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CRITICA LETTERARIA 140 LOFFREDO EDITORE - NAPOLI VITO SANTORO L’autopsia di un’ossessione: L’odore del sangue di Goffredo Parise

CRITICA LETTERARIA 140 · L’odore del sangue di Goffredo Parise I. È noto che quando Goffredo Parise – nell’estate del 1979 – completa la prima, e unica, scrittura dell’Odore

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CRITICALETTERARIA

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LOFFREDO EDITORE - NAPOLI

VITO SANTORO

L’autopsia di un’ossessione: L’odore del sangue di Goffredo Parise

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VITO SANTORO

L’autopsia di un’ossessione:L’odore del sangue di Goffredo Parise

I. È noto che quando Goffredo Parise – nell’estate del 1979 –completa la prima, e unica, scrittura dell’Odore del sangue, ha allespalle un infarto che lo ha profondamente minato nel fisico1. L’in-cartamento, 196 pagine dattiloscritte, viene sigillato. Lo scrittore nonintende pubblicarlo. «Non ha forma è delirante, ripetitivo, senzastile, insomma un minestrone», confessa a Nico Naldini in una let-tera datata 16 giugno 19812. Così il romanzo rimane inedito – e nonrifinito dal suo autore, che lo rilegge senza apportarvi variazioni,pochi mesi prima della morte nel 1986 – fino alla pubblicazione,avvenuta nel 1997, e accompagnata da vivaci polemiche, come quel-la sulla sua datazione tra Cesare Garboli e Franco Cordelli3.

Nell’Odore del sangue – storia dello sfacelo di un pacifico menageà trois borghese a seguito dell’intrusione di un ‘cattivo ragazzo’ conil ‘culto della forza’ – Parise riversa tutti i suoi fantasmi, tutte le sueossessioni: un coacervo di angosce e tormenti, che minano alle fon-damenta il puro realismo e finiscono per attingere ai recessi piùintimi e rimossi della coscienza.

1 È questa la versione riportata da Cesare Garboli sulla base del ricordo diGiosetta Fioroni nella sua prefazione al romanzo; versione che discorda daquella dei curatori del meridiano, che collocano la stesura dell’Odore del sangueprima della gravissima crisi cardiaca che colpì lo scrittore veneto.

2 N. Naldini, Il solo fratello. Ritratto di Goffredo Parise, Milano, Archinto, 1989,p. 65.

3 Le perplessità sulla datazione del romanzo sono sorte per l’accostamentooperato da Garboli tra il periodo della stesura del romanzo e un fatto di cronaca– il delitto Alinovi – avvenuto a Bologna nel 1983, che aveva molto turbatoParise. Cfr. F. Cordelli, Il Parise postumo: quelle date non quadrano, «Corrieredella sera» (Milano), 17 giugno 1997; G. Fioroni, Ma Parise non si ispirò a unfatto di cronaca, ivi, 20 giugno 1997; F. Cordelli, Parise: ma la datazione non è un

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Non sto bene: un alter ego atroce, beffardo, crudele, disumano enazista mi perseguita… – scrive all’amico Alcide Paolini – Ho nau-see, pianti e come una condanna da scontare pur sapendomi innocen-te: ma si sa che l’innocenza è infinitamente più debole della colpa4.

Non solo. Oltre a un confronto con le pulsioni e gli istinti irra-zionali dell’animo umano, questo romanzo è anche un grido didolore per una giovinezza ormai irrimediabilmente perduta e per iltramonto definitivo delle passioni vitali.

Più che la dialisi alla quale si era in qualche modo abituato – ricordaGiulio Nascimbeni – più che il cuore malato e continuamente insi-diato dalle troppe sigarette che si ostinava a fumare, lo angosciavail calo della vista, la paura che potessero spegnersi quei suoi occhiavidi che avevano guardato e descritto tante miserie e tante meravi-glie del mondo. «Son vecio» fu il saluto di Goffredo5.

Opera, dunque, dall’evidente retroterra autobiografico, come te-stimoniano anche i ricordi della compagna di Parise, Giosetta Fioroni,per sua stessa ammissione la Silvia del romanzo, e i riferimentitestuali ai reportage dall’estremo Oriente (viaggi che oltre a farlo in-vecchiare, gli avevano, a suo dire, lasciato addosso un sentimentodi scetticismo e di inanità6).

Peraltro, nel Prologo del libro, l’Autore fa scaturire l’origine dellasua ispirazione dall’osservazione di una coppia di amici «un po’ incrisi», lui «uno scienziato, magro, magrissimo, rossiccio, calmo elento e preciso nell’esprimersi, razionale al massimo»7; lei, «unadonna giovane con seni e fianchi rotondi, occhi neri in un voltoimprontato con chiarezza […] ai tratti dell’ebraismo». Nei loro volti:«un’apparizione smarrita, quasi rassegnata, ma in profonda attesadi qualcosa, quello di lei; trepidante ma tranquillizzata dalla fedenella ragione quello di lui» (p. 4).

Natura contro cultura, dunque. Tema che Parise aveva già svi-

cavillo, ivi, 25 giugno 1997; C. Garboli, Caro Cordelli, come vedi ti ho nominato, «laRepubblica» (Roma), 1 luglio 1997.

4 La lettera, datata 13 febbraio 1979, è conservata presso l’Archivio Parise inPonte di Piave.

5 G. Nascimbeni, La dolce ala della giovinezza in quei primi racconti di Parise,«Corriere della sera» (Milano), 26 aprile 1997.

6 Cfr. G. Parise, Guerre politiche, Milano, Adelphi, 2007 [1976], pp. 11-15.7 G. Parise, L’odore del sangue, a cura di C. Garboli e G. Magrini, Milano,

Rizzoli, 2004 [1997], p. 3. Da quest’ultima edizione saranno tratte tutte le cita-zioni. L’indicazione delle pagine avverrà nel corpo del testo, tra parentesi.

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luppato nell’Assoluto naturale (1963), «dialogo filosofico alla manieradi Platone», – come egli stesso lo definì – incentrato sul gioco almassacro tra una donna mantide e il suo compagno, che inutilmen-te oppone alla animalità di lei la ragione dialettica.

II. Possiamo riscontrare – come suggerisce Andrea Gialloreto8 –le prime vestigia dell’Odore del sangue in un testo breve, frammentarioe incompiuto, scritto nel 1962, dal titolo Descrizione di una farfalla,che nelle intenzioni di Parise doveva costituire una sorta di «diarioconiugale scritto con gli occhi di un naturalista» – così si legge inuna lettera a Valentino Bompiani del 28 luglio 1963, riportata nellanota al testo del meridiano – incentrato sulla figura di una donna,Silvia (come la protagonista del romanzo postumo), dalla passionalitàquasi animale e al contempo misteriosa, a rispecchiare l’etimo delnome. Passionalità sulla quale il marito, «uomo indiretto» e annoia-to, può esercitare un’attenzione solo voyeuristica.

