraverso il nostro rapporto fattuale con la cosa e attraverso il nostro desiderio di escludere da essa chiunque altro. L’animus non poteva non andare a braccetto con il corpus ai fini dell’usucapio civilistica. Mi riferisco all’ipotesi del legittimato in sé alla possessio, il sui iuris, che ne rimaneva titolare anche quando una sua persona alieni iuris detenesse di fatto il bene nel suo interesse.

Per motivi pratici, allora e fino a Giustiniano, si introdusse qualche deroga al principio che per essa non potesse bastare soltanto l’animus: nel senso d’interpretare quest’ultimo come intento di tornare ad esercitare la situazione possessoria nella sua pienezza. Si stabilizzo pure il criterio di considerare presente l’elemento del corpus quando, la possessio nascesse da una traditio non riconducibile alla pure traslazione da mano a mano. Mentre per la traditio la iusta causa appariva essere la ragione giustificativa della traditio medesima, nell’ipotesi ora in esame essa tendeva ad identificarsi piuttosto con la ragion d’essere dell’usucapione in forza dell’inizio del possesso.

Il fenomeno non nacque dall’oggi al domani e precisato, inoltre, che mancava tuttora lo sfruttamento rigoroso dell’espressione iusta causa a vantaggio dell’impiego di pro, con l’indicazione all’ablativo dell’attività giuridica fondante l’usucapio, ecco le fattispecie di maggior rilievo:

- pro emptore quando un contratto di compravendita giustificasse l’usucapione del bene a favore dell’acquirente, grazie alle patologie del successivo atto di trapasso e cioè dello scorretto impiego a fronte della distinzione fra res mancipi e res nec mancipi o in presenza d’un venditore non proprietario civilistico;

- pro donato quando l’usucapio fosse donationis causa ovvero a cagione d’un atto liberale, la cui esecuzione fosse stata vanificata dall’irregolarità ancora una volta del trapasso della cosa;

- pro derelicto con riferimento al problema dell’occupatio di cose abbandonate;- pro dote assimilato a quanto previsto per la causa pro emptore;- pro suo più o meno letteralmente, ma non con precisione estrema a proprio favore.

Queste ipotesi sarebbero state revisionate con l’abolizione tardo antica della distinzione fra res mancipi e nec mancipi. Il requisito della bona fides lo possiamo individuare come convinzione di non ledere interessi patrimoniali di terzi perlomeno all’inizio della possessio finalizzata all’usucapio.

L’ in bonis habere Con l’in bonis habere torniamo a discutere della dialettica fra ius civile e ius honorarium, ma in riferimento ai contenuti dell’intervento pretorile. La suddetta attività pretorile deve essere assunta a modello della possessio civilistica. L’obiettivo è una tutela processuale del possessore onde consentirgli il tranquillo decorso del tempus per l’usucapio, sempre che quest’ultima presentasse tutti i requisiti richiesti dal ius civile e fosse resa necessaria dalle patologie emerse in sede di trapasso patrimoniale.

Il fenomeno si è delineato dalla tarda repubblica a tutto il principato, con l’effetto così che sul piano del ius honorarium la possessio avesse un’attenzione più marcata di quella offerta dal ius civile, e al solo fine che il bene

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coinvolto continuasse a rimanere nel patrimonio del possessore ovvero che egli lo potesse conservare tra i suoi beni fino all’usucapio.

Si doveva tener presente che sulla vicenda incombesse l’adattamento dei ius civile alle solite esigenze del modo di produzione schiavistico, prima che il tardo antico rimescolasse le carte distruggendo la dialettica fra ius civile e ius honorarium e demandando al nuovo assetto precettivo fondato sul dualismo fra leges e iura un aggiustamento di soluzioni. La situazione possessoria che ne nasceva non trovava protezione da parte del ius civile, se non nei confini di poter riparare a tale irregolare impiego della traditio con l’usucapio. Ma poco o nulla il ius civile diceva sul ben differente problema degli eventuali interventi che senza plausibile o legittima giustificazione intralciassero il possessore nel perseguire l’usucapione, con evidenti effetti negativi per il suo interesse a divenire proprietario. Fatto è che sono stati determinati per colmare la lacuna due rimedi pretorili: l’actio Publiciana e l’exceptio rei venditae et traditae.

Il primo per opera del pretore Publicius fra i magistrati dell’epoca con identico nomen, invi compreso quello ricordato da Cicerone per l’anno 66 a.C., ma solo come pretore peregrino e con una competenza tendenzialmente estranea al rimedio processuale in esame. La Publiciana è a disposizione del possessore per il recupero della res mancipi di cui avesse perso la disponibilità corpore indispensabile per arrivare all’usucapio. Anche le indicazioni già date sulla formula della Publiciana e sull’ordine al giudice di fingere che fosse già decorso il tempus per l’usucapione della res mancipi possono essere presupposte in relazione a quel momento futuro, fosse ipotizzabile ora per allora la presenza dei requisiti dell’usucapio.

Nello specifico caso di ricorso del possessore all’actio Publiciana nei confronti dell’ancora proprietario della res mancipi, quest’ultimo poteva cercare di difendere la distrazione da lui fatta del bene in nome del dominium tuttora riconosciutogli dal ius civile. Ma pure in presenza d’una contestazione del genere, cd. exceptio iusti dominii, il pretore reputava opportuno intervenire, consentendo al possessore di contestare a sua volta l’eccezione attraverso la cd. replicatio doli.

In ordine poi all’altro rimedio processuale in difesa del possessore usucapiente, l’exceptio rei venditae et traditae, il caso-tipo s’identifica sempre in una compravendita seguita dall’irrituale traditio, ma con la differenza che fosse il venditore a rivendicare il bene così trasferito e che al possessore fosse consentito opporsi processualmente con l’eccezione di cui parliamo per bloccare la pretesa di controparte e pervenire ugualmente all’usucapio.

L’in bonis habere entra in campo per quando il trasferimento fosse avvenuto correttamente ma da chi non avesse la proprietà civilistica sul bene trasferito. Esistevano in ogni modo altre ipotesi di acquisto a non domino: peculiarissime, perché caratterizzate da un intervento magistratuale legittimante la possessio in luogo dell’atto privato. Nelle fonti ricorrono varie tipologie, tutte fornite di strumenti processuali non identificabili con l’actio Publiciana o l’ exceptio rei venditae et traditae. Elenco i casi più significativi:

- honorum possessio, cioè l’attribuzione pretorile della possessio di beni ereditari a determinati richiedenti e nel rispetto o meno delle regole civilistiche sulle successioni mortis causa, con la possibilità per i designati di sfruttare come fossero eredi un’azione simile alla Publiciana, per il recupero presso terzi delle cose da usucapire in forza del possesso ottenuto dal pretore;

- honorum venditio, cioè l’attribuzione pretorile per la possessio dei beni del debitore insolvente da parte di chi li comprasse secondo una procedura ufficialmente approvata, come l’asta pubblica, e con la possibilità data pure qui all’acquirente d’utilizzare, per il loro recupero presso i terzi e ai fini dell’usucapio.

Con l’impiego dell’espressione in bonis habere in senso astrattizzante: per indicare non solo la permanenza del bene nel patrimonio del possessore, ma anche la situazione possessoria a lui facente capo in forza della disponibilità della cosa. Un fenomeno, che fu causa ed effetto al contempo dell’idea, secondo cui il potente scudo del ius honorarium consentisse d’andar oltre il momento processuale in sé e ammettere l’esistenza d’un potere di godimento da parte del possessore, in quanto titolare d’una situazione patrimoniale provvisoria e temporalmente limitata, ma nonostante ciò stabile fino all’usucapio.

Nel tardo antico le cose sarebbero ancora una volta cambiate. La separazione fra dominium del ius civile e in bonis habere del ius honorarium sarebbe divenuta sempre più formale e debole, al punto che Giustiniano l’avrebbe condannata nel Codex con una violenza verbale impressionante: cacciando via con questo nostro intervento precettivo il ludibrio e l’oltraggio dell’antica sottigliezza concettuale non sopportiamo che esista una differenza fra i padroni, presso i quali si reperisca o il nudo secondo il diritto civile o soltanto l’in bonis.

La possessio vel ususfructus extraitalica In attesa dei mutamenti avviati dalla costituzione di Caracalla sulla cittadinanza romana, circolava un’altra forma d’appartenenza che poco aveva in comune con il dominium civilistico e l’in bonis habere. Di norma, se queste due

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ultime tipologie riguardavano i beni italici dei cittadini romani, quella coinvolgeva determinati fondi extraitalici nella disponibilità patrimoniale di romani o peregrini.

Alla possessio vel ususfructus del privato doveva accompagnarsi il dominium di due centri politico-istituzionali identificati nel popolo romano e nel principe. Mancando ancora l’idea astratta di Stato, era scontato il riferimento a dette entità umane, e vi era la circostanza che le zone geografiche sottoposte a Roma al di là dell’Italia fossero articolate in province, così si spiega perché Gaio parli in generale di solum provinciale per indicare il complesso dei luoghi extraitalici su cui si fosse progressivamente esteso il dominium o del popolo romano o del principe. L’individuazione di detti fondi non era attuata in modo omogeneo. Il principale criterio seguito era di ritagliarli nel rispetto delle suddivisioni degli ordinamenti peregrini esistenti nelle singole province come civitates liberae et foederatae o sine foedere liberae o autonome di fatto.

L’obiettivo di destinare i fondi così distratti alla possessio vel ususfructus sotto il diretto controllo dell’autorità quale segno della supremazia caratterizzante il dominium populi Romani vel Caesaris. Nulla vietava che i fondi fossero reperiti anche all’interno dei municipia e delle coloniae civium Romanorum. Differente da quanto accadeva al di qua delle Alpi e sempre che non fosse stato concesso specificamente il cd. ius Italicum, cioè il riconoscimento della proprietà civilistica, i terreni di cui stiamo parlando erano pur essi assoggettati al dualismo della possessio vel ususfructus e del dominium populi Romani vel Caesaris.

La possessio vel ususfructus è attribuita ai privati in forza di concessioni dall’alto e con l’onere di pagare come contropartita un’imposta inammissibile invece per i terreni italici assoggettati al dominium civilistico. Possessio ha una carica rappresentativa più fiacca di dominium e non s’identifica con la possessio che conosciamo parlando dell’usucapio civilistica e, per connessione, dell’in bonis habere. Ususfructus partecipava ad un’endiadi con possessio, senza un autonomo specifico valore rappresentativo. Queste scelte tecniche non impedivano che il possessore/usufruttario avesse facoltà a forte rilevanza patrimoniale per il godimento del fondo a lui concesso.

Tuttavia esistevano anche limiti all’esercizio di facoltà. E uno dei più evidenti, legato alla valenza e portata dell’endiadi rispetto al dominium populi Romani vel Caesaris, era che i fondi in questione non potessero mai essere usucapiti, diversamente dagli italici. Così si ammise che il possessore/usufruttario potesse agire in giudizio per recuperare il suo fondo tenuto senza autorizzazione da terzi, ma fu consentito che questi ultimi potessero contestare l’eventuale tentativo di recupero, in presenza di determinati requisiti e a condizione che il loro sfruttamento dell’immobile durasse da un numero considerevole di anni, dieci o venti a seconda che le parti avessero o meno domicilio nello stesso ordinamento cittadino.

La soluzione adottata fu interna al contenzioso giudiziario. Non a caso la contestazione era chiamata logis temporis praescriptio: letteralmente prescrizione di lungo tempo, con evocazione diretta del concetto d’opposizione processuale. E non a caso, ancora, la conseguenza dell’eventuale sentenza del giudice era che il possessore/usufruttuario non recuperasse il fondo e, specularmente, i terzi ne conservassero la disponibilità materiale senza modificare la loro posizione giuridica nei confronti del bene.

Contò molto la contestuale sempre più diffusa convinzione che la longi temporis praescriptio potesse essere un mezzo d’acquisizione dei beni in sé e per sé: nel presupposto che l’esercizio del potere ad essa connesso, in quanto rimedio processuale, di bloccare il recupero della cosa da parte del possessore/usufruttuario nient’altro significasse che un sostanziale venir meno dell’appartenenza di quest’ultimo, a tutto vantaggio dell’appartenenza giustificativa della longi temporis praescriptio. Anche indipendentemente dal contenzioso processuale si ammise in pratica il subentro automatico al posto del concessionario possessore/usufruttario di chi vantasse una contrapposta situazione possessoria accompagnata dai requisiti della iusta causa, del tempus di dieci o venti anni e di quant’altro già necessario in sede di contenzioso giudiziario.

