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DALLA LUNA ALLA TERRA 5 ECOFIABE PER UN PIANETA DA SALVARE FABRIZIO SILEI Illustrazioni dell’autore ECOFIABE 27/4/06 26-09-2006 16:39 Pagina 1

DALLA LUNA ALLA TERRA - classicistranieri.com · 2014. 8. 5. · falla raccontare!” lo rimproverò la sorellina AfraK3, “stai attento, piuttosto, ... un grande cruccio: quello

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  • DALLA LUNAALLA TERRA5 ECOFIABEPER UN PIANETA DA SALVARE

    FABRIZIO SILEI

    Illustrazioni dell’autore

    ECOFIABE 27/4/06 26-09-2006 16:39 Pagina 1

  • © 2005 Fabrizio Silei© 2006 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri

    Quest'opera è rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione-Noncommerciale-Non opere derivate. Per il testo integrale della licenza si veda:http://www.creativecommons.it/Licenze/LegalCode/by-nc-ndhttp://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/ (originale inglese)

    direttore editoriale: Marcello [email protected]

    Ecoalfabetocollana diretta da Stefano Carnazzi

    Grafica: Nicola Ventura

    Stampa: Graffiti – Roma

    Ecoalfabeto – i libri di GaiaPer leggere la natura, diffondere nuove idee, spunti inediti e originali. Spie-gare in modo accattivante, convincente. Offrire stimoli per la crescita perso-nale. Trattare i temi della consapevolezza, dell’educazione, della tutela dellasalute, del nuovo rapporto con gli animali e l’ambiente.

    i libri di

    Gaia Animali & Ambiente

    Le emissioni di CO2 conseguenti alla produzione di questo libro sono

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    Impatto Zero®

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  • Ai bambini della Terraperché non debbano mai fuggire sulla Luna

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  • Fabrizio Silei (Firenze, 1967) è autore e illustratore esperto dicomunicazione sociale. Negli anni ha insegnato all’università,scritto e pubblicato saggi e racconti su tematiche storiche e am-bientali. Da più di un decennio scrive fiabe e storie per ragaz-zi e bambini e realizza laboratori tematici nelle scuole.

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    Premessa

    Gli abitanti della Terra sono fuggiti sulla Luna dopo aver-la “fatta ammalare”, e da lì, generazione dopo generazio-ne, attendono che la Terra guarisca per tornarvi.

    Nel frattempo tutti si adoperano perché in seguito nonsi commettano gli stessi errori. Come? Raccontando del-le storie ai piccoli perché imparino a comportarsi beneuna volta tornati sulla Terra.

    In queste pagine una nonna, un giardiniere, un’inse-gnante, un nonno e un babbo raccontano la loro fiabaperché i bambini imparino a rispettare la natura e l’am-biente, e quindi soprattutto se stessi.

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  • Il giganteBarnabò

    “C’era una volta un gigante che si chiamava Bar-nabò”, disse la nonna VesuviaK2, e intanto con la testaracchiusa in un casco di vetro si tesseva una sciarpa spa-ziale con la sua macchinetta per la maglia computeriz-zata.

    “Uffa!” sbuffò il nipotino OlmoZ9 che sedeva scom-posto su un asteroide-poltrona lì vicino, “un’altra delletue solite vecchie storie di giganti. Non ne conosciqualcuna che parli di guerra o di robot spaziali?”

    “E stai un po’ zitto! A me piace ascoltare la nonna:falla raccontare!” lo rimproverò la sorellina AfraK3,“stai attento, piuttosto, che dalle storie della nonna c’èsempre da imparare!”

    E così la nonna, dondolandosi su una sedia inconsi-stente, fatta di onde di raggi Q, iniziò a narrare.

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    Da lontano i tre sembravano altrettante luccioled’argento con la testa di vetro e galleggiavano in un ma-re di stelle poco lontano dalla loro casa satellite. Unmorbido spazio di velluto blu avvolgeva i pianeti e inlontananza si poteva scorgere, azzurrina, la Terra. In-somma davvero una bella serata per ascoltare le fiabedella nonna nell’orto spaziale.

    “C’era una volta un gigante che abitava giù sulla Ter-ra” ripeté la nonna.

    “Oh, la Terra...” sospirò la bambina. Chissà comedoveva esser bella questa Terra in cui erano ambientatetutte le storie dei grandi, questa Terra di cui tutti parla-vano continuamente e che nessuno aveva mai visto.

    “Dove sei nata tu, nonna?” domandò per l’ennesimavolta il nipotino.

    “Non io,” rispose la nonna, “dove è nata la nonna dimia nonna di mia nonna di mia nonna... e dove ritor-neremo quando sarà guarita. Ma intanto ascoltate, im-parate e non interrompetemi più, che altrimenti miconfondo.

    Dicevo che...”

    “...C’era questo gigante che si chiamava Barnabò.Avreste dovuto vedere quanto era grande, alto e impo-nente. Ma a differenza dei suoi colleghi delle fiabe, Bar-nabò era un gigante moderno e come tale non abitava

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  • in un castello ma in un appartamento che da solo eragrande quanto tutto il resto della città.

    Questo gigante era molto ricco e tutti i soldi cheaveva gli venivano dalla facilità con cui riusciva a fare inun’ora ciò che mille uomini con ruspe e trattori avreb-bero fatto in dieci anni.

    Se c’era da fare una galleria, demolire una monta-gna, spostare un intero ponte da una parte all’altra del-la città, si chiamava Barnabò e in un battibaleno ognicosa era fatta. Ma chiamare Barnabò costava caro emolta era la paura che si arrabbiasse se si ritardava a pa-garlo, visto che con un soffio avrebbe potuto distrugge-re tutti i palazzi della città.

    Barnabò, come capita spesso alle persone molto ric-che, era anche molto sospettoso: sape-va di essere un po’ ingenuo e temevache tutti volessero derubarlo, così, seb-bene non fosse cattivo, preferiva starsenesempre da solo. Le poche volte che riu-sciva a parlare con qualcuno non facevaaltro che vantarsi tutto il tempo ren-dendosi subito insopportabile.

    “Possiedo più di tremila televiso-ri,” diceva, “che accatastati l’uno so-pra l’altro ne formano uno grandequanto uno stadio.”

    “Possiedo un forno più grande

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    di una grotta dove mi cucino pizze più larghe del Co-losseo.”

    A questi discorsi gli altri lo guardavano interdetti eal primo pretesto si allontanavano da lui.

    E tutto quanto Barnabò diceva di possedere lo pos-sedeva realmente; ma, nonostante tutti questi suoi ave-ri, il gigante – non sapeva neanche lui perché – avevaun grande cruccio: quello di non essere felice.

    Quando veniva preso da questo sconforto si guarda-va intorno e capiva di avere tutto, molto più di quantogli fosse necessario, ma lo stesso sentiva che gli manca-va qualcosa e non sapendo cosa, comprava ogni sorta dioggetti e mangiava a più non posso.

    In quei giorni, il gigante prendeva la sua moto, chesi era fatto costruire su misura in America e, adoperan-do una strada enorme che si era fatto apposta per sé tut-to intorno alla città, si recava in tutti i supermercati ein tutti i ristoranti.

    Quelli erano giorni tristi per i suoi concittadini,perché l’enorme rumorosissima moto di Barnabò fa-ceva un fracasso infernale, consumava tanta benzinae produceva un fumo nero che per ore assediava tut-ta la città rendendo l’aria irrespirabile, tingendo lecase di fuliggine e costringendo tutti a rimanere incasa.

    Le persone non potevano andare al lavoro e perde-vano giorni di paga, i bimbi non potevano uscire a gio-

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  • care e gli anziani dovevano restare a letto per paura dinon farcela a respirare.

    Ma nessuno osava dir nulla al gigante Barnabò pernon farlo arrabbiare.

    Una volta giunto al supermercato, Barnabò compe-rava tutte le più grandi assurdità, e mentre riempiva ilcesto della sua moto di frigoriferi con tritaghiaccio in-corporato, ciambelle alla nocciola, lavasciugastiratrici,detersivi millebolle contro le macchie più macchie,spremiagrumi per cocomeri, e di tante altre cose anco-ra, gli sembrava di sentirsi meglio.

    Ma quel benessere durava pochi istanti: una voltatornato a casa e svuotate le mastodontiche borse dellaspesa, tutto ciò che prima gli era sembrato fantastico gliappariva come inutile e piccolo.

    Si dava allora alla cucina e preso da una fa-me incontrollabile mangiava mille uova, tre-mila frittelle, duecento polli, fino a che, an-cora più grosso e pesante, cadeva esausto perterra in preda a un’insopportabile pesantez-za. In quei momenti la sua tristezza si face-va più grande e opprimente. E non solo lasua, ma anche quella della città, perché seBarnabò faceva benzina, la città rima-neva a corto di benzina per gior-ni; se faceva spesa mancava-no i generi alimentari; se

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  • andava nei ristoranti, questi chiudevano per scorteesaurite.

    Ma nessuno osava dir nulla al gigante Barnabò perpaura che questi si arrabbiasse con lui.

    Dopo quelle mangiate Barnabò sprofondava in unsonno greve e il suo russare faceva tremare tutte le ca-se del quartiere, poi si svegliava tutto sudato e si fa-ceva un bagno ristoratore. Per ore Barnabò rimanevasotto l’acqua e mentre la sua vasca smisurata si riem-piva si vuotavano i depositi della città e si seccavanoi fiumi.

    Anche d’inverno c’erano problemi, perché Barnabònel suo immenso camino bruciava boschi interi, ed es-sendo molto freddoloso, teneva sempre al massimo icinquecento termosifoni del suo appartamento.

    Un’estate particolarmente arida, la gente, presa dallasete, si mobilitò e tutta insieme si recò a protestare daBarnabò chiedendo che lui rinunciasse a quelle enormidocce e facesse due passi fino al mare per lavarsi.

    “L’acqua di mare è salata,” tuonò Barnabò, “mi sec-ca la pelle. L’acqua èdi tutti: così come voiavete diritto di farvi ilbagno, ho diritto an-ch’io. E quanto tem-po rimango sotto ladoccia è affar mio.”

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    “Ci faccia almeno il piacere di non usare troppi de-tersivi e troppi saponi, che qui intorno i fiumi sono tut-ti inquinati e c’è una morìa di pesci,” azzardò timida-mente il sindaco tremante.

    “Cosa?! Che c’entro io se vi muoiono i pesci! Smet-tete voi di lavarvi con il sapone, io ho la pelle delicata eal sapone non ci rinuncio!”

    E mentre urlava queste parole l’intera delegazionecittadina se l’era già data a gambe.

    Barnabò rimasto solo si sentiva ancor più misero edepresso.

    “Mi odiano,” diceva, “ce l’hanno con me perché sonogrosso: che colpa ne ho io? Io sono grosso ma sono uno,loro sono minuscoli ma sono tanti! Vengono da me a chie-dermi di rinunciare: che rinuncino loro e sarà lo stesso!”

