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1 Progetto_Paesaggio Clima, crisi delle risorse ambientali e paesaggio Crisi delle risorse e progetto di paesaggio: usura, abuso, catastrofi Giancarlo Blasi 1 1. CHI È COSTUI E COSA HA DA RACCONTARE? Dirigo da circa trent’anni l’ufficio che si occupa di assetto e governo del territorio di una piccola cittadina della Campania interna, alle falde dell’Appennino, in zona fortemente sismica. Il tema di questa breve discussione è il governo del territorio (ambiente- paesaggio) in relazione agli eventi catastrofici. Ci sono almeno tre motivi che mi provocano imbarazzo ad intervenire sui temi connessi con il paesaggio e con l’ambiente. Il primo è che sono un ingegnere. Appartengo, cioè, ad una categoria professionale che, quando si misura con l’ambiente e col paesaggio, ha qualcosa da farsi rimproverare. Badate: non mi riferisco al cattivo ingegnere che progetta male perché è sciatto o ignorante, ma proprio al bravo ingegnere, padrone degli strumenti che la scienza e la tecnologia gli hanno messo a disposizione, che, il più delle volte, per arroganza culturale, proprio perché è padrone di quegli strumenti, di cui è addirittura innamorato, ritiene di non dover fare i conti con altri punti di vista. Di non dover fare i conti con l’ambiente. Di non dover fare i conti con la storia. Di non dover fare i conti con il passato, rischiando così di non saper fare i conti con il futuro. Il secondo motivo di imbarazzo è che sono mio malgrado un burocrate. Un burocrate di prima linea certamente, che continuamente deve gestire il conflitto tra il nitore delle sue carte e la complessità del mondo reale, un sottufficiale da trincea ma pur sempre un burocrate. E le burocrazie, persino quando sono competenti ed efficienti, persino quando sono integre e fedeli, possono compromettere un corretto governo del territorio quanto le mafie e le camorre. Il terzo motivo è che mi professo di cultura liberale. Penso di appartenere, cioè, a quell’area culturale che ritiene che le dinamiche sociali ed economiche debbano trovare al loro interno i necessari meccanismi di autoregolazione. Non voglio abiurare; ma devo ammettere che sotto il vessillo della cultura liberale si sono mosse le peggiori armate che hanno aggredito il territorio. In verità ci sarebbe anche un quarto motivo d’imbarazzo. L’ho già detto: sono campano. Sono nato e vivo e lavoro in una regione, i cui abitanti, da almeno centocinquanta anni, forse molti di più, sembrano condurre una guerra non dichiarata al proprio habitat. Badate: mi sarebbe piaciuto dire che a fare questa guerra silenziosa ma cruenta siano e siano state le classi dirigenti (di varia ispirazione e legittimazione) che nel tempo si sono succedute. Tuttavia non posso non ammettere che, in parte considerevole, dei guasti di cui il nostro povero territorio è stato vittima paziente, la responsabilità debba essere ascritta a chi queste classi dirigenti ha espresso o, comunque, ha accettato. 1 Questo testo è un’elaborazione della lezione magistrale dell’8 novembre 2012 tenuta da Giancarlo Blasi alla tsm-Trentino School of Management per la step-Scuola per il governo del territorio e del paesaggio

Crisi delle risorse e progetto di paesaggio: usura, abuso ... · padrone degli strumenti che la scienza e la tecnologia gli hanno messo a disposizione, che, il più delle volte, per

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Progetto_Paesaggio

Clima, crisi delle risorse ambientali e paesaggio

Crisi delle risorse e progetto di paesaggio: usura, abuso, catastrofi

Giancarlo Blasi1 1. CHI È COSTUI E COSA HA DA RACCONTARE? Dirigo da circa trent’anni l’ufficio che si occupa di assetto e governo del territorio di una piccola cittadina della Campania interna, alle falde dell’Appennino, in zona fortemente sismica.

Il tema di questa breve discussione è il governo del territorio (ambiente-paesaggio) in relazione agli eventi catastrofici. Ci sono almeno tre motivi che mi provocano imbarazzo ad intervenire sui temi connessi con il paesaggio e con l’ambiente.

Il primo è che sono un ingegnere. Appartengo, cioè, ad una categoria professionale che, quando si misura con l’ambiente e col paesaggio, ha qualcosa da farsi rimproverare. Badate: non mi riferisco al cattivo ingegnere che progetta male perché è sciatto o ignorante, ma proprio al bravo ingegnere, padrone degli strumenti che la scienza e la tecnologia gli hanno messo a disposizione, che, il più delle volte, per arroganza culturale, proprio perché è padrone di quegli strumenti, di cui è addirittura innamorato, ritiene di non dover fare i conti con altri punti di vista. Di non dover fare i conti con l’ambiente. Di non dover fare i conti con la storia. Di non dover fare i conti con il passato, rischiando così di non saper fare i conti con il futuro.

Il secondo motivo di imbarazzo è che sono — mio malgrado — un burocrate. Un burocrate di prima linea certamente, che continuamente deve gestire il conflitto tra il nitore delle sue carte e la complessità del mondo reale, un sottufficiale da trincea ma pur sempre un burocrate. E le burocrazie, persino quando sono competenti ed efficienti, persino quando sono integre e fedeli, possono compromettere un corretto governo del territorio quanto le mafie e le camorre.

Il terzo motivo è che mi professo di cultura liberale. Penso di appartenere, cioè, a quell’area culturale che ritiene che le dinamiche sociali ed economiche debbano trovare al loro interno i necessari meccanismi di autoregolazione. Non voglio abiurare; ma devo ammettere che sotto il vessillo della cultura liberale si sono mosse le peggiori armate che hanno aggredito il territorio.

In verità ci sarebbe anche un quarto motivo d’imbarazzo. L’ho già detto: sono campano. Sono nato e vivo e lavoro in una regione, i cui abitanti, da almeno centocinquanta anni, forse molti di più, sembrano condurre una guerra non dichiarata al proprio habitat. Badate: mi sarebbe piaciuto dire che a fare questa guerra silenziosa ma cruenta siano e siano state le classi dirigenti (di varia ispirazione e legittimazione) che nel tempo si sono succedute. Tuttavia non posso non ammettere che, in parte considerevole, dei guasti di cui il nostro povero territorio è stato vittima paziente, la responsabilità debba essere ascritta a chi queste classi dirigenti ha espresso o, comunque, ha accettato.

1 Questo testo è un’elaborazione della lezione magistrale dell’8 novembre 2012 tenuta da Giancarlo Blasi alla tsm-Trentino School of Management per la step-Scuola per il governo del territorio e del paesaggio

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Penso che si sia capito che ritengo, in relazione al tema di questa discussione, di avere pochi esempi positivi da proporre e, al contrario, di poter rappresentare molti errori e fallimenti, cercando di individuarne le cause, anche questo non senza dubbi ed incertezze.

Figura 1 Grottaminarda (Av) - Un villaggio sulle colline alle falde dell’Appennino campano — fotografia inizi ‘900

2. LA MAMMA, CHE È BUONA, CE L’HA CON ME PERCHE’ HO FATTO IL CATTIVO? Le catastrofi naturali: il terremoto Dal basso del mio punto di vista, ho la sensazione che, ancora oggi, nel dibattito sull’ambiente (e sul paesaggio, che, per molti aspetti ci piace utilizzare come sinonimo) non sia stato del tutto superato il conflitto tra due posizioni ideologiche.

