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1 CARITAS VICENTINA Contrà Torretti, 38 - 36100 VICENZA CORSO DI FORMAZIONE TEOLOGICO-PASTORALE per COORDINATORI CARITAS parrocchiali/interparrocchiali/vicariali Lunedì 14-12-2015 Evangelizzare attraverso segni esperienze e parole (Iniziazione mistagogica dal culto alla liturgia) Nella sua prima enciclica, Deus Caritas est, Benedetto XVI ha più volte ricordato a tutti ciò che è es- senziale e specifico nel cristianesimo: «All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo o- rizzonte e con ciò la direzione decisiva» 1 . Giovanni Paolo II, a sua volta, ci aveva già messo in guardia da «una tentazione che da sempre insidia ogni cammino spirituale e la stessa azione pastora- le: quella di pensare che i risultati dipendano dalla nostra capacità di fare e di program- mare. Certo, Iddio ci chiede una reale collaborazione alla sua grazia, e dunque ci invita a investire, nel nostro servizio alla causa del Regno, tutte le nostre risorse di intelligenza e di operatività, Ma guai a dimenticare che "senza Cristo non possiamo far nulla" (cf. 1 Gv 15,5)» 2 Infine, più recentemente, l'episcopato italiano, nella Nota pastorale sulla parrocchia, ha ribadito che «occorre tornare all'essenzialità della fede, per cui chi incontra la parrocchia deve poter incontrare Cristo, senza troppe glosse e adattamenti. La fedeltà al vangelo si misura sul coerente legame tra fede detta, celebrata e testimoniata, sull'unità profonda con cui è vis- suto l'unico comandamento dell'amore di Dio e del prossimo, sulla traduzione nella vita dell'eucaristia celebrata». 3 Perché così tanta insistenza da parte del magistero su questi aspetti? Non solo perché tutto ciò costituisce il cuore della nostra fede, ma anche perché lo richiede questo nostro mondo, attraversato da rapidi e profondi cambiamenti. 1 Benedetto XVI, Deus caritas est, 1. 2 Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, 38. 3 Cei, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, 13.

CORSO DI FORMAZIONE TEOLOGICO-PASTORALE per … · ca fu intesa dai padri come una scuola di vita e di spiritualità cristiana incentrata sulla liturgia. ... e vivere sempre più

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CARITAS VICENTINA

Contrà Torretti, 38 - 36100 VICENZA

CORSO DI FORMAZIONE TEOLOGICO-PASTORALE

per COORDINATORI CARITAS

parrocchiali/interparrocchiali/vicariali

Lunedì 14-12-2015

Evangelizzare attraverso

segni esperienze e parole (Iniziazione mistagogica – dal culto alla liturgia)

Nella sua prima enciclica, Deus Caritas est, Benedetto XVI ha più volte ricordato a tutti ciò che è es-

senziale e specifico nel cristianesimo: «All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o

una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo o-

rizzonte e con ciò la direzione decisiva»1.

Giovanni Paolo II, a sua volta, ci aveva già messo in guardia da

«una tentazione che da sempre insidia ogni cammino spirituale e la stessa azione pastora-

le: quella di pensare che i risultati dipendano dalla nostra capacità di fare e di program-

mare. Certo, Iddio ci chiede una reale collaborazione alla sua grazia, e dunque ci invita a

investire, nel nostro servizio alla causa del Regno, tutte le nostre risorse di intelligenza e di

operatività, Ma guai a dimenticare che "senza Cristo non possiamo far nulla" (cf. 1 Gv

15,5)» 2

Infine, più recentemente, l'episcopato italiano, nella Nota pastorale sulla parrocchia, ha ribadito che

«occorre tornare all'essenzialità della fede, per cui chi incontra la parrocchia deve poter

incontrare Cristo, senza troppe glosse e adattamenti. La fedeltà al vangelo si misura sul

coerente legame tra fede detta, celebrata e testimoniata, sull'unità profonda con cui è vis-

suto l'unico comandamento dell'amore di Dio e del prossimo, sulla traduzione nella vita

dell'eucaristia celebrata».3

Perché così tanta insistenza da parte del magistero su questi aspetti?

Non solo perché tutto ciò costituisce il cuore della nostra fede, ma anche perché lo richiede questo

nostro mondo, attraversato da rapidi e profondi cambiamenti.

1 Benedetto XVI, Deus caritas est, 1.

2 Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, 38.

3 Cei, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, 13.

2

Una società - la nostra - soffocata, sì, da scelte e comportamenti consumistici, spesso chiusa alla

trascendenza e, perciò, facile preda di antiche e nuove idolatrie, e tuttavia assetata di qualcosa che

vada oltre l'immediato, capace di dare senso e valore alla sua vita.

Così, in questi ultimi decenni, è tornata a riproporsi in tutta la sua importanza ecclesiale, una espe-

rienza, un ‘metodo di lavoro pastorale’: la mistagogia, che stasera tenterò di presentare, e che il ti-

tolo ha già presentato come un “evangelizzare attraverso segni, esperienze e parole”.

In un'epoca per molti versi simile alla nostra, i grandi padri della Chiesa d'oriente e d'occidente si

sono impegnati a rispondere alla sfida che la loro società lanciava alla fede cristiana con le Cateche-

si mistagogiche: hanno richiamato la centralità del mistero di Cristo, convinti che solo la fede in lui,

celebrata, professata e vissuta, avrebbe potuto rispondere alle aspirazioni spirituali del loro tempo.

