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3 WORLD IN PROGRESS ABECEDARIO DEL COOPERANTE Corrado Minervini

Corrado Minervini: Abecedario del cooperante

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World in progress La collana World in progress intende mettere in comune ricerche, progetti e riflessioni portati avanti all'interno del Centro di ricerca e documentazione in 'Tecnologia, Architettura e Città nei Paesi in via di sviluppo'. Trovano spazio sulle pagine della collana temi diversi, da quelli tecnologici fino alle problematiche più generali sullo sviluppo dell'habitat nella sua accezione più ampia.

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Page 1: Corrado Minervini: Abecedario del cooperante

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W O R L D I N P R O G R E S S

ABECEDARIO DEL COOPERANTE

Corrado Minervini

Page 2: Corrado Minervini: Abecedario del cooperante

World in Progress 3

ABECEDARIO DEL COOPERANTE

Corrado Minervini

Politecnico di Torino

2008

Page 3: Corrado Minervini: Abecedario del cooperante

Centro di ricerca e documentazione inTecnologia Architettura e Città nei paesi in via di sviluppoDipartimento Casa-Città - Politecnico di TorinoViale Mattioli 39, 10125 Torino, Italiatel. +39 011 564 6439, fax +39 011 564 6442e-mail: [email protected]: www.polito.it/crd-pvs

Comitato scientifico: Irene Caltabiano, Francesca De Filippi, Massimo Foti, Nuccia Maritano Comoglio

Curatore del volume: Francesca De Filippi

Della stessa collana:

WP1Alessandra BATTISTELLITecnologia y patrimonio en tierra cruda en Colombia. El caso de Barichara en Santander2005

WP2Chiara CHIODEROL’habitat in terra cruda nello sviluppo rurale del nord dell’India: esperienze nella ricostruzione post-terremotonel distretto del Kachchh. Earthen habitat in rural development of northern India: experiences in post-earth-quake rehabilitation in Kachchh district2008

Composizione: Luisa Montobbio, Dipartimento Casa-Città, Politecnico di Torino

© 2008, Politecnico di Torino, ItaliaISBN 978-88-8202-078-1

Crediti immagini:Tutte le foto e i disegni sono dell’autore

Il capitolo secondo fa riferimento ai seguenti progetti di cooperazione internazionale:2.1 “Emergency Repair to public buildings for housing refugees in the Republic of Georgia and Azerbaijian”

realizzato da Nuova Frontiera-ONG, 1996-19972.2 “Emergenza Rifugiati in Burundi” promosso da UNHCR e realizzato da FOCSIV, 1994-19952.3 “Housing Reconstruction“, UNMIK, 2000-20012.4 “Etude de Faisabilité d’un projet de santé au Burkina Faso“ realizzato da CERFE, 1998

Per contatti:

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SOMMARIO

L'ARCHITETTO E IL COOPERANTE p. 7

INTERNAZIONALITÀ, PROGETTUALITÀ, SOSTENIBILITÀL'UNIVERSITÀ E LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE p. 9

1. CAPITOLO PRIMO: I PROLEGOMENI DELLO SVILUPPO p. 11

1.1 Abecedario del cooperante p. 12

1.2 Il cooperante ed il cooperato p. 13

1.3 I rifugiati: note in emergenza p. 17

1.4 Dall’emergenza allo sviluppo p. 19

1.4.1 Emergenza in formule p. 19

1.4.2 La ricostruzione p. 22

1.4.3 Sviluppo e città p. 24

2. CAPITOLO SECONDO: GLI STRUMENTI DEL COOPERANTE TECNICO p. 28

2.1 Georgia: riabilitazione di edifici occupati dai rifugiati p. 28

2.1.1 Una Proposta di Progetto p. 29

2.1.2 Componente informativa p. 31

2.1.3 Componente organizzativa p. 34

2.2 Burundi, la ricostruzione o post emergenza p. 37

2.2.1 Il Progetto socio-politico p. 37

2.2.2 Il Progetto tecnico p. 38

2.2.3 Il Muro e le Opere p. 41

2.3 Kossovo: la ricostruzione p. 46

2.3.1 Municipal Housing Committee p. 46

2.3.2 Esercizi di Pianificazione Urbana p. 47

2.4 Burkina Faso: sviluppo delle infrastrutture sanitarie p. 49

2.4.1 Analisi delle Qualità p. 50

2.4.2 Analisi delle Tipologie p. 54

2.4.3 Raccomandazioni: principi base e modelli p. 56

NOTE p. 61

REFERENZE BIBLIOGRAFICHE p. 64

INDICE DELLE FIGURE p. 65

INDICE DELLE TAVOLE p. 65

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L'ARCHITETTOE IL COOPERANTE

Conosco l’autore da quando, nel lontano 1989,iniziò a frequentare la Scuola di specializzazione in“Tecnologia architettura e città nei paesi in via disviluppo”. La sua tesi Dalla tradizione alla moder-nità: tipi di pelle e tipi abitativi come variabili allegriglie strutturali e infrastrutturali analizzava casistudio in Cina e Tunisia individuati come due diffe-renti modi della concezione della casa multipianonei paesi in via di sviluppo. Minervini introducevapoi una seconda parte sulla tecnologia della ‘pelleverde’ per tamponamenti e coperture con elementivegetali vivi.Questa conclusione del percorso di specializza-

zione indicava già la sua profonda attenzione agliaspetti del progetto a scala tipologica e tecnolo-gica. L’approccio pragmatico con cui ha dovuto mi-surarsi nelle sue numerose presenze con ruoli diesperto cooperante in situazioni al limite caratte-rizzate dai vincoli drammatici delle post calamitànaturali o prodotte dall’uomo, non gli hanno impe-dito di essere un brillante ricercatore di soluzioniutopiche tecnicamente fondate per un habitat di-gnitoso e attento alla irrinunciabile necessità di in-clusione sociale emergente dagli insediamentiinformali nelle città del terzo mondo.Ricordo il suo lavoro sulla ‘collina artificiale’ nel-

l’ambito della ricerca CNR PFEd coordinata da Gior-gio Ceragioli, guida e maestro con cui abbiamocondiviso appassionanti momenti di ricerca. La col-lina artificiale si delineò come matrice di progetto enon progetto specifico e concreto perchè tale po-trebbe diventare solo in presenza di contestualiz-zazione, condizione indispensabile per costruire enon per immaginare.Su questa megastruttura ad alta densità co-

struttiva ed abitativa gravitano tecnologie com-plesse, composite ed ibride appositamente studiateper ridurre i costi di produzione e manutenzione, enello stesso tempo mantenere alta la qualità edili-zia e residenziale. Quello generato dalla collina ar-tificiale è un habitat integrato di residenze sui frontiesterni ed un nucleo interno di servizi e piccole at-tività produttive capaci di accollarsi la spesa di que-sti terreni che possono essere definiti ‘artificiali’ inquanto in quota.L’ipotesi sulla quale è stata costruita la ‘collina

artificiale’ consiste in un sistema strutturale ‘a gab-bia’ in acciaio a gradoni, con una sezione trapezoi-dale. La scelta della gabbia strutturale in acciaio èdovuta essenzialmente al buon rapporto resi-stenza/peso, adattabilità e componibilità dellastruttura, la manutenibilità e la economicità. Lascelta di tale tipo strutturale è anche dovuto al fattoche l’ipotesi progettuale più propria della collinaconverge verso l’acciaio in leghe di tipo avanzatoche lo sviluppo della ricerca dovrebbe portare acosti accettabili, elevate resistenze, manutenzionenulla, dilatazione molto ridotta buona resistenza alfuoco ecc. Ma il corpo strutturale della ‘collina arti-ficiale’ non è la gabbia in acciaio, bensì la stessa

tecnologia che ricerca, articola e coniuga materialicome le leghe al titanio con quelli poveri e poveris-simi come le terre stabilizzate. Minervini partecipaalla ricerca su ibridi e materiali compositi di nuovasperimentazione in atto presso la scuola di specia-lizzazione costruendo un abaco di componenti edi-lizi, strutturali e di completamento, come le lastreondulate e non, per coperture, tamponamenti e pa-vimentazioni con stuoie di paglia di riso e resine dipoliestere, travi di scarti di produzione assemblatie pressati con resine.Si tratta di materiali con bassi costi di produ-

zione, che non richiedono mano d’opera specializ-zata, a causa del processo di lavorazione amoderato contenuto tecnologico. Le tecnologieverdi inoltre completano l’abaco tecnologico dellacollina e sono studiate per i numerosi vantaggi chepossono derivare dall’uso all’interno del sistemaedilizio: dalla riduzione dell’inquinamento acustico,alle funzioni di filtro per le polveri, all’incrementodella qualità dell’aria e della vita psichica. Coper-ture e tamponamenti verdi garantiscono minori sol-lecitazioni termiche e meccaniche alle strutture,maggiore isolamento termico, alleggerimento delsistema di smaltimento idrico e soprattutto per-mettono l’accesso dell’utenza all’interno del pro-cesso costruttivo.

Minervini ricercatore, nei periodi trascorsi a To-rino presso il nostro Politecnico, e Minervini coope-rante: ruoli apparentemente diversi ma sostanziatientrambi da una profonda attenzione alle persone,alle loro esigenze, alle diverse culture, potenzialitàe vincoli.La sua esperienza di cooperante si svolge con la

costante consapevolezza delle attese diverse frabeneficiari e donatori oltre che delle possibili in-comprensioni culturali e dei danni prodotti dallamancanza di dialogo con le popolazioni coinvolte.L’abbecedario del cooperante ci rivela la sua ca-

pacità di impegnarsi sul terreno dove le utopie tec-nicamente fondate devono coniugarsi in temporeale con le soluzioni immediate ai problemi e conla prospettiva che esse diventino germe di sviluppoper le comunità interessate. Ed anche la sua arti-colata capacità di rispondere a situazioni anchemolto diverse seppure tutte connotate dall’estremaseverità dei vincoli.L’autore ha la consapevolezza che intervenire in

condizioni estreme chiede più progetto e controllodel processo, per evitare sprechi di risorse e ineffi-cacia delle azioni. L’analisi della qualità non è unesercizio teorico ma una necessità.Il lavoro di Minervini non nasconde le assurdità

e gli approcci sbagliati ma sulla base di esperienzedirette e notevole capacità di elaborazione traccialinee guida per comportamenti corretti, per la ri-cerca delle soluzioni appropriate agli specifici con-testi.Sono presentati ambiti tipologici e geografici

molto diversi, dall’Africa con la ricostruzione post-emergenza in Burundi e lo sviluppo delle infra-strutture sanitarie in Burkina Faso, alle più vicinerealtà dell’est europeo con la riabilitazione di edificioccupati da rifugiati in Georgia e la ricostruzionepost bellica in Kossovo.

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Tutti i casi di cooperazione citati, vissuti diretta-mente dall’autore, sono presentati con dettagli pro-gettuali, schemi tecnici e analisi critiche. Si tratta didettagli di esperienze sul terreno che difficilmentetrovano spazio nella letteratura del settore.

Condivido la sua convinzione che l’università do-vrebbe/potrebbe giocare un ruolo decisamentecentrale all’interno della cooperazione internazio-nale fornendo servizi di alta qualità professionale atutti gli stakeholders del processo di cooperazione,oltre a garantire valutazioni e identificazione di pro-getti scientificamente corrette e meno compro-messe politicamente.Auspico che la recente creazione di un settore

delle relazioni internazionali dedicato alla coopera-zione nel Politecnico di Torino possa favorire un im-pegno del mondo universitario negli interventi perlo sviluppo, e che questo abbecedario possa essereun utilissimo strumento formativo per chi intendemuoversi professionalmente nel difficile ruolo di co-operante nel settore habitat.

Nuccia Maritano Comoglio

Direttore del Corso di perfezionamentoin “Habitat, tecnologia e sviluppo”

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I problemi emergenti dal mondo chiedono ricercae formazione professionale in grado di confrontarsicon utenze generalmente dimenticate dai normalicircuiti accademici.L’enorme potenziale scientifico a disposizione

dell’Università è in grado di produrre risultati di por-tata rivoluzionaria sul piano della ricerca di formeinedite di interdisciplinarietà, della sperimentazionedi nuovi materiali e nuove forme di produzione, deltrasferimento tecnologico dai settori di punta del-l’innovazione ai mondi in via di trasformazione.La città del ‘Sud’ del mondo, spesso luogo di ac-

cumulo e esplosione di tensioni, accoglie la possi-bilità di un infinito laboratorio culturale per il futuro.Non da meno risultano importanti le attenzioni ri-volte allo sviluppo dei piccoli centri, dove le propo-ste tecnologiche, urbanistiche, infrastrutturali apiccola scala possono portare benefici importanti anumeri consistenti di persone. Tali situazioni, ca-ratterizzate da scarsità di risorse, per organizzarerisposte adeguate alla molteplicità di vincoli pos-sono innescare processi creativi autentici, lontanidal rischio di stereotipi formali o linguistici: atten-zione, invenzione, plausibilità, ascolto.

In tal senso si sono mosse le esperienze del Po-litecnico di Torino, in particolare il Centro di ricercae documentazione in tecnologia, architettura e cittànei Paesi in via di sviluppo1 del Dipartimento Casa-città, ossia nel curare l’aspetto della formazionedelle risorse umane da coinvolgere in progetti, inistituzioni, organismi operanti nel campo dello svi-luppo, accanto ad attività volte alla diffusione di in-formazioni ed al sostegno delle relazioni trastudiosi, ricercatori, enti pubblici e privati a livellonazionale ed internazionale.L’obiettivo è quello di formare persone con un

approccio ‘integrato’ al progetto fondato sulla ca-pacità di interagire e scambiare, con atteggiamentoflessibile, in contesti culturali, politici, economicidifferenti, dei quali capire di volta in volta le carat-teristiche e peculiarità, individuando ogni risorsadisponibile.Una forma di cooperazione da riconfigurare ogni

volta, basata sul riconoscimento di un partenariatodi attori diversi, con una prospettiva non più dibreve e medio termine.

Per realizzare tutto ciò è però necessario che l’U-niversità sappia incentivare i rapporti di scambio,costruire relazioni tra partner diversi basate su cri-teri di continuità, creare occasioni di dialogo trasettori disciplinari accademici ed iniziative pubbli-che e private, svolgere azioni di coordinamento efacilitazione. Agisca cioè con un atteggiamento ge-nerale di natura strategica, creando sinergie met-tendo a massimo rendimento le risorse che giàesistono.In questi termini il dialogare con attori diversi è

certamente un esercizio utile e necessario per l’U-niversità che, pur avendo un ruolo chiave nel pro-durre e diffondere conoscenza, per la sua distanza‘dal campo’ assume spesso un linguaggio inade-guato a inefficace.Oggi, nonostante un’accresciuta attenzione e

partecipazione a questi processi, ancor di più va

INTERNAZIONALITÀ,PROGETTUALITÀ,SOSTENIBILITÀL'università e lacooperazione internazionale

L’Abbecedario del cooperante, terzo numerodella collanaWorld in progress, rappresenta un’oc-casione preziosa di riflessione sia per quanti ope-rano nel campo sia per chi per la prima volta siavvicina al tema della ‘cooperazione’.Corrado Minervini, raccogliendo l’esperienza di

molti anni di studio e operatività sul campo, ha vo-luto trattare un argomento che è raramente af-frontato ‘a cuore aperto’, proponendo le proprieconsiderazioni a stimolo per altri.

Chi è il cooperante? Chi è il cooperato, ossia ilbeneficiario di azioni di sviluppo? Chi è attore e chisubisce la cooperazione? Qual è la logica del dona-tore e quale quella del beneficiario?Mi sembra significativo che proprio un ‘operato-

re’ in questo settore, che è anche entusiasta stu-dioso e formidabile comunicatore, abbia deciso discrivere riguardo la cooperazione attraverso un’a-nalisi critica e propositiva dei suoi strumenti.

Colgo pertanto come opportunità le sollecitazionidi Corrado per riflettere su quale ruolo (e respon-sabilità) può assumere l’Università – nel cui ambitoabbiamo scelto di operare – nei confronti della co-operazione allo sviluppo, nella formazione, nella ri-cerca, nella progettazione e nella consulenzatecnica.Sembra sempre più inderogabile che i centri, le

strutture di ricerca più prestigiose e avanzate chehanno concorso in modo determinante alla crescitadella conoscenza, della tecnologia, della ricchezzadei paesi ‘forti’ pongano al centro dei loro interessie delle loro strategie i temi dello sviluppo autenti-camente sostenibile, della riduzione del divario tec-nico-scientifico e socio-economico tra le aree delmondo, della lotta allo spreco e all’insensatezza deicomportamenti, della valutazione rigorosa delle op-portunità e delle necessità, della revisione criticadelle ideologie e degli interessi di parte.Del resto oggi, dopo l’onda lunga degli entusia-

smi neo positivisti, sempre più si ha coscienza chele risorse a disposizione non siano tanto abbondantirispetto al fabbisogno. E che i limiti di spazio, dimateriali, di clima, di disponibilità energetica, direddito, di accessibilità, di programmi, i limiti postida società chiuse, e segregazione razziale o reli-giosa, i limiti posti dalla scarsità di conoscenze, nonadeguate ad affrontare il problema casa e città pertutti, i limiti alle possibilità di controllo ambientale,siano condizioni che non caratterizzano soltanto iluoghi più lontani dall’Occidente evoluto.I segnali della limitatezza delle risorse comin-

ciano ad esser chiari. Senza dimenticare che ci si ègarantiti alti standard di vita solo al prezzo dell’ar-retratezza del resto del pianeta: un bilancio ener-getico di risorse che cerca di trovare l’equilibrio.

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rafforzata la consapevolezza dell’estrema impor-tanza dei compiti formativi di cui l’Università è re-sponsabile nei confronti delle nuove generazioni,assumendo una posizione precisa nei confronti diatteggiamenti che assegnano all’architettura lospazio della stravaganza e della gratuità, dell’agirein contesti metafisici in cui le risorse sono infinite ele possibilità di scelta illimitate.Internazionalità, progettualità, sostenibilità sono

idee-guida che hanno pieno diritto di cittadinanza inun ateneo. Internazionalità intesa come finestraaperta sulla diversità e sulla pluralità delle culturee delle condizioni materiali, per quanto lontane, perquanto difficili da capire. Progettualità come capa-cità di finalizzare saperi diversi e risorse scarse allarealizzazione di obiettivi la cui ragione civile con-corre alla costruzione di valori etici, alla risposta adomande autentiche, in un processo che vede l’i-dentificazione stessa del problema, il suo ricono-scimento, come parte integrante della rispostaprogettuale. Sostenibilità come filosofia della par-simonia e della qualità conseguita non a scapito dialtri, ma a favore di tutti, in un quadro di utilizzodelle risorse finalizzato al benessere reale delle per-sone, prima e al di là degli interessi delle forze eco-nomiche dominanti.

Ringrazio dunque Corrado di questa ‘provocazio-ne’, di cui beneficeranno certamente gli studenti delCorso di perfezionamento in Habitat Tecnologia eSviluppo che il CRD-PVS organizza e coordina, e itanti studenti e laureandi che sempre più si stannoavvicinando con curiosità e passione al problema.

Francesca De Filippi

Direttore del Centrodi ricerca e di documentazione

in Tecnologia, Architettura e Cittànei Paesi in via di sviluppo

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1 Il Centro di ricerca e documentazione in tecnologia, ar-chitettura e città nei paesi in via di sviluppo ha dato se-guito alla missione formativa della scuola dispecializzazione in Tecnologia, Architettura e Città neipaesi in via di sviluppo, (fondata da Giorgio Ceragioli nel1989) con un corso di perfezionamento di durata annualein Habitat, Tecnologia e Sviluppo.

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CAPITOLO PRIMOI prolegomeni dello sviluppo

La cooperazione internazionale presuppone checi siano due interlocutori che ‘cooperano’ per la rea-lizzazione di un programma di ‘sviluppo’ in una de-terminata area ‘non sviluppata’. I due principaliinterlocutori sono: il cooperante ed il beneficiariodelle azioni di cooperazione. Essi discutono e siadoperano in merito all’opportunità di produrre svi-luppo in seno, evidentemente, al contesto del be-neficiario, ma parlano due lingue differenti perchéil più delle volte appartengono a culture differenti:quella dello ‘sviluppo’ e quella del ‘sottosviluppo’.A seconda delle condizioni di sviluppo potenziale

del beneficiario1 e degli eventi che ne hanno carat-terizzato il sottosviluppo si predispongono progettidi emergenza o di ‘semplice’ sviluppo.

Da diversi decenni ormai la cooperazione inter-nazionale opera nel mondo intero dividendolo indue: il primo ed il terzo mondo, i ricchi ed i poveri.Il secondo mondo originariamente in antitesi con ilprimo ha gettato la spugna nel 1989 con il crollodel muro di Berlino e la dissoluzione della cosid-detta cortina di ferro. Ma solo con la fondazionedelle Nazioni Unite e l’adozione e proclamazionedella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani2 lacooperazione prende voti laici, definisce i suoi chiariprincipi e si fa multinazionale, bilaterale e poi anchedecentrata3.Dal 1948 l’articolo 25 di quella Dichiarazione Uni-

versale recita il diritto di tutti alla casa, alla salutee al lavoro4. Oggi lo recita ancora e grida la suastentata applicazione a distanza di mezzo secolo,mentre la cooperazione internazionale è diventataun affare internazionale. Le ‘agenzie di sviluppo’fanno fiorire i loro profitti pur di garantire lo svi-luppo dei più poveri in nome dell’efficienza e del-l’alta professionalità. La globalizzazione dal cantosuo tenta di riportare alle regole dell’economia dellosviluppo anche quelle più peculiari di un’economiadifferente e del sottosviluppo.La lingua si universalizza e cosi il cooperante, il

beneficiario, i programmi ed i progetti di emer-genza e di sviluppo diventano termini che si riferi-scono a concetti consolidati nel corso di questiultimi anni. Hanno addirittura determinato un glos-sario della cooperazione internazionale molto spe-cifico, i cui significati si sono radicati intorno adespressioni prevalentemente anglofone, che usanocioè la lingua dell’ ‘invasore’, come spesso la defi-nisce il ‘beneficiario’.È per questo che nei capitoli che seguiranno, la

terminologia inglese (in italico) sarà affiancata aquella italiana che, nella maggior parte dei casi(non sempre), risulterà dalla traduzione della ver-sione originale.

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qualitativo e quantitativo, il valore dell’offerta (oproposta tecnica) è opportunamente stimato e ilmiglior proponente è selezionato ed incaricato del-l’esecuzione del progetto proposto.

