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Q uesta isola, galleggiante su acqua di fiume come un iceberg di diamante, chiamatela New York, chiamatela come vi pare: il nome non importa poiché, arrivando dalla maggiore realtà dell’altrove, uno va alla ricerca soltanto di una città, di un posto dove nascondersi, dove smarrire o scoprire se stesso, per fabbricare un sogno all’interno del quale dimostrare che, dopo tutto, non sei il brutto anatroccolo, ma un essere meraviglioso e degno di essere amato. Truman Capote In un pomeriggio di dicembre con lo sguardo abbagliato seguo la sua skyline, seduto su una panchina davanti al ponte di Brooklyn. Non so cosa mi stia succedendo. All’improvviso mi ritrovo, dopo anni di strade percorse, a fare i conti con una città. Io e lei faccia a faccia. Io presuntuoso esperto viaggiatore e lei superba metropoli che mi conduce sulla strada delle riflessioni. Riavvolgo il nastro dei miei chilometri, dei miei viaggi e mi accorgo per la prima volta che tutto è ormai avvolto nel ricordo. Che tutto è già passato. La memoria con straordinaria e affascinante chiarezza mi riporta in orizzonti lontani, ma di fronte a qualcosa di così inspiegabilmente potente, il cuore cede. No. Non è possibile che una vita di avventure, di emozioni vissute, di incontri, di persone e di luoghi che hanno saputo suscitare in me il fascino del lontano, ora arretrino per un sentimento nuovo. Con calamitante insistenza New York mi chiede di guardarla e mi impone di vivere adesso la sua affascinante seduzione. Guardo il cielo incendiarsi, il sole riflettersi in milioni di specchi sulle torri di vetro, la Statua della Libertà solennemente salutare in lontananza il giorno che va. I raggi sono lance che s’incuneano tra i grattacieli, i gabbiani sfilano davanti ai miei occhi mentre avvolgo il mio foulard per proteggermi dal vento. Lascio andare i miei pensieri erranti e godo il momento di gente che affretta il passo, di ombre sciamanti che si disperdono nella sera. Sento il desiderio irrefrenabile di un abbraccio, immenso, senza limiti. New York mi arrendo. Magica e seducente stai usando l’arma della magnificenza. E io comprendo cosa mi sta succedendo. Scopro di amarti. E sprofondo in un oceano di suggestione, affogo definitivamente con lo sguardo aggrappato alle stelle nella tua skyline. Consegno il mio passaporto al doganiere. Mi sorride. Mi invita a guardare la webcam per la foto e mi prende le impronte digitali. Da chi sono alloggiato a New York, perché sono venuto e che lavoro faccio in Italia. “Queens, Holiday, teacher”. Si sofferma sui miei visti africani. Suo nonno veniva dal Kenya. “As the great president Obama” con un ruffiano ma sincero: “And I love Africa!”, un “Merry Christmas” reciproco e sono della Grande Mela. Subito percepisco che New York non è solo un Testo di Agostino Falconetti Foto di Fabrizio Bava RACCONTI DI VIAGGIO | Stati Uniti d’America Schegge di te: orizzonti newyorkesi Da un New York Express Dicembre 2015 gruppo Falconetti

Da un New York Express Dicembre 2015 gruppo Falconetti · Q uesta isola, galleggiante su acqua di fiume . come un iceberg di diamante, chiamatela New York, chiamatela come vi . pare:

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Questa isola, galleggiante su acqua di fiume come un iceberg di diamante, chiamatela New York, chiamatela come vi

pare: il nome non importa poiché, arrivando dalla maggiore realtà dell’altrove, uno va alla ricerca soltanto di una città, di un posto dove nascondersi, dove smarrire o scoprire se stesso, per fabbricare un sogno all’interno del quale dimostrare che, dopo tutto, non sei il brutto anatroccolo, ma un essere meraviglioso e degno di essere amato.Truman Capote

In un pomeriggio di dicembre con lo sguardo abbagliato seguo la sua skyline, seduto su una panchina davanti al ponte di Brooklyn. Non so cosa mi stia succedendo. All’improvviso mi ritrovo, dopo anni di strade percorse, a fare i conti con una città. Io e lei faccia a faccia. Io presuntuoso esperto viaggiatore e lei superba metropoli che mi conduce sulla strada delle riflessioni. Riavvolgo il nastro dei miei chilometri, dei miei viaggi e mi accorgo per la prima volta che tutto è ormai avvolto nel ricordo. Che tutto è già passato. La memoria con straordinaria e affascinante chiarezza mi riporta in orizzonti lontani, ma di fronte a qualcosa di così inspiegabilmente potente, il cuore cede.No. Non è possibile che una vita di avventure, di emozioni vissute, di incontri, di persone e di luoghi che hanno saputo suscitare in me il fascino del lontano, ora arretrino per un sentimento nuovo.