    Il povero Barnabò non aveva tutti i torti, nella suamente da sempliciotto e adesso, sentendosi anche odia-to, faceva molte più spese e molte più docce. Alla finedi ogni pranzo e di ogni spesa prendeva tutti i rifiuti eriempiva un enorme sacco di lattine, cartone, bottiglie,involucri, mobili ed elettrodomestici che non volevapiù per far spazio ad altri e alla sua sete di comprare.Dopo, apriva la finestra e gettava il sacco sulla città col-pendo la discarica comunale che automaticamente siriempiva e straripava da ogni parte.

    Quando il sindaco e il consiglio comunale decisero dipromuovere la separazione e il riciclaggio dei rifiuti pres-

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    so la cittadinanza i risultati furono sorprendenti, ma nonabbastanza perché Barnabò non aderì alla campagna.

    La solita delegazione di cittadini guidata dal sindacodomandò a Barnabò di separare i suoi rifiuti come fa-cevano tutti, oppure nessuno gli avrebbe più chiestoaiuto per un ponte o un palazzo da costruire.

    “Poco male,” disse sdegnato Barnabò, “da quest’an-no vado in pensione con la supermassima perché hosempre pagato il contributo in proporzione al mio pe-so. E poi non riesco a separare quei foglietti piccoli pic-coli con le mie mani grandi.”

    Barnabò non solo non riusciva a separare i rifiuti pervia delle mani, ma anche, sempliciotto com’era, non ca-piva come fare.

    Non era cattivo e ci aveva provato, ma con quale ri-sultato!: le bottiglie di vetro le metteva con la carta per-ché avevano l’etichetta di carta, le gomme della motocon la plastica perché gli sembravano di plastica, le pi-le delle sue mille radio con le lattine perché pensava fos-sero di alluminio, i milioni di medicinali che compravaper curare l’ansia causata dalla sua tristezza e che poi la-sciava scadere li metteva con gli organici perché eranoroba che si mangia come i cavoli.

    Un po’ per pigrizia, un po’ perché si sbagliava, nonera mai riuscito a separare i rifiuti. Così quando i rifiu-ti erano aumentati e la gente aveva dovuto pagare piùtasse, tutti avevano preso ad odiarlo e a attribuire a lui

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    tutte le colpe: “Accidenti a Barnabò!” diceva la gente e,qualsiasi cosa succedesse, era sempre colpa di Barnabò.

    Adesso persino se pioveva si dava la colpa a Barnabò,e man mano che la città si inquinava anche a causa diBarnabò, della sua moto, delle sue spese e dei suoi rifiu-ti, cresceva l’odio della gente e con questo la tristezza delgigante e il suo bisogno di fare giri in moto, docce, pran-zi colossali e cresceva così anche la mole dei suoi rifiuti.

    Alla fine il sindaco mandò una lettera a Barnabò fir-mata da tutti i cittadini, nella quale lo si invitava a mo-dificare i suoi comportamenti nell’arco di dieci giorni oad abbandonare la città.

    In fondo alla lettera c’era anche scritto: ...inizi subi-to gettando questa lettera nel suo contenitore della car-ta che svuoterà nel cassonetto bianco o nella discaricaapposita.

    Barnabò si arrabbiò molto, ma sulla rabbia vinsero ladepressione e lo scoraggiamento. Certo avrebbe potutodistruggere la città per vendicarsi, ma poi avrebbe dovutoscappare, lo avrebbero rincorso con gli aeroplani sparan-dogli e poi dove sarebbe andato a far spese o a comperareda mangiare, e chi avrebbe pagato la sua pensione?

    Barnabò, così pensando, camminava sulla spiaggiagrigia e deserta e guardava d’intorno il mare inquinatoe scopriva per la prima volta in vita sua di aver bisognodegli altri, di quei piccoli uomini che lo temevano e cheadesso l’odiavano.

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  • Forse avevano ragione, forse era davvero colpa sua setutto d’intorno stava perdendo la sua bellezza, se la cittàera nera, se i rifiuti erano ovunque, se l’acqua era pocae imbevibile.

    Mentre era assorto in questi pensieri vide un gruppodi bambini che guardavano verso il mare e che non sierano accorti del suo arrivo a causa della sabbia che attu-tiva il rumore dei suoi passi. Poi guardò versò l’orizzontee vide un minuscolo pallone alla deriva nel mare. Manell’attimo in cui lo vide anche i bambini si accorsero dilui e iniziarono a scappare gridando: “Aiuto, aiuto, arri-va quello sporcatutto di Barnabò! Si salvi chi può!”

    Rattristato da quelle urla, Barnabò aveva abbassatogli occhi prima di vedere i fuggiaschi scomparire dietrodei cespugli. Poi li aveva rialzati e con sua somma sor-presa aveva visto una piccola bimba dalle trecce castaneche, con gli occhi ancora pieni di lacrime, anziché scap-pare, si dirigeva di corsa verso di lui:la gracile, fragile

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  • creaturina, lasciando piccole orme scuresulla distesa di sabbia grigia, avanzava fi-duciosa, quasi danzando, verso il gigante.

    Barnabò abbassò gli occhi e voltò la testadall’altra parte come un bimbo imbronciato.Pensò che la bimba disorientata stesse fug-gendo dalla parte sbagliata e volle fingere dinon vederla. Grande fu la sua sorpresaquando sentì qualcuno che lo tirava perla gamba dei pantaloni. Guardò di nuo-vo giù: ai piedi delle sue gambe alte quan-to palazzi c’era la piccola bambina dai ca-pelli castani che gli faceva segno di abbas-sarsi per parlare con lui.

    Il gigante si chinò, la bimba senza om-bra di timore si arrampicò sulla sua manoe disse: “Barnabò, o Barnabò, tu che seigrande e grosso, ti prego, ri-prendimi il pallone che miha rubato il mare!”

    Commosso da tantafiducia il gigantesorrise e si al-

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    lungò sull’oceano a oscurare il cielo pescando con lapunta delle dita la palla dalla superficie del mare.

    Poi depositò la piccola sfera, che fra le sue dita sem-brava un pisello, ai piedi della bambina.

    “Oh grazie Barnabò, tu sei molto buono, vuoi gio-care con noi?”

    Intanto gli altri bimbi nascosti fra i cespugli avevanovisto tutta la scena e cominciavano ad avvicinarsi.

    “Sì, gioca con noi, Barnabò, così il mare non si pren-derà più la palla,” disse il capo, che era un moretto.

    E giocarono davvero, per tutto il pomeriggio, Bar-nabò disteso sulla spiaggia calciava il pallone con l’in-dice e il medio come un giocatore di biglie e per la pri-ma volta in vita sua si sentiva felice.

    Barnabò e la banda dei bambini giocarono ancorainsieme il giorno dopo e quello ancora dopo, stetteroinsieme per giorni e giorni, parlarono e si divertirono.Il gigante era divenuto il loro amico e la loro protezio-ne, ma intanto i giorni passavano.

    A metà della settimana, Marco, uno dei bambini piùgrandi, sentì dire da sua madre che Barnabò sarebbedovuto andar via entro la fine della settimana e che fi-nalmente tutto sarebbe ritornato come un tempo: nonsarebbero mancate più l’acqua e la luce e nessunoavrebbe più inquinato tanto.

    Riferita la notizia ai compagni di gioco, decisero dientrare tutti in azione per non perdere il loro amico e

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    piano piano, con pazienza, perché in queste cose oc-corre sempre molta pazienza, insegnarono a Barnabò aseparare i rifiuti.

    E adesso per lui era più facile imparare, ora che ave-va qualcuno che gli spiegava le cose affettuosamente econ le parole semplici e gli esempi che sanno trovare so-lo i bambini.

    Ora anziché andare in città con la moto ci andava apiedi con i suoi piccoli amici, e non comprava più tut-te quelle cose inutili e non usava più tutti quei detersi-vi. E non aveva più tanto freddo, perché capiva che lecose importanti erano altre e fra queste c’era la gioia difare il bagno in mare con i bambini e di non lamentar-si più per la pelle secca.”

    “Ma allora non lo mandarono via?” chiese la nipoti-na AfraK3.

    “Certo che no, perché aveva imparato a rispettare glialtri e l’ambiente e aveva compreso qual è l’unica cosadi cui l’uomo ha veramente bisogno.”

    “Qual è?” chiese il nipotino.“Non lo hai proprio capito? Su, a letto che è tardi!

    Qual è l’unica cosa di cui l’uomo ha veramente bisognonon si può spiegare a parole: ognuno deve capirlo da sé.”

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    La guerradel baccalà

    con le patate

    Giocare sulla Luna può dare qualche problema, losapevano bene MerloZ4, LeonioZ20 e DainaK3; chepure vi erano nati.

    Sapeste quanti palloni avevano perduto! Anche ades-so ogni tanto si voltavano verso il cielo e in alto nellospazio, oltre la cappa di gravitazione artificiale, vedeva-no galleggiare i loro palloni.

    Su a destra quello rosso e giallo che lo zio di Dai-naK3 le aveva regalato per Natale insieme alle scarpet-te, ancora a destra quello bellissimo di cuoio lunare cheavevano comperato insieme risparmiando sulle paghet-te settimanali, e poi ancora tanti altri persi da loro o daaltri bambini e per lo più irrecuperabili.

    Capitava talvolta che ondate di vento spaziale spin-gessero una palla dentro l’orbita gravitazionale artificia-

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    le e che questa ricadesse giù, ma anche allora il più del-le volte era ormai compromessa, puzzicchiava d’infini-to e appariva simile a una grande mozzarella nella qua-le, calciandola, affondava tutto il piede.

    Insomma, per giocare a pallone sulla luna vi sonodelle regole precise che ogni bambino conosce e che bi-sogna osservare: guai a fare “campanili” o a calciaretroppo forte in direzione del cielo. Facile a dirsi, piùdifficile a farsi, perché, si sa, nella foga del gioco, conl’ansia di spazzar via la palla che caratterizza tutti i por-tieri e i difensori, nell’irresistibile tentazione di effet-tuare un pallonetto che hanno tutti gli attaccanti… ipalloni si perdevano eccome.

    Ma non era solo lo spazio a mangiarsi i palloni deinostri amici: c’erano poi le case d’intorno con tanto diterrazzi lunari, muretti, cancelletti sgravitazionali, ecce-tera, eccetera. Anche quando il pallone finiva su un bal-cone, oppure oltre il cancello di una casa, non era sem-pre facile recuperarlo.

    Quel giorno lì c’erano proprio tutti i bambini e sistava svolgendo un incontro in piena regola fra quelli diLuna Crescente contro quelli di Luna Calante. Eranoincontri amichevoli ma non privi di una loro impor-tanza e quando MerloZ4 si trovò solo di fronte al por-tiere e a un difensore e vide GaioZ6 che – palla ai pie-di – procedeva di corsa lungo la fascia guardandosi in-torno per prepararsi a calciare, gli gridò:

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    “Passa, passa!”GaioZ6, ormai pressato dagli avversari, obbedì subi-

    to calciando con tutta la forza in direzione del compa-gno. Ma, sia come sia, che avesse calciato troppo forte,o che avesse colpito male il pallone, questo si sollevò daterra e andò a colpire il vetro di una serra situata dietroal piccolo spiazzo d’erba sintetica.