Si legga questo passo della Descrizione, emblematico di quell’ero-tismo dalle tinte mortuarie che caratterizza l’intera opera dello scrit-tore veneto. Si tratta di una descrizione del celebre “Sarcofago deglisposi” del Museo Etrusco di Villa Giulia in Roma:

Riandavo con la memoria alla più bella e più emozionante immagineconiugale che io abbia mai visto: il sarcofago degli sposi etruschi. Pen-savo alla profonda dolcezza di quei volti, alla disposizione ideale deidue corpi, uno accanto all’altro, la donna distesa e lievemente abbando-nata contro il corpo dello sposo anch’esso disteso. I due busti eretti e ivolti sorridenti e protesi in attitudine serena e contemplativa: contem-planti una idea di eterea e perfetta coincidenza con la natura […];coincidenza con la natura e con la morte. O in vita essi non contempla-vano un bel niente e solo la morte ha permesso a quell’ignoto artista dicreare in quei volti una contemplazione altrimenti inesistente?9

Ma un primo sviluppo in senso narrativo di queste suggestioniprende corpo nella raccolta dei Sillabari. Pensiamo ai racconti Affetto(apparso per la prima volta il 1° maggio 1971) e Sesso (22 giugno1980), che, parlando in termini cinematografici, costituiscono il sog-getto dell’Odore del Sangue. Nel primo il protagonista è un uomo

8 A. Gialloreto, La parola trasparente. Il sillabario narrativo di Goffredo Parise,Roma, Bulzoni, 2006, pp. 114-115.

9 G. Parise, Descrizione di una farfalla, in Id., Opere, vol. II, a cura di B.Callegher e M. Portello, Milano, Mondadori, 1989, p. 523. La nota al testo èa p. 1643.

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che non sente più «alcuna attrazione verso la moglie da dieci anni[…] e di questo prova(va) una grande vergogna […] perché glisembra(va) rivelatore di un lato volgare della propria natura». Men-tre in Sesso si narra di una donna di mezza età, annoiata e sonnolentanella casa lasciata vuota dall’amante. Costei, un giorno, viene ab-bordata in un vicolo da un giovane dai capelli ricci, virile e vanito-so, il «corpo costellato di cicatrici, soprattutto ai polsi, di un coloreviolaceo»: è una visione che le provoca «un senso di attrazione e diribrezzo come la vista del cobra la prima volta»10.

Sono proprio questi i nuclei tematici che, insieme ad altri, Parisesviluppa nel romanzo nel verso di una inesorabile catabasi. In par-ticolare, il bisogno di mostrare il lato tenebroso della crisi coniugalee soprattutto, la volontà di far assumere i connotati di una vera epropria sconfitta politica sia all’impossibilità del protagonista ma-schile di vivere un amore libero sia alla fallimentare ribellione delladonna al suo ruolo di moglie abbandonata, portano lo scrittore venetoa’drammatizzare’, appesantire e intossicare l’aerea leggerezza dellaprosa dei Sillabari, annegandola nel format di quello che con Garbolipossiamo definire il “romanzo dell’intellettuale”. Cioè di quel veroe proprio sottogenere narrativo novecentesco, caratterizzato dalcentralismo assoluto dell’io e del sesso, nonché dalla ritualità dellavita di coppia, con il personaggio principale – in genere un intellet-tuale – impegnato a ingaggiare una «complicata partita mentale»con la vita, da cui esce sempre pesantemente sconfitto11.

Non a caso, per il suo «sfogo di tipo psicanalitico», Parise ripren-de, a nostro avviso, il modello archetipico della Traumnovelle diArthur Schnitzler, la cui struttura portante è fatta, proprio comequella dell’Odore del sangue, dalle dicotomie fedeltà/tradimento evisione/non visione e dal percorso iniziatico che il protagonistacompie nella sfera mentale della moglie. Inoltre, tanto il raccontodello scrittore austriaco quanto il romanzo di Parise insistono sulconcetto di destino, segno di una concezione deterministica e scet-tica della vita. Nonché hanno per protagonista un medico, cioè un

10 G. Parise, Sillabari, in Id., Opere, vol. II, cit., p. 497.A questo proposito, si segnala la recensione all’Odore del sangue di Giorgio

Amitrano, dove vengono individuati quegli elementi dei Sillabari che caratteriz-zeranno il romanzo e segnalati anche i punti di contatto con la letteraturagiapponese, in particolare quella di Tanizaki e di Kawabata, autori molto amatida Parise: G. Amitrano, Parise, l’odore della vita, «la Rivista dei Libri», VII, 11,novembre 1997, pp. 29-31.

11 C. Garboli, Prefazione a G. Parise, L’odore del sangue, cit., p. XV.

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uomo portato per forma mentis ad analizzare e razionalizzare confreddezza da scienziato la realtà che gli si pone davanti, anche quellache riguarda i meandri più oscuri e complessi della psiche. Ed en-trambi i testi si concludono con una discesa finale negli inferi del-l’obitorio, dove il Fridolin schnitzleriano vede il cadavere della donnamisteriosa, che con il suo sacrificio gli ha permesso di sfuggire allapunizione, forse alla morte, per essersi intromesso senza invito, nelcircolo segreto. Mentre il Filippo di Parise vede il corpo della mo-glie uccisa, la cui morte lo ha salvato probabilmente dalla follia e loha condotto a un rapporto matrimoniale istituzionalizzato con lagiovane amante Paloma. Nei due casi i corpi defunti rappresentanoognuno, per usare una frase del racconto della Traumnovelle, «ilcadavere pallido della notte passata, destinata irrevocabilmente alladecomposizione»12, ma il cui ricordo continuerà a persistere persempre nella mente dei due protagonisti. Cosa che rende il lieto finedi ambedue i racconti quanto mai fittizio e paradossale.

III. Il titolo del romanzo postumo di Parise ha una doppia valenza,emblematica ed esplicativa, come viene chiarito ripetutamente già apartire dal prologo. Lo scrittore afferma di ricordare molto benel’odore del sangue per averlo percepito in Vietman alla vista di unsoldato in barella gravemente ferito dallo scoppio di una mina. Sitratta di «un odore molto simile a quello dei macelli all’alba, mainfinitamente più dolce e lievemente nauseabondo» (p. 5). Non èaltro in fondo che «l’odore della vita», ma di una vita inturgidita da«quel tanto di belluino, perfino di antropofagico e vampiresco che,nel profondo più profondo, esiste ancora nell’uomo» (p. 6).

L’odore del sangue è l’odore della gioventù, che sia quando scop-pia di erotismo sia quando è affamata di morte, ha «l’alito profuma-to di sangue», come si legge in un racconto dei Sillabari dal titoloappunto Gioventù13. Anche della gioventù di Parise. Era, infatti, questol’odore che entrava nelle narici della signorina Cleofe, alter egodello scrittore, nella Grande vacanza (1953), quando la donna tornavacon la mente indietro negli anni, ricordando quei momenti in cui dinascosto osservava, attraverso il buco sotto il lavandino, la madrelasciarsi corteggiare dal figlio14.

12 A. Schnitzler, Doppio sogno, Milano, Adelphi, 1998, p. 111.13 G. Parise, Sillabari, in Id., Opere, vol. II, cit., pp. 338.14 «L’odore del sangue e del sudore che le scorreva sul viso e nel petto

diventò più forte di quello acido delle immondizie e riempì il buco sotto l’ac-quaio: era la sua piccola stanza, la sua culla, il suo guardaroba, tutta intera una

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È appunto questo odore, capace di impaurire ed eccitare inmaniera quanto mai oscura e inafferrabile la mente e il cuore, che ilprotagonista, ed io narrante del romanzo, Filippo – un medico ana-lista cinquantacinquenne, ormai incapace di esprimersi né col lavo-ro né con l’amore né con il sesso – improvvisamente riscopre nellamoglie Silvia. Proprio quell’odore che lo aveva indotto a innamorar-si di lei. Proprio quell’odore che durante gli anni di matrimonio èandato molto presto scomparendo.

Con la donna Filippo, infatti, intrattiene, ormai da una ventinadi anni, un rapporto platonico, nutrito da continui allontanamenti eda telefonate giornaliere “giustificatorie” e “rassicuranti”, nell’illu-sione della insignificanza delle distanze: «si viveva insieme, strettiin un abbraccio disperato e impotente ma pur sempre in un abbrac-cio che aveva le stigmate dell’eternità» (pp. 34-35).