Caratteristica del metodo mistagogico è di non fare una catechesi sui sacramenti se non dopo la lo-

ro celebrazione. Questo, perché l'esperienza deve precedere la spiegazione. Vi è, infatti, nella ce-

lebrazione dei sacramenti una realtà che non può essere ridotta a semplice spiegazione o a cono-

scenza intellettuale della fede cristiana: vi è un avvenimento, una vita nella quale si è effettivamen-

te introdotti, un'azione - quella del Risorto e del suo Santo Spirito - alla quale si partecipa.

È nella celebrazione che il mistero si rivela, si comunica, si fa conoscere in tutta la sua ricchezza. E

ciò perché la liturgia, prima di essere un'azione della comunità cristiana, è innanzitutto azione di

Dio: realizza ciò che significa.

Perché fare della mistagogia una scelta pastorale?

Innanzitutto, perché in questo modo viene posto al centro dell'agire pastorale il Risorto, presen-

te e operante, per mezzo del suo Santo Spirito, nella liturgia. Così la comunità cristiana lungo il cor-

so dell'anno liturgico, mentre prende per mano e introduce i battezzati nel mistero di Cristo, «in-

sieme con loro prosegue il suo cammino nella meditazione del vangelo, nella partecipazione all'euca-

ristia e nell'esercizio della carità, cogliendo sempre meglio la profondità del mistero pasquale e tra-

ducendolo sempre più nella pratica della vita».4

Inoltre, alla scuola della mistagogia, si è più facilitati nel realizzare quella circolarità vitale tra Pa-

rola, celebrazione e vita, tanto auspicata, ma poco attuata.

Nella nostra pastorale odierna esiste una grande disparità tra le energie spese per la preparazione

ai sacramenti e quelle impiegate per accompagnare i fedeli dopo la loro celebrazione, con l'inevita-

bile conseguenza di accrescere smisuratamente il distacco tra la fede e il rito e tra la fede e la vita.

Per questo si è ritenuto che la mistagogia costituisse una valida scelta pastorale per la chiesa italia-

na e anche la nostra diocesi si è orientata in questa direzione. Negli Orientamenti pastorali per en-

trare nel terzo millennio, della diocesi di Vicenza, la scelta è così motivata:

In un contesto culturale e sociale fortemente segnato dal cristianesimo, il modo di comuni-

care la fede era soprattutto legato alla funzione di insegnare, per far capire i diversi a-

spetti dell’esperienza di fede, pensata come presente; anche la celebrazione dei sacramenti

era quindi preceduta da una preparazione catechistica che si preoccupava di spiegare il

sacramento, il rito...

4 Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, 37.

3

Ora però non si può più dare per scontata la fede, e viviamo in un tempo nel quale il mes-

saggio e l’esperienza cristiana non trovano un ambiente favorevole, ma chiedono piuttosto

il coraggio di fare scelte contro corrente. Il nostro compito perché è ora quello di intro-

durre e accompagnare le persone all’incontro decisivo con il Signore per diventare cre-

denti, e non semplicemente di spiegare che cos’è l’incontro e chi è Colui che incontriamo.

Capire con la testa è ancora necessario, ma non basta; occorre vivere un’esperienza, che

coinvolga il cuore, le mani, le relazioni...5

Analogia tra il tempo dei Padri e il nostro contesto socioculturale

La mistagogia ha conosciuto il suo momento migliore nel IV secolo, grazie alle Catechesi mistagogi-

che di alcuni grandi padri di quel periodo: Cirillo di Gerusalemme, Ambrogio di Milano, Giovanni

Crisostomo, Teodoro di Mopsuestia.

In un tempo nel quale era più evidente la crisi dell'impero romano, e mentre si faceva strada l'esi-

genza «di una nuova società, creatrice di una nuova cultura», i padri hanno adottato un «nuovo me-

todo» per l'educazione alla fede: il metodo mistagogico.

Si trattava una proposta educativa che non era semplicemente un insegnamento di dottrine, ma

una concezione della vita e dello sviluppo della persona a partire dall'azione della grazia di-

vina. La partecipazione al mistero di Cristo, morto e risorto, diventava sorgente di trasformazione

interiore, di novità di vita, di una «nuova saggezza» che insegnava un altro modo di vivere, di utiliz-

zare il tempo, di pensare i rapporti familiari etc.

Diversi recenti documenti magisteriali hanno individuato una specie di parallelismo tra il tempo

dei padri e la situazione attuale.

Evidentemente, però, non si tratta di ripetere oggi un’esperienza ormai lontana nel tempo; non ha

alcun senso un’operazione di pura riesumazione archeologica di un’esperienza pastorale della Chie-

sa dei primi secoli che attualmente è inapplicabile, ma è possibile «imparare da essa ciò che rimane

essenziale per diventare cristiani in un tempo difficile»6.

La ripresa della mistagogia nel nostro tempo, che è stata resa possibile dal rinnovamento liturgico

promosso dal concilio Vaticano II e soprattutto dalla pubblicazione del Rito dell'iniziazione cristia-

na degli adulti (1978), costituisce quindi una premessa necessaria per il rinnovamento della pasto-

rale e della spiritualità cristiana.