    Un “Noooo!” corale seguì al frantumarsi dei vetriche si udì e poi di colpo tutti si fermarono.

    “Un bel guaio...” sentenziò VolpoZ73.“Colpa dei tuoi piedi storti! Voi di Luna Calante

    non sapete giocare!” rincarò la dose una rossina di cir-ca sei anni.

    “Io non ho i piedi storti, mocciosa!” si difese morti-ficato GaioZ6 e le fece una bella linguaccia.

    “Basta litigare!” ordinò SauroZ3, che era il più gran-dicello e il capo indiscusso del gruppo di Luna Cre-scente.

    “La legge parla chiaro,” disse il capo dell’altra squa-dra che era una bambina di nove anni dalle guance paf-fute. “Chi l’ha fatta la ripara: devi andare a prendere ilpallone! Dobbiamo finire la partita prima che lo spec-chio solare si chiuda o faremo tardi a cena.”

    “Ma c’è di mezzo un vetro rotto...” protestòGaioZ6: “non me lo renderanno mai!”

    “Non avrai mica paura?” insinuò un piccoletto dellasquadra avversaria.

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  • “Paura io?! Che c’entra...” disse lo sfortunato calcia-tore e senza aggiungere altro si avviò deciso in direzio-ne della serra.

    Giunto che fu, entrò dentro cercando di non far ru-more e sperando che non vi fosse nessuno. Nel frescodella serra si offrì ai suoi occhi uno spettacolo meravi-glioso: ovunque vi erano vasi, in ciascuno viveva unapianta con frutti e fiori bellissimi e l’aria profumava dimille odori sconosciuti. Ma non c’era tempo per am-mirare quella meraviglia: meglio cercare il pallone.

    Proprio mentre gattonava in cerca del pallone unavocetta lo fece trasalire: “Cercavi questo?” Il cuore glibalzò in gola, deglutendo si voltò impaurito.

    Un simpatico ometto dal naso rosso e con la testaquasi completamente pelata lo guardava sorridendo eaveva fra le mani il pallone.

    “Sì,” rispose GaioZ6 e non ebbe il coraggio di ag-giungere altro, solo tese le manisperanzoso.

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    “Temo che non sia così semplice giovanotto!” esordìl’ometto grattandosi il capo. “Il pallone ha rotto un ve-tro e quel che è peggio guarda tu stesso come ha ridot-to la mia pianta di patate.”

    “Mi dispiace, signore.”“Ne sono convinto, ma... temo che non sia così sem-

    plice,” ripeté l’ometto e si portò una mano all’orecchiodove stava poggiata una vecchia matita, la prese e iniziòa scarabocchiare su un blocco di carta come quelli chesi vedono nei vecchi film della Terra.

    “Vediamo...” seguitò l’ometto che indossava unaspolverina verde brillante, “quanti siete là fuori?”

    “Ero solo...” mentì GaioZ6. “Siamo anche bugiardelli, dunque, si difendono gli

    amici: questo vi costerà un po’ di più...” disse e scri-bacchiò ancora sul blocco. “Allora ripeto la domanda, estavolta attento prima di rispondere. Quanti siete làfuori?”

    “Quattordici,” rispose il bambino.“Così va meglio. E dimmi, i tuoi amici accettereb-

    bero di partecipare alle spese?”“Temo di no,” disse il bimbo. “Del resto non sareb-

    be giusto, sono io che ho sbagliato e ho rotto il vetro!”“Se è così temo che non potrò restituirti il pallone,

    tu solo non mi basti, non potrai mai pagare.”“Ma, posso almeno sapere quant’è la spesa?” chiese

    il piccolo.

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  • “No, sarebbe troppo semplice, ne nascerebbe unaquestione di numeri, là dove ciò che conta è il princi-pio: se volete sapere quant’è la spesa dovete venire tuttiinsieme a recuperare il pallone e ve lo dirò.”

    Furono le ultime parole del signore, la sua voce eradecisa ma serena, niente affatto adirata, l’aria profumavadi salvia e cetrioli in fiore, il pallone era stato riposto inun vaso vuoto al centro del tavolo da lavoro dell’uomo.

    GaioZ6 riferì tutta la storia, raccontò della gentilezzadell’omino, del profumo dei fiori, dei colori stupendi.

    “Dovreste vedere...” diceva.“Magari non vuole neanche tanto, io ho

    tre caramelle e una moneta da 2 lunini,” dis-se la rossina.

    “A me è venuta voglia di annusarela serra,” spiegò un altro, “e ho duemonete da 2 lunini.”

    “Perché no? Cosa volete che ci fac-cia? Perso per perso, andiamo a sen-tire l’offerta, anch’io ho qualcosa.”

    E così finalmente tutti d’ac-cordo si avviarono verso la serrae aprirono la porta di vetro.

    “Venite, venite avanti,” li in-vitò gentile la voce dell’omino

    guardandoli ad uno ad uno, “viaspettavo.”

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    Ciascuno si guardava intorno e tutti odoravano iprofumi protendendo il nasino e muovendolo comeconiglietti. Naturalmente nessuno osava toccare nulla,alcuni più piccoli stringevano delle monetine nellamano pronti a obbedire all’ordine di consegnarle all’o-mino.

    “Allora, eccoci qua!” disse con fare risoluto la bimbadalle guance paffute che era molto coraggiosa, “quant’èche dobbiamo pagare per riavere il pallone?”

    “Fammi fare un po’ di conti... quattordici zucche dibambino, per un vetro rotto, più una patata acciaccata,diviso un pallone giallo come un limone: eh sì, temoproprio che dovrete ascoltare una lunga storia.”

    “Come ascoltare?” chiese il capo di Luna Calante.“Sedetevi su, e lasciate che vi racconti una storia, do-

    podiché il pallone sarà di nuovo vostro.”Sorpresi e contenti i bimbi si sedettero, alcuni rimi-

    sero in tasca le loro monetine, si appoggiarono l’un l’al-tro e crearono una specie di matassa di gambe, bracciae corpi di bimbo dalla quale coppie di occhietti attentiseguivano i movimenti dell’omino.

    “La storia che dovete ascoltare è ambientata sullaTerra...” Bella forza, tutte le storie dei grandi erano am-bientate sulla Terra! “...Ed ha che fare con questa pian-ta di patata che avete tramortito con il vostro pallone.È la storia della guerra del baccalà con le patate.”

    L’ometto si sedette su una sedia arrugginita e iniziò:

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    “C’era un tempo in cui sulla Terra tutte le patate eranocome questa,” estrasse di tasca un tubero terroso e lopulì dal terriccio che l’anneriva finché non fu chiaro elucente: “patate e basta. E così le fragole erano fragole ebasta, i pomodori pomodori e basta, l’insalata solo in-salata, come quella che vedete in questa cassetta.

    Fra le altre cose quelli erano bei tempi perché al ve-nerdì si poteva mangiare un piatto speciale: il baccalàcon le patate.”

    “Ma anche la mia mamma al venerdì fa il baccalàcon le patate,” disse un bimbo.

    “Certo..., ma il baccalà di una volta non viveva nel-l’acquario lunare e le patate non crescevano così picco-le e, come questa, avevano un sapore straordinario. Iosono troppo vecchio ma a voi o ai vostri nipoti toccheràdi tornare sulla Terra e potranno riassaporare il baccalàcon le patate, quello vero. Ma lasciatemi continuare...

    Le patate e il baccalà in quel tempo erano amici perla pelle e andavano d’amore e d’accordo: ogni venerdìnon c’era baccalà che non si sposasse con qualche pata-ta, accompagnato da qualche pomodorino a fare da te-stimone e da uno spicchio d’aglio come sacerdote.”

    I bimbi risero prevedendo che piega stava prenden-do la storia.

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    “Questa fra il baccalà e le patate, era un’amicizia cheveniva da lontano, ma poi successe ciò che non dovevaaccadere: in un primo momento gli uomini si erano ac-corti che con un po’ di concime chimico la terra pote-va produrre di più e con la scusa di sfamare più genteavevano preso a concimare tutti i terreni per avere piùgrano e zucche più grandi.

    “Urrà!” avevano gridato. “Con meno fatica risolve-remo il problema della fame nel mondo!” La chiamaro-no Rivoluzione verde. Solo poi si accorsero che il terre-no così facendo durava di meno, si impoveriva e dive-niva deserto, e allora sì che la fame arrivava sul serio.

    Questo avrebbe dovuto servire di lezione, avrebberodovuto capire che non si può avere tutto e subito, sen-za fatica e senza guai.

    Invece non imparammo nulla da questo errore e se-guitammo a cercare il modo di far le cose più in fretta:se nell’insalata c’era un pidocchio trovavamo il modo diucciderlo con un veleno, ma alcuni pidocchi resisteva-no e divenivano più grandi, gli uccelli se ne nutrivanoavvelenandosi a loro volta e noi pure mangiavamo in-salata avvelenata.

    “Poco male,” pensava chi vendeva l’insalata, “intan-to io mi arricchisco e faccio insalata più bella e piùgrande e la gente compra solo la mia perché mangiacon gli occhi.” E così pensavano anche i produttori dipomodori, cetrioli, carciofi.

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  • E avevano ragione, perché se la gente vedeva un ce-spo d’insalata che fosse meno di mezzo chilo, o un’a-rancia che fosse più piccola di un melone, non li com-prava e quell’arancia, quell’insalata, per quanto gustosee sane, rimanevano lì a marcire.

    Ma intanto gli scienziati divenivano sempre più cu-riosi, si armavano di microscopi sempre più potenti escoprirono che dentro ogni cosa c’è una collana di per-line che detta le leggi di quella cosa. È una collana pic-cola piccola che si chiama DNA, lì c’è scritto tutto sinda quando si è piccoli piccoli. Il DNA è un signore chedice ai pomodori di crescere e di diventare rossi, alle fo-che di non aver freddo, a noi di starnutire, agli uccellicome volare, e così via.

    Scoperte queste collanine gli scienziati presero a mi-schiarle insieme, così un po’ a caso.

    Gli scienziati sono presuntuosi esi sentono come dèi, così ini-

    ziarono alla grande: un pez-zo di collana di un cor-

    vo in un pomodoro everrà fuori un corvo-doro, o alla peggio unpomodoro volanteda lanciarsi nei tea-tri o nelle manife-stazioni di protesta.

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    Con un po’ di limone in un lampone si produrrà unlampione dalla luce gialla e rosa... Ma certi esperimen-ti erano troppo pretenziosi...

    Mescola, mescola invece si resero conto che altri ten-tativi, un po’ più modesti, funzionavano meglio: adesempio che un poco di foca in una patata può impe-dire alla patata di gelare nel terreno cosicché la si puòraccogliere quando ci pare, senza paura dell’inverno.

    Ma non esiste da sempre un momento preciso perraccogliere e per seminare? Certo, ma volete mettere ilgusto di farla in barba alla natura!