Il donatore ed il beneficiario (il beneficiario fina-le, ossia la totalità dei cittadini, e spesso i poveri, ivulnerabili, gli esclusi) raramente comunicano traloro. Tra l’altro è sempre più invalso l’uso di consi-derare beneficiario un governo o un ministero, in al-tri termini un ente governativo equipollente al do-natore. I cittadini, i beneficiari ultimi delle azioni dicooperazione, sono semplicemente ultimi e si iden-tificano con gli amorfi e passivi recettori dei bene-fici di un’attività di cooperazione, paradossalmen-te a loro favore, che si svolge, sempre a loro, da cin-quant’anni. Quando si parlano, donatori e beneficiari,comunicano indirettamente attraverso mediatori ov-vero esperti professionisti incaricati sia dell’identi-ficazione di un bisogno sul quale impostare un pro-gramma sia dell’eventuale esecuzione del progetto.Solo a partire dagli anni settanta i beneficiari

hanno cominciato ad essere timidamente attori delprocesso di sviluppo che li concerneva. Tale parte-cipazione non escludeva comunque il ruolo del me-diatore5 che si faceva occasionalmente latore diistanze di sviluppo della cosiddetta comunità dibase presso le sedi dei donatori.

Quando poi i beneficiari risultano essere colpevolidi azioni non legali, come ad esempio l’occupa-zione abusiva di terre o di edifici, allora anche ilsemplice rapporto tra istituzioni (legali) e comunitàdi base (colpevoli) è definitivamente, in teoria, ne-gato. È questo il caso di diversi progetti di recuperodi illeciti edilizi, generati da indigenti, che si inten-dono recuperare (in altri termini: sanare) non peraltro motivo che per favore umanitario6. In questedelicate situazioni sono le Organizzazioni non Go-

Figura 2: Le ONG si fanno portavoce dell’azione umanitaria afavore di Comunità di Base.

1.1 Abecedario del cooperante

Come s’è visto gli attori (stakeholders) del pro-cesso di cooperazione sono essenzialmente il co-operante (colui che rende attivo un progetto disviluppo e che in teoria coopera con il beneficiario)ed il ‘cooperato’, ossia il beneficiario delle azioni delprogramma di sviluppo. Il cooperante ed il ‘coope-rato’ non sono però che alcuni degli attori che par-tecipano al progetto di cooperazione.Le categorie di attori sono in realtà quattro, al-

meno quante sono le principali funzioni che si espli-cano all’interno del processo di cooperazione, e sipossono riassumere in quattro differenti perso-naggi:– il donatore (donor), privato o pubblico finanzia-tore di programmi di sviluppo,

– il beneficiario o target del programma,– il realizzatore o anche implementatore (imple-menting partner), responsabile della propostatecnica (per la realizzazione del programma) egeneralmente anche esecutore del progetto,

– il valutatore, figura di esperto che valuta il pro-getto (o proposta tecnica) sia nella fase propo-sitiva (ex ante-evaluation) o a seguito del suocompletamento (ex post-evaluation).

Le Azioni che queste categorie di attori sonochiamati a svolgere sono relative a:– programmi (programmes) e– progetti (projects)

I primi sono proposti dai donatori, i progetti in-vece sono proposti dai realizzatori. In pratica sullabase di politiche di sviluppo identificate dai donatoriper i paesi ‘donati’ si elaborano programmi di svi-luppo per settore (per esempio agricoltura, svi-luppo industriale, amministrazione pubblica) o pertema (occupazione, strade rurali, approvvigiona-mento idrico, smaltimento dei rifiuti ecc.).Le agenzie di sviluppo (profit e non) sulla base di

bandi di concorso, pubblicati dai donatori, si pro-pongono di realizzare il programma sottoponendoal donatore una propria interpretazione del pro-gramma attraverso una proposta tecnica. Le pro-poste tecniche sono valutate da un punto di vista

Figura 1: Gli enti che partecipano ai programmi e progetti disviluppo.

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giocare un ruolo decisamente centrale all’internodella cooperazione internazionale in termini di for-nitore di servizi di alta qualità professionale a tuttigli stakeholders del processo di sviluppo nei paesiemergenti oltre naturalmente a garantire una va-lutazione e identificazione di progetti meno com-promessa politicamente e più scientificamente cor-retta. Ciò che è sicuro è che comunque le università– per il momento e come si evince dallo schema –non hanno alcun rapporto, o hanno un rapportomolto sporadico e discontinuo, con le fonti eroga-trici di finanziamenti (i donatori).

1.2 Il cooperante ed il cooperato

Il cooperante dell’Europa occidentale che operanei paesi in via di sviluppo è una figura ambigua:tra l’imbarazzato nell’affrontare una realtà cultu-rale e sociale radicalmente differente dalla propriaed il super dotato, orgoglioso delle proprie cono-scenze, del sapere tecnico-scientifico acquisitoquasi geneticamente a causa dei propri natali (for-tunati) in un paese che garantisce molti diritti, unbenessere e soprattutto un passaporto. Egli è pienodi timori e nello stesso tempo è sicuro di se. Ap-pena gli verrà data la possibilità mostrerà i suoimuscoli, il suo computer, i suoi dati, la sua rete diconoscenze, la sua abilità logica, la sua eloquenza.

I cooperati (coloro che subiscono il cooperante),invece, da una parte ne subiscono il fascino con ti-more reverenziale: lui tutto può e qualsiasi cosadica è vera; dall’altra ne deridono le movenze e lapretesa di conoscere quel territorio che si svela soloai suoi storici abitanti. Questi sono coloro che persfortunate vicende legate ad accidenti storici o na-turali si trovano lì piuttosto che dall’altra parte eguardano all’ ‘invasore’ della loro povertà con rab-bia, ironia o timor panico a seconda delle circo-stanze o area geografica. Molto spesso infatti lorohanno conosciuto lo sviluppo di quando ‘si stavameglio prima’ (è il caso delle popolazioni balcani-che, del sud america e di parte della Cina) e per-tanto la reazione snobistica alla cooperazioneinternazionale è quasi d’uopo.

È cosi che il cooperante figura talvolta da sa-piente esperto talvolta da insolente imbecille, a se-conda del punto di vista7. Lui (il cooperante) crededi sapere almeno quanto la cultura a cui appar-tiene. In effetti, lui sa, ma sa spesso inutilmente,stupidamente, o forse farebbe meglio a non sapereperché la sua sapienza è inutile in una terra di cuinon sa e forse non vuole nemmeno sapere.

Ma poi sarebbe veramente possibile conoscerequei luoghi e quella cultura nell’arco di una mis-sione? Sarebbe effettivamente possibile riuscire avestire la cultura altrui abbandonando la propria? Ildilemma è stato proposto negli annali dell’antropo-logia culturale e poi nella avvincente letteratura diCarlos Castaneda8, quando gli strumenti cognitividel ricercatore occidentale finivano per corrompersinella lettura del diverso, dell’altrui e del ‘maivisto-prima’. A questo punto Castaneda propone nellasua metafora letteraria la corruzione della mente

vernative che stabiliscono il dialogo costruttivo conle Comunità di Base, che a loro volta rappresentanogli indigenti costituitisi in associazione spontanea.

In realtà i programmi di questi ultimi decennihanno come principale obiettivo quello di innescareil motore dello sviluppo all’interno di un paese o diuna comunità. In questa logica della moderna eco-nomia di mercato anche il recupero della domandapotenziale (e perciò anche di quella parte della po-polazione emarginata, più vulnerabile ed in una pa-rola: povera) diventa cruciale. Ciò giustifica altresìl’intromissione professionale delle cosiddette Agen-zie di Sviluppo a carattere profit all’interno della co-operazione internazionale. Queste, assieme a tuttigli altri attori, contribuirebbero a raccordare i pezzidel delicato puzzle del circolo virtuoso dello svi-luppo che il programma di cooperazione interna-zionale intende promuovere. Nello specifico leAgenzie di Sviluppo, ispirate finanziariamente daidonatori, consolidano il rapporto tra i rappresen-tanti della domanda (le pubbliche amministrazioni)e i rappresentanti dell’offerta (investitori e produt-tori). Il loro campo, d’azione è differente da quellodelle ONG che invece si adoperano affannosamente(sebbene abbiano – coscientemente o no – lostesso obiettivo) a risollevare le sorti della do-manda potenziale negoziando, tra il settore infor-male e le pubbliche amministrazioni, l’accesso el’accessibilità al mercato.Finora non sono state menzionate le università

che oggi operano un ruolo ancora troppo marginaleall’interno della cooperazione internazionale, es-sendo questo limitato a ricerche sporadiche espesso inefficaci, e alla formazione – funzione tral’altro contesa alle Agenzie di Sviluppo e alle agen-zie delle Nazioni Unite. Alla luce delle impressionantirisorse e capacità, le università potrebbero invece

Figura 3: Il motore dello sviluppo.

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Priorities of Mathari valley people10

Mathari valley is one of the worst slums in Nairobi, Kenia.The Nairobi City Council made a survey of over 2,000 families in Mathari valley. They asked the people whatproblems the people saw as most important in their lives in the Valley.

Instructions: Rank in order of what you think the people in the Valley answered as their first, second, thirdpriorities, etc. Place a number 1 by the one you think they ranked first, a number 2 by theone you think they ranked second, etc up to 10.Write your numbers in the left hand column.

Individual ranking Actual Subtract personalfrom actual*

A. _______________ Land ______________ ______________

B. _______________ Clean water ______________ ______________

C. _______________ Shelter ______________ ______________

D. _______________ Clothing ______________ ______________

E. _______________ School fees ______________ ______________

F. _______________ Food ______________ ______________

G. _______________ Money to expand their business ______________ ______________

H. _______________ Educational facilities ______________ ______________

I. _______________ A better standard of housing ______________ ______________

J. _______________ Sanitation ______________ ______________

Sum up** ______________

* Do not mark the sign (whether positive or negative)** The lower the score, the closer to the community’s perception

Figura 4: Il cooperante ed il cooperato, il Donatore ed ilBeneficiario.

attraverso l’assunzione di droghe allucinogene cheavrebbero potuto fornire la possibilità (o l’alibi?) diavvicinarsi ai luoghi ineffabili dell’altro.

La cooperazione ci passa su volgarmente e conviolenza rinuncia alla comunicazione con l’altro efonda un proprio linguaggio, un metodo, una logicache nella maggiorparte dei casi non solo non è con-divisa ma impensabile da parte dell’altro (il cosid-detto cooperato).

Di fatto si è sviluppata una barriera quasi insor-montabile tra la logica dell’occidente e la cultura al-tra, la cultura della povertà alla quale non è degnataaltra dignità che la supposta ‘inoperosità della po-vertà’ (non si produce perché si è poveri) che gia simorderebbe la coda nel momento in cui si soste-nesse che ‘si è poveri perché non si produce’.A riprova della quasi impossibilità di comunica-

zione tra il cooperante ed il cooperato (o meglio trail donatore ed il beneficiario) a causa del loro farriferimento a logiche differenti si potrebbe portareun test9 che è stato adoperato in Mathari valley,uno degli slum più disumani di Nairobi (Kenya).

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Attraverso questo test si riesce a dimostrare chela distanza culturale tra il cooperante ed il coope-rato è quasi incolmabile e che l’approccio allo svi-luppo dei beneficiari è radicalmente diverso daquello in genere adottato dai donatori11.

In pratica le risposte ottenute dalla popolazionelocale di Mathari Valley (actual responses) a questainchiesta sui fabbisogni (need assessment) sono leseguenti in ordine di priorità:

Il beneficiario segue una sua logica ineccepibileaffermando che il suo modo di vedere il suo pro-cesso di sviluppo attraverso l’aiuto esterno consi-sterebbe in soli tre punti:1. avere la garanzia della propria sopravvivenza,2. poter essere informato adeguatamente sulle mo-dalità di produzione ed investimento,

3. poter disporre di una maggiore stabilità econo-mica iniziale basata sul possesso della terra e diuna somma in denaro per effettuare i necessariprimi investimenti.

Secondo il beneficiario la diretta conseguenza diqueste donazioni o garanzie per lo sviluppo soste-nibile locale sarebbero l’acqua potabile, appropriatiimpianti igienico-sanitari, migliori condizioni abita-tive e relativi servizi sociali.

La logica della popolazione locale è impeccabileed è basata sulla richiesta di aiuti diretti per farfronte alla fisica sopravvivenza, alla formazione edal possesso di sufficienti mezzi di produzione.

La logica del donatore invece è radicalmente op-posta e consiste nel dover innanzitutto assicurareall’ambiente condizioni igienico sanitarie adeguateallo sviluppo incipiente, perché, spiega il donatore,attraverso l’acqua potabile e corrette condizioniigienico-sanitarie, si evitano le malattie infettive epertanto ci si mette in condizioni di lavorare e pro-durre. Al primo posto tra le azioni di supporto allosviluppo delle popolazioni indigenti sono pertantoincluse quelle che gli indigeni considerano unamera conseguenza del processo di sviluppo, e chei donatori invece considerano una condizio sine quanon per lo sviluppo.

Risposteottenute dallapopolazionelocale (inglese)

Risposteottenute dallapopolazionelocale (italiano)

Ipotesi diSignificato

1 Food Cibo Una formaqualsivoglia disostentamentoprimario comeper esempio lanutrizione

2 Shelter Un tetto Un riparo,un’abitazioneanche se minimaper proteggersidalle intemperie

3 School fees Tassescolastichepagate

Istruzionegratuita per laconoscenza distrumenti etecniche dimercato o diproduzione

4 Clothing Abbigliamento Indumenti idoneied essenziali allosvolgimento dellefuture attivitàproduttive

5 Land Terra Proprietà di unpezzo di terra perabitarci e su cuiiniziare la propriaattività produttiva

6 Money toexpand theirbusiness

Denaro per losviluppo delleattività

Un minimo digaranziefinanziarie perl’investimentoiniziale

7 Clean water Acqua pulita Approvvigionamento idrico conacqua potabilegarantita

8 Sanitation Impiantiigienico sanitari

Adeguatastruttura fognariaper migliorare lecondizioniigienico sanitarie

9 Better standardof housing

Miglioricondizioniabitative

Un’abitazione piùconfortevole edadeguata adeventualimiglioramentisocio-economici

10 Educationalfacilities

Scuole Istruzione eservizi sociali pergarantire lacrescita

Risposteottenute dallapopolazionelocale (inglese)

Interpretazione delle risposte, inprima persona, alla domanda: “Dicosa avresti bisogno?”

1 Food & Shelter Mi si fornisca di un essenziale kitper la sopravvivenza

2 School fees &Clothing

Mi si dia la possibilità diapprendere il minimo percomunicare ed intraprendere (misi paghi le school fees) cosi comela possibilità di apparire incondizioni accettabili (clothing)

3 Land & Moneyto expand theirbusiness

Avrei bisogno di maggiorestabilità: possedere un pezzo diterra per vivere e per effettuareinvestimenti nel settore produttivoo commerciale

4

5

Clean water &SanitationBetter standardof housing &Educationalfacilities

Avrei bisogno infine diapprovvigionamento idrico,impianti igienico sanitari,un’abitazione decente e serviziscolastici; ma tutto questo,probabilmente, sarà già il risultatodel processo di sviluppo che sisarà realizzato a seguitodell’ottenimento di:1. Food & Shelter2. School fees & Clothing3. Land & Money to expand theirbusiness

Tavola 1: Analisi dei bisogni a Mathari Valley

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Quale delle due logiche è da considerarsi più ap-propriata? Difficile dirlo. Di fatto la logica dei do-natori è propria di un occidentale che ha sviluppatostandard abitativi liberi dalle proprie deiezioni edun ambiente (apparentemente) pulito; e che graziea questi standard può ulteriormente svilupparsi; di-menticando (volutamente?) le proprie origini.La logica del beneficiario invece glissa sulla que-

stione ‘rischi sanitari’ come se questi fossero con-geniti alle condizioni di vita locali e non potesseroin alcun modo nuocere alla propria esistenza e pro-duttività. In verità è probabile che gli anticorpi degliindigenti del terzomondo siano più sviluppati diquelli di altri e che basterebbe in realtà qualche pic-cola misura cautelativa per ovviare al problema deldeficit sanitario e affrontare con più serenità (o ap-propriatezza) quello della produzione e sviluppo.È cosi che la maggior parte dei programmi di svi-

luppo lanciati dai donatori a partire dalla fine deglianni ottanta non possono prescindere da quelli chesono chiamati i basic need provision, ovvero l’of-ferta di soddisfacimento di bisogni primari finaliz-zati a garantire un ambiente abitativo e produttivosalubre.A distanza di quasi vent’anni sembra che uno

sforzo, sia pure limitato, si stia compiendo per me-diare le due posizioni nel momento in cui i princi-pali donatori:– interpretano ‘la garanzia di sopravvivenza’ ri-vendicata da parte delle popolazioni più indigentiin termini di sussidio di basic needs, da appli-carsi adeguatamente nelle situazioni di rischi en-demici di malattie infettive.

Figura 5: Donatore e beneficiario: posizioni contraddittorie perlo sviluppo.

Al fine di attivareuna qualsiasi produzionehai bisogno di un ambientesano che ti permetta diessere sano e produttivo

Se mi offrissi lapossibilità di sopravviveree di produrre, potreigarantirmi infine unambiente sano

Figura 6: Logica del Donatore: Migliori condizioni igienico-sanitarie per garantirsi un ambiente sano per lavorare,produrre, guadagnare e poi migliorare le proprie condizioniabitative.

– soddisfano la ‘necessità di essere informati ade-guatamente sulle modalità di produzione ed in-vestimento’, attraverso azioni di capacitybuilding di investitori locali, attraverso assistenzatecnica delle piccole e medie imprese e creandoincubatori per le micro-imprese con potenziali dicrescita.

– rispondono alla richiesta di ‘una maggiore stabi-lità economica iniziale basata sul possesso dellaterra e di una somma in denaro per effettuare inecessari investimenti’ favorendo il foreign di-rect investment12, l’aiuto allo sviluppo in formadi credito13 e lanciando i credit ratings14 per aiu-tare le municipalità (che beneficiano del pro-cesso di decentralizzazione) a disporre di risorsefinanziarie per creare infrastrutture utili alla pro-duzione e sviluppo di imprese.

Eppure nonostante questi sforzi e le enormi ca-pacità e risorse dell’occidente civilizzato si è benlungi dalla risoluzione dei problemi della povertà(soprattutto nel sud del mondo), benché si stianomuovendo i primi passi verso la comprensione diistanze di sviluppo della popolazione urbana più po-vera15 consistenti nel:– riconoscimento dell’esistenza di proprie risorsee strategie per emergere dalla povertà,

– rimozione degli ostacoli all’espressione delle lorocapacità,

– riconoscimento delle loro identità culturali,– riconoscimento del ruolo dominante, nei progettidi miglioramento urbano, dei poteri di organiz-zazioni democratiche preesistenti.

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1.3 I Rifugiati: note inemergenza

Il rifugiato è il beneficiario per eccellenza dei pro-grammi di emergenza. È una figura sociale che si ècreata nel momento in cui il cittadino urbanizzatoha dovuto forzatamente abbandonare il suo stato econdizione per trasferirsi altrove senza ruolo néfunzione se non quella di fruire abusivamente di unterritorio altrui.

Le categorie di fruizione del territorio sono es-senzialmente due: stanziale e nomade. La primaha sviluppato la ‘cultura urbana’ a cui apparte-

niamo, la seconda ne è la sua antitesi. La distin-zione topica è essenzialmente quella che risale al-l’opposizione tra la figura maschile e quellafemminile, tra l’allevatore e l’agricoltore; figure chehanno poi ritrovato una loro precisa collocazioneletteraria e, diciamo pure morale, nelle figure bi-bliche di Caino e Abele, irruento e battagliero ilprimo, docile e assecondante il secondo.Le figure di habitat che sono legate a questi due

rispettivi caratteri sono l’itinerario ciclico e la città.Quest’ultima – in conflittuale combinazione con ilrurale circostante – si realizza nella sedimentazionedi modelli abitativi, nella combinatoria di materialidurevoli e in un’economia che dalla produzione si-stematizzata e trasformazione dei prodotti primaripassa alla loro accumulazione e commercializza-zione. Dall’altra parte invece il nomadismo tendealla provvisorietà, al dinamismo, alla degna so-pravvivenza e allo scambio di prodotti artigianali ocomunque peculiari della mobilità del nomade.

Oggi la maggior parte della popolazione mon-diale vive in città. Il territorio del mondo è statoprogressivamente urbanizzato e larghe fasce di po-polazione si sono da diverso tempo accomodatealla stanzialità urbana. Quando queste sono indottealla mobilità coatta sia da fenomeni catastrofici na-turali e accidentali (terremoti, inondazioni), che daeventi bellici, allora una nuova categoria antropo-logica viene a crearsi: quella del non stanziale e delnon nomade, quella del nomade ex-stanziale osemplicemente del rifugiato.I rifugiati sono i nomadi del ventesimo secolo:

figure contraddittorie di ex-cittadini a cui è statoimposto, a causa di evento calamitoso o bellico, lostatus provvisorio di nomade.

Vi sono diversi tipi di rifugiati: quelli che fug-gendo dalla guerra si rifugiano in un territorio ge-neralmente non urbanizzato che potrebbe offrireloro garanzie di pace (per esempio i profughi ruan-desi in Zaire e Burundi nel 199316); quelli che fug-gendo dalla loro città si insediano in località dallequali altri sono fuggiti (come per esempio i rifugiatibosniaci nelle case serbe della città di Mostar in Bo-snia Erzegovina nel 1994), quelli che ritornano adoccupare villaggi o città d’origine essendo stati pre-cedentemente costretti ad abbandonarli (come icontadini del Kurdistan iracheno subito dopo i bom-bardamenti dei villaggi da parte del governo diSaddam Hussein), quelli che fuggono e si rifugianoin edifici pubblici occupandoli (come a Tbilisi per irifugiati georgiani dell’Abkazia e sud Ossezia), quelliche fuggono e basta.Se i primi organizzano campi profughi in piena

campagna, delle vere e proprie città di migliaia diabitanti sorte dal nulla, gli altri si sovrappongonoalle strutture già esistenti provocando problemi diordine socio-economico; i terzi, paradossalmente ipiù fortunati, devono affrontare ‘solo’ problemi diricostruzione delle loro stesse abitazioni, i quartidevono tentare l’integrazione all’interno di un tes-suto sociale alieno e diffidente, gli ultimi, come tuttigli altri, devono sopravvivere fisicamente e psico-logicamente dopo aver perduto tutto tranne, pur-troppo, la memoria.

Figura 7: Basic Need Provisions

1. water supply

2. sanitation

3. housing

4. health care services

5. health education

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Le Nazioni Unite hanno creato un’agenzia, consede a Ginevra, dal nome UNHCR17 (United NationsHigh Commission for Refugees) – in italiano ACNUR(Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifu-giati) – che si interessa della organizzazione e ge-stione di azioni a favore del sempre più crescentenumero di rifugiati nel mondo.

I campi profughi costituiscono l’immagine piùforte dell’impegno sul campo dell’agenzia delle Na-zioni Unite. Si tratta di città nuove: le uniche fon-date da mezzo secolo a questa parte. Si presentanocon le caratteristiche dell’anti-città: totalmente im-produttive e negative a causa dello stato di pro-fonda depressione psichica in cui versano i loroabitanti, ciò che induce l’inabilità fisica. Il campoprofughi, la città dei rifugiati per eccellenza si pre-senta come insediamento di nuova fondazione per-fettamente ed illusoriamente funzionale. La città ècostruita secondo principi della pura razionalità: dauna parte i servizi, dall’altra le abitazioni ed i ser-vizi primari alle abitazioni, né ci sono aree produt-tive18 a sottolineare la temporaneità di uninsediamento assunto a luogo di cura dalla violenzae inciviltà; in una parola dall’inurbanità.