I COSIDDETTI “IURA IN RE ALIENA” Erano caratterizzabili in maniera multiforme. Di massima, attraverso:

- l’esercizio di facoltà interessanti la cosa altrui, grazie alla titolarità d’una porzione di essa e a vantaggio d’un proprio bene;

- l’esercizio sempre di facoltà coinvolgenti la cosa d’altra persona oppure l’impedimento per quest’ultima a porre in essere atti sulla cosa stessa, senza più la presenza della titolarità della porzione, ma a vantaggio ancora d’un proprio bene;

- l’esercizio di facoltà sulla cosa d’altri, legittimato adesso da uno sfruttamento diretto di essa indipendentemente dal vantaggio per un proprio bene.

Il nostro codice civile parla di:

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- servitù prediali (art. 1027: “peso imposto sopra un fondo per l’utilità d’un altro fondo appartenente a diverso proprietario”);

- usufrutto (art. 981: “l’usufruttario ha il diritto di godere della cosa altrui, rispettandone la destinazione economica”);

- superficie (art. 952: “il proprietario può costituire il diritto di fare e mantenere al di sopra del suolo una costruzione a favore di altri, che ne acquista la proprietà oppure può alienare la proprietà della costruzione già esistente, separatamente dalla proprietà del suolo”);

- enfiteusi (art. 959: “l’enfiteuta ha gli stessi diritti che avrebbe il proprietario sui frutti del fondo e relativamente alla utilizzazione del suolo”).

Le servitù predialiIl nostro codice adotta criteri sistematici e asettici. Parla delle servitù prediali ricorrendo al concetto unificante di “peso d’un fondo su un altro fondo”, esigendo cioè un rapporto fra due entità patrimoniali appartenenti a due diversi proprietari. Entità, di cui l’una, detta servente, sia subordinata all’altra parte detta dominante a beneficio della seconda di esse e con la giustificazione che il relativo proprietario sia portatore d’un diritto reale su cosa altrui.

Dati significativi emergono già per il modo di produzione arcaico sul problema delle servitù non poteva non riguardare essenzialmente i fondi da coltivare. È facile intuire perché il numero delle servitù fosse ridotto e sufficiente per le esigenze del tempo. Tutto si riduceva all’iter (passaggio a piedi), all’actus (passaggio con animali o carri), alla via (passaggio ricomprendente più o meno le due anteriori tipologie) e all’aquaeductus (conduzione d’acqua) attraverso il fondo altrui e da parte di chi avesse un fondo limitrofo, se non vicino. Queste sarebbero nient’altro stati che vere e proprie forme materiali d’appartenenza quantitativamente limitative o non limitative della diversa appartenenza su tutto il fondo servente: con la particolarità che, a differenza di quest’ultima, sarebbero state riconosciute con riferimento presso che esclusivo ai particolari obiettivi da soddisfare. Le nostre quattro servitù rustiche erano concepibili in quanto chi se ne avvantaggiava per il proprio fondo avesse materialmente acquistato l’esclusiva appartenenza, mediante mancipatio, delle parcelle fondiarie del fondo servente necessarie per esercitare le facoltà di transito o di conduzione dell’acqua.

Tutto ciò fu messo in discussione almeno dal III/II secolo a.C., in coincidenza evidentissima con l’inizio del modo di produzione schiavistico. L’esercizio delle facoltà sul fondo servente potesse essere disancorato ormai dal trasferimento in parola. Comportò, che dagli ultimi secoli della repubblica in poi sorgessero ulteriori servitù rustiche imperniate sulla nuova scelta, ma distinguibili dalle precedenti quattro per la loro non configurabilità come res mancipi e per la loro necessaria costituzione attraverso atti diversi dalla mancipatio.

Attraverso vicende non lineari, nacquero così l’aquae haustus (facoltà di attingere acqua), la servitus pecoris pascendi (facoltà di pascolare il proprio bestiame), la servitus lapidis eximendae (facoltà di prendere pietre per costruire sul proprio fondo). Connesso in maggior misura ai nuovi equilibri fra agricoltura e commercio e a certi vistosi loro effetti. Lo si rinviene nell’emersione delle cd. servitù urbane: vincolate sempre all’impiego dell’in iure cessio in luogo della mancipatio, tipiche dei terreni abitativi cittadini e riguardanti l’esercizio di facoltà sul fondo servente, ma anche la possibilità di inibire attività al suo titolare.

Sul primo versante ricordate le servitutes stillicidii e fluminis (riversamento dell’acqua piovana dal proprio tetto direttamente o attraverso grondaie e condutture artificiali), cloacae (scarico delle proprie fogne), tigni immittendi (inserimento di travi nel muro del vicino), oneris ferendi (appoggio della propria costruzione a quella del vicino), luminum o luminis immittendi (apertura di finestre sempre nel muro del vicino o con lui comune). Sul secondo versante debbono essere citate soprattutto la servitus altius non tollendi (divieto per il vicino d’innalzare oltre una certa misura un proprio edificio) e la servitus ne luminibus, ne prospectui officiatur (divieto a realizzare costruzioni limitanti la luce naturale o la veduta verso l’esterno per l’edificio sito nel fondo dominante).

Se prima era stato facile identificare il fruitore della servitù con chi vantasse il meum esse sulla striscia di terreno per il transito o sul canale per lo scorrimento dell’acqua, adesso le cose si complicarono. Il più ampio e articolato riconoscimento di facoltà non ebbe più l’ancoraggio corposo e materiale assicurato dal meum esse. Divenne un dato da esaminare in sé e per sé, quasi elemento da riconcettualizzare sotto il profilo della sua autonomia essenziale per le molteplici tipologie di servitù nate con i nuovi assetti socio-economici.

Ancora una volta ne offre attendibile testimonianza nel tardo modo di produzione schiavistico il giurista Gaio, sfruttando il principio dell’incorporalità. Egli vi ricorreva per caratterizzare in chiave oggettivista l’usufrutto sulla base dell’argomento che fosse una res incorporalis voluta dall’assetto giuridico-precettivo e caratterizzata precipuamente dall’esistenza d’un immateriale diritto dell’usufruttario a utilizzare il fondo e a raccogliere frutti (ius

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utendi fruendi). Considerava le servitù del pari res incorporales e si dilungava nell’individuazione delle relative tipologie e dei connessi poteri spettanti a chi ne fruisse.

Il giurista Paolo avrebbe affermato che persino le più tradizionali servitù rustiche, così agganciate alla realtà, fossero da considerare incorporali. Tutto questo processo assestatosi definitivamente con Gaio e poi, attraverso Gaio, portato avanti fino a Giustiniano ebbe risvolti significativi per la stessa disciplina dei modi d’acquisto e d’estinzione delle servitù prediali già durante il modo di produzione schiavistico.

In materia di acquisto c’era la possibilità di far nascere una servitù anche attraverso il possesso prolungato nel tempo e, quindi, l’usucapione delle parcelle fondiarie del fondo servente. La conferma è nella circostanza che già negli ultimi tempi della repubblica, fosse emanata la lex Scribonia per vietare proprio tale tipo d’usucapibilità: in consonanza per altro con le coeve riflessioni giurisprudenziali, da cui è facile arguire la consapevolezza dell’ormai avviato mutamento di prospettiva nel concepire le servitù.

Quanto ai modi d’estinguere le servitù, il ruolo di quest’ultima è rintracciabile già nelle fattispecie più importanti e queste sono:

- in Italia, la rinunzia alla servitù attraverso la in iure cessio a sostanziale svantaggio altresì della mancipatio per la specifica ipotesi delle quattro originarie servitù rustiche;

- l’inattività del titolare del fondo dominante o sotto forma di non usus o sotto forma di usucapio libertatis;- nei territori extraitalici, la rinunzia alle servitù attraverso parti contrari a quelli costitutivi, ma con i soliti esiti

extracivilistici.

Durante il modo di produzione tardo antico emersero ulteriori mutamenti. L’omogeneizzazione tra fondi italici e fondi extraitalici fece venir meno parte dei criteri appena individuati sull’acquisto e l’estinzione delle servitù. Il fenomeno anzi fu agevolato dalla scomparsa della mancipatio e dell’in iure cessio e, con esse, della distinzione fra res mancipi e res nec mancipi.

Il problema della nascita delle servitù trovò soluzione nel ricorso largo e disteso: - agli accordi fra gli interessati, con espressa esclusione di forme o cause negoziali vincolate;- al patientiam praestare detto anche quasi traditio ossia conferimento del potere/ius d’esercitare facoltà;- alla longi temporis praescriptio, nel suo più recente ruolo d’usucapione decennale o ventennale e sulla base

d’una netta inversione di tendenza rispetto ai divieti risalenti alla lex Scribonia.

Per il problema dell’estinzione delle servitù, visto che si continuò a parlare di rinunzia, inattività del titolare del fondo dominante ma con adattamenti non secondari. Esso fu causa ed effetto d’una politica del diritto favorevole alla maggiore autonomia negoziale quale mezzo per superare l’anteriore tipicità delle servitù. Nel Corpus Iuris non siano conservati frammenti di costituzioni tra Diocleziano e Giustiniano nella materia di nostro interesse. Il fissarsi d’un’economia di marcato stampo agrario-latifondistico e la riduzione del commercio a zone geografiche limitate ebbero certamente un peso.

L’usufruttoTalvolta, fra i romanisti, si tende a considerare l’usufrutto attuale come un istituto che abbia conservato quasi meccanicamente le caratteristiche avute nel diritto romano. V’è un po’ di vero nel corollario che l’usufrutto sia comunque soprattutto per la peculiarissima originalità delle scelte antiche. Con l’usus modernus si sviluppò nell’area germanica del 500/700 il cd. Niessbrauch, corrispondente all’ususfructus, nei contenuti un potere di godimento diverso dalla proprietà e, recuperato ancora dal codice civile tedesco del 1900: l’usufrutto è il potere di godere e usufruire di cose altrui facendo salva la loro sostanza. È fuor di dubbio che dietro la disciplina del nostro codice pulsi una nozione secondo la quale dire usufrutto significa insistere sul godimento d’una cosa non propria, senza modificarne la destinazione economica e solo per un certo lasso di tempo non superiore alla vita dell’interessato.

L’usufrutto romano nacque fra il II/II secolo a.C., all’epoca della trasformazione delle servitù in potere d’esercitare facoltà coinvolgenti beni altrui. Il suo stabile inquadramento in questo modello concettuale era riconosciuto già nei primissimi tempi del principato, al di qua dunque d’un’eventuale precedente configurazione come appartenenza proprietaria. L’usufrutto ebbe il tratto distintivo che il potere coinvolto non dovesse essere legato al vantaggio patrimoniale per un’altra cosa, non trattandosi nel caso d’esercitare facoltà di passaggio e così via, ma di godere d’un bene altrui per sfruttarlo e ricavare frutti con il solo limite di rispettarne la substantia.

Alcuni romanisti hanno interpretato certi richiami giurisprudenziali del principato all’usufrutto come pars rei o pars dominii nel senso che esistesse piuttosto una proprietà dell’usufruttario coesistente con quella del concedente. Alla circostanza che questi se ne distaccasse, pur rimanendo ovviamente proprietario, sino alla scadenza dell’usufrutto in

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quanto ius utendi fruendi e non certo proprietà. Ciò che contava era la funzionalità dell’usufrutto come ius utendi fruendi alla conservazione dei patrimoni ma anche al loro incremento sfruttandone singole entità.

L’usufrutto doveva essere a tempo e non oltrepassare mai la vita dell’interessato: fermo restando perciò che solo secondo criteri ben precisi la proprietà del concedente potesse subire forti ridimensionamenti, mai preclusivi tuttavia della possibilità di disporne nel rispetto degli interessi dell’usufruttario e di proteggerla anche processualmente, ove del caso. I modi di acquisto e di cessazione dell’usufrutto erano individuabili secondo criteri abbastanza vicini a quelli delle servitù prediali. Anche l’acquisto dell’usufrutto poteva effettuarsi mediante una in iure cessio o mediante una riserva a favore dell’alienante un proprio bene, in sede di mancipatio o in iure cessio. L’estinzione del ius tendi fruendi poteva aversi per perimento della cosa o per l’acquisizione della proprietà civilistica o della possessio vel ususfructus provinciale da parte dell’usufruttario. Poteva rilevare altresì la morte di quest’ultimo. Inoltre, potevano entrare in gioco la rinunzia o il non usus annuale o biennale.

Nel tardo antico gli aggiustamenti di tale complessiva regolamentazione non si discostarono moltissimo da quelli relativi alle servitù. L’humus tecnica fu l’omogeneizzazione dei fondi italici ai non italici, la scomparsa della distinzione fra res mancipi o nec mancipi e la sparizione dell’in iure cessio, decisiva anteriormente per far sorgere o terminare i iura tendi fruendi. L’acquisto dell’usufrutto fu fondato sempre più sugli informali accordi privati, senza escludere fra l’altro la quasi traditio oppure l’usucapibilità per mezzo della longi temporis praescriptio decennale o ventennale.