    “Ma che succederà?” chiedevano tutti, “ma siamo si-curi che non siete dei pasticcioni e che conviene gioca-re con cose così delicate?”

    “Non preoccupatevi, non preoccupatevi! La scienzaè scienza e deve fare il suo corso!” rassicurarono gliscienziati, e intanto dicevano in un orecchio ai produt-tori: “...Tanto poi facciamo come ci pare: spenderemomeno e guadagneremo di più!” e a noi dalle televisionidi allora: “Non preoccupatevi! Con la Rivoluzione Bio-genetica sconfiggeremo la fame nel mondo.”

    “Questa frase mi sembra di averla già sentita...” dissequalcuno, “e poi chissà perché tutte le volte che c’è qual-cuno che vuol fare come vuole per produrre di più spen-dendo meno, inizia a tirare fuori la fame nel mondo...”

    E mentre tutti, ma proprio tutti, si preoccupavano, ilproduttore d’insalata vendeva insalata incrociata con casto-

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  • ro, pomodori alla salamandra, e rucola alla tarantola che senon la mangiavi in fretta faceva le ragnatele nel frigo.

    E fu proprio di venerdì che iniziò tutta la questione,quando una massaia che si chiamava Adele mise le pa-tate nel tegame con il baccalà. Dopo poco si accorse chequeste se l’erano mangiato e beate ruttavano distese nellago di pomodoro.

    “Oggi ho fatto un piatto nuovo...” tentò di rimedia-re Adele con il marito di ritorno dal lavoro. “Patate ri-piene di baccalà.”

    “Perché? Lo sai che al venerdì voglio il baccalà alla li-vornese?!” E poi mangiandole: “Ma come son grassequeste patate ripiene, fanno schifo: giusto per ungersigli stivali vanno bene!”

    “Le son queste patate moderne che non son più comequelle di una volta...” si difese Adele. “Pensa che mi toc-ca tenerle in frigo sennò sudano, e anche lì è tutto un

    trambusto perché giocano con icubetti del ghiaccio.”

    “E allora compra dellepatate normali, perché

    io voglio il baccalàcon le patate!”

    E così fece Adele:tutti i venerdì com-prava patate normali.

    Era facile: bastavacomprare prima il

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  • baccalà e poi portarlo con sé dall’orto-lano. Lì lo si faceva penzolare sulle cas-sette delle patate e se queste con un balzofacevano “Onk, onk!” e lo addentavano, nonerano patate vere.

    Intanto tutti gli psicanalisti erano pienidi clienti con lo sdoppiamento dipersonalità: sale d’aspetto stra-colme di carote che si sentivanogiraffe, melanzane che si crede-vano ippopotami, verze chepensavano di essere meduse, ecosì via.

    Adele nel frattempo siera infurbita e avrebbevoluto scegliere le cosecon più attenzione: suogni scatola c’erascritto modificatogeneticamente onon modificato ge-neticamente. Ma al-la fine tutto ciò chesi vendeva era modi-ficato. Anche colti-varsele da sénon era

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    servito a niente: pure le patate dell’orto di Adele simangiavano il baccalà ingaggiando con lui nel tegameuna vera e propria guerra.

    “Ma se io non ho piantato patate false!...” disse Ade-le al marito. “Com’è possibile che facciano onk, onk!?”

    Sapete come mai era successo, bambini? Perché il ven-to e le api non sapevano leggere e impollinavano indiffe-rentemente i fiori delle patate vere e false. Le piante del-le patate vere erano contaminate dal polline di fiori dipatate false, che le faceva diventare false anche loro.

    Non c’era modo di difendere le piante di patate ve-re dal polline delle patate false, così in breve tempo cifu un solo tipo di patate – che faceva onk, onk! –, unsolo tipo di pomodori, di carote, di tutto.

    Così niente più baccalà con le patate al venerdì, congrande delusione del marito di Adele. Lei poveretta ciaveva provato altre due o tre volte, ma ogni volta in-gaggiavano una guerra con sprizzi di pomodoro pertutta la cucina e con certi grugniti che si sentivano dal-la strada.

    Poi per pulire la cucina ci volevano giorni e in ognicaso si ottenevano solo patate ripiene di baccalà che sa-pevano di foca.

    Il marito di Adele risolse il problema dopo anni sco-prendo che l’uva moderna – miracolo della scienza edella tecnica –, sapeva di baccalà con le patate, e da al-lora il venerdì: uva salamanna.

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    Ma tutti avevano certe facce bianche, certe linguegialle e non andavano più al bagno per settimane.

    Fu anche per questo motivo che i nostri antenati de-cisero di lasciar perdere la Terra, di farla riposare e par-tirono per la Luna, in attesa che un giorno patate e bac-calà ritrovassero la loro identità e facessero pace, che sipotesse tornare sulla Terra per mangiare al venerdì unbaccalà con le patate come si deve.”

    “A che punto è la situazione adesso fra le patate e ilbaccalà sulla Terra?” chiese un bimbo.

    “A un buon punto: questa patata viene da là e nonsuda, vedete, e non ha nulla contro il mio pesciolinorosso.”

    I bambini batterono le mani contenti e, compresoche la storia era finita, si alzarono.

    “E adesso il pallone!” disse uno fra i più spavaldi.“Eh no! Prima voglio sapere che cosa avete imparato

    dalla storia, e solo dopo il pallone.”“Oh!” delusi si fermarono a pensare guardandosi i

    piedi o mordicchiandosi la punta dell’indice.Dopo un po’ la bimba paffuta disse: “Che ognuno

    deve essere se stesso e basta!”“Bene. E tu?” chiese l’uomo indicando GaioZ6.“Che non bisogna essere troppo curiosi e precipitosi.”“Bene. Chi altro?”

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    “Che una patata non è una foca!” aggiunse qualcuno.Poi si fece di nuovo silenzio e tutti si fermarono a ri-

    flettere. Nel gruppo di bambini, facendosi spazio a fa-tica, ne comparve uno davvero piccolo, guardò intimo-rito l’omino e disse:

    “Che il baccalà e le patate quando non litigano de-vono essere davvero buoni!” e si leccò le labbra con gliocchi pieni di desiderio.

    “Bene!” ripeté l’uomo che si era chinato sino al pic-cino, “questa patata è tua e potete riprendervi anche ilpallone.”

    Nell’euforia generale uscirono correndo e all’uomoarrivarono i loro discorsi... Tutti circondavano il picci-no: “Ma è proprio una patata patata?”

    “Già! Una patata terrestre...”“Me la fai toccare?”“L’ha data a lui: è sua! Fate piano, non fatelo pian-

    gere!”“Che bella...”Se la passarono di mano in mano, poi uno fra i bim-

    bi propose: “E se la piantassimo?...”Il piccolino sorrise, e anche l’uomo che da lontano

    tendeva l’orecchio per udirli sorrise, mentre lo spec-chio solare iniziava a chiudersi in un pallido tramon-to lunare.

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  • Statuein sciopero

    Poco dietro la base multispaziale della JKG Associa-tion erano stati costruiti dei giardini: tappeti di erbasintetica in polimero di cellulosa, facili da mantenere eindistruttibili, che ospitavano giochi per bambini epanchine gravitazionali dove mamme, nonne e anzianisignori si fermavano a trascorrere i pomeriggi.

    Da lontano, un occhio che avesse visto almeno unavolta un pomeriggio trascorso ai giardini nei tempi incui la Terra era proprio la Terra, avrebbe anche potutoingannarsi.

    Ma l’inganno non sarebbe durato che un istante:niente profumi di fiori dagli alberi intorno, niente api,niente formiche a insidiare i cestini della merenda e,forse questa era la cosa di cui si avvertiva più la man-canza, niente uccellini a pigolare fra i piedi in cerca di

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    briciole o a garrire volando di cespuglio in cespuglio inallegre brigate.

    I canti degli uccelli, monotoni e sempre simili, era-no diffusi da altoparlanti nascosti e venivano uditi dabimbi che non ne avevano mai sentiti di veri, che gliuccelli li avevano visti sui libri o in rare gite scolasticheal Save Noè Corporation, il centro di conservazionedelle specie terrestri.

    Inoltre, cosa che ai nostri occhi apparirebbe somma-mente buffa, non c’erano panchine di ferro o di vetro,ma panchine gravitazionali: fasci di antimateria monta-ta con i prismaelettroni che, invisibili agli occhi, face-vano apparire mamme, nonni, bambini e impiegati co-me seduti per aria, si sarebbe detto sul nulla.

    Nell’angolo destro del giardino c’era uno spazio at-trezzato per far giocare i bambini, dove, incredibile adirsi, si trovavano giochi straordinari e a loro modo pri-mitivi: giostre, scivoli, altalene, corde e recinti ricolmidi sabbia.

    In un primo momento, nell’ansia di sfruttare le pro-prie conoscenze, i progettisti e i costruttori del giardinolunare erano ricorsi a giostre che funzionavano a co-mando vocale, scivoli con scala mobile, altalene auto-spingenti e così via. Ma i bambini, che pure si diverti-vano, non si stancavano abbastanza: la notte non dor-mivano facendo disperare i genitori e i loro muscolettirimanevano molli per il poco esercizio.

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    Così si era dovuto ammettere l’errore e si era ritor-nati alle vecchie ma più efficaci altalene.

    Ma è al centro del giardino che inizia la nostra sto-ria, là dove si sta avviando PinoZ7, di ritorno dallo spa-zio giochi, ancora accaldato e con la piccola mano inquella rugosa e grande di suo nonno.

    È proprio al centro del giardino che si trova un gran-de monumento intagliato al laser in un meteorite.

    Si tratta di una meteora scolpita, una scultura mo-derna in cui masse di sfere e cubi si incastrano lascian-do intravedere un enorme orecchio, un pezzo di piedee forse quello che potrebbe somigliare al picciolo di unabanana gigante.

    Una targa indica il titolo dell’opera: Saltonauta 1 espiega che l’artista ne ha fatte ben dodici, apparente-mente simili, intitolate rispettivamente Saltonauta 2,Saltonauta 3 e così via, fino ad arrivare a 12.

    “Che cos’è questo, nonno?” chiese il bambino indi-cando la scultura.

    “Un monumento,” gli rispose il nonno gettandoun’occhiata scettica al grande meteorite.

    “Che cos’è un monumento?” seguitò PinoZ7.“Un monumento è…” esitò il nonno in difficoltà

    “…una statua.”“Che cos’è una statua?” insistette PinoZ7 che ave-

    va circa cinque anni ed era nel pieno del periodo incui ogni bimbo fa mille domande del tipo: “per-

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    ché…?”, “che cos’è…?”, “cosa vuol dire…?” e non sistanca mai.

    “Una statua è quando un artista scolpisce una per-sona o un animale nel marmo, o li plasma con la creta,o li intaglia nel legno… Tutti materiali che abbondava-no giù sulla Terra.”

    “Ma allora questa non è una statua, perché non civedo né animali né persone…”

    “Hai ragione! È roba moderna… Ecco, il fatto è chele statue, le statue non esistono più!” spiegò il nonnosempre più in difficoltà. “Esistevano sulla Terra, tantotempo fa. Oggi ci sono queste cose qui che sono mo-derne e sulla Luna niente statue da sempre.”

