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CRISTIANESIMO E CAPITALISMO: INCOMPATIBILI di Cesare Frassineti La lettura dell’Enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate ha suscitato in me una serie di considerazioni ed un in-terrogativo di fondo. Anzitutto mi ha fatto piacere che un documento dedicato alle tematiche sociali sia stato promulgato in un momento di enorme sofferenza per l’umanità, sofferenza generata dallo scatenamento della crisi economica più grave dopo la Grande depressione del 1929, dalla quale, non va dimenticato, si è usciti sostanzialmente solo con la seconda guerra mondiale (60 milioni di morti). Mi è sembrato di poter interpretare l’evento come la ricerca di una traduzione nella pratica di quella “Caritas” cui è dedicato il testo: una convinta affermazione di solidarietà nei confronti di tutti coloro (vedi le centinaia di milioni di disoccupati) che subiscono sulla propria pelle gli effetti devastanti della crisi. Ho trovato pienamente condivisibile la severità della lettura dell’insieme di degenerazioni prodotte dalle modalità troppo spesso perverse con cui si è venuto sviluppando il processo di globalizzazione, artefici le società multinazionali e l’indiscriminata libertà di movimento dei capitali finanziari. Molto impegnativo e, a mio giudizio, indispensabile è anche il richiamo (p. 34) al principio di gratuità, alla vita percepita come dono, da cui consegue che “l’essere umano è fatto per il dono che ne esprime ed attua la dimensione di trascendenza. Talvolta l’uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita, della società”. (...). Proseguendo nella lettura ed entrando nel merito delle modalità di risposta al disastro socio-economico, ho trovato molto interessante il richiamo al principio di “sussidiarietà” (p. 61), secondo cui è opportuno che possa svilupparsi al meglio tutto ciò che i cittadini possono realizzare attraverso l’auto organizzazione. A questo riguardo, è certamente da condividere la precisazione riportata a p. 58, e cioè che il principio di sussidiarietà va mantenuto in stretta connessione con il principio di solidarietà, e viceversa, perché, se la sussidiarità senza solidarietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarità scade nell’assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno. Siamo in quel vasto, interessante arcipelago di esperienze associative che va sotto la denominazione di “terzo settore“ o

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CRISTIANESIMO E CAPITALISMO: INCOMPATIBILIdi Cesare Frassineti

La lettura dell’Enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate ha suscitato in me una serie di considerazioni ed un in-terrogativo di fondo.Anzitutto mi ha fatto piacere che un documento dedicato alle tematiche sociali sia stato promulgato in un momento di enorme sofferenza per l’umanità, sofferenza generata dallo scatenamento della crisi economica più grave dopo la Grande depressione del 1929, dalla quale, non va dimenticato, si è usciti sostanzialmente solo con la seconda guerra mondiale (60 milioni di morti).Mi è sembrato di poter interpretare l’evento come la ricerca di una traduzione nella pratica di quella “Caritas” cui è dedicato il testo: una convinta affermazione di solidarietà nei confronti di tutti coloro (vedi le centinaia di milioni di disoccupati) che subiscono sulla propria pelle gli effetti devastanti della crisi. Ho trovato pienamente condivisibile la severità della lettura dell’insieme di degenerazioni prodotte dalle modalità troppo spesso perverse con cui si è venuto sviluppando il processo di globalizzazione, artefici le società multinazionali e l’indiscriminata libertà di movimento dei capitali finanziari. Molto impegnativo e, a mio giudizio, indispensabile è anche il richiamo (p. 34) al principio di gratuità, alla vita percepita come dono, da cui consegue che “l’essere umano è fatto per il dono che ne esprime ed attua la dimensione di trascendenza. Talvolta l’uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita, della società”. (...). Proseguendo nella lettura ed entrando nel merito delle modalità di risposta al disastro socio-economico, ho trovato molto interessante il richiamo al principio di “sussidiarietà” (p. 61), secondo cui è opportuno che possa svilupparsi al meglio tutto ciò che i cittadini possono realizzare attraverso l’auto organizzazione. A questo riguardo, è certamente da condividere la precisazione riportata a p. 58, e cioè che il principio di sussidiarietà va mantenuto in stretta connessione con il principio di solidarietà, e viceversa, perché, se la sussidiarità senza solidarietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarità scade nell’assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno.Siamo in quel vasto, interessante arcipelago di esperienze associative che va sotto la denominazione di “terzo settore“ o “privato sociale”, cui l’Enciclica dedica uno sviluppo tematico molto esteso e favorevole.Al riguardo, nel