Cos'è la mistagogia?

«Il cammino di fede non è solo apertura dell'intelligenza a Cristo, ma è ingresso progressivo nel

mistero della salvezza (M. Magrassi).

Pur nella diversità dei metodi e delle esperienze proprie di ciascuna chiesa, la catechesi mistagogi-

ca fu intesa dai padri come una scuola di vita e di spiritualità cristiana incentrata sulla liturgia.

Dopo aver celebrato durante la veglia pasquale i sacramenti dell'iniziazione cristiana, nella setti-

mana di Pasqua i neo-battezzati venivano introdotti nella comprensione spirituale dei sacramenti

ricevuti e aiutati a vivere in conformità con quanto avevano celebrato. I sacramenti, infatti, operano 5 Orientamenti pastorali per entrare nel terzo millennio, 7.1.

6 Orientamenti pastorali per entrare nel terzo millennio, 7.1.

4

una reale trasformazione: il Risorto, con l'azione dello Spirito Santo, rende i neo-battezzati parteci-

pi della sua stessa vita divina e, perciò, capaci di una conoscenza e di una vita nuova.

Mistagogia, cammino permanente del cristiano

Richiamandosi alla via seguita dai padri della Chiesa, il Rito dell'iniziazione cristiana degli adulti ri-

badisce con forza che la mistagogia tende a un' «esperienza dei sacramenti ricevuti» e si realizza in

un contesto di vita comunitaria intensa e coinvolgente.

Si mette, così, in evidenza il primato della grazia sullo sforzo dell'intelligenza. Questo orienta-

mento provoca le nostre comunità cristiane a un salto di qualità consistente nel passare da una pa-

storale che prepara ai sacramenti a una pastorale di progressivo inserimento nel mistero.

Del resto, alle catechesi mistagogiche non partecipavano solo i neo-battezzati, ma tutta la comunità

cristiana, che, in questo modo, riceveva una formazione permanente ed era aiutata a comprendere

e vivere sempre più profondamente il dono ricevuto e ravvivato dalla liturgia.

Il cristiano è chiamato a un cammino progressivo che può essere così tratteggiato:

iniziato dai sacramenti, egli si incammina verso la pienezza della vita in Cristo, per mezzo dello Spi-

rito Santo, fino all'incontro definitivo con Dio nell'eternità.

L'inizio è noto e datato, il traguardo è altrettanto chiaro; solo il percorso può, a volte, risultare in-

certo e tortuoso. Ecco, allora, la necessità di una mistagogia permanente, di un accompagnamento

che sostenga il credente nella fedeltà al dono ricevuto.

In concreto, fare mistagogia vuol dire «scoprire le valenze dei gesti e delle parole della liturgia, aiu-

tando i fedeli a passare dai segni al mistero e a coinvolgere in esso l'intera loro esistenza»7.

Il suo metodo consiste nel procedere «dal visibile all'invisibile, dal significante a ciò che è significato,

dai "sacramenti" ai "misteri"»8.

Cosa si intende per ‘mistero’?

La Pasqua di Cristo, centro della storia della salvezza

Chi, più di ogni altro, può aiutarci a comprendere il significato pieno del termine «mistero) è cer-

tamente s. Paolo. Per l'apostolo, il «mistero» altro non è che il grande disegno del Padre che consi-

ste nell'adottare l'uomo come suo figlio, rendendolo partecipe della sua stessa vita divina, e che ha

il suo compimento e il suo culmine nella morte e risurrezione di Cristo.

Egli è il centro verso cui tutta la storia anteriore converge, come prefigurazione e preparazione, e

da cui tutta la storia posteriore deriva come dalla sua fonte.

Ora, perché non si confonda la mistagogia liturgica con una semplice attività umana e non la si ri-

duca alla sola «spiegazione» dei riti, va precisato che il primo, grande mistagogo, la prima grande

guida è il Cristo: è lui, e solo lui, che con la sua morte e risurrezione ci introduce nel progetto salvi-

fico e ci mostra il Padre.

Per i padri della Chiesa la mistagogia, prima di essere spiegazione del mistero nascosto nella litur-

gia, è innanzitutto un avere occhi per contemplare l'agire di Dio nell'azione sacra.

7 Giovanni Paolo II, Mane nobiscum Domine, 17.

8 Catechismo della Chiesa cattolica, 1075.

5

Il mistero di Cristo, della sua morte e risurrezione, non è relegato nel passato: riassume in se quan-

to avvenuto nell'Antico Testamento e rende presente, in un certo qual modo, già il futuro. Con l'av-

vento di Cristo il tempo escatologico è stato inaugurato e non c'è, dunque, più nulla di nuovo da at-

tendere. «Cristo - dice s. Ireneo - ci ha portato ogni novità, donando se stesso».

Agli uomini, quindi, non resta che una sola cosa da fare: entrare in comunione con il Cristo, immer-

gersi nel mistero salvifico della sua morte e risurrezione, È questa la missione che il Risorto affida

alla sua Chiesa. Ed essa, guidata e vivificata continuamente dallo Spirito del Risorto, per mezzo dei

sacramenti, continua a generare a Dio nuovi figli.