    “Perché?”“Perché, perché…” A questo punto al nonno venne

    un’idea: “…sei proprio sicuro di voler sapere perché?”“Certo che sono sicuro: perché?”“Guarda che per spiegartelo dovrò raccontarti un’al-

    tra delle mie storie: sei sicuro di volerla ascoltare?”“Sì, sì!” rispose il bambino a cui piacevano tanto le sto-

    rie del nonno e lo tirò per la manica vedendolo esitare.“Allora, dunque… (mi son messo in un bel pastic-

    cio). Vieni, sediamoci là su quella panchina gravitazio-nale: staremo più comodi.”

    Per fortuna il nonno aveva una bella fantasia e nondimenticava mai il suo dovere di educatore, anche seogni tanto faceva un po’ di confusione.

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    “Dai, racconta!” lo invitò PinoZ7 che non vedeval’ora di sentire la storia.

    “Beh, vediamo… Tanto tempo fa, quando la Terraera ancora la Terra e gli uomini vivevano là, il mondoera pieno di statue: non solo gli artisti viventi facevanostatue dalla mattina alla sera di tutte le fogge e dimen-sioni, ma anche le generazioni di prima, gli antenati de-gli antenati, avevano sempre fatto statue.

    Scolpite nelle montagne, grandi come palazzi, me-die, piccole e perfino piccolissime come cammei.

    Tanto più queste statue erano vecchie e tanto più va-levano e venivano rispettate e tenute in grande consi-derazione.

    Se uno moriva e nella vita era stato bravo o buonogli facevano una statua, magari solo fino a qui,” disse ilnonno tracciando una linea con l’indice all’altezza del-la pancia. “Oppure sul cavallo se era stato un cavaliere,con il proprio violino se era stato un buon musicista,seduto in poltrona se era stato un poltrone, o nell’attodi morire se si era sacrificato da eroe per il proprio Pae-se in quello stupido e crudele gioco che si chiama guer-ra e che un tempo gli uomini amavano fare al posto deinostri pacifici tornei iperspaziali.”

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    “Tutte queste statue, di bronzo e di marmo o di pie-tra, riempivano le vie e le piazze delle città e interi edi-fici chiamati musei.

    Non davano fastidio a nessuno, le statue: facevano laloro vita accanto agli uomini senza arrecar loro alcundanno.

    Anzi erano un po’ vanitose e contente, loro, pressochéimmortali, di essere venerate e apprezzate dagli uomini.

    Specialmente le più belle e antiche erano famose eadoravano farsi fotografare, vedere le proprie foto suicalendari delle bancarelle o nelle guide dei turisti, sen-tire le guide parlare continuamente, a dire il vero ripe-tendo per lo più le stesse cose neanche tutte vere, di lo-ro e di com’erano nate. Andavano in brodo di giuggio-le sentendo di persone che avevano percorso migliaia dichilometri per poterle vedere.

    Tanto erano amate dagli uomini e rispettate, chenessuno osava toccarle. Se si sporcavano venivano deli-catamente ripulite con spazzolini da denti e pennelli disetola di ermellino e se qualcuno preso da improvvisapazzia le rovinava, veniva subito arrestato e a loro si pre-stava immediato soccorso.

    Insomma vivevano bene e ben accettavano di com-piere il loro dovere. Sopportando il solletico dei piccionie dei passeri, il freddo d’inverno e il caldo d’estate, rima-nevano immobili tutto il giorno e gran parte della notte,tanto che c’era il modo di dire “fermo come una statua”.

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    Non che stessero sempre sempre ferme però: dove-vano pure sgranchirsi, farsi un giro, sbadigliare, ma ave-vano come un sesto senso e se qualcuno faceva perguardarle o tentava di sorprenderle – tac! – loro ritor-navano in posizione e quindi nessuno era così veloce davederle muovere. Per questo motivo tutti pensavanoche le statue fossero immobili.

    Inoltre queste statue parlavano fra sé, anche a gran-de distanza e la loro voce era così forte, ma così forte,tanto era forte che arrivata al massimo della forza rico-minciava da capo e sembrava un sussurro lievissimo cheil vento accompagnava a destinazione. Risultato: la lo-ro era una voce così forte da non poter essere udita danessun essere umano.

    Ferme e immobili quando le si guardavano, le statuedurante la notte o negli attimi in cui nessuno si curavadi loro si muovevano rapidissime, si stiravano, vagava-no addirittura come fantasmi per la città facendosi visi-ta. Se mentre loro erano fuori sentivano anche a ventichilometri di distanza qualcuno avvicinarsi al loro pie-distallo, di nuovo – tac! –, più veloci del lampo erano lìcome se non si fossero mai mosse.

    Insomma la legge delle statue era chiara: parlassero esi muovessero quanto volevano purché gli uomini nonse ne accorgessero assolutamente.

    Ad averle potute vedere e udire si sarebbe sentitotutto un chiacchierare delle cose più assurde e delle fac-

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    cende degli uomini, anche di quelli oramai morti e se-polti.

    “Sì, questo papa mi ricorda Pio IX: stesso modo diinginocchiarsi e di soffiarsi il naso tenendo il mignolodritto! Mi diceva la Pietà di Michelangelo che anche leici nota rassomiglianza…”

    Oppure:“Ieri sera un ubriaco ha tirato una bottiglia di birra

    contro il Nettuno! Che tempi… che tempi! Andare adisturbare proprio lui con quei reumatismi! C’è man-cato poco che per la rabbia non infilzasse l’ubriaco conil forcone… poi, meno male, sono arrivati i vigili!”

    La vita delle statue scorreva in tutta tranquillità, e intutta calma esse potevano seguitare a sognare e a trarresalute dai loro sogni.

    Le statue, si sa, sono gli esseri con il sonno più pe-sante che ci sia: statue di pietra, sonno di pietra!

    E quando dormono nel loro sonno di pietra fannodei sogni così belli, così candidi e puliti da somigliareda vicino a un cielo di nubi vanigliate, a un bagno im-periale tirato a lucido rivestito di maioliche bianche eanimato da acque sorgive, o a un porticato stracolmo dilenzuola di seta bianca stese ad asciugare che danzanoal comando di una lieve brezza.

    Insomma i sogni di una statua sono la cosa più si-mile al paradiso che esista ed è sognando questi sogniche loro possono vivere e mantenersi sane per secoli e

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    secoli e soprattutto trovare la forza di rimanere immo-bili.

    Sognando sogni così leggeri e svolazzanti si rinvigo-riscono per essere di giorno ferme e pesanti.

    Ma dopo secoli e secoli di tranquillità, di sogni e dionesto lavoro, anche per loro un giorno iniziarono iguai.

    Una dopo l’altra cominciarono a indebolirsi e a sof-frire d’insonnia.

    Il primo a sentirsi male fu il cavallo del monumentoequestre situato nella piazza di una città che si chiamaFirenze e che è ancora lì sulla Terra come l’abbiamo la-sciata.

    Forse, dopo tutti questi anni le statue avranno ripre-so a sentirsi meglio e a sognare, ma chissà come sonotristi a starsene ferme tutto il giorno per niente, senzache nessuno possa vederle e ammirarle…

    Al tempo di questa storia, però, Firenze era piena diabitanti, di turisti e di auto e motorini che andavanocontinuamente avanti e indietro.

    Già da tempo le statue e i palazzi avevano iniziato alamentarsi per l’aria irrespirabile e qualcuna di loro siera annerita e aveva preso a tossire negli istanti in cuinon veniva vista.

    Era faticoso trattenere la tosse per ore e ore, non po-tersi lavare via di dosso tutto quello sporco e sopporta-re tutto quel rumore di traffico per le strade.

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    Era faticoso, ma non impossibile! C’era sempre lasperanza di essere ripulite o restaurate dalla Sovrinten-denza e valeva ben la pena faticare un po’ per essere am-mirati.

    “Ti ricordi che bella l’antichità?” si dicevano le sta-tue fra di loro rievocando i secoli precedenti quando diauto e motori non ce n’erano e nascevamo statue comefunghi.

    Rimpiangevano il passato, ma tutto sommato segui-tavano ad arrangiarsi e a tirare avanti il proprio lavoro,finché accadde quel che accadde e una dietro l’altra ini-ziarono a sentirsi male e a soffrire d’insonnia.

    “Che nottataccia!” disse il cavallo di bronzo al suocavaliere. “Stanotte non mi è riuscito di chiudere oc-chio: un sacco di voci mi tenevano desto, infrangevanoi miei sogni e così stamattina mi sembri tanto pesantee fatico a tenermi in piedi!”

    “Uhe! Non facciamo scherzi!” disse il cavaliere scru-tando con occhio plumbeo la piazza d’intorno. “Voistatue di bestie siete così delicate! Ma… a dire il vero,caro amico, hai ragione: anch’io da un po’ di giorni nondormo bene e mi sento un poco debole…”

    Altre statue udirono quella conversazione e da uncapo all’altro della città incominciarono a chiacchieraredell’argomento.

    Fino a quel momento, per paura di esser le sole amostrare tanta debolezza, per non passare da vecchie o

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    da lavative, avevano taciutoi loro acciacchi… ma ora,

    incoraggiate dalle confessionidel cavallo e del suo nobile e co-

    raggioso cavaliere, intendevanouscire allo scoperto.

    “Anch’io faccio una fatica deldiavolo a mantenermi fermo! E

    dire che sono la copia gemelladella statua di un giovinetto che da

    solo sconfisse un tale gigante con ilnome di una caramella! Ma mio fratello gemello se ne staal chiuso ed è candido come neve e gli uomini pagano efanno la fila per vederlo, mentre io che sono identico so-no sempre fuori al freddo in questo caos e in quest’ariairrespirabile! E ora mi sento pure poco bene…”

    “Perché io?!” esclamarono la Medusa e il Perseo qua-si in coro. La statua di Perseo, armato di spada, tenevastretta Medusa afferrandola per i capelli di serpentiscompigliati.

    “Non una notte che riesca a finire i bei sogni che fa-cevo una volta!” seguitò il Perseo. “Lei, poi, dorme tuttoil giorno a bocca aperta e io faccio una fatica a tener su ilsuo testone!”

    Tutte le statue della città vollero dire la loro e prestosi capì che una vera e propria epidemia aveva colpito ilpopolo delle statue.

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  • “Così non si può più andare avanti!” disse Ercoleche si era fatto pallido come un mozzarellone. “Bisognafare qualcosa: Atlante non fa che chiedermi il cambio eil mondo diventa sempre più pesante!”

    “Intanto chiamiamo un dottore,” consigliò qualcu-no “sarà una malattia contagiosa, che so, lo staturbillo,o la varimarmocella!”, e tutte insieme si misero a pen-sare a chi potesse aiutarle.

    Pensa e ripensa si ricordarono della statua di Ippo-crate che dormicchiava tutto il giorno in un’ala desertadel museo delle scienze.

    Insieme si misero a chiamarla con le loro voci mar-moree finché non riuscirono a destarla.