La superficieLe questioni si complicano per la superficies. Se in linea generale può essere intesa come godimento del soprassuolo d’un terreno altrui, sorgono già dubbi sul modo di concepirla in relazione alla materia dell’appartenenza in senso stretto.

Poco intercorre anche fra la superficie romana e quella moderna. Interpretando l’art. 952 del vigente codice civile abbiamo modo di verificare che:

la superficie riguarda l’ipotesi in cui il proprietario del suolo conceda ad un terzo il diritto di costruivi sopra oppure l’ipotesi in cui il titolare del suolo trasferisca al terzo la proprietà di un edificio già esistente;

la superficie s’identifica in un diritto assoluto del terzo su cosa altrui relativamente alla facoltà di edificare ex novo o mantenere la costruzione anteriore.

Con maggiore precisione, la superficie è configurabile in quanto si ammetta la possibilità che sullo stesso bene insistano tre diritti reali intrecciabili: due su cosa propria l’altro su cosa altrui.

Nell’esperienza giuridica antica era inteso in modo tale da impedire la configurabilità di qualcosa anche lontanamente assimilabile alla superficie durante l’età arcaica e da subire qualche ridimensionamento non prima della tarda repubblica: senza che si pervenisse anche allora ad inquadramenti della materia nell’ambio dei cd. rapporti reali ovvero strutturati direttamente e immediatamente sull’appartenenza. Il tema della separazione fra suolo e soprassuolo venne affrontato sul piano ben diverso dei vincoli obbligatori nascenti da contratti consensuali: con modulazioni non identiche per di più a seconda che il bene interessato fosse pubblico o privato.

Per le locazione pubbliche, ne è la riprova la previsione di rimedi processuali d’urgenza a livello di ius honorarium. Rimedi, volti a proteggere il concessionario da eventuali molestie e turbative di terzi. Per le locazioni e le compravendite fra privati, la tutela del concessionario si realizzò allo stesso modo, ma anche attraverso gli strumenti processuali previsti di norma nell’editto pretorile per le controversie nascenti dai suddetti contratti.

Ne dava notizia all’inizio del III secondo d.C. Ulpiano, in un frammento riportato nel Digesto e di cui s’è negata la sostanziale genuinità, senza argomenti però decisivi: quando dice il pretore “se mi sarà chiesto di poter agire in materia di superficie, darò l’autorizzazione dopo aver preso cognizione della controversia”, è da intendere come diniego del rimedio processuale se la locazione della superficie sia stata stabilita per breve tempo. Il rimedio dunque spetterà a chi abbia avuto in affitto la superficie non per un tempo ristretto, e solo dopo la deliberazione positiva sulla rilevanza della controversia. Chi venda banchi di cambio o altre botteghe poste sul suolo pubblico, vende non il suolo, ma il diritto, essendo tali costruzioni pubbliche e spettando il relativo uso ai privati.

L’enfiteusiL’enfiteusi si contraddistingueva per la maggiore estensione possibile delle facoltà attenenti all’appartenenza proprietaria, al punto d’essere concepita come potere ampio, indiscusso e perpetuo la substantia della cosa e con il vincolo, invece, di pagare un canone al concedente, che rimaneva naturalmente titolare del bene. Esso ha coinvolto in modo non secondario le strutture economiche del feudalesimo medievale. S’è manifestato in quel contesto e anche nei tempi successivi con il conferimento al concessionario d’una titolarità dell’appartenenza denominata dominium utile

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(proprietà utile), in contrappunto al dominium directum (proprietà diretta) del concedente, sotto l’egida del potere eminente del sovrano.

L’enfiteusi romana nacque al di fuori di previsioni normative, subito dopo il modo di produzione schiavistico, e che solo nel V secolo molto inoltrato fu disciplinata a Costantinopoli in una costituzione di Zenone, che poi Giustiniano avrebbe recuperato e confermato.

È indiscutibile che il suo avvio fra il III e IV secolo d.C. sia stato agevolato innanzi tutto dalle pratiche amministrativo-finanziarie per l’imponente gestione dei beni facenti capo in molti modi all’imperatore. Se attraverso il fiscus e la relativa organizzazione si controllava la possessio vel ususfructus provinciale, diversamente accadeva per i fondi riconducibili alle ulteriori due masse del patrimonium Caesaris e della res privata. Mentre il fiscus continuava a fare la parte del leone come cassa imperiale per imposte, multe, rendite finanziarie e patrimoniali, il patrimonium Caesaris tendeva a coinvolgere i beni trasmissibili dal principe al successore nella carica imperiale e la res privata i beni personali del principe passibili di trapasso mortis causa ordinario.

I fundi patrimoniales e i fundi rei privatae furono assoggettati in un primo momento a due diversi tipi di concessione. Per gli uni si ricorse ad affitti a lungo termine, ricondotti man mano sotto la denominazione di emphyteusis. I secondi furono invece messi a frutto con affitto a tempo indeterminato, da cui il diverso nome di ius perpetuum.

Il mutamento di rotta si realizzò nel corso del V secolo d.C., che vide sorgere la confusione fra ius perpetuum e emphyteusis a vantaggio della seconda e l’aumento delle concessioni non più soltanto da parte dell’amministrazione imperiale. Fu il momento decisivo dell’ascesa del ius emphyteuticarium e la consacrazione ufficiale avvenne con la citata costituzione dell’imperatore Zanone.

Zanone abbandonò al suo destino il vecchio ricorso agli schemi negoziali della locazione, escluse la possibilità di usare l’altro contratto consensuale romano della compravendita e creò un nuovo contratto tipico costitutivo ormai del ius emphyteuticarium denominato contractus emphyteuticarius.

Il Codice giustinianeo stabilì che il diritto enfiteuticario non sia da riferire ai titoli negoziali della locazione o della compravendita, ma che tale terzo diritto sia costituito separatamente e indipendentemente da similitudine o associazione con i due richiamati contratti e abbia una delimitazione e definizione peculiare.

Nel modo di reinterpretare il messaggio zenoniano puranco a uso e consumo degli studenti del tempo, nelle Istituzioni. Utilizzò un secco quo iure utimur, dopo aver sintetizzato il pensiero zenoniano nella seguente maniera: è stata emanata la costituzione di Zenone, che ha attribuito al contratto d’enfiteusi una peculiare natura non inclinante verso la locazione né verso la compravendita, ma da sorreggere con suoi specifici patti: di modo che se vi sia stato qualche patto, esso sia da rispettare come se per sua natura fosse di tale contratto; se poi non vi sia stato patto sul pericolo della cosa, allora, in caso di deperimento totale, il pericolo sia da far ricadere sul padrone, se invece il deperimento sia stato parziale, del relativo danno sia fatto carico all’enfiteuta.

Giustiniano intervenne a difesa del messaggio zenoniano tenendo anche conto delle valutazioni nel frattempo emerse sul piano concreto e proponendo in sintesi i seguenti principi regolativi e/o integrativi finali:

la conferma del preesistente obbligo per l’enfiteuta di pagare il canone; la mancanza dell’ulteriore obbligo di migliorare il fondo, di cui è parola ancora nel nostro codice civile e

dovuto invece a sviluppi postromani della materia; il riconoscimento, del ius protimeseos a favore del concedente; il pagamento al padrone da parte dell’enfiteuta del laudemio (laudemium), somma a titolo di ristoro nel caso

di mancato esercizio del ius protimeseos in sede di trasferimento a terzi del diritto di superficie; la possibilità per il concedente della devoluzione ossia dell’estinzione del rapporto enfiteutico nell’ipotesi in

cui il concessionario non provvedesse per un certo numero di anni consecutivi al pagamento del canone.

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Capitolo VII – I vincoli giuridici

Il diritto soggettivo relativo è la pretesa alla cooperazione d’un terzo onde consentire al titolare il conseguimento d’un vantaggio a rilevanza patrimoniale. Il diritto assoluto, reale è il potere di pretendere l’astensione di tutti i terzi in ordine al godimento e all’utilizzazione di un bene. Tutti i diritti soggettivi sarebbero assoluti perché tutelabili contro la loro violazione da parte di chiunque.

Nel II secolo d.C., parlando delle res incorporales, Gaio non s’accontentava soltanto di considerare tali l’usufrutto e le servitù. Disinteressato alle divisioni e sottodivisioni attuali, il giurista coinvolgeva altresì le obbligazioni. Sono incorporali le obbligazioni in qualsiasi modo contratte. Né in materia interessa che quanto a noi dovuto in forza d’una certa obbligazione sia corporale, come il fondo, il schiavo, il danaro. Infatti lo stesso diritto di obbligazione è incorporale.

La ius obligationis indica il potere del creditore nei confronti del debitore, come accade con il nostro concetto di diritto soggettivo relativo, ma potere come elemento dotato d’incorporalità e perciò decisivo per giustificare l’incorporalità della cosa-obligatio. Con qualche pasticcio negli impieghi linguistici, la prospettiva gaiana era un’altra: il diritto attiene ad un’obbligazione intesa come situazione oggettiva ovvero come un tutto di cui il diritto in questione sia elemento necessario per il comune denominatore dell’incorporalità.

Anche l’idea d’obligatio del testo gaiano era estranea al nostro modo di vedere. Di tali modulazioni antiche tre sono le più note.

La prima di Gaio era a proposito dell’azione processuale concessa al creditore e caratterizzata da una decisa variazione di prospettiva rispetto al modello dell’obligatio come res incorporalis. La seconda era di Paolo in cui la sostanza delle obbligazioni non consiste nel fatto di renderci proprietari d’un bene o titolari d’una servitù, ma nel fatto di vincolare qualcuno a un dare, fare o prestare nei nostri confronti. La terza modulazione era giustinianea. L’obbligazione è un vincolo giuridico in forza del quale siamo necessariamente astretti ad effettuare una certa prestazione secondo le regole del nostro ordinamento.

Mentre per le forme d’appartenenza l’angolo visuale prescelto era quello di esserne titolari, nella materia in esame contava esser portatori d’un vicolo giuridico da adempiere, d’una sottoposizione ad un obbligo su cui fondare il soddisfacimento dell’interesse di controparte.

Molto dell’età arcaica è oscura e gran parte della ricostruzione non potrebbe non essere ipotetica. Bisogna guardare alla peculiarità storica romana, sfruttando al massimo i pochi resti documentali a nostra disposizione. E da tale punto di vista, la prima osservazione è che non s’avvertissero particolari problemi di scelta e che si procedesse in modo variegato in relazione ai singoli atti leciti e illeciti. Era questa l’humus fertile per la specificità degli atteggiamenti romani già a proposito degli atti illeciti.

Su tutta la materia dell’illiceità, furono nodali le XII tavole. Fra l’altro esse confermarono formalmente che il ladro colto in flagrante (fur manifestus) dovesse essere dato in schiavitù al derubato o, se già schiavo, fatto precipitare da una rupe, mentre per il ladro non colto in flagrante (fur nec manifestus) la sanzione andasse identificata nel versamento al derubato del doppio del valore della cosa al momento della sottrazione. Le XII tavole intervennero per ulteriori atti illeciti riguardanti ipotesi di lesioni fisiche. Nel caso, doveva valere il principio della sanzione pecuniaria prefissata normativamente nel quantum e da versare alla parte lesa, se si trattasse d’os fracutm (osso fratturato manu fustive) o d’altra offesa fisica più leggera (iniuria). Quanto invece al membrum ruptum, nel senso forse dell’inutilizzabilità dell’arto, esso appariva assoggettabile ad una pena pecuniaria concordata fra gli interessati e da versare all’offeso, nel presupposto tuttavia che il rifiuto dell’accordo da parte dell’offensore legittimasse il ricorso alla rivalsa fisica.

La complessità degli atteggiamenti non mutava a proposito degli atti leciti. Vincolo materiale significava subordinazione personale indipendente adesso da un proprio scorretto comportamento, non confondibile perciò con le ben diverse soluzioni per la materia degli atti illeciti e, in più, non riducibile pur esso a modalità univoche, dato che si configurò in varie combinazioni:

come sottoposizione fisica effettiva oppure potenziale; come garanzia, al contempo, per l’adempimento d’una prestazione altrui oppure propria.

Il primo può esser tratto sempre dalla fattispecie dell’accordo tra offensore e offeso diritto ad evitare il taglione.