La prima tendente ad accreditare, più o meno implicitamente, la natura come una specie di entità animata (fornita di anima, cioè), dotata di un afflato divino e tendente intrinsecamente (naturalmente) a garantire l’armonia tra le sue componenti. Quando uso il termine “anima” ed “afflato divino” non intendo, beninteso, attribuire questa posizione, peraltro estremamente variegata, ai portatori di una convinzione “religiosa”. Al contrario essa mi sembra più diffusamente attribuibile a convinzioni che si professano “razionaliste”, o “positiviste” e, in ogni caso, fortemente atee e laiche. Garantire l’armonia tra le sue componenti: significa che una sorta di “firmware” governa Madre Natura in modo che essa, se la lasci fare (se la lasci in pace), può assicurare “naturalmente” la felice convivenza e quieta prosperità di tutti i suoi figli (organici ed inorganici, vegetali ed animali, intelligenti ed istintivi) e, in particolare, quella di un suo figlio, prediletto tra gli eguali, che è l’uomo.

La seconda posizione ideologica, al contrario, riconosce che la natura è governata da leggi naturali (le leggi della fisica, della chimica, della biologia), e dal caso, assolutamente indifferenti alle sorti di questa o quella componente della natura stessa, ed in particolare assolutamente indifferente alle sorti dell’umanità. Da tale riconoscimento, però, fa scaturire la necessità che l’umanità debba essere altrettanto indifferente rispetto ad un ambiente, tendenzialmente ostile, che va plasmato alle esigenze di sopravvivenza e di sviluppo della specie umana. È l’idea che la scienza e la tecnologia possano prevalere sulla natura prescindendo dal considerare che la specie umana è una parte dell’ambiente che con esso deve convivere in armonia. È l’idea che l’uomo sia abbastanza intelligente ed organizzato da modificare il pianeta secondo le sue necessità ed i suoi bisogni, peraltro — fatalmente — sempre crescenti in termini di quantità (lo sviluppo come sinonimo di crescita quantitativa di prodotti e di consumi). Ho bisogno di far crescere la città? Mi prendo un pezzo di campagna. La riduzione della campagna riduce la produzione agricola (e cioè il mio cibo)?

La tecnologia è capace di aumentare la produzione agricola per unità di superficie. La produzione agricola della campagna che è rimasta è ancora insufficiente? Mi prendo un pezzo di foresta e la rendo campagna coltivata. Ho bisogno di più energia? Pompo più petrolio e gas dai giacimenti. Il petrolio ed il gas non bastano? Ricorro all’energia nucleare.

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Se fosse così, se cioè l’umanità, con la sua scienza, la sua tecnologia, la sua organizzazione sociale, fosse davvero in grado di conformare il pianeta a suo uso e consumo, potrebbe persino funzionare. Magari non è detto che sarebbe un bel pianeta (per taluni) ma potrebbe persino funzionare. Città ordinate ed accoglienti, al riparo da uragani ed alluvioni, case robuste, al riparo dai terremoti, territori agricoli ordinati e programmati capaci di produrre il cibo che occorre (per oggi e per domani), e poi, senza dubbio, “parchi” e “riserve” dove conservare la memoria della natura “ribelle” e inutile, o meglio utile solo per essere studiata ed ammirata. Magari un vulcano in attività, con adeguata fascia di rispetto. Visite guidate con sconti comitiva. L’Etna sarebbe adatto: magari potrebbero abbinarlo al giro nella Valle dei Templi. Col Vesuvio le cose sarebbero già più difficili; intanto perché quello non sai mai quando si decide a dare spettacolo; e poi devi tirare via da quei posti circa un milione e mezzo di persone. Un milione e mezzo di persone, con relative case, botteghe, uffici, tribunali e supermercati, capannoni e posti macchina, che, oggi, spensieratamente confidano che il mostro continui a dormire. Magari non proprio spensieratamente: intanto studiano piani di evacuazione. Nei giorni normali per raggiungere il più vicino casello autostradale dal centro di Ercolano impieghi trenta minuti se ti va bene.

Dicevo: se l’umanità, con la sua scienza, la sua tecnologia, la sua organizzazione sociale, fosse davvero in grado di conformare il pianeta a suo uso e consumo, potrebbe persino funzionare. Il punto è che, purtroppo o fortunatamente, non è in grado di farlo. Anzi: i limiti della tecnologia risultano sempre più evidenti proprio al crescere della tecnologia stessa. Un esempio per tutti: abbiamo costruito (nel cosiddetto mondo sviluppato) case che hanno sconfitto il gelo dell’inverno e l’afa dell’estate, ma non avevano previsto che proprio quell’arma che ci ha permesso la vittoria (e cioè bruciare petrolio e gas e quant’altro) ha poi estremizzato quel gelo e quell’afa ed ha generato, o almeno amplificato e resi paurosamente più frequenti, quei fenomeni climatici che poi chiamiamo “mostruosi”.

Tutti abbiamo sentito o adoperato l’espressione “la natura si ribella”. L’espressione tradisce una irrazionalità e quasi una ingenuità consolatoria infantile. La mamma buona mi punisce perché sono stato cattivo, ma se faccio il bravo non avrò la punizione.

I fenomeni naturali sono governati dalle leggi naturali (le leggi della fisica e della chimica e della biologia) e dal caso (che è esso stesso una legge naturale). Diventano catastrofi perché influiscono negativamente sull’ambiente che l’uomo ha adattato al suo benessere. Danneggiano le opere dell’uomo e uccidono l’uomo stesso.

È persino banale considerare che ci sono fenomeni naturali che avvengono a prescindere dall’attività dell’uomo sul pianeta. I terremoti ed i fenomeni connessi con le attività vulcaniche sono fra questi. Le placche tettoniche continuerebbero a muoversi ed a scontrarsi fra loro anche se l’umanità non fosse mai esistita.

Ci sono invece altri fenomeni naturali sui quali è più o meno evidente che ha influito l’attività dell’uomo. La modifica della composizione dell’atmosfera, per esempio, e le sue conseguenze che, complessivamente, chiamiamo mutamenti climatici. Mi pare di capire che, ormai, la comunità scientifica, a lungo divisa tra protervi negazionisti e appassionati colpevolisti, sul punto abbia raggiunto una sostanziale intesa.

L’uomo deve fare il bravo? Direi che l’uomo deve essere meno stupido e meno miope. Meno stupido e meno miope quando incide sull’ambiente mettendo in moto processi involutivi che prima o poi gli si rivoltano contro. Meno stupido e meno miope quando non si attrezza adeguatamente per evitare che il fenomeno naturale si trasformi in catastrofe. Meno stupido e meno miope nel governo del dopo catastrofe.

Il terremoto, che è la catastrofe di cui ho diretta esperienza, è di quei fenomeni che non può essere ascritto alla “responsabilità” dell’uomo. È persino impossibile prevedere quando avviene (almeno con la precisione utilizzabile per scopi di prevenzione). Sai, però, che in certe zone prima o poi si verificherà. Devi attrezzarti per evitare o ridurre i danni alle persone ed alle cose. E devi attrezzarti per evitare che tali danni non diventino ferite “permanenti”. Penso che questo sia il compito più gravoso.