L’uomo, peraltro, ha una giovane amante, che ama senilmentecon il «sentimento, appunto, di un padre»:

[…] avevo capito che il mio chiamiamolo così esercizio sessuale, dicui ero e mi sentivo ancora capace come e forse più di un giovanedi vent’anni, non era in realtà che una finzione, naturalmente conme stesso, poiché la ragazza non se ne accorgeva (p. 113).

Con la ragazza Filippo vive nella sua dependance di campagna. Èuna relazione che appare ai suoi occhi come il segno del «primoatto della senilità, cioè del rimpianto per la vitalità», dal momentoche «la vitalità che noi vediamo o crediamo di vedere nel nostrogiovane partner non è la nostra, bensì la sua» (p. 114).

Silvia ha accettato il tradimento del marito, considerandolo parteintegrante del ménage matrimoniale. Non può fare altrimenti unadonna che ha sempre «sublimato il sesso […] in sentimento, indedizione quasi religiosa e soprattutto in sentimento materno nonavendo mai avuto figli» (p. 13).

I due coniugi protagonisti dell’Odore del sangue sono a tutti glieffetti, un uomo e una donna del ‘neocapitalismo’; sono due ‘auto-mi annoiati’ – tanto per usare metafore moraviane – capaci di espri-mere affettività solo attraverso la mediazione del telefono o nellasospensione spazio-temporale del sonno15.

casetta con piatti e chicchere in proporzione»: G. Parise, La grande vacanza, inId., Opere, vol. I, a cura di B. Callegher e M. Portello, Milano, Mondadori,1987, p. 232.

15 «L’uomo del neocapitalismo con tutti i suoi frigoriferi, i suoi supermarket,

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Si legga questo passo significativo:

[…] il sonno a due aveva tra di noi delle positure che mimavano, incerto qual modo, quelle dell’amore platonico.[…]Era tutta lì la nostra “carnalità” animale, il senso del branco. Ma altempo stesso, come ho detto, tutti questi movimenti degli arti, dellabocca, non facevano altro che mimare, in naturale come per un istin-tivo balletto di carnalità, la stretta del nostro animo, le affinità elettive,la passione dei sentimenti, insomma, l’amore, appunto platonico. Lacontemplazione e sublimazione che questo tipo di amore richiedeaveva la sua rivalsa anziché nel sesso, nel sonno (pp. 51-52).

Filippo e Silvia sembrano proprio usciti dalle pagine moravianedei primi anni Sessanta – quelle della Noia e dei racconti dell’Auto-ma16 – o dalla trilogia che in quegli stessi anni aveva imposto ilgenio cinematografico di Michelangelo Antonioni. Si pensi, ad esem-pio, alla Notte, film anch’esso incentrato sulla crisi di un intellettua-le che si muove sullo sfondo della città di Roma, svogliato e deluso,incapace di decifrare alcunché della realtà che lo circonda, soffrendol’impotenza e l’inettitudine di chi avverte una frattura tra sé e ilmondo circostante.

Tornando al romanzo, l’annoiata routine di Filippo e Silvia vienesconvolta dal ritorno dell’odore del sangue. Lui lo percepisce. Senteche lei lo tradisce con un giovanotto incontrato per strada, per di

le sue automobili utilitarie, i suoi missili e i suoi set televisivi è tanto esangue,sfiduciato, devitalizzato e nevrotico da giustificare coloro che vorrebbero accer-tare lo scadimento quasi fosse un fatto positivo e ridurlo a oggetto tra glioggetti. Purtroppo però l’uomo del neocapitalismo non riesce a dimenticare lapropria natura dopo tutto umana. Il suo antiumanesimo per questo non riescead essere positivo. Sotto apparenze scintillanti e astratte, si celano a ben guar-dare, la noia, il disgusto, l’impotenza e l’irrealtà»: A. Moravia, L’uomo come fine,Milano, Bompiani, 2000 [1963], p. 6.

16 I. Crotti, Un romanzo geometrico ed erotico, «L’immaginazione», 148, luglio-agosto 1998, pp. 20-21. La studiosa suggerisce anche una corrispondenza tra laforma portante dell’Odore del sangue e «la struttura drammatica che scandisce ilsaggio di Barthes», Frammenti di un discorso amoroso, uscito proprio nel 1979presso Einaudi, due anni dopo l’edizione parigina.

Aggiungiamo che tanto i racconti moraviani quanto il romanzo postumo diParise si fondano sullo stratagemma narrativo, tipico del noir, della premonizione,vale a dire sulla presenza di un misterioso allusivo richiamo a un fatto che allafine potrà, o non potrà, accadere: per quanto riguarda il meccanismo dellapremonizione come meccanismo portante dei racconti dell’Automa, cfr. A.Cavagnon, Introduzione a A. Moravia, L’automa, Milano, Bompiani, 2004 [1962],in particolare, pp. IX-XXIV.

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più appartenente all’organizzazione neofascista Ordine nuovo. Nonsi tratta di un tradimento come i tanti che la stagionata coppia bor-ghese ha ormai imparato a tollerare.

In questo caso l’uomo ri-sente l’odore. Ed è un sentire tutto fisico,una contrazione della carne, un guizzo del corpo, una figura indi-cibile del desiderio, percepibile ma non visibile, reale e al tempostesso virtuale. L’odore lo narcotizza. Lo trattiene dall’esprimere lasua vera natura «irresistibilmente animale e impaziente», in favoredi un animus razionale, analitico e culturale (p. 19).

Si genera immediatamente un’ossessione: Filippo sente, ma nonvede. E invece vorrebbe vedere a tal punto da chiedere alla mogliedi descrivergli i suoi tradimenti. E lei sta al gioco. Ma solo in parte:«parlava e non parlava». Lascia intendere. Racconta e un poco sve-la, ma nello stesso tempo nasconde e vela di nuovo.

Filippo insiste17. Cerca di cogliere nelle confidenze di Silvia sva-riati e palesi lapsus, in accezione psicanalitica. Ad esempio, il «moltoprepotente» che la donna attribuisce all’amante, diventa per l’anali-sta una dichiarazione di masochismo e di plagio, da cui ricava l’ul-teriore conseguenza che il giovane fascista ha ormai pieni poteri sudi lei: è il suo protettore e padrone, il suo “magnaccia”.

Debole, vile, mammone, ma dotato – si legge a un certo punto dellibro – di quel particolare tipo di psicologia proprio appunto deimagnaccia: il dominio su di una donna, che si esprimeva, nei fatti,con la prepotenza del cazzo; e dimostra sempre nella donna, intermini molto reali, l’interesse per lei. Ogni prostituta, plagiata dalproprio magnaccia, infatti, ragiona così (p. 88).

L’adulterio non è un’offesa narcisistica, non è un allontanamentodalla legge della fedeltà matrimoniale: è l’esperire in chi ci viveaccanto l’esistenza di un territorio radicalmente inaccessibile. Filip-po teme che tutto quello che egli vuole ad ogni costo vedere restiinvisibile, che tale visione cruciale resti impedita. Quella visione,quel sapere da cui dipende tutto nel rapporto con l’altro.

Le persone si amano finché si hanno sotto gli occhi; qualunque siail rapporto affettivo tra due persone, se cessa la continuità, e lapresenza, cessa l’affetto.

17 Giustamente Giacomo Magrini accosta a ragione L’odore del sangue all’uni-verso straziato e potentemente ripetitivo di Thomas Bernard: «Rendere chiaral’ossessione, ossessiva la chiarezza» è il progetto condiviso (G. Magrini, Nota altesto, in G. Parise, L’odore del sangue, cit., p. XXXIV).