La liturgia, celebrazione del mistero di Cristo nel tempo

Privata della luce del mistero di Cristo, la liturgia scivolerebbe nel ritualismo e, d'altra parte, senza

la liturgia il mistero di Cristo rischierebbe di essere inefficace.

Questo intimo e reciproco rapporto tra il mistero di Cristo e la liturgia ha portato i padri greci a in-

dicare col termine mysterion il modo specifico con cui la liturgia rende partecipi i credenti del suo

progetto salvifico, attraverso la celebrazione dei sacramenti.

Possiamo, così, osservare come il termine mistero sia passato a indicare progressivamente prima

«il piano di salvezza di Dio», poi «il Cristo» e, infine, «i sacramenti».

In fondo, è indicata sempre la stessa realtà:

- il progetto d'amore che il Padre aveva nei nostri confronti fin dalla creazione del mondo,

- realizzato dal Figlio con la sua morte e risurrezione e

- offerto agli uomini, mediante l'azione dello Spirito Santo e il ministero della Chiesa nei sacramen-

ti.

Solo il modo della presenza e dell'azione di Cristo è differente: abbiamo ora una presenza sacra-

mentale sotto il velo dei segni.

Il metodo mistagogico riporta continuamente il credente al cuore della fede cristiana: vivere un'e-

sperienza sempre più profonda e coinvolgente del mistero di Cristo e della sua azione salvi-

fica.

Contro il tentativo di ridurre il Cristo a uno straordinario personaggio del passato e il cristianesimo

a proposta generica di valori, la Chiesa attraverso i secoli, soprattutto nella celebrazione liturgica,

continua a proclamare che «la fede del cristiano è nella risurrezione di Cristo. Questo è il nostro di-

stintivo fondamentale: credere che Cristo è risuscitato»9.

E, proprio perché Risorto, è vivo e operante, per mezzo del suo Santo Spirito, nella Chiesa e nella

storia.

La Chiesa non ha altri programmi se non quello di fissare lo sguardo su di lui e di additarlo alle gio-

vani generazioni come via, verità e vita.

Anche i vescovi italiani hanno recentemente ribadito che la parrocchia è chiamata oggi, più che

mai, a favorire attraverso la sua vita comunitaria e di fede l'incontro dell'uomo con il Cristo10.

9 Agostino di Ippona, Esposizioni sui salmi, 1206.

10 CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, 13; Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, 10.

6

Come può l'uomo, a duemila anni di distanza dall'evento storico della morte e risurrezione di Cri-

sto, accogliere, oggi, il dono della salvezza?

Attraverso l’anno liturgico e la partecipazione all’eucaristia nel giorno del Signore.

“ È importante che la comunità riscopra l'anno liturgico come cammino di fede per rivivere in pienez-

za il mistero di Cristo. La partecipazione alla messa domenicale è occasione privilegiata per entrare

sempre di più nei divini misteri”11.

La domenica, giorno del Risorto

Vi è, anzitutto, un legame strettissimo tra il Signore risorto, l'eucaristia e la Chiesa. Fin dall'inizio la

domenica è stata intesa come giorno della presenza viva del Signore in mezzo ai suoi, giorno

dell'anticipazione della festa senza tramonto.

La domenica è un dono di Dio per sostenere l'uomo nel suo desiderio di vita, di gioia, di festa, di ri-

poso. Il giorno del Signore è l'opportunità «per trasformare i momenti fugaci di questa vita in semi di

eternità»12.

Sono tanti, oggi, gli ostacoli che rendono precario per il credente vivere pienamente la domenica;

tuttavia è necessario ribadire la consapevolezza di non poter vivere senza celebrare il mistero di

questo giorno santo. È in gioco la nostra stessa identità cristiana e, con essa, la rilevanza della fede,

il compito di trasmetterla alle nuove generazioni, il dovere dell'annuncio e della missione, la pro-

spettiva del dialogo inter-religioso, lo scambio tra le culture.

In questo giorno, infatti, il Risorto si fa presente in mezzo alla comunità e, donandole il suo Santo

Spirito, la coinvolge nella sua offerta al Padre, perché diventi, a sua volta, «sacrificio vivente, santo e

gradito a Dio» (Rm 12,1). Per questo, venir meno a questo appuntamento settimanale significa

«tradire» la verità e la forza della vita nuova ricevuta.

L’«oggi» della salvezza

Ciò che la Chiesa celebra nella liturgia domenicale, però, non è un semplice ricordo, un evento rele-

gato nel passato. La domenica, a differenza degli altri giorni, attua una presenza attiva del Risorto,

ci dà la possibilità di entrare in comunione con il Cristo.

Attraverso la liturgia, egli si fa nostro «contemporaneo», permettendo a ogni uomo di ogni tempo e

luogo di lasciarsi purificare e nutrire dall'acqua e dal sangue, che scaturiscono incessantemente dal

suo costato, come da una sorgente inesauribile.

Il Messale romano trasforma in preghiera questa nostra convinzione: «Ogni volta che celebriamo

questo memoriale del sacrificio del Signore, si compie l'opera della nostra redenzione»13.

Ecco perché la Chiesa nelle grandi solennità esclama, a riguardo del mistero posto in evidenza dalla

celebrazione: «Oggi».