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Figura 2 Laviano (PZ) distrutta dal sisma del 1980

3. IL TERREMOTO: MANDA TUTTO SOTTOSOPRA Effetti del terremoto: sul territorio, sul costruit o, sulle persone, sulle comunità I fenomeni sismici di cui si ha memoria nella penisola non hanno quasi mai prodotto alterazioni stabili significative del territorio non antropizzato. In altre parole non sono crollate montagne, non sono stati deviati corsi dei fiumi, non si sono aperte le spaventose voragini che talora abbiamo visto nei film di genere. In diversi casi sono partiti movimenti franosi anche di grandi estensione ma, quasi sempre, tali fenomeni hanno interessato pendici rese instabili da trasformazioni recenti per mano dell’uomo. Non di rado sono stati segnalati effetti modificativi della idrologia delle sottosuolo ma sempre con conseguenze di modesta portata e comunque non tali da incidere significativamente sugli assetti ambientali complessivi.

Terremoti di intensità molto maggiori, in altre parti del mondo, hanno avuto effetti sensibili anche sul territorio non antropizzato ma è rarissimo che tali effetti abbiano assunto la proporzione della catastrofe.

Il terremoto — insomma - risparmia gli elementi “naturali” mentre produce effetti dannosi, più o meno gravi, su quanto è stato costruito dall’uomo. Ovviamente non perché il terremoto ce l’ha con l’uomo come se la natura fosse invidiosa dei suoi successi, ma semplicemente perché il territorio allo stato naturale ha assunto configurazioni di equilibrio che non sono significativamente alterabili dagli scuotimenti sismici. Migliaia di terremoti, in milioni di anni, (ma anche migliaia di uragani, di alluvioni e frane e glaciazioni), sul territorio non modificato dall’uomo hanno già fatto il loro lavoro.

Le opere dell’uomo, invece, rispetto all’evento, sono un po’ più vulnerabili o estremamente più vulnerabili. Intanto perché devono necessariamente avere, per rispondere alla loro funzione, morfologie e dimensioni che fatalmente le rendono, appunto, più vulnerabili. In altri termini, al di sotto di certi valori di snellezza per le fabbriche umane destinate ad essere usate è difficile scendere. La piramide, che è il manufatto umano che più si avvicina ad avere la quieta inattaccabilità della collina, è poco pratica per essere abitata.

Le tecniche costruttive capaci di conferire alle costruzioni un adeguato livello di resistenza alla azioni sismiche si sono sviluppate, per almeno 40 secoli, solo in base all’esperienza diretta. L’osservazione degli effetti del sisma sui manufatti suggeriva, talora con singolare acutezza, talora con soluzioni piuttosto bizzarre, come riparare, rinforzare, ricostruire.

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Quella che chiamiamo ingegneria antisismica, fondata sullo studio del comportamento delle strutture in fase dinamica, è faccenda degli ultimi due secoli, forse dell’ultimo secolo, con una significativa evoluzione negli ultimi decenni, soprattutto per quanto concerne gli aspetti connessi con l’interazione suolo struttura e con la micro-zonazione.

È opinione diffusa che le tecnologie attualmente disponibili, peraltro divenute di cogente applicazione e cioè trasfuse in “normativa”, vuoi per quello che concerne le nuove costruzioni, vuoi per quello che concerne l’adeguamento delle costruzioni esistenti, siano tali da garantire una sufficiente protezione delle popolazioni dal rischio sismico. Su questo aspetto penso che all’uomo comune, al non addetto ai lavori, al non-ingegnere e al non-architetto, e a chi si occupa di governare le comunità, debba essere concessa qualche osservazione più approfondita.

È nei fatti, che il patrimonio edilizio, ed infrastrutturale, della penisola — ormai pacificamente riconosciuta quasi interamente esposta al rischio di eventi di intensità rilevante — sia, oggi, fortemente vulnerabile. Cioè gran parte della popolazione della penisola è in condizioni di rischio rilevante, o almeno significativo.

I terremoti verificatisi in epoca postunitaria — centocinquanta anni — hanno prodotto, in media, circa 1.300 morti all’anno. Pur considerando che nel conto ci sono i fenomeni estremi che hanno riguardato grossi agglomerati, come Messina 1908 ed Avezzano 1915, si tratta, in ogni caso, di un dato che fa accapponare la pelle. È vero che se riproponiamo la statistica riferendola agli ultimi cinquanta anni, il dato è meno allarmante. Ma, personalmente - ed ascolto diverse voci in tal senso — ho il sospetto che il minor numero di vittime sia dovuto solo in parte alla minore vulnerabilità degli edifici, mentre, per l’altra parte, è semplicemente dovuto alla circostanza che fenomeni di intensità rilevante non hanno investito, nell’ultimo periodo, territori al alta densità abitativa, circostanza, purtroppo, non improbabile nel futuro.

Chi non ha consapevolezza diretta del terremoto tende a ritenere che gli effetti nefasti dell’evento si esauriscano con il suo carico di morti (e di feriti). Riesce forse a comprendere il dolore per le vittime, l’asprezza della vita nelle tende, la disperazione per la perdita della casa e del lavoro.

Non credo però sia facile, se non hai esperienza diretta, capire come essere lì quando la terra trema, possa sconvolgerti la coscienza e cambiarti per sempre anche se hai salvato la pelle, persino se si è salvata la tua casa e l’unico danno che hai subito è stata quella vecchia cinquecento, dove avevi fatto l’amore per la prima volta, rimasta sotto le macerie della casa appresso alla tua. Era una casa come la tua, costruita insieme alla tua, chissà perché è venuta giù mentre la tua è ancora in piedi.

Figura 3 Irpinia – terremoto 1980

Tra l’altro chi è stato “dentro” ed è sopravvissuto non ne parla mai. O, se ne parla, tende a procedere per schemi precostituiti, come se volesse raccontare quello che l’interlocutore si aspetta di sentire.

Ancora più difficile è capire come si sconvolgano le comunità. Nell’immediato il terrore che attanaglia tutti, ancora tra la polvere e lo stupore, quando ci si sente piccoli e fragili di fronte al mostro, si rinnovano e rinsaldano vecchi vincoli di solidarietà. Quando tutti realizzano di aver perso qualcosa che si aveva in comune, la chiesa, la piazza, la scuola, s’avverte il bisogno di stringersi. Quando capisci che è venuto giù il capannone della tua fabbrica, della fabbrica che ti

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dà lavoro insieme ad altre cinquanta persone, ti senti tutt’uno con gli altri cinquanta e anche col padrone, di cui magari la settimana prima guardavi con una certa stizza il nuovo SUV. Persino al sindaco, quello che non avevi votato, quello che ti sorride sempre un po’ untuoso e non si ricorda mai il tuo nome; persino al sindaco, ti pare di voler bene; dai: è lì che si dà da fare, che chiama gli aiuti, che s’informa e pure lui non riesce a trovare la figlia.

Ma dopo? Arrivano le tende. Sono venticinque. Ce ne vogliono cento. Chi prende le prime? Io che ho in automobile un figlio di tre mesi o il mio vicino che ha la mamma sotto ossigeno? E perché hanno verificato prima le case di Via Roma e non vanno alle case popolari? Perché al mio vicino hanno permesso di montare il prefabbricato di legno nel giardino di casa mentre a noialtri tocca andare al campo container giù al campo sportivo con tutto quel fango? E perché proprio io devo andare in albergo a cento chilometri di distanza e lasciare la mia casa con tutta la roba dentro? E perché io resto in roulotte, che non hai nemmeno la spazio per lavarti, e quelli li mandate in albergo come stessero in villeggiatura? Intanto può succedere di ascoltare conversazioni come questa: PISCICELLI: ... sì GAGLIARDI:..oh ma alla Ferratella occupati di ‘sta roba del terremoto perché qui bisogna partire in quarta subito... Non è che c‘é un terremoto al giorno PISCICELLI:... no...lo so (ride) GAGLIARDI:... così per dire per carità.. poveracci PISCICELLI:... va buo‘...ciao GAGLIARDI:... o no? PISCICELLI:.. eh certo ... Io ridevo stamattina alle 3 e mezzo dentro al letto GAGLIARDI:... io pure... va buo‘... Ciao. Avrete sentito e risentito questa conversazione tante volte, magari vi sarete anche assuefatti a tanto cinismo che vi aveva più disgustato che indignato. Avete pensato, però, che tanta barbara ottusa avidità possa provenire solo dall’esterno, da chi non è stato vittima fra le vittime.