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[…]Così non soltanto Silvia si era innamorata di un ragazzo ma miamadre continuava ad amare un ragazzo, che ero stato io e che leiconsiderava ormai morto per lei. La sua maternità, anziché progre-dire e svilupparsi con il passare degli anni in un sentimento piùmaturo e complesso, da adulti, era rimasta ferma all’epoca della suagioventù e della mia infanzia (pp. 128, 129).[…]Ed io sapevo, ecco il mio profondo, che non potevo stare solo, nonpotevo stare senza una madre. Come sapevo, con quella certezzache viene dall’istinto di conservazione, che la sola madre che hoavuto durante tutta la mia vita era Silvia. Dunque Silvia non poteva,non doveva abbandonarmi (p. 142).

La scopofilia di Filippo, figlio abbandonato da due madri, èdunque, una epistemofilia, paragonabile a quello schautrieb, a queldesiderio di vedere, all’origine della sete di conoscenza del bambi-no. Non a caso, tutte le sue domande, tutte le sue ossessioni si in-trecciano sul corpo della moglie/madre.

Una solida tradizione connota da sempre lo sguardo come strut-turalmente maschile, il suo oggetto, ciò che viene visto (e in gene-rale ogni oggetto di osservazione o di conoscenza) come struttural-mente femminile, perché il corpo materno è stato in un certo sensoil primo oggetto del desiderio di conoscenza e ne rimane lo schema.Ma poiché la madre è al contempo luogo di sicurezza, nutrimentoe riconoscimento, l’esperienza infantile acquista la sua particolareforza dalla presenza di un’istanza ulteriore, con cui il bambino ècostretto a dividere la madre. Nella nostra cultura tale istanza simanifesta nella relazione della madre stessa con un altro uomo, ilpadre. Da ciò deriva che l’identità acquisita tramite il riconoscimen-to è inseparabile dall’esperienza della rivalità. La gelosia del bambi-no verso il padre riguarda il possesso pieno e sicuro della madre,cioè la sua continua e totale presenza. L’altro, il padre, rappresentala possibile assenza della madre, e tale possibile assenza non è nien-te di meno che la minaccia della morte.

Conoscenza, minaccia di morte e rivalità. Non a caso, nell’Odoredel sangue Filippo si aggira come un bambino che cerca di acquisireun sapere. La sua storia rappresenta la paura primaria, l’esperienzaprimaria che il bambino vive e attraversa. Vista a mente fredda, lasua indagine, modello edipico di una ricerca sul nocciolo e il fon-damento del sé, scaturisce dalla gelosia sessuale, dal desiderio divendetta ed è motivata dal bisogno di individuare la propria iden-tità. Anche perché, a suo dire, una volta vista, cioè «conosciuta, e

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analizzata con la ragione, qualunque cosa oscura diventa chiara»(p. 20).

Ma questa è una mera illusione. Così non resta altra strada chela rêverie. Non a caso, proprio al cinema, cioè nel regno dell’illusio-ne per eccellenza, Filippo durante la visione di Tornando a casa – «ilfilm era ripugnante […], ma portava con sé un’idea […]: anche separaplegico un uomo, […], può fare innamorare una donna, anzipuò dar piacere a una donna molto più e più intensamente che altrinormali» (pp. 38-39) – sente l’odore del sangue. Poi, ‘vede’ Silvia –che ha «gli occhi […] lunghi e bruni da film di Marcel Carné» (p.184) – intenta ad una doppia vita, «cosa che la attraeva la affascina-va e la divertiva» (p. 177), proprio come – lo sottolinea egli stesso– la Catherine Denevue del film di Buñel, Bella di giorno.

E nell’episodio finale dell’obitorio dinanzi al corpo senza vitadella donna, gli viene in mente Giulietta e Romeo, «non il dramma diShakespeare», ma il film del ’36 di George Cukor con Lesile Howard.Si innesca così nelle fattezze di un vero e proprio ‘cinema mentale’,una dinamica del ricordo: è Silvia la Giulietta tanto cercata nell’in-fanzia.

[…] da bambino, nei miei giochi solitari, da bambino, mi vestivo daRomeo con delle vecchie calze e cercavo Giulietta nella cantina deimiei nonni. Con una spada di legno e delle vecchie calze nere chefungevano da calzamaglia, mi aggiravo da solo nelle vecchie e vastecantine di casa, umide e risonanti, e con voce dolce in una specie dicanto chiamavo: «Giulietta, Giulietta». Così mi scoprivano spessomia madre e mia nonna. Non sapevo bene quello che volevo: quan-do me lo chiesero rispondevo che cercavo Giulietta ma non la trova-vo e non rispondeva mai ai miei richiami (p. 228).

E dalle atmosfere luttuosamente erotiche dell’Impero dei sensideriva quello che da più parti è stato considerato uno dei nucleicentrali del romanzo. Filippo sogna Silvia intenta a praticare sulloro letto matrimoniale una materna, e al tempo stesso selvaggia,fellatio al suo giovane amante e quindi, a ingoiarne l’eiaculato, se-gno della devozione assoluta della donna per l’uomo padrone (an-che se nel finale del film di Oshima è Sada, la protagonista, a im-possessarsi per ultima del sesso maschile).

Nella suzione vampiresca dello sperma c’è da un lato una famedi vita da parte della donna, dall’altro il preludio a una pulsione dimorte. Del resto, già Sade aveva apologizzato il sesso orale condovizia di particolari e posizioni, nell’elogio dell’orgasmo fine a se

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stesso: al contrario della deflorazione di una fanciulla, dove il dolo-re dell’imene si trasforma in piacere, la fellatio non provoca alcundolore, ma paradossalmente è più vicina alla morte, passando ilpiacere per una insostenibile sensazione di strangolamento18.

Silvia come una eroina sadiana si sottomette a pratiche sessualisterili. I rapporti che intrattiene con il suo giovane amante sonosempre orali e anali ed hanno sempre una ineluttabile cifra mortuaria.

Del resto, racconta Filippo:

[…] che Silvia fosse masochista, ormai ne avevo le prove. Ma micolpì la felicità fanciullesca di questa rivelazione. Era semplice etremendo; per essere appagata nell’amore Silvia doveva addiritturaarrivare alle soglie della morte (p. 214).

Proprio la predominante componente masochistica della suanatura, unita al miraggio di una giovinezza riacquistata in extremise al desiderio di compiacere le ossessioni del marito – come lamoglie del protagonista della Chiave di Junichiro Tanizaki, autoremolto amato da Parise – fa scivolare Silvia nel suo cuore di tenebra,in un buco nero di lugubre autodistruzione, inghiottendola in ungioco mortale che ce la fa ritrovare cadavere in una cella di obitoriocon il corpo violato da innumerevoli ferite di arma da taglio.

Non a caso, nel finale del libro, in un allucinato transfert, Filipposi attribuisce la responsabilità dell’uccisione della moglie («Non siseppe chi aveva ucciso Silvia e io sapevo però che il vero mandanteero io stesso»: p. 230): l’odore del sangue non è solo quello che sifiuta nel desiderio d’amore, è anche il fetore che emana dal corpodopo che questi si è fatto abbracciare dalla morte.

L’eros è dunque, un presagio funesto, l’anticamera di un tragittoautodistruttivo che conduce Silvia ad essere assassinata e Filippo aduna solitaria e inesorabile sconfitta.