A Natale: «Oggi è nato per noi il Salvatore»; all'Epifania: «Oggi in Cristo, luce del mondo, tu hai rivela-

to ai popoli il mistero della salvezza».

11

Arcidiocesi di Bari-Bitonto, Il libro del Sinodo, 19.

12 Giovanni Paolo II, Dies Domini, 84.

13 MESSALE ROMANO, Orazione sulle offerte, messa in Coena Domini - Orazione sulle offerte, II domenica del Tempo Ordinario.

7

La liturgia rende attuale il mistero della nostra salvezza: è questo un anello fondamentale che tiene

ben uniti tra loro la fede e il rito.

L’anno liturgico, itinerario di fede della comunità

Ogni domenica, nella celebrazione eucaristica si fa memoria di tutto il mistero di Cristo. Ma la Chie-

sa si è resa conto ben presto che, pedagogicamente, era necessario mettere in evidenza i diversi a-

spetti di quest'unico mistero. L'anno liturgico è stato pensato per rispondere a questa necessità.

Così la Chiesa ci prende per mano e ci porta verso il Cristo, e, nel corso dell'anno liturgico, ci pre-

senta ora l'uno ora l'altro dei diversi aspetti dello stesso unico mistero, che si realizza simultanea-

mente in ogni celebrazione eucaristica. In ognuna di queste tappe, il Risorto ci comunica la grazia

particolare di ciascuno dei suoi misteri.

Anche qui ci viene in aiuto la liturgia attraverso la preghiera con la quale i cristiani sono invitati a

rendere grazie all’inizio della Quaresima: «Ogni anno tu doni ai tuoi fedeli di prepararsi con gioia,

purificati nello spirito, alla celebrazione della Pasqua, perché, assidui nella preghiera e nella carità

operosa, attingano ai misteri della redenzione la pienezza della vita nuova in Cristo tuo Figlio, salva-

tore nostro»14.

Ora, perché l'anno liturgico assuma la fisionomia di un itinerario di fede per tutta la comunità è in-

dispensabile che esso si caratterizzi come un cammino graduale verso una conformazione autenti-

ca al Cristo, morto e risorto. In secondo luogo è necessario l'anno liturgico sia fortemente scandito

dai sacramenti dell'iniziazione e dalle diverse tappe che li preparano, e che tutta la comunità vi sia

coinvolta.

Così vissuto, l'anno liturgico sarà realmente un itinerario di fede: la comunità mentre genera nuovi

figli a Dio, attraverso i sacramenti pasquali, cresce essa pure nell'adesione e nella conformazione al

suo Signore. È quanto la liturgia domanda nella preghiera: «O Padre, che fai crescere la tua Chiesa,

donandole sempre nuovi figli, concedi ai tuoi fedeli di esprimere nella vita il sacramento che hanno ri-

cevuto nella fede»15. E non è privo di significato il fatto che la comunità faccia questa preghiera pro-

prio il lunedì di Pasqua, all'inizio della settimana da sempre dedicata alla mistagogia.

Per mezzo dei riti e delle preghiere

«La Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo

mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all'azio-

ne sacra consapevolmente, piamente e attivamente». (SC 48)

Il punto di avvio delle Catechesi mistagogiche dei padri era sempre il riferimento al rito, ai segni e

alle preghiere liturgiche.

Il motivo che spingeva i padri a riferirsi costantemente al rito è espresso molto bene da Teodoro di

Mopsuestia, quando afferma: «Ogni mistero è l'indicazione in segni e simboli di cose invisibili e inef-

fabili». In occidente, gli fa eco s. Agostino: «Queste cose. fratelli, si chiamano sacramenti proprio

perché in esse si vede una realtà e se ne intende un'altra. Ciò che si vede ha un aspetto materiale,

ciò che si intende produce un effetto spirituale». 14

MESSALE ROMANO, Prefazio I di Quaresima.

15 MESSALE ROMANO, Colletta di lunedì fra l’ottava di Pasqua.

8

Il rischio sempre presente è di fermarsi all'aspetto esteriore senza cogliere il mistero.

La capacità di poter cogliere il mistero, partendo dai segni «visibili», è innanzi tutto dono di Dio, più

che frutto dell'intelligenza e dell'impegno dell'uomo. Con la fede egli ci ha donato anche «occhi pe-

netranti». capaci di passare da ciò che si vede a ciò che è invisibile. La fede, dunque, è l'elemento

essenziale che permette alla mistagogia di non ridursi a semplice operazione dell'intelligenza o a

sola spiegazione dei riti, ma di passare dai riti al mistero in essi presente e operante.

La comprensione dei riti e delle preghiere, dunque, è di capitale importanza per incontrarsi con il

mistero di Cristo presente nella liturgia, e lasciarsi plasmare dal dinamismo vivificante del suo San-

to Spirito.

La partecipazione attiva, consapevole e fruttuosa al mistero, passa attraverso il rito.

Del resto, è questa la via seguita da Dio con l'incarnazione, come ci fa pregare la liturgia nel tempo

natalizio: «Nel mistero del Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente la luce nuova del

tuo fulgore, perché conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all'amore delle realtà in-

visibili»16.