Devo instillare in voi un dubbio sgradevole: sprazzi di quel tipo di livido cinismo si fanno spazio persino perfino all’interno delle comunità colpite. Non è infrequente e può riguardare pezzi considerevoli delle comunità colpite. Il pensiero di poter trasformare la tragedia altrui o anche la propria tragedia in un vantaggio, un piccolo o grande vantaggio, o l’idea di arricchirsi e diventare potenti, si insinua come un venticello sottile nei grovigli dei contributi, degli incentivi, degli appalti, degli incarichi e delle consulenze. Persino nella prima emergenza, figuriamoci nella ricostruzione e ripresa.

E così si spezzano quei fili sottili che tengono insieme una comunità e la comunità con le proprie radici e la comunità col “suo” ambiente, col “suo” paesaggio. Tutto cambia. Tutto va sottosopra. Il terremoto questo fa: manda tutto sottosopra.

Di terremoti nella mia terra ne ho vissuti due. Il primo è stato quello del 21 agosto del 1962. Il secondo quello del 23 novembre del 1980. Quando si verificava il primo avevo poco meno di undici anni: in quel tardo pomeriggio di mezza estate stavo guardando Frida sull’unico canale Rai. Il mio danno personale, se togli la collezione di 6 anni del corriere dei piccoli e di topolino, si risolse nel concludere le medie, la seconda e la terza, facendo i turni pomeridiani: l’edificio dove avevo frequentato la prima era diventato insicuro. Non avrei mai immaginato di occuparmi di terremoto, in un modo o nell’altro, per buona parte della mia vita professionale. Anche di quel terremoto, purtroppo, tanti anni dopo. Quando si verificò il secondo avevo già cominciato la mia attività professionale e, francamente, ero più ingenuo e più presuntuoso di oggi.

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Figura 4 Grottaminarda (AV) – Il “corso” – una domenica mattina di primavera 1960 circa

Figura 5 Grottaminarda (AV) piazza Monumento su cui si affaccia l’aula consiliare (progetto prof.arch. Paolo Portoghesi)

4. IL TERREMOTO BUONO Il terremoto del 21 agosto 1962 Interessò una settantina di comuni a cavallo tra l’Irpinia, il Sannio, e la provincia di Foggia. La magnitudo oggi stimata è di 6.1. In area prossima all’epicentro (una quindicina di comuni) si ebbero danni classificati nel IX grado della scala Mercalli, per gli altri danni furono classificati nel grado VIII e VII.

Solo molto dopo l’evento si prese a chiamarlo il terremoto buono. Era stato il terremoto buono intanto perché fece un numero limitato di vittime (tra le dieci e le venti unità e non tutte attribuibili a cause dirette). Ma era stato il terremoto buono anche perché aveva avuto il garbo di accadere nell’Italia del miracolo economico. Un miracolo economico di cui non s’erano accorte né l’Irpinia né il Sannio, ma che costituiva le condizioni per cui le casse dello Stato non avrebbero avuto difficoltà ad immettere rapidamente in circolo i finanziamenti necessari per affrontare l’emergenza prima e la ricostruzione poi. Sarebbe bastato, come sempre, avere un santo in paradiso.

Ed anche per questo il terremoto buono aveva scelto il momento giusto: altro che santo c’era in paradiso. Era ministro dei Lavori Pubblici del IV governo Fanfani allora in carica, l’irpino Fiorentino Sullo, che era stato l’ “autore”, da titolare del dicastero, della Legge i67 sui piani di zona per l’edilizia popolare approvata pochi mesi prima, e che successivamente doveva progettare una saggia ed avanzata riforma urbanistica che non fu approvata a causa della irriducibile ostilità da parte della parte più conservatrice del suo stesso partito, la Democrazia Cristiana. Permettetemi

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questa divagazione (non del tutto fuori tema): se quella riforma urbanistica fosse stata approvata si sarebbero create le condizioni per evitare la gran parte degli scempi degli anni che seguirono.

Ma quale era la realtà aggredita dal terremoto dell’agosto del ‘62? Vi parlo della mia cittadina, le cui condizioni non erano dissimili da quelle del resto del territorio colpito. Per usare una espressione sintetica: nel i960, lì da noi, il Medio Evo non era ancora finito. Non è facile reperire documentazione fotografica relativa al paesaggio, alle condizioni di vita e di lavoro, allo stato dell’edilizia nell’epoca precedente al terremoto del i962. Per il semplice fatto che, fino a quell’epoca, erano in pochissimi a possedere ed usare un apparecchio fotografico. Le fotografie si facevano il giorno della prima comunione e poi il giorno del matrimonio, nello “studio” del fotografo, con lo sfondo dipinto.

Figura 6 Grottaminarda (AV) — il “corso” — anni ‘30

Figura 7 Grottaminarda (Av) - largo Portaurea, ingresso al centro storico di impianto medioevale anni 40

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Figura 8 Grottaminarda (AV) — piazza Fontana ai margini del “corso” manifestazione fascista — anni 30

Figura 9 Grottaminarda (AV) - abitazione nel centro storico prima del terremoto del 1962 (fotografia di epoca successiva)

Figura 10 Grottaminarda (Av) - fotografia aerea antecedente al terremoto del 62-il centro urbano, arroccato sulla collina, che ha come cintura da un lato la strada nazionale e dall’altro il “vallone”

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La popolazione viveva, all’incirca, per una metà nel centro urbano e per una metà nelle campagne. Nel centro urbano puoi stimare una densità abitativa media di circa due abitanti e mezzo a vano; considerando anche le abitazioni improprie e intrinsecamente malsane. Nel nucleo più antico (anni 1100 – 1300) venivano abitate anche cavità naturali più o meno riacconciate. I primi tronchi di condotte di scolo delle acque luride erano stati realizzati a metà degli anni cinquanta e non interessavano il nucleo storico più antico. Per il resto funzionavano ancora i “pozzi neri” o gli scoli di superficie, che, peraltro, non dovevano smaltire grandi portate: sempre nel 1960 ancora il 60% delle abitazioni non era allacciata alla rete idrica. L’acqua arrivava in casa trasportata in secchi e barili (comprenderete come ne fosse consigliato un uso parsimonioso — praticamente serviva per bere e per cucinare). Curiosamente, già negli anni ‘50, era più capillare la distribuzione dell’energia elettrica (gestita da una società privata ché ancora non c’era stata la “nazionalizzazione”). Ma la maggioranza delle utenze aveva la cosiddetta “luce di notte”: un contratto a forfait, senza contatore di consumo, in base al quale la linea di alimentazione veniva messa sotto tensione al crepuscolo e l’ “utente” aveva la potenza per poter alimentare una lampadina o due (altro che risparmio energetico). Ci si riscaldava, in inverni che potevano essere davvero gelidi, col camino, facendo un uso parsimonioso della legna, o col braciere. Ancora nel 1960 gli impianti di riscaldamento centralizzato, i “termosifoni” con caldaia a carbon coke, erano tre in tutto il paese. Forse quattro. Ci ricordiamo in nomi dei fortunati.