Al prorompere dell’emergenza le organizzazioniinternazionali, e attraverso queste le organizza-zioni non governative, si adoperano nell’individuarele fonti di approvvigionamento idrico, nel definire ipunti di distribuzione di acqua e cibo, ed i luoghi perle evacuazioni e smaltimento dei rifiuti organici. Lestrade larghe come viali della desolazione non por-tano a nulla; non hanno altra funzione che di ga-rantire un adeguato drenaggio e dislocare i servizi.I campi profughi si costruiscono pertanto intorno amere necessità funzionali tipiche della cosiddettaprima emergenza (approvvigionamento idrico e ali-mentare, smaltimento dei rifiuti e delle acque) e su

Figura 8: Esempio di campo profughi.

Figura 9: Esempi di maglia sulla quale tracciare un campoprofughi.

Figura 10: Aggregazione di cellule.

(in verde) sedi delleONG incaricate digestire direttamenteattività speciali oservizi

(in tratteggio) iprincipali assistradali e didrenaggio

(in giallo) i quartieri residenziali per rifugiati ulteriormentedivisi in celle. Tra i quartieri le strade sono disseminate diservizi igienici e centri di approvvigionamento idrico

Buffer : Trincea diseparazione traservizi vulnerabili ecampo profughi

Servizi vulnerabili come scuole, centrisportivi attrezzati, polizia e centri di

distribuzione alimentare

Canali di drenaggiotutt’attorno i blocchidi celluleCellule. Ogni cellula puòcontenere fino a 8-10tende ed uno spaziocomune per la cucinacoperta ed economica

Pertinenze sanitarie(latrine) negliinterstizi tra batteriedi cellule

Lo spazio centraleall’interno della cellulaospita la cucinacomune

Le batterie di latrine servono gruppi di cellule. Sei cellule (circa400 persone) devono essere servite da una batteria di 8latrine. Ogni latrina infatti serve circa 50 persone per 3 annise il pozzo nero ha una profondità di 5 metri ed un diametrodi un metro e mezzo

una maglia di circa 100 x 100 metri all’interno dellaquale si organizzano i quartieri e all’interno di que-sti cellule che ospitano fino a 60 persone.

A fine emergenza i campi profughi sono sman-tellati e i rifugiati sono accompagnati da programmidi rientro nelle loro terre d’origine o sono rara-mente rilocalizzati. Ma ciò è vero solo in parte. An-cora oggi in Libano i campi profughi sono città didiseredati, luoghi vuoti da un punto di vista istitu-zionale e che vanno a sommarsi alle innumerevolirealtà di slum internazionali come le bidonvilles, lefavelas e i barrios.

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1.4 Dall’Emergenza allo sviluppo

Emergenza e sviluppo hanno bisogno di approccicompletamente differenti: il primo prevalente-mente tecnico, il secondo economico. La fase dellaricostruzione che segue l’emergenza e predisponeallo sviluppo affronta invece (o dovrebbe affron-tare) tematiche dell’uno e dell’altro molto spessoseparatamente: da una parte la ricostruzione diservizi, infrastrutture e (se il paese è strategica-mente importante) anche abitazioni; dall’altro l’as-sistenza tecnica alle imprese e istituzioni locali perla ripresa economica.

In questa fase di estrema delicatezza, nel corsodella quale si imposta e si decidono le forme dellosviluppo territoriale, la pianificazione urbana èesclusa e relegata a ruolo di semplice supporto in-frastrutturale allo sviluppo. In altri termini la logicafunzionale sulla quale si basa la costruzione deicampi profughi è ripresa e riapplicata.Solo molto dopo, e solo in alcune realtà geogra-

fiche, il territorio è fatto oggetto di attenzione daparte della comunità internazionale ed assunto abase gestionale (urban management) e fonda-mento normativo dello sviluppo.

1.4.1 Emergenza in formule

In fase di emergenza i problemi che devono es-sere affrontati sono quelli del quotidiano legati allasopravvivenza fisica dei rifugiati o dei sopravvissutial cataclisma o alla guerra.Le domande alle quali l’emergenza risponde sono

normalmente le seguenti:– Quanta acqua per giorno e per persona occorrepredisporre e distribuire ?

– Quanto grande deve essere la trincea o i pozzineri delle latrine ?

– Quanto cibo ?– Come organizzare il monitoring sanitario ?Semplici questioni che sono legate a formule di

calcolo per l’approvvigionamento idrico e lo smal-timento dei rifiuti organici umani come riportate neiriquadri qui di seguito.

Figura 11: Cellula di 450 mq in grado di contenere fino a 60 persone e dettaglio dello spazio destinato al riposo e alla cucina (coperta).

Figura 12: Dall’emergenza allo sviluppo.

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Il monitoring sanitario invece è effettuato attra-verso analisi finalizzate all’identificazione di settoridi priorità sui quali dover intervenire, per esempio:1. Smaltimento dei rifiuti organici umani ed animali(Excreta disposal)

2. Gestione dei rifiuti solidi (Solid waste manage-ment)

3. Gestione dei rifiuti sanitari (Waste managementat the medical centre)

4. Rimozione e smaltimento dei defunti (Disposalof the dead bodies)

5. Gestione delle acque luride (Wastewater mana-gement)

6. Miglioramento igienico (Hygiene promotion)

Ciascun settore deve essere analizzato in areeresidenziali, mercati pubblici, mense pubbliche,centri medici e scuole.A questo proposito potrebbero essere realizzati

software applicativi come per esempio quellomesso a punto da WEDC19 (Emergency Sanitation:Rapid Assessment and Priority Setting Tools).

1.4.2 La ricostruzione

La fase di ricostruzione viene gestita da enti mul-tilaterali sulla base di indagini (assessment) elabo-rate e applicate da esperti tecnici di organizzazioninon governative o gruppi di lavoro appositamenteistituiti come per esempio l’International Manage-ment Group (IMG)20. Il Preliminary Housing Da-mage Assessment (riportato qui accanto) è basatosull’analisi dei danni arrecati a quattro diversi com-ponenti edilizi:1. Murature e orizzontamenti (Walls and FloorStructure)

2. Impianti e partizioni interne (Internal Construc-tion)

3. Tetti e coperture (Roof)4. Porte e finestre (Windows and Doors)

Ciascun componente viene valutato visivamentee un grado (percentuale) di danno è attribuito se-guendo le istruzioni riportate nel dettaglio qui diseguito a titolo di esempio.

Tavola 2: Foglio di calcolo della qualità del sistema di smaltimento di deiezioni in area residenziale (tratto da Emergency sanitation:rapid assessment and priority setting tools, WEDC (Water, Engineering and Development Centre) Loughborough University,Leicestershire, Great Britain).

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La somma dei danni e i relativi costi di riabilita-zione sono calcolati su un foglio Excel una volta at-tribuiti i costi correnti di costruzione per metroquadro e l’estensione totale dell’edificio.L’obiettivo del Damage Assessment consiste nel-

l’identificare la percentuale di danno funzionale alcalcolo del costo di riabilitazione basato sulla valu-tazione del costo di costruzione a nuovo.

È difficile che l’ente finanziatore (il donatore) fi-nanzi l’intero importo relativo al danno calcolato.Normalmente solo una parte è presa in considera-zione e questa è pari al costo e fornitura dei mate-riali da costruzione aumentata di un’ulteriorepercentuale del costo della manodopera. Si sup-pone infatti che il beneficiario contribuisca in qual-che modo alla riabilitazione della propria abitazionecon i propri risparmi, l’auto-costruzione o il soc-corso mutuo dei vicini e/o parenti.In tal modo si realizza una prima e primitiva

forma di partecipazione alla “cosa urbana” che, arigor di logica, dovrebbe poi essere seguita daazioni sempre più coinvolgenti i cives e che porte-rebbero al decision making process21 dello sviluppourbano. In verità questa logica è negata dalla piùsettoriale ed ingiustificata delle posizioni che vuoleche, in fase di ricostruzione, la riabilitazione delleinfrastrutture (a rete e sociali) sia sicuramente ne-cessaria ma anche sufficiente allo sviluppo di unadeterminata area, che la partecipazione dei citta-dini può essere limitata alle attività di ricostruzionedelle loro case, che la città ed il suo sviluppo èesclusivo appannaggio del piano regolativo di ungoverno, centrale o provvisorio che sia (vedi il casoKossovo).

Tavola 3: Indagine preliminare di danno.

Tavola 4: Dettaglio.

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L’impressione è che lo sviluppo (quello degli altri,quello di coloro ai quali si stanno risollevando lesorti) incuta timore, che schiacciare sull’accelera-tore della pianificazione partecipata per raggiun-gere uno sviluppo persino sostenibile non siaparticolarmente raccomandabile né auspicabile, eche poi la partecipazione (semmai eccessiva) possadestabilizzare il precario equilibrio (sociale, econo-mico e politico) che si sta tentando di ricostruire.

Se le fondamenta dello sviluppo attraverso lapianificazione urbana partecipata di una città di-strutta (dalla guerra o da un terremoto) devonogettarsi in questa fase, è senz’altro questione dis-cutibile. Certo è che la maggior parte delle orga-nizzazioni internazionali ed i più importanti donatoricome l’Unione Europea o gli Stati Uniti ritengono(posizione sostenuta attraverso azioni e non attra-verso dichiarazioni d’intenti o di appartenenza ascuole di pensiero) che la pianificazione (parteci-pata o meno) sia da considerarsi base e fonda-mento dello sviluppo solo a partire da una faseavanzata della ricostruzione se non addirittura apartire dal lancio di progetti di sviluppo. L’Africa,con le dovute eccezioni, ne è comunque esclusacosi come l’area caraibica.A seguito di una visita curiosa e indagatrice sul

ruolo della pianificazione urbana all’interno dellepolitiche di EuropeAid22, buona parte dei respon-sabili di uffici di rango ha mostrato profonda con-vinzione che la pianificazione urbana nei paesi invia di sviluppo non possa che corrispondere ai soliimpianti a rete urbani (rete elettrica e strade, masoprattutto rete fognaria e idrica). Infatti a tutto il2004 EuropeAid non aveva ancora assunto politi-che di aiuto allo sviluppo regionale che integras-sero la pianificazione urbana all’interno delleattività promotrici di sviluppo.

La ricostruzione è un momento particolarmentedelicato della storia dello sviluppo di un paese.Smorzare le energie che si sviluppano dopo avertoccato il fondo o non saperle gestire e in qualchemodo tarparle sarebbe come negare a un bambinoil diritto ad esprimere il proprio carattere in pienafase di crescita.

1.4.3 Sviluppo e città

La fase di sviluppo della cooperazione interna-zionale è basata sull’assunto che le risorse esistentiall’interno di una comunità siano produttive e per-tanto in grado di produrre o far produrre un valoreaggiunto. Di fatto questo assunto coincide con lestesse ragioni d’essere di un qualsiasi insediamentourbano. La città infatti originariamente si determinain funzione di comuni interessi volti alla produzioneottimizzata, accumulo e commercializzazione diprodotti primari. Il passaggio dalla pastorizia er-rante e raccolta di frutti e vegetali selvatici all’agri-coltura e allevamento, in effetti aveva, nella storiadell’antropologia evolutiva, un obiettivo quanto maifunzionale: ottimizzare la produzione vegetale edanimale, accumularne i prodotti per un uso co-stante nel corso dell’anno, vendere i prodotti va-riandone ovviamente i valori nei periodi dimaggiore o minore fabbisogno.Di qui ai concetti di investimenti produttivi e spe-

culativi il passo è stato breve. Presto si è compresoinfatti che il denaro aveva un valore in funzione diuna percentuale solitamente pagata per il suo uso(il prestito) in un determinato periodo di tempo23 eche era pertanto possibile valutare il costo effettivodi un investimento a lungo termine attraverso il cal-colo del fattore di sconto e quindi degli importi ca-pitalizzati nel tempo.Detratto il costo d’investimento effettivo è pos-

sibile valutare lo sviluppo, sia in area urbana cherurale, attraverso criteri di valutazione tra i più di-versi. Innanzitutto lo sviluppo è solitamente valu-tato in funzione del valore di mercato totale deibeni e servizi prodotti da una determinata comunità(urbana, regionale o nazionale) e nel corso di undeterminato periodo di tempo. Il parametro di va-lutazione di questo tipo di sviluppo ha un nome: èil Prodotto Interno Lordo (Gross Domestic Product).Ma non è il solo. Lo sviluppo urbano concepito soloed esclusivamente in funzione dello sviluppo eco-nomico può facilmente provocare sperequazioni so-ciali ed un’instabilità socio-economica conseguente.Pertanto tra gli indicatori dello sviluppo urbano

sono stati inseriti quelli identificati e lanciati daUNDP (Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite- United Nations Development Programme) all’in-terno del programma Millennium DevelopmentGoals24. Sono 48 ed i parametri economici sono innetta minoranza.

Come già detto la stessa città ha in sé primordialitensioni di sviluppo a fronte di una concentrazionedi esseri umani all’interno di un ambito territorial-mente limitato. Ciò portava ricadute negative comeper esempio l’accumulazione delle umane deiezionie conseguenti condizioni igienico-sanitarie insalubrie sviluppo di malattie infettive che inducevano sot-tosviluppo a meno di un adeguato (nelle forme enei modi) approvvigionamento d’acqua potabile,cibo e un sistema di allontanamento e trattamentodei rifiuti. L’efficiente gestione di questi ed altri ser-vizi all’interno della comunità urbana comportavaun esborso consistente da parte della stessa co-munità che pertanto doveva innanzitutto organiz-zarsi prima di far fronte all’investimento per

Tavola 5: Quadro di calcolo dei costi di riabilitazione.

Il costo diriabilitazione ècalcolato sullabase dellapercentuale deldanno (Real TotalDamageAssessment)moltiplicato per ilcosto dellacostruzione anuovo

Campi rosa: dariempireCampi grigi: calcoloautomatico

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l’approvvigionamento o miglioramento dei cosid-detti impianti urbani e servizi collettivi.

Il bilancio tra ricchezza urbana prodotta e costocomplessivo ed effettivo (relativo cioè alla compo-nente tempo) di tutti i servizi è però un parametrodi sviluppo solo quantitativo. La qualità dei serviziofferti alla collettività è misurabile, ma solo sog-gettivamente25 o attraverso la comparazione con lecaratteristiche di qualità degli standard (per esem-pio europei) che fungono da parametri di riferimento.

Stabilito che lo sviluppo è misurabile, paragona-bile e persino programmabile, risolte le controver-sie in merito alla qualità dello sviluppo, rimangonocomunque interrogativi sulle questioni a monte eper cui è ben lecito domandarsi: “quale sviluppo?”… E poi: “sviluppo di chi e rispetto a chi ed in chemodo?”, “Svilupparsi: ne vale poi la pena?” E an-cora: “A quale sviluppo ci si riferisce?”, “È New Yorkun parametro di sviluppo importante?”. Si deve de-finire la violenza delle bande di giovani criminali che“difendono” un quartiere mostrando i muscoli e nonsolo, una sorta di violenza evoluta dalla forza dellemute di cani che invadono la notte delle città deipaesi in via di sviluppo?. Il buon senso suggeri-rebbe inoltre che non si può definire sviluppo il pas-saggio tra una Parigi traboccante di rifiuti liquidi esolidi umani del settecento e una Parigi traboccantedi deiezioni animali domestici del ventunesimo se-colo. E poi: sarebbero indicatori di sviluppo la vio-lenza urbana che si è sviluppata nelle periferieurbane di ogni metropoli e la invivibilità delle cittàinquinate e fondate sulla non comunicazione tra ipropri residenti? Se la risposta fosse positiva moltecapitali europee sarebbero subito sbalzate dai primiposti delle classifiche dello sviluppo.

Detto ciò, ne consegue che lo sviluppo è un con-cetto piuttosto inqualificabile e per certi versi para-dossale. Per evitare di cadere in queste trappoleinquietanti lo sviluppo si è vestito di “sostenibile”26

per poterci garantire almeno una speranza, ma an-cora tutta da progettare. Secondo le definizioni piùaccreditate sostenibile è innanzitutto “uno sviluppoche garantisce i bisogni delle generazioni attualisenza compromettere la possibilità che le genera-zioni future riescano a soddisfare i propri”27. A talfine il progetto di sviluppo deve poter essere fon-dato sull’equilibrio tra tre diverse componenti: il so-ciale, l’ambientale e l’economico.

Nonostante i vent’anni trascorsi dalla nascita deltermine “sostenibile”, forse a causa del dibattito an-cora in corso tra le diverse scuole di pensiero cheattribuiscono alla sostenibilità differenti significati,una definizione univoca di “sostenibile” in realtànon esiste. Le definizioni riportate da alcuni dizio-nari sembrano soprattutto riferirsi al concetto di“manutenzione con il minimo sforzo”, laddove l’e-spressione “manutenzione” ha in sé il dinamismoimplicito di un’azione che possa riprodursi neltempo e pertanto essere replicabile e eventual-mente evoluibile (incremental) se applicata con ap-propriatezza28.

Figura 13: Regola dell’equilibrio: relazione dei campi chedefiniscono la Sostenibilità.

Sustainable, adj. 1. capable of being sustained.2. (of economic development, energy source,etc.) capable of being maintained at a steadylevel without exhausting natural resources orcausing severe ecological damage: sustainabledevelopment. (Collins, Concise English Dictio-nary).

Sustainable, adj. 1. capable of being sustained.2. a: of, relating to, or being a method of har-vesting or using a resource so that the resourceis not depleted or permanently damaged. (Su-stainable technique, sustainable agriculture); 2.b: of or relating to a life style involving the useof sustainable methods (sustainable society);(Merriam Webster’s Collegiate Dictionary).

Sostenibilità, s.f. Possibilità di essere mante-nuto o protratto con sollecitudine e impegno o diessere difeso e convalidato con argomenti pro-banti e persuasivi. (Devoto-Oli).

I concetti ai quali si potrebbe far riferimento percomprendere, giustificare ed applicare la sosteni-bilità sono, come si è visto, diversi. Soffermandosisul “minimo sforzo” della manutenzione, trasfe-rendo questo concetto in un’immagine della fisicaelementare ed identificando lo sviluppo sostenibilecon il movimento prodotto dallo sforzo in terminidi spinta, si sarebbe indotti a riflettere sul fatto chetale sforzo (o spinta)– può essere esterno o anche interno, ovvero puòdipendere non solo da chi lo produce ma ancheda possibili propulsioni interne, e

– può dipendere dalle condizioni del terreno, ov-vero dal contesto che caratterizza l’oggetto damuovere o sviluppare

come si evince dai tre disegni che rappresentano itre tipi di moto (sviluppo) che è possibile indurre inun corpo.

I tre tipi di movimento indotto, qui rappresen-tati, non contemplano né l’esistenza di una forzaimplicita al corpo che possa in qualche modo con-tribuire almeno all’inerzia del moto indotto, nétanto meno prendono in considerazione la possibi-lità di facilitare il movimento (in particolare il terzo,il più angosciante e purtroppo il più rispondente allarealtà degli sforzi di sviluppo inutilmente sostenutiper buona parte dei paesi in via di sviluppo) attra-verso azioni sul contesto (smoothing) che facilitinola messa in moto o la inerzia del moto.

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Figura 14: Tre condizioni fisiche di stato.

Figura 15: Lo smoothing dello sviluppo.

Figura 16: Il moto interno dello sviluppo.

In sintesi lo sviluppo ovvero la metamorfosi dauno stato ad un altro è il risultato di un minimosforzo (una spinta) che può essere concepito comeesterno e/o interno; e quello esterno può esserediretto (spinta sull’oggetto) o indiretto (azione sulcontesto). Sviluppare lo sviluppo sostenibile implicapertanto l’elaborazione e l’adozione di una strate-gia che usi minimi sforzi per indurre il più duraturomovimento possibile: un movimento che si auto ri-produca (sia cioè replicabile) e sia evoluibile neltempo.

Lo sforzo esterno diretto consiste in quello in-dotto da un evento o una strategia prodotta da unente (interessato) perché si produca sviluppo. Losforzo esterno diretto è in genere prodotto da uncooperante tra le mille difficoltà di riuscire a comu-nicare in un contesto fisicamente, linguisticamentee culturalmente differente da quello in cui è abi-tuato a vivere e lavorare. Tale sforzo si produce ingenere attraverso la cosiddetta assistenza tecnica(technical assistance), il trasferimento di cono-scenza (knowledge transfer o training) o trasferi-mento di tecnologia (technology transfer) ed azionidi supporto logistico e funzionale come per esem-pio la costruzione degli ambienti di lavoro e produ-zione dello sviluppo (costruzione di incubatorid’impresa o uffici amministrativi) o la costruzione diinfrastrutture per lo sviluppo come strade e ponti..Lo sforzo esterno indiretto consiste invece nel

‘mettere in condizione’ il contesto di svilupparequelle qualità gia presenti nell’oggetto di sviluppo.Si tratta di attività modulate non necessariamentesul target e che risultano da una quanto mai at-tenta ed appropriata identificazione delle leve dellosviluppo del paese o della comunità.Lo sforzo interno è quello indotto dall’ente ‘in via

di sviluppo’ per alleggerire lo sforzo prodotto all’e-sterno (che talvolta è oneroso nel tempo29) ed èvolto a garantire la possibilità di una gestione au-tonoma ed indipendente del progetto di sviluppouna volta che l’aiuto esterno si ritira. Lo sforzo in-terno in genere è quello che è offerto dagli enti be-neficiari in garanzia agli enti donatori. Tale sforzocoinciderebbe con la capacità potenziale ed effet-tiva, delle risorse umane e non, di proseguire losviluppo indotto dalle azioni offerte dai donatori.

Una volta definiti i campi di applicazione dellosviluppo sostenibile, le sue qualità potrebbero es-sere ricercate in attributi le cui caratteristiche fannoriferimento a concetti ricorrenti sia nel testo chenella letteratura e sono:a. lo sviluppo sostenibile partecipato (participatorydevelopment). Lo sviluppo ottenuto attraversola partecipazione della popolazione locale alla ri-cerca dello sviluppo sostenibile della regione,

b. lo sviluppo sostenibile consistente (consistentdevelopment). Lo sviluppo coerente con le ca-ratteristiche sociali ed economiche della popola-zione locale; Lo sviluppo ambientale devepertanto essere accessibile (in termine di inve-stimento) alla popolazione locale,

c. lo sviluppo sostenibile rilevante (relevant deve-lopment). Lo sviluppo pertinente con la realtàgeografica, fisica, sociale ed economica. Peresempio il terziario avanzato laddove la ricon-versione industriale è necessaria.