Pertanto, la conoscenza dei segni e dei gesti liturgici, come anche delle preghiere, non può essere

riservata ai soli specialisti o «amanti» della liturgia; deve essere necessariamente impegno di ogni

cristiano, che vuole partecipare consapevolmente e attivamente alla celebrazione liturgica, e re-

sponsabilità della comunità, chiamata a offrire momenti di formazione.

Questo era lo scopo cui mirava la riforma liturgica voluta dal concilio Vaticano II: favorire, da parte

dei fedeli, una partecipazione, piena, attiva, consapevole e fruttuosa alla liturgia17.

Purtroppo, però, di fatto si è spesso confusa la partecipazione «piena, consapevole e fruttuosa» alla

liturgia con l'attivismo esteriore.

Così, poiché la liturgia per molti, purtroppo, è rimasta ancora muta, per renderla «più viva e parte-

cipata» si sono «inventati» segni che non hanno nulla a che fare con il mistero celebrato, si sono

praticamente annullati gli spazi di silenzio, ritenuti ingiustamente «tempi morti», riempiendoli di

canti e preghiere...

Tutto questo ha provocato un «oscuramento» del mistero, scivolando in quell' «orizzontalismo» li-

turgico, per il quale ci si compiace più di celebrare se stessi e le proprie attività, che il Cristo.

Di qui l'urgenza, sottolineata a più riprese nei documenti di questi anni, di un'adeguata formazione

che abbia il carattere dell'iniziazione all'arte del celebrare. Per questo, è importante «strutturare i-

tinerari di fede in cui catechesi, liturgia e carità siano sempre collegate e rapportate»18.

Se i segni sono così importanti per una partecipazione attiva del popolo di Dio alla liturgia, quali

sono le caratteristiche del segno liturgico?

Il segno liturgico

16

MESSALE ROMANO, Prefazio I di Natale.

17 SC 14

18 SINODO EUROPEO, Instrumentum laboris, 70.

9

Una prima fondamentale caratteristica del segno liturgico è il suo riferimento biblico. Solo un e-

sempio, per meglio comprendere: l'acqua battesimale. Questa, pur essendo immediatamente per-

cepita come elemento che purifica e dà vita, non attinge dalla sua interpretazione «naturale» il suo

significato più pieno. Evoca, invece, quegli episodi biblici in cui essa è presente.

Il testo della benedizione dell'acqua nella veglia pasquale ce ne offre una chiara conferma.

Così, il rito, «prendendoci per mano», ci accompagna a contemplare le grandi opere che Dio ha

compiuto nel passato per mezzo dell'acqua: la creazione, il diluvio, l'uscita dalla schiavitù dell'Egit-

to attraverso il Mar Rosso, il battesimo di Gesù nelle acque del Giordano, l'acqua scaturita dal fian-

co di Gesù sulla croce.

Come si può notare, la liturgia attinge il significato pieno del segno dell'acqua dalla Bibbia. Succes-

sivamente opera il passaggio da quanto è avvenuto nel passato all'oggi della Chiesa che celebra:

«Ora, Padre, guarda con amore la tua Chiesa e fa' scaturire per lei la sorgente del battesimo. Infondi

in quest'acqua, per opera dello Spirito Santo, la grazia del tuo unico Figlio»19.

Siamo, così, aiutati a comprendere come quel Dio che, spinto dal suo infinito amore misericordioso,

ha agito in passato è, ora, all'opera nella Chiesa, attraverso i sacramenti.

Grazie al suo riferimento biblico, l'acqua battesimale ci pone dinanzi al mistero di Dio, presente e

operante nella liturgia. Ma perché il segno dell'acqua sia «eloquente» è indispensabile conoscere la

Bibbia. Questo è il grande compito affidato soprattutto ai catechisti: aiutare a comprendere il fon-

damento biblico dei segni liturgici.

È quanto chiede Il rinnovamento della catechesi, quando afferma:

«Il catechista deve studiare e spiegare attentamente il senso, talora recondito, ma inesau-

ribile e vivo, dei segni e dei riti liturgici, osservando non tanto il loro simbolismo naturale,

ma considerando piuttosto il valore espressivo proprio che essi hanno assunto nella storia

dell'antica e della nuova alleanza. L'acqua, il pane, il radunarsi in assemblea, il cammina-

re insieme, il canto, il silenzio, lasceranno trasparire più chiaramente le verità di salvezza

che evocano e che misticamente realizzano»20.

Un'altra caratteristica che deve possedere il segno liturgico è quella di essere vero ed espressivo.

A volte non si è fedeli a questa necessaria caratteristica del segno liturgico. Pensiamo, per fare un

esempio, al cero pasquale. Cosa dire quando ci si trova dinanzi (e nella nostra diocesi questo av-

viene nella quasi totalità delle parrocchie!) un cero pasquale fatto di plastica, capace di sfidare il

tempo, al cui interno si trova una piccola candela che, una volta consumata, viene sostituita? Si di-

rà: così il cero non gocciola sporcando il presbiterio e, poi, non si è costretti ogni anno a comprarne

uno nuovo.

La Lettera circolare della Congregazione per il culto divino sulle feste pasquali, a questo proposito è

quanto mai chiara: «Nel rispetto della verità del segno, si prepari il cero pasquale fatto di cera, ogni

anno nuovo, di grandezza abbastanza notevole, mai fittizio, per poter rievocare che Cristo è la luce del

mondo»21.