Con calamitante insistenza New York mi chiede di guardarla e mi impone di vivere adesso la sua affascinante seduzione. Guardo il cielo incendiarsi, il sole riflettersi in milioni di specchi sulle torri di vetro, la Statua della Libertà solennemente salutare in lontananza il giorno che va. I raggi sono lance che s’incuneano tra i grattacieli, i gabbiani sfilano davanti ai miei occhi mentre avvolgo il mio foulard per proteggermi dal vento. Lascio andare i miei pensieri erranti e godo il momento di gente che affretta il passo, di ombre sciamanti che si disperdono nella sera.Sento il desiderio irrefrenabile di un abbraccio, immenso, senza limiti. New York mi arrendo. Magica e seducente stai usando l’arma della magnificenza. E io comprendo cosa mi sta succedendo. Scopro di amarti. E sprofondo in un oceano di suggestione, affogo definitivamente con lo sguardo aggrappato alle stelle nella tua skyline.

Consegno il mio passaporto al doganiere. Mi sorride. Mi invita a guardare la webcam per la foto e mi prende le impronte digitali. Da chi sono alloggiato a New York, perché sono venuto e che lavoro faccio in Italia. “Queens, Holiday, teacher”. Si sofferma sui miei visti africani. Suo nonno veniva dal Kenya. “As the great president Obama” con un ruffiano ma sincero: “And I love Africa!”, un “Merry Christmas” reciproco e sono della Grande Mela.

Subito percepisco che New York non è solo un

Testo di Agostino FalconettiFoto di Fabrizio Bava

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Schegge di te: orizzontinewyorkesi

Da un New York Express Dicembre 2015 gruppo Falconetti

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New York - Hudson

impasto di luoghi. Un primo incontro e lei mi rivela che sono le persone che danno corpo alla sua anima. La City di chi ci vive e di chi da tempo desiderava conoscerla e viverla. E New York è lì per tutti. Ti ha già visto e ti immerge rapida nella sua atmosfera. Fermo un pulmino della Manhattan Transfer per un passaggio dal New Jersey al Queens dove siamo alloggiati. Manhattan Transfer e mi suona nelle orecchie “Birdland” quando chiedo al driver il prezzo del noleggio. Avverte senza esitazione il mio accento latino e vira immediato dall’inglese allo spagnolo perché New York è così.Ti sente arrivare.

Ci ritroviamo in coda al tunnel di Lincoln, mentre Manhattan comincia ad arte ad accendere le prime luci che affrontano il buio per salutare il giorno. Un susseguirsi emozionale in cui disperdi la malinconia delle giornate corte di inverno. Come un’ eclissi di sole, e le luci si accendono, una dopo l’altra in successione, luminose, colorate, tante, tante, tantissime. Il quadro si compone rapidamente, geometrie artistiche ben definite proiettate verso il cielo e riflesse nel mare. Un inaspettato regalo della sera alla mia meraviglia di bambino che dilata gli occhi sempre più spalancati e alla mia consapevolezza di adulto che lo mira come un miracolo dell’uomo.

E mentre il giorno si chiude, i sensi mi avvertono che una parte di me sta lasciando il passato alle spalle e che punta dritto al futuro. New York mi ha visto entrare, mi ha decifrato con l’esperienza di chi osserva scorrere la vita degli spiriti ospitati e mi ha aperto le sue strade. Sono dentro. Ora si va. E come diceva Frank Sinatra: “I wanna be a part of New York”.

Breakfast dalle 6.00 alle 11.00. “Tra poco mi danno anche lunch” penso da profano e mentre entro nella sala canticchio una vecchia canzone dei Supertramp: “Take a jumbo cross the water. Like to see America”.Breakfast in America. Appunto. E rido da solo.