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CAPITOLO SECONDOGli Strumenti delCooperante Tecnico

Una volta fornito il lessico ed i concetti fonda-mentali, utili e critici nell’ambito della cooperazioneinternazionale, gli strumenti del cooperante tecnicoseguono in forma di opzioni derivate dalla praticaprofessionale. In questo specifico caso sono ripor-tati strumenti e tecniche adottate nel corso di espe-rienze professionali nel settore dell’emergenza inGeorgia, post emergenza e ricostruzione in Burundie Kossovo30, e dello sviluppo in Burkina Faso.Sono descritti i fatti e soprattutto gli adempi-

menti e le crisi del cooperante al quale è chiesto diimprovvisare ed improvvisarsi, di progettare, co-municare ed eseguire lavori nei tempi e nei modiche sono brevi, difficili, rischiosi.

2.1 Georgia: Riabilitazione diEdifici occupati dai Rifugiati31

A seguito delle tensioni politiche ed etniche al-l’interno dell’area caucasica immediatamente dopola frammentazione indipendentistica dei marginidell’impero sovietico, la Georgia32 ha dovuto farfronte alla guerra contro gli indipendentisti dell’Ab-kazia e del sud dell’Ossezia e al conseguente gra-voso problema dell’insediamento temporaneo dimigliaia di rifugiati provenienti dalle aree di crisi.Scuole, ospedali ed alberghi erano presi d’assalto eoccupati dalle masse di rifugiati. Il tasso di occu-pazione era ben al si sopra del previsto e consen-tito. Stanze destinate ad ospitare due personeerano occupate da una o più famiglie (quattro o seipersone) e pertanto ben presto tutti gli impianti tec-nologici a rete (impianti elettrici, impianti di ap-provvigionamento idrico e di smaltimento delle ac-que luride) saltavano a causa dell’eccessivo numerodell’utenza (almeno doppio rispetto al previsto) esoprattutto a causa dell’uso negligente o vandalico.

Nel 1996 i rappresentanti dei maggiori donatoridell’emergenza internazionale (Croce Rossa,UNHCR, ECHO33) erano presenti sul territorio geor-giano, impegnati in azioni umanitarie a favore deirifugiati. L’obiettivo del programma dell’Unione Eu-ropea, rappresentata in questo caso da ECHO, con-sisteva nella riabilitazione degli edifici occupati dairifugiati al fine di offrire loro un alloggio decorososebbene temporaneo. Tale obiettivo si scontravacon ben due dati di fatto:1. il carattere non temporaneo degli insediamentidei rifugiati che sicuramente nel breve terminenon avrebbero potuto trovare migliore sistema-zione, e

2. il carattere stesso del rifugiato: anarchico ribelleche negava e disprezzava quelle istituzioni cheerano direttamente o indirettamente responsabilidel suo stato, deprivato di ogni bene, talvoltapersino degli affetti e purtroppo non della suavita alla quale avrebbe voluto volentieri rinun-ciare. Quelle istituzioni erano lo Stato che in quelmomento lo ospitava, erano l’alloggio nel qualesi trovava solo (con il suo dolore) o con la sua fa-miglia (se fortunato); il riguardo che ne avevaera pressoché inesistente.Le buone intenzioni di ECHO si sarebbero presto

scontrate non tanto con questa realtà (di cui si spe-rava e si spera ancora oggi, possedesse coscienza)quanto con uno sforzo finanziario e managerialedovuto alla incessante riabilitazione degli immobilioccupati dai rifugiati, che rendevano, dopo la riabi-litazione, nuovamente invivibili i loro stessi alloggi,cosi creando un circolo vizioso che finiva per bene-ficiare non solo i rifugiati (che forse non se ne ren-devano neanche conto), ma anche e soprattutto leorganizzazioni non governative attive sul territorioed impegnate nella riabilitazione ciclica di questidormitori e le imprese edili locali in odore di mafia.A ciò si aggiungeva una osservazione assai cu-

riosa. I bagni collettivi appena riqualificati per usocomunitario erano immediatamente occupati daquelle famiglie di rifugiati costrette fino ad allora acondividere la camera con un’altra famiglia.

Figura 17: Georgia 1995. Flussi migratori di rifugiati di diversa etnia e facciata laterale (lato servizi) di edificio occupato da rifugiati aTbilisi, 1996.

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Era evidente che a fronte di impellenti bisogni diprivacy le famiglie non esitavano a risolvere il pro-blema autonomamente ed a scapito dell’intera co-munità del piano che avrebbe dovuto fruire dei ba-gni appena rinnovati. La lotta per la sopravvivenzaera feroce e l’intera comunità evidentemente nonera organizzata. Non esisteva un’autorità ricono-sciuta o ‘democraticamente’ eletta che organiz-zasse le azioni secondo la logica del rispetto altruied il riconoscimento del bene comune.

2.1.1 Una Proposta di Progetto

Al fine di rompere il circolo vizioso occorreva ren-dere responsabili gli utenti degli alloggi occupati (irifugiati e le loro famiglie) della necessaria manu-tenzione ordinaria e straordinaria di quelle stessestrutture. Un’impresa quasi impossibile a causa del

risentimento ed ostilità nei confronti di Stato e so-cietà. Di fatto i rifugiati non sono certamente benvisti dalla stragrande maggioranza della popola-zione locale: essi sono coloro che portano odio eviolenza, in una parola: instabilità sociale e sotto-sviluppo.In queste condizioni occorreva operare in due

opposte direzioni:1. a favore dei rifugiati per far loro riconoscere lanuova realtà, ed il fatto che quello spazio da lorooccupato, anche se piccolo, era il ‘loro’ alloggio;

2. a favore della rimanente società urbana perchéaccettasse i nuovi venuti con i loro problemi e liintegrasse progressivamente all’interno delle at-tività ed in genere della vita urbana.

Non poteva essere diversamente: il sempliceprogramma di riabilitazione fisica delle strutture

Figura 18: Occupazione di edifici pubblici da parte di rifugiati in Georgia (1996). Nelle fotografie: la condizione dei lavabi primadell’intervento, i lavabi dopo l’intervento, il vano dei lavabi collettivi (uno per piano) occupato da una famiglia di rifugiati.

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edilizie doveva corroborarsi di una componentepsico-socio-culturale dalla quale non poteva pre-scindere, ovvero, gli edifici occupati dai rifugiati nonpotevano prescindere dagli stessi rifugiati ai qualioccorreva innanzitutto riconoscere il proprio statuspsico-sociale fatto di instabilità, aggressività, vio-lenza. Il rifugiato avrebbe dovuto innanzitutto ri-conoscere quel luogo sia pur brutto e limitato nellospazio, come proprio: come propria casa. Per farciò occorreva indurre il beneficiario a toccare, adaccarezzare quelle mura a farle sentire sue, a ri-pararle, ad accudirle, in altri termini a provvederealla sua manutenzione e con ciò metter fine al cir-colo vizioso del distruggere e riaggiustare.Dall’altra parte anche il ‘normale’ cittadino geor-

giano avrebbe dovuto comprendere le ragioni dellecondizioni socialmente precarie del suo nuovo co-inquilino e del temporaneo disagio che stava sub-endo. In particolare avrebbe dovuto intendere chela durata di quella temporaneità era una funzionedella sua capacità di comprensione e conseguenteed eventuale offerta d’aiuto.

La Proposta di Progetto elaborata nel corso deiprimissimi giorni di lavoro consisteva nel coinvol-gimento diretto del rifugiato/beneficiario all’internodelle azioni di cosiddetta ‘riabilitazione fisica’. Inaltri termini il rifugiato avrebbe beneficiato di ade-guati utensili di lavoro ed una breve formazione inloco (vocational training e on the job training) perfar fronte alle riparazioni resesi nel frattempo ne-cessarie per una sua decorosa sopravvivenza neicosiddetti centri collettivi. Che l’autocostruzione(self-help) implicasse una bassa qualità dei risul-tati ottenuti era risaputo. Tale consapevolezza perònon ostacolava la determinazione di prendere inconsiderazione un metodo e le relative azioni stra-tegiche fondamentalmente basate sull’investimentoin mano d’opera (labour intensive) invece che incapitali (capital intensive) cosi come invece era ac-caduto fino a quel momento. A ciò doveva affian-carsi una paziente e sapiente campagna diinformazione (awareness campaign) indirizzata allarimanente popolazione urbana. Tuttavia anche glistessi rifugiati avrebbero dovuto essere informatidi quanto stava per capitar loro. Una campagnad’informazione che chiarisse gli obiettivi ed invi-tasse alla collaborazione avrebbe dovuto esserelanciata nella fase iniziale del progetto e far pernosu canali d’informazione tra i più disparati: affis-sione di posters, comunicazione via radio, ed invo-cazione verbale.

Questa Proposta di Progetto, critica ed allostesso tempo complessa, fu presentata al projectmanager delegato in Georgia dalla Unione Europeae fu approvata assieme ad una schematica rappre-sentazione illustrata delle attività di riabilitazioneda svolgere nei centri collettivi occupati dai rifugiatie consistenti in:1. smaltimento dei rifiuti liquidi (sanitation). Ade-guamento del numero delle latrine e delle sezionidei tubi di scarico al numero degli utenti;

2. approvvigionamento idrico (water supply). Of-ferta garantita di una quantità minima di 35 litrid’acqua al giorno da erogare in 15 ore;

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3. protezione dalle intemperie (weather protec-tion). Creazione di condizioni di salubrità all’in-terno degli alloggi evitando infiltrazioni di acquapiovana da tetti e finestre;

4. raccolta rifiuti (refuse collection). Creazione diadeguate condizioni igieniche all’interno e all’e-sterno dei centri collettivi organizzando la rac-colta e smaltimento dei rifiuti solidi;

5. sicurezza (security in the building). Prevenzionedi incendi e shock elettrici all’interno di ciascunalloggio.

Fu molto probabile che questa banale rappre-sentazione finì per colpire ed esaudire le aspetta-tive del delegato che un po’ per disattenzione unpo’ per negligenza trascurò la componente più co-spicua ed importante dell’intera Proposta di Pro-getto, ovvero il coinvolgimento (diretto edindiretto) dei beneficiati tutti, ovvero sia i rifugiatiche gli altri, quelli che rifugiati non erano, ma cheli subivano. La componente partecipativa infatti,proprio perché non presa in considerazione conadeguata consapevolezza e professionalità fu og-getto, a termine lavori, di pesanti commenti edobiezioni essenzialmente maturate dal fatto che iconcreti risultati ottenuti non erano paragonabili,in termini di qualità e di immagine, a quelli di altrioperatori (principalmente ONG) attivi su progettianaloghi.

In effetti il Progetto proponeva un approccio ra-dicalmente differente dal convenzionale. Da mera-mente tecnico l’approccio diveniva partecipativo.Ciononostante la componente tecnica non era tra-scurabile in quanto mediata dal coinvolgimentodella popolazione residente (i rifugiati) e dalla loroadeguata formazione. Le implicazioni di questa Pro-posta di Progetto erano drammaticamente rischiosesoprattutto in termini di visibilità (ciò che sta par-ticolarmente a cuore all’intera comunità dei dona-tori) e di mancanza di una politica di valutazionecorredata da tecnologie per la valutazione a brevee medio-lungo termine.

Il quadro delle azioni da svolgere si arricchiva inmaniera considerevole. A parte la riabilitazione fi-sica (physical rehabilitation programme) da farsvolgere in self-help agli stessi beneficiari, altre nu-merose azioni (complementari alla riabilitazione)erano state integrate nel progetto con l’obiettivo diperseguire una ricorrente auto manutenzione (self-maintenance programme) degli edifici occupati dairifugiati. Nello specifico due nuove componenti ren-devano l’approccio complesso e vario: la compo-nente informativa e quella organizzativa; la primatesa a rendere i rifugiati dapprima coscienti dellaloro condizione e poi conoscenti delle tecnologie

Figura 19: Settori nei quali svolgere attività di riabilitazione.

1 2 3 4 5

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appropriate per l’auto manutenzione, la secondaper creare una struttura di comunità di base (Com-munity Based Organisation - CBO) che si rendesseresponsabile della esecuzione dei lavori di manu-tenzione ordinaria e straordinaria a partire dall’im-mediato futuro.

2.1.2 Componente informativa

La componente informativa aveva un ruolochiave nella realizzazione del progetto. Rifugiati enon dovevano essere informati su quanto stava lorosuccedendo recuperando così quella consapevo-lezza dei rispettivi ruoli e funzioni che avrebbe si-curamente contribuito al successo delle azioni diprogetto. Come gia detto, da una parte i rifugiatiavrebbero dovuto acquisire la consapevolezza chequalcuno si stava interessando a loro e non solo alloro habitat, dall’altro la rimanente popolazioneavrebbe dovuto essere stimolata innanzitutto allacomprensione delle condizioni psico-fisiche del ri-fugiato e degli sforzi che si stavano compiendo peravvicinare le due comunità (quella dei rifugiati equella dei residenti) – tra l’altro della stessa etnia– per collaborare entrambi allo sviluppo unanimedella città.

I rifugiati avrebbero dovuto schiudere quell’im-penetrabile coriacea corteccia che si erano costruitia propria ultima difesa a fronte di quanto già fosseloro capitato. E ciò risultò quanto mai difficile. Treazioni furono definite e realizzate:1. l’informazione via radio,2. l’approccio personale,3. il coinvolgimento sociale.

Con l’informazione via radio si desiderava sem-plicemente annunciare l’avvento del progetto; inaltri termini si voleva trasmettere un fatto ed unprogramma che li avrebbe coinvolti. La radio era lapiù diffusa dei mass media tra i rifugiati e l’oggettodella trasmissione doveva essere umano anzi moltoumano. In pratica era stata trasmessa un’intervistaindiretta del capo-progetto mediata dal racconto diun testimonial (una famosa cantate georgiana).L’oggetto dell’intervista era la vita privata di unuomo che, con tutta la famiglia si appassionava allacausa dei rifugiati più che a quella della sua orga-nizzazione e si rivolgeva pertanto all’uomo più cheal suo habitat. Il messaggio veicolato faceva pernosul fattore umano invece che fisico, sul soft inveceche sull’hard in modo da aprire una breccia ed uninteresse durevole anche nel rifugiato più ostinato.

Se l’informazione via radio introduceva al rap-porto tra cooperante/rifugiato (cooperante / bene-ficiario), con l’approccio personale il messaggio /invito alla collaborazione avrebbe invece assuntocarattere più esplicito. A seguito di una rigorosa se-lezione di assistenti sociali tra la popolazione gio-vane e devota, e dopo una rapida formazione, ungruppo di giovani studentesse universitarie erastata inviata a bussare a tutte le porte dei rifugiatiper presentare il programma di lavoro ed invocarela loro adesione e collaborazione. Nulla di più diffi-cile doveva aspettare le giovani volontarie che sitrovarono inizialmente davanti un muro di totaleindifferenza al coinvolgimento nella ristrutturazionedei centri collettivi. Ma la loro azione fu esemplareper la pervicacia risolutiva.

Figura 20: Confronto tra Approcci. Tavola 6: Proposta di progetto. Approccio e Azioni.

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La maggior parte dei rifugiati capitolò mostrandodapprima dubbio e poi progressivamente interesse.Il coinvolgimento sociale doveva semplicemente

coronare le due precedenti azioni trascinando i be-neficiari nientemeno che a teatro per sancire, fi-nalmente, l’appartenenza del rifugiato allacomunità urbana tutta intera e di cui loro ne face-vano parte a tutto titolo. Uno spettacolo di danza ecanto folclorico fu organizzato all’interno del teatromunicipale ed invitato fu un gruppo georgiano fa-moso in patria ed all’estero. I rifugiati furono in-formati via radio e in seguito fu loro distribuito unbiglietto omaggio. Ciononostante l’adesione non fumassiccia probabilmente a causa della comunqueavvertita non appartenenza (o appartenenza an-cora da costruire) al territorio urbano ed ai suoi re-lativi servizi.

Ma non fu tutto. Le attività di persuasione dei ri-fugiati alla collaborazione alla riabilitazione degliedifici occupati cominciarono con un persistente vo-lantinaggio nei luoghi di maggiore presenza dei ri-fugiati a cui si aggiunse l’affissione di manifesti(50x70 cm) che incitavano a condividere gli obiet-tivi dei programmi di riabilitazione dei centri collet-tivi a cominciare dalla salvaguardia delle piùelementari norme di igiene fino alla partecipazionea riunioni che di li a poco avrebbero gettato le basidi una organizzazione responsabile degli edificianche in forma di servizi collettivi come scuole edasili nido.A questo punto le azioni informative divennero

ulteriormente più diffuse e persistenti. Una serie dinove manifesti (30x42 cm) furono affissi in ciascunpiano dei nove edifici target, a distanza di 48 orel’uno dall’altro. Si trattava di informazioni (unasorta di vademecum) in merito ad un corretto usodei servizi collettivi e soprattutto dell’impianto elet-trico che aveva causato non poche vittime tra i piùpiccoli residenti a causa dell’uso concomitante didiverse tensioni all’interno dello stesso impianto odi cortocircuiti dovuti all’uso contemporaneo di nu-merosi elettrodomestici e cucine elettriche.La ‘campagna pubblicitaria’ fu di proposito inva-

dente e puntava il dito dritto in faccia all’utente in-disciplinato colpevolizzandolo. Tale affrontoincontrò pertanto una certa ostilità da parte del de-stinatario del messaggio. Infatti, subito dopo l’af-fissione, i primi manifesti furono strappati.

Figura 21: Spettacolo di danza georgiana organizzato per i rifugiati all’interno del teatro comunale della città di Tblisi.

Figura 22: Poster affisso all’ingresso dei centri colettivi.

An Italian NGO is implementing several humanitarian aidprojects financed by ECHO. Among them the RehabilitationProjects for Collective Centres occupied by Refugees aims atproviding the refugees with basic needs.Moreover the Italian NGO aim is to raise the awareness of therefugees in order to improve their own living conditions.

OUR TARGET is YOUR TARGET

A MEETINGwill be held

where the following topics will be discussed:- organisation of the Rehabilitation Works- carrying refuses away to the rubbish bins, and cleaningadjoining area

- organisation of everyday duty on each floor- electricity consumption and safe condition in use- refugees’ involvement in opening and functioning:workshops, kindergartens and other common places etc.

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La reazione da parte degli assistenti sociali cheavevano in carico l’azione doveva essere immediatae tecnologica per non perdere il vantaggio media-tico creato dalle precedenti campagne di informa-zione. Gli stessi manifesti precedentementestrappati dalle pareti su cui erano stati affissi fu-rono rincollati con una colla istantanea, più resi-stente e diffusa sull’intera superficie del manifesto.

Le campagne di informazioni e di costruzionedella consapevolezza (awareness campaign) dellostato e condizione di rifugiato e della necessità di ri-sollevarsi con le proprie forze e non con l’esclusivocontributo della comunità internazionale eranocompletate ed avevano creato un ambiente favo-revole alle azioni successive basate sul recluta-mento e formazione (vocational training) deglistessi rifugiati per la riabilitazione fisica. Quantoquesta campagna mediatica abbia contribuito albuon risultato del progetto è di difficile stima. Que-sta avrebbe forse dovuto essere pianificata in sededi gestione del programma, compito generalmenteaffidato al donatore o a chi lo rappresenta.La valutazione dell’incidenza di una awareness

campaign è possibile se fatta su un campione(caso) e su un controllo o riscontro quanto più pos-sibile simile al caso, ovvero, nel caso specifico unedificio occupato da rifugiati sul quale si fosse ap-plicato un approccio partecipativo non accompa-gnato da campagna di informazione.

Ad ogni buon conto il costo medio di riabilita-zione degli edifici collettivi occupati da rifugiati ri-sultava comunque doppio quando si applicava unapproccio convenzionale invece che partecipativo,a prescindere dalla efficacia delle campagne me-diatiche sui rifugiati in condizioni di emergenza.A tal proposito ancor più pertinente risulta la

questione in merito alla necessità e relativa effica-cia di campagne di informazione non tanto indiriz-zate ai diretti beneficiari (i rifugiati) quanto a coloroche per un novero di ragioni consideravano i rifu-giati responsabili diretti o indiretti della instabilitàsociale della città ospite. L’avversione nei confrontidel rifugiato (di fatto è una figura antropologica-mente prossima a quella del nomade) da parte delresidente (lo stanziale) è storica e comunque pal-pabile in ogni situazione a questa assimilabile.La ‘pubblicità progresso’ stempera l’acrimonia e

persuade alla convivenza civile preparando le basidello sviluppo sostenibile.

Nel 1996 i cittadini di Tbilisi (quelli che loro mal-grado ospitavano nella loro città i loro cugini rifu-giati dall’Abkazia e sud-Ossezia) furono raggiuntida una sequenza di messaggi televisivi nei quali sipresentava loro una figura di rifugiato che era, anzidoveva essere, radicalmente diversa dal luogo co-mune del ladro, malfattore o mendicante, anchese, in ogni caso, il rifugiato pur sempre rappresentaun peso per una società già di per sé stremata edun’economia inesistente o in via di sviluppo. Per unmese i cittadini di Tbilisi guardarono sul principalecanale nazionale e nelle ore di punta quattro ‘cor-ti’, ciascuno ripetuto per una settimana, in una se-quenza ragionata e con titoli che si rincorrevanocome schematizzato qui di seguito.Figura 23: Campagna informativa sull’uso degli impianti.

A toilet which works well is apleasure for everybody.To make it works:

do not block it up, keep itclean and throw the papersaway into the proper buket

Why do you block upthe washstand?

Clean your dishes beforewashing them.

Please use the rubbish bins

You can watch the televisonbut do not use

the iron

You can use the ironbut switch off

the electrical stove

You can switch on theelectrical stove but

do not watch the television

Do not use at the same time:iron, television,electrical stove

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Il rifugiato era letto nella sua cruda realtà di mi-serabile che lascia la guerra alle proprie spalle in-sieme a molta parte della sua famiglia, dei suoiaveri e doveri; lascia il proprio ruolo, la professionema soprattutto la distruzione e la morte. Nel primovideo è un animale nudo che nasconde le sue pu-denda: il non voler rimanere tale …per sempre.Nel secondo video il rifugiato è visto nella sua

umanità, nel suo quotidiano mesto, nel suo pollaio.Vive, anzi tira a campare, nella promiscuità, doloree pericolo. È inquadrato nel suo habitat, abbrutitoe costretto a capitolare davanti alla videocameracon l’ammissione dolorosa della propria prove-nienza, ossia, la propria colpa, ma anche la sua vo-lontà (ahimè!) a collaborare (rifugiato ma nonsolo).Nel terzo video la volontà si traduce in azione,

inizialmente un po’ timida e impacciata, poi emergecon convinzione, nel lavoro, la speranza di ridiven-tare cittadini …come glia altri (i destinatari del mes-saggio).Nel quarto video le testimonianze si susseguono

fervide, convinte ed appassionate. Il lavoro di ri-

abilitazione degli edifici occupati dai rifugiati tra-mite i rifugiati stessi si fa realtà innegabile, accat-tivante e serena. La richiesta della sostenibilereplica delle azioni prodotte esemplarmente in altricentri collettivi chiude la sequenza con la finale: Ri-fugiati, ma ora basta!