Il nexum è la sottoposizione materiale d’un debitore libero al suo creditore fino a quando il dovuto non fosse estinto. Essendo imperniato sull’uso del bronzo e della bilancia, il nexum doveva presupporre l’esistenza della monetazione. Riguardo alla caratterizzazione tecnico-giuridica del nexum, un’effettiva attenzione al tema si ebbe solo

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posteriormente alla lex Poetelia: più sul piano storiografico che non su quello dell’attualità, dunque, e ad opera di studiosi che fra il II-I secolo a.C. Il profilo di maggior rilievo è che le loro riflessioni insistessero molto sul rapporto fra nexum e atto mancipatorio, ma per altro verso manifestassero aperti dissensi. Sul punto, la testimonianza principale proviene da Varrone: il grande erudito, che nel de lingua latina attribuiva al giurista Manilio l’idea generalista che il nexum ricorresse ovunque s’agisse con il bronzo e la bilancia, ivi ricomprendendo anche i casi di mancipatio come mezzo d’acquisto della proprietà civilistica.

I frutti maturarono negli ultimi tempi della repubblica, per il concorso d’una serie di condizioni riguardanti sia gli atti leciti, sia quelli illeciti. Iniziando dai secondi, fu in quel momento storico che le residue afflizioni corporali da noi rintracciate ancora nelle XII tavole a proposito del furtum e del membrum ruptum sparirono completamente, a favore pure nel caso di sanzioni pecuniarie. Anche per gli atti leciti diversi dal nexum si prese atto che l’impegno per un debito altrui o proprio dovesse ormai prescindere dalla subordinazione personale. È plausibile che con gli inizi del modo di produzione schiavistico, si sarebbe consolidata l’ulteriore variazione di concepire la garanzia in esame sul piano patrimoniale, seppur sempre in riferimento a fatti non propri.

La possibilità di rispondere con il patrimonio mandò in soffitta le pene corporali e l’assoggettamento personale, fosse esso effettivo o potenziale. Era il concetto d’un vincolo modellato sotto il duplice profilo d’una prestazione necessaria e d’una altrettanto necessaria e subordinata sottoposizione dei propri averi alla disponibilità di controparte se la prestazione rimanesse insoddisfatta.

Era il concetto che appariva più consono a due coevi fenomeni. Il primo, che la ricordata definitiva trasformazione delle sanzioni per l’offensore in pene pecuniarie spinse a fissare un numero chiuso degli atti illeciti: delicta per distinguerli dai crimina. In quel numero chiuso rientrarono così le ipotesi di lesione fisica e di furtum, la vi bone rapta e il damnum iniuria datum.

La conclusione fu che sia il pagamento delle pene pecuniarie per i delitti, sia la prestazione di dare, fare… propria dei contratti venissero considerati oggetto della nuova obligatio.

Atti giustificativi dei vincoli giuridiciLa disciplina della illiceità subì ulteriori varianti. Vi fu il recupero di alcuni interventi pretorili diretti fin dallo scorcio della repubblica a sanzionare patrimonialmente atti illeciti estranei al numero chiuso e rilevanti per il solo isu honorarium. Furono focalizzate meglio le valenze tecniche dell’obligatio come vincolo ideale.

Crebbe anche e soprattutto una specifica attenzione ai nessi dell’obligatio con gli atti che la giustificassero. Non ci si accontentò più fondarne genericamente l’esistenza su un atto lecito o illecito: se si vuole, sulla nascita ex contractu o ex delicto, come sembrerebbe essere stato adombrato già nel I secolo a.C. Si ebbero invece approfondimenti in questo senso, ma persino ripensamenti negli scritti del medesimo giurista. Altri giuristi intervennero con proposte differenti, ma meno fortunate, prima che Giustiniano rimescolasse le carte nel tardo antico.

Nelle Istituzioni Gaio proponeva agli studenti d’inquadrare l’obligatio facendo richiamo ai suoi atti giustificativi e sfruttando una particolare versione dello schema dialettico-retorico fondato sulla divisione d’un’entità concettuale in ulteriori entità ad essa logicamente riconducibili e fra loro non disomogenee. La loro divisione prima si realizza in due specie: ogni obbligazione nasce o da contratto o da delitto ossia si distingue o in obbligazioni da contratto o in obbligazione da delitto. Successivamente si rende conto delle difficoltà di ricorrere a tale classificazione nello specifico caso dell’obligatio a restituire una somma di denaro o altro versato in adempimento d’una supposta obligatio precedente.

Al posto della loro distinzione in contractus e delictum pose l’altra in cui questi due elementi venivano ormai integrati da un terzo indicante residuali atti giustificativi del vincolo giuridico, ciò lo chiamò varae causarum figurae facendovi rientrare la indebiti solutio.

Le obbligazioni nascono o da contratto o da delitto o da vari altri tipi di atti rilevanti per qualche propria giustificazione giuridica. Molto simile all’art. 1173 del nostro codice civile la quale dice che le obbligazione derivano da contratto, da fatto illecito o da ogni altri atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico.

Per completezza, meritano un cenno due ulteriori classificazioni. L’una era di Ulpiano, che muoveva dall’angolo visuale dei rimedi processuali, distinguendoli ex contractus quando qualcuno contraesse con un altro a fine di lucro, ex facto quando ricorressero ipotesi di delitto e in factum nel caso d’una azione del patrono contro il liberto che agisse nei suoi confronti in contrasto con le previsioni edittali. L’altra classificazione invece risaliva al più tardo Modestino, che in un testo del Digesto giustinianeo parrebbe aver raggruppato varie fonti d’obligatio senza un effettivo coordinamento intrinseco. Siamo obbligati o mediante consegna di una cosa o mediante la pronunzia di parole o attraverso l’utilizzo contestuale di questi due modi o per legge o per diritto onorario o per necessità o per peccato.

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In concreto, articoleremo la nostra disamina sulla base del seguente elenco: le fattispecie contrattuali; gli altri atti leciti bilaterali; gli altri atti leciti unilaterali; i delitti; gli altri atti illeciti.

LE FATTISPECIE CONTRATTUALI La nascita del contractus in senso tecnico-giuridico è collocata più nel I che nel II secolo a.C. e che un indizio in al senso sia nell’uso fattone dal giurista Servio Sulpicio Rufo per descrivere i rituali di fidanzamento legati alla sponsio come negozio verbale. È preziosa la testimonianza di Aulo Gellio nel tardo principato. Servio Sulpicio scrisse che in quella parte d’Italia denominata Lazio i fidanzamenti solevano farsi secondo questo costume e questo diritto: chi desiderava prender moglie, richiedeva a colui dal quale doveva prenderla, una formale promessa che gli sarebbe stata in matrimonio. E chi intendeva prenderla in moglie faceva un’analoga promessa. Quel contratto di reciproche promesse si chiamava sponsalia.

Il passaggio concettuale di contractus dal significato di conclusione dell’atto concluso non s’era completato, poi stabilizzatasi, sicuramente immanente nella quadripartizione gaiano-giustinianea re verbis litteris consensu e ancor oggi ricorrente del termine contratto come atto dotato normalmente di bilateralità strutturale ovvero modellato sulla partecipazione ad esso di più persone.

I contratti realiA parte l’indebiti solutio le figure desumibile dalle Institutiones e Res cottidianae del giurista sono, la più importante, il mutuo che differisce dalle altre, comodato, deposito, pegno, perché la datio rei produceva nell’ipotesi una peculiare qualità del rapporto con il bene ricevuto dietro vincolo di restituzione. Anche quando con il modo di produzione di schiavistico prevalse la configurazione del mutuo come prestito di danaro, esso continuò a riguardare soltanto entità patrimoniali fungibili. Nelle ulteriori tre ipotesi oggetto dell’obbligazione potevano essere beni infungibili ovvero insostituibili.

Il mutuo differiva dalle rimanenti fattispecie per una minore pregnanza del momento volitivo, sottostante pur sempre alla datio rei. Inoltre, v’era la gratuità del mutuo: probabilmente dovuta anch’essa ai residuali impulsi del passato, estesa man mano alle ulteriori fattispecie in discussione, ma realizzata secondo criteri non identici nei singoli casi. Nel mutuo divenne ben presto più teorica che effettiva. Fermo restandone il riconoscimento formale, si aggirarono gli intuibili ostacoli da essa derivanti per le esigenze economiche e finanziarie del tempo con la legittimazione al pagamento di interessi a favore del creditore.

A Roma s’utilizzava per vincolare al loro pagamento una stipulatio aggiuntiva, se non sostitutiva del mutuo, con presumibili raffinati distinguo a seconda del tipo d’investimento creditorio e al punto di far oggetto di essa i soli interessi oppure questi ultimi insieme con l’ammontare del prestito. Nella parte centrale dell’esperienza romana si sarebbe avuta una variazione di tendenza, fissando definitivamente il saggio ufficiale degli interessi al 12 % annuo del capitale e individuando in tale percentuale quanto di regola spettante al creditore in mancanza di previsione contrattuale.

Il pensiero di Paolo e Giustiniano appare quasi una fotografia dei rinnovati nessi fra privilegi sociali e problemi dell’usura nel VI secolo d.C.: dal punto di vista degli investimenti finanziari e in una zona geografica che conservava tracce sensibili di attività commerciale. Si trattava della pecunia traiecticia presente nel bacino mediterraneo riutilizzato nel mondo romano dall’epoca delle guerre puniche in poi: nel senso che denaro prestato ad un uomo d’affari o al comandante d’una nave per consentirgli operazioni commerciali al di là del mare dovesse essere restituito al creditore, con i relativi interessi, solo se la traversata si fosse compiuta senza naufragio della nave.

Il contratto reale di comodato fu inquadrato nell’ambito del ius civile dopo un riconoscimento sul piano soltanto del ius honorarium non anteriore al II secolo a.C. Per quanto ne concerne, una spia importante sembra trovarsi nel ricorso ancora per tutta l’età repubblicana e oltre alla cd. fiducia cum amico, consistente nell’effettuare la mancipatio o l’in iure cessio di propri beni ad una persona affinché li avesse a disposizione, salvo la riconsegna nel termine stabilito da un accordo fra le parte o su richiesta del cedente. La peculiarità del comodato non sfuggì ai giuristi romani, specie d’età severiana e con reazioni molto interessanti per il tentativo, talora, di sfruttare atteggiamenti filosofici del passato. Paolo la reinterpretò e sviluppò a proposito dell’attività giuridica intrisa, essa stessa, di spontanea liberalità. E il risultato fu che come invero il dare in comodato appartiene alla volontà e alla liberalità più che alla necessità, così

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lo stabilire le regole e il fine del comodato è compito di chi abbia posto in essere il beneficio. Una volta però fatto ciò, togliere l’uso della cosa data in comodato.

Il criterio difeso da Paolo era piuttosto che la giuridizzazione della gratuita liberalità comportasse la coattività patrimoniale propria dei vincula iuris. Furono individuate delle tipologie di responsabilità del comodato non rispettoso delle indicazioni del comodante. Si parlò di furtum usus come sottrazione sostanziale per il pessimo trattamento riservato alla cosa. Si previde il risarcimento patrimoniale dei danni arrecati alla cosa per dolo o colpa. La difesa processuale del comodatario non si limitò ad una sostanziale richiesta di risarcimento danni, ma ebbe solo piuttosto tardi la possibilità d’essere soddisfatta attraverso un rimedio processuale di rango civilistico accanto a quello precedente di tipo pretorio. Il modo di calibrare le posizioni del comodante e del comodatario non sarebbe stato messo in discussione neppure da Giustiniano. Egli avrebbe introdotto qualche correttivo, parlando di necessaria exacta diligentia custodiendae rei piuttosto che di custodia a carico del comodatario.

La storia del contratto reale di deposito non presenta molti tratti di maggiore complessità. Già le XII tavole avrebbero previsto un rimedio processuale contro il ricevente per mancata restituzione del bene affidatogli. Gaio avrebbe sottolineato che si ricorresse alla relativa mancipatio o in iure cessio soprattutto con il fine di rendere più sicure e meglio custodite le proprie cose presso il fiduciario, e con la sicurezza inoltre di poterle riottenere anche utilizzando senza limiti la cd. usureceptio, una particolare forma d’usucapione fondata sul loro ritorno nella materiale disponibilità del concedente. Questo impiego della fiducia cum amico sarebbe continuato posteriormente all’età arcaica, fermo restando sempre che la custodia dei beni postulasse automaticamente il loro acquisto in proprietà da parte del fiduciario. L’emersione del contratto di deposito può essere stata agevolata proprio dall’esigenza di superare il ricorso alla mancipatio o all’in iure cessio, così indispensabile invece per la fiducia cum amico e i relativi automatismi circa i nessi fra custodia e proprietà.