19

MESSALE ROMANO, Benedizione dell’acqua, Veglia pasquale.

20 CEI, Il rinnovamento della catechesi, 115.

21 CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Lettera circolare sulle feste pasquali, 82.

10

Del resto, come si potrebbe guardare il cero di plastica mentre nell'Exultet si canta: «Riconosciamo

nella colonna dell'Esodo gli antichi presagi di questo lume pasquale che un fuoco ardente ha acceso

in onore di Dio. Pur diviso in tante fiammelle non estingue il suo vivo splendore, ma si accresce nel

consumarsi della cera che l'ape madre ha prodotto per alimentare questa preziosa lampada»22.

Sentire parlare di un cero che «si accresce nel consumarsi della cera che l'ape madre ha prodotto»

e vedere che il cero pasquale è sempre lo stesso, a ogni Pasqua, e che non si consuma, perché non

fatto di cera, ma di plastica, è una falsità liturgica.

Cosa dire del modo in cui sono preparate alcune processioni dei doni? Che senso ha portare all'al-

tare ogni sorta di «dono» (libri, giochi, bandiere, cartelloni...), che per essere compresi necessitano

di una opportuna - spesso anche prolissa - spiegazione e che, soprattutto, dopo la messa ci si affret-

ta a ritirare dalla sagrestia per riportare a casa? Le parole adoperate parlano di un «dono», in realtà

si tratta solo di un «prestito».

Dov'è la verità del segno?

Nella liturgia non vi può essere posto per la falsità: non si può dire una cosa e farne un'altra!

«I riti splendano per nobile semplicità: siano trasparenti per il fatto della loro brevità e senza inutili

ripetizioni; siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente,

di molte spiegazioni»23.

Anche i vescovi italiani chiedono «una liturgia insieme seria, semplice e bella, che sia veicolo del mi-

stero, rimanendo al tempo stesso intelligibile, capace di narrare la perenne alleanza di Dio con gli

uomini»24.

Alla scuola dei Padri della Chiesa, dobbiamo imparare a non sottovalutare l'importanza del rito, e-

vitando di lasciarci prendere dall'abitudinarietà o di fare tutto con superficialità e fretta. È necessa-

rio ridare bellezza al segno. Non per un vuoto «estetismo». ma perché consapevoli che attraverso i

segni e i riti agisce la grazia del Signore, che non tocca solo l'intelligenza, ma coinvolge tutto l'uomo

con i suoi sensi.

Dalla celebrazione alla testimonianza di vita

Dalla celebrazione eucaristica, come dalla sua sorgente scaturiscono l'impegno morale e la testi-

monianza della carità, per il singolo cristiano e per tutta la comunità.

Questa era anche la preoccupazione costante dei padri della Chiesa, nelle loro Catechesi mistagogi-

che. L'impegno morale non era da loro proposto come un insegnamento distaccato o parallelo a

quello sacramentale, ma ad esso intimamente collegato.

Per loro il cristianesimo, prima che impegno morale, è adesione al Dio uno e trino. Le conseguenti

esigenze morali devono essere presentate e percepite come manifestazione del mistero creduto e

celebrato: le opere del cristiano sono sempre opere che scaturiscono dalla fede e che rivelano la fe-

de.

22

MESSALE ROMANO, Preconio pasquale, Veglia pasquale.

23 SC 34

24 CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 49.

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S. Leone Magno esprime molto bene qual è il frutto della celebrazione eucaristica: renderci con-

formi al Cristo e al suo stile di vita25. La preghiera liturgica ci richiama costantemente a tradurre

nel servizio il dono ricevuto, soprattutto nelle Orazioni dopo la comunione.26

Il battezzato, diventato «tempio santo di Dio» (cf. 1 Cor 3,16-17), non può limitarsi a evitare questo

o quel comportamento, ritenendosi così soddisfatto della sua vita: si tratta, al contrario, di accoglie-

re uno stile nuovo che coinvolga tutta la sua esistenza.

Non deve meravigliare, per questo, il fatto che il battesimo sia presentato dai padri come uno spo-

salizio tra il Cristo e il cristiano, che rende i due «una carne sola».

Con una bell'immagine, il Crisostomo spiega perché la condotta di chi è diventato «Cristoforo», cioè

«portatore di Cristo», deve necessariamente cambiare27.

Da questa consapevolezza non può che derivare un modo nuovo di vita che sia testimonianza del

dono ricevuto. Se è vero che la salvezza è innanzi tutto dono di Dio, è anche vero che l'uomo deve

«metterci del suo». Il cristiano non può ricevere in modo passivo l'opera della redenzione, ma è

chiamato a rispondervi attivamente, conformandosi ai sentimenti e all'agire del Cristo.

Il rito liturgico non è, dunque, un rito vuoto, senza alcun rapporto con la vita concreta. Al contrario,

i riti sacramentali, sono gesti in cui confluisce la vita quotidiana e, quindi, punti di arrivo; e sono

sorgenti di grazia, che offrono luce e forza per dare un senso nuovo al vivere quotidiano e, quindi,

punti di partenza.