Dalla quantità di cibo che mi si para davanti, intuisco immediatamente che sarà un pasto esperienziale. Quello centrale per gli Americani.Affronto con baldanza il salato. Piatto in mano e uova in rassegna: strapazzate, omelette o sode. Vada per le strapazzate. E ora? Bacon o salsiccia. Bacon. Più croccante e appetibile.Via coi carboidrati. Un tostapane a nastro sforna fette di toast, a raffica, pronte per essere spalmate con burro e marmellata. Per la prima volta in vita mia e dopo decenni di viaggi, fronteggio la macchina dei waffles. All’oscuro sull’utilizzo dell’aggeggio, osservo con attenzione replicante la corpulenta mamy davanti a me: spruzza uno spray vagamente oleoso, con rodata maestria pennella le due piastre, vi versa sopra una gialla pastella liquida, le richiude una sull’altra e fa partire il timer. Due minuti ed ecco

comparire i waffles, con il caratteristico aspetto a grata. Buoni, croccanti fuori e morbidi dentro. Ma inguardabili. Impiastricciati all’istante di miele, sciroppo d’acero e burro di arachidi. Io opterei per la marmellata di mirtilli, un’esperienza sensoriale più interessante, ma non proferisco verbo. Questo è un rito americano.Non è finita. Breakfast appunto dalle 6 alle 11. Su un’altra piastra i pancakes e a fianco delle ciambelline, i bagels, morbide all’interno e croccanti fuori. Botta glicemica definitiva: i doughnuts, sempre ciambelle, ma in versione glassata, le preferite dai Simpson.Arrivo totalmente insalubre al succo. Parvenza di due sobri distributori. Parvenza. Ma se il succo d’arancia è facilmente riconoscibile, quello viola rossastro crea il dibattito e la discussione nel gruppo italiano:” Lamponi? Fragola? More?” Moriremo col dubbio insoluto. Nessuno assaggia.Sul fianco destro una fila di barattoli di latte. E poi il frigo degli yogurt. Improponibile cercare quello bianco intero, sono tutti coloratissimi e alla frutta. Però da accompagnare con un’ appetibile macedonia di frutta fresca, noci e granola. Alla fine mi appare l’inimmaginabile: i cereali. L’offerta è imbarazzante. Mai vista. Il paradiso della Kellogg’s. Fagottini di frumento integrale con ripieno al cioccolato, fibre, avena, uva sultanina, crusca, fiocchi di mais come se piovesse…E poi i corn flakes per bambini: rotondi, piccolini, ma soprattutto colorati di verde, giallo, arancione, rosso e rosa. Il Luna Park degli occhi.Raggiungo il mio tavolo, forse un po’ provato. “Sono proprio americani!” Nonostante ciò, mangio ignorando la semplice necessità di nutrirmi e riempio di mostarda con gesto risoluto al colesterolo una salsiccia che voglio assaggiare dopo le uova al bacon.Pancia piena, da sigillare con il caffè. Eccolo….

ma quale espresso! Un bibitone in un bicchierone. Si ripete la costante offerta multipla: forte, leggero, decaffeinato. La marca “Caffè Verona” mi illude di sapore di casa, ma il gusto acquoso mi riporta negli States. Poi lo zucchero: bianco, di canna, giallo… proviamolo? E’ uno zucchero alla vaniglia rivoltante…. mi viene il mal di testa. No problem,

nella civilissima New York, il caffè si butta nella pattumiera tutto insieme. Bicchiere, copri bicchiere, fascetta laterale di cartone per non scottarsi e cucchiaino di legno.

E’ già mattina a New York. Una nuova giornata di cammino mi aspetta. Usciamo in gruppo e ci avviamo verso la metropolitana. E’ da poco che giriamo nella Grande Mela, ma già lei ci ha ambientati. Ai binari della subway, allineati con la tazza del caffè in mano, aspettiamo il treno per downtown. Anche noi onestamente abbiamo adottato questa abitudine a stelle e strisce. E passiamo inosservati. Ma lei ci vede. E ci trova adeguati.