Per quanto riguarda il contratto reale di pegno, l’età arcaica non ha dato apporti significativi. La tutela degli interessi del creditore prescindeva da forme strutturate di garanzie reali. È plausibile che fin dall’inizio del modo di produzione schiavistico, prende piede l’utilizzo della fiducia già da noi incontrata a proposito del comodato e del deposito. Per distinguerla da altri impieghi, Gaio l’avrebbe chiamata ancora fiducia cum creditore pignoris iure.

Nelle fonti si parla di fiducia contracta, così come è possibile in astratto che, in una parte a noi non pervenuta delle Res cottidianae, Gaio nominasse la fiducia accanto ai contratti di mutuo, deposito e pegno. Esisteva l’ostacolo che la mancipatio, l’in iure cessio come la fiducia avessero efficacia erale e non obbligatoria, all’opposto dei contratti.

Considerando la risalenza temporale dei relativi interventi di ius honorarium, possiamo pensare ad una stabilizzazione del contratto di pegno nel corso dell’ultima repubblica. Era la compresenza di rapporti intersoggettivi a giustificare la disciplina del contratto di pegno. Si consolidò il principio che fra le parte interessate si potessero pattuire con una specifica clausola negoziale le modalità d’acquisizione in proprietà del bene ricevuto in garanzia. Con la previsione d’un pactum contestuale al contratto di pegno e diretto, invece, si autorizzò il creditore alla vendita della cosa, pur non essendone egli proprietario, con il vincolo però di consegnare a chi gliel’avesse data in garanzia quanto rimanesse del prezzo dopo il soddisfacimento dei suoi interessi patrimoniali.

Esistevano altre sfaccettature delle facoltà del creditore sul bene. Egli aveva a disposizione il ius sequalae e il ius praelationis. A conclusione dell’analisi, però, è più importante insistere su un tema molto delicato: la differenziazione del contratto di pegno dalla cd. conventio pignoris come accordo che permetteva al creditore d’avere la cosa in garanzia solo a seguito dell’inadempimento del debito e, quindi, senza la sua acquisizione fin dall’inizio del rapporto negoziale, come invece avveniva nel contratto di pegno. È necessario considerare che sia il contratto di pegno, sia la convenzione di pegno potessero avere indifferentemente ad oggetto cose mobili e/o immobili, sempre sul presupposto che soltanto nel primo caso tali cose entrassero nell’immediata disponibilità materiale del creditore.

Se il contratto dava vita ad una obbligazione del creditore verso il garante avente ad oggetto la restituzione della cosa, gli accordi a loro volta regolamentavano il rapporto del creditore con la cosa ricevuta in garanzia: dall’eventuale previsione della lex commissoria alla facoltà di vendere in caso d’inadempimento, alla cd. antichrésis. Accanto ai rimedi riguardanti la restituzione del bene a seguito dell’adempimento del debitum, ne furono previsti altri concernenti più da vicino l’operatività d’ambedue questi tipi di garanzia. Dopo l’avvio con più deboli interventi, quello decisivo è ricordato con il nome di actio Serviana e fu finalizzato a conseguire o recuperare la disponibilità della cosa in garanzia nei confronti di chiunque, con riferimento progressivo a tutte le possibili fattispecie di pignus conventum e, in via estensiva, di pignus datum.

I contratti verbaliI contratti verbali erano caratterizzati della pronunzia di parole e il loro elenco coinvolgeva alcune fattispecie piuttosto problematiche sotto diversi profili e soprattutto la fattispecie più importante e famosa della

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sponsio/stipulatio. Ad esse possiamo accostare la promissio dotis riguardante sempre la costituzione di dote. La dotis dictio sparì abbastanza presto dall’orizzonte giuridico. Il negozio comportava la presenza di due persone: da un lato, la donna o il suo paterfamilias o un suo debitore come parte promittente i beni dotali e, il fidanzato, se non il marito o il suo avente potestà come controparte che diveniva creditrice dei beni. L’unica spia d’una preferenza per la contrattualità della dotis dictio pare rintracciabile in una tarda operetta, l’Epitome Gai, che avrebbe parafrasato affermazioni di Gaio a noi non pervenute per cui esistono obbligazioni che possono essere contratte senza alcuna precedente interrogazione, ossia al fine che la donna offra verbalmente la dote e al fidanzato in veste di futura moglie o già al marito. Quanto poi alla promissio dotis, essa non pone il problema della sua contrattualità, ma l’altro della sua specificità e peculiarità come contratto verbale.

L’esigenza di nuovi schemi fondati sull’impiego di un verbo diverso da spondere iniziò ad emergere dalla media repubblica. E il suo sviluppo costituì un fenomeno pieno d’implicazioni, così sintetizzabili:

progressivo consapevole superamento della sponsio come unico mezzo per creare vincoli obbligatori e solo per cittadini romani;

possibilità di usare i nuovi schemi anche per vincoli obbligatori coinvolgenti i non cittadini romani, fermo restando sempre l’uso del verbo spondere alle precedente condizioni;

emersione del sostantivo stipulatio e affini per indicare in modo unitario il diverso assetto; migliore adattamento, a conferma, d’una così importante negozialità verbalis alle esigenze dell’età

commerciale.

Nella prima parte del principato Sesto Pedio aveva fatto ricorso al criterio dell’habere in se il consenso per caratterizzare i contratti non consensuali e, soprattutto, la stipulatio. Sarebbe bastato però arrivare agli ultimi decenni del II secolo d.C. perché Venuleio Saturnino spostasse un po’ l’angolo visuale parlando della stipulazione come atto perfezionato dalla concorde volontà delle parti. Poi Paolo avrebbe scritto che l’atto traesse validità dall’esistenza del consenso, mentre Ulpiano sarebbe ripartito da Sesto Pedio per sottolineare che la stipulazione, in sé strutturata sulle parole, fosse invalida in mancanza del consenso. Altro punto lasciato in sospeso è relativo alla forma della stipulatio. Mi riferisco al caso del rinvio, nell’interrogazione dell’atto, ad un documento scritto contenente la fotografia più o meno completa dell’assetto d’interessi stabilito dalle parti. Si trattava della cd. stipulazione per relazione. Se presupponiamo che nella fattispecie concreta la controversia giudiziale riguardasse l’inadempimento del debitore Tizio nei confronti del creditore Caio a restituire la somma di cento a suo tempo prestata, il testo della formula che in mancanza di specifiche formali contestazioni di Tizio il pretore avrebbe dato ai due contendenti, sarebbe stato questo: “Sempronio sia il giudice. Se risulta che Tizio debba dare cento a Caio, il giudice Sempronio condanni Caio a pagare cento; se non risulta, lo assolva”.

Nella fase istruttoria il giudice non avrebbe non potuto tener conto del tenore dell’interrogazione rivolta da Caio a Tizio durante la stipulatio fra loro intercorsa. Se essa fosse stata semplice e lineare, il giudice si sarebbe dovuto limitate alla verifica della regolarità della stipulatio e del mancato adempimento. La costruzione astratta della stipulatio gli avrebbe impedito d’andare molto oltre. Dato il tipo d’ordine datogli dal pretore con la formula, egli non avrebbe potuto anche qui valutare di sua iniziativa il complessivo rapporto sostanziale fra le parti e la loro reciproca correttezza di comportamento.

Dove però la stipulatio poteva mostrare tutta la potenzialità e la forza, è nei tipi d’impiego. Per un orientamento di massima, s’arrivava ad un uso del contratto decisamente superiore alla mancipatio e non inferiore a 30/40 fattispecie. Mi limito a ricordare la stipulatio poenae e la stipulatio in funzione di garanzia per un vincolo giuridico altrui. La stipulatio poenae aveva fini di guarentigia per gli interessi patrimoniali della parte interrogante. Poteva realizzarsi secondo due modulazioni:

se non m’avrai dato la schiava Gaia, prometti che mi sarà dato da te cento? prometti che mi sarà data da te la schiava Gaia e che, se non l’avrai data, mi sarà versato da te cento?

Nella prima ipotesi, la prestazione contrattuale era unica: pagare la somma, ove si realizzasse la condizione sospensiva negativa del trasferimento della schiava. Nella seconda ipotesi le prestazioni erano due: nel senso che il promittente fosse vincolato ad adempiere scegliendo liberamente fra la consegna del bene o il pagamento della penale. La duttilità della stipulatio poenae risulta confermata dalla circostanza che il promittente potesse assumere l’impegno al pagamento della somma perfino quando fosse un terzo a non consegnare il bene indicato nell’interrogazione. Bastava, riferirsi a questo terzo nell’iniziale infinito passivo dari della seconda modulazione e interpretare consequenzialmente il successivo dederis, per raggiungere il risultato.

La stipulatio in funzione di garanzia per l’adempimento d’un debito altrui va delimitata da molti punti di vista. Tuttora si parla di fideiussione e fideiussore, sulla base d’una reinterpretazione delle forme verbali usate nell’antica domanda caratterizzante l’atto “stabilisci in fede tua che sia altrettanto?. E la conferma di ciò è data dall’art. 1936 del c.c.: “È

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fideiussore colui che, obbligandosi personalmente verso il creditore, garantisce l’adempimento di un’obbligazione altrui”. Già così la stipulatio in esame si staglia più nettamente della stipulatio poenae, di cui il codice civile conserva tracce meno nette, nell’art. 1382 e nell’art. 1384. La stipulatio in parola deve essere distinta dalla stipulatio poenae per la ben diversa sua capacità di creare un vincolo del promittente a sostegno d’un ulteriore vincolo facente capo ad un estraneo e nato con altra persona.

Nella stipulatio oggetto della garanzia era un vincolo giuridico a soddisfare lesioni del genere, così come provocate però da un debitore terzo inadempiente al vincolo giuridico nei confronti del proprio creditore. I giuristi romani distinguevano le due ipotesi, parlando:

di adstipulatio a proposito del nuovo creditore che s’aggiungesse a quello esistente in forza della domanda al debitore: “prometti di dare la stessa cosa anche a me?;

di adpromissio per la stipulatio che il creditore faceva con chi dovesse garantire l’adempimento del suo debitore.

La stipulatio di garanzia si poteva realizzare attraverso le tre diverse forme della sponsio, della fidepromissio o della fideiussio.

La sponsio era la più antica ed aveva alle spalle la vicenda della sua trasformazione da giuramento ad atto negoziale: nel caso la formulazione diveniva “prometti che venga da te data la stessa cosa? prometto”. L’atto rimaneva utilizzabile dai soli cittadini romani. La fidepromissio era più recente. S’era venuta delineando almeno dal III secolo a.C. con la diversa formulazione “ti impegni ad altrettanto in fede? mi impegno”. Aveva lo scopo di legittimare pure i rapporti di garanzia fra romani e stranieri o fra stranieri. La fideiussio era l’ultima arrivata, nel I secolo inoltrato a.C., e ha esautorato le altre due nel tardo antico. Si caratterizzava per la specifica accennata formulazione “idem fide tua esse iubes? fideiubeo”. E presentava la peculiarità di poter essere utilizzata per garantire qualsiasi obbligazione altrui, sorta da contratto reale, verbale, letterale o consensuale, e persino quella del servus o del filiusfamilias.

I contratti letteraliTipicamente romani, come i nomina transcripticia o expensilationes, nella duplice versione a re in personam e a persona in personam, oppure peregrini come le syngraphae e i chyrografa, i negozi fondati sulla scrittura sono stati già oggetto di prima descrizione e giustificazione storica.

Iniziando dai nomina transcripticia, si può precisare che non nacquero in tempi molto remoti. Il loro acme si collocò fra la tarda repubblica e il primo principato, mentre l’uso non andò oltre il modo di produzione schiavistico. A livello dottrinale e in pieno principato, ne fu tentata una delineazione tecnica in contrappunto ai nomina arcaria. Stando alle Istituzioni di Gaio anche tali nomina comportavano annotazioni su registri contabili ma con caratteri diversi dai nomini transcripticia.

Quanto invece ai chirografi e alle singrafi, la prima precisazione rispetto alle notizie date deve riguardare la loro peregrinità, in riferimento sia all’origine, sia all’uso. Dall’editto di Caracalla in poi, tali atti negoziali coinvolsero normalmente cittadini romani. L’origine e l’uso dei chirografi e delle singrafi presentò una modulazione storica indipendente da quella dei nomina transcripticia, i quali non furono mai ben visti come atti disponibili anche per i peregrini. Se il proculiano Nerva padre fu decisamente conservatore, i sabiniani Sabino e Cassio Longino ammisero solo il ricorso alla transcriptio a re in personam. La loro distinzione non è ben chiarita da Gaio, che non va oltre una loro descrizione in base al criterio che qualcuno scrivesse di dovere oppure di dare in futuro qualcosa, indipendentemente dal ricorso ad una stipulazione.