concordare con questo approccio positivo, sento però di dover rilevare – anche per esperienza diretta nel settore – che i valori di cui è portatore “il terzo settore” sono in netta antitesi con quelli del sistema economico ancora dominante, cioè il capitalismo: ne consegue che ogni proposito di consolidamento e diffusione del “terzo settore” non può che collegarsi ad un processo di superamento dei paradigmi neoliberisti. La “terza via” della Chiesa ufficialeLa mia convinzione in ordine alla ineludibilità di questo superamento mi induce a porre la domanda di fondo: perché la Chiesa cattolica ufficiale non è mai arrivata ad una condanna puntuale ed inequivoca del sistema capitalistico?Tento una sintesi rapidissima del pensiero socio-economico espresso dalla Chiesa di Roma.Fin dalla prima enciclica sociale in senso moderno, La Rerum Novarum di Leone XIII (1891), si è venuta delineando quella che rimarrà come strada maestra, cioè l’elaborazione di una “terza via” fra cultura liberale e socialista.La dignità della persona umana, intesa come soggetto unico, irripetibile, destinato all’eternità e conseguentemente chiamato a relazioni di solidarietà con il prossimo, è al centro della riflessione: preoccupazione costante è quella di evitare, da un lato, esaltazioni accentuate dell’interesse personale e, dall’altro, la convinzione dell’assoluta priorità dell’interesse collettivo.Questo percorso si va via via integrando con le successive encicliche sociali quali:

- Quadragesimo anno di Pio XI (1931), che enuncia in particolare il principio di sussidiarietà; - Pacem in terris di Giovanni XXIII, che denuncia senza mezzi termini l’iniquità della distribuzione delle ricchezze: i-niquità che può indurre alla guerra, di cui egli pronuncia una delle più convinte e severe condanne, definendola come “manifestazione di follia”;- Populorum progressio di Paolo VI, che accentua con determinazione la condanna della miseria in cui vive la maggioranza degli uomini e ribadisce con forza la condanna della guerra;- Centesimus Annus di Giovanni Paolo II, in cui si affronta espressamente il tema del capitalismo, arrivando, in estrema sintesi, alla conclusione di condannare la versione “selvaggia” del capitalismo e di considerare invece accettabile il cosiddetto “capitalismo dal volto umano”, vale a dire la libertà di mercato in un contesto di regole adeguate.Mi è sovvenuta allora questa considerazione: dal momento che l’opzione della Centesimus Annus, cui anche Benedetto XVI si ispira, è in sostanza quella che ancora segue la maggioranza degli economisti, potrebbe sembrare lecito chiedersi perché qualcuno, a cominciare da chi scrive, si sorprenda e si interroghi a proposito dell’adeguamento della Chiesa ufficiale al punto di vista della maggioranza.La risposta che mi sento di dare è anch’essa un interrogativo, e cioè: dal momento che Gesù di Nazareth è la figura centrale di riferimento della Chiesa ed è morto in croce, ha forse subito questa tragica fine per essersi adeguato agli orientamenti della maggioranza del suo tempo? Contro gli assetti dell’ordine costituitoSecondo la testimonianza degli Evangelisti, il messaggio e l’esperienza di vita di Gesù si sono sviluppati secondo linee di radicale contestazione degli assetti di potere consolidati nella Palestina del suo tempo.- Alla prepotenza dell’occupante romano, fondata sul diritto del più forte, egli ha opposto i principi rivoluzionari del “Discorso della Montagna”: beati i poveri, gli assetati di giustizia, i costruttori di pace (Lc 6,20-25), ed ha lasciato ai discepoli un comandamento sconvolgente: “amate i vostri nemici” (Lc 6,27-28).- Al formalismo degenerante in ipocrisia della casta sacerdotale di Gerusalemme, Gesù ha opposto il messaggio alla samaritana: “Non adorerete più Dio su questo monte e in questo tempio, ma in spirito e verità” (Gv. 21,23).E, a proposito di Dio, Gesù, nel silenzio di domanda e di ascolto delle lunghe notti di preghiera (Lc 6/12 ), ha intuito essere di stirpe divina sia la propria natura che quella di tutti gli uomini: da qui deriva l’appellativo affettuosamente familiare di Padre con cui si rivolge, appunto, a Dio. Ed è proprio in questa intimità filiale che il Nazareno riesce a percepire e a comunicarci le sconvolgenti modalità di amore per la giustizia con cui questo Padre si manifesta ai propri figli, a cominciare dagli ultimi: “ha rovesciato i potenti dai troni, / ha innalzato gli umili; / ha ricolmato di beni gli affamati, / ha rimandato a mani vuote i ricchi” (Lc 1, 52-53).Come non sentire di quale rovesciamento delle categorie del mondo Gesù si sente portatore? È quello che Egli chiama l’avvento del “Regno di Dio”, cioè la realizzazione sulla terra, per attualizzare il Cielo, dei valori fondanti della giustizia e della nonviolenza: è per fedeltà al “Regno” che Gesù muore crocefisso come un sobillatore dell’ordine costituito.Ma, allora, se si riuscisse a dimostrare che il sistema capitalistico (quale che sia la sua qualificazione) è per sua natura ingiusto e violento, si avrebbe implicitamente la risposta alla domanda di fondo in ordine alla compatibilità del sistema stesso con il messaggio cristiano. La violenza del capitalismoProvo ad avventurarmi nel tentativo di sviluppare questa dimostrazione: ambito di riferimento è una sintetica analisi del contesto e delle modalità con e per le quali si è determinata la crisi economico-finanziaria che stiamo soffrendo.1. Quanto al contesto, è importante ricordare che, dalla caduta del muro di Berlino, “il mondo occidentale”, in particolare anglo-sassone, è attraversato da un specie di delirio di onnipotenza: è