La metropolitana di New York mi fa impazzire. Già ai tornelli mi verrebbe voglia di entrare saltandoli via come Michael Jackson nel video di “Bad”. Invece da bravi ospiti ci mettiamo in coda e acquistiamo il biglietto settimanale. Impariamo subito che, se sbagliamo a timbrare il biglietto, per un quarto d’ora non puoi più rientrare, ma c’è il maniglione antipanico che ti può aprire l’ingresso…..anzi il guardiano gentile ha già capito tutto e con un sorriso ci dice “Please, enter here”. Orientarsi all’inizio è un problema, ma una volta capito il giochino Downtown e Uptown la direzione diventa chiara. Poi bisogna capire la differenza tra local ed express. Poi arrivano le vetture con in bella mostra la bandiera americana, ma non hai ancora capito se il colore della linea è quello giusto per andare dove vuoi. Aspetti il prossimo treno e ti accorgi che avevi ragione, perché era proprio quello che dovevi prendere. E sali sentendo un familiare annuncio che tradotto letteralmente dice: “Tenere pulita la zona delle porte”. Ti guardi intorno, per vedere la mappa, il display e dove devi scendere, ti occorrono in due minuti, il tempo di trovarti già alla fermata successiva. Occhio, se ti incanti, come è successo a noi, sei già oltre e devi tornare indietro da uptown a downtown.In breve si diventa bravissimi e al volo, senza esitazione, passi da Harlem a Brooklyn, con la disinvoltura dei guerrieri della notte.Capiamo subito che tutti i treni passano da Gran Central. Da lì vai dappertutto. Lì arrivano i pendolari dal Connecticut e dal New Jersey che vanno ad occupare quotidianamente gli uffici di Manatthan. Lì si riversano i vanitosi turisti italiani, (ma quanti siete?) diretti nella centralissima 5th Avenue a farsi la foto davanti alla vetrina di Tiffany per poi postarla su tutti i social scrivendo sotto: “Ciao invidiosi!”. Nel grande atrio del metrò forse per la prima volta New York mi appare in affanno. Persone di diversa religione, razza e cultura fuggono veloci verso le loro destinazioni, accomunate dalla fretta.

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New York - Ponte Brooklyn, ragazze

Fretta che non ho notato una sera quando di fronte a me si è seduta una dolce violinista orientale, dal viso di ceramica e cuffiette sulle orecchie. Posato il violino a terra, chiudeva gli occhi e ripassando a memoria lo spartito, mimava il gesto di suonare, spoglia di ogni barriera e di ogni pudore, mentre la metrò sferragliava sui binari. Il suo viso e la sua espressione erano quelli di chi aveva il comportamento più naturale del mondo.O la gigantesca Drag Queen, salita una notte mentre tornavamo da Brooklyn, dopo aver assistito ad uno spettacolo di musica funky e fuochi d’artificio a Prospect Park. Era vestita di rosso in lungo, truccatissima con parrucca e unghie laccate. Accanto a lei un giovane ragazzo che le accarezzava la mano, mentre le penne di un uccello colorato sventolavano sul suo pacchiano cappello. Anche per lei era una situazione normalissima, si muoveva senza preoccuparsi di come gli altri la guardavano, e noi inebetiti a osservare questo fenomeno.O i folcloristici chitarristi di flamenco, il decadente tenore, la cinese che parlava al telefono in spagnolo accanto a me, le due ragazze che amorevolmente si tenevano per mano, i poliziotti che si davano un cinque, i pompieri che andavano al lavoro, i due anziani di colore che ridevano come matti, gli hipster con i pantaloni poco sopra la caviglia, il giocatore di basket con la borsa, ricurvo perché toccava sotto, la gang di ragazzini con gli skate, un gruppo di ragazze brasiliane ubriache che cantavano “Mas que nada” e una tenera ragazza fragile che, raccolta su se stessa, stava piangendo con gli occhi socchiusi, perduta in una irraggiungibile solitudine. Sentimenti di mondo o un mondo di sentimenti. Il vagone della metropolitana li raccoglie tutti insieme nel suo palcoscenico. Un contenitore di storie nel quotidiano viaggio della realtà dove si gioca a resistere per dare un senso all’esistenza.

Time Square mi interessa già solo per Jack Kerouac. “I was back on Times Square” scrisse in “On the road” dopo aver viaggiato per migliaia di chilometri.