    “Chi è che mi chiama?” chiese il busto del vecchiodottore, “chi mi cerca così di fretta dopo anni che nes-suno mi fila?”

    Sentendosi un po’ in colpa per essersiricordate solo allora, almomento del bisogno,della piccola e neanchetanto ben fatta statuetta diIppocrate, le statue iniziarono araccontare della faccenda deiloro sogni continuamente in-terrotti.

    Il vecchio e burbero dot-tore, sfruttando il suo mo-

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  • mento di gloria e facendo pesare tutto il suo sapere,pensò a lungo.

    Fu tentato più volte di cedere al risentimento ordi-nando, quale beffa, un doppio clistere di gesso caldo atutte loro, ma poi prevalse lo spirito professionale, si ri-cordò del giuramento che aveva fatto colui che rappre-sentava, così infine decise di affrontare più seriamenteil problema.

    Cominciò informandosi: “Biancone, dimmi un po’che voci senti quando dormi?”

    “L’altra sera, per esempio,” raccontò l’interpellato, “imiei sogni erano continuamente interrotti da frasi stra-ne e senza senso come: «Ci vediamo lì allora, chiamalotu Gianni», e poi… «Se la Caterina mi rifà una cosa delgenere vedrai che dico tutto a Walter così impara…»,oppure «Mi mandi tre camicie della solita marca, ti sen-

    to male, riprovo a chiamarti dopo, ciao!»Ma l’indizio risolutivo lo dette un

    cherubino di marmo che orna-va una facciata barocca:“Io ho sentito anche dire«Pronto, pronto, chi par-la?» E poi: «Ci dispiace l’u-

    tente chiamato non è al mo-mento raggiungibile!»...”“Ci sono!” esclamò d’im-

    provviso la statua di Ippocrate che

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  • non per nulla viveva al museo delle scienze e amava te-nersi aggiornata.

    “Allora è grave?” domandarono in coro le altre statueda un capo all’altro della città.

    “Gravissimo!” sentenziò brusco e scostante l’illustremedico, poi attese a lungo prima di continuare, fiero disentire che la tensione dei suoi ascoltatori saliva. Quan-do giudicò che fosse salita abbastanza, concluse con to-no sprezzante: “Sono i telefoni degli uomini: si chia-mano sempre e dovunque a tutte le ore per dirsi le co-se più stupide!”

    “E allora? Che c’entra?” chiese scettica la statua diun filosofo.

    “C’entra che i loro discorsi, portati dalle onde cheemettono i loro telefoni di tutte le fogge, misure e co-lori, vengono captati da noi e si mescolano con le ondedei nostri sogni. Così si crea un bel pasticcio! Som-mando questo allo smog e al rumore, mi sa che ne avre-mo ancora per poco!”

    “E allora, cosa si può fare?”“Temo non ci sia nulla da fare…” sentenziò Ippo-

    crate, “ci sgretoleremo!”Poi continuò fiero del terrore che aveva disseminato

    e certo che lui, all’interno del museo, avrebbe resistitopiù a lungo delle altre statue: “Bisognerebbe che rinun-ciassero ai loro telefoni…” disse quieto, “ma gli uomi-ni non vogliono mai rinunciare… Avete visto voi stessi

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    cosa è successo con le macchine e le moto: nessuno vuolpiù saperne di biciclette o cavalli! Sono fatti così: nonsanno tornare indietro, sanno solo andare avanti!

    Lo so che non sta bene parlar male dei propri crea-tori, ma del resto hanno quasi smesso anche di fare sta-tue… Eh, sì! Temo proprio che ci estingueremo!” con-cluse con tono mesto.

    “Col cavolo! Asino d’un pessimista d’una statuad’un Ippocrate!” reagì con autorità la statua di Lorenzoil Magnifico.

    “Già! Un fico secco!” aggiunse acida quella di Gari-baldi e prese a incitare le altre statue alla rivolta.

    Parlarono, parlarono e poi decisero che avrebberofatto come i treni e gli autobus: per la prima voltaavrebbero scioperato e manifestato anche loro, pacifica-mente s’intende. E così fecero.

    Il giorno dopo i turisti e i fiorentini trovarono la sta-tua del David non più eretto ma accovacciato che face-va le linguacce e muovendosi di scatto faceva venirmosse tutte le foto dei giapponesi.

    La statua del Nettuno era uscita dalla fontana diPiazza Signoria lasciando impronte molli coi piedonigocciolanti per tutte le strade. Voleva andare a fare ilbagno in Arno, ma dopo aver visto da vicino l’acqua delfiume ci aveva rinunciato.

    Schiere di angiolini barocchi volavano di albero in al-bero tirando senza cattiveria castagne d’india ai passanti.

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    In viale Mazzini la statua di Giusep-pe stesso fermava le macchine e distri-buiva volantini ai cittadini che prote-stavano pensando di essere vittime diuna trovata pubblicitaria. “O non si ègià fatta l’unità d’Italia?” do-mandò un nonnino tanto percapacitarsi.

    Dal giardino di Bobolifuoriuscivano schiere distatue a braccetto e cammi-nando per le vie seminavanoil panico e bloccavano il traffico.

    Carabinieri e polizia armati di fucile cercavano diconvincere i monumenti a ritornare sui loro piedistallied a rimanere immobili.

    Gruppi di passanti ascoltavano i comizi di statue cheincitavano ad abbandonare telefonini, auto e motori.

    Furono tre giorni e tre notti indimenticabili…I giorni successivi alcuni avevano lasciato a casa il

    cellulare, preso la bici per andare al lavoro e le statuesoddisfatte del loro successo avevano aumentato le ma-nifestazioni.

    Striscioni di pietra campeggiavano da una parte al-l’altra delle piazze. Ad ogni angolo bandiere di marmocon scolpiti diversi slogan: “Meglio un grammofonoche un telefono”, “Una mela di pietra al giorno leva il

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    restauratore di torno”, “Non sciupare i nostri sogni coni tuoi falsi bisogni”.

    I governanti cominciavano a essere sempre piùpreoccupati del persistere dello sciopero: i turisti nonsapevano più che cosa fotografare, i piccioni non ave-vano più niente su cui sedersi, i monelli niente da sca-rabocchiare.

    Decisero allora di mettere in campo l’esercito. Il leggendario generale Mangiaguerra che era in pen-

    sione oramai da decenni fu richiamato per risolvere laquestione nel cuore della notte.

    “La guerra! La guerra!” esultò riappendendo il rice-vitore. Saltellando scalzo e in mutande sull’impiantitogelato corse subito a svegliare sua moglie: “Cara, èscoppiata la guerra! Finalmente! Non ci speravo più!”

    “A che cosa stavolta?” rispose la consorte ancora nelsonno.

    “Alle statue, sì, mi sembra che abbiano detto alle sta-tue. Beh, che importa, la guerra è guerra! Sveglia, pren-dimi gli stivali con il tacco alto e stirami l’uniforme!”

    Nel cuore della notte, piangendo di contentezza, ilminuscolo generale Mangiaguerra, con gli occhi sgra-nati come palline da ping pong, non stava più nella pel-le dall’eccitazione. Scoperto con sconforto che il suocappello da parata se l’erano mangiato le tarme, ne im-provvisò uno di carta di giornale e già in equilibrio su-gli immensi stivali scendeva per le scale dove una pat-

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  • tuglia di soldati assonnati e confusi l’atten-deva a bordo di una jeep. Partirono a tuttavelocità, senza udire la povera signora Man-giaguerra che con la testa coperta da una re-tina verde e di bigodini multicolore, proten-dendo un sacchettino dalla finestra, gli urla-va dietro di non dimenticarsi la merenda.

    Quando le statue si riunirono tutte in unsit-in come tanti Toro Seduto a riempirePiazza Signoria, i soldati si prepararono a ca-ricarle. Un blocco unito di uomini armatifino ai denti procedeva lento e inesorabileverso le statue sedute, preceduto da ununico vetusto temibile carrarmato con

    tanto di cannone puntato.L’enorme cigolante for-tezza metallica, co-

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    me digrignando denti immaginari, si avvicinava sempredi più spronata dal piccolo generale che, preso dall’en-tusiasmo, ci saltava sopra lanciando ordini a destra e asinistra.

    “È un bluff, si fermeranno, siamo troppo prezio-se…” si dicevano l’un l’altra le statue per farsi coraggio.Macché: di lì a poco – catastrofe – il carrarmato con isuoi cingoli dentati stritolò con gran fracasso l’alluce si-nistro del David di Michelangelo.

    “Ma come?! Ma che si fa così?” Le statue erano ri-maste veramente di sasso, impietrite, di fronte a unareazione così esagerata. “Povero David! Lui che avevasconfitto perfino Golia! E poi dicono a noi che abbia-mo il cuore di pietra!”

    Impaurite e sgomente erano fuggite in ogni dove re-cuperando le proprie postazioni. Solo gli strilli di dolo-re del David saltellante su una gamba sola si udivanoancora in lontananza, ma ben presto anche quelli si pla-carono e il colosso ritornò immobile. Lo sciopero erastato abbandonato e la guerra, per forza di cose, con lui.

    Di nuovo le figure di santi, navigatori e poeti tor-reggiavano sui loro piedistalli, ferme, sdegnate e immo-bili come sempre.

    Intanto il povero agitatissimo generale Mangiaguer-ra correva per la piazza urlando:

    “Codarde, vigliacche, dove andate? Tornate indietro,c’è una guerra in corso!”

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    Dopo tanto inutile gridare, si accasciò sconfortato alcentro della piazza e si mise a piangere come un bam-bino: per di più aveva anche dimenticato la merenda eora dal nervoso aveva fame. Preso dalla rabbia dette ungran calcio al carrarmato e quest’ultimo – permalosocom’era – prese a inseguirlo per tutta la città.

    Per giorni durò quell’insolito inseguimento: si èmai visto un carrarmato che insegue il suo generale? Eper giorni e notti si udirono le sue grida d’aiuto rim-balzare per la città, mentre la moglie alla finestra at-tendeva che tornasse, ancora con il fagottino della me-renda in mano.

    Passati pochi mesi però gli uomini avevano già di-menticato quell’insolito sciopero, tutto era parso un so-gno, di quella rivolta non si era più parlato, neanche neilibri di storia. In un angolo di una biblioteca comuna-le rimase un busto di marmo raffigurante un piccoloomino con la lingua di fuori e il cappello di carta digiornale. Si notava inoltre, incisa sul virile petto in fuo-ri, la profonda e ben scolpita impronta di un cingolo dicarrarmato. Sotto la figura, immortalata nel marmo,v’era questa iscrizione: “Al prode generale Mangiaguer-ra che per vincere la guerra lampo contro le statue ri-nunziò persino alla merenda, divenendo statua eglistesso”.

    Il giorno in cui tutti avevano abbandonato il piane-ta, forse qualcuno degli uomini più vecchi aveva ricor-

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    dato l’avvertimento delle statue e aveva sorriso amara-mente della propria stupidità.