Dove, dunque, il cristiano trova il suo punto forza per il suo servizio ai fratelli? Proprio nella cele-

brazione eucaristica, purché questa non scivoli in un devozionismo sterile e disincarnato. Basta qui

richiamare, ancora una volta, s. Giovanni Crisostomo che al riguardo usa parole di fuoco.

“ Vuoi onorare il Corpo di Cristo? Comincia a non disprezzarlo quando è ignu-

do. Non onorarlo qui con abiti di seta, per trascurarlo poi fuori dove soffre il

freddo e la nudità. Perché colui che ha detto: ‘ Questo è il mio corpo’, è lo stesso

che ha detto: ‘Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare’. Che

vantaggio c’è a caricare la mensa di Cristo con calici d’oro, quando lui muore

di fame? Sazia prima l’affamato, e poi adornerai la sua mensa.

Tu fabbrichi un calice d’oro e non dai un bicchiere d’acqua. Se adorni la sua

casa, bada di non disprezzare il tuo fratello afflitto: perché questo tempio è più

prezioso di quello (...).

Chi pratica l’elemosina esercita una funzione sacerdotale. Vuoi vedere il tuo

altare? Questo altare è costituito dalle membra di Cristo. Il Corpo del Signore

diventa per te un altare. veneralo. E’ più nobile dell’altare di pietra su cui cele-

bri il santo sacrificio (...). Invece tu onori l’altare che riceve il corpo di Cristo e

disprezzi colui che è il Corpo di Cristo. Questo altare lo puoi contemplare do-

25

LEONE MAGNO, Discorso XII sulla passione 3,7.

26 «Dio onnipotente, che ci hai nutriti alla tua mensa, donaci di esprimere in un fedele servizio la forza rinnovatrice di questi santi misteri»

(MESSALE ROMANO, Orazione dopo la comunione, I settimana del Tempo Ordinario)

27 «Le persone investite di cariche pubbliche suscitano in tutti un grande rispetto per il fatto di portare sulle vesti, gli stemmi con

l’immagine dell’imperatore[...]. A maggior ragione, quelli che portano Cristo, non sulla veste ma nell’animo, quale loro ospite, insieme con

lo Spirito Santo, dovranno comportarsi con fierezza e dignità, per far conoscere a tutti, attraverso una vita austera e ordinata, l’immagine del

re, che è ospite delle loro anime» (GIOVANNI CRISOSTOMO, Catechesi mistagogiche, IV, 17.

12

vunque, nelle strade e nelle piazze, e in qualunque momento vi puoi celebrare

la tua liturgia”. 28

Giovanni Paolo II nella lettera scritta in occasione dell'anno dell'eucaristia afferma che «dall'amore

vicendevole e, in particolare, dalla sollecitudine per chi è nel bisogno saremo riconosciuti come veri

discepoli di Cristo (cf. Gv 13,35; Mt 25,31-46). È questo il criterio in base al quale sarà comprovata

l'autenticità delle nostre celebrazioni eucaristiche»29.

Per il fedele che ha compreso il senso di ciò che ha compiuto, la celebrazione eucaristica non può

esaurirsi all'interno del tempio. Al termine dell'assemblea eucaristica, egli deve tornare nel suo

ambiente abituale con l'impegno di fare di tutta la sua vita un dono, un sacrificio spirituale gradito

a Dio (cf. Rm 12,1). Egli sa di essere debitore verso i fratelli di ciò che nella celebrazione, gratuita-

mente, ha ricevuto.

L'osmosi tra Parola, celebrazione e vita, tante volte auspicata, ma che fatica ad avere una sua attua-

zione pastorale, trova quindi nella mistagogia un aiuto straordinario per la sua realizzazione.

Alla scuola dei padri possiamo imparare che le tre dimensioni costitutive della vita cristiana non

sono giustapposte tra loro dall'esterno, ma si ritrovano intimamente unite, avendo il loro centro vi-

tale nel mistero di Cristo. Di qui attingono senso, valore, efficacia. Questo richiede che si eviti qual-

siasi livellamento delle tre dimensioni, ma si affermi sempre il «primato» della liturgia, «culmine

verso cui tende l'azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energi-

a»30.

Non si tratta di limitarsi a promuovere degli incontri «organizzativi» tra gli operatori pastorali im-

pegnati in questi tre ambiti: né di favorire unicamente qualche loro iniziativa congiunta. Tutto que-

sto, se non vuole ridursi a qualcosa di passeggero o di semplicemente funzionale a una migliore ef-

ficacia pastorale, è necessario che si radichi ben più in profondità.

È indispensabile che la sintesi tra Parola, celebrazione e vita sia innanzitutto fatta propria dai sin-

goli operatori pastorali e che traspaia poi, quasi naturalmente. nella loro azione, favorendo la cre-

scita di tutta la comunità cristiana.

La catechesi, la liturgia e la testimonianza della carità non devono essere compartimenti stagni, ma

«vasi comunicanti». Senza questa circolarità vitale tra le tre dimensioni della vita cristiana, la cate-

chesi rischia di scivolare inevitabilmente nell'indottrinamento, la celebrazione nel ritualismo, la te-

stimonianza della carità nell'attivismo.

Pierangelo Ruaro

Vicenza, 14-12-2015

28

GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelia su Matteo, 65.

29 GIOVANNI PAOLO II, Mane nobiscum Domine, 28.

30 SC 10