L’altro vertice del triangolo dell’Odore del sangue, il ragazzo, sipresenta all’immaginazione dell’io narrante come una figura daicontorni indefiniti. Di lui ci vengono fornite solo pochissime gene-ralità (sappiamo solo che si chiama Ugo, ha venticinque anni, buonafamiglia, ed è malato di epilessia). Non ci viene mai descritto ilvolto. Il giovane finisce nell’immaginazione di Filippo con l’identi-ficarsi tout court con il suo cazzo. Cazzo che si innalza proprio nelsalotto della casa dei coniugi, cioè nel luogo dove maggiormente si

18 Cfr. D. A. F. de Sade, La filosofia nel boudoir, Milano, ES, 1992, pp. 24-48.

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sviluppa la routine casalinga, al rango di maschera totemica, e sim-bolica, della vita, quella vita che l’uomo sente con invida penetrarenella moglie e non in sé:

[…] un cazzo scuro ed enorme, tremendamente rigido, dalla stranaforma: una forma curva, a scimitarra, quasi piatto ma sorretto da unvero e proprio nerbo che lo inarcava verso l’alto: non era fermo,pulsava e si inarcava, alzandosi e alzando e muovendo il volto diSilvia che gli stava appoggiato e strofinato con la sua grossa e largatesta violacea che ricordava quella di un cobra (p. 55).[…]Fascinum era la parola che designava in latino il cazzo e, appunto, ilcazzo, cioè la forma tanto propulsiva quanto irruente del cazzo, è ilsignificato della vita stessa. Se non ci fosse il cazzo non ci sarebbe lavita (p. 112).

La maschera per sua natura – come è noto – si adopera in duesensi distinti e complementari. Espropria l’individualità di colui chela indossa e al tempo stesso gliene garantisce due ben distinte: unaallegorica, che è raffigurata dalla maschera stessa, l’altra puramenteproiettiva, ideata da chi questa la osserva e nell’impossibilità discorgere il volto nascosto ne immagina uno a suo discernimento.Così l’amante di Silvia diviene così una sorta di Doppio inconsciodi Filippo, analista ambiguo. È l’alter ego cui affida in forma vicarial’agognata esperienza di possedere more ferarum la moglie. Deside-rio questo inconfessabile.

L’odore del sangue è, dunque, la storia del fallimento di un rap-porto di coppia fondato sulla sublimazione del sesso, sulla cancel-lazione degli istinti naturali, cioè su una operazione meramenteintellettuale, laddove, nell’ottica darwiniana di Parise, l’uomo deveinvece rimettersi in relazione con l’animale che è stato e che conti-nua ad essere. Il rapporto simbiotico-platonico tra Silvia e Filippo èinfatti, un monstrum, come quell’intreccio inestricabile di sculture eliane, viluppo di natura e cultura, che caratterizza le rovine deltempio di Ang Kor Vat in Cambogia. Luogo spaventoso in cui ilprotagonista racconta di essersi perduto, con una sanguisuga che glisi era attaccata sul collo come un “piccolo pallone”. E appunto unasanguisuga egli definisce il giovane amante della moglie, «una spe-cie di pappone, di pappone dell’animo» (p. 171).

Giorgio Agamben in un suo saggio del 2002, L’aperto. L’uomo el’animale, sottolinea come la condizione ontologica umana èparagonabile a quella di «un animale che ha imparato ad annoiarsi,si è destato dal proprio stordimento e al proprio stordimento. Que-

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sto destarsi del vivente al proprio essere stordito, questo aprirsi,angoscioso e deciso, a un non-aperto, è l’umano»19.

Così l’uomo contemporaneo si trova di fronte a un bivio: o cu-stodire l’enigma della propria condizione animale, attraverso la dia-lettica aperto/chiuso che la fonda e rende percepibile o gestire l’enig-ma attraverso la tecnica. La prima opzione equivale ad un destarsiad una dimensione propriamente umana; la seconda significa asso-pirla completamente.

L’uomo, come l’animale, vive in una condizione di stordimento,vale a dire in una condizione che lo porta ad aprirsi integralmentea qualcosa che, tuttavia, pur disponendo dell’intensità, resta opacoe indistinguibile. Per vivere «umanamente», l’uomo non deve anni-chilire lo spazio animale che gli compete, deve solo sospendere lacondizione di aperto/chiuso, impadronirsene senza annientarla,custodirla. L’uomo può fare certamente così, ma la civiltà umana,nel XX secolo, ha agito in senso esattamente contrario. I totalitarismihanno, infatti, lucidamente annientato nei campi di sterminio, la“nuda vita”, la vita biologica, lo spazio animale dell’essere umano.La condizione animale non è conservata e protetta nella sua opacitàrivelatrice, ma viene dischiusa e squadernata nelle camere a gas.

Alla fine del Secolo breve, conclude Agamben, l’economia globa-le, con le sue dissimetrie bestiali nella distribuzione delle risorse,incentiva e perpetua l’annientamento di una sterminata moltitudinedi esseri umani, ricondotti ad una condizione puramente animale,al di fuori di ogni mediazione, salvaguardia o anche solo sempliceconsiderazione di ambito ragionevolmente politico. Il vaso di Pandoradell’animalità umana è stato aperto, e il suo prezioso contenutoschizzato via irrimediabilmente.

Ci scusiamo con il lettore per questa lunga digressione, ma L’odoredel sangue parla proprio di questo. Già alla fine degli anni Settanta(e ancor di più oggi), la sessualità articolata secondo la dialetticaaperto/chiuso, cioè la dialettica umano/animale, è la posta in giocodella società degli uomini e delle donne.

In una civiltà ormai alla deriva, sembra dire Parise, l’amore ses-suale coniugale, quello che riesce impossibile a Filippo e a Silvia,può costituire l’unica dimensione in cui ciò che un tempo spettavaancora agli ambiti di poesia, religione e filosofia riesce, per miraco-lo, a salvaguardarsi. «Le potenze storiche tradizionali» – sottolinea

19 G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Torino, Bollati Boringhieri, 2002,p. 73.

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ancora Agamben – «poesia, religione e filosofia, che mantenevanodesto il destino storico-politico dei popoli sono state da tempo tra-sformate in spettacoli culturali e in esperienze private e hanno per-so ogni efficacia storica»20.

La sessualità pura e semplice, spogliata delle sovrastrutture so-ciali, ossia le forme della devianza, della mercificazione, dell’edipoe della perversione, è in tempi di crisi e di caduta, il luogo dellacondizione animale dell’essere umano, e parimenti la sua epoké.Laddove la civiltà decaduta del XX secolo è il rinnegamento delladifferenza umano/animale con l’esito di uomini rigorosamenteumani, dediti volentieri alla bestialità.

IV. Abbiamo già visto che più volte nel romanzo l’odore delsangue viene ricondotto all’eccesso di vita, proprio della gioventù,e al destino di morte. Eppure, il senso intimo della opera postumadi Parise non può essere limitato all’eterno contrasto tra eros e tha-natos, al buio dell’inconscio, alle pulsioni trasgressive o, peggioancora, ad un’ennesima declinazione dell’estremo.

L’odore del sangue è anche la messa in scena di quello che potreb-be essere definito un dramma “realista”, ovvero le conseguenzesociali e di costume di una mutazione antropologica, partita allametà degli anni Sessanta, che appariva nel ’79 agli occhi dello scrit-tore veneto, ormai irrimediabilmente ingovernabile21.

Infatti, vediamo da un lato rappresentato il paradosso di unaimmoralità di coppia che da morale – cioè motivata da ricerca, prin-cipi – esce da sé e si scioglie in un quanto mai anonimo, indistintoe feroce senso comune, dall’altro il pieno compimento di quellosviluppo senza progresso della profezia pasoliniana. La fragile, eambigua, “necessità libertaria” con cui anche borghesi non giovanima illuminati come Filippo e Silvia, figli del Sessantotto, hannocercato di fare i conti, ha lasciato alla fine campo libero al ritornodel dominio e del vizio. O, peggio ancora, al ritorno del privilegio, chesolo consente una autentica e totale sfrenatezza.