I contratti consensualiCon i contratti consensuali si torna nella maniera più diretta ed immediata ai discorsi sulla portata della volontà negli atti giuridici romani rispetto al panvolontarismo moderno.

L’emptio venditio L’emptio venditio è un accordo vincolante nella quale il venditore si obbliga a trasferire il bene e il compratore a pagare il prezzo. Per addurre qualche esempio d’opinioni tuttora avanzata o discusse, s’è ipotizzato che il contratto di compravendita fosse sorto dalla mancipatio: nel senso che una presunta arcaica costruzione di essa come atto d’apprensione del bene da parte dell’acquirente su accordo fra le parti sarebbe stata successivamente rettificata, a vantaggio della nuova valutazione come accordo svincolato dall’effetto reale e come punto di riferimento per l’ulteriore processo storico che avrebbe condotto all’emptio venditio consensuale e obbligatoria negli ultimi secoli della repubblica.

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Altri studiosi hanno insistito invece sul ruolo della sponsio/stipulatio: nel senso ora che questo negozio sarebbe stato usato per vincolare con reciproche interrogazioni e risposte le parti interessate allo scambio di cosa contro prezzo. Altri studiosi hanno insistito sull’importanza dei traffici commerciali e ipotizzato che l’emptio venditio sarebbe sorta dalle prassi relative ai rapporti fra romani e peregrini o fra peregrini. Qui avrebbe dominato il principio della reciproca buona fede e lealtà. Il meccanismo si sarebbe identificato nel costruire formule-tipo edittali proprio sul principio della buona fede sia per le pretese del venditore nei confronti del compratore, sia per quelle del compratore verso il venditore.

Quanto poi alla storia e alla peculiarità di questo contratto, la prima considerazione riguarda il suo distacco da altre forme negoziali peregrine in materia di scambio di cosa contro prezzo, che non ebbero buona accoglienza fra i giuristi del modo di produzione schiavistico e trovarono spazio solo nel tardo antico, precipuamente grazie all’ars combinatoria di Giustiniano.

L’idea romana dell’emptio venditio come accordo obbligante il venditore a trasferire la cosa e il compratore a pagare il prezzo era rimpiazzata dalla diversa idea che l’accordo dovesse essere necessariamente accompagnato dal pagamento del prezzo per produrre i suoi effetti traslativi. Un’idea non escludente l’altra, secondo la quale il prezzo potesse essere sostituito da un anticipo (arra) a garanzia del suo completo versamento. Era la cd. vendita arrale critica molto da Gaio.

Fra il IV e il V secolo d.C., grazie all’intervento conclusivo di Giustiniano si ammise ufficialmente la vendita arrale accanto all’emptio venditio consensuale e obbligatoria. La scelta era netta nelle Istituzioni. Da un lato, si recuperava quasi alla lettera quanto sostenuto da Gaio (“la compravendita si contrae non appena ci si accordi sul prezzo. Quanto eventualmente dato a titolo di arra ha valore solo probatorio della compravendita. Ma ciò invero è necessario tener fermo per le sole vendite poste in essere senza il ricorso alla scrittura: infatti nulla abbiamo noi innovato per questo genere di vendite), da un altro lato, si legittimava la differente compravendita scritta con effetti reali (“negli atti che sono redatti per iscritto, abbiamo stabilito che la compravendita non sia altrimenti perfezionata, se non anche i documenti dell’acquisto siano stati redatti o di mano propria dei contraenti o scritti da terzi, ma comunque firmai dai contraenti”), da un altro lato, invece si legittimava e s’adattava in via definitiva la regolamentazione della vendita arrale (“sia che la vendita sia stata concordata in modo scritto, sia che tanto sia avvenuto in modo orale, chi ricusi d’adempiere l’accordo perde quanto abbia dato, se acquirente, mentre deve restituire il doppio, se venditore, anche se nulla sia stato precisato sulla concreta disciplina delle arre”).

Il ruolo del prezzo fu assoggettato ad ampio dibattito dottrinale. Si discusse per buona parte del principato se dovesse essere necessariamente in danaro o meno, in stretto nesso con il problema più ampio se comportasse uno snaturamento dell’emptio venditio ammettere anche la possibilità d’uno scambio di una cosa contro cosa con la cd. permutatio.

La sua obbligazione riguardava essenzialmente il pagamento o, se si preferisce, l’attribuzione in proprietà del prezzo. Sul piano dottrinale del profilo risarcitorio è stata riconosciuta dall’età repubblicana quando Sesto Elio Peto Cato e Caio Livio Druso, affermarono che il compratore dovesse rimborsare al venditore le spese per il vitto d’uno schiavo acquistato, ove avesse frapposto ostacoli al trasferimento del medesimo. Invece, Paolo, alla fine del principato, disse che il compratore risponde processualmente, se non abbia pagato al venditore il prezzo; quanto al venditore basta l’obbligarsi a garantire per l’evizione della cosa, il trasferire la disponibilità della cosa e il evitare comportamenti dolosi. Siamo ora in presenza d’un fascio di vincoli giuridici: dal principale, il conferimento dell’utilizzabilità del bene, ai secondari, ma coordinati, il proteggere il compratore da eventuali iniziative processuali d’estranei dirette a portargli via il bene acquistato.

L’indubbia maggiore importanza e complessità, invece, del possessionem tradere e del se obligare ob evictionem traspare sotto molteplici aspetti. Il possessionem tradere non solo costituiva il vincolo per eccellenza del venditore, ma sollecitava pure una particolare attenzione dottrinale sul modo di concepirlo. Lo s’identificava nel trasferire il possesso della cosa all’acquirente. Sicuramente più contorta era la disciplina del se obligare ob evictionem. Tale se obligare dipende dall’accordo contrattuale, ma ha bisogno per realizzarsi concretamente d’una stipulatio specifica fra compratore e venditore, ove l’adempimento del vincolo principale al tradere possessionem si fosse limitato a trasferire la disponibilità materiale della cosa. Là dove invece restava fermo che, quando si fosse proceduto anche al trasferimento della proprietà, d’una res mancipi, mediante mancipatio, la responsabilità per evizione del venditore non potesse non essere automatica.

Il ricorso al contratto verbale coinvolse nei limiti appena detti le res mancipi, ma in modo più ampio, se non totalizzante, le nec mancipi. E per tali vie si giunse ad ulteriori specificazioni. Da una cd. stipulatio habere licere come promessa del venditore a rispondere per il venire meno del possesso in capo al compratore, si distinse e prese il

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sopravvento la cd. stipulatio duplae costruita sul diverso criterio che il venditore si vincolasse a pagare il doppio del prezzo al compratore ove s’avverasse la spoliazione dal possesso, a parte sempre la possibilità d’utilizzare parametri di calcolo differenti, secondo gli usi e le consuetudini locali, per determinare quando dovuto in forza della garanzia prestata.

La locatio conductioL’espressione locatio conductio veniva usata per varie fattispecie costruite tutte sull’idea del contratto consensuale con effetti obbligatori reciproci, ma formalmente distinte e separate solo dopo l’esperienza antica in tre configurazioni:

la locatio rei o locazione di cosa, con una parte vincolata a dare in godimento un proprio bene alla controparte vincolata invece a pagare un corrispettivo chiamato merces;

la locatio operarum o locazione di opere, con il locatore obbligato a mettere la sua forza lavorativa a disposizione del conduttore, obbligato di contro a versare la merces;

la locatio operis o locazione per opere, con il conduttore obbligato di norma a svolgere una determinata attività su un bene messogli a disposizione del locatore, vincolato a sua volta a dare la merces.

Fra su tali basi e per le eventuali connesse controversie che il pretore inseriva nell’editto i suoi programmi di giudizio, semplificando molto in nome del locare e del conducere, pur nel variare delle fattispecie. Per tutti i casi di lamentela del locatore, infatti, il testo edittale era: “C. Aquilio sia giudice. Poiché Tizio ha locato il fondo a Caio, con riferimento a quanto, in forza di tale rapporto, Caio debba dare o fare in favore di Tizio, secondo buona fede, il giudice C. Aquilio condanni Caio nei confronti di Tizio; se non risulta, lo assolva”. Per l’ipotesi delle lamentele del conduttore, entrava in giuoco la formulazione: “C. Aquilio sia giudice. Poiché Caio ha avuto in conduzione da Tizio il fondo, con riferimento a quanto, in forza di tale rapporto, Tizio debba dare o fare in favore di Caio, secondo buona fede, il giudice C. Aquilio condanni Tizio nei confronti di Caio; se non risulta, lo assolva”.

La sola conclusione possibile per l’esperienza giuridica romana è che l’espressione locatio conductio fosse uno strumento unificante più sul piano linguistico che sostanziale rispetto alle fattispecie che sarebbero state incanalate e divise nelle tre ipotesi della locatio rei, della locatio operarum e della locatio operis.

Per quanto concerne la locatio rei il conduttore non ha rimedi processuali diretti nei confronti dei terzi che gli limitassero o sottraessero la disponibilità della cosa. Egli poteva solo rivolgersi al locatore perché provvedesse processualmente contro i terzi o gli cedesse gli strumenti processuali di una spettanza. Ma nel caso il locatore alienasse a terzi il bene locato prima della scadenza contrattuale, il conduttore poteva agire nei suoi confronti per lo svantaggio patrimoniale derivantegli dall’anticipata fine del godimento della casa.

Per quanto riguarda la locatio operarum rimangono dubbi sulla delimitazione della responsabilità del locatore in ordine alla prestazione delle sue opere. Le considerazioni sulla tematica inquadrata successivamente come locatio operis si sviluppa con ogni probabilità dal III/II secolo a.C. Presenta anch’essa le sue complicanze tecniche, visto che coinvolgeva qualsiasi accordo di tipo obbligatorio riguardante un facere del conduttore dietro versamento della merces da parte del locatore. S’è ipotizzato che in epoca più risalente la tipologia contrattuale in esame fosse quella dell’affidamento d’una cosa propria al conduttore perché la trasformasse e la riconsegnasse al titolare, dietro pagamento del compenso.

Si ammise che la responsabilità del conduttore fosse per dolo o colpa, ma con attenzione anche all’imperizia da lui manifestata, specie quando il profilo fosse stato considerato in sede contrattuale. La peritia del conduttore poteva essere discriminante nelle successioni mortis causa.

La societasQuesto contratto è stato datato all’epoca del modo di produzione schiavistico e descritto come produttivo, per le parti, d’obbligazioni a compiere attività di varia natura riguardanti la gestione integrata dei loro patrimoni oppure lo svolgimento di affari, nel comune interesse e con la ripartizione delle perdite e degli utili.

Le origini della societas non appaiono riconducibili soltanto ai traffici fra romani e peregrini o fra peregrini e, poi fra romani. Sotto certi aspetti sembra entrasse in giuoco anche il condizionamento dell’antico consortium ercto non cito fra gli eredi d’un paterfamilias: nel senso che soprattutto i contratti finalizzati alla gestione integrata dei patrimoni sono stati una sorta di reinterpretazione e manipolazione del consortium, accelerandone la fine e superandone le necessarie implicazioni parentali. Pare lecito indurlo:

dai cenni di Gaio al consortium come residuato storico, a fronte della contemporanea prassi di porre in essere società di conferimenti patrimoniali (“siamo soliti porre in essere la società di tutti i beni. Una volta con la morte del pater familias esisteva, fra i suoi eredi, una società legittima e naturale, che era chiamata ercto non cito, ovvero con la proprietà non divisa”);

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dalle conferme di Paolo sulla societas omnium bonorum come qualcosa tuttora vivo e vegeto (“nella società di tutti i beni tutte le cose dei soci sono messe a disposizione stabilmente”).

Dal consortium ercto non cito sarebbe pervenuto alla societas omnium bonorum l’elemento strutturale della comune gestione di beni.

La societas omnium bonorum s’individuava quando due o più persone s’obbligassero contrattualmente a mettere insieme tutti i loro beni per impiegarli in operazioni prefissate e per ripartire profitti e predite. La maggiore linearità della societas unius negotiationis derivava dall’esser essa un contratto riguardante tutte le ipotesi non riconducibili alla societas omnium bonorum. Qualche dubbio potrebbe destare la societas lucri compendii o omnium quae ex quaestu veniunt. Alcuni studiosi tendono ad avvicinarla alla societas omnium bonorum. Il costante mancato ricorso ai patrimoni dei soci faceva la differenza sul modo di concepire tecnicamente gli obiettivi perseguiti rispetto alla societas omnium bonorum.

Tutti i contratti societari romani sono imperniati sul problema ben più importante delle quote di partecipazione dei soci al capitale per ripartire i profitti e le perdite. Il criterio guida era che le quote in questione fossero tutte uguali, salvo diverso accordo fra i soci.