2.1.3 Componente organizzativa

Nulla di quanto precedentemente descritto po-teva essere realizzato se non supportato da unaconsistente azione organizzativa avviata sin dalleprime battute con i ‘capi edificio’ rappresentanti lacomunità dei rifugiati. Si trattava di figure politicheo di anziani dal velo carismatico. Non sempre ri-sultavano ricettivi e poi immediatamente collabo-rativi alle proposte di progetto. Spesso diffidavanoo nicchiavano, nullificavano le iniziative, rappre-sentando quel modello di carattere chiuso, ostico edifensivo proprio dei rifugiati. Purtroppo se non siotteneva la loro adesione alle iniziative del pro-getto, questo restava sulla carta. Dinnanzi a que-sti casi svaniva il mito della saggezza carismaticaaperta ad azioni ed immagini innovative ed inno-vanti; svaniva la convinzione che l’amichevole ap-proccio del vecchio del villaggio avrebbe aperto leporte allo sviluppo sostenibile.Ciononostante, dopo i primi difficili incontri, fu-

gati i dubbi e le incertezze, con la parola e non solo,il progetto aveva accesso negli edifici occupati dairifugiati.

La componente organizzativa del progetto mi-rava essenzialmente a garantire che la manuten-zione ordinaria e successivamente anche quellastraordinaria fosse eseguita. La spazzatura avrebbedovuto essere raccolta per piano e poi riversata neicontainer donati dal progetto a ciascun edificio oc-cupato. Per tutto ciò doveva essere eletto un re-sponsabile per piano e un capo-edificio, chefungeva da responsabile ultimo di tutte le opere dimanutenzione.

Titoloiniziale Argomento Titolo

finale

1 Refugees(Rifugiati)

From the war tothe CollectiveCentres(Dalla Guerra aicentri Collettivi)

Refugees,but not forever(Rifugiati,ma non persempre)

2 Refugees,but not forever(Rifugiati,ma non persempre)

The collectivecentres, the lifeand the socialworkers(I CentriCollettivi, la vitae gli animatorisociali)

Refugees,but not only(Rifugiati,ma nonsolo)

3 Refugees,but not only(Rifugiati,ma nonsolo)

Organisation ofthe communityactivities forrehabilitationworks(Organizzazionedelle attivitàcomunitarie perIavori diriabilitazione)

Refugees:the hope tobe citizens(Rifugiati: lasperanza diesserecittadini)

4 Refugees:the hope tobe citizens(Rifugiati: lasperanza diesserecittadini)

Refugeesworking forthemselves.Spokes persons(Rifugiati chelavorano perloro stessi.Testimonial)

Refugees:not anymore(Rifigiati:ma orabasta!)

Tavola 7: Titoli di testa e coda dei cortometraggi.

Rubbish bins and shovels havebeen dellivered. It is asked tomake a proper use of themand to use the shovels,

delivered to the communityleader, for cleaning the space

around the bins

Materials for cleaningand upkeeping have been

delivered in orderto start up a maintenanceprogramme for public and

private facilities

Figura 24: Campagna informativa sulle donazioni del progetto.

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Figura 25: Fotogrammi tratti dai cortometraggi televisivi sui rifugiati.

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Figura 25: Fotogrammi tratti dai cortometraggi televisivi sui rifugiati.

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Alla fine del progetto una vasta campagna di dis-tribuzione di attrezzature e materiali per la puliziadi bagni e cucine fu organizzata con il clamore ne-cessario soprattutto alla visibilità del progetto nellaquale sembra riversarsi l’unico interesse dellaclasse dei donatori.

Tavola 8: Liste di attrezzature e materiali per la manutenzioneordinaria di bagni e cucine.

TYPE OFBUILDING

KIND OFBUCKET CONTENT

CommunalToilets

A1Bucket perfamily

1 socket1/2 kg disinfectantpowder1 brush

A2Bucket pertoilet

4 kg disinfectantpowder3 gloves15 mt flexible2 taps2 valves2 kg chlorine

PrivateToilets

BBucket perfamily

1 socket1kg disinfectantpowder1 brush

2.2 Burundi, la ricostruzione opost emergenza34

Il recupero delle infrastrutture sanitarie e delleinfrastrutture a rete (strade, reti di approvvigiona-mento idrico e di smaltimento dei rifiuti liquidi erete elettrica) è, insieme alla ricostruzione delleabitazioni e servizi sociali (scuole, ospedali ed edi-fici amministrativi), tra le operazioni più peculiaridella post emergenza. In altri termini quelle strut-ture ed infrastrutture che consentono mobilità enon morbilità alla popolazione civile devono essereimmediatamente recuperate alla propria originalefunzionalità o addirittura recuperate ad una funzio-nalità migliorata rispetto all’originale35.

Cliniche, ospedali regionali, e presidi sanitari lo-cali sono pertanto tra i primi ad essere ripristinatiper cominciare ad offrire alla popolazione locale unprimo, fondamentale ed indispensabile servizio disalute pubblica.È molto probabile tuttavia che tali servizi non

siano stati distrutti o danneggiati dalla guerra o daaltro evento naturale quanto da una congenitamancanza di cultura della manutenzione. Ciò ac-cade prevalentemente quando la cultura locale sitrova di fronte ad un manufatto ed una funzioneche non riconosce come originariamente propria. Èil caso per esempio dei presidi ospedalieri regionalio degli ambulatori (presidi sanitari di primo livello)che spesso, in contesti come quello africano, figu-rano come avamposti della cultura sanitaria occi-dentale in territorio dalla “cultura sanitaria”completamente diversa.

A seguito della guerra fratricida tra etnia Hutu eTutsi36 in Rwanda37 e Burundi38 ed immediata-mente dopo l’organizzazione di campi per rifugiatilungo la linea di frontiera tra i due stati, la rico-struzione non poteva che riguardare sia i centre desanté39, effettivamente distrutti e privati di ogni at-trezzatura sanitaria dai miliziani di entrambe le fa-zione, che i centri sanitari regionali a cominciaredalle aree più prossime alle arene degli scontri piùcruenti a dimostrazione chiara della fine dell’odio,della lotta e a testimonianza di un nuovo corso dipace. La logica politica era impeccabile, quella so-ciale e culturale un po’ meno in quanto lo scontrosi era territorializzato a tal punto che anche le areesu cui insistevano i servizi sanitari si riteneva ap-partenessero, secondo regole non scritte, ad unadelle due fazioni in lotta. Gli interventi di recuperopertanto non potevano considerarsi come interventisuper partes e privi di connotazione politica. In talecontesto il cooperante, il cui incarico sembrava es-sere confinato al solo ripristino della funzionalitàdelle infrastrutture, doveva affrontare e risolvereun progetto socio-politico oltre che tecnologico.

2.2.1 Il Progetto socio-politico

Il reclutamento delle maestranze e della mano-dopera era in effetti una delle azioni più delicatedell’intero progetto socio-politico, ma sicuramentenon la sola.Innanzitutto è d’uopo presentarsi e presentare il

progetto, ed il programma a cui appartiene, al di-Figura 26: Distribuzione di materiali e prodotti perl'automanutenzione.

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rettore dell’ospedale. Conviene concertare questadelicata azione di pubblica relazione con un rap-presentante (il project manager) dell’ente donatore(in questo caso UNHCR – United Nations High Com-mission for Refugees). La presentazione è un attodovuto non solo per informare ed eventualmenteottenere l’autorizzazione a procedere40, quanto perricevere indicazioni in merito alle attività di recu-pero da svolgere ed alle loro eventuali priorità41.Alla direzione furono indirizzate questioni quali:

– esistenza di un deposito di attrezzi e materialida costruzione e relativo custode di fiducia,

– maestranze da coinvolgere nella riqualificazionedell’ospedale,

– disponibilità alla collaborazione da parte del per-sonale medico e paramedico,

– esistenza di piante, schemi o planimetrie dell’o-spedale,

– relazioni tecniche sullo stato di funzionamentodegli impianti a rete.

Dalle risposte ricevute dal direttore risultaronoabbastanza esplicite informazioni in merito alla fa-zione (etnia) alla quale era conveniente indirizzarsiper il reclutamento di maestranze e manodopera esoprattutto informazioni relative all’affidabilità delguardiano del deposito degli attrezzi e dei mate-riali. Solo successivamente, per evitare di avere in-cursioni anche violente presso il cantiere da partedell’etnia esclusa dal reclutamento, con il maestroresponsabile del cantiere indicato dalla direzione èstata negoziata l’assunzione di un’ulteriore squa-dra di fazione o etnia differente, giustificando laproposta con argomenti umanitari e egualitari (deltipo: l’ospedale è un servizio offerto dalla comunitàinternazionale, rivolto a tutti e per tutti gli abitantidell’area e pertanto è necessario che a partire dallefasi di riqualificazione tutti i gruppi etnici siano co-involti).Si organizzarono cosi due team di maestranze di

uguale numero ed operanti in due settori distinti econ compiti distinti. Nel caso studio in questione ilteam hutu si occupava della costruzione delle bat-terie di latrine, mentre il gruppo tutsi era respon-sabile della costruzione di altri manufatti di serviziocome la cucina per i malati, l’inceneritore, le fon-tane eccetera. I due gruppi di lavoratori operavanoin ambiti ed aree dell’ospedale tra loro lontane, maunico era il deposito dei materiali e delle attrezza-

ture cosi come il responsabile della loro custodia(hutu perché hutu era apparentemente il controllodi quel territorio).

In un’unica occasione i due gruppi si sono ci-mentati in un’attività comune. Occorreva dare ma-nifestazione di forza, ed entrambi i gruppi eranodisposti a mostrare i muscoli. In realtà quella oc-casione era stata creata per fornire un’opportunitàdi lavoro collettivo nel quale non potesse essere di-stinto il lavoro dell’uno rispetto all’altro, ma solo edesclusivamente il risultato di uno sforzo congiuntoe indifferenziato. Si trattava di trasportare le so-lette delle latrine dal luogo di produzione fino allaposizione finale, a coprire le trincee appena sca-vate (Minervini, 1997). I due gruppi ancora animatida forzute e bellicose velleità di dominazione del-l’uno sull’altro furono invece costretti a dimostrarea se stessi che l’obiettivo dello sviluppo non potevache raggiungersi se non attraverso la collabora-zione solidale.

2.2.2 Il Progetto tecnico

Il rilievo dell’intera struttura ospedaliera fu fattoattraverso battuta fotografica e riscontro visivo. Idue metodi portarono allo schizzo di una planime-tria rudimentale ed all’acquisizione della necessitàdi dover operare (progettare e comunicare) utiliz-zando solo ed esclusivamente un foglio di carta diformato A4 (l’unico esistente a Ngozi), accompa-gnato da un numero di parole strettamente suffi-ciente a non creare equivoci o a non negare quantoinvece risultava evidente dal disegno al tratto.

Figura 27: Capocantiere hutu presenta una delle sue batteriedi latrine.

Figura 28: Capocantiere tutsi fotografato con la sua operaprincipale: un inceneritore.

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Figura 29: Trasporto delle solette delle latrine. Hutu e Tutsi in flagranza di collaborazione solidale.

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La battuta fotografica portava in evidenza le ca-ratteristiche peculiari della struttura ospedaliera diNgozi e nello stesso tempo identificava i bisogni suiquali doveva fondarsi l’intero intervento di riquali-ficazione post bellica.

Innanzitutto si trattava di un ospedale caratte-rizzato da un insieme di padiglioni distribuiti un po’casualmente su una superficie di circa cinque et-tari di terreno solo in parte in piano e per il restocon pendenze tali da causare solchi erosivi consi-stenti nel corso della stagione delle piogge. L’ubi-cazione apparentemente casuale dei padiglioni,delle funzioni sanitarie (chirurgia, medicina, pedia-tria) e dei servizi (cucina, lavanderia, amministra-zione) era essenzialmente dovuta al fatto che ilprogetto planimetrico originario era stato poi inte-grato da altre funzioni e servizi resi necessari dalladisponibilità di donazioni (grants) da parte della co-munità internazionale. E così succedeva che nuovipadiglioni si aggiungevano a quelli esistenti se-condo una logica né sequenziale né incrementale.I percorsi di collegamento tra i padiglioni erano difatto dei tracciati di minimo percorso ad eccezionedi quelli principali carrabili che portavano all’ammi-nistrazione (la dove era parcheggiata l’autoambu-lanza – unica macchina di servizio dell’ospedale aservizio della direzione42) e all’obitorio. Buonaparte di questi percorsi erano impraticabili perparte dell’anno a causa della mancanza di un op-portuno drenaggio delle acque pluviali particolar-mente copiose durante le piogge stagionali.

Attraverso la battuta fotografica risultavano lecondizioni e i relativi bisogni delle funzioni acces-sorie al funzionamento di un ospedale che avrebbepotuto ospitare circa 180 persone (personale in-cluso), ma che ne ospitava molte di più. Questeerano:1. le fontane pubbliche (se ne riscontrava una solanonostante l’ospedale ospitasse oltre ai degenti,anche i parenti dei malati pari ad un numeroquattro volte superiore a quello dei pazienti, al-loggiati su stuoie all’interno o appena fuori i pa-diglioni di ricovero;

2. le latrine (esistenti, ma insufficienti e soprattuttopiene e non più utilizzabili a meno del rischio didiffusione delle malattie infettive a causa dellequali buona parte dei pazienti erano ricoverati);

3. la cucina dell’ospedale (esistente, ma completa-mente priva di un sistema di ventilazione natu-rale e camino per l’eliminazione dei fumi prodottidalla legna arsa);

4. la cucina delle famiglie dei malati (inesistente,ma ritenuta indispensabile data l’abitudine fami-liare di accompagnare il malato nel corso dell’in-tera degenza per cui si costituivano focolari unpo’ dappertutto all’interno dell’ospedale);

5. la lavanderia (chiusa per vetustà delle lavatrici,comunque inoperose già prima che cominciassela guerra fratricida);

6. lo stenditoio (apparentemente unico danno diguerra riportato all’interno dell’intera strutturaospedaliera);

Figura 30: Schizzo della planimetria dell’ospedale di Ngozi (Burundi).

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7. il drenaggio (inesistente sull’intera area perti-nenza dell’ospedale);

8. la recinzione (caratterizzata da poche decine dimetri a fianco dell’ingresso principale lungo unadelle strade più importanti della città di Ngozi).

A ciò si aggiungeva – in quanto bisogno ripor-tato dai medici che operavano nell’ospedale – lanecessità di ripristinare l’intero sistema a rete diapprovvigionamento idrico sotto traccia (ovverosotto il piano di calpestio in terra di fine limo) chenel corso del tempo si era o rotto e riempito di pol-vere di argilla.Il principio ed obiettivo al quale il progetto di ri-

qualificazione dell’ospedale doveva ispirarsi e che siimponeva a seguito del rilievo fotografico era il se-guente: un ospedale non poteva rispondere agliobiettivi funzionali più elementari (cioè fornire ser-vizi sanitari per garantire la salute pubblica) se nonavesse soddisfatto condizioni igenico-sanitarie fon-damentali per evitare di portare a livello endemicole malattie infettive da cui la maggior parte dei pa-zienti tentava di liberarsi.I bisogni rilevati nel corso della battuta fotogra-

fica occorreva che fossero soddisfatti nell’arco ditre mesi. Ciò implicava la progettazione, la quanti-ficazione di costi e tempi, la presentazione dell’in-tero progetto all’ente donatore e la relativa loronegoziazione, la scelta della manovalanza e l’orga-nizzazione delle attività di riqualificazione (tutteesterne) nel corso della stagione delle piogge.

2.2.3 Il Muro e le Opere

Tra tutti i bisogni identificati alcuni, tra cui ilmuro di recinzione, necessitavano interventi di en-tità e impegno considerevoli a causa dei tempi li-mitati e delle sfavorevoli condizioni meteorologiche.Il management della manovalanza, dell’approvvi-gionamento dei materiali da costruzione (molti deiquali erano da acquistare in capitale) e la comuni-cazione delle operazioni da svolgere doveva rag-giungere livelli di massima efficienza.La costruzione del muro doveva iniziare prima

delle altre opere, prevedere soluzioni tecnologichedifferenziate a seconda della ubicazione e soprat-tutto rispondere alla sua principale funzione richie-sta: evitare che nell’ospedale potessero pascolarci

animali domestici e randagi che avrebbero potutocontribuire alla diffusione delle malattie infettive43.Tre furono le tecnologie adottate per la costru-

zione del muro:1. mattoni cotti con malta di argilla stabilizzata efughe in malta grassa di cemento per la tenutaall’acqua,

2. rete metallica,3. rete metallica e arbusti.Una tenda mobile procedeva con la realizzazione

del muro di recinzione e mano d’opera giovanile fuorganizzata per il delicato dettaglio delle fughe trai mattoni.

La comunicazione, come accennato, si svolgevaattraverso la lingua francese e schizzi o disegni altratto su fogli di formato A4. Il processo di comu-nicazione seguiva le seguenti fasi: innanzi tutto siconcordava con il responsabile dei lavori l’obiettivoda raggiungere, poi ci si accertava della comune in-terpretazione dell’obiettivo attraverso la discus-sione sulla rappresentazione (schizzo) delmanufatto da produrre e in seguito si entrava neldettaglio dell’esecuzione sia in forma verbale chegrafica.Se i disegni delle fontane pubbliche e sgrassa-

tori, drenaggio e altre opere minori erano di sem-plice comunicazione ed esecuzione, quelli relativiad opere complesse come la cucina dei parenti deimalati erano presentati e commentati in diversefasi, ripensati e corretti, e relativi a sezioni o partidi opere da realizzare progressivamente: prima lefondazioni, poi gli spiccati, la copertura ed i detta-gli di finitura.Molte altre opere come il drenaggio trasversale

ai percorsi carrabili e la riabilitazione dell’essicca-toio erano invece realizzati solo attraverso la co-stante guida quotidiana dei lavori che oltretuttodovevano recuperare e riciclare il più possibile i ma-teriali non utilizzati e persino gli oggetti trovaticome vecchi letti e griglie metalliche abbandonate.In molte occasioni inoltre il project manager del

programma di post emergenza dell’UNHCR osavarichieste del tutto sensate come per esempio unnuovo deposito d’acqua a servizio delle sale chi-rurgiche. Ciò comportava un ulteriore sforzo pro-gettuale al quale spesso non corrispondeva larealizzazione per mancanza di fondi.

Figura 31: Foto di rilievo delle condizioni dell'ospedale. In evidenza: gli improvvisati focolari domestici e stenditoi.

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Figura 32: Disegni e foto delle fontane, sgrassatori e drenaggio delle acque.

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Figura 33: Disegni e foto della cucina per i famigliari dei malati.

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Figura 33: Disegni e foto della cucina per i famigliari dei malati.

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Figura 35: Schizzi progettuali di nuovo deposito d’acqua.

Figura 34: Essiccatoio ricostruito con forme che risultano dallanecessità di utilizzare tutti i materiali rimanenti alla fine dellariabilitazione dell’ospedale.

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2.3 Kossovo: la Ricostruzione44

Per la prima volta nella storia, una situazionecontroversa come quella che si era creata in Kos-sovo45, era stata presa (temporaneamente) in ca-rico dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU –United Nations Organisation)46. Uno stato indipen-dente di fatto era nato, ma ne faceva amministra-tivamente le veci l’UNMIK ossia la cosiddetta Mis-sione Amministrativa Interinale per il Kossovo delleNazioni Unite (United Nation Interim AdministrationMission in Kosovo)47. Tra i compiti di questa am-ministrazione civile sperimentale si annoveravanoappunto quelli di:– svolgere funzioni di normale amministrazione ci-vile;

– promuovere e stabilire la sostanziale autonomiadel governo autonomo;

– facilitare il processo politico che avrebbe portatoalla determinazione del futuro del Kossovo;

– coordinare gli aiuti umanitari delle agenzie in-ternazionali;

– supportare la ricostruzione delle infrastruttureessenziali;

– mantenere legge e ordine civile;– promuovere i diritti umani;– assicurare il sano e libero rientro di tutti i rifugiatialle proprie case in Kossovo.

Quanti di questi compiti siano stati effettiva-mente svolti ed i relativi obiettivi siano stati effet-tivamente raggiunti è oggetto di diverse analisi.Sembra comunque che la maggior parte della cri-tica tenda per una definizione dell’ UNMIK prossimaa quel crogiolo amministrativo-burocratico fine a sestesso rappresentato dalle Nazioni Unite che ne èevidentemente madre. A complicare le cose inizial-mente c’era la quadripartizione della macchina am-ministrativa in quattro pilastri di cui il quarto (incarico all’Unione Europea) avrebbe dovuto occu-parsi dell’intera ricostruzione a partire dall’accerta-mento ed analisi dei danni (damage assessment)che invece fu redatto da UNHCR (United NationsHigh Commission for Refugees) e IMG (Internatio-nal Management Group)48. Il risultato fu sorpren-dentemente diverso in termini di metodologia diindagine usata, livelli di danno attribuito e natural-mente risultati. All’interno di questa imbarazzantesituazione che generava evidentemente sfiducia neiconfronti delle istituzioni il quarto pilastro dell’UN-MIK, cioé l’Unione Europea (European Union – EU)doveva operare e gestire il programma di ricostru-zione degli alloggi (Housing Reconstruction Pro-gramme)49 a partire dall’autunno del 2000.Per una semplice questione di natura logistica il

Kossovo fu diviso in cinque regioni, ognuna dellequali fu affidata ad un coordinatore delle attività diricostruzione a loro volta supervisionati da un Uffi-cio Centrale per la Ricostruzione degli alloggi (Hou-sing Directorate) in Pristina.