20 Ivi, pp. 79-80.21 Già nel 1965 Parise si esprimeva in questi termini apocalittici, sulla scia

della teorie evoluzioniste di Darwin, la cui lettura – come è noto – gli era statasuggerita da Gadda: «il mondo moderno è permeato di violenza: quella orga-nizzata, massificata è il nazismo. Ma quando non trova occasioni storiche cosìimponenti, si manifesta individualmente, in forme sadomasochistiche, come unalotta dell’uomo verso l’uomo, per il possesso e la distruzione» (A. Barbato,Intervista a Goffredo Parise, «l’Espresso», 11 aprile 1965).

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L’oggi si presentava, dunque, all’autore dei Sillabari inquinatodalla progressiva e incontenibile affermazione dell’individualismodi massa, e definito solo attraverso le più diverse celebrazioni dellaforza, ravvisabili tanto nell’ambito di pratiche colte e raffinate quan-to, il che avviene più spesso, nella smania dell’esibizione muscolare.Non a caso, egli aveva finito per fare proprie le analisi “luterane” e“corsare” sul Nuovo Potere e sulla Nuova Cultura di Pier PaoloPasolini.

In un celebre articolo del 10 giugno 1974, Studio sulla rivoluzioneantropologica in Italia, era stato il poeta delle Ceneri a denunciare illivellamento e l’omologazione operati dalla cultura di massa sullasocietà contemporanea, con la conseguente scomparsa di tutte ledifferenze politiche e di classe:

[…] l’omologazione culturale […] riguarda tutti: popolo e borghesia,operai e sottoproletari. […] La matrice che genera tutti gli italiani èormai la stessa. Non c’è più dunque differenza apprezzabile – al difuori di una scelta politica come schema morto da riempire gestico-lando – tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasicittadino italiano antifascista.

Ragion per cui un neofascista è del tutto identico alla stragrandemaggioranza dei suoi coetanei, soggetto com’è «culturalmente, psi-cologicamente, somaticamente» a «condizioni intollerabili di confor-mismo e di nevrosi, e quindi di estremismo (che è appunto la con-flagrazione dovuta alla miscela di conformismo e di nevrosi)»22.

Lo “studio” pasoliniano viene ripreso da Parise nella puntata del30 giugno 1974 della sua rubrica sul quotidiano di via Solferino:

[I] giovani […] ‘comprano’ ideologia al mercato degli stracci ideolo-gici così come comprano blue jeans al mercato degli stracci sociologici(cioè per obbligo, per dittatura sociale) […] Ha ragione Pasoliniquando parla di nuovo fascismo senza storia23.

È questo il varco – quanto mai precario – attraverso cui lo scrit-tore veneto iniziava ad intravedere l’avvicinarsi di una catastrofe, di

22 Questo articolo è apparso per la prima volta sul «Corriere della sera» il 10giugno 1974 con il titolo Gli italiani non sono più quelli, ora in P. P. Pasolini,Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano,Mondadori, 1999, pp. 310-312.

23 G. Parise, Il rimedio è la povertà, «Corriere della sera» (Milano), 30 giugno1974; ora in Id., Verba volant. Profezie civili di un anticonformista, a cura di S.Perrella, Firenze, Liberal, 1998, p. 78.

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cui potrà sperimentare solo le fasi iniziali. Varco che aveva il suoscenario metaforico e urbano nella Roma cupa, violenta e putrescente– già descritta a tinte fosche in racconto dei Sillabari – che era statateatro in quegli anni del massacro del Circeo, dell’uccisione diPasolini, del rapimento e dell’esecuzione di Aldo Moro e della suascorta, nonché di scontri di piazza e di violenza urbana.

Proprio quella Roma che Pasolini stesso aveva già dalla finedegli anni Sessanta, smesso di amare a causa di quella omologazioneche aveva investito tutta la società e che aveva fatto della Capitale«una delle tante piccole città italiane. Piccolo borghesi, meschine,cattoliche, impastate di in autenticità e di nevrosi». Ormai non esi-steva più quella Roma popolare che egli immaginava personificatanelle «sembianze di un tipico ragazzo romano di borgata: cioè bru-no, olivastro, con l’occhio nero, il corpo aitante. […] Snello nonprecisamente atletico. Un po’ come gli arabi che non sono atleticima sono, diciamo così, fatti armoniosamente»24.

Queste fisionomie arabe – nota Parise nell’Odore del sangue, in unpasso in cui riprende non solo le analisi ma anche le espressionipasoliniane – con l’andare degli anni si sono ‘americanizzate’ (p.91), piegandosi alla massificazione e al consumismo. È il lato oscurodi quel mito dell’America, che egli vedeva espandersi inesorabil-mente nel mondo, da Occidente a Oriente, grazie alle leggi delmercato25. Un mito che rispondeva a un bisogno diffuso di benesse-re e di democrazia, ma che in realtà era, a suo giudizio, una costru-zione quanto mai menzognera. L’odore – ancora l’odore! – dell’Ame-rica è, infatti, l’odore della miseria.

L’odore della miseria, più misera – scrive l’autore del Prete bello inun breve testo uscito postumo sulle pagine dell’«Espresso» del 13dicembre 1987 – di tutte le miserie, più miseria della fame, dellemalattie, della povertà scheletrita e della morte. Più miseria di tutteperché non è miseria umana, biologica, naturale, antica anche e spa-ventosa, ma è miseria disumana, chimica, vecchia senza essere anti-

24 P.P. Pasolini, Quant’eri bella Roma, in Id., Saggi sulla politica e sulla società,cit., pp. 1701-1704.

25 «Un’altra ragione – scrive Parise nella Avvertenza preliminare al volumeGuerre politiche – per cui credo che non viaggerò più tanto è che il mondo, comesanno veramente tutti ormai, si è fatto piccolo, abbastanza uguale, moltoamericanizzato o americanizzabile. Chi si addentra nella foresta della Tailandia,e si spoglia nudo per mettersi sotto la cascata trova un piccolo paniere di Coca-Cola, Ginger Ale e Pepsy-Cola, e ci riflette su, sa che non ha più moltissimo daviaggiare»: G. Parise, Opere, vol. II, cit., p. 781.

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ca, è miseria morale, è schiavitù delle schiavitù. Come un castigo diDio questo odore emana, sgorga dalla dinamica della vita america-na, dalla sua sostanza morale, dalla ragione stessa e più intima percui l’America vive: il consumo26.

Figlio di questa omologazione consumistica è il ragazzo di Silvia– «fascista, che fa l’alba tutte le notti, che non ha la più lontana ideadi lavorare e va in palestra e beve Coca Cola», bevanda non a caso,simbolo dell’America. Egli per puro caso proviene dalla borghesiaromana – dal cosiddetto “generone” – dominata da istanze reazio-narie e clerico-fasciste. Niente lo differenzia dai suoi coetanei delleborgate sottoproletarie.