Tutt’altro che secondarie, inoltre, erano le ripercussioni del principio, secondo cui i contratti romani avessero efficacia obbligatoria e, quindi, interessassero soltanto le parti coinvolte, senza particolare rilievo verso l’esterno. Per realizzare fini gestionali e lucrativi inesistenti nelle emptiones venditiones, locationes venditiones e mandata, quegli atti erano essenziali alle funzionalità economica dell’assetto societario. La società in sé era esclusa, facendo capo tutto a chi avesse concretamente condotto l’operazione con i terzi. Era il titolare dei vantaggi e svantaggi relativi, che rispondeva anche degli eventuali inadempimenti alle obbligazioni così contratte.

Le eccezioni erano limitate e riguardavano, in particolare, le socetates vectigalium e publicanorum. La dottrina moderna usa giustificare il diverso regime con l’argomento che tali società fossero persone giuridiche. Se nell’età repubblicana forti differenze non erano ancora emerse rispetto alla disciplina della materia nei rimanenti tipi di società, le cose cambiarono durante il principato. Fu allora che si giunse ad ambigue assimilazioni delle societates vectigalium e publicanorum alle associazioni private come collegia, sodalicia o sodalitates.

Il resto delle problematiche del contratto societario sorgeva da un’altra particolarità: il modo di porsi del consenso delle parti. Il consenso doveva essere continuativo. Nella societas, assumeva importanza il cd. intuitus personae. Di modo che appariva scontato l’automatico scioglimento del rapporto societario. Tre furono le normali ipotesi di scioglimento della società. La prima s’identificava nella renuntiatio del socio, che però rimaneva obbligato verso i rimanenti soci a rispondere per il pregiudizio loro arrecato. Un’altra ipotesi riguardava eventi naturali o giuridici come la riduzione in schiavitù o il passaggio dallo stato di sui iuris ad alieni iuris. L’ultima ipotesi era il dissensus fra i soci, inteso come comune volontà contraria al proseguimento della società.

Fermo restava inoltre che il venir meno della società si realizzasse anche quando il contratto prevedesse un termine finale. Lo scioglimento della società poteva avvenire in ulteriori casi, ma di limitatissima ricorrenza. Fra gli altri, v’era quello d’una possibile stipulatio postcontrattuale con la quale un socio si vincolasse a modificare in qualcosa la sua obbligazione.

Il mandatumIl mandato si caratterizzava per l’incarico che una parte dava all’altra di svolgere una determinata attività, con contestuale obbligazione a concluderla, dietro il solo rimborso delle eventuali spese sostenute e il solo risarcimento degli eventuali danni ricevuti nell’adempiere.

L’amicizia e la fiducia erano posti a base del contratto. L’incarico al mandatario dovesse essere gratuito e potesse avere in astratto un raggio d’azione molto ampio. È ipotizzabile che la giuridizzazione del mandato sia avvenuta sempre nella prima parte del modo di produzione schiavistico, a mo’ d’innesto e reinterpretazione di preesistenti forme d’incarico costruite sulla pura e semplice cortesia.

Cicerone era più o meno coevo alla giuridizzazione del mandato come contratto consensuale e riguardante proprio l’importanza dell’amicizia e della fiducia reciproca che “di norma nessuno dà un incarico se non all’amico né dà credito se non a chi reputi sia leale”. Paolo insisteva ancora sulla necessaria gratuità del mandato da un punto di vista più tecnico.

La giuridizzazione non si limitò a tali recuperi e reinterpretazioni. Spinse anche a porre problemi dapprima impensabili, ma giustificati ormai dal dinamismo dello scambio e del lucro. Così, si fissò in modo inequivocabile che gli effetti dell’attività del mandatario dovessero prodursi soltanto nella sua sfera patrimoniale: fermo restando che egli rimanesse impegnato a trasferirli al mandante con un ulteriore atto.

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GLI ALTRI ATTI LECITI BILATERALI Erano assetti negoziali che presupponevano un accordo sulla cui base impegnare l’una parte nei confronti dell’altra al dare o al facere, secondo intrecci di vario genere e postulavano come essenziale che una parte ponesse materialmente in essere la sua prestazione onde giustificare la necessità della prestazione dell’altra.

Il primo punto riguardò il modo di tutelare l’interesse della parte che avesse effettuato la prestazione e intendesse ripristinare la situazione patrimoniale anteriore all’accordo. Dalla tarda repubblica s’ammise la protezione processuale solo quando la prestazione effettuata fosse identificabile in un dare e, quindi, fosse riconducibile ad un do ut des o un do ut facias. Il che significò che lo strumento processuale a disposizione della parte adempiente fosse funzionale solo al recupero del datum o del suo valore, senza che assumesse rilievo la possibilità, in alternativa, di pretendere la controprestazione.

Il perseguimento di questo obiettivo costituì invece il secondo punto nodale e vide i giuristi intervenire con prese di posizioni contrastanti. Esemplare fu il trattamento del cd. aestimatum e cioè la cosegna d’una cosa all’altra parte perché, previa determinazione del suo valore, essa cercasse di venderla, fermo restando però che, nel caso d’esito positivo, dovesse versare una somma pari a quel valore al concedente e, nel caso opposto, restituirgli la cosa.

Alcuni giuristi del principato tentarono di sposare l’attenzione da singole fattispecie, come l’aestimatum, al fascio in sé degli assetti negoziali che stiamo esaminando, dividendosi fra loro però su tipo e limiti del rimedio processuale generale da individuare a favore sempre della parte adempiente che volesse ottenere la controprestazione.

Un’ulteriore categoria negoziale fu individuata nei pacta in quanto accordi puri e semplici e, quindi, estranei non solo ai contratti tipici ma anche alle fattispecie come il do ut des e do ut facias. L’emersione dei pacta vide all’opera già il pretore d’età tardo repubblicana. Il suo intervento produsse una clausola di principio, successivamente ampliata e così registrata nell’edictum perpetuum del II secolo d.C.: “rispetterò i patti che saranno stati conclusi né con dolo, né contro le leggi, i plebisciti, i senatoconsulti, gli editti e i decreti dei principi, né in frode a siffatti statuizioni precettive. Il pretore la introdusse senza dotarla mai d’una protezione processuale coerente con quel che appare essere il suo enunziato: quindi, senza una protezione forte come l’actio e direttamente funzionale al fenomeno pattizio in sé e per sé.

I pacta sono di norma accordi dipendenti da altri rapporti giuridici, per il semplice motivo che, non creando vincoli a rilevanza civilistica, potevano entrare in giuoco solo quando fra le parti interessate esistesse già un negozio. Ulpiano distingueva se l’accordo pattizio fosse immediatamente o meno successivo al contratto. Nel primo caso parlava di pactum ex continenti mentre nel secondo caso di pactum ex intervallo.

Esistevano alcune tipologie di pacta che vennero promosse ad atti negoziali autonomi protetti in via d’azione e con efficacia obbligatoria diretta, per la loro forte rilevanza economico-commerciale. Erano i constituta debiti (regolamenti di debito) e i recepta (assunzioni di responsabilità).

I primi risalivano ai decenni finali della repubblica e consistevano nell’impegno verso il creditore ad adempiere un’obbligazione propria o altrui entro un termine stabilito. Nell’ipotesi dell’obbligazione altrui si sarebbe aggiunto l’ulteriore effetto di considerare l’accordo pattizio come garanzia per l’adempimento dell’obbligazione stessa, soprattutto negli sviluppi del tardo antico. Ad ogni modo, un’actio de pecunia constituta stava lì a proteggere l’interesse del creditore leso dal mancato rispetto dell’impegno assunto.

I recepta avevano un’articolazione più complessa. V’era il caso particolarissmo del receptum arbitri che impegnava qualcuno a fungere da arbitro d’una controversia. Ma v’erano pure fattispecie legate più rigidamente all’intersoggettività privata. Assumeva rilievo il receptum argentarii, quando un banchiere s’obbligava a pagare debiti del proprio cliente, un po’ come nel constitutum debiti alieni, seppur con la differenza fondamentale che l’impegno assunto non presupponesse di necessità la preesistenza dei debiti. L’analisi si può completare con il receptum nautarum cauponum stabulariorum, che prevedeva l’impegno per l’armatore di navi o l’albergatore o lo stalliere a restituire le cose date in custodia dai clienti nello stato in cui fossero al momento della consegna, fatti salvi i danni per cause di forza maggiore.

Gli accordi non possono essere confusi nemmeno con le cd. legitimae conventiones. Infatti secondo la reinterpretazione giustinianea “la convenzione legittima è quella confermata da qualche legge. E pertanto talvolta da un patto nasce o vien meno l’azione, ove sia d’aiuto una legge o un senatoconsulto”.

GLI ALTRI ATTI LECITI UNILATERALI Con l’asettica espressione atti leciti unilaterali si indica un’ulteriore tipologia di negozi variamente classificati nei testi giuridici antichi ed aventi la comune caratteristica d’essere fonti di obbligazione al pari dei contratti, pur non avendo la sicura bilateralità strutturale propria di questi ultimi.

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Gaio li riuniva nelle Res cottidianae sotto la categoria delle variae causarum figurae insieme ad altre fattispecie riguardanti l’illiceità. Le Istituzioni di Giustiniano, invece, le separò da tali fattispecie perché produttivi di obbligazioni quasi da contratto.

V’era almeno un’ipotesi, l’indebiti solutio nella quale il criterio si manifestava piuttosto ambiguamente sia in Gaio, sia in Giustiniano. Dopo le esitazioni del suo manuale istituzionale, il primo negava che potesse costituire contratto la consegna ad un terzo d’una somma di denaro o altro con l’erroneo convincimento di dover adempiere un’obbligazione in realtà inesistente o di essere il vero debitore o d’aver di fronte il vero creditore. La fonte dell’obbligazione era rintracciata nell’avvenuta consegna del non dovuto: al concreto in un atto unilaterale o, al massimo, bilaterale, ma non contrattuale.

L’indebiti solutio faceva parte d’un fascio d’ipotesi negoziali per le quali, in presenza d’un trapasso di beni non giustificato, il ius civile ammetteva la nascita d’una obbligazione a restituire il ricevuto o, più in generale, a ripristinare la situazione patrimoniale anteriore.

Differente fu il trattamento della negotiorum gestio. Qui l’unilateralità dell’atto era prospettata con maggiore sicurezza, trattandosi d’attività svolta di massima nell’interesse d’un terzo ignaro e secondo i modelli immanenti tuttora nell’art. 2031 del nostro codice civile: “Chi, senza esservi obbligato, assume scientemente la gestione di un affare altrui, è tenuto a continuarla e portarla a termine finché l’interesse non sia in grado di provvedervi da se stesso”.

Ulteriore elemento considerato fu il cd. principio del negotium utiliter coeptum. Toccava le modalità di realizzazione del rapporto fra gerente e gerito e consisteva nella necessaria utilità iniziale della gestione. Il gerente restava obbligato nei confronti del gerito a proseguire l’attività e a rispondere degli eventuali danni arrecati per dolo o colpa, mentre la controparte veniva vincolata al riconoscimento dei risultati raggiunti e l’eventuale sua ratihabitio faceva sì che essi non potessero più essere contestati.

I DELITTI Con i delitti si apre la pagina dell’illeceità privata rintracciabile nelle quattro fattispecie del furtum, cioè la sottrazione d’un bene contro la volontà del proprietario, dei vi bona rapta, cioè sottrazione violenta di cose, del damnum iniuria datum, cioè il danneggiamento patrimoniale ingiusto e dell’iniuria, cioè le lesioni alle persone.

V’era la caratteristica che oggetto primario delle relative obbligazioni fosse il pagamento all’offeso d’una somma di denaro a titolo sanzionatorio per lo scorretto comportamento di controparte: un probabile retaggio dell’arcaica pena pecuniaria per evitare il taglione. A conferma della circostanza che i vincoli giuridici derivanti dai delicta e le connesse azioni giudiziarie dell’offeso contro l’autore dell’illecito non fossero confondibili con quanto riguardante i contratti e gli altri atti leciti, i giuristi romani giunsero a sostenere che i vincoli in questione presentassero determinati peculiari requisiti. Ovvero che fossero:

intrasmissibili agli eredi dell’offensore; trasmissibili agli eredi dell’offeso; assoggettabili a cumulatività, nel senso che in caso di delitto commesso da più individui, ciascuno fosse

obbligato a pagare per intero la somma stabilita a titolo sanzionatorio, senza per di più che il suo adempimento estinguesse il vincolo dei correi;

assoggettabili alla concorrenza di rimedi processuali, nel senso che l’esercizio dell’actio poenalis a fini sanzionatori non escludesse il ricorso dell’offeso ad ulteriore distinta azione diretta, invece, a soddisfare il suo interesse patrimoniale leso;

rilevanti sotto il profilo della nossalità.