Esco dalla metropolitana ed entro in Times Square. Un immenso video di “The Lion King”, lo spettacolo di Broadway al momento più in voga, sold out da mesi, poi l’incrocio con la Seventh Avenue ed entro nell’Hard Rock Caffè.Ho prenotato la cena da Bubba Gump. Nell’attesa passo il tempo a guardare la chitarra di Paul Mc Cartney. Riflesso nel vetro ho un flash back ravvicinato. Beatles. Questa mattina sono passato davanti al Dakota, l’ultima residenza di John Lennon nell’Upper West Side di Manatthan. Ho percorso il marciapiede che porta a Central Park. Mi sono guardato intorno. Mi sono ricordato che qui, proprio qui, John Lennon viene fermato da un fun per un autografo sulla copertina dell’album “Double fantasy”. Si chiama David Chapman e sarà il suo assassino.La mia memoria richiama immediatamente dal proprio archivio le più belle canzoni, mentre mi avvio lentamente a piedi verso “Strawberry Field”. Ripenso alle parole monumentali di “Imagine” e guardo le nuvole passare veloci. Sono le nuvole dei sognatori, di quelli come John Lennon che hanno una visione di un mondo che è un’utopia per i più, in cui però bisogna continuare a credere. Guardo i miei piedi sul selciato e penso al grande pacifista che l’ha calpestato. Una sottile malinconia mi accompagna per i sentieri di Central Park fino alla scritta “Imagine”, un titolo che sa di speranza: l’ultima a morire. Esco dall’Hard Rock Caffè. Mi immergo tra la folla di Times Square. Taxi gialli, gli immensi simboli di New York, cartelloni pubblicitari che esibiscono il loro gigantismo, luci seducenti, breaking news, titoli dell’ultimo telegiornale, presentatori su schermi giganti e il can can di Broadway. Il modernismo seducente di New York. L’atmosfera elettrizzante del magnete che attira gente da tutto il mondo. “That’s America”. Come ce l’hanno raccontata nell’immaginario collettivo. Anzi di più. Il crocevia del mondo.

Il Dropping Ball. Tutto è pronto per il celebre spettacolo di fine anno. Un’enorme palla di cristallo luminescente per migliaia di led scenderà dalla terrazza del tetto del vecchio grattacielo del Times con una miriade di coriandoli sul milione di persone che festeggiano l’arrivo del nuovo anno. Un’emozione che non puoi perdere se sei qui, a Time Square, il 31 dicembre.Sono inseguito da venditori di biglietti di ogni tipo, dallo spettacolo al museo, dai giri panoramici ai bus per turisti. Poi gli odori dello street food, cibi cinesi, pizza, hot dogs, somozas indiane, waffel dal Belgio, patatine olandesi, breezel tedeschi, fish and chips, tapas, sushi e bistrò. Passeggio senza afferrare veramente il senso di ciò che c’è da vedere, tanto è infinita l’offerta di mondo e di persone. New York è crogiolo di ciò che siamo diventati. Un ventre globale pulsante.

E poi i saldi. Un’ordinata infinita linea di civilissime persone in fila per lo shopping. Sono finito in un tempio, il tempio della religione del denaro. Mi

sorprendo. Qui tutto viene ostentato in un’apoteosi di eccessi. Ma Times Square è così, eccentrica e sopra le righe. Ti lascia stordito per il suo sfavillio, non ti affascina, ma ti stordisce. Ma devi, come tutte lo cose, viverle per capire a fondo il loro senso. Il diverso va sempre sperimentato per essere giudicato. Tra poco New York suonerà per tutti noi, folla di ogni ceto e provenienza, gli “One direction e Micael Bubblè. La City festeggerà con i suoi ospiti l’arrivo dell’anno nuovo. Il grande rito collettivo che rende omaggio a ciò che verrà. Il ventre pulsante di futuro non può non onorarlo.

Il viaggio è un susseguirsi di spinte emotive. E’ voglia di scoprire, di conoscere, di emozionarsi. E’ il desiderio di vedere per capire. Capire l’undici settembre. Essere fisicamente nel punto dove due grattacieli attaccati dal cielo sono esplosi inghiottendo tremila vite. Essere lì, in quel punto visto e vissuto da tutti in diretta, impresso nella memoria collettiva. Indelebilmente, quando in tutte le tv del mondo passavano immagini che sembravano irreali.Il più letale attacco terroristico mai compiuto sul suolo americano.Sembra scontato il mio pensiero mentre sulla metropolitana mi dirigo verso la fermata nel Financial District che porta a Ground Zero: “Non è necessario costruire un Museo per rendere incancellabile un ricordo del genere”.Ma visitare a Ground Zero non ha nulla di prevedibile.E’ complicato spiegare cosa avvertono i miei sensi già prima di entrare in quello spazio tragicamente vuoto, in quell’empty sky cantato subito dopo la