La proprietà fondiaria era estremamente frazionata. Il latifondo non esisteva. La “proprietà” con cui traeva il sostentamento la famiglia contadina si riduceva a due o tre tomoli (un ettaro all’incirca), vivendo, talvolta in promiscuità con la vacca o il maiale, in piccole costruzioni di pietra e nei “pagliai”. I contadini benestanti arrivavano a cinquanta, cento tomoli. Spesso, ma non sempre, vivevano i belle “masserie”, anche a due piani, in cui la cucina era distinta dalle stanze da letto e, soprattutto, dalle stalle e dai depositi. Ma, non di rado, i contadini benestanti preferivano vivere in paese. Quasi sempre in paese vivevano i braccianti, i lavoratori a giornata, quelli che, alla lettera, uscivano di casa la mattina con la speranza di portare a casa il pranzo della sera.

Il paese viveva di agricoltura e del commercio favorito dalla strada statale che da Napoli porta verso Bari che lambisce, a sud, la collina del centro storico. Il corso Vittorio Veneto per ricordare la grande guerra. Qui decine di botteghe, su un lato e sull’altro, coi bottegai che si acconciamo a vivere, con tutta la famiglia, nel retrobottega. Gli artigiani erano tanti, ma da fare c’era davvero poco. E così il sarto s’acconciava a fare anche il barbiere e il musicante. Il carpentiere faceva anche il muratore, quando era necessario dare una sistemata a un tetto malandato. Di case nuove se ne facevano un paio all’anno e nei cantieri c’erano più curiosi spettatori che capomastri a manovali. Poi c’era l’emigrazione. Quella “delle famiglie”, definitiva, verso gli Stati Uniti e l’America del Sud, che aveva attraversato tutta la prima metà del secolo, aveva avuto un rallentamento; in compenso cresceva quella di breve periodo, verso la Svizzera, il Belgio, la Germania, coi lavoratori che partivano lasciando le famiglie a casa. Le prime cucine a gas, e persino qualche televisione e frigorifero, si pagavano a rate, con le rimesse degli emigranti. Su questo irrompeva il terremoto di quella prima sera del 21 agosto del ‘62. Le vittime furono poche, abbiamo detto. Vuoi perché, c’era stata una scossa “di avvertimento”, leggera, qualche ora prima. Vuoi perché a quell’ora, d’estate, la gente usava trattenersi all’aperto. Vuoi perché le case, basse, ad un solo piano, al massimo due, pur rozzamente costruite, magari si sconquassano ma difficilmente arrivano al crollo.

La macchina dei primi soccorsi, sostanzialmente affidata all’esercito, non si può dire che sia stata lenta o inefficiente. Sia se la si paragona a tutto quello che lo Stato aveva fatto prima di allora, sia alla luce delle prove che lo Stato ha dato successivamente, persino quando avrà messo in piedi la struttura stabile Protezione Civile, piuttosto generosamente dotata di risorse.

Non mancarono lamentele e proteste, come sempre, ma a metà settembre quasi tutti i sedicimila senzatetto erano stati ricoverati almeno in tenda. Le scuole si riattivarono tutte nella prima metà di ottobre (allora l’inizio ufficiale era il primo di ottobre). Prima di natale era stato completato il programma del ricovero in prefabbricati leggeri. Le “casette” in legno e masonite, con servizio igienico e cucinotto, e acqua corrente, in cui tante famiglie, sopportarono rigidi inverni ed estati asfissianti, in allegro affollamento, magari consolandosi con la televisione doppio canale e la 850

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parcheggiata fuori l’uscio. In tanti casi non avevano motivi per rimpiangere gli umidi bassi dei centri storici: almeno qui c’era il cesso, e l’acqua e la corrente elettrica pure prima del tramonto.

I campi delle “casette” — quasi sempre vennero utilizzati i campi di calcio — furono il primo pugno allo stomaco del territorio. La rappresentazione plastica di una precarietà perenne — nessuno fu smantellato prima di venti anni - che rapidamente ci fece comprendere il significato, il senso del “ghetto”. Ed infatti si adoperò l’espressione, con disprezzo o con sociologica comprensione, “gente delle casette”.

L’autorevolezza e la solerzia del ministro irpino diede risultati tangibili. Già il 5 ottobre 1962 il parlamento approvava la legge numero 1431 (per gli addetti ai lavori è sempre stata la 1431), recante “Provvedimenti per la ricostruzione e la rinascita delle zone colpite dal terremoto dell’agosto 1962”. Fu pubblicata nella gazzetta ufficiale del successivo 11 ottobre, a meno di 50 giorni dal sisma.

Se confrontiamo con quello che è avvenuto successivamente, dal Belice al Friuli, dal Molise all’Abruzzo, per finire ai recenti fatti dell’Emilia, non mancò la tempestività quindi, da parte del legislatore e del governo, né l’organicità della legge, e nemmeno i buoni propositi.

Buoni propositi ottimamente sintetizzati nella stessa rubrica della legge: ricostruzione e rinascita. Rinascita: fa pensare ad un processo, faticoso ma gioioso, di rigenerazione di un organismo che rinnova se stesso, senza recidere le sue radici, dalle quali, anzi deve ricevere la linfa vitale per riscattarsi. In questo caso c’era, eccome, da riscattarsi: dalla miseria.

Buoni propositi che restarono tali e a guardar bene le ragioni del fallimento possiamo ritrovarle, certo col senno di poi, proprio nel testo della legge. Poco ci si trova, dopo il titolo ed astratte dichiarazioni di principio, che davvero potesse far sperare in una “rinascita”. O meglio, a legger bene, le speranze che i processi di ricostruzione, di riassetto e governo del territorio, di costituzione di un tessuto socio-economico armonizzato, sono tutte affidate ai burocrati, ai “tecnici”, in qualche modo agli amministratori locali. Ma avevano costoro quella saggezza, quella cultura, quella lungimiranza per capire quale dovesse essere, concretamente, il senso di una “rinascita”? Per non cadere nell’idea-trappola “ma qui è tutto miseria a sfasciume, ricominciamo tutto daccapo”? Quella saggezza, quella cultura, quella lungimiranza non ci fu. Tranne in pochissimi casi. E buttammo tutto sottosopra!

La legge non era prodiga di risorse, ma nemmeno troppo avara: il primo appostamento economico per il biennio 62-63 fu di circa 20 miliardi di lire, 600 milioni dei quali per la gestione dell’emergenza. Forse in pieno miracolo economico si sarebbe potuto fare molto di più ma … non era ancora cominciata la corsa al debito pubblico.

Tutta la gestione della legge era affidata allo Stato, attraverso le emanazioni periferiche del Ministero dei Lavori Pubblici: i Provveditorati regionali e gli Uffici del Genio Civile (l’autonomia regionale si realizzava solo 8 anni più tardi — io che sono campano posso dire: fortunatamente). Prevedeva la concessione di contributi per la ricostruzione o riparazione dei fabbricati danneggiati di proprietà dei privati, tutto sommato in misura adeguata. Prevedeva cospicui, e, sulla carta, intelligenti interventi a sostegno dell’edilizia rurale (anche a prescindere dai danni subiti): di questi si occupava una Cassa per il Mezzogiorno ancora presentabile. Prevedeva l’intervento di grandi organizzazioni (INAcasa, UNNRAcasas, Gescal) per la gestione di programmi unitari di edilizia popolare per dare una casa ai tanti senzatetto provenienti da alloggi danneggiati non di proprietà. Prevedeva cospicue risorse per i necessari interventi sulle opere pubbliche danneggiate (edifici ed infrastrutture) e per la costituzione, ex novo, di quelle attrezzature pubbliche anche minimali, mancanti prima del sisma (scuole, acquedotti, fognature, sedi di uffici).