Il furtum Tutto prese le mosse da una risalente tendenza sviluppatasi verosimilmente dal V/IV secolo in poi e volta ad ampliare a dismisura la portata e l’effettività della nozione di furto. Queste ultime non erano andate oltre il criterio di fondo che dire furto significasse parlare di generica amozione d’un bene all’insaputa del proprietario. Tale criterio era stato da loro applicato ai due casi del furtum manifestum e del furtum nec manifestum e, ad alcuni altri casi. Precisamente:

- all’ipotesi in cui la refurtiva fosse stata ritrovata durante una formale perquisizione nella casa del ladro e da parte del derubato nudo, con un perizoma addosso e un piatto in mano, la procedura è chiamata lance licioque;

- alle rimanenti due ipotesi del cd. furtum conceptum, per ritrovamento della cosa attraverso una perquisizione informale, davanti a testimoni e indipendentemente dall’essere il perquisito l’effettivo ladro, e del cd. furtum oblatum, per ritrovamento, invece, della cosa presso chi l’avesse ricevuta dal ladro.

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L’idea della amozione all’insaputa del proprietario era stata annacquata e portata ai suoi limiti estremi. A partire almeno dal I secolo a.C., il ius controversum si realizzò tutto all’insegna d’una delimitazione tipologica del furto rispetto ad altri illeciti e, conseguentemente, in una ricerca dei suoi connotati: dal punto di vista, in particolare, della qualificazione della volontà del ladro e della qualità del rapporto con la cosa oggetto del furto.

Il tema della volontà fu trattato con divergenti sfumature. Sabino sosteneva che chiunque toccasse la roba altrui, sapendo di farlo contro il desiderio del padrone, commettesse furto. Gaio afferma che non si commette furto in assenza della volontà di rubare o che non si commette furto senza dolo.

Circa invece il trattamento del rapporto del ladro con la cosa Sabino era pronto ad insistere sulla necessità che il ladro facesse l’adtrectatio ovvero toccasse la cosa interessata. Pomponio ha parlato poi di apprensione in senso lato della cosa come pietra di paragone, accanto all’intento di rubare, per stabilire la configurazione o meno del furto in casi dubbi.

Paolo riuscì a coordinare in modo molto efficace quanto proposto con simili varie soluzioni. Fornì una descrizione del furtum che travalicò il suo tempo storico e fu fatta propria ancora da Giustiniano: “il furto è lo sfruttamento fraudolento d’una cosa per ricavare lucro o dalla stessa cosa o anche dal suo uso o dal suo possesso”.

La contrectatio rei di Pomponio, fu individuata nettamente come sottrazione materiale della cosa altrui, ma anche come illecito uso di essa e come illecito impossessamento di cosa propria. L’aggettivazione di fraudulosa data alla contrectatio ribadì l’importanza del dato soggettivo del dolo, dell’inganno.

Può completare il quadro la considerazione che il delitto di furto fosse l’ipotesi d’illecito nella quale il concorso fra azione penale sanzionatoria e azione per la lesione patrimoniale subita. Per la actio furti fu sempre richiesto che il derubato avesse avuto interesse al non verificarsi dell’illecito e che, inoltre, potesse vantare sulla cosa una forma d’appartenenza. Nella tarda repubblica la si identificò con la proprietà del bene e durante il principato, anche con la disponibilità della cosa in senso più debole e a titolo di possesso o di detenzione materiale.

La condictio ex causa furtiva dette vita a dubbi più impegnativi. Trattandosi del recupero della cosa sottratta, si discusse come ciò potesse concretamente verificarsi nel caso più corrente del derubato proprietario, visto che il ladro non lo diventava a sua volta e che il derubato conservava, quindi, il dominium civilistico sul bene, nonostante l’asportazione. Soluzioni appaganti non furono individuate.

Il delitto di vi bona raptaDetto stipulativamente rapina sulla base di spunti linguistici antichi, questo atto illecito nacque all’epoca delle lotte civili tardo repubblicane. E venne configurato come sottrazione violenta di beni altrui punibile con una specifica azione penale, volta ad attribuire all’offeso una somma corrispondente al quadruplo del valore di quanto portato via e al solo valore.

Il suddetto delitto non deve essere confuso con la tipologia d’illiceità che fu prevista nell’editto del pretore per la fattispecie del danno arrecato dolosamente e con violenza utilizzando uomini armati ovvero riuniti in banda. Nel caso era questione di legami non più con il furtum, ma con il damnum iniuria datum in senso integrativo rispetto alle ipotesi in esso considerate e con una sostanziale non discussa omogeneità di configurazione dei rispettivi rimedi processuali come actiones mixtae.

Il damnum iniuria datumRispetto all’età arcaica, l’evento discriminante per la datazione del delitto di danneggiamento patrimoniale ingiusto è rintracciabile in una lex Aquilia de damno risalente al III secolo.

Evento discriminante la lex Aquilia, perché è stata davvero il punto di partenza di uno svolgimento storico che avrebbe condotto a parlare ancor oggi di responsabilità aquiliana persino per i danni provocati da un tamponamento fra automobili o dalle infiltrazioni d’acqua fra un appartamento e l’altro d’un condominio.

La lex Aquilia era suddivisa in tre capita. Il primo puniva l’uccisione di uno schiavo o d’un quadrupede che rientrasse fra i pecudes (gli animali domestici appartenenti alle res mancipi), con una pena pecuniaria a favore del padrone e pari al maggior valore avuto dai beni coinvolti durante l’anno precedente. Il secondo prevedeva l’azione processuale contro l’adstipulator che estinguesse fraudolentemente l’obbligazione verbis altrui verso il creditore principale. Il terzo considerava i rimanenti atti dannosi dell’urere (bruciare), del frangere e del rumpere con sanzione pari al maggior valore del bene nell’ultimo mese. La riflessione del tempo si concentrò su due momenti nodali: il rapporto causale fra atto lesivo e danno e ruolo attribuibile alla volontà del danneggiante.

Quanto al primo profilo, proprio sulle orme della vecchia legge si sviluppò la tendenza di massima a inquadrarlo secondo il criterio della fisicità. Doveva aversi il cd. damnum corpore corpori datum. Ci si rese conto però che

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potessero esistere fattispecie non riconducibili a tali parametri, per comportamento omissivo o danno non fisico o mancanza del diretto nesso eziologico fra atto e danno. Nerazio addusse il caso dell’incendio provocato dall’operaio addetto ad una fornace e addormentatosi senza spegnere il fuoco. Gaio intervenne, parlando di chi persuadesse lo schiavo altrui a salire su un albero o a scendere in una cisterna con conseguente infortunio. Ulpiano dette notizia, a proposito del barbiere che avesse tagliato la gola ad uno schiavo durante la rasatura in luogo pubblico e affollato, a causa del colpo ricevuto sulla mano da una palla lanciata.

Erano tutti aspetti di vita quotidiana, per la cui legittimazione e punizione apparve ad un certo punto inapplicabile l’actio legis Aquiliae, che era stata nel frattempo ammessa per le fattispecie normali a difesa del padrone della cosa o della schiavo oggetto del danneggiamento.

Lo studio dell’elemento volitivo avanzò di pari passo. Ai difetti della lex Aquilia si sopperì con analisi raffinate. Secondo il resoconto ulpianeo, vi sarebbe stata una soluzione di Mela diretta ad insistere sulla necessità del ricorso all’actio legis Aquiliae, chiunque fosse stato colpevole per la morte dello schiavo. Proculo afferma che la colpa dovesse essere attribuita al barbiere, per aver rasato lo schiavo in luogo non adatto. Ulpiano affermò che potesse considerarsi colpevole addirittura lo schiavo ucciso per essersi affidato ad un barbiere esercitante la sua attività in luogo pericoloso. Gaio insegnava ai suoi studenti che l’uccisione prevista nel primo caput della lex Aquilia costituisse damnum iniuria datum solo esistendo l’uno o l’altro tipo d’intenzionalità.

Il richiamo del giurista alle previsioni del primo caput della lex Aquilia veniva esteso alle previsioni del terzo caput: “è evidente che, come in base al primo capo chiunque è tenuto processualmente, se per suo dolo o colpa uno schiavo o un animale siano stati uccisi, così in base a questo capo ciascuno è tenuto per il rimanente danno”.

L’ iniuria L’epoca arcaica aveva già presa in considerazione l’iniuria interessandosi soltanto a quella fisica in tre forme: os fractum, iniuria, membrum ruptum. La lex Cornelia de iniuriis dell’81 a.C. trasforma in crimina le lesioni fisiche più gravi riconducibili alle XII tavole. Come ricordò Ulpiano, essa veniva a colpire in tal modo il fatto che qualcuno fosse stato percosso o frustato o che il suo domicilio fosse stato violato. Non fu secondario che il pretore arrivasse ad abolire, di fatto, il taglione con l’intervento processuale ricordato a suo tempo in materia di membrum ruptum.

Dove però il traditum subì il colpo decisivo a livello di ius honorarium, con una trasformazione della qualità delle offese relative all’iniuria, fu in talune modulazioni pretorie della materia. Quando nell’editto si stabilizzò la presenza d’un’actio iniuriarum a favore della persona offesa e costruita sul semplice unitario concetto di iniuria, all’evidente scopo di semplificare rispetto alle tre forme arcaiche poc’anzi richiamate. Ammettendo pure che la sanzione pecuniaria fosse determinabile in giudizio secondo un principio d’equità o di rispetto del bonum et aequum.

Nell’editto comparvero altre previsioni edittali, la prima voleva contrastare l’unione di più persone per insultare e offendere malamente qualcuno. La seconda coinvolgeva invece l’adtemptata pudicitia ovvero l’offesa ad una matrona o ad adolescenti di famiglia elevata distraendo il loro accompagnatore. La terza era quasi una valvola di sicurezza con la giustificazione affinché non accada nulla al fine d’infamare.

Altre complicazioni interpretative potrebbero derivare dalla circostanza che a livello edittale si prevedessero ulteriori casi di possibile ricorso alla sanzione pecuniaria pretoria: tipo l’attività lesiva nei confronti del servus o del filiusfamilias in quanto offensiva verso il dominus o il paterfamilias. Su tre aspetti è importante insistere. Il primo è che il complessivo intervento pretorio apparve giustificare e ribadire l’esistenza del delitto d’iniuria sullo stesso piano del ius civile. Il secondo è che attraverso le suddette contorte si fissò definitivamente nella cultura giuridica romana l’idea d’un’iniuria ad ampio spettro qualitativo, con accentuata preferenza ormai per l’offesa morale più che materiale.

Il terzo aspetto è che il preferenziale legame così instaurato fra il concetto di iniuria e il concetto di lesione morale alla persona sarebbe rimasto immanente ai processi storici posteriori, al punto che tuttora identifichiamo la nostra ele

La prima ipotesi era quella del “giudice che si è appropriato della lite. L’illiceità riguardava la non correttezza della sentenza, ma anche gli anteriori comportamenti procedurali lesivi dell’interesse d’una parte. Il concetto era riassunto dall’imperatore in un aver sbagliato, quantunque per imprudenza, da cui sarebbe dipesa la pena pecuniaria nei limiti apparsi equi alla coscienza del giudicante.

La seconda ipotesi nasceva dalle previsioni edittali riguardanti gli effusa et deiecta, i liquidi dispersi o solidi gettati dalla finestra. L’urbanizzazione rende difficili i rapporti di vicinanza nei condomini della Suburra al tempo di Gaio e gli affollamenti abitativi della Costantinopoli giustinianea creò problematiche non dissimili. Dal punto di vista tecnico-giuridico, l’abitante della casa risponde per colpa più che per dolo. E colpa altrui più che propria, considerata l’affermazione di Giustiniano sull’importanza e ricorrenza dei comportamenti di qualche familiare o schiavo.

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La terza ipotesi riguardava i posita et suspensa, le cose poste su una sporgenza o lasciate appese con pericolo per i passanti. La responsabilità ricade più direttamente sull’autore del’atto produttivo del pericolo.

L’ultima è la responsabilità dell’armatore di navi, dell’albergatore e dello stalliere, sotto il particolare profilo, d’un furtum o d’un damnum iniuria datum operato dai loro sottoposti nei confronti delle cose dei clienti. La soluzione delle Istituzioni giustinianee lascia chiaramente indurre che essi dovessero rispondere dell’illecito comportamento così tenuto da altri, ma solo per responsabilità oggettivo e, quindi, indipendentemente dall’eventuale personale dolo o colpa. La giustificazione addotta era, poi, che la responsabilità in questione dipendesse dal fatto in sé di servirsi d’addetti non onesti.