2.3.1 Municipal Housing Committee

L’Housing Directorate aveva un compito di parti-colare delicatezza: stabilire le linee-guida per la ri-costruzione (Housing Reconstruction Guidelines), con-

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cordate con i diversi e più generosi donatori, assi-curare equità (equity) nello sforzo di ricostruzionee massimizzare il valore stesso della ricostruzione.L’istituzione intorno alla quale si intendeva far ruo-tare il meccanismo della ricostruzione fu denominataMunicipal Housing Committee (Commissione Co-munale per l’Assegnazione degli Alloggi) e dovevaaver sede in ogni municipio kossovaro. Si trattavadi un ente teoricamente indipendente dalle agguerritenuove formazioni politiche (che cercavano di gua-dagnare proseliti ed elettori attraverso l’allocazio-ne di case da ricostruire) con il compito appunto distendere la lista dei beneficiari e poi seguire il pro-cesso di ricostruzione sia nel processo di approvvi-gionamento di materiali da costruzione che nelle fasidi esecuzione dei lavori. Un impegno ciclopico al-l’interno di uno stato che stato non era e che co-munque muoveva i propri primi passi al di fuori del-la cultura e organizzazione sociale di tipo clanico(come quella albanese-kossovara) e all’interno in-vece di una cultura democratica di tipo ‘avanzato’come quella europea e occidentale. Di fatto l’obiet-tivo non dichiarato del Municipal Housing Commit-tee consisteva nell’offrire ai funzionari ufficiali mu-nicipali un’adeguata responsabilità, autorità mora-le e competenza tecnica, dando adito al costituirsidi un primo nucleo di onesta autorità municipale chedoveva far fronte a pressioni che talvolta metteva-no a repentaglio anche la stessa vita dei partecipantia questo esercizio di Institutional e Capacity Buil-ding (Realizzazione e/o Rafforzamento delle Istitu-zioni e Realizzazione e/o Rafforzamento delle Com-petenze delle Risorse Umane).Di fatto era abbastanza evidente che il Municipal

Housing Committee non funzionasse che comeparavento istituzionale di una logica della ricostru-zione di cui non era responsabile. La logica della ri-costruzione risiedeva essenzialmente nelle tasche deidonatori affranti dalla pietas e dall’impellente ne-cessità di mostrare efficienza nella spesa per la ri-costruzione guidati da un cosiddetto Central Hou-sing Committee50 a cui era stato sottratto potere de-cisionale persino nelle questioni più tecniche qualila salvaguardia del patrimonio edilizio storico e la re-visione della questione urbana che doveva fare ri-ferimento ad un rigoroso quanto banale zoning det-tato dell’ideologia del potere centrale socialista.La ricostruzione del patrimonio edilizio storico, per

esempio, era affidata ad una cellula della EuropeanAgency for Reconstruction in Kossovo la quale elar-giva, secondo una logica allocativa del tutto in-comprensibile ed estranea alle Housing Recon-struction Guidelines, fondi per la ricostruzione del-le Kulla51 anche dieci volte superiori a quelli erogatiper la ricostruzione di una normale abitazione. Pernon parlare poi delle inesistenti o debolissime stra-tegie per il recupero del patrimonio storico-artisti-co, a fronte delle generose elargizioni in questo set-tore dell’Unione Europea e del governo svedese. Ilprogetto di recupero era elaborato da un’organiz-zazione non governativa svedese di cui il responsabiletecnico (impiegato part-time) non possedeva espe-rienza alcuna nel settore affidando la gestione delprogetto (dalla elaborazione fino alla esecuzione) a

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dipendenti locali (ingegneri, giovani architetti o stu-denti della locale facoltà di architettura).L’appropriatezza delle tecnologie costruttive era

tema assolutamente sconosciuto (un’eresia) all’in-terno dell’intero processo di ricostruzione. La diffe-renza tipologica, strutturale e tecnologica tra unacasa rurale ed una casa urbana non figurava tra lequestioni di cui potevano farsi carico il Central o ilMunicipal Housing Committe. Il cemento armato eraconsiderato (e per questo apprezzato) una tecno-logia rapida e soprattutto una tecnologia unica siaper rimpiazzare una casa rurale in terra (che avevasubito danni di guerra) che per recuperare un mul-tipiano danneggiato nei centri urbani più importanti.Le regole dello sviluppo urbano dovevano invece

rimanere quelle stabilite da Belgrado (nei tempipassati) basate su una morfologia urbana catego-rizzata per densità di popolazione e carattere pro-duttivo dell’insediamento urbano e nella maggiorparte dei casi facendo riferimento a piani urbanistici

vecchi di decenni. Chi si apprestava a trasferire unamoderna conoscenza della pianificazione dello svi-luppo urbano era, all’interno dell’UNMIK, un’agen-zia delle Nazioni Unite (UNCHS - Habitat) che sof-friva come tutte le altre simili agenzie di indolenzapachidermica e sonnolente burocrazia.

2.3.2 Esercizi di Pianificazione Urbana

All’interno di questo quadro certamente non edi-ficante quanto scoraggiante i tecnici delle munici-palità si trovavano in una situazione quanto maiimbarazzante in quanto dovevano mostrare obbe-dienza a:– una finzione normativa (o performance istituzio-nale) dell’Housing Committee (imposta dalnuovo governo centrale UNMIK);

– una datata imposizione delle regole dello svi-luppo urbano che appartenevano al passato esoprattutto all’odiato soprafattore52.

Figura 36: Esempi di edifici storici (Kulla) danneggiati dallaguerra.

Figura 37: Edificio danneggiato in adobe e esempio diricostruzione in cemento armato.

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D’altro canto gli stessi funzionari amministratividei locali uffici di urbanistica sebbene ricchi di vo-glia di fare nelle nuove istituzioni locali ammette-vano la loro inabilità. Pertanto sporadiche azioni diformazione alla gestione dell’Housing e Social Hou-sing ed un paio di esercizi di pianificazione urbanafurono inserite all’interno del programma del quartopilastro dell’UNMIK.Queste azioni dovevano affrontare diverse que-

stioni:1. innanzi tutto la conoscenza del proprio territo-rio,

2. le analisi finalizzate allo sviluppo concertato (trale comunità urbane e le limitrofe comunità ru-rali), integrato (alle risorse ed ai potenziali eco-nomici) e sostenibile (in ragione dellarealizzabilità e replicabilità),

3. la metodologia di trasferimento della cono-scenza,

4. la translazione del processo decisionale dal top-down al bottom-up, e

5. l’elaborazione di strategie di land developmentmirate ai casi specifici individuati nell’analisi.

La conoscenza del territorio consisteva nella rac-colta sistematica dei dati e delle informazioni rela-tive alla popolazione residente, all’occupazione deisuoli ed al loro uso, alle caratteristiche del costruitoe dei servizi al cittadino (infrastrutture primarie esecondare); nella elaborazione di carte tematicheche ne riassumessero i contenuti. Per far questo intempi brevi occorreva predisporre moduli formativiche affrontassero il tema della informatizzazionedei dati raccolti e della loro rappresentazione si-stematizzata all’interno di mappe territoriali (Kno-wledge Mapping Analysis).

La metodologia da adottare per il trasferimentodella conoscenza in seno alla gestione del territorioe pianificazione urbana costituiva il fondamentalemotivo di successo dei proposti esercizi di pianifi-cazione urbana. Dopo aver più volte sperimentatoa. la formazione diretta dei tecnici municipali sia insedi universitarie locali che esterne,

b. l’assistenza tecnica relativamente a specifici set-tori (principalmente la progettazione e della va-lutazione delle priorità delle infrastrutture a retee dei servizi sociali), attraverso una sorta di trai-ning on the job,

e dopo aver constatato il relativo fallimento dellasostenibilità del Knowledge Transfer in entrambi icasi (Minervini, 2006), la scelta si era diretta versola mediazione del trasferimento di conoscenza daparte di studenti universitari (o meglio giovani ar-chitetti) iscritti alla scuola di specializzazione in Tec-nologia, Architettura e Città nei paesi in via disviluppo del Politecnico di Torino. Quattro studentidella scuola furono selezionati53 per condurre eser-cizi di pianificazione urbana in due città: esercizipertanto comparabili nel metodo e nei risultati. Nelcorso del mese di attività la collaborazione tra i gio-vani architetti ed i tecnici delle municipalità fu sor-prendente in termini di capacità di produrre glieffetti e i risultati voluti. I tecnici delle municipa-lità, di fatto dovevano confrontarsi con coetanei ogiovani professionisti di età inferiore la cui sapienza

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in fatto di analisi e progettazione urbana non ecce-deva la loro. Pertanto la comunicazione si effet-tuava su di un piano quasi paritetico. Il processo diapprendimento si svolgeva nel suo farsi (learningby doing), non si esprimevano competitività e nonsi confrontavano posizioni tra una cultura domi-nante e una dominata. Il ruolo del supervisore siconfondeva con quello istituzionale dell’Housing Co-ordinator (funzionario UNMIK) e pertanto figuravacome discreto suggeritore di modelli e tecnologiedi analisi e progettazione o come semplice coordi-natore delle attività in corso.

La translazione ovvero l’inversione del metodousualmente adottato nel processo decisionale (de-cision making process) dal top-down al bottom-upconsisteva nell’adottare un approccio partecipativoassolutamente conflittuale con le regole tradizio-nali della società locale. Il sindaco e le cosiddetteautorità locali di fatto erano temporaneamenteemarginate dal decidere le direzioni dello sviluppoin quanto considerate arrogantemente pretenziosenei confronti della conoscenza di un territorio abi-tato da tutti i cittadini. Pertanto tutti i rappresen-tanti della comunità urbana (privati, pubblici erappresentati della società civile, ovvero le orga-nizzazioni non governative) furono convocati peresprimere opinioni e valutazioni in merito allo svi-luppo urbano sostenibile attraverso consolidate tec-nologie di approccio alla gestione di meeting notecon il nome di Focus Group Discussion e NominalGroup Technique. L’approccio fu sorprendente epersino apprezzato dai maggiori rappresentanti po-litici, e naturalmente incoraggiato dall’amministra-zione temporanea dell’ONU.

Ma il nodo fondamentale dello sviluppo urbanodelle città kossovare intorno al quale le autorità isti-tuzionali ed internazionali dell’UNMIK continuavanoa girare intorno era quello della mancanza di dia-logo tra le etnie dominanti (quella albanese e quellaserba), ciò che evidentemente impediva l’utopisticaarmonica convivenza civile e sviluppo integratodelle comunità nel territorio. Evidentemente laguerra e le pesanti perdite in termini di vite umaneda entrambe le parti era un ricordo troppo frescoperché l’auspicato dialogo potesse essere inne-scato. Questa fu la principale ragione di quell’e-terno procrastinare la soluzione dello sviluppo dellaregione kossovara a partire dall’attribuire poca im-portanza alla pianificazione urbana in quanto basenormativa dello sviluppo locale sostenibile da partedell’UNMIK e da parte dell’intera comunità interna-zionale.Fatto sta che, in particolare a Decan laddove il

conflitto etnico era stato più cruento, l’interesse neiconfronti dello sviluppo economico era stato viva-mente percepito cosi come la necessità di doverloimpostare sulla base della collaborazione e part-nership tra le diverse comunità ed etnie. La comu-nità serba54 e quella albanese avevano accettato diincontrarsi e, mettendo da parte risentimenti e po-lemiche, discutere di questioni concernenti le lororispettive risorse ed i comuni interessi di svilupposulla base della convivenza civile. Nonostante lebuone intenzioni dichiarate da entrambe le parti e

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la straordinaria occasione creata da un apparente-mente banale esercizio accademico di pianifica-zione urbana, i programmati incontri di scambio ediscussione tra le due antiche comunità nemichefurono ostacolate dalla stessa amministrazioneUNMIK perché, suggeriva la nota ufficiale, “i tempinon erano maturi”. Persa questa straordinaria oc-casione le due comunità furono costrette ad incon-tri mediati dai giovani architetti costretti alla spolatra i terreni dichiarati ostili – in questo caso – solodalla comunità internazionale.

Questi esercizi di pianificazione urbana (notianche sotto il nome di Preparatory Urban Plans) fu-rono presto dimenticati nell’andare fatuo di quellagestione temporanea di un caso unico al mondo: ilKossovo.

2.4 Burkina Faso: Sviluppo delleInfrastrutture Sanitarie55

Nel quadro dell’identificazione di proposte so-stenibili per il miglioramento delle cosiddette ‘For-mazioni Sanitarie’56 (FS) in Burkina57 nell’agosto1998 nelle due regioni occidentali di Koudougou eOuahigouya fu visitato un campione statistica-mente rappresentativo (poco più del 16%)58 di– ambulatori o presidi sanitari territoriali (CSPS -Centre de Santé et de Promotion Sociale),

– ambulatori attrezzati o centro sanitario di primareferenza (CMA - Centre Médical avec AntenneChirurgicale),

– centri ospedalieri regionali o centro sanitario diseconda referenza (CHR - Centre Hospitalier Ré-gional).

Gli obiettivi specifici dei sopralluoghi consiste-vano:a. nella identificazione del rapporto tra stato di ne-cessità richiesta da parte delle autorità locali estato di bisogno effettivo,

b. nel valutare le caratteristiche di ciascuna For-mazione Sanitaria da un punto di vista della qua-lità e quantità dei servizi offerti e loro stato diconservazione, e

c. nel costruire una base credibile ed estendibile atutte le altre Formazioni Sanitarie (quelle non vi-sitate e quelle delle regioni orientali) per rag-giungere gli obiettivi prefissati.

In realtà sin dai primi passi del progetto s’impo-neva una questione a monte relativa al forte con-trasto tra la cultura medica occidentale e quellalocale, fino al rapporto tra il valore dell’esistenza (edella relativa cura dell’esistenza) nell’occidente co-siddetto ‘civilizzato’ e nell’Africa subsahariana. Inaltri termini ricorrevano domande del tipo: è pos-sibile e quanto è possibile il trasferimento in Africadel modello di ‘cura del corpo’ occidentale? è que-sto modello accettabile? a quali condizioni? fino ache limite?Le prime ed immediate riflessioni erano in merito

alle caratteristiche delle infrastrutture sanitarie inoccidente che potrebbero ricondursi semplicementea igiene dell’ambiente per evitare contagi, organiz-zazione razionale degli spazi, visibilità e riconosci-bilità della struttura59 sul territorio per una facileidentificazione e raggiungibilità.Queste tre condizioni erano di difficile applicabi-

lità all’interno del contesto subsahariano laddovela cura medica del corpo è prevalentemente affi-data alla stregoneria e naturopatia popolana.

Dopo le prime visite a presidi sanitari ed ospedaliappariva più che chiaro che il modello europeo nongodeva di grande successo. Nella stragrande mag-gioranza dei casi il modello occidentale non avevaattecchito nonostante gli sforzi finanziari della co-munità internazionale e soprattutto la persistenzacon la quale era imposto. I presidi sanitari eranoabbandonati a se stessi, tutti privi dei più elemen-tari servizi igienici, in guerra continua con la pol-vere, il fango, le termiti, il piscio dei pipistrelli. Icentri ospedalieri ed i presidi sanitari evoluti (CMA)

Figura 38: Esempi grafici di densificazione di aree pubbliche ediversificazione delle attività (disegno dell'arch. G. Bagoni).

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non presentavano condizioni e caratteristiche mi-gliori salvo che si trattava di cliniche o ospedali pri-vati gestiti da religiosi.

Da una rapida analisi territoriale i CSPS eranospesso ubicati in zona baricentrica rispetto ai vil-laggi e pertanto risultavano completamente isolatidal resto del mondo (quindi scarsamente visibili) espesso persino privi di acqua ed energia. La logicadello sviluppo attraverso insediamenti urbani di pic-cola media taglia o la gerarchizzazione degli inse-diamenti in termini di importanza e servizi offerti(logica tipica della cultura occidentale e tutt’altroche tipica del continente africano) non era appli-cata, cosicché le strutture sanitarie di tipo occi-dentale si trovavano a rappresentare se stesse inun contesto nel quale non c’era alcun riferimentoalla cultura (occidentale) che le aveva concepitesviluppate ed esportate.In effetti i CSPS secondo la normativa nazionale

dell’epoca60 avrebbero dovuto semplicemente co-prire una area di dieci chilometri di raggio e 10.000abitanti; altro non era raccomandato per la localiz-zazione delle FS. Inoltre la norma era solo in parteapplicata ed anche se lo fosse stata il contrasto co-munque rimaneva evidente nonostante i tentatividell’ambiente e della mancanza di manutenzione dimimetizzare nel paesaggio quelle presenze di cul-tura barbara.

2.4.1 Analisi delle Qualità

Le indagini effettuate nelle 38 Formazioni Sani-tarie nei distretti di Koudougou e Ouahigouya ri-guardavano principalmente: lo stato di manuten-zione e condizione fisica delle strutture, l’esistenzae condizione di latrine, cucine per i malati, incene-ritori, approvvigionamento idrico, drenaggio, re-cinzione, passaggi e collegamenti esterni, tipo econdizione dell’impianto elettrico, stato di manu-tenzione delle aree esterne.

I metodi d’indagine adottati erano quelli della- rilevazione metrica (per una valutazione sia pureapprossimativa delle opere da eseguirsi per lamanutenzione straordinaria e delle nuove co-struzioni),

– osservazione diretta (per la valutazione dellostato di conservazione delle strutture e delle in-frastrutture, nonché della mancanza dei neces-sari servizi),

– intervista di uno o più addetti per FS (per l’as-sunzione di dati relativi alla percezione dei biso-gni soddisfatti e non, nonché alla valutazionedelle capacità di gestione della manutenzione or-dinaria e straordinaria).

Se da una parte queste indagini costruivano undatabase in formato alfanumerico per successiveelaborazioni statistiche, dall’altra facevano matu-rare riflessioni sul tema dell’incarico ovvero sul con-cetto di qualità (da migliorare) di una FormazioneSanitaria nell’Africa sub-sahariana.Le immagini qui di seguito testimoniano delle

prime e più essenziali percezioni della qualità inso-stenibile delle Formazioni Sanitarie visitate in diecigiorni.

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Inceneritori improvvisati a cielo aperto in CMA e CSPS.

Latrine in blocchi d’argilla in stato di evidente abbandono(CSPS della regione di Ouahigouya).

Figura 39: Indagine fotografica sulle Formazioni Sanitarienelle regioni di Koudougou e Ouahigouya (Burkina Faso).

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Celle d’ospedalizzazione per l’emergenzain CSPS, tanto piccole da non riuscire acontenere un letto d’ospedale donato daNGO occidentale.

Sala parto in CSPS. Il letto dellepartorienti (su cui il medico posaincurante le sue scarpe) è incrostato disangue e mucillagini.

Maternità in CMA della regione di Koudougou. Le camere attrezzate con letti in ferrosono disattese. Le pazienti sono distese su proprie stuoie nel portico dell’ospedale.

Maternità in CMA della regione diKoudougou. I lavandini sono fuori uso.L’acqua è erogata da una fontanellanell’area prossima alla maternità. Nonesiste drenaggio. I panni sono lavati inbacinelle di proprietà delle pazienti nellazona non melmosa più prossima allafontana.

Cucina economica di ospedale all’internodi vano non areato.

CSPS tipico. Dispensario, Maternità e Deposito MEG. L’area di pertinenza è moltovasta; mancano drenaggi, recinzioni, latrine, inceneritore, acqua ed elettricità.

Figura 39: Indagine fotografica sulle Formazioni Sanitarie nelle regioni di Koudougou e Ouahigouya (Burkina Faso).

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Figura 39: Indagine fotografica sulle Formazioni Sanitarie nelle regioni di Koudougou e Ouahigouya (Burkina Faso).

CMA realizzato dalla Banca Mondiale. Dettagli ridondanti ecucina dell’ospedale di 9 metri quadri. Costi di costruzionee manutenzione insostenibili dalle istituzioni locali.

Mobilette con lettiga a traino. Esemplare costruito dal medicodel CSPS.

Dettaglio dell’ingresso agli edifici di un tipico CSPS. Tra laterra battuta e il piano di calpestio del dispensario o dellamaternità non esiste alcun elemento di mediazione.

L’ospedale san Camillo di Ouagadougou ha ben tre elementi dimediazione tra la strada e l’ingresso ai padiglioni: una fasciadi aiuola verde, ghiaia e marciapiede.

Dettaglio della lavanderia dell’ospedale san Camillo, gestito dareligiosi.

Uso di materiali e tecnologie appropriate per la costruzione di Formazioni Sanitarie: mattoni di adobe e cellule fotovoltaiche perl’approvvigionamento idrico da trivellazione.

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Il progetto non poteva che schierarsi dalla partedella qualità sostenibile e questa anche quando ap-plicata ad una Formazione Sanitaria non potevaprescindere dai tre principi fondamentali che la de-finiscono: la durabilità, l’appropriatezza e l’evolui-bilità, sui quali le raccomandazioni che seguonofurono basate.

DurabilitàLa durabilità certo non poteva esser concepita

solo ed esclusivamente in funzione della durabilitàdei materiali edilizi, ma avrebbe dovuto essere ilrisultato della combinazione della qualità tecnolo-gico-progettuale, delle strategie di manutenzioneadottate, e delle risorse economiche disponibili. Ilrapporto tra queste tre condizioni è complesso. Si-curamente di queste tre componenti la manuten-zione svolge sicuramente un ruolo chiave se siconsidera che a parità di costi d’investimento unmanufatto con poche risorse iniziali e piccoli inve-stimenti ricorrenti nel tempo obbliga ad una stra-tegia di manutenzione che di fatto garantisce unamaggiore durabilità e qualità globale in confrontoad un manufatto che dispone di un notevole inve-stimento iniziale ed alcun investimento ricorrente(Franceys R., 1992). Tra l’altro dei due casi enun-ciati quello con costi reiterati realizza persino un ri-sparmio sulla capitalizzazione, ma è costrettoevidentemente ad uno sforzo maggiore in termini dielaborazione di strategia di manutenzione e so-prattutto di elaborazione di un progetto tecnologicoed architettonico che fa ricorso a tecnologie povereed al basso costo.Ciò significa che un progetto di qualità globale61

elevata che pianifica anche la manutenzione neltempo del manufatto assicura da un lato una buonadurabilità e dall’altro costi capitalizzati più bassi aparità di investimento globale.

Appropriatezza“La più semplice definizione di tecnologia appro-

priata è di Paul Osborne: “(Una tecnologia appro-priata è) ‘una tecnologia di cui la gente puòappropriarsi’62. Una tecnologia che la gente nonpuò usare, che li rende dipendenti da una grandeorganizzazione, non è appropriata (…). Tecnologiepesanti e capital intensive63 possono essere parti-colarmente appropriate per grandi edifici, ma nonper case e villaggi” (Cadman D., Payne G.K., 1990).La tecnologia appropriata, in opposizione alla tec-nologia convenzionale, ha come parametri le ri-sorse disponibili (umane e materiali), le condizionidi contesto (climatologiche socioeconomiche, poli-tiche) e poi, avendo come obiettivo la qualità glo-bale, articola il basso costo delle tecnologie poverecon l’alta tecnologia.“(…) l’idea di appropriato è incontrasto sia con l’uso indiscriminato delle tecnolo-gie industriali e automatizzate, sia con le posizionipure e semplici del tradizionale come unica basetecnologica valida, anche se ‘migliorabile’ (…).” (Ce-ragioli G., 1989).L’appropriatezza delle Formazioni Sanitarie do-

veva essere ricercata nell’adattamento delle suestrutture alle condizioni contestuali fisico-morfolo-giche ma anche economico-produttive e culturalifatte salve quelle condizioni necessarie al funzio-

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Figura 40: Proposte per soluzione di annosi inconvenienti delleFS africane.

namento della struttura sanitaria che per sua na-tura doveva rispondere alle indispensabili condi-zioni igieniche ed alle caratteristiche adeguate allefunzioni richieste per ciascun centro sanitario e sot-tolineate nelle Raccomandazioni generali e Principibase (paragrafo 2.4.3).

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L’evoluibilitàL’evoluibilità di un edificio consiste nel suo ca-

rattere in fieri ovvero nell’essere predisposto, sindal suo concepimento, ad evolversi in una strutturadai caratteri funzionali più complessi. L’evoluibilitàè di fatto una caratteristica del progetto di qualitàglobale in quanto pianificando lo sviluppo di un ma-nufatto edilizio e dell’uso dello spazio si assecondauna naturale predisposizione alla progressiva tra-sformazione dell’habitat umano (crescita ed evolu-zione sia a livello tecnologico che dimensionale) esoprattutto si recuperano parte dei costi di im-pianto.