Ma come affrontava il problema del governo dei processi? In altri termini: quali erano gli strumenti di programmazione concreta, anche cronologicamente definita, e di disciplina regolatrice di quella complessa articolazione di interventi che la legge stessa disegnava nelle sue grandi linee? Su questo aspetto la legge diventa, da una parte velleitaria, da un’altra parte fumosa, da un’altra parte ancora — potremmo dire — ottimisticamente fiduciosa.

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A parziale excusatio del legislatore non possiamo non tener conto della circostanza che l’ordinamento urbanistico dell’epoca (ancora di competenza esclusivamente statale) trovava il suo impianto fondamentale, ancora, nella legge 1150 del ‘42. Recente era stata l’introduzione della 167 dell’aprile del ‘62 (le legge che introduceva i piani di zona per edilizia popolare) che ancora non aveva avuto una concreta applicazione sul campo. E non possiamo non tener conto che il clima culturale dell’epoca, tranne che per poche e flebili voci isolate, non portava certamente in primo piano i problemi connessi con l’uso del territorio e dell’essenzialità del rapporto delle comunità con il proprio habitat. Di poco momento, all’epoca, la legge 1089 del ‘39 sulla tutela delle cose di interesse artistico e storico e le legge 1497, sempre del ‘39, sulla protezione delle bellezze naturali, persino a Roma o a Firenze, figuriamoci in questi miseri villaggi sperduti sull’Appennino.

La legge sulla ricostruzione e rinascita dei territori colpiti dal terremoto del ‘62, stabilì che i comuni colpiti, nel termine di un anno, avrebbe dovuto dotarsi di un Piano Regolatore Generale, predisposto dai comuni stessi ed approvati dal Ministero dei Lavori Pubblici (come d’altra parte prevedeva l’ordinamento ordinario). In attesa del PRG, alla lettera recitava: nei comuni in cui sia più urgente l’opera di ricostruzione, anche con riferimento alla necessità di trasferimento totale o parziale del centro abitato, il Ministro per i Lavori Pubblici, su proposta della delegazione speciale …., può disporre, ……, che siano compilati piani di ricostruzione a cura dell’ufficio del genio civile, d’intesa con l’amministrazione comunale interessata, allo scopo di contemperare le esigenze inerenti ai lavori di ricostruzione con la necessità di non compromettere il razionale futuro sviluppo degli abitati. Tutto qui. Non un articolo, un comma, un paragrafo che in qualche modo potesse indicare, anche per grandi linee, quali dovessero essere le linee ispiratrici del piano di ricostruzione. Forse il legislatore riteneva sufficiente il principio contenuto nel secondo comma del primo articolo della legge 1150 del ‘42: “Il Ministero ……. vigila sull’attività urbanistica …… allo scopo di assicurare, nel rinnovamento ed ampliamento edilizio delle città, il rispetto dei caratteri tradizionali, di favorire il disurbanamento e di frenare la tendenza all’urbanesimo”.

Il piano di ricostruzione doveva ricomprendere, sempre in attesa del PRG, da farsi entro l’anno dall’approvazione della legge, il Piano di Zona, per accogliere gli insediamenti di edilizia sovvenzionata e, naturalmente, le ricostruzioni fuori sito. È singolare, e fa riflettere, la composizione dell’organismo cui la legge affidava l’approvazione di tali strumenti urbanistici.

Andiamola a vedere: art.23 L.1431/62 art.23 Per l’esame dei piani di cui ai precedenti articoli è istituita, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro per i Lavori Pubblici, presso il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, una delegazione speciale. la delegazione è così composta: il presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, che la presiede; i presidenti della I e della VI sezione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici; due componenti, di cui uno della I e uno della VI sezione del Consiglio Superiore stesso; il direttore generale dei servizi speciali; il direttore generale della Edilizia Statale e Sovvenzionata; il direttore generale dell’Urbanistica e delle opere igieniche; un rappresentante del Ministero dell’Interno; un rappresentante del Ministero dell’Agricoltura e Foreste; un rappresentante dell’I.N.A.-CASA; un rappresentante dell’UNRRA-CASAS; un rappresentante della Cassa per il Mezzogiorno; un rappresentante dell’Associazione nazionale dei Comuni italiani (ANCI); un rappresentante dell’Unione delle provincie di Italia (UPI); un geologo; un urbanista.

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Tra tanti burocrati, direttori generali e presidenti, alla fine si ricordano che magari è il caso di metterci anche un urbanista ed un geologo: bontà loro!

Il Ministero “compilò” ed approvò il piano di ricostruzione per il mio comune, che divenne vigente a fine maggio 1963. Avrebbe dovuto avere vita molto breve: poco meno di sei mesi, visto che nell’ottobre dello stesso anno il comune era tenuto a munirsi del PRG. Poi vedremo come andò a finire.

Al “Piano di Ricostruzione” vale la pena dare uno sguardo. Peraltro è formato soltanto da due tavolette e due fascicoletti di poche pagine. Vale la pena, se non altro, per il lessico.

Dalla sua lettura non è difficile rilevare l’assenza di una vera filosofia programmatoria o pianificatoria: ad esempio non si capisce a chi è lasciata la scelta tra la “riparazione” e la “ricostruzione”. Alla fine sceglieranno i geometri e gli ingegneri. Lascia attoniti l’indifferenza rispetto ai valori della storia e della memoria ed il pressappochismo tecnico ed urbanistico. Si dà per scontata l’opportunità di una espansione “a valle” senza avvertire il bisogno di dare una motivazione ad una scelta tanto drastica e in controtendenza rispetto a quello che era stato il processo di espansione naturale. Si accenna ad una motivazione geologica, senza che alcuna indagine fosse stata realmente compiuta (e che qualche anno dopo doveva rivelarsi assolutamente sbagliata).

Chi di noi opera nell’urbanistica, e vi ha operato negli ultimi decenni, proverà almeno curiosità di fronte a “norme di attuazione” contenute in solo 5 pagine. Certamente non faceva difetto, all’estensore di quelle norme, una certa attenzione alla “semplificazione”.

Rendersi conto che quelle norme consentivano di costruire in tutto il territorio comunale, proprio tutto, per 3,4 metri cubi al metro quadrato può destare almeno qualche perplessità.

Si può dire che era un piano pensato per durare un anno e non di più.

Nei fatti, tra le furbate burocratiche e le dotte disquisizioni dei legulei, è stato lo strumento urbanistico che ha governato il territorio per quarantadue anni (ben oltre anche il successivo evento catastrofico del 1980). E i risultati… sono permanenti.

Prima per costruirti la casa ti rivolgevi al capomastro. Poi fu necessario il geometra e l’ingegnere. E l’appaltatore, con le sue squadre di ex braccianti agricoli. A fare il manovale finivano anche i contadini: si guadagnava meglio che a far la vigna.