    Chissà che non sia proprio per evitare i disagi di unaltro sciopero delle statue che sulla Luna non si son fat-te più statue…”

    “Capperi spaziali! Ma è proprio vero?” chiese il ni-potino incredulo.

    “Almeno così si dice…” rispose il nonno contentod’essersela cavata.

    “E chi ci dice che se noi inquiniamo troppo e non cicuriamo dell’ambiente quello lì non possa animarsi e ri-bellarsi?” chiese ancora PinoZ7 indicando il monu-mento scolpito nel meteorite.

    “No!” affermò il nonno con una certa solennità dacui traspariva una vena di rimpianto. “Non c’è perico-lo, quella è arte moderna. Dove vuoi che vada? Non lovedi, quel coso: non ha neanche le gambe!”

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  • L’isoladei pappagalli

    “Babbo, babbo!” disse piangendo AlbaK8 al propriogenitore che riposava comodamente su una poltronagravitazionale con gli occhi immersi nello spazio infini-to al di là dell’oblò di vetro dell’abitazione. “Babbo! Ar-noZ7 mi ha detto che sono una stupida! Non c’è verso:vuole sempre aver ragione lui!”

    Il pover’uomo si riscosse rassegnato: aveva trascorsotutta la giornata nella serra a coltivare le zucche lunarie adesso avrebbe tanto volentieri riposato, ma si sa,quando si hanno i bambini piccoli...

    Così si voltò e riavutosi dal suo torpore prese labambina sulle ginocchia:

    “Che c’è che non va adesso?” domandò. “Perchéquesti lacrimoni?”

    “Te l’ho detto: ArnoZ7 vuol sempre aver ragione lui!

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    Mi ha detto che sono stupida e che quelli che stannosull’altra faccia sono dei disgraziati!” spiegò la bambinatirando su con il naso.

    Ma intanto, già il fatto di essere fra le braccia di suopadre, di sentire quel familiare odore di zucca, la face-va stare meglio.

    “ArnoZ7, vieni un po’ qua!” disse il padre rivolto albambino che, fingendosi indifferente, continuava agiocare con un piccolo videogame nella bolla della stan-za accanto.

    In breve furono tutti e due sopra di lui a spiegare leloro ragioni.

    “Sentiamo,” chiese il padre al ragazzino, “perché tuasorella sarebbe una stupida?”

    “Perché ha detto che preferirebbe vivere sull’altrafaccia della Luna, senza rendersi conto che quelli di làsono degli scalognati! Io conosco due ragazzini che abi-tano dall’altra parte e non fanno altro che lamentarsi!”

    “E si può sapere perché sarebbe così terribile abitaredall’altra parte?” domandò il padre che proprio nonriusciva a capire.

    “Già! Perché?” gli fece eco la bambina.“Ma è semplice!” rispose sicuro il ragazzino: “Sono

    troppo lontani dalla Megasalagiochimultimedialgalatti-ca che noi abbiamo a tre passi e non possono vedere ilcanale Superspace sul televisore lunare tridimensionale,perché da lì non si prende. Se questa non è scalogna?!

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    Tutti i più bei programmi per ragazzi sono su Super-space!”

    “Ho capito,” ammise il padre divertito. “E tu, si-gnorina, perché vorresti abitare in un posto così sfortu-nato?”

    “Beh…” disse la bambina, “è semplice: loro, nellebelle giornate, quando non ci sono nebulose spaziali etutto l’universo è pulito come un piatto appena lava-to… loro… insomma: possono vedere la Terra e nellenotti di luna piena essere illuminati direttamente dalsole!”

    Il padre sentì la gola che gli diventava piccola per lacommozione.

    “Già! E cosa te ne fai di vedere una grande aranciablu che galleggia nell’universo e di un po’ di tiepidosole? Vuoi mettere con la Megasalagiochimultime-dialgalattica e il canale Superspace?!” ribadì il ma-schietto.

    “Ma… loro la sera dagli oblò delle loro camerette abolla possono stare ore a guardarla prima di addormen-tarsi… Quando sono rimasta a dormire da ViolaK10 loabbiamo fatto e ci immaginavamo le foglie, gli animalie le città… È stato bello! Più bello della sala giochi e delSuperspace!”

    “Bleh! Roba da femminucce!” tagliò corto il fratellino.“Sapete,” li interruppe il padre, “la vostra piccola

    disputa mi ha fatto venire in mente la storia del regno

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    di Paciok. Se volete ve la racconto, ma solo se pro-mettete di non litigare più e di non addormentarvi fi-no alla fine…”

    “Sì, Sì!” gridarono i due bambini finalmente d’ac-cordo e si sistemarono più comodi sopra il genitore perascoltare.

    La poltrona gravitazionale toccava quasi terra per ilgran peso, il padre la regolò con il telecomando e que-sta, invisibile, riprese quota. Così a un metro da terra,con lo spazio infinito sopra la testa e rade meteoriti chedi tanto in tanto sfrecciavano lontano, il padre iniziò araccontare la storia del regno di Paciok, detto anche ilregno dei pappagalli.

    “C’era una volta sulla Terra, tanto tempo fa, un’iso-la che avrebbe potuto dirsi veramente fortunata, si trat-tava di una piccola isola tropicale, ricca di animali e uc-celli di tutte le specie, di fiori e di alberi dai frutti pre-libati e profumati. L’isola era baciata da un clima cosìmite che la gente non aveva mai freddo e poteva anda-re a giro vestita solo di foglie…”

    “Come Adamo ed Eva!” interruppe il bambino.“Una specie...”

    “L’isola aveva alla sua sommità un grande vulcano e sudi essa scorrevano fiumi meravigliosi. Come quasi tutte leisole aveva degli abitanti e questi abitanti avevano un re.

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    Da secoli i Paciok erano stati la famiglia sovrana nel-l’isola e nessuno aveva avuto a che ridire, perfino ades-so che a fare il re era quel semplicione di Paciok III tut-ti erano d’accordo. Bisogna sapere inoltre che Paciokera il discendente di una lunga stirpe, ma tanto pocoera il loro interesse per la matematica che ogni tre Pa-ciok ricominciavano a contare da uno.

    Tutti accettavano di buon grado che Paciok fosse ilcapo perché fra il re e gli altri isolani non c’era nessunadifferenza: tutti vivevano pescando e cogliendo i fruttidegli alberi, nutrendosi di pesce, avocados, papaie,manghi dal sapore celestiale.

    Tutto ciò di cui avevano bisogno lo trovavano lì inquel paradiso e potevano passare la maggior parte dellagiornata a ballare, cantare, dipingere, nuotare e com-porre versi.

    Paciok III sarà stato anche un semplicione, ma erabuono come il pane e questo bastava perché tutti gliportassero rispetto. Anche lui viveva come gli altri inuna capanna di paglia e anche lui come tutti aveva lacasa invasa da pappagalli coloratissimi, ghiotti di nocemoscata, che lo allietavano con il loro canto e la lorocompagnia.

    Tant’è che il regno di Paciok veniva chiamato da tut-ti il regno dei pappagalli, il loro dio era a forma di pap-pagallo e loro stessi credevano di discendere dai pappa-galli.

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    Paciok e i suoi sudditi non conoscevano nient’altrodel mondo, non avevano mai avuto bisogno di com-battere perché erano la sola tribù sull’isola e da sempresi scambiavano le cose con naturalità come se fosserostati tutti fratelli.

    Insomma quell’isola era un piccolo paradiso, qual-cosa che a vederla da lontano faceva sorridere Dio perla contentezza.

    Ma un giorno, un giorno in tutto e per tutto ugua-le agli altri che l’avevano preceduto, i bambini che cor-revano sulla spiaggia scherzando fra di loro e intrec-ciando collane di fiori, videro una macchia nera comeil catrame all’orizzonte.

    Pian piano la macchia si faceva sempre più grande e al-la fine fu chiaro che si trattava di un enorme pescecanenero, così immenso che per un attimo tutti pensaronoche il grande pesce fosse venuto dal fondo del mare a in-ghiottire la loro isola per punirli di chissà quali peccati.

    In realtà si trattava di una smisurata nave da com-mercio nera, sul muso della quale erano dipinti deitriangoli bianchi contrapposti che la rendevano simile aun feroce squalo con la mandibola spalancata.

    La nave si fermò a poche miglia dalla costa, da essacalarono delle scialuppe e in pochi istanti degli uominiarmati fino ai denti sbarcarono sulla spiaggia.

    Subito i bambini corsero ad avvertire Paciok III e inun attimo fu organizzata una grande cerimonia di ben-

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    venuto: ghirlande di fiori, musica, piume colorate edanze di uomini travestiti da pappagalli accolsero glisbigottiti visitatori che si videro colmati di doni sem-plici e frugali.

    A seguito degli uomini sbarcati, secco e pallido co-me uno scheletro, con i lunghi capelli neri che fluttua-vano al vento e il grande pastrano che si gonfiava con-ferendogli l’aria di uno spettro, il capitano della naveavanzava calciando l’acqua avanti a sé e sorrideva incuor suo per quell’insperata accoglienza.

    “Nessuno spari senza mio ordine,” ordinò, “questiselvaggi ci faranno comodo! Lasciate fare a me!” e risedi un riso così cattivo che fece tremare tutte le palmedella spiaggia e, a causa del fatto che tutti i suoi dentierano d’oro, abbagliò tutti gli astanti.

    Il capitano di ventura e mercante di schiavi e di schi-fezze Ignazio Brutcomelapest, imparentato con il cele-bre casato dei Brutcomelamort, era sbarcato nel regnodi Paciok.

    Si fecero le presentazioni, si ballò tutta la notte e ilgiorno seguente Ignazio Brutcomelapest era già all’om-bra della veranda della capanna del piccolo e paffutoPaciok III che parlava con lui.

    Il capitano intendeva per prima cosa informarsi sullericchezze dell’isola e, guardandosi intorno, domandò:

    “Per caso non avete del metallo di questo colore?” ecosì dicendo si toccò i denti d’oro.

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    Paciok scosse la testa sbigottito.“E delle pietre che luccichino, o delle palline bian-

    che che estraete dalle conchiglie, avete nulla di tuttoquesto?”

    “No” rispose Paciok, sentendosi in grande imbaraz-zo e non capendo che cosa avrebbe dovuto farci conqualche pallina.

    “Certo…” dichiarò Brutcomelapest iniziando amettere in atto il suo piano, “…qui non avete proprionulla di nulla!” e intanto giocherellava con delle piumeverdi che gli erano state regalate al suo arrivo e che glifacevano luccicare gli occhi di cupidigia: pazienza perl’oro e le pietre preziose, ma conosceva diverse personenel suo paese che avrebbero pagato una fortuna perpossedere uno di quei pappagalli.

    “Veramente…” si difese Paciok che di fronte al ca-pitano si sentiva in soggezione, “a me sembra che nonci manchi niente.”

    “Ma come niente!? Come si vede che non conosci ilmondo, che non hai viaggiato!” asserì Brutcomelapestcolpendo Paciok con una gran pacca sulla schiena che glifa male ancora oggi. “Un re deve fare di tutto per la feli-cità dei suoi sudditi, i tuoi non hanno niente, non fannonulla da mattina a sera e si annoiano tremendamente!”