In ogni caso, a parte la necessaria applicazionedi questi fondamentali principi volti a garantire qua-lità degli edifici e di servizi all’interno delle Forma-zioni Sanitarie, la quasi totalità delle FSnecessitavano comunque sia interventi di manu-tenzione ordinaria (come una nuova impermeabi-lizzazione del tetto, una nuova pavimentazione, lasostituzione di maniglie e chiavistelli) che manu-tenzione straordinaria per la ventilazione degli am-bienti, per la maggior parte affetti dal gravosoproblema dei pipistrelli alloggiati nell’intercapedinetra tetto e plafond, e per la soluzione dei raccorditra edifici e terreno circostante.

2.4.2 Analisi delle Tipologie

I tre modelli di referenza sanitaria fissati dalla le-gislazione nazionale (il Centre de Santé et de Pro-motion Sociale – CSPS, il Centre Medical avec An-tenne Chirurgicale – CMA – ed il Centre HospitalierRegional – CHR) avevano sviluppato caratteristichetipologiche distinte e ciononostante legate da unpercorso evolutivo che in qualche caso aveva per-messo il passaggio da una CSPS ad un CMA. Nel fis-sare le raccomandazioni per il miglioramento delleFormazioni Sanitarie si è tenuto conto di taleaspetto evolutivo e lo si è ulteriormente raffor-zato64.Il CSPS era costituito da un dispensario, una

maternità (70 metri quadrati ciascuno e approvvi-gionati d’acqua potabile) ed un deposito di medici-nali essenziali e generici (Médicaments EssentielsGénériques – MEG) di 20 mq.

Ciascuno dei due edifici principali (dispensario ematernità) ospitava diverse funzioni a cui non ne-cessariamente corrispondeva uno spazio suo pro-prio. Le funzioni ospitate nei due edifici principalierano:– nel dispensario: sala d’attesa, consultazione,primo intervento e cura, degenza e deposito;

– nella maternità: sala d’attesa, consultazione pre-natale, parto, cura, degenza post-natale)

Il centro sanitario avrebbe dovuto essere neces-sariamente dotato di servizi quali: latrine/docce,cucina per i malati, sale di degenza ausiliarie, al-loggi per il personale (in un numero variabile da 2a 4, a seconda delle necessità). In virtù dei men-zionati principi di evoluibilità l’organizzazione dellospazio esterno avrebbe dovuto consentire la possi-bilità di uno sviluppo planimetrico ulteriore del cen-tro sanitario e la possibilità di una facile ed accuratamanutenzione ordinaria dei servizi ausiliari, deipassaggi coperti e non, e degli spazi di raccordo trail costruito ed il non edificato.

Figura 41: Definizione dell’area di pertinenza da destinare aun CSPS con prospettive evolutive. Figura 42: Schema evolutivo di un CSPS.

1. Dispensario e depositoMEG2. Pozzo per approvvigiona-mento idrico3. Latrine

4. Maternità5. Cucina per malati eparenti dei malati6. Pannelli fotovoltaici

7. Locali di degenza8. Estensione deldispensario

9. Deposito d’acqua10. Piccolo laboratorio

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Ai due edifici principali a fronte dell’incrementoquantitativo del bacino d’utenza e dell’aumentodelle attività (ciò corrispondeva in genere ad unasempre maggiore fiducia conferita dalla popola-zione servita all’istituzione sanitaria a fronte del-l’aumento della qualità del servizio) si associavanoulteriori funzioni che necessitavano di ulteriori spazichiusi come per esempio il laboratorio, nuovi re-parti a padiglione ed i sempre più diffusi spazi de-stinati ai centri di recupero nutrizionale CREN(Centres de Récupération Nutritionnelle).Al momento del salto di qualità da CSPS a CMA

ancora ulteriori funzioni e i relativi spazi si sareb-bero integrati a quelli esistenti. Le reti e le fonti dialimentazione sarebbero state potenziate cosìcome i sistemi di evacuazione e trattamento dei ri-fiuti liquidi e solidi. Sono estese le operazioni di ma-nutenzione e rafforzate le appendici funzionalicome i percorsi battuti, le opere di drenaggio, i rac-cordi tra manufatto edilizio e l’habitat circostante,le opere di finitura in genere.Un CMA che si sviluppa da un preesistente CSPS

è dotato di una sala operatoria, un laboratorio d’a-nalisi ed uno di radiologia, sale di degenza diffe-renziate per patologia e relativi servizi (ausiliari edamministrativi) potenziati. I servizi di lavanderia erelativo essiccatoio e la cucina dell’ospedale65 sonofunzione del numero dei pazienti serviti e delle ne-cessità contingenti.Da un punto di vista squisitamente dimensionale

e distributivo funzionale un CHR, aldilà dell’incre-mento della superficie destinata a ciascuna dellefunzioni già prevista all’interno di un CMA, aumentaesponenzialmente le funzioni di organizzazione deisistemi di evacuazione e smaltimento dei rifiuti so-lidi e liquidi e quelle dei servizi ausiliari per i malati.Lavanderia con servizio di disinfezione ed essicca-toio diventano obbligatori così come la cottura e ladistribuzione del cibo. Particolare importanza rive-stono i sistemi di drenaggio e di trattamento delleacque luride.

Figura 43: Cellule e schemi strutturali evolutivi.

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2.4.3 Raccomandazioni: principi base emodelli

Al fine di garantire l’efficiente funzionalità ed ilmiglioramento delle qualità delle FS occorreva fos-sero garantite due essenziali condizioni di base:1. il rispetto di appropriate ed indispensabili condi-zioni igieniche e

2. la rispondenza alle caratteristiche qualitative(paragrafo 2.4.1) ed alle funzionalità dei servizida erogare (come elencato qui di seguito) in cia-scun centro sanitario a fronte di uno specifico li-vello tipologico (paragrafo 2.4.2).

Per quel che riguarda la prima condizione sa-rebbe da sottolineare che le FS in quanto (ideal-mente) rappresentanti di un modello efficiente dicura e di gestione sanitaria pubblica (di origine oc-cidentale), avrebbero dovuto in realtà farsi caricodella ostentazione di un modello d’igiene esemplarein termini di servizi di cui fornirsi e di comporta-menti a cui adeguarsi.Le FS avrebbero dovuto perciò fornire alla popo-

lazione indigena servita un concreto e valido riferi-mento esemplare per quel che riguarda le soluzioniappropriate ai fabbisogni primari come per esem-pio l’approvvigionamento idrico ed energetico, letecnologie costruttive, la gestione delle risorse, l’or-ganizzazione dello spazio, l’evacuazione ed il trat-tamento dei rifiuti liquidi e solidi, un’adeguataalimentazione.

Una FS oltre a consistere in un’articolazione spa-ziale di funzioni tutte legate alla sanità ed alla curadei malati avrebbe dovuto qualificarsi attraversouno status igienico opportunamente e convenien-temente superiore a quello dell’habitat circostantee tale da garantire il regolare svolgersi delle fun-zioni di carattere sanitario. In altri termini dovevapresentarsi nel suo complesso, con caratteristicheigienico-sanitarie per lo meno conformi alle più ele-mentari raccomandazioni dell’Organizzazione Mon-diale della Sanità o alle più elementari regoled’igiene e del buon senso (naturalmente secondole accezioni cella cultura occidentale).All’uopo fu suggerita la realizzazione, nelle im-

mediate vicinanze degli edifici che compongono laFS, dei seguenti servizi e successive raccomanda-zioni quasi in forma di manuale:1. pozzo, inizialmente con pompa manuale,2. latrine per malati e personale di servizio, cosìsuddivisi: una latrina per il personale di servizio,una per il dispensario, una per la maternità eduna per i malati con malattie infettive,

3. sistema di evacuazione e di smaltimento dei ri-fiuti liquidi e solidi,

4. drenaggio,5. struttura per la preparazione dei pasti a cura deimalati o loro familiari che li accompagnano63,

6. recinzioni,7. energia,8. padiglioni per il ricovero.

Figura 44: Schema funzionale di CHR. Figura 45: Servizi minimi di una FS per garantire un adeguatolivello d’igiene.

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Il Pozzo per adduzione idricaLa FS deve essere in grado di garantire acqua

potabile per un minimo di 20/50 litri d’acqua algiorno/persona fino ai 115/120 (a livello di ospe-dale di distretto), per soddisfare bisogni di idrata-zione, alimentazione e garantire altresì unasufficiente condizione igienica a livello personale edell’ambiente67, soprattutto all’interno dei manu-fatti edilizi.Garantire la potabilità68 significa:

1. essere in grado di manutenere la fonte di ap-provvigionamento idrico (recintando e pulendo ilbacino di raccolta delle acque e/o evitando lacontaminazione della falda acquifera),

2. essere in grado di controllare periodicamente lecaratteristiche qualitative dell’acqua di falda e, nonmeno importante, quelle dell’acqua in cisterna edall’uscita, attraverso un contatto frequente con ilCRESA (Centre Regional d’Education pour laSante et l’Assainissement),

3. essere in grado di effettuare trattamenti pre-ventivi di potabilizzazione in caso di epidemie.

La FS deve quindi essere dotata di un forage perl’approvvigionamento d’acqua potabile, di una ci-sterna per la raccolta e deposito, e di una rete didistribuzione per l’uso dell’acqua all’interno dellestrutture (dispensario, maternità, saloni di de-genza, sala operatoria ecc.).La FS deve inoltre essere dotata di un punto

d’acqua in prossimità delle latrine e di opportuniavvertimenti in merito alle norme igieniche più ele-mentari che fanno uso di acqua. Un punto d’acquadeve essere previsto anche in corrispondenza dellecucine dei malati, per l’uso domestico.In corrispondenza di ciascun punto acqua oc-

corre predisporre un opportuno pozzo a perderetale da risultare facile la sua riconversione in poz-zetto d’ispezione nel momento in cui si dovesse tra-sformare il sistema di evacuazione a dispersione inun sistema di evacuazione in rete.

Le Latrine e le DocceCiascuna FS deve essere dotata di latrine di tipo

ventilato e migliorato (VIP – Ventilated ImprovedPit-Latrine)69 per i pazienti ordinari, per il perso-nale di servizio e, separatamente, per i pazienti conmalattie infettive.Il numero di latrine deve essere sufficiente a ga-

rantirne l’uso a non più di 50 persone per latrina.L’uso delle VIP non è comunque consigliato nel casola popolazione residente superi le 170 persone perettaro (Sinnatamby G.S., 1983) al fine di evitare lacontaminazione della falda acquifera e per problemidi natura economica. Nel caso in cui tali valori fos-sero superati (il caso si presenta per i CMA parti-colarmente frequentati e per i CHR) si suggerisce lacostruzione di batterie di latrine a basso consumodi acqua con secondo sistema di trattamento infossa settica e terzo in laguna (per i CHR).

Figura 46: Servizio minimo di approvvigionamento idrico. Figura 47: Planimetria e schizzo assonometrico di una core unit.

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Le modalità di costruzione devono essere tali dagarantire solidità alla soletta ed alla camera di rac-colta sottostante e la non infiltrazione nel sottosuolodelle materie organiche (Minervini, C. 1997). In ognicaso ne è consentita la costruzione a non meno di20 metri da una fonte di approvvigionamento idri-co e ad una distanza massima dall’edificio di perti-nenza non superiore ai 50 metri (perché possa es-sere facilmente raggiungibile da parte dei suoi uten-ti. Uno schermo verde ed una semina di piante pro-fumate come la citronella sono raccomandabili.La durata di una latrina è funzione del volume del-

la camera di raccolta, della popolazione servita e del-la sua manutenzione che deve consistere, oltre chenella settimanale disinfezione della soletta, anche nel-la evacuazione dei sedimenti organici dalla cameradi raccolta70. La manutenzione delle latrine non puòessere affidata ai malati, ma si possono incoraggiarei malati a farne un uso corretto attraverso una pres-sante campagna di informazione.Nel caso di latrine a basso consumo di acqua

(qualora cioè la FS fosse dotata di sufficiente acquacorrente proveniente da rete municipale o faldafreatica particolarmente copiosa) è auspicabile larealizzazione di un unico blocco latrine-docce e la-vanderia per malati con relativo sistema di smalti-mento e trattamento delle acque71.

Sistema di evacuazione e di smaltimento deirifiuti liquidi e solidiIl sistema di evacuazione e di smaltimento dei

rifiuti liquidi si realizza attraverso la costruzione dipozzi a perdere, sgrassatori e fosse settiche, men-

Figura 48: Schema funzionale di una VIP e latrina a basso consumo d’acqua.

tre i rifiuti solidi sono dapprima raccolti poi diffe-renziati e quindi eliminati: interrati o bruciati in ap-positi contenitori (inceneritori) o ancora trattati instazioni di compostaggio. Il sistema di trattamentopiù conveniente è funzione delle dimensioni dellaFS e soprattutto del tipo di rifiuto. Se infetto il ri-fiuto liquido ha bisogno di un ulteriore trattamentoprima di essere smaltito, o di essere raccolto in in-ceneritore e bruciato se si tratta di rifiuto solido.Una particolare attenzione meriterebbe il si-

stema di trattamento dei rifiuti liquidi per mezzo dilagunaggio. È evidente che questo sistema è rea-lizzabile solo a condizione di disponibilità di acquacorrente in rete.

Il DrenaggioIl drenaggio dell’area non edificata della FS ha

la specifica funzione di irreggimentare le acque plu-viali, evitare fenomeni di erosione e soprattutto o diristagno. Canali di scolo e pozzi per l’infiltrazionecapillare nel sottosuolo fanno all’uopo se dotati diopportuna pendenza e se collegati in rete in fun-zione della progressiva espansione planimetricadella FS.

La Cucina per malatiLa maggior parte delle FS sono già dotate di cu-

cina per i malati spontaneamente realizzata dai pa-renti dei pazienti per ospitare le funzioni dipreparazione cibo al riparo dalle intemperie. Le pic-cole costruzioni (massimo 12 metri quadrati) sonoin mattoni di terra cruda e le copertura sono rea-lizzate in tecnologie altrettanto poverissime; hanno

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Figura 49: Sistemi base per il trattamento dei rifiuti solidi infetti (inceneritore) e liquidi organici.

Figura 50: Soluzioni appropriate per il drenaggio delle acquepluviali.

Figura 51: Cucina per malati e parenti.

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un solo accesso e rare piccole aperture per la fuo-riuscita dei fumi72. Raramente cucine economichemigliorate sono realizzate all’interno di tali ricoveri.Si raccomanda la realizzazione di cucine per ma-

lati a basso costo, aperte almeno su due lati, for-nite di cucine economiche migliorate e di sistema diventilazione naturale per l’allontanamento dei fumi.Tutte le cucine per malati visitate riportavano un

buono stato di manutenzione e pulizia dell’am-biente interno. È pertanto facilmente auspicabileche le nuove strutture proposte siano curate da co-loro che ne faranno uso.Tra i servizi ausiliari si suggerisce una fontanella

per ogni otto foyer (e relativo sistema di evacua-zione delle acque usate) ed un’area (all’internodella vasta area di pertinenza della FS, spesso nonusata) attrezzata per l’approvvigionamento di legnocombustibile.Una valida alternativa alle cucine per malati ap-

pena descritte è costituita da forni solari e cucineparaboliche ad energia solare in particolare nelleFS di nuova creazione.

La RecinzioneLa recinzione di una struttura sanitaria (anche la

più piccola) è di cruciale importanza per evitare cheanimali da cortile e randagi possano liberamentecircolare in un ambiente che per definizione deveassicurare un ambiente il più possibile asettico. Larecinzione può essere realizzata facendo uso delletecnologie più disparate in funzione delle caratteri-stiche delle FS (CSPS, CMA, CHR) e l’area da re-cintare non necessariamente deve includere l’interaarea di pertinenza della FS, ma limitarsi alla su-perficie funzionale all’espletamento delle funzioniessenziali73.Così come mostrato nei villaggi che sovente

fronteggiano le FS, gli stessi edifici possono costi-tuire parte integrante delle recinzioni; la rimanenteparte può essere realizzata in legno, rete metallicaassociata a fitta siepe o alberatura.

Les Salle d’hospitalisationBuona parte delle FS lamentavano la mancanza

di sale per la degenza soprattutto in occasione digravi epidemie. È stato suggerito che in caso diemergenza, le FS siano dotate di tende da campoe che fosse predisposta anche una area attrezzatacon latrine, cucina per malati e fontane pubbliche).Ricoveri per la degenza possono essere predi-

sposti anche grazie alla realizzazione di padiglioni,opportunamente attrezzati in casi di bisogno conletti in giunco, zanzariere impregnate e box con re-lativo lucchetto per la custodia degli effetti perso-nali. Il padiglione risulterebbe di capienza media di10-12 letti74 e d’una tipologia del tutto opposta aquanto finora concepito e costruito per la degenzad’emergenza, pur conservando i caratteri essenzialidelle costruzioni indigene e cioè il basso costo, imateriali poveri e l’uso di tecnologie rinnovabili,come si deve per un habitat provvisorio ed usatonon sovente. In occasione di un ampliamento delCSPS o della trasformazione del CSPS in CMA, talecostruzione potrebbe comunque offrire una validabase alla realizzazione di una sala di degenza lar-gamente funzionale e opportunamente attrezzata.

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Figura 52: Forno solare e cucine paraboliche.

Figura 53: Proposta di padiglione per la degenza.

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EnergiaBuona parte delle FS erano sprovviste di energia

elettrica per l’illuminazione degli spazi funzionali adinterventi di prima urgenza ed al mantenimentodella catena del freddo. Altre invece ricorrevano afonti energetiche alternative. Per la grande dispo-nibilità di materia prima è stato suggerito l’uso dipannelli solari a celle fotovoltaiche per coprire unfabbisogno medio di 500 W/h per CSPS.

Figura 54: Letto in bambù.

Figura 55: Cellule fotovoltaiche per l’approvvigionamento dielettricità.

NOTE

1 Le condizioni potenziali del beneficiario sembra sianodeterminanti per la definizione dello stato di emergenzaaltrimenti buona parte degli interventi della cooperazioneinternazionale in Africa non potrebbero rientrare nella ca-tegoria di programmi di sviluppo ma di emergenza.2 Il 10 Dicembre del 1948 la Dichiarazione Universale deiDiritti Umani è approvata (con la risoluzione 217 A III)dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e proclamata“…as a common standard of achievement for all peoplesand all nations”.3 La cooperazione bilaterale è quella che si produce tradue enti governativi di due distinti paesi (in genere unodel sud del mondo e l’altro esponente del blocco dei paesi‘sviluppati’), mentre la cooperazione multilaterale si rea-lizza tra un’entità multinazionale (come per esempio laBanca Mondiale o le Nazioni Unite, ma anche l’Unione Eu-ropea o gli Stati Uniti d’America) ed un governo benefi-ciario. La cooperazione decentrata invece si svolge trasoggetti autonomi (Regioni, Province, Comuni o in gene-rale pubbliche istituzioni di due paesi), che si sviluppanoda un processo di decentralizzazione. Una più approfon-dita analisi della cooperazione allo sviluppo è fornita inRaimondi A., Antonelli G., 2001.4 Articolo25 (1) della Dichiarazione Universale dei DirittiUmani: Everyone has the right to a standard of living ade-quate for the health and well-being of himself and of hisfamily, including food, clothing, housing and medical careand necessary social services, and the right to security inthe event of unemployment, sickness, disability, wido-whood, old age or other lack of livelihood in circumstan-ces beyond his control.5 Il riferimento è a J.F.C. Turner che, nel settore abita-tivo, per primo ha proposto di rivedere il ruolo dei governicentrali da fornitori a facilitatori. Turner ha pubblicato lesue teorie in varie autorevoli pubblicazioni (Turner, 1976)e ha portato queste istanze presso la Banca Mondiale fa-cendosi promotore di approcci e progetti di partecipazionenegli anni settanta e ottanta.6 Se da lato questo meccanismo appare logico (gli entiche gestiscono la legalità e l’illegalità sono in teoria in-commensurabili) dall’altro risulta invece paradossale chele sanatorie edilizie in paesi ‘sviluppati’ siano direttamentegestite dai governi centrali.7 Una barzelletta rende perfettamente questa delicata senon incresciosa presenza del cooperante in terra da co-operare. Il confronto proposto dal motto scherzoso è trail saputo cooperante ed il sapiente pastore locale, timido,pacifico e rassegnato che si vede avvicinato dal barbaroin vena di performance inoppugnabili, di show informaticie di ‘vittoria’. “Vuoi vedere, vecchio, che ti so dire quantepecore hai nel tuo gregge? … e se la mia stima dovessecorrispondere alla verità, mi regaleresti una delle tue pe-core?” Il pastore accetta di buon grado conscio dell’im-possibilità di elevare lo sguardo umano a computare unnumero di pecore tanto elevato quanto mobile. Il coope-rante, dopo aver messo in moto la sua potente macchinainformatica, il suo cellulare satellitare, creato il collega-mento tra i due, identificato il wireless network alla por-tata e scaricata l’immagine satellitare del luogo, riportatal’immagine in GIS, combinate le pecore con punti, ordinaal programma di rilevare automaticamente il numero deipunti ovvero delle pecore. “1735” propone, con inappun-tabile sicurezza, il saputo cooperante. A seguito dell’at-timo di imbarazzato smarrimento e dell’impossibilità dinon reagire alla sottrazione di uno degli animali di suaproprietà, il pastore ribatte proponendo “se ti dicessi chisei, ovvero la tua professione, mi restituiresti la mia ‘pe-cora’ ?” E qui i ruoli del cooperante e del pastore vengonoinvertiti. Il pastore pomposo d’orgoglio fa riferimento al-

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l’antica saggezza che loro deriva dalle ore di silenzi pen-sati e sentenzia: “un cooperante … e ti dico anche perchétradisci la tua professione. I motivi sono almeno tre.Primo: sei giunto al mio cospetto quando nessuno avevarichiesto la tua presenza; secondo: mi hai riferito un’in-formazione che già conoscevo, e terzo perché hai fattomostra di autentica ignoranza: hai preso il mio cane an-ziché la mia pecora”.8 Carlos Castaneda, antropologo dell’Università di Cali-fornia, ha riportato in una trilogia le sue esperienze fattenel corso di anni di apprendistato presso uno stregone in-diano Yaqui. Dopo A Scuola dello Stregone (1968) pub-blica Una realtà separata e Viaggio a Ixtlan.9 Questo esercizio è tratto e adattato da Hope, A., Timmel,S., 1984. Un’altra versione dello stesso test è pubblicatain: Johnston, M., Rifkin, S.B., Health Care Together: Trai-nign exercises for health workers in community based pro-grammes, London: Macmillan/TALC, 1987.10 Questo esercizio è ripreso e adattato da Hope, A., Tim-mel, S., Training for Transformation, a Handbook forCommunity Health Workers Zimbabwe, Mambo Press,1984. Una versione di questo esercizio (che non nominaMathari valley) è anche pubblicata in: Johnston, M., Rif-kin, S.B., Health Care Together: Training exercises forhealth workers in community based programmes, Lon-don, Macmillan/TALC, 1987.11 La differenza media tra le actual responses degli abi-tanti di Mathari valley e le risposte degli aspiranti coope-ranti si attesta generalmente intorno ai 30 punti sui 90 didifferenza massima.12 Il Foreign Direct Investment (FDI) consiste nel creareopportunità di partnership tra imprese di straniere e im-prese locali (http://en.wikipedia.org/wiki/Foreign_direct_investment).13 In questo settore opera la European Bank for the Re-construction and Development (EBRD) (Banca Europeaper la Ricostruzione e Sviluppo), http://www.ebrd.com/about/index.htm) e la World Bank (Banca Mondiale).14 Http://www.id21.org/urban/u1bj1g1.html.15 Http://www.id21.org:80/urban/u7af1g1.html.16 La tensione etnica tra Hutu e Tutsi ha assunto livelli discontro civile con l’indipendenza del Rwanda e del Bu-rundi nel 1962. Con il massacro di trecentomila Hutu nel1972 la guerra civile ha avuto una tragica escalation. Nel1993 una nuova recrudescenza dei combattimenti hafatto seguito all’assassinio del primo presidente demo-craticamente eletto (di etnia Hutu) lasciando sul terrenooltre duecentomila morti.17 Http://www.unhcr.it.18 Sono rari i casi in cui alcune organizzazioni non gover-native, come OXFAM per esempio, si prendono caricodella formazione dei rifugiati alla produzione di prodottiartigianali. Queste attività collaterali alla vita dei campisono certamente non sostenibili, come gli stessi campid’altronde; tuttavia contribuiscono a sollevare psicologi-camente le popolazioni rifugiate attraverso l’impegno col-lettivo in attività manuali e pratiche.19 WEDC: Water Engineering and Development Centresalla Loughborough University in Gran Bretagna,http://wedc.lboro.ac.uk.20 In Bosnia, nel 1993, quando la guerra non era ancorafinita, fu istituito l’International Management Group (IMG)che in breve tempo è stato capace di definire il DamageAssessment ed anche i prototipi di abitazioni da costruire.In Kossovo, pochi anni più tardi, il Damage Assessment fuoperato da due diverse istituzioni: IMG e le Nazioni Uniteattraverso la sua agenzia UNHCR (United Nations HighCommission for Refugees, Alto Commissariato per i Rifu-giati delle Nazioni Unite), creando non poca confusione,non tanto per quel che riguardava le quantità di spesaper la ricostruzione, quanto per le categorie di danno a cuil’assessment faceva riferimento.