venuto meno il pericolo che un sistema alternativo al capitalismo possa conquistare le masse mondiali e divenire dominante. Gli “animal spirits” del sistema vincente hanno a disposizione il mondo intero e si scatenano senza remore attraverso:a) l’assoluta libertà di mercato, in ossequio alla dogmatica neoliberista che attribuisce alla tutela dell’interesse personale il miglior criterio per ottimizzare le scelte;b) l’affermazione assiomatica che economia reale e finanza (consumi e profitti) devono espandersi all’infinito, con le aberranti conseguenze della precarizzazione del fattore lavoro - per gonfiare l’accumulazione - e della rapina delle risorse naturali;c) la privatizzazione selvaggia delle attività economiche e di servizio (vedi acqua) gestite dagli Enti Pubblici;d) una strategia fiscale a vantaggio dei ceti abbienti;e) una deregolamentazione spinta, specie nel campo finanziario, con l’effetto deleterio di favorire il comportamento spregiudicato delle strutture operative del settore, sino al limite del codice penale (vedi i paradisi fiscali);f) un’intensa concentrazione delle imprese per far fronte alla dimensione mondiale dei mercati, la cosiddetta globalizzazione, di cui diventano protagonisti quei dinosauri denominati corporation (multinazionali): uno degli effetti più preoccupanti è che, proprio in virtù della forza conseguita (attraverso la creazione di oligopoli), le multinazionali, in moltissime realtà in cui operano – a cominciare dagli Stati Uniti – sono riuscite, in termini di dinamiche di potere, ad affermare in modo invasivo la propria volontà rispetto alla tradizionale prevalenza del potere politico statuale.Da quanto premesso deriva uno scenario sociale tutto impostato sulla tutela degli interessi forti, che, proprio per le loro logiche interne, non potevano che generare una concentrazione scandalosa della ricchezza, e quindi di potere, a scapito di un sostanziale impoverimento della maggioranza della popolazione mondiale, pur tenendo conto dei cambiamenti determinatisi nella sorprendente realtà cinese ed indiana.È sintomatico l’andamento divergente delle curve dei profitti rispetto a quelle dei salari, in ascesa le prime, a profilo piatto le seconde. Bastino queste due considerazioni:- Per guadagnare quanto i top manager delle multinazionali, un lavoratore occidentale con un salario medio annuo di 25.000 euro dovrebbe lavorare fra i 400 e i 1.000 anni (negli anni ’60 ne sarebbero bastati 40): è forse di cattivo gusto chiedersi quanti secoli dovrebbero lavorare quegli oltre 1,3 miliardi di persone che, guadagnando 2 dollari al giorno, non superano la linea di povertà?- A livello mondiale si stima che il 20% più ricco goda dell’86% della ricchezza prodotta, mentre il 40% più povero deve accontentarsi del 3%.Lascia ancora margini d’incertezza il contenuto di ingiustizia e di violenza del capitalismo? Ma procediamo.2. Quanto alle modalità, assume particolare rilievo il cosiddetto processo di finanziarizzazione dell’economia, vale a dire la smisurata dilatazione dell’attività finanziaria rispetto a quella produttiva. Come richiamato in precedenza, il sistema capitalistico sopravvive solo in una logica di crescita continua: deve perseguirla ad ogni costo, anche a quello della guerra.Nel corso degli anni ’70 si è determinato un esaurimento delle basi tecnologiche ed economiche del cosiddetto fordismo, cioè della produzione di massa di beni di consumo in mastodontiche strutture produttive (catena di montaggio ecc..). E alla saturazione progressiva dei mercati si è accompagnato il declino del tasso di profitto. Così, i padroni, per riportare in alto i profitti - oltre a puntare sull’automazione e robotizzazione di interi processi produttivi senza riduzione delle ore di lavoro, sulla delocalizzazione dei centri produttivi in aree a salari stracciati, su massime agevolazioni fiscali, sulla libertà di inquinamento, sulla precarizzazione spinta del fattore lavoro, con deleteri effetti di alienazione – hanno imboccato sempre più decisamente la strada, appunto, della finanziarizzazione. Ciò vuol dire che, per compensare gli insoddisfacenti profitti dell’economia reale, si sono organizzati (vedi C. Marazzi, Finanza bruciata, ed. Casagrande, pag.77 e seg.) “dispositivi di produzione e captazione del valore prodotto all’esterno dei processi direttamente produttivi”.