Figura 11 Grottaminarda (AV) — fotografia aerea ultimi anni ‘70

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Figura 12 Grottaminarda (AV) - fotografia aerea l’espansione dopo il sisma del 1962

Figura 13 Grottaminarda (AV) - cortina edilizia in zona di espansione dopo il sisma del 1962

Figura 14 Grottaminarda (AV) cortina edilizia in zona di espansione dopo il sisma del 1962

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Figura 15 Grottaminarda (AV) tipica ricostruzione di fabbricato rurale dopo il sisma del 1962

Figura 16 Grottaminarda (AV) tipica ricostruzione di fabbricato rurale dopo il sisma del 1962 in prossimità della vecchia masseria danneggiata

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Figura 17, 18, 19, 20 , Grottaminarda (Av) il centro storico abbandonato dopo il sisma del 1962

5. DA QUAGGIU’ GUARDAVAMO LA MILANO DA BERE, LASSU’ IL terremoto del 23 novembre 1980 Continuano a chiamarlo il terremoto dell’Irpinia. La sua forza distruttrice, documentata quasi in diretta dalla televisione, offuscava il ricordo degli altri due terremoti d’Irpinia. Noi lo chiamiamo semplicemente il terremoto dell’80. I burocrati continuano e dire “gli eventi sismici del novembre ‘80 e del febbraio ‘81. La seconda data servì a giustificare un ampliamento, non proprio trasparente, delle aree destinatarie delle “provvidenze”.

Figura 21, 22 Sisma 1980 shake mappa e Sisma 1980 la distruzione di un paese di montagna

L’evento sismico importante, quello vero, si verificò alle sette e mezza di sera, di domenica, con epicentro a cavallo tra le province di Avellino, Salerno e Potenza. Magnitudo circa 7. Nella zona epicentrale danni da X grado Mercalli. Durò 90 secondi. 90 secondi, con quel livello di scuotimento, sono veramente tanti: hai l’impressione che non finiscano mai. La conta dei danni finale: circa 3.000 morti e 9.000 feriti; 300.000 senzatetto. L’area interessata era di 17000 kmq. Gli effetti si sentirono sino a Napoli dove vi furono danni significativi

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(soprattutto a causa di una edilizia del tutto priva di caratteristiche antisismiche e spesso in condizioni di degrado) e crolli, con vittime.

Furono interessate ben otto province (Avellino, Benevento, Caserta, Matera, Napoli, Potenza, Salerno e Foggia) e 679 comuni, 506 dei quali riportarono danni significativi.

Le tre province maggiormente sinistrate furono quelle di Avellino (103 comuni), Salerno (66) e Potenza (45). Trentasei comuni della fascia epicentrale ebbero circa 20.000 alloggi distrutti o irrecuperabili. In 244 comuni (non epicentrali) delle province di Avellino, Benevento, Caserta, Matera, Foggia, Napoli, Potenza e Salerno, altri 50.000 alloggi subirono danni da gravissimi a gravi. Ulteriori 30.000 alloggi furono danneggiati in maniera lieve.

La paurosa entità del sisma non venne valutata subito. I primi telegiornali parlarono di una «scossa di terremoto in Campania» dato che l’interruzione totale delle telecomunicazioni aveva impedito di lanciare l’allarme. Soltanto a notte inoltrata si cominciò ad evidenziare la dimensione della tragedia. Solo dalle prospezioni in elicottero nella mattinata del 24 novembre vennero rilevate le reali dimensioni del disastro. Uno dopo l’altro si aggiungevano i nomi dei comuni colpiti; interi nuclei urbani risultavano cancellati, decine e decine di altri erano stati duramente danneggiati.

Il progressivo aggiornamento delle informazioni è efficacemente testimoniato dai titoli de Il Mattino di Napoli nei tre giorni successivi all’evento. Il 24 novembre il giornale titolò “Un minuto di terrore - I morti sono centinaia”: non si avevano notizie precise dalla zona colpita, ma si era a conoscenza del crollo di via Stadera a Napoli. Il 25 novembre, appresa la vastità e gravità del sisma, si passò a “I morti sono migliaia - 100.000 i senzatetto”. Il 26 novembre: “Cresce in maniera catastrofica il numero dei morti (sono 10.000?) e dei rimasti senza tetto (250.000?) - FATE PRESTO per salvare chi è ancora vivo, per aiutare chi non ha più nulla”. La cifra dei morti, approssimativa per eccesso soprattutto a causa dei gravi problemi di comunicazione e ricognizione, fu poi ridimensionata fino a quella ufficiale, ma la cifra dei senzatetto, mai stata valutata con precisione, era forse ancora maggiore.

Figura 23 Irpinia sisma 1980 - la distruzione

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Figura 24 Irpinia sisma 1980 - la distruzione

Figura 25 Irpinia sisma 1980 - la distruzione

Figura 26 Irpinia sisma 1980 - la distruzione

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La macchina dei primi soccorsi si mise in moto all’alba del ‘24, prima ancora che si avesse cognizione, anche sommaria, dell’effettiva dimensione e localizzazione dei territori colpiti e della gravità dei danni, soprattutto dell’impressionante numero di vittime. Accelerò progressivamente, sostenuta, peraltro da un intero paese nel quale si sollevò un’ondata di solidarietà senza precedenti.

Non mancarono le polemiche.

Sandro Pertini, presidente della Repubblica, nella edizione straordinaria Tg2 del 26 novembre 1980: «Non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi».

La mia sincera opinione, dall’interno dei fatti e dalla parte delle “vittime”, è che molte di quelle polemiche furono ingenerose.

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Figura 27 Irpinia sisma 1980 - la distruzione

Figura 28, 29, 30, 31 Irpinia sisma 1980 – la popolazione

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La forza della scossa, che aveva investito un territorio di dimensioni immani con un patrimonio edilizio, già fatiscente a causa dei terremoti del 1930 e 1962, la difficoltà di accesso dei mezzi di soccorso nelle zone dell’entroterra, dovuta al cattivo stato della maggior parte delle infrastrutture, la mancanza di un’organizzazione stabile di Protezione Civile, costituivano condizioni tali per cui difficilmente si sarebbe potuto far molto meglio e molto più presto.

Le dure parole del presidente della Repubblica causarono l’immediata rimozione del prefetto di Avellino, Attilio Lobefalo, e le dimissioni (in seguito respinte) del Ministro dell’Interno Virginio Rognoni. Cominciò l’interminabile fase della seconda emergenza, la cui gestione venne affidata ad un Commissariato Straordinario, giacché fu subito evidente che i poteri regionali (allora, non dimentichiamolo, appena decenni) non erano all’altezza di un compito così gravoso.

La solita trafila: prima le tende e le “deportazioni”, poi i container e le casette in legno, poi i “prefabbricati pesanti” (che avrebbero dovuto, nella mente diabolica di chi li aveva concepiti, essere anche “soluzione definitiva” — a distanza di qualche anno si rivelarono piuttosto simili ai lager della “soluzione finale”).