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21 Il decision making process è il processo decisionale cheporta all’assunzione di strategie di sviluppo di una comu-nità o di una città.22 Europeaid è l’ufficio di Cooperazione Internazionale del-l’Unione Europea. L’indagine si è svolta nel 2004 intervi-stando rappresentanti degli uffici di aiuto allo svilupponelle quattro aree geografiche (Europa, sud-America,Africa e zona caraibica, e Asia) ed i responsabili di pro-grammi che comprendevano anche solo in parte la piani-ficazione urbana.23 A corollario di questo concetto (concetto del costo deldenaro) si è anche sviluppato il principio che un rilevanteinvestimento iniziale non è altrettanto conveniente quantouna successione d’investimenti minori nel tempo (vedipag. 19).24 A questo proposito si potrebbe fare riferimento alle in-numerevoli statistiche degli Human Development Report(http://hdr.undp.org/hdr2006/statistics/) oppure ai 48 in-dicatori di sviluppo (http://unstats.un.org/unsd/mdg/Host.aspx?Content=Indicators/OfficialList.htm) relativiagli 8 obiettivi del Millennium Development Goals(http://www.un.org/millenniumgoals).25 La valutazione della qualità è un tema controverso cheha portato allo sviluppo di un Metodo di Valutazione dellaQualità Globale concepito da Giorgio Ceragioli e DelfinaComoglio all’interno della scuola di specializzazione in Tec-nologia, Architettura e Città nei paesi in via di Sviluppo delPolitecnico di Torino.26 Vedi http://en.wikipedia.org/wiki/Sustainability ehttp://it.wikipedia.org/wiki/Sviluppo_sostenibile.27 Definizione presente nel rapporto Brundtland (dal nomedella presidente della Commissione, la norvegese GroHarlem Brundtland) del 1987 e poi ripresa dalla Commis-sione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo dell’ONU(World Commission on Environment and Development,WCED)(http://it.wikipedia.org/wiki/Sviluppo_sostenibile).28 Http://en.wikipedia.org/wiki/Appropriate_technology.29 Si fa riferimento alla moltitudine dei progetti dellaBanca Mondiale che sono basati su prestiti e non (se nonraramente) su donazioni.30 Queste due esperienze professionali sono gia state og-getto di pubblicazione (Minervini 1997, 2002).31 L'autore è stato coordinatore di progetto all'interno delprogramma di riabilitazione degli edifici collettivi occupatidai rifugiati in tutta l'area caucasica (progetto finanziatoda ECHO e UNHCR).32 Http://en.wikipedia.org/wiki/Georgia_(country).33 ECHO è l’acronimo di European Community Humanita-rian Office e si occupa di aiuti umanitari in prima e se-conda emergenza (http://ec.europa.eu/echo/ataglance_en.htm).34 L'autore è stato responsabile tecnico delle attività di ri-abilitazione dell'ospedale di Ngozi (progetto finanziato daUNHCR).35 Se una struttura o infrastruttura deve recuperare la suaprecedente condizione qualitativa (e quantitativa) dipendedalle risorse finanziarie disponibili ovvero dalle volontàespresse dalla comunità dei donors ossia dagli interessiche la comunità internazionale ha sviluppato nei confrontidell’area geografica in questione.36 Http://www.ladocumentationfrancaise.fr/dossiers/con-flit-grands-lacs/affrontements-hutu-tutsi.shtml.37 Http://en.wikipedia.org/wiki/Rwanda.38 Http://en.wikipedia.org/wiki/Burundi.39 I centre de santé corrispondevano ai presidi sanitariterritoriali o ambulatori.40 L’autorizzazione a procedere alla riqualificazione di unservizio pubblico non deve essere data per scontata. Essadipende in massima parte da accordi preventivamente in-tercorsi tra l’ente donatore e lo stato che riceve la dona-zione. In area lontana dai centri di potere istituzionali lad-dove questi accorsi internazionali vengono siglati, il potere

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assoluto è nelle mani del direttore del centro ospedaliero.Questi potrebbe decidere, per esempio, di esigere unaparte dell’intero costo dell’operazione in contante o altraspecie, o altrimenti di creare difficoltà sempre più inso-stenibili all’operazione, per far meglio intendere la richie-sta di regalia.41 Non è raro che in questo caso il direttore stesso indi-chi tra le priorità la propria abitazione o quella di colleghia lui legati. In questo caso, dopo aver verificato opportu-namente le priorità stabilite dalla direzione si procede allanegoziazione o, in casi estremi, alla rottura dei negoziati.42 In effetti l’uso di un’autoambulanza in Africa è quantomai discutibile in quanto vengono a mancare due fonda-mentali ragioni: la possibilità di comunicare in temporeale (facendo per esempio uso di telefono) l’esistenza diuna urgenza di ricovero e l’esistenza di strade percorribilida un’autovettura (tipo autoambulanza) in grado di col-legare i tutti villaggi del bacino di utenza dell’unità ospe-daliera con lo stesso ospedale.43 Occorre sottolineare che in assenza di inceneritori e la-trine il materiale infetto e le stesse feci dei pazienti af-fetti da ogni sorta di malattia erano di fatto sparsetutt’intorno l’ospedale mettendo a rischio di contamina-zione l’intero ambiente. Gli animali avrebbero potuto fun-gere da inconsapevoli vettori ed i bambini entrandoliberamente nell’area dell’ospedale avrebbero potuto con-trarre molte delle malattie che nell’ospedale si tentava dicurare.44 L'autore è stato housing coordinator all'interno del-l'UNMIK e responsabile di esercizi di pianificazione urbanaa Decan e Klina.45 Http://en.wikipedia.org/wiki/Kosovo.46 L’acronimo inglese dell’organizzazione delle NazioniUnite più comunemente usato è UN al posto di UNO.47 La missione fu stabilita il 10 Giugno 1999 a seguitodella risoluzione 1299 del consiglio di Sicurezza delle Na-zioni Unite.48 IMG fu istituito nel 1993 a seguito del collasso dellaYugoslavia e durante il conflitto in Bosnia-Herzegovina edotato di esperti internazionali di egregio livello in terminidi housing, management, pianificazione urbana, approv-vigionamento idrico, telecomunicazioni, agricoltura e GIS(Geographic Information System).49 Il termine Housing in italiano è difficilmente traducibilese non in funzione del termine che l’accompagna.50 Il Central Housing Committee aveva sede a Pristina(città capitale del Kossovo) ed era guidato da un SeniorHousing Coordinator (coadiuvato dai Regional HousingCommittee) che si voleva essere debole tecnicamente eremissivo politicamente in quanto doveva annuire alle re-gole e desiderata del Donor Coordination Committee (laCommissione di Coordinamento dei Donatori).51 Le Kulla kossovare erano delle magioni fortificate inpietra (le murature) e legno (gli orizzontamenti) che pun-tellavano il territorio.52 A parte le oasi (cluster) territoriali nelle quali erano as-sediate alcune comunità serbe oltranziste, la maggiorparte delle municipalità kossovare erano amministrate dafunzionari kossovari di etnia albanese.53 Gianfranco Bagoni, Laura Bozzo, Pietro Mancuso, Ma-rina Pelfini.54 La comunità serba a Decan era raccolta intorno al Pa-triarcato ortodosso protetto dalla KFOR (Kosovo Force-NATO) italiana.55 L'autore è stato consulente tecnico all'interno di un pro-gramma dell'Unione Europea avente come obiettivo l'am-modernamento delle strutture del sistema sanitarioregionale in Burkina Faso.56 Le Formazioni Sanitarie (FS) in Burkina Faso sono luo-ghi e strutture fisiche (manufatti edilizi, servizi e impianti)nei quali e grazie ai quali si attuano interventi curativi epreventivi con medicina convenzionale. Le proposte di mi-

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glioramento, una volta definite avrebbero dovuto essereincluse all’interno del finanziamento dell’VIII Fondo Eu-ropeo per lo Sviluppo (FED) nel settore della Sanità Pub-blica in Burkina Faso.57 Http://fr.wikipedia.org/wiki/Burkina_Faso.58 Il campione è statisticamente rappresentativo delle 233Formazioni Sanitarie all’interno delle due regioni, se si as-sumono valori pari al 15% di confidence level e 95% di con-fidence interval (http://www.surveysystem.com/sscalc.htm).In tal modo Le 38 Formazioni Sanitarie visitate potrebbe-ro altresì figurare come campione statisticamente signifi-cativo di tutte le strutture sanitarie nazionali.59 Le strutture ospedaliere o i presi sanitari (gli ambula-tori) sono generalmente visibili all’interno della strutturaurbana attraverso la segnalazione grafica o simbolica, ladistinzione tipologica, e l’ubicazione in aree urbane facil-mente identificabili e raggiungibili.60 Ordinanza prefettizia n. 93/146/SASF/SG: “La CSPScouvre en moyenne 10.000 habitants, dans un rayon de10 kms”.61 “ (…) la qualità globale (è) intesa come somma pon-derata delle qualità raggiunte in settori specifici (qualitàelementari), purché nessuna di queste qualità elementariscenda al di sotto di determinati limiti di soglia conside-rati come qualità elementari irrinunciabili. Al concetto diqualità globale accostiamo quello di tecnologia appro-priata, quella tecnologia, cioè che permette, di volta involta, di raggiungere la qualità globale voluta, fatti salvii limiti di soglia per le qualità elementari.” Ceragioli G.,1989.62 Da una comunicazione verbale di Paul Osborne, Diret-tore di SATIS (Information and Dissemination Service andInformation Management System), Olanda.63 Capital Intensive si contrappone generalmente a La-bour Intensive. La prima espressione si riferisce ad inter-venti basati su consistenti impieghi di capitale, la secondainvece su impieghi di manodopera.64 L’evoluibilità delle FS (la predisposizione delle nuovestrutture ad integrarsi con quelle che avrebbero potutorealizzarsi in un secondo momento, senza peraltro infi-ciarne la funzionalità) oltre che costituire un fattore di no-tevole risparmio, avrebbe potuto rafforzare la convinzionenei confronti dello sviluppo pianificato, a detrimento dellacultura della povertà e dello spreco. A questo proposito laletteratura è prodiga di contributi a partire da GrahamTipple A., Wilkinson N., Nour M., 1985.65 La cucina dell’ospedale si differenzi dalla cucina utiliz-zata dai parenti dei malati in quanto garantisce la minimasussistenza (ovviamente differenziata in funzione dellediete prescritte) a tutti i malati. Qualora insufficiente oinesistente i familiari dei malati integrano o suppliscono.66 Nel corso dei sopralluoghi si rilevò che la comunità ser-vita realizzava spontaneamente ripari essenziali per lapreparazione dei pasti. Tali rudimentali cucine erano par-ticolarmente usate nell’area della maternità per la pre-senza di donne che non avrebbero avuto altrimenti altromodo per alimentarsi. In genere ed in caso di particolarelontananza dalla propria abitazione il nucleo familiare sitrasferiva con il paziente presso la Formazione Sanitaria.67 Le raccomandazioni della OMS e di altre organizzazioniinternazionali stabiliscono un ammontare minimo di 3-10litri di acqua per persona al giorno per il soddisfacimentodi bisogni di sostentamento. La quantità d’acqua neces-saria per ulteriori propositi come la cucina e l’igiene, difatto dipende da fattori socio-economici, nonché dalla dis-ponibilità d’acqua alla fonte di approvvigionamento e dallaconvenienza che può derivare dal consumo. Per quel cheriguarda le FS indicazioni di larga massima sono segna-late dall’OMS. WHO, 1996.68 I parametri chimico-fisici e batteriologici da assumerecome garanzia della potabilità dell’acqua sono stabiliti dal-l’OMS. WHO, 1984.

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69 Le latrine migliorate e ventilate rientrano tra le racco-mandazioni dell’OMS, hanno la peculiarità rispetto alle al-tre di ventilare la camera di raccolta e contemporaneamentedi impedire la fuoriuscita di mosche (lì nate e nutrite) dal-la stessa camera di raccolta attraverso una zanzariera op-portunamente posizionata all’estremità di un condotto diventilazione (anche questo opportunamente dimensiona-to) che dalla camera di raccolta supera la sovrastruttura.In merito ai sistemi di costruzione e di manutenzione diuna VIP (Ventilated Improved Pit Latrine) ed alle carat-teristiche di evoluibilità del sistema di evacuazione e trat-tamento dei rifiuti organici si veda Minervini C. 1997.70 L’evacuazione dei rifiuti solidi sedimentati nella cameradi raccolta è lecita per mezzo di pompa meccanica solo nelcaso di camera di raccolta unica e di sovrastruttura ancorain buono stato e soletta integra. L’evacuazione a mezzomanuale – per uso del materiale organico come compost– è raccomandabile invece solo in caso di doppia cameradi raccolta e a distanza di circa un anno dalla chiusuradella camera di raccolta ormai satura.71 Questo gruppo di servizi è usato anche in condizioni diemergenza e viene identificato con il nome core unit(unità funzionale di servizi).72 Aperture più grandi per la fuoriuscita dei fumi sareb-bero improbabili all’interno di una costruzione particolar-mente debole da un punto di vista strutturale.73 L’intera area di pertinenza di un CSPS può essere divisain due aree: l’area funzionale nella quale insistono gli edi-fici e l’aree di immediata pertinenza, o area di servizioche consiste in una area usata per il coltivo (produzioneorticola, cerealicola e/o produzione di legno) anche al finedi incrementare la redditività del Centro. Un chiaro esem-pio di buona gestione dell’area di servizio per far fronte aibisogni che gravitano nella FS è fornito dal CMA di Na-noro laddove insistono due vasche per la coltivazione dispirulina che viene somministrata ai pazienti affetti damalnutrizione.74 La tipologia a padiglione comune è stata suggerita dalladottoressa Ouadraogo Dierdère Elise del Centre Medical diGourcy (Regione Sanitaria di Ouahigouya) la quale com-mentava adducendo l’origine rurale della maggior partedei pazienti delle CM e CSPS a giustificazione della prefe-renza espressa dagli stessi a vivere in un ambiente co-mune piuttosto che in vani di ridotte dimensioni, più similia celle che non a camere d’ospedale, nelle quali la segre-gazione (allontanamento dal proprio nucleo sociale equindi familiare originario) viene generalmente associataalla malattia e vissuta come una ulteriore malattia checerto non avrebbe favorito la guarigione.

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INDICE DELLE FIGUREFigura 1: Gli enti che partecipano ai programmi e progetti di sviluppo 12Figura 2: Le ONG si fanno portavoce dell’azione umanitaria a favore di Comunità di Base 12Figura 3: Il motore dello sviluppo 13Figura 4: Il cooperante ed il cooperato, il Donatore ed il Beneficiario 14Figura 5: Donatore e beneficiario: posizioni contraddittorie per lo sviluppo 16Figura 6: Logica del Donatore: Migliori condizioni igienico-sanitarie per garantirsi un ambiente sano per lavorare,

produrre, guadagnare e poi migliorare le proprie condizioni abitative 16Figura 7: Basic Need Provisions 17Figura 8: Esempio di campo profughi 18Figura 9: Esempi di maglia sulla quale tracciare un campo profughi 18Figura 10: Aggregazione di cellule 18Figura 11: Cellula di 450 mq in grado di contenere fino a 60 persone e dettaglio dello spazio destinato al riposo

e alla cucina (coperta) 19Figura 12: Dall’emergenza allo sviluppo 19Figura 13: Regola dell’equilibrio: relazione dei campi che definiscono la Sostenibilità 26Figura 14: Tre condizioni fisiche di stato 27Figura 15: Lo smoothing dello sviluppo 27Figura 16: Il moto interno dello sviluppo 27Figura 17: Georgia 1995. Flussi migratori di rifugiati di diversa etnia e facciata laterale (lato servizi) di edificio

occupato da rifugiati a Tbilisi, 1996 28Figura 18: Occupazione di edifici pubblici da parte di rifugiati in Georgia (1996). La condizione dei lavabi prima

dell’intervento, i lavabi dopo l’intervento, il vano dei lavabi collettivi (uno per piano) occupato da unafamiglia di rifugiati 29

Figura 19: Settori nei quali svolgere attività di riabilitazione 30Figura 20: Confronto tra Approcci 31Figura 21: Spettacolo di danza georgiana organizzato per i rifugiati all’interno del teatro comunale di Tblisi 32Figura 22: Poster affisso all’ingresso dei centri collettivi 32Figura 23: Campagna informativa sull’uso degli impianti 33Figura 24: Campagna informativa sulle donazioni del progetto 34Figura 25: Fotogrammi tratti dai cortometraggi televisivi sui rifugiati 35/36Figura 26: Distribuzione di materiali e prodotti per l'automanutenzione 37Figura 27: Capocantiere hutu presenta una delle sue batterie di latrine 38Figura 28: Capocantiere tutsi fotografato con la sua opera principale: un inceneritore 38Figura 29: Trasporto delle solette delle latrine. Hutu e Tutsi in flagranza di collaborazione solidale 39Figura 30: Schizzo della planimetria dell’ospedale di Ngozi (Burundi) 40Figura 31: Foto di rilievo delle condizioni dell'ospedale. In evidenza: gli improvvisati focolari domestici e stenditoi 41Figura 32: Disegni e foto delle fontane, sgrassatori e drenaggio delle acque 42Figura 33: Disegni e foto della cucina per i famigliari dei malati 43/44Figura 34: Essiccatoio ricostruito con forme che risultano dalla necessità di utilizzare tutti i materiali rimanenti

alla fine della riabilitazione dell’ospedale 45Figura 35: Schizzi progettuali di nuovo deposito d’acqua 45Figura 36: Esempi di edifici storici (Kulla) danneggiati dalla guerra 47Figura 37: Edificio danneggiato in adobe e esempio di ricostruzione in cemento armato 47Figura 38: Esempi grafici di densificazione di aree pubbliche e diversificazione delle attività 49Figura 39: Indagine fotografica sulle FS nelle regioni di Koudougou e Ouahigouya (Burkina Faso) 50/52Figura 40: Proposte per soluzione di annosi inconvenienti delle FS africane 53Figura 41: Definizione dell’area di pertinenza da destinare a un CSPS con prospettive evolutive 54Figura 42: Schema evolutivo di un CSPS 54Figura 43: Cellule e schemi strutturali evolutivi 55Figura 44: Schema funzionale di CHR 56Figura 45: Servizi minimi di una FS per garantire un adeguato livello d’igiene 56Figura 46: Servizio minimo di approvvigionamento idrico 57Figura 47: Planimetria e schizzo assonometrico di una core unit 57Figura 48: Schema funzionale di una VIP e latrina a basso consumo d’acqua 58Figura 49: Sistemi base per il trattamento dei rifiuti solidi infetti (inceneritore) e liquidi organici 59Figura 50: Soluzioni appropriate per il drenaggio delle acque pluviali 59Figura 51: Cucina per malati e parenti 59Figura 52: Forno solare e cucine paraboliche 60Figura 53: Proposta di padiglione per la degenza e letto in bambù 60Figura 54: Letto in bambù 61Figura 55: Cellule fotovoltaiche per l’approvvigionamento di elettricità 61

INDICE DELLE TAVOLETavola 1: Analisi dei bisogni a Mathari Valley 15Tavola 2: Foglio di calcolo della qualità del sistema di smaltimento di deiezioni in area residenziale 22Tavole 3-4: Indagine preliminare di danno e dettaglio 23Tavola 5: Quadro di calcolo dei costi di riabilitazione 24Tavola 6: Proposta di progetto. Approccio e Azioni 31Tavola 7: Titoli di testa e coda dei cortometraggi 34Tavola 8: Liste di attrezzature e materiali per la manutenzione ordinaria di bagni e cucine 37

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LA COLLANA

World in progress mette in comune ricerche, progetti e riflessioniportati avanti all'interno del Centro di ricerca e documentazione inTecnologia, Architettura e Città nei paesi in via di sviluppo.Trovano spazio sulle pagine della collana temi diversi, da quellitecnologici fino alle problematiche più generali sullo sviluppodell'habitat nella sua accezione più ampia.L'interesse è rivolto ai contesti urbani e rurali dei paesi emergenti,dove è evidente la necessità di intervento per il miglioramentodelle condizioni di vita, lo sviluppo socio-economico o lasalvaguardia del patrimonio esistente.

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L'AUTORECorrado Minervini, 52 anni, architetto, è specialista in “tecnologia delle città nei paesi in via di sviluppo” . Dopo una breve parentesiprofessionale in Italia, ha cominciato a lavorare nei paesi in via di sviluppo nel 1989, dapprima in Cina, poi in Africa, quindi in Caucaso,sud America e nei Balcani. Ha vissuto in prima persona la transizione economica e culturale dei paesi dell’ est durante la fase diemergenza e poi di ricostruzione di un nuovo sistema urbano e sociale a seguito di scissioni e guerre. L’ esperienza nei paesi in viadi sviluppo è stata un’ opportunità per riflettere sul linguaggio della città a partire dalle sue prime unità significative di cui si èperso l’ originario senso comune ed in modo particolare il valore della partecipazione allo sviluppo urbano.