Vale a dire, per accrescere la redditività del capitale, sono diventati prioritari i valori di Borsa rispetto alla molteplicità dei “portatori d’interesse” delle imprese, quali i salariati, i fornitori, i consumatori, l’ambiente e le generazioni future. Le imprese diventano sempre più dipendenti dalla produzione di rendite (generazione di denaro per mezzo di denaro) come opzione per tenere alti i profitti.D’altra parte, il progressivo instaurarsi di situazioni di eccesso di capacità produttiva (valga per tutti il settore automobilistico) ha reso necessario stimolare i consumi sia attraverso paradossali strutture pubblicitarie, sia soprattutto attraverso facilitazioni sempre più tese all’indebitamento, fino a quella desolazione tecnica e morale rappresentata, negli Usa, dai cosiddetti prestiti sub prime, che hanno concorso in modo significativo a scatenare la crisi in atto. (...).Come si può rilevare dal prezioso testo di L. Gallino Con i soldi degli altri (ed. Einaudi), è impressionante il peso dominante che la finanza è venuta assumendo: una massa enorme di risparmio dell’ordine di 53.000 miliardi di dollari (pari all’incirca al Pil del mondo) viene gestita da enti finanziari privati (Fondi d’investimento, Fondi pensioni, Compagnie d’assicurazione, Fondi speculativi, ecc...), chiamati investitori istituzionali, che hanno orientato l’impiego del denaro raccolto verso l’acquisto di azioni ed obbligazioni. Si è determinata così una situazione in cui più della metà del capitale azionario delle prime cento imprese per valore borsistico in Usa, Francia, Germania e Regno Unito si trova nel portafoglio di questi investitori istituzionali, i cui rappresentanti nei Consigli d’Amministrazione delle società partecipate hanno ricevuto il mandato di indicare il 15% come rendimento minimo del capitale investito, da realizzare preferibilmente nel breve termine. In questo quadro, è abbastanza evidente che gli investitori non si fanno scrupolo se quei rendimenti vengono assicurati da società che trafficano in armi o da multinazionali impegnate nella deforestazione dell’Amazzonia. (...). Il sistema capitalistico, rispetto alle debolezze dell’eco-nomia reale, ha cercato di salvarsi con la “finanziarizzazione”. Ma anche quest’ultima, per le sue dinamiche interne, genera instabilità nei mercati: la gestione del denaro, e dei suoi titoli rappresentativi, non ha gli ancoraggi oggettivi di riferimento dell’economia reale, in quanto risente fortemente delle reazioni umorali degli operatori: il coefficiente di rischio dei titoli finanziari, per quanto costruito su sofisticatissimi calcoli matematici, non riesce a coprire la totalità delle possibili reazioni soggettive alle stimolazioni esterne. Una dimostrazione empirica di questa instabilità ci deriva dalla constatazione che, da quando la finanza è pervenuta a posizioni di dominio sui mercati (intorno alla metà degli anni ’80), all’incirca ogni due anni e mezzo si è verificata una crisi finanziaria, fino a quella che stiamo vivendo, che, per la sua carica devastante, non ha però assolutamente confronto con le precedenti, configurandosi come verifica storica di un progressivo fallimento di sistema.Ovviamente, gli interessi costituiti fanno ogni sforzo per accreditare la tesi che prima o poi tutto tornerà come prima, salvo la necessità di più efficaci controlli. E in quest’ottica sono riusciti ad ottenere vagoni di dollari e valute varie per “far recuperare operatività” a banche, investitori istituzionali e imprese: l’assurdo è che, quanto più grossi sono i fallimenti, tanto maggiore è la possibilità di sopravvivenza, perché tanto paga Pantalone, il tanto deprecato ed inefficiente Stato. È l’ennesima attuazione dell’inganno, del furto divenuto istituzionale, secondo il quale gli utili spettano al privato e le perdite alla collettività.C’è un’oggettiva necessità di superare questa prassi predatoria: ci sta andando di mezzo la stessa sopravvivenza della specie umana, minacciata dall’incombere di una crisi ecologica che il sistema stesso ha fortemente contribuito a creare. Tale sistema potrà anche sopravvivere per un po’ di tempo, ma diventerà sempre più chiaro che mantenerlo in vita si configura sempre più come un “accanimento terapeutico”. Come cristiano, sarei veramente felice se anche le autorità ecclesiastiche si decidessero a staccare senza incertezza la spina.