I “provvedimenti organici per la ricostruzione e sviluppo dei territori colpiti” dovevano giungere nel maggio dell’81, con l’approvazione della legge n.219, che, attraverso un tormentato dibattito parlamentare, convertiva un decreto legge del marzo di quello stesso anno. In verità il dibattito fu tormentato non tanto perché ci fossero forze politiche a far resistenza nell’attribuzione di risorse (il movimento leghista era ancora da venire), né perché ci fossero forze politiche che ritenevano necessario qualche maggiore approfondimento sulla strategia del processo di ricostruzione. Si verificò, invece, una specie di gara “a chi ne metteva di più”. Ne venne fuori una legge omnibus, mostruosa anche nelle dimensioni (82 articoli), che si occupava di tutto. Ricostruzione delle case (con un assurdo incentivo alla ricostruzione piuttosto che alla riparazione e adeguamento). Delocalizzazione di interi centri abitati. Un faraonico programma di industrializzazione, peraltro affidato (ahimè anche in Campania) alle competenze regionali. Persino la formazione di un paio di Università. Di tutto e di più (tanti soldi, tanta quantità), di tutto tranne che delle regole, quelle vere, di un governo del territorio rapportato alle sue specificità e tranne che di una prefigurazione compatibile e sostenibile del destino delle comunità. Alla “rinascita” della legge del 62 si sostituiva lo “sviluppo”, senza peraltro che se ne rintracciassero le linee di un modello. Ma forse il modello era quello della Milano da bere.

Ancora una volta, ahimè, ci preparavamo a che tutto fosse buttato sottosopra.

Di governo del territorio si occupava, stringi stringi, soltanto l’articolo 28:

Ricostruzione dei comuni disastrati. Entro 12 mesi dall’entrata in vigore della presente legge i comuni disastrati adottano o modificano il piano regolatore generale o aggiornano il piano di ricostruzione previsto dalla legge 5 ottobre 1962, n. 1431, nel rispetto degli indirizzi di assetto territoriale fissati dalla Regione. Per sopperire alle immediate esigenze di ricostruzione i comuni stessi adottano o confermano tra i seguenti piani esecutivi necessari: a) il piano di zona redatto ai sensi della legge 18 aprile 1962, n. 167, e successive modificazioni, dimensionato sulla base del fabbisogno di aree urbanizzate per la realizzazione di edifici residenziali distrutti e non ricostruibili in sito; b) il piano degli insediamenti produttivi di cui all’art. 27 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, ove risultino necessarie aree urbanizzate per la realizzazione di edifici destinati ad attività produttive, compresi quelli commerciali e turistici; c) i piani di recupero di cui al titolo IV della legge 5 agosto 1978 n. 457, e successive modificazioni che disciplinano la ricostruzione in sito degli edifici demoliti e da demolire, la ristrutturazione di quelli gravemente danneggiati e la sistemazione delle aree di sedime di edifici demoliti o da demolire che non possono essere ricostruiti in sito. I piani esecutivi di cui al comma precedente sono inquadrati in una relazione generale che illustra i riferimenti allo strumento urbanistico vigente o adottato e che contiene: lo studio geognostico delle aree destinate all’edificazione, nonchè i dati necessari per il dimensionamento delle aree suddette, con particolare riferimento al numero ed alla consistenza delle famiglie da alloggiare,

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alla dimensione degli impianti produttivi da ricostruire, al numero degli alloggi demoliti o da demolire, riparabili, integri. Nel caso in cui il comune sia sprovvisto di strumento urbanistico generale, la relazione di cui al comma precedente contiene anche i criteri generali di impostazione del piano regolatore generale, che sarà adottato entro i termini di cui al primo comma del presente articolo. I piani esecutivi di cui al presente articolo sono adottati dal comune, anche in variante degli strumenti urbanistici vigenti o adottati, entro 90 giorni dalla entrata in vigore della presente legge, con deliberazione che diviene esecutiva, ai sensi ………”

Direi: perlomeno “sbrigativo”; se non altro perché tutto è lasciato alle amministrazioni locali che, vi assicuro, all’epoca erano piuttosto frastornate dal cocente ricordo della tragedia comune e dalle voci suadenti dei “piazzisti” di un futuro radioso. I piani esecutivi furono “predisposti” e adottati, e approvati, nella stragrande maggioranza dei comuni danneggiati. Per solidarietà di categoria (o è forse omertà?) stenderei un velo pietoso sulla loro qualità tecnica e culturale, con le dovute eccezioni beninteso.

Maggiori resistenze a mettere mano ai comodi piani di ricostruzione della 1431, dove c’erano. E credo che non sia difficile capire il perché. Non parliamo dei piani regolatori generali. I primi sono arrivato dieci anni dopo il terremoto.

Nel mio Comune — ormai ero diventato funzionario dell’Amministrazione — non si fece diversamente che altrove. Piano di recupero. Piano di zona, per accogliere la ricostruzione fuori sito (la più facile e comoda). Piano degli insediamenti produttivi.

Il secondo ed il terzo furono lasciati decadere prima ancora che se ne iniziasse una concreta attuazione. Erano piani che prevedevano espropriazioni, e cioè, con i sistemi indennitari dell’epoca, che prevedevano nemici per l’Amministrazione che li avesse messi in attuazione. E poi, se hai una regola che ti consente 3,4 metri cubi al metro quadrato dove ti pare, che bisogno hai di farti nemici? Ci siamo tenuti il piano di recupero del centro storico, anche piuttosto “rigoroso”, tanta salvaguardia, tanto restauro conservativo, poca ristrutturazione urbanistica, giusto per sperimentare tutte le categorie d’intervento. Tanto non interessava granché quasi a nessuno (nè non si doveva espropriare). La gente dal centro storico era scappata dopo il terremoto del 62 e non mostrava, allora, alcuna voglia di tornarci.

Dopo 10 anni nei quali di quel “piano” di recupero non s’era attuato nulla, tranne, guarda caso le poche ristrutturazioni urbanistiche, si provò a cambiarlo, magari a renderlo un po’ più elastico, un po’ più appetibile, un po’ più concretamente attuabile. Tenere conto, ad esempio, dello stato “attuale” delle cose: del fatto che dopo 40 anni dal primo terremoto ed a 10 dal secondo, anche solo gli agenti atmosferici stavano trasformando edifici danneggiati in ruderi informi; del fatto che la proprietà si era ulteriormente frazionata; del fatto che sul resto del territorio si era costruito tanto (con quell’appetitoso 3,4).

Un altro fallimento: sono passati ancora venti anni e gli interventi realizzati per iniziativa privata si contano sulle dita di una sola mano. Un solo intervento pubblico e nemmeno da andarci troppo fieri.

Figura 32 Grottaminarda (AV) interventi di recupero nel centro storico - 2002

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All’approvazione del piano regolatore generale — vi ricordate? il piano che doveva essere approvato entro un anno dalla emanazione della legge 1431 e cioè nell’ottobre del 1963 — ci siamo arrivati nel maggio del 2005. Solo 42 anni di ritardo. Nel frattempo: la spensierata allegria dell’assenza di regole con l’aggravante della disponibilità di risorse (i contributi statali, gestiti dai comuni, non furono affatto avari).

Figura 33, 34, 35 Grottaminarda (AV)- interventi di recupero nel centro storico 2012

In 40 anni i volumi s’erano all’incirca quintuplicati, disseminandosi sul territorio senza un disegno e senza una prospettiva. Aspetto ancora che qualcuno mi spieghi cosa avesse ancora da disciplinare e programmare un piano che arriva così “a cose fatte”. E mi meraviglia siano così pochi quelli che, fra noi (intendo fra i membri della mia comunità), abbiano capito che la spensierata allegria dell’assenza di regole abbia danneggiato proprio noi, tutti, nessuno escluso, costretti a vivere in una città che non riconosciamo, ad incontrarci in una piazza che pare di un mondo non nostro, ad attraversare una campagna non-campagna, il capannone dov’era la vigna, il vallone che porta sacchi di plastica, su quella collina dolce un ristorante per matrimoni hollywoodiani. Possiamo consolarci con la terza casa o magari col SUV?