    Così dicendo Brutcomelapest aveva inserito la suamano ossuta nella tasca del pastrano nero e ne avevaestratto un voluminoso catalogo pubblicitario.

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  • “Ad esempio,” propose, “guarda questo: scommettoche non sai che cos’è!”

    Paciok guardò la macchia rossa che gli indicava suquello stupefacente libro coloratissimo e ammise dinon saperlo.

    “E questo?” chiese Brutcomelapest, tirando fuori untelefonino dalla tasca.

    Gli occhi di Paciok si illuminaronoper la meraviglia e quando sentì lasuoneria, prima ancora di capire acosa servisse, concluse che ne volevasenz’altro uno anche lui.

    “Si può fare…” disse, fingendosiindeciso, il capitano, “ma si tratta diroba molto preziosa! …In cambio voglioquel pappagallo!” e indicò un maestosopappagallo rosso e blu, dalla cresta va-porosa e coloratissima.

    “Va bene,” concesse Paciok che dipappagalli ne aveva altri nove e sen-za pensarci due volte gli cedette ilpappagallo che non fu svelto a filar-sela per la finestra e fu afferratodalla mano ossuta e decisadel capitano.

    Fra strilla e urla, la po-vera bestiola imprecava:

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  • “No! No! Io non voglio andarci con questo coso, hopaura! Paura! In nome della nostra vecchia amicizia,delle canzoni con cui ti ho allietato i mattini di prima-vera, non mi lasciar…”

    Ma non aveva finito la frase che già un sacco di jutasi era richiuso sopra la sua testa:

    “Te ne pentirai Paciok III: sono un animale sacro,non mi si può…”

    Paciok non lo sentì neppure, perché era troppo im-pegnato a far suonare il suo telefonino nuovo con cen-to suonerie senza sospettare minimamente quale potes-se essere il suo reale utilizzo.

    Nel primo pomeriggio, quando uscirono dalla ca-panna, Paciok non aveva più nemmeno un pappagalloed era fermamente sicuro di aver fatto unbuon affare.

    Ora, procedendo dall’alto in bas-so, indossava: cappellino con ven-tilatore a elica incorporato, oc-chiali da sole a specchio, colla-nine di plastica colorata, ma-glietta con la foto di Zorroe giubbotto di similpellenero con centinaia di bor-chie lucenti che lo facevasudare terribilmente.

    Conservava la gonnellina di

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    paglia alla quale non aveva voluto rinunciare trovando-la più comoda di un paio di jeans.

    Per finire portava delle scarpe da ginnastica senzalacci che gli piacevano un sacco, ma gli facevano puz-zare terribilmente i piedi.

    In più sgranocchiava un pacchetto di patatine fritteche gli era costato una coppia di pappagallini nani e chegli sembravano il cibo più squisito che avesse mai man-giato.

    Quando arrivò nella piazza e con il grande gongd’argento chiamò a raccolta la sua gente, molti stenta-rono dapprima a riconoscerlo e poi applaudirono per lameraviglia.

    Il capitano Ignazio Brutcomelapest alla vista delgong si sentì struggere di contentezza e abbracciò il cer-chio argentato ricoprendolo di baci come si farebbe conun amico che non si vede da secoli.

    “Lo sapevo che doveva esserci qualcos’altro oltre aipappagalli: nei libri di storia è sempre così!”

    Rammentando le parole del capitano Ignazio Brut-comelapest, Paciok III fece un discorso che può essereall’incirca riassunto così:

    “Cari miei, sono o non sono strabello?! Finalmenteil prograsso, progrosso o come si chiama è arrivato an-che da noi: saremo tutti più felici! E poi sentite qua!” ecosì dicendo, dopo vari tentativi, fece suonare una me-lodia del telefonino.

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    “Evviva! Evviva!” gridarono i più, meravigliandosidel prodigio. “Anche noi! Anche noi!”

    “È semplice,” spiegò Paciok, “date i vostri pappagal-li a quest’uomo, e vi darà tutto questo bendidio che hadato a me!”

    “Ma come i nostri pappagalli?!” obiettarono qualchevecchio e qualche bambino.

    “Chi bello vuol apparire a qualcosa deve rinunciare!”sentenziò Paciok III istruito dal capitano e in breve tut-ti furono convinti ed esultarono passandosi di mano inmano il telefonino di Paciok.

    Mentre tutti ballavano e qualcuno già correva a casao nella foresta per fare incetta di pappagalli e averne piùdegli altri da scambiare, il vecchio sciamano Pappagaose ne stava fermo in disparte afflitto da terribili premo-nizioni.

    Dopo aver pensato a lungo si fece avanti e disse:“Mio grande signore e sovrano, sono certo che voi

    avete meditato a lungo e che se pensate che sia tempoche arrivi questo prograsso… Ebbene, così sia. Ma ipappagalli sono sacri, non possiamo cederli che a per-sone che come noi siano paciokkesi, nostri fratelli disangue e, quindi, i tuoi nuovi amici dovranno sotto-porsi a un rito. Altrimenti la grande maledizione delPappagallo Supremo cadrà su tutti noi annientandoci!”

    Un brivido passò per la folla a queste parole.“Capo, perché non gli spariamo e ci prendiamo tut-

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  • to senza tante storie?” suggerì un mozzo che tutti chia-mavano Rogna.

    “Idiota, ci vai tu a catturare i pappagalli fra i ser-penti della foresta? E poi a chi la vendo la merce cheho sulla nave? Ci vai tu a estrarre argento dalla minie-ra? Lascia fare a me: me li cucino io questi babbei!” epoi aggiunse, alzando la voce: “Ebbene sia: che si fac-cia questo rito! Diverremo fratelli di sangue e portere-mo i vostri pappagalli nel mondo, dove saranno trat-

    tati con tutti i riguardi che si devono allaloro sacralità e voleranno liberi in bellis-

    sime foreste ricche di noci moscate!” Al pronunciare la parola libertà

    negli occhi del capitano era apparsaper un istante l’immagine chiara del-le sbarre di una gabbia.

    Così, il grande stregone Pappagaoche si avvaleva dell’aiuto della suarana di fiducia che lo assisteva intutte le cerimonie, aveva indossato ilcostume del Grande Pappagallo e ri-luceva ora di un verde accecante.

    Tutti gli abitanti dell’isola e gliuomini venuti dal grande pesce sisedettero in cerchio nella piazzaper il rito e bevvero brodo di fa-gioli fumante dalla stessa tazza.

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    Fecero questo per soddisfare la tradizione e placaregli spiriti prima di iniziare gli scambi, ma chissà perché,dopo pochi minuti, russavano tutti come trattori...

    Solo Pappagao era rimasto sveglio. Con una forzainsospettabile in un vecchio così magro, trascinò unoper uno gli uomini venuti dal grande pesce nero nellasua capanna e iniziò a cantare pronunciando strane for-mule sui loro corpi che venivano cosparsi di agli tritu-rati e incensi fumanti.

    Per prima cosa, pronunciò la formula che tradottadal paciokkese faceva pressappoco così:

    “Ma guarda ’sti fetenti come sono puzzolenti…” econ un pennello cosparse di pipì di scimmia raffredda-ta le gengive dei loschi figuri intanto che la piccola ra-na lo aiutava sollevando loro le labbra.

    Poi tirò su le palpebre dei pirati dormienti ad una aduna, e diceva:

    “Ambimbì, ambimbò, in quest’occhio giallo ci spu-terò!” e – zacchete! – sputava nel loro occhio destro, se-guito a ruota dalla piccola rana che si prodigava in pro-digiosi sputi a sua volta occupandosi dell’occhio sinistro.

    Poi l’occhio veniva richiuso e strofinato forte con ci-polla e cacca di pitone gigante.

    Dopo alcune ore e molti altri trattamenti simili aquesti, senza più saliva e con mani e zampe esauste peri pizzicotti che avevano assestato, Pappagao e la ranadecisero che il rito era da considerarsi concluso.

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    I marinai e il capitano uscirono dalla capanna cam-minando come automi, il vecchio sciamano procedevainnanzi a loro. Giunti che furono sul bagnasciuga, ilvecchio disse loro:

    “Andate e dimenticate la rotta per giungere a que-st’isola! E prima di partire per sempre, liberate i sacripappagalli del regno di Paciok!”

    Così come erano venute le scialuppe si allontanaro-no e la grande nave nera prese il largo lasciando solouna folata di colore nell’aria: erano i pappagalli di Pa-ciok che tornavano a casa.

    Si dice che, doloranti e disorientati, con la poca vi-sta che rimaneva loro, il capitano Ignazio Brutcome-lapest e i suoi uomini non siano riusciti ad approda-re in nessun luogo e vaghino ancora fra i mari comeun mercantile fantasma costretti a mangiarsi tutte leschifezze stivate nella stiva, lavatrici e telefoni com-presi.

    Intanto che la nave se ne andava, al villaggio i pa-ciokkesi dormivano profondamente. Tutti stavano fa-cendo lo stesso sogno, sotto l’occhio paziente del vec-chio sciamano Pappagao che attendeva il loro risveglioe guardava i loro volti ad uno ad uno. Sognavano checosa sarebbe accaduto se gli uomini del grande pescenon fossero partiti…

    …C’era da prevederlo! In breve tempo nell’isolanon era rimasto più nemmeno un pappagallo, il ven-

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    tre della nave nera ne era colmo, e non solo di pap-pagalli ma anche di altri animali selvatici: scimmie,serpenti e leopardi.

    Strazianti canti di dolore si udivano la notte insiemea guaiti e ululati, e intanto le case dei paciokkesi eranopiene di cianfrusaglie inutili.

    Le donne si stiravano i capelli con il ferro e l’asse dastiro, alcuni uomini infilavano la testa nelle lavatrici incentrifuga trovandolo estremamente divertente e si sen-tivano pure eleganti con i capelli tutti ingraticciati cheottenevano da questo trattamento.

    In molti avevano piantato telefonini e sveglie nei lo-ro orti con la speranza di farne nascere altri.

    Erano state montate antenne telefoniche e una cen-trale elettrica a carbone che insozzava tutta l’aria e le co-se d’intorno.

    La gente stava ore a parlarsi al telefono guardandosinegli occhi seduta insieme nella stessa stanza: se si fos-sero allontanati non avrebbero visto l’altro parlare enon ci avrebbero capito più nulla.

    Tutti gli isolani non facevano che telefonarsi,ascoltare musiche incomprensibili, muovere freneti-camente la manopola della radio o fare zapping conil televisore in cerca di ciò che non potevano trovar-vi e guardavano per ore: strisce colorate verticali on-deggianti, riso frizzante, strisce oblique, ecc. Ognitanto una faccia deformata compariva fra le strisce e

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    loro la indicavano ridendo, contenti che fosse suc-cesso qualcosa.

    I loro corpi poco avvezzi ai tessuti erano martoriatida irritazioni che lenivano con pomate costosissime.

    Nonostante ciò, nessuno pensava di essere lui il pri-m