Provengono da tutte le classi sociali e da tutti i quartieri, dai piùricchi ai più poveri, della Capitale quei giovanissimi, che Filippovede di notte sfrecciare rombando in moto, atteggiati a «giustizieridella notte». Portatori di un antagonismo sciocco e ignorante –«teorizzano il rifiuto dei consumi, il rifiuto della politica, di tutta lasocietà in blocco» – chiusi in una bieca autoreferenzialità, che liporta a pensare che ci siano «solo loro e il loro cazzo e basta», essirappresentano «nella loro anonima e meccanica criminalità, le faccedi Roma»:

[…] dei figli della borghesia o delle borgate di Roma, la stessa cosa:entrambi vestiti allo stesso modo, entrambi con fattezze di tipoamericano e criminoide con appena una punta di quella vanità ebrutalità mediterranea e romana che si vede appunto a Roma (p.91).[…]Facce pronte a chiedere perdono in ginocchio come a minacciare aricattare, con la prepotenza e la violenza di quella loro stessa debo-lezza» (p. 233)27.

E proprio in quanto esemplare del “nuovo fascismo senza sto-ria”, il ragazzo di Silvia non può avere un volto, in quanto grumoindifferenziato di pulsioni distruttive (e autodistruttive), portatoredi un nichilismo gratuito che brucia energia e intelletto nell’episo-dio e rifiuta sia l’Ordine che la Rivoluzione.

26 G. Parise, New York, Milano, Rizzoli, 2001, p. 61.27 Quest’ultima citazione è ripresa dal passo espunto da Parise e proposto

dai curatori nell’appendice al volume intitolata appunto Roma: «Roma è unblocchetto di carattere atropo-sociologico, che Parise deve aver sentito troppocondensato, troppo giornalistico o saggistico, troppo pasoliniano», scrive Magrininella Nota al testo in G. Parise, L’odore del sangue, cit., p. XXIV.

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Postilla cinematografica: L’odore del sangue di Mario Martone.

È opportuno dedicare una postilla alla riduzione cinematograficadell’Odore del sangue, uscita nell’aprile del 2004, per la regia di MarioMartone (autore anche della sceneggiatura) e l’interpretazione diMichele Placido, Fanny Ardant e Giovanna Giuliani. Infatti, il quar-to film del regista napoletano non è una semplice traduzione inimmagini dell’opera di Parise. Si tratta, infatti, di un adattamentonon ‘intersemiotico’, ma, per così dire “ontologico”, sulla scia delcelebre saggio di André Bazin sul film di Bresson Diario di un curatodi campagna da Bernanos28. In altre parole, il romanzo inedito diParise, al pari di altre pagine della sua opera, dai Sillabari alle Guer-re politiche, viene da Martone considerato come una vera e propriaentità del mondo, da rappresentare con la stessa attenzione riserva-ta solitamente ad un luogo, ad un evento o a un corpo. E quindi,‘oggettivato’ attraverso lo spostamento dell’ambientazione – o forsesarebbe meglio dire, una “non ambientazione”, una ambientazioneastratta – dalla Roma di fine anni Settanta a quella odierna.

Del resto, la contaminazione tra sistemi comunicativi diversi (ci-nema, teatro, opera lirica, televisione) costituisce la cifra essenzialedell’opera dell’artista napoletano. Si pensi, ad esempio, a Teatro diguerra (1998) – film che ha in comune con L’odore del sangue l’idea diuna specularità tra crisi personale e crisi politica – in cui una com-pagnia teatrale d’avanguardia di Napoli è impegnata nell’allesti-mento dei Sette contro Tebe, con l’intenzione di portare lo spettacoloa Sarajevo, dove è in corso la guerra civile. O al film di montaggioUn posto al mondo (1999), dove le immagini del repertorio RAI simescolano a quelle del casting dell’Edipo re, portato in scena al tea-tro Argentina. Tutti lavori in cui il raddoppiamento realtà-finzionediventa chiave di lettura e strumento interpretativo del reale.

L’odore del sangue di Martone, pur presentandosi come una “libe-ra trasposizione da”, è un film che ricalca fedelmente il plot delromanzo, attingendo a tratti letteralmente dall’opera di Parise, dacui riprende con cura calligrafica interi dialoghi, intere pagine.

Pochi sono i ‘tradimenti’. Il protagonista non è più uno psicana-lista, ma un giornalista-scrittore di nome Carlo, con un riferimentopiù diretto alla biografia dell’autore dei Sillabari. Altri cambiamentiriguardano le locations (la casa di campagna viene trasferita dalVeneto al Lazio; Carlo e Silvia vanno in vacanza in Sicilia, dove li

28 A. Bazin, Che cosa è il cinema?, Milano, Garzanti, 2004 [1958], p. 120.

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vediamo passeggiare tra i varchi del “Grande Cretto” di Burri aGibellina); l’eliminazione di alcuni personaggi secondari come lamadre, il medico, il prete; l’accorpamento di dialoghi e situazioni,che nel romanzo si svolgono in momenti diversi.

Ma la differenza più rilevante tra testo letterario e testo filmicoriguarda il personaggio di Paloma, qui ribattezzata Lu’. L’io narran-te di Parise soltanto nell’ultima parte del racconto dedica un certospazio alla ragazza, dopo essersi scusato di questa sua mancanzacon il lettore: una excusatio non petita che prelude alla catastrofefinale di cui si sente responsabile29. Ce la descrive come una giova-ne vedova, ansiosa di risposarsi, figlia di un contadino del luogo,dal «volto selvatico, dai capelli rossastri e gli occhi neri brillanti» (p.156), tanto simile «a certe veneri del Tiziano» (p. 158).

Nel film la naïf Paloma viene trasformata in una emancipataragazza androgina, allevatrice di cavalli, dai capelli neri a caschetto,come quelli di un paggio di corte (la interpreta Giovanna Giuliani).

È proprio lei la protagonista della prima sequenza del film. Lavediamo nuotare in mare e poi raggiungere sulla scogliera Carlo. Idue sono distesi nudi e abbracciati. «Sai come si chiama quello?»,chiede l’uomo alla ragazza, indicandole un uccello che vola incontrocampo sui loro corpi. «Gabbiano», risponde Lu’. «Pla-ni-pte-ri-doe», scandisce Carlo. È un breve dialogo, ripreso dal raccontoEstate dei Sillabari, che evidenzia da subito la natura razionale del-l’uomo, la sua volontà di catalogare ogni cosa. Ma la sua ossessionedi fare chiarezza, di arrivare al succo delle cose è del tutto velleita-ria. Carlo nasconde una natura predatrice: è un «lupo» – annota Lu’sul suo diario – un «maestro di cose inutili» con «il naso per aria acercare quello che non trova al mondo».

Seguono scene di felice e bucolica vita amorosa, con sottofondoFabrizio De André che canta Amore che viene amore che va. Stacco dimontaggio. Nella casa di campagna lo scrittore riceve una telefona-ta. È la voce di una donna dall’accento francese. È sua moglie Silvia,che gli annuncia di essersi fidanzata anche lei, con un ragazzo diventitrè, ventiquattro anni. Costui l’ha abbordata per strada facendouna serie di complimenti alle sue gambe.

29 «Solo ora mi rendo conto di non aver mai parlato della ragazza se non disfuggita e perfino senza dirne il nome. Nel mio lavoro questo si chiama, come ènoto, censura. Ho censurato lei, ho censurato il suo nome. Perché? Perché, come èaltrettanto noto, nel mio amore con Silvia proprio questa ragazza ha segnato l’iniziodi quello che solo negli ultimi tempi e in ritardo mi apparve come l’inizio diqualche cosa di oscuro e di drammatico» (G. Parise, L’odore del sangue, cit., p. 152).

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Nuovo stacco. Inquadratura fissa notturna sul raccordo anularedi Roma. Appare sovrimpressa la scritta L’odore del sangue. Si passaalla seconda sequenza introdotta dal primo piano, quasi un fermoimmagine, di una radiosa Fanny Ardant – lo sguardo rivolto versola macchina da presa – che risplende in un salotto radical chic dellacapitale. La donna si muove a suo agio tra i presenti, mentre Carlosiede perplesso sul divano, non partecipando alle discussioni dinatura politica che impegnano quanti gli stanno vicino.