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tragedia da Bruce Springsteen. Sento il silenzio. Il cielo pulitissimo senza nuvole sembra preparare una solenne accoglienza. Mentre ti avvicini a Ground Zero l’attesa ti fa vibrare e le voci di New York si attutiscono lentamente. Passi davanti alla caserma dei pompieri con lo sguardo che dedichi agli eroi. Uscito da Liberty Street appare Ground Zero. Di colpo la frenetica Wall Street scompare.Avverto un’atmosfera surreale. Entro nella piazza tra le quattrocento querce bianche, piantate a ricordo dei quattrocento pompieri e soccorritori morti nel compimento del loro dovere. I rami sembrano braccia protese verso il cielo. Sono leggermente scossi dal vento, ma non c’è alcun rumore se non un leggero fruscio. A Ground Zero ho sentito anche gli alberi pregare.Il cuore si ferma davanti all’albero dei sopravvissuti, quell’albero di pere che ridotto ad un tronco di poco più di due metri è stato trovato dagli operai tra le macerie e ora vive protetto come un fratello dalle sorelle querce.Già da lontano si sente uno struggente rumore di acqua che scorre lentamente, e più ti avvicini più lo avverti. Centinaia di ruscelli confluiscono in un torrente dove tutto si confonde e finisce nelle due sterminate vasche a specchio sorte nello spazio originario delle torri gemelle. Mi affaccio alla prima vasca per capire quella la cascata che si inabissa nel vuoto . Poi mi avvio verso l’altra. Le Memorial Pools sono un impressionante, commovente simbolo di speranza e di nuova vita.Intorno alle vasche si ergono i pannelli di bronzo con incisi i nomi delle quasi tremila vittime. Un tributo alla memoria di chi ha perso la vita quel giorno. Un’emozione di solennità.Un fiore bianco viene posto accanto ai nomi amati nel giorno del compleanno. Ora colgo il senso della memoria. Ogni vittima ha una sua storia che non sarà mai dimenticata e che insieme alle altre storie trasmette il senso di unità che questo luogo trasmette. La storia di ciascuno diventa storia collettiva in un toccante senso di comunità.Rimango a riflettere. Chiudo gli occhi e immagino per un attimo cosa sia accaduto qui quel giorno. Un frastuono assordante, un boato, vetri che esplodono, urla di persone intrappolate, fazzoletti sventolati dalle finestre. Esseri umani nel vuoto.Riapro gli occhi. La cascata ti scava dentro. Non sento alcuna voce. Anche i bambini parlano piano come passeggiassero in un tempio solenne a cielo aperto. Fatto di raccoglimento e preghiera. Passa un aereo nel cielo. Un brivido.La sagoma alata sembra uno spettro che scompare dietro all’imponente One World Trade Center che sovrasta la piazza. Il grattacielo è alto simbolicamente 1776 piedi, come l’anno della indipendenza americana , con 104 piani ed è stato costruito con le stesse misure della base delle torri gemelle.Da qui si scende nel museo, giù verso quelle che erano le fondamenta delle Twin Towers. Simbolica sensazione di una dantesca discesa negli inferi. Ti

accoglie sul fondo un verso dall’Eneide di Virgilio che cerca di dare un senso a questo immenso spazio: “Nessuno potrà cancellarvi dalla memoria del tempo”.Accanto due piloni portanti alti venti metri che facevano parte della torre nord, enormi colonne di metallo che sembrano forchette arrugginite,

ma che fissano la misura della catastrofe. Mi aggiro intorno a questi due pilastri, gli unici ad essere rimasti in piedi. Mi fermo con lo sguardo su un’agghiacciante scritta incisa sull’acciaio: Help.L’idea dell’inferno, ecco la direzione dei miei pensieri passando davanti all’ultima colonna rimossa. E’

interamente ricoperta di messaggi dei parenti che cercavano notizie dei loro cari, di foto e di ricordi dei soccorritori che per mesi hanno scavato tra le macerie. Un inferno come quello che dovettero affrontare i pompieri, testimoniato dal loro camion carbonizzato dal fuoco quando arrivarono sulla scena. E poi la “scala dei sopravvissuti”, quei trentotto scalini di Vesey Street che hanno salvato dalla morte centinaia di uomini e donne che ne hanno trovato lì la loro via di fuga.Si cammina attoniti. Voci delle tv di tutto il mondo che raccontano quei momenti, voci delle chiamate ai pompieri, voci registrate in diretta, voci disperate unite in un mixaggio che nella penombra ti arrivano violente come un pugno nello stomaco. Foto, video, ricostruzioni, registrazioni audio: la tecnologia al servizio della memoria. Scrivo su una lavagna interattiva: ”We will never forget” from Verona e su un megaschermo appare un emisfero con la mia frase che si va formando sulla mia città…..nello stesso momento un’ondata di altri pensieri appare su Mosca, Città del Capo, Santiago, Londra, Vienna. Sulla città del visitatore che come me lascia un pensiero. Effetti personali che testimoniano con grande

efficacia e ti fanno pensare, riflettere e rivivere l’inferno che queste persone di oltre novanta nazionalità hanno vissuto.Un ultimo sguardo, prima di uscire, al bassorilievo di metallo posto lungo il muro dedicato ai pompieri: “May we never forget”, la memoria deve essere rinforzata.Ricordare, in memoria, non dimenticare quello che è accaduto. Tutto martella la mia mente con queste parole mentre esco.E’ così viaggiatore. Sotto i tuoi piedi ora non c’è la polvere che ami, ma un pavimento che ha visto tanto sangue scorrere, nell’orizzonte non ci son gli alberi maestosi, ma una grande torre rimessa in piedi dall’uomo con il proprio orgoglio di rinascita.Gli sguardi di chi c’è adesso non trasmettono più rassegnazione, ti dicono che uniti si torna ancora in piedi.Viaggiatore che pensavi di vedere un luogo, che pensavi di guardare una piazza e un museo, ti sei sbagliato.Ground Zero si è aperto e tirandoti dentro ti ha visitato lui l’anima.E tu hai ceduto commovendoti. L’immenso sfregio lasciato dal terrore sulla città ti ha accolto e ti ha fatto capire che nella gigantesca voragine di Manhatthan la storia non si è fermata quel giorno.Ma quel giorno di settembre ti resterà segnato dentro per sempre.Viaggiatore che sei sceso nella cicatrice di Ground Zero,ora che ne sei uscito hai anche tu la tua cicatrice nell’anima.

Cibi, sguardi, colori, relazioni, parole e accenti, tradizioni e modi di pensare. Tutto vive in equilibrio in questo melting pot, un caleidoscopico calderone di convivenze diverse. E girare liberamente per New York e scoprire di

New York - Memorial 11 settembe

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amare il suo crogiolo multietnico in cui tutto viaggia quotidianamente veloce, ma in armonia, è ora il mio senso dell’andare.

Mi piace trovarmi qui dove tutto corre in modo organizzato e civile, dove c’è qualsiasi cosa io desideri, e l’offerta culturale, musicale, artistica sono semplicemente immense.New York è un luogo dove vibrano infinite connessioni e questo ti trasmette una palpabile energia e il senso di essere al centro del mondo. E allora mi lascio andare. Mi abbandono alle suggestioni, preda della curiosità e della fame di vedere. New York mi accoglie nel suo grembo e mi fa capire che l’altrove sognato non deluderà le mie aspettative dell’immaginario.

Esco così da Wall Street, dopo aver lasciato senza rimpianto la fila di turisti in coda per toccare le palle portafortuna del grande toro di bronzo, e seguo una di quelle vie dove si infila e si moltiplica il vento tra i grattacieli, dando al tempo il piacere della scoperta.

Mi ritrovo lungo il fiume Hudson in un freddo giorno di gennaio a guardare il panorama di Brooklyn da una panchina. Pare quella di Woody Allen nel film “Manhattan” e mi risuona nel pensiero la sua appassionata dichiarazione d’amore a New York: “Questa è davvero una grande città, non importa cosa dicono gli altri”.Già una grande città, e io in questo affascinante quadro creato dall’uomo avverto un’onnipresente poesia che lo permea dall’interno rinfrangendosi su chi lo ammira. Provare la stessa sensazione evocata dalla frase di un attore osservando la stessa realtà, anche questo è viaggiare, anche questo è fermarsi a riflettere e sentirsi privilegiati.

New York è una città in cui il cinema è protagonista. Ogni angolo porta la mente al ricordo di una scena, a un momento già vissuto davanti allo schermo, perché Lei è un grande set cinematografico. Rivedo la stradina di Brooklyn col grande pilone del ponte alle spalle degli edifici dove camminava Robert De Niro in “C’era una volta in America” di Sergio Leone. Un tuffo nel tempo della memoria, calpestando quel suolo e rivivendo atmosfere del passato con dolce nostalgia.

La stessa sera andiamo a cena a Little Italy. Scendiamo alla fermata della metropolitana e attraversiamo Chinatown, tra anatre laccate e profumi indescrivibili. Riconosciamo il quartiere italiano dalle gelaterie, dai negozi di parmigiano, mozzarella e dalle trattorie con le tovaglie a scacchi bianchi e rossi. Un ragazzo napoletano ci tira dentro al suo ristorante con il calore e la simpatica insistenza partenopea. Mangiamo solo una pizza con un sottofondo di Pino Daniele e già qualcosa ti si muove nel cuore.“Io per lei ho due occhi da bambino, se sei tu il mio destino allora portami via.” Ma il conto ci risveglia. E’ caro.