Questo incipit è davvero un mirabile esempio di sintesi cinema-tografica. In poche inquadrature ci vengono presentati i tre perso-naggi principali e i rapporti che li legano: Carlo, intellettuale incrisi, spossato mentalmente dai viaggi nelle zone di guerra, è sospe-so tra due modelli femminili antitetici (l’amazzone e l’eternofemminino), rappresentativi l’uno della solarità del locus amoenus –quindi, della natura – l’altro di un contesto sociale medio-alto diprofessionisti della cultura. ‘Sospensione’ che si traduce anche nellastrategia narrativa del film, volta a mitigare e ibridare l’ipersogget-tività fallica del romanzo, affiancando al punto di vista di Carloquello delle due donne.

L’ostinata applicazione da parte dello scrittore di un metodo diindagine fondato su accaniti interrogatori e sulla precisa registrazio-ne di fatti e parole non gli consente di far luce sulla natura dellarelazione di Silvia con il giovane neofascista. Lo vediamo nel corsodel film sempre pensoso, sempre in cerca di risposte, sia quando èal computer sia quando vaga nei boschi sia quando si aggira perRoma. E questo mentre la voce off legge passi dei reportage di Parisedal Vietnam e dal Biafra. Si crea così un parallelismo tra la suaimpotenza a fare chiarezza sulla propria vita e l’impotenza dellaletteratura, e dell’arte in generale, contro la barbarie della guerra.

Del resto, in una vera e propria zona di guerra si sviluppano ledinamiche di coppia, ragion per cui si può anche stare nascosti sulladifensiva, ma il nemico è sempre in agguato, pronto a colpire. Infat-ti, quando Carlo propone a Silvia di lasciare i rispettivi ragazzi ericucire la loro storia, la donna sembra prendere tempo con unarisposta interlocutoria. E in sottofondo Martone fa vorticare le paledi un elicottero. Per la durata dell’inquadratura pensiamo di esserepiombati in uno scenario bellico, di trovarci all’interno di un flashbackincentrato sui ricordi di Carlo. Poi nell’inquadratura successiva ve-diamo lo scrittore alla finestra osservare il velivolo che volteggianell’aria: la ‘guerra’ è nel presente.

Uno degli assi portanti del film, assente nel romanzo, è dato

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dalla traiettoria che assume il rapporto tra Carlo e Lu’. Dapprima illoro ha tutta l’aria di essere un rapporto erotico pedagogico senex-puer, sottolineato dal fatto che l’uomo è solito chiamare la giovane«il mio ragazzetto». Poi è Lu’ ad assumere in misura sempre cre-scente un ruolo di guida, ponendo Carlo di fronte a quella gelosiae a quella rabbia represse, che egli era solito nascondere a sé e aglialtri dietro la cortina fumogena di un sistema di pensiero tuttoimprontato sulla razionalità. È Lu’, dunque, il termometro di questamalata catena amorosa, da cui sarà alla fine in grado di sganciarsi.

Ricordiamo, a tal proposito, questo dialogo drammatico tra idue. L’uomo è furioso. Afferra per i capelli la ragazza, che in modoirridente ha fatto scatenare quella gelosia mai ammessa, parlandocontinuamente – nonostante i ripetuti inviti dell’uomo a smetterla –delle qualità fisiche di ragazzi come quello di Silvia («Sei noioso.Vecchio e noioso. Mi annoi. [Quei ragazzi] sono atletici, bellissimi,muscolosi, balestrati. Mi piacerebbe moltissimo conoscerne uno. Vabene?»):

Lu’ (piangendo) – Le tue parole mi fanno schifo. Non dicono niente.Nascondono soltanto. Stai zitto! Mi fai paura. Lasciami stare. Mi faischifo.Carlo – Allora, perché non mi spieghi? Dove sbaglio? Dimmi, spie-gami. Qui non è solo questione del tuo carattere ma della tua edu-cazione. Voi ve ne fottete delle parole.Lu’ – Voi chi?Carlo – Quelli della tua età. Voi non sapete ascoltare, parlare néarticolare un discorso.Lu’ – Non ti ascolto. Sono paralizzata. Mi fanno paura i tuoi gesti.Sono trattenuti, avari, sempre più controllati. Non mi bastano leparole per la confusione che ho. Io ho paura! E poi mi sento solaperché non riesco più a stare dalla tua parte. Non sono più il tuoragazzetto.

Totalmente invisibile è il personaggio del ragazzo, motore ignarodella tragedia. Nell’epilogo del romanzo Filippo durante il proces-so, fissa negli occhi «il demone della nostra vita», seduto sul bancodegli imputati, che si mostra come un «ragazzo qualunque delgenerone romano, circondato di parenti romani, bacchettoni epapalini, smarrito», «senza alcuna luce in volto che potesse in qual-che modo illuminarmi sulla passione di Silvia» (pp. 229-230). Quin-di, apprendiamo della nuova famiglia che egli ha formato conPaloma, da cui ha avuto due bambini.

Martone non concede lieto fine al suo protagonista. Il film si

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arresta con la sequenza dell’obitorio e del riconoscimento del corpodi Silvia.

Luci al neon gelide. Sottofondo musicale costituito dalla Roméo eJuliette di Berlioz. La colonna sonora non ha qui la semplice funzio-ne di sottolineare la drammaticità dell’evento, ma quella di stabilireun rapporto intertestuale con il romanzo di Parise, a richiamarequel «io avevo trovato Giulietta e il suo corpo nudo, verdastro emartoriato era lì davanti a me» (p. 228). Carlo è fermo davanti alcorpo della moglie. Poi apre la cella accanto, contrassegnata dallalettera ‘A’, che nei Sillabari riunisce i racconti Affetto, Amicizia, Amo-re, Allegria, Altri, Anima, i più solari della raccolta. La spalanca, tirafuori il carrello e scopre che è vuoto. Ora per Carlo c’è solo il buio.

Vito Santoro

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In questo numero:

ROMANO MANESCALCHI CATONE IN DANTE

CORRADO CONFALONIERI L’UOMO-PIANTA NELLA LETTERATURAITALIANA

CESARE GRISI IL ROMANZO AUTOBIOGRAFICO

DOMENICO MEZZINA GUIDO MORSELLI

VITO SANTORO GOFFREDO PARISE

TOBIA R. TOSCANO MASUCCIO SALERNITANO

ROBERTA FAVIA ITALO CALVINO

PASQUALE TUSCANO CARLA MOCAVERO

RAFFAELE CAVALLUZZI SCRITTURE PER IL CINEMA

ROBERTO SALSANO SERGIO CAMPAILLA

AURELIO BENEVENTO ROBERTO SAVIANO

ANNO XXXVI FASC. III N. 140/2008

Direzione e redazione: Prof. Raffaele Giglio - 80013 Casalnuovo di Napoli, via Be-nevento 117 - Tel. 081.842.16.93; e-mail: [email protected]

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Comitato direttivo: Guido Baldassarri / Giorgio Bàrberi Squarotti / Andrea Battistini /Arnaldo Di Benedetto / Nicola De Blasi / Valeria Giannantonio / Pietro Gibellini /Raffaele Giglio / Giorgio Luti / Gianni Oliva / Matteo Palumbo / Francesco Tateo /Tobia R. Toscano / Donato Valli.

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Stampa: Arti Grafiche Solimene - Casoria (Napoli)

Finito di stampare il 26 settembre 2008

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