Sotto la scritta Little Italy, tipo luminaria, passeggio e penso a quanta nostalgia e a quante lacrime hanno visto questi mattoni rossi. Quanti gangster sono “stati sparati” in questi locali. Rivedo nitido il volto di Marlon Brando nel Padrino nell’indimenticabile: “Gli farò un’offerta che non potrà rifiutare” . Sensazioni di una Sicilia distante nello spazio e nel tempo, storie di immigrati, di lacrime e amore, di destini e racconti lontani che mi riconducono in parte a me stesso e ai miei ricordi. Nel tornare in direzione Soho c’è un locale che odora di losco. Mi verrebbe voglia di entrare e di ordinare una birra Brooklyn alla spina, di sedermi al banco e di guardare la gente. Sicuramente lì incontrerei i Soprano.

Non ho parole per descrivere il Museo americano di storia naturale. Soprattutto quando arrivi nell’incredibile piano dedicato all’evoluzione dei vertebrati. Gigantesche ricostruzioni di dinosauri ti fanno sentire piccolo nelle dimensioni e nella storia. La testimonianza di questi fossili ti ricolloca nel tuo essere un battito d’ali di farfalla nel flusso del divenire. La ricostruzione è perfetta e ho colto visi perduti di bambini davanti al Tirannosauro che avevano visto nel film in cui Ben Stiller interpretava il guardiano notturno in “Notte al museo”. La magia del film dall’immaginario al reale. L’incanto di questi bambini davanti ad un dinosauro mi regala un sorriso che mi porto a casa. Vorrei planare tanto nella loro fantasia.

Dal Museo di storia naturale che si trova in Upper West Side, ci si avvia per Central Park,non ci sono le foglie rosse di “Autumn in New York” con Richard Gere e Winona Ryder” ma l’atmosfera è comunque intrigantemente romantica. Passiamo davanti al laghetto del giovane Holden. C’è una domanda che molte generazioni di lettori hanno condiviso, ormai celebre. Nel romanzo di J.D. Salinger, “Il giovane Holden” il protagonista si chiede: «Io abito a New York, e pensavo al laghetto di Central Park, ma dove vanno le anatre quando il laghetto è ghiacciato?” “Le anatre non sono ancora volate via”. Così nelle tracce della mia memoria.E’ una metafora della vita. C’è chi sceglie i laghi ghiacciati per non apparire, ma per ricomparire più avanti.

Raggiungiamo la celebratissima 5th Avenue. Qui davanti all’Apple store si radunano i giovani di tutto il mondo stregati dalla mela di Steve Jobs. Le turiste, definibili mature, invece sono lì a fianco, davanti alle vetrine della mitica gioielleria da “Tiffany”. Ognuno subisce i suoi incanti. Ma solo per una foto perché i gioielli in vendita sono fiabescamente inavvicinabili. Ecco, rivedo la sagoma principesca di Audrey Hepburn in occhiali scuri far colazione con un caffè davanti alla vetrina di Tiffany &Co.

Proseguiamo sempre nella 5th Avenue fino al

Rockfeller Center. Guardando verso l’alto intravedi luccicare le liane di ragnatela di Spiderman che si arrampica sul Faltiron Building e si lancia da un grattacielo all’altro. Saliamo sull’Empire State Building, grattacielo costruito con dieci milioni di mattoni, una tappa obbligatoria come la Statua della Libertà. Arrivi a toccare il cielo. Davanti a te il trionfo della skyline più bella del mondo. E dentro le tue sensazioni. Pensi alla paura della sfortunata biondina finita nelle grinfie di King Kong, all’indimenticabile commozione della scena d’amore tra Tom Hanks e Meg Ryan che qui si incontrano e si riconoscono in “Insonnia d’amore” nel giorno di San Valentino.E qui tanti anni prima Deborah Kerr sussurrò a Cary Grant in “Un amore splendido” parole assolutamente reali: “E’ il luogo più vicino al Paradiso che abbiamo a New York”.

Il tramonto si scioglie nella sera. Rimango nel mio silenzio a godere di questa suggestione di realtà, mentre la città indossa il suo mantello di luci e mi avvolge nelle sue tenebre pulsanti. Come cantava Christopher Cross nella colonna sonora del film “Arturo”: “Bisogna salire quassù per catturare quella magia tra la luna e New York”. E null’altro puoi fare se non innamorarti di Lei. Perdutamente.

